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LA CHIESA DI S. PROTASO

La facciata

L’interno

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LA STORIA don Piero Re

Il Segno della Chiesa L’edificio materiale di ogni chiesa – imponente cattedrale o umile parrocchiale – è forse uno dei segni cristiani più evidenti, nell’agglomerato urbano come nel paesaggio aperto. Anche da parte di chi la chiesa non frequenta. Con l’incarnazione di Cristo, la presenza di Dio nella realtà creata – tempo e spazio – si fa più che mai pregnante e ci libera da ogni schema, magico o sacrale. Guardando una chiesa e varcandone la soglia, ci è chiesto di interpretarne il segno, per inoltrarci nel mistero cui esso ci rimanda. E questo ci aiuterà ad accogliere la grazia che vi è contenuta: la conversione dell’uomo nuovo, che cammina con il popolo della definitiva alleanza. «I veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Gv 4, 23). Ciò che Cristo richiamò alla Samaritana è richiamato anche a noi, «nati dallo Spirito» (Gv 3,8) e viventi nella Chiesa, fatta dalla presenza di Cristo nella Eucaristia e illuminata dalla sua Parola. Ed è proprio soprattutto nella loro chiesa che le comunità cristiane si riuniscono in assemblea per l’ascolto della Parola e la celebrazione dei Sacramenti, a cominciare dal Battesimo e culminando con l’Eucaristia. Questa riflessione vuole aiutare i parrocchiani e quanti visitano la chiesa di s. Protaso a leggere, in quanto vedono con gli occhi, il profondo mistero del quale il cuore fedele è già per grazia partecipe. Le cronache non riferiscono l’omelia del card. Schuster, il mattino presto dell’11 aprile 1933, quando consacrò la nuova chiesa di piazzale Brescia. Ma, da esperto liturgista qual’era, non è azzardato ritenere che avesse fatto esplicito riferimento al prefazio ambrosiano del giorno della Dedicazione della chiesa. Lo riportiamo per intero: «Tu, che creando l’universo hai fatto del mondo un tempio della tua gloria, hai voluto che a te fossero dedicati luoghi riservati ai divini misteri. E noi con grande esultanza offriamo alla tua maestà questa casa di preghiera, costruita dal lavoro dell’uomo. Qui viene mirabilmente significato il mistero di Cristo e della Chiesa: tu hai formato il tuo Figlio, nato dalla Vergine, come un tempio a te consacrato, in cui inabita la pienezza della divinità; lo stesso tuo Figlio, nostro salvatore, ha edificato la Chiesa come la dimora di Dio: i fedeli ne sono le pietre elette, vivificate dallo Spirito e cementate dalla carità, gli apostoli il fondamento, ed egli la prima pietra angolare. Così la tua Chiesa cresce continuamente fino a diventare la santa città dove tu sarai tutto a tutti per i secoli eterni e il tuo amore sarà una fiamma di gioia perenne». Il mistero del tempio «Ecco, i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che ti ho costruita» (1Re 8, 27). Così pregò Salomone, quando venne consacrato il Tempio di Gerusalemme. Voleva ricordare che il Signore conserva sempre la libertà di essere ovunque presente: nessun luogo, ovviamente, può contenere la sua immensità senza confini. Poco prima, però, aveva affermato: «Ti ho costruito una casa potente, un luogo per tua dimora perenne» (v. 13). Il Tempio infatti, come Gesù stesso dirà, è la «casa della preghiera» (Mt 21, 13), cioè il luogo dove Dio scende per farsi incontrare dal suo popolo e ascoltarne la supplica. Dunque lo spazio non richiude il Dio infinito, ma lo può rivelare e renderlo a noi più accessibile: il mistero del tempio! Casa di «pietre vive» «Stringendovi a Cristo, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un

sacerdozio santo, per offrire sacrifici graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo» (1Pietro 2, 4s).

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Per descrivere il mistero della Chiesa, s. Pietro ricorre proprio all’immagine di un edificio dove le pietre sono vive, cioè persone rese nuove dallo Spirito nel Battesimo. Anche s. Paolo – da gran costruttore di Chiesa che era, da «sapiente architetto» - pose sempre, a fondamento dell’«edificio di Dio», la persona di Cristo: non si costruisce su «un fondamento diverso da quello che già vi si trova»! E con i materiali più preziosi! (cf 1Cor 3, 9-12) «Santo è il tempio di Dio che siete voi» (1Cor 3,17). Sul fondamento di Cristo, infatti, si aggregano e coordinano le «pietre vive» dei fedeli, che lo Spirito di Cristo costituisce tempio vivo, con un sacerdozio e un culto a Dio finalmente graditi. Rimarrà sempre Cristo risorto «la pietra scartata dai costruttori, divenuta testata d’angolo» (Sal 17, 22; cf Mt 21, 42; 4, 11; Rom 9, 33), sulla quale cresce ben ordinata la Chiesa, tempio santo del Signore» (cf Ef 2, 19-22). Tante membra di un Corpo solo «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere…Egli parlava del tempio del suo corpo» (Gv 2, 19. 21). Cristo stesso, non soltanto si è paragonato al fondamento, ma ha identificato il Tempio con il suo stesso corpo risorto, che si è offerto al Padre sulla croce ed è ormai il Tempio vero e vivente nel quale si incontra Dio. Cristo era già presente – in modo invisibile e temibile – sotto la tenda o nel tempio dell’alleanza antica (cf Es 25, 8; Nm 35, 34); e già alludeva a Lui la presenza spirituale della Sapienza in Israele mediante la Legge (Sir 24, 7-22; Bar 3, 36; 4, 4). Quando però il «Verbo si fece carne», la presenza di Cristo diviene personale e sensibile: «piena di grazia e di verità» (Gv 1, 14), amabile e fedele. Il suo corpo risorto sarà il centro del culto «in spirito e verità» (Gv 4, 21s), cioè grazia e vangelo; da dove zampilla la sorgente di «acqua viva» (Gv 7, 37-39; 19, 34) e dove «tutti ci siamo abbeverati in un solo Spirito» (1Cor 12, 13). Ma, in forza dello Spirito effuso a Pentecoste, Cristo risorto – il Capo – non è più separabile dalle membra del suo nuovo corpo, la Chiesa che siamo noi: «Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?» (1Cor 3, 16; 6, 15). Varcando la soglia materiale della Chiesa, veniamo dunque richiamati in primo luogo alla misteriosa presenza dello Spirito di Cristo che a Lui ci unisce e ci conforma senza sosta, con l’annuncio della verità feconda della sua Parola e la forza dei suoi gesti sacramentali (la rigenerazione nel Battesimo, il nutrimento del Pane Eucaristico, la riconciliazione con il Perdono, ecc.). L’edificio della chiesa raffigura così il mistero dei cristiani che formano un tempio vivo, animato dallo Spirito: loro culto sono tutte le loro opere, compiute sotto la mozione dello Spirito (cf Rom 12, 1); qui la comunità delle pietre elette si raduna a fare insieme memoria dell’Evento Pasquale che l’ha redenta; qui il fedele ritrova il clima raccolto della orazione e il progetto di vita della comunità cui appartiene. In secondo luogo, l’assemblea cristiana, che si ricompone nella casa di Dio e dei fratelli, è richiamata ad essere sempre più segno di unità in Cristo, con la ricca varietà dei suoi carismi e ministeri: «Vivendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità» (Ef 4, 15s; cf 2, 19-21). Le «belle pietre» Rendere sempre più bella la propria casa è giusta e lodevole aspirazione di ogni famiglia che abbia cura di sé. Per la stessa ragione, il popolo di Dio ha cercato di ornare e impreziosire le proprie chiese, la dimora del Dio che resta con il popolo con cui si è alleato. Anche Gesù e i discepoli sostarono di fronte al tempio di Gerusalemme e rimasero estasiati di fronte alle «belle pietre e ai doni votivi che lo adornavano» (Lc 21, 5).

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È accaduto in ogni epoca e secondo gli stili propri a ciascuna. Quello della nostra chiesa si può dire «romanico moderno», usato dagli architetti Luigi e Felice Nava, che si ispirarono alla scuola di Giovanni Muzio, come negli anni ’30 vennero progettate circa 20 chiese costruite alla periferia della Milano di allora, tutte riconoscibili dai mattoni rossi a vista. Quanto fosse spoglia e gelida quando venne aperta al culto, è ancora ricordo di molti. Ma non passò molto tempo, per iniziare – e proseguire anche nel tragico periodo della guerra 1939-1945 – non soltanto a renderla sempre più funzionale, ma anche ad abbellirla: marmi per gli altari e per rivestire pareti e pavimento; affreschi sull’abside e lungo la navata; tele ad olio e mosaico nei transetti e nelle cappelle; vetrate alle finestre e lunette; sculture e bassorilievi sull’ambone, al battistero e sotto la mensa dell’altare. Così il segno della chiesa conobbe sempre più nuovo splendore con il concorso di tutti i parrocchiani e di tanti benefattori, come ricordano lapidi con dediche e targhette sulla panche. Il mistero cristiano vissuto, infatti, non può trascurare la componente della bellezza. Per tante ragioni. La bellezza anzitutto, è uno dei nomi di Dio, come la verità e il bene; ne è la sintesi e lo splendore, la gloria; e nello stesso tempo una via di accesso a Lui. Ogni realtà creata ne reca l’impronta e la riflette, divenendo via e scalino alla Bellezza non creata, per quanti sanno stupirsi e rimanere aperti all’Oltre cui le cose rimandano. Il Dio che «abita una luce inaccessibile» (1Tim 6, 16) svela pienamente lo splendore del suo Volto su quello del Figlio di Dio fatto uomo, «irradiazione della gloria del Padre» (Eb 1, 3). Assieme alla Verità e alla Carità, anche la Bellezza è donata in Cristo, perfetta «immagine del Dio invisibile» (Col 1, 15) e «il più bello tra i figli dell’uomo» (Sal 45, 1), non meno che la gloria del Dio visibile «pieno di grazia e di verità» (Gv 1, 14), sul monte Tabor e sul Golgota. Ma siccome dove è Cristo morto e risorto, ormai è anche la Chiesa suo Corpo, essa ne riceve e riverbera il fulgore della divina bellezza. Connessa permanentemente all’unico Sposo, che l’ha resa «tutta gloriosa senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata» (Ef 5, 27), la Sposa bella - come la luna, rivestita di sole (cf Ap 12, 1) – non può che irradiare le nostre notti – istante per istante e nonostante i nostri smarrimenti - con lo splendore intramontabile del «Sole di giustizia», Cristo unico Salvatore di tutti. Nell’edificio ecclesiale progettato da Dio – dopo quello di Cristo, pietra d’angolo che sta a fondamento – la pietra più bella è quella di Maria, «benedetta fra tutte le donne», e «beata perché ha creduto» (Lc 1, 42. 45). In lei la Chiesa incomincia e in lei ogni uomo già contempla il proprio luminoso futuro nella nuova Gerusalemme. È l’Arca della Nuova Alleanza, Tenda perfetta e Casa d’oro, Sposa dello Spirito e Tempio definitivo, la Vergine Madre nel cui grembo si è attuata la presenza suprema di Dio in mezzo agli uomini. Ed è anche la Nuova Eva, genitrice degli uomini nuovi, a lei affidati dal Pastore bello che muore in croce. Immacolata e Assunta, è la Tutta Bella che indica la strada, la cui benignità soccorre i mortali, per i quali quaggiù è «di speranza fontana vivace» (Dante, Divina Commedia Par. XXXIII, 1-18). Ciò che si dice della Chiesa tutta si deve dire di ogni fedele suo membro: della salvezza già operante nel Regno che cresce, i battezzati «figli della luce e luce nel Signore» sono segni levati in mezzo alle nazioni, come «città collocata sopra un monte, lucerna accesa sopra il lucerniere» (Mt 5, 14s). E, «camminando nella luce» e «comportandosi come figli della luce», divengono testimoni di essa, strumenti della comunicazione della fede (cf 1Gv 1, 6s; Ef 5, 8s).

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Arte per evangelizzare L’edificio della chiesa richiama il cristiano al nesso inscindibile tra vocazione e missione. In tempi nei quali l’uomo è tanto esitante davanti al Vero e tanto incapace di Bene, può essere affascinato dal Bello: nella formazione cristiana e nella trasmissione della fede, il bello dell’arte esercita così una funzione vitale. Non diversamente di quanto è già accaduto con la «bibbia dei poveri»: popoli di illetterati ripercorsero la Storia della salvezza, osservando gli eventi del Primo e del Secondo Testamento, le vicende della Chiesa e dei suoi santi, che erano raffigurati sulle vetrate, nei cicli di mosaici e di affreschi di cui le pareti delle loro chiese erano ricoperte: «Noi siamo per la gratia di Dio manifestatori agli uomini grossi che non sanno lectera, de le cose miracolose operate per virtù et in virtù de la sancta fede» (dagli Statuti dei pittori senesi del 1356). Nello spazio liturgico, l’arte - ogni vera arte - non può essere soltanto elemento di decorazione; ne è elemento costitutivo e organico. Chi proviene dalla fatica del lavoro, e dalla quotidianità familiare, dall’esperienza della frantumazione, viene da essa aiutato - non solo con il concetto e la parola - a ricomporsi interiormente e ad orientare tutto a Cristo. Qui trova posto la specifica vocazione dell’artista cristiano, chiamato ad evangelizzare esprimendo e comunicando la fede. Basti rileggere ciò che scrive Giovanni Paolo II, che a sua volta si richiama al Messaggio di Paolo VI e al Concilio (Gaudium et Spes, 62; Sacrosanctum Concilium, 122): «La Chiesa ha bisogno dell’arte, perché questo mondo, nel quale noi viviamo, ha bisogno di bellezza, per non cadere nella disperazione. La bellezza, come la verità, mette la gioia nel cuore degli uomini ed è un frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione» (Lettera agli artisti, 12). Tutte le opere d’arte degne di questo nome manifestano (o almeno ne gridano l’assenza) la «Bellezza di ogni bellezza», «cui l’anima mia sospira giorno e notte» (s. Agostino, Confessioni X, 34, 53). Se poi l’architettura e l’iconografia sacre si propongono di esprimere e comunicare l’irruzione della Grazia cristiana nella nostra quotidianità, esse divengono sostegno alla contemplazione e veri ministeri. Anche loro – come la santità – rendono bella la Chiesa. Come desideriamo che sia la sposa e la madre, che sempre sorprendono e stupiscono: «Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene» (Rom 10, 15; cf Is 52, 7). Anche la nostra chiesa parrocchiale - di appena 75 anni e nemmeno paragonabile a ben altre basiliche e cattedrali - ha via via accolto opere non spregevoli di pittori e scultori: Pietro Cortellezzi e Cirillo Damiani, Mario Tandardini, Andrea Fossombrone e Trento Longaretti, Pietro e Paolo Rivetta e Bruno Martinetti, Nicola Sebastio e Giovanni Lo Moro, don Antonio Brambilla, i fratelli Legnani e Carlo Fedeli, Angelo Ferreri e Camillo Lazzari, perfino qualcosa di Giacomo Manzù. Chi vi entra riceve la gradevole impressione di trovarsi in una chiesa, casa di Dio e dei fratelli, dove si raccoglie la comunità cristiana per ascoltare la Parola e celebrare il Sacrificio di Cristo e della Chiesa; dove si può sostare in silenzio, per adorare la Presenza del Signore che è restato con noi. E basta guardarsi attorno, per imbattersi con dei segni – forme e colori – che introducono nel mistero salvifico di una Storia che ancora prosegue. Nulla di più efficace e commovente delle catechiste con i loro ragazzi e dei nonni che accompagnano i nipotini lungo la navata deserta, indicando a dito e narrando la fede preziosa che intendono loro trasmettere. Come la «tenda dell’incontro» La Chiesa – e l’edificio che ne è simbolo – ha la vocazione di essere sempre più bella, fino a quando sarà pronta per l’incontro glorioso con il suo Sposo, atteso alla fine dei tempi (cf Ap 21, 2s). È prezioso davanti a Dio l’ornamento del cuore, «con un’anima incorruttibile piena di mitezza e di pace» (1Pt 3, 3s); il comportamento santo del cristiano che vigila – straniero e pellegrino in questo mondo, nella speranza della rivelazione finale (cf 1Pt 1, 13-16) – è comportamento bello, che desta stima anche da parte dei suoi accusatori (cf 1Pt 2, 11-15). Al contrario, chi oscura o

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deturpa la bellezza della sua testimonianza, indebolisce la forza del segno salvifico e ne spegne la dimensione profetica. Facendo incessante memoria del cammino verso la Terra Promessa, il santuario biblico era chiamato «tenda dell’incontro», con Dio e degli uomini tra loro. Nella traversata del deserto, il popolo dell’Alleanza Antica attingeva alla Tenda del Convegno conforto e indicazioni per giungere alla Terra Promessa. Non diversamente il popolo della Nuova e definitiva Alleanza trova nelle sue chiese la casa ove si ricompone l’assemblea eucaristica, la scuola della fede nell’ascolto della Parola, il richiamo alla memoria della storia che l’ha preceduto, l’aiuto a decidere di ripartire per la missione che questa storia prolunga. Anche alla Tradizione vivente la nostra chiesa contiene tanti richiami. Alle lunette superiori nella navata corrispondono le lunette inferiori nelle cappelle: nelle prime sono rappresentati i quattro profeti maggiori del 1°Testamento, nelle seconde quattro eventi del 2°Testamento. Le vetrate delle porte centrale e laterali riproducono i maggiori maestri della spiritualità cristiana, fondatori dei più noti ordini religiosi (agostiniani, francescani, benedettini, domenicani, carmelitani), con i patroni d’Europa (Benedetto, Cirillo e Metodio) e della chiesa milanese (Ambrogio e Carlo). Le vetrate delle 4 porte ai lati dei due transetti fanno ripercorrere gli ultimi 75 anni di storia ecclesiale, attraverso le figure dei 4 papi e dei 4 vescovi che ne sono stati la guida. I volti degli apostoli, nell’Ultima Cena rappresentata nella vetrata superiore del portale, sono quelli dei sacerdoti che hanno servito la co munità parrocchiale nei suoi primi 50 anni. Sono numerose le figure dei Santi, a cominciare dagli Apostoli e da Maria, che troviamo dipinte o scolpite. Sono loro i migliori compagni di viaggio, i veri padri-maestri e testimoni, di cui lo Spirito si è servito per fare la storia della salvezza cristiana, nella Chiesa universale e locale. Nello spazio sacro della chiesa ascoltiamo l’eco delle sfere celesti, per rispondere con la voce della sposa: «Vieni, Signore Gesù!» (Ap 22,20). Finché la traversata del tempo avrà termine e il popolo della Comunione entrerà nel «nuovo cielo e nuova terra» della «città santa, la nuova Gerusalemme» (Ap 21, 1s), della quale ogni chiesa è anticipo e profezia. Soltanto allora ci sarà svelato del tutto il mistero incomparabile della Chiesa, «Madre dei santi, immagine della città superna, del sangue incorruttibile conservatrice eterna» (A. Manzoni, Pentecoste, 1-4). Per intanto, teniamo fisso lo sguardo sull’affresco di Cristo Signore dell’universo, che ci guarda dall’alto dell’abside e ci attende tra gli angeli musicanti, gli evangelisti e i martiri patroni Protaso e Gervaso. E sostiamo adoranti davanti al nostro tabernacolo, costruito proprio come la Gerusalemme celeste (cf Ap 21, 9-14), dove «l’Agnello è la sua lampada» (Ap 21, 23).

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«Amo la casa ove dimori» «Signore, amo la casa ove dimori e il luogo dove abita la tua gloria» (Sal 25, 8). Si viene e si torna volentieri nella chiesa del proprio quartiere, perché ognuno si rende conto che tra le sue mura tutto l’arco della vita è segnato dall’incontro con Cristo, insieme ai fratelli di fede: al fonte battesimale i propri figli sono rinati e hanno incominciato il cammino nella vita nuova; alla stessa mensa, ogni Giorno del Signore, si è nutriti della Parola, che è luce ai nostri passi, e del Pane della Via, nella Prima e tante altre Comunioni; qui lo Spirito ha rinvigorito le deboli forze e ridato la pace del perdono; qui, nel silenzio adorante, si sono placate le ansie e si sono fatte le scelte più decisive per seguire la propria vocazione; davanti all’altare il vincolo coniugale si è radicato nel mistero dell’amore che unisce Cristo e la Chiesa; nella sua ombra si riconducono i propri cari accompagnati al riposo eterno, perché il cuore di chi è ancora pellegrino in terra non resti turbato, forte della speranza nella risurrezione. Occhi e cuore aperti, dunque, per un buon viaggio contemplativo nella chiesa di s. Protaso. La pergamena della consacrazione della chiesa conservata in sacristia e riprodotta qui a lato, documenta l’avvenuto rito liturgico che segna l’atto di nascita della chiesa parrocchiale. L’undici aprile 1933, Io Alfredo Ildefonso, Cardinale del titolo di san Martino, Arcivescovo di Milano, ho consacrato la chiesa e questo altare in onore del Santo Martire Protaso; e vi ho incluso le reliquie dei Santi Martiri Protaso e Gervaso, Nabore e Felice. E ai singoli fedeli, che la visiteranno nel giorno anniversario, ho concesso oggi, nella forma consueta della Chiesa, 200 giorni di vera indulgenza. La lapide marmorea,in seguito collocata sulla parete di sinistra, appena entrati, e qui sotto riprodotta, aggiunge altre notizie. Il cardinale arcivescovo Alfredo Ildefonso Schuster, dal centro della città ha trasferito in luogo più utile ai cittadini la sede intitolata ai beati martiri Protaso e Gervaso «ad monacos», l’ha elevata ai più alti onori di prepositurale e l’ha consacrata con rito solenne l’undici aprile 1933.

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Notizie su s. San Protaso vescovo Proprio a partire dalla Patronale dell'8 giugno 2008, qui si scorge sulla sinistra dell’altare la riproduzione di un quadro. Chi è mai questo ecclesiastico qui in foggia settecentesca, che scruta il libro delle Scritture, per fissare poi con la propria penna qualche saggio commento ad uso del

popolo di Dio? Sono davvero pochi i parrocchiani che conoscono la risposta esatta. Tanto siamo abituati a festeggiare come nostri patroni soltanto Protaso e Gervaso, i due fratelli martiri, le cui spoglie mortali vennero ritrovate dallo stesso s. Ambrogio. Eppure le carte cantano e le incisioni sulle lapidi non mancano. La pergamena della consacrazione della chiesa, firmata 1' 11 aprile 1933 dal beato card. Schuster, precisa che l'edificio sacro è dedicato a un "s. Protaso martire", sia pure aggiungendo nei "s.s. Protaso e Gervaso martiri", ecc. Anche gli atti giuridici della fondazione confermano essere questo il titolo della nuova parrocchia. Lo stesso vale nei documenti civili che ne riconobbero l'erezione (8 aprile 1933). Ne è conferma anche la lapide, collocata a sinistra in fondo alla chiesa: vi si legge che il card. Schuster ha trasferito alla chiesa di p.le Brescia il titolo della chiesa di "s. Protaso ad Monacos", che fin dal 5° secolo si trovava in via s. Protaso ( vicino a p.za della Scala) e che venne demolita – assai – milanesemente nel 1930, per far posto ad una banca.

S Protaso Vescovo Pittore lombardo del XVIII sec. olio su tela 105x75 cm Museo diocesano di Milano

A questo punto è più che lecito sollevare la domanda: e chi è stato questo illustre sconosciuto? Purtroppo, se ne conosce assai poco. Parliamo almeno di questo poco. Nella serie dei vescovi di Milano, Protaso occupa l'ottavo posto. Fu il primo responsabile della nostra antica Chiesa diocesana circa 1700 anni or sono, più precisamente nel sec. IV, dall'anno 328 ca all'anno 344 ca Dell'attività pastorale di questi 16 anni è risaputo soltanto che fu aperto difensore della dottrina cattolica, precisata nel Concilio di Nicea nel 325, circa Dio-Trinità e la divinità di Gesù. A tale proposito è pure certa la personale partecipazione al Concilio di Sardica (attuale Sofia in Bulgaria), dove nell'autunno del 343, contrastò ancora l'eresia di Ario, sostenendo la verità della divinità di

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Gesù (" della stessa sostanza del Padre") e non soltanto della sua vera umanità. Un punto questo da sempre qualificante la professione di fede cristiana. Non è certo che il nostro s. Protaso abbia affrontato il martirio. Come accadde per tanti altri predecessori e successori, la memoria della sua santità veniva celebrata nella liturgia ambrosiana di ogni 24 novembre. Le sue reliquie sono ancor oggi venerate nella chiesa di s. Vittore al Corpo, vicino alla basilica di s. Ambrogio. Le ha deposte, sotto l'altare della cappella laterale di s. Benedetto, il card. Schuster, il 13 aprile 1938. Insieme a quelle del nostro patrono, il cardinale, benedettino e appassionato cultore di reliquie, depose pure quelle di due antichi predecessori: s. Mirocle (+316 ca) e s. Dazio (+552 ca).

Lapide posta a lato dell’altare di s. Benedetto,

in s. Vittore al Corpo - Milano

Urna con le spoglie di s. Protaso vescovo a lato dell’altare nella cappella di s.

Benedetto, in s. Vittore al Corpo.

Con la riforma liturgica del Concilio Vaticano II, la memoria liturgica di s. Protaso vescovo è stata fissata al 25 settembre, insieme a quelle del primo vescovo milanese Anatalo e degli altri vescovi dei primi secoli. Il curioso di notizie antiche, circa il ricordo di s. Protaso vescovo nella città di Milano, viene a scoprire che ben tre chiese sono state dedicate al nostro santo. Fino al 1796 è sopravvissuta la chiesa di s. Protaso "in campo foris" o "alle terraglie": si trovava in via Landolfo, tra il ponte Vetero e l'attuale Foro Bonaparte, non lontano dalle fortificazioni del Castello Sforzesco (dette appunto "terraglie"). Fino al 1368 sfuggì alle periodiche distruzioni urbanistiche la chiesa di s. Protaso "in campo intus",

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che si trovava a metà dell'odierna via del Foro. Abbiamo già detto perchè nel 1930 venne abbattuta "s. Protaso ad Monacos". A questo punto corre obbligo di fornire notizie, per la verità non sempre storicamente rigorose, circa l'unica chiesetta di cui sono rimasti preziosi resti, all'inizio dell'attuale viale: l'Oratorio di "s. Protaso al Lorenteggio". La leggenda vuole che nel 1162 - dopo aver demolito le mura di Milano e rinunciando ad altre distruzioni – il Barbarossa si fermasse a pregare davanti alla " gesetta di lusert", la chiesetta di s.

Protaso al Lorenteggio. Nel corso della sua storia più che millenaria, l'edificio – anteriore al 1100 - è scampato più volte alle trasformazioni dell'area, dovute all'espansione urbanistica. Uno degli ultimi rischi risale al 1912, in occasione dello sviluppo metropolitano a sud-ovest, secondo il progetto Pavia-Masera. Fermò la demolizione il racconto che, al suo interno, l'affresco della "Madonna dell'aiuto", ricoperto per tre volte nel corso dei secoli, fosse per tre volte riemerso dall'intonaco. La piccola chiesa faceva parte dell'antica "cascina di s. Protaso" e costituisce una delle poche integre testimonianze medioevali della città. Grazie alla sottoscrizione promossa dai Lions e al progetto dell'architetto Luigi Maria Guffanti, donato alla città, nel 1986 venne restaurata e restituita al quartiere di cui è un simbolo. Insieme ad un cippo che, all'inizio del viale, segnava la fine di Milano e l'inizio del Comune dei Corpi Santi. Era finito in un deposito dell'Amsa.

La “gesetta dei lusert” all’inizio dii via Lorenteggio Si dice anche che Federico Confalonieri riunisse qui i carbonari, che cospiravano contro l'Austria. Irrobustivano la forza d'animo per affrontare lo Spielberg, la prigione asburgica ove il conte verrà incarcerato dopo i moti del 1820. Illustrando meglio la figura Protaso vescovo, abbiamo un poco bilanciato l'abbondante rappresentazione dei due martiri che ha prevalso in questi 75 anni. Non ci risulta che tra santi protettori dilaghi qualsiasi forma di gelosia. I martiri Protaso e Gervaso Sono loro i due martiri che i samprotasini venerarono da subito come loro protettori. Si incominciò a celebrare la Festa Patronale il 19 giugno, giorno della loro memoria liturgica ambrosiana (anche se di solito viene anticipata la domenica precedente, prima delle ferie milanesi).

Lo conferma la solenne iscrizione sul frontone che sovrasta il granitico portale dell’ingresso

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principale «(Questo tempio) è dedicato a D(io) O(ttimo) e M(assimo) e ai santi martiri Protasio e Gervasio». Tutta la iconografia all’interno seguirà questa scelta, ignorando del tutto il s. Protaso vescovo. Varcata la soglia, lo sguardo è attratto dall’affresco che sovrasta l’abside: con i cori degli angeli e i quattro evangelisti, i due martiri – in completa divisa di legionari romani – fanno corona a Cristo regnante nella gloria. E se appena lo sguardo ridiscende sull’altare, scorge – ai lati del tabernacolo e del Crocifisso – le statue dei due patroni, stavolta rivestiti delle tunica romana e recanti tra le mani la palma del martirio. Lungo i lati dell’intera navata, appena sotto il cornicione più alto, corre una grossa scritta in latino: «SANCTUS AMBROSIUS DIXIT: GRATIAS TIBI, DOMINE JESU, QUOD HOC TEMPORE TALES NOBIS SANCTORUM MARTYRUM SPIRITUS EXCITASTI, QUO ECCLESIA TUA PRAESIDIA MAIORA DESIDERAT. AGNOSCANT OMNES QUALES EGO PROPUGNATORES REQUIRAM: QUI PROPUGNARE POSSUNT, IMPUGNARI NON SOLEANT» È una citazione del discorso tenuto da s. Ambrogio in occasione della traslazione dei ritrovati resti mortali dei nostri patroni (Epistola 77, 10). Ed è ormai necessario tradurla, anche perché – passati 16 secoli – resta di estrema attualità: «Disse s. Ambrogio: Ti ringrazio, Signore Gesù, perché hai suscitato per noi gli spiriti così potenti di questi santi martiri, nel momento in cui la Chiesa avverte il bisogno di una più efficace protezione. Sappiamo tutti che tipo di alleati io vada cercando: gente in grado di schierarsi a favore, non gente abituata a mettersi contro».

Protaso e Gervaso martiri

Dall’affresco di M. Cortellezzi, abside della chiesa La vita e il martirio dei santi martiri Protaso e Gervaso

nelle vetrate sopra gli altari della Madonna e del Sacro Cuore

Le notizie certe Si riferiscono unicamente ai fervidi avvenimenti del ritrovamento, della traslazione e della deposizione delle loro reliquie, rappresentati sulla vetrata del transetto di sinistra. Sono contenute in quattro preziose testimonianze: - resoconto dell’accaduto e delle sue esortazioni al popolo in una lettera che lo stesso Ambrogio scrive pochi giorni dopo alla sorella Marcellina, in quei giorni fuori Milano (Epistola 77, 1-23);

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- racconto ricco di particolari fatto, 10 anni dopo, da s. Agostino (soprattutto nelle Confessioni 9, 7, 16); - ricordo di s. Paolino, (sollecitato da s. Agostino, 36 anni dopo), biografo di s. Ambrogio e suo segretario negli ultimi anni (Vita Ambrosii 14, 1-3); - accenno di s. Gaudenzio da Brescia in un suo sermone del 395 (Sermo 17, 12). Dopo averne avuto il presagio, mercoledì 17 giugno 386, s. Ambrogio fa scavare davanti ai cancelli della piccola basilica dei santi Nabore e Felice (nell’area cimiteriale di porta Vercellina, attuale area della caserma della Polizia di Stato, di fronte alla Università Cattolica). Viene alla luce un’arca che contiene le ossa di due persone «di straordinaria statura, com’erano quelli dei tempi antichi. Tutte le ossa erano intatte, moltissimo era il sangue» (Ep 77, 2). Soltanto allora gli anziani ne ricordano il nome che da giovani avevano letto sull’iscrizione sepolcrale. La sera del giorno seguente, i resti ritrovati sono trasportati nella vicina basilica Fausta, dove si trascorse la notte vegliando in preghiera. Venerdì 19 giugno, i resti mortali dei due martiri sono portati nella «basilica martyrum» o Ambrosiana, appena terminata e consacrata proprio con la deposizione delle loro reliquie, accanto all’ara tombale vuota, che Ambrogio aveva predisposto per sé sotto l’altare maggiore. Lo stesso giorno il santo vescovo scrive infatti alla sorella Marcellina: «Vengono queste vittime trionfali a prendere il loro posto ove Cristo si offre vittima. Ma Egli sta sopra l’altare perché ha patito per tutti; questi, riscattati dalla sua Passione, saranno pertanto collocati sotto l’altare. Era un posto che avevo scelto per me, perché era bello che il vescovo riposasse là dove ha continuamente offerto il sacrificio: ma io cedo la parte destra del sepolcro a queste vittime sante: questo luogo è ad essi dovuto». Durante la processione di trasferimento, guarì un malato di mente, molti posseduti dal demonio furono liberati e un cieco di nome Severo riottenne la vista, accostando agli occhi il fazzoletto che aveva toccato le sacre spoglie. Gli avvenimenti di quei giorni accrebbero l’autorevolezza del vescovo, allora in aspra polemica nei confronti degli eretici ariani che – favoriti dall’imperatrice Giustina – pretendevano le tre basiliche cittadine. È da ricordare che, sull’esempio di Ambrogio, il ritrovamento e la traslazione dei corpi dei martiri in cornice liturgica (di origine orientale) si diffuse in Italia (Como, Piacenza, Brescia , Bologna) e anche in Gallia, Spagna e Cartagine. La pastorale del martirio Per s. Ambrogio «un martire di Cristo è un tesoro per la Chiesa» (De Virginitate 18, 120). A 80 anni dalla «pace costantiniana» che aveva chiuso l’epoca delle persecuzioni, al Pastore vigilante stava a cuore che nella memoria del suo popolo non si andasse estinguendo la testimonianza dei martiri. Quelli «romani» (Pietro e Paolo, Agnese e Lorenzo, Sebastiano), ai quali dedicò la «basilica apostolorum» (l’odierna s. Nazaro) e la «basilica martyrum» (l’odierna s. Ambrogio). Quelli di milanesità discutibile: Vittore, Nabore e Felice, di origine africana, martirizzati a Lodi Vecchio e solo successivamente trasportati a Milano. E quelli «milanesi» in tutto e per tutto: Protaso e Gervaso, dei quali aveva recuperato i resti nel 386; Nazaro e Celso, i cui resti recuperò nel 395 verso la fine della sua vita. La Chiesa di Milano era stata “sterile di martiri, benché madre di moltissimi figli” (Ep 77, 7); non si potrà più dire che “questa città aveva perduto i suoi martiri ed era andata rubando i martiri altrui” (Ep 77, 12). «Più non moriamo martiri, ma ritroviamo martiri» (Inno per il ritrovamento dei santi Protaso e

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Gervaso, 11s). A chi gli chiedeva di costruire nuove chiese, Ambrogio poneva come condizione che si ritrovassero martiri dimenticati (cf Ep 77,1). Le ragioni erano molte e di consistente spessore pastorale. La professione della fede non comportava più il rischio della vita; anche i cristiani rischiavano ora, come in qualche generazione precedente, di rilassarsi negli agi e negli onori offerti dai dominatori. Proponendo la verginità consacrata e il culto dei martiri, il vescovo voleva impartire una lezione chiarificatrice e proporre due rimedi energici e radicali. I martiri, infatti, avevano trionfato sui loro nemici non esercitando violenza, ma subendola. La loro non era stata una fede verbosa (soltanto disputata o scritta), ma testimoniata dal fatto – semplice e persuasivo – della loro immolazione. Essi avevano saputo far proprio il vero e il bene degli uomini del loro tempo, ma nelle questioni essenziali avevano fissato lo sguardo soltanto su Cristo unico Salvatore di tutti, traendo da lui quanto è vero, giusto e salvifico. Giungendo a sacrificare la propria vita per non rinunciare ai contenuti della fede, i martiri insegnano che il primo dei valori non è la propria o altrui opinione, ma la Verità elargita nella persona di Cristo «via, verità e vita» (Gv 14,6), verità che libera dalla menzogna e fonda senza equivoci la civiltà dell’amore. Essi ammoniscono ogni generazione di fedeli che non c’è cristianesimo autentico, se perde il senso della croce (cf Lc 9, 23), per adagiarsi su una morale facile che non richiede sacrificio. «Dalla morte dei martiri la religione venne difesa, la fede accresciuta, irrobustita la Chiesa: vinsero i morti e vinti furono i persecutori» (De fide resurr. II, 45). Un inno Il genio pastorale condurrà il vescovo Ambrogio a comporre inni anche in onore dei martiri, perché la poesia e la musica aiutassero il popolo cristiano a onorare i suoi eroi, in fiera e lieta gratitudine e con desiderio di imitarne la testimonianza nel martirio di ogni giorno. (cf In ps 118 XX, 47s). Anche s. Agostino rimarrà impressionato dalla efficacia di questo canto popolare (Confessioni 9, 7, 15). Così anche agli ambrosiani d’oggi è dato di pregare con l’inno «Grates tibi, Jesu, nova» nel quale il vescovo, esprimendosi in prima persona, celebra la memoria del ritrovamento dei ss. Protaso e Gervaso, condensandovi i prodigiosi avvenimenti con i sentimenti del popolo e propri. Oggi nuove, Gesù, grazie ti canto, poi che ho trovato un tuo regalo nuovo: ho rinvenuto i martiri Protaso e Gervaso. Erano ascose le sacre vittime, ma non la sacra fonte di grazie: non può celarsi un sangue che grida a Dio che è Padre. Il dono di un raggio celeste ci rivelò le benedette spoglie; più non moriamo martiri, ma ritroviamo martiri. Chi esigere vorrà voci di testi, quando parlano i fatti? Guarisce un malato di mente, così dei martiri proclama l’opera. Un cieco torna a vedere e comprova quanto è preziosa la morte dei santi: il suo nome Severo, un dipendente di pubblico ufficio. Toccata la veste dei martiri,

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strofina sugli occhi ottenebrati: subitamente la luce rifulge, la cecità debellata dilegua. Una gran folla d’ogni parte accorsa di malati e di ossessi, liberata dalle opprimenti spire dei demoni, rendendo grazie alle sue case torna. Le antiche età davanti a noi rivivono: ecco si lanciano indumenti, al tocco e all’ombra delle spoglie venerate negli ammalati il vigore ritorna. Sono gli stessi scopi che persegue la liturgia della Chiesa, quando richiede che siano sigillate le reliquie dei santi nella mensa dell’altare che si sta consacrando. Nella nostra pietra santa, il card. Schuster depose, il mattino del 13 aprile 1933, le reliquie di Protaso e Gervaso, insieme a quelle di Nabore e Felice. Altri piccoli resti dei nostri martiri sono conservati nel reliquiario ligneo che viene esposto nella Festa Patronale. Baciandoli, il popolo ne invoca la protezione e si impegna a imitarne le virtù: Il sacrificio del martire è partecipazione e ripresentazione del sacrificio di Cristo! E quanto la Chiesa di tutti i tempi conti sulla loro testimonianza ce lo ricorderà anche s. Carlo Borromeo, che adottò come sigillo arcivescovile quello che riproduce Ambrogio affiancato dai nostri martiri, con la scritta: «Sono questi i difensori che tanto desidero».

Il “sigillo arcivescovile” posto all’ entrata della casa parrocchiale

Notizie meno certe Sono, purtroppo, tutte le altre. Gli storici non sono in grado di offrirci certezze sul periodo in cui avvenne il loro martirio: all’inizio del IV secolo, durante la persecuzione di Diocleziano? O verso la metà del sec. III, sotto quelle di Decio o di Valeriano? Più probabile la seconda data. Cedendo al desiderio di particolari curiosi ed edificanti, si sono moltiplicati racconti non poco

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fantastici e collegamenti con fatti reali, cose tutte abbastanza ricorrenti nella vita dei santi antichi. In una anonima narrazione (Passio, tra il V e il VI sec.), inserita in una falsa lettera a s. Ambrogio (Epistula de inventione Gervasii et Protasii), sono descritti come fratelli gemelli dei martiri ravennati Vitale e Valeria e se ne narra il martirio. Altri particolari sono aggiunti in narrazioni che li collegano al martirio di Nazaro e Celso (databili dal sec V e VI al sec. XI); amplificazioni ulteriori sono contenute nella «Legenda aurea» di Jacopo da Voragine (1250 ca). Naturalmente, a queste narrazioni – che neppure armonizzano fra loro – attinsero prevalentemente gli artisti alla ricerca di particolari da illustrare al popolo. La nostra chiesa non è da meno: i genitori Vitale Valeria sono affrescati tra la serie degli Apostoli, sopra il cornicione più basso, a fianco del portale d’ingresso; la loro vita e martirio sono narrati nella vetrata superiore del transetto di destra. Dove sono venerati Per quasi 5 secoli, i corpi dei due martiri rimasero in un loculo a destra, sotto l’altare centrale della «basilica Ambrosiana»; in un loculo più piccolo a sinistra, nel 397 era stato deposto il corpo di s. Ambrogio. Nell’anno 836, il vescovo Angilberto (824-859), nel rifare la basilica del IV secolo ormai cadente, riunì i tre corpi in una sola urna di porfido, collocata di traverso sopra i due loculi ormai vuoti. E sopra l’urna eresse quel magnifico altare d’oro, d’argento e di gemme, opera del monaco tedesco Wolvinio (sec IX), che ancor oggi ammiriamo. Infine, l’8 agosto 1871, l’arcivescovo Luigi Nazari di Calabiana (+1893), fece scoperchiare l’urna di porfido, per due terzi ripiena d’acqua, e potè misurare i tre scheletri: cm 163 s. Ambrogio, cm 180 e 181 i due martiri. Ora riposano dal 1897 nel Sacello sotto il Ciborio, in una urna-reliquiario d’argento: al centro, il patrono di Milano rivestito dei bianchi paramenti pontificali; ai lati, i suoi difensori Protaso e Gervaso, che indossano camice bianco e oro, la dalmatica rossa, corona d’oro e tra le mani la palma del martirio.) La venerazione dei nostri patroni legati, come sono al vescovo Ambrogio, si è molto diffusa fin dall’antichità. Chiese e reliquie, feste in loro onore sono attestate già nel IV e V secolo a Brescia, a

Pavia, a Ravenna, a Roma, a Firenze, a Rapallo, in Gallia (Vienne, Rouen, Le Mans), a Carmona in Spagna, a Cartagine in Africa. Anche nella diocesi di Milano sono molte le parrocchie sotto il loro patronato. Sondrio li venera come protettori della città

Urna d’argento e di cristallo (sec XIX) con le venerate spoglie di s. Ambrogio e dei santi Protaso e Gervaso - Basilica di s. Ambrogio, Milano.

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Ancor più numerosi e diversi sono i luoghi e le fogge con le quali sono stati raffigurati, per lo più a fianco di Ambrogio. Segnaliamone alcuni, restando a Milano e dintorni. Nella basilica di s. Ambrogio ove sono sepolti, ritroviamo le loro figure: sul mosaico dell’abside,

ricomposto dopo il bombardamento del 1943 (sec. VI–VIII e VIII–XIX); tra i mosaici nella cappella di s. Vittore in Ciel d’Oro, restaurati nel 1989 (sec. V); negli affreschi della Torre campanaria dell’antico monastero (sec. IX) e su una formella del Coro ligneo (sec. XVI). Nel nostro duomo li ritroviamo: su 3 formelle intarsiate nei dossali superiori del Coro ligneo del Capitolo Maggiore (1575-1614); e in 2 ovali nello scomparto inferiore dei dossali del Capitolo Minore (sec. XVI); sulla parte inferiore della coperta posteriore argentea dell’Evangeliario di Ariberto (Tesoro del duomo, a. 1045); sul coronamento e in una formella bronzea della 2a porta a sinistra della facciata, opera di G. Castiglioni (1950) Alla Certosa di Pavia li ritroviamo in una tela di A. Borgognone (1490), in abiti rinascimentali, ma sempre a fianco di Ambrogio

Borgognone (+ 1492)

s Ambrogio in cattedra fra s. Satiro e s. Gervaso (a destra) e S. Marcellina e s. Protaso (a sinistra)

Basilica della Certosa di Pavia, Cappella di s. Ambrogio

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Preghiere Ai martiri Gervaso e Protaso Rende tante grazie la nostra parrocchia, contemplando la Vostra gloria, o patroni Protaso e Gervaso, resi veramente fratelli dalla stessa fede e dallo stesso martirio. Il nostro Padre Ambrogio scoprì le Vostre spoglie mortali e Vi propose come discepoli coraggiosi, testimoni dell'unico Signore, difensori della Verità donata da Cristo; e come vincolo di visibile unità della Chiesa, Madre feconda di tanto nobili figli. Invocate su di noi lo Spirito del Risorto, per annunciare a tutti e ovunque il Suo Vangelo, per accogliere e servire gli ultimi; per educare i nostri figli, nella famiglia che il Creatore ha voluto. Intercedete, perché abbiamo a perseverare nelle prove e nelle sofferenze. Così Vi raggiungeremo nel Regno, ove si raccoglie in letizia eterna quanto viene seminato nella fedeltà di ogni giorno. Amen. A san Protaso vescovo Servo fedele dell'Annuncio evangelico da portare a tutti i popoli, strenuo difensore dell'umanità e della divinità di Cristo, rendici docili ascoltatori della Parola del Maestro, che continua a risuonare nella voce di ogni vescovo. Conserva, nei tuoi successori e nostri pastori, la tua franca chiarezza nel valutare sempre i fatti e le idee alla luce della fede cristiana. Donaci di perseverare, con il vigore di Cristo risorto, nella tradizione più che millenaria della Chiesa da te paternamente servita. Lo Spirito di Pentecoste ci renda testimoni della Verità e Carità che possono liberare dal male ogni uomo, sempre nostro fratello. Amen.