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LA BATTAGLIA DEI TRASPORTI MARITTIMI NELLA CAMPAGNA DI LIBIA In quasi tutta la storiografia * relativa alla condotta della nostra ma- rina nel corso della seconda guerra mondiale compare sempre una sorta di ripartizione di fondo: da un lato un’attività che viene, in ultima ana- lisi, considerata come principale e inquadra tutte le maggiori o minori azioni condotte nelle acque del Mediterraneo tra le unità delle oppo- ste marine da guerra; dall’altra tutta quella lunga, logorante guerra combattuta sulle rotte percorse dai rifornimenti per la Libia, quel pres- soché giornaliero stillicidio di azioni che ebbero per obiettivo le nostre navi mercantili e per attivi protagonisti da un lato le nostre unità di scorta e dall’altro i sommergibili, gli aerei e qualche volta le unità leggere di superficie inglesi. Parrebbe quasi, dunque, che ad una guerra che potremmo definire come « principale » se ne sia affiancata un’altra, se così vogliamo, « secondaria » o, per lo meno, di minore risonanza ed (*) Non è possibile indicare una bibliografia specifica esauriente, poiché un’esatta valutazione del problema costituito dalla battaglia per i rifornimenti della Libia richiede una profonda conoscenza dei problemi del potere marittimo e delle sue forme. Questo articolo è solo un breve excursus sui problemi di quegli anni; molti altri grandi problemi sono stati solo sfiorati o persino taciuti, né d’altronde sarebbe stato possibile affrontarli in uno spazio limitato e soprattutto in uno studio non specificatamente dedicato loro. Ecco comunque alcune opere che possono informare sulle dimensioni del problema, sia nei suoi termini immediati sia sulle conseguenze a lunga scadenza. U fficio storico della M arina M ilitare ; serie: Le navi d’Italia. Tutti i volumi finora apparsi. Serie: La marina italiana nella seconda guerra mondiale, Voli. II, III, IV, V, VI, VII, Vili. A. R. H ezlet , La guerra subacquea, Firenze, Sansoni, 1969. A. B. C unningham , L’odissea di un marinaio, Milano, Garzanti, 1954. E. F avagrossa , Perché perdemmo la guerra, Milano, Rizzoli, 1946. A. F raccaroli , Italian warships of W W II, Londra, Jan Allan, 1968. A. I achino , Tramonto di una grande marina, Milano, Mondadori, 1966. D. M acintyre , La battaglia del Mediterraneo, Firenze, Sansoni, 1964. G. S antoro , L’Aereonautica italiana nella seconda guerra mondiale, Roma, Danesi Ed., 1950. P. V arillon , L’aspetto navale del conflitto anglo-italiano in Mediterraneo, Roma, Ed. Ardita, 1936. R. de B elot , La guerra aereonavale in Mediterraneo, Milano, Longanesi, 1971. R. B ernotti , Cinquantanni nella marina militare, Milano, Mursia, 1971. M. G abriele , Operazione C 3: Malta, Roma, Uff. St. M.M., 1965. H istoricus , Da Versailles a Cassibile, Bologna, Cappelli, 1954. A. M oorehead , La guerra del deserto, Milano, Garzanti, 1968.

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LA BATTAGLIA DEI TRASPORTI MARITTIMI NELLA CAMPAGNA DI LIBIA

In quasi tutta la storiografia * relativa alla condotta della nostra ma­rina nel corso della seconda guerra mondiale compare sempre una sorta di ripartizione di fondo: da un lato un’attività che viene, in ultima ana­lisi, considerata come principale e inquadra tutte le maggiori o minori azioni condotte nelle acque del Mediterraneo tra le unità delle oppo­ste marine da guerra; dall’altra tutta quella lunga, logorante guerra combattuta sulle rotte percorse dai rifornimenti per la Libia, quel pres­soché giornaliero stillicidio di azioni che ebbero per obiettivo le nostre navi mercantili e per attivi protagonisti da un lato le nostre unità di scorta e dall’altro i sommergibili, gli aerei e qualche volta le unità leggere di superficie inglesi. Parrebbe quasi, dunque, che ad una guerra che potremmo definire come « principale » se ne sia affiancata un’altra, se così vogliamo, « secondaria » o, per lo meno, di minore risonanza ed

(*) Non è possibile indicare una bibliografia specifica esauriente, poiché un’esatta valutazione del problema costituito dalla battaglia per i rifornimenti della Libia richiede una profonda conoscenza dei problemi del potere marittimo e delle sue forme. Questo articolo è solo un breve excursus sui problemi di quegli anni; molti altri grandi problemi sono stati solo sfiorati o persino taciuti, né d’altronde sarebbe stato possibile affrontarli in uno spazio limitato e soprattutto in uno studio non specificatamente dedicato loro.Ecco comunque alcune opere che possono informare sulle dimensioni del problema, sia nei suoi termini immediati sia sulle conseguenze a lunga scadenza.U f f i c i o s t o r ic o d e l l a M a r in a M i l i t a r e ; serie: Le navi d’Italia. Tutti i volumi finora apparsi.Serie: La marina italiana nella seconda guerra mondiale, Voli. II, III, IV, V, VI, VII,V ili.A. R. H e z l e t , La guerra subacquea, Firenze, Sansoni, 1969.A. B. C u n n in g h a m , L’odissea di un marinaio, Milano, Garzanti, 1954.E. F a v a g r o s s a , Perché perdemmo la guerra, Milano, Rizzoli, 1946.A. F r a c c a r o l i , Italian warships of W W II, Londra, Jan Allan, 1968.A. I a c h in o , Tramonto di una grande marina, Milano, Mondadori, 1966.D. M a c i n t y r e , La battaglia del Mediterraneo, Firenze, Sansoni, 1964.G . S a n t o r o , L’Aereonautica italiana nella seconda guerra mondiale, Roma, Danesi E d . , 1950.P. V a r il l o n , L’aspetto navale del conflitto anglo-italiano in Mediterraneo, Roma, Ed. Ardita, 1936.R. d e B e l o t , La guerra aereonavale in Mediterraneo, Milano, Longanesi, 1971.R. B e r n o t t i , Cinquantanni nella marina militare, Milano, Mursia, 1971.M. G a b r i e l e , Operazione C 3: Malta, Roma, Uff. St. M.M., 1965.H i s t o r i c u s , Da Versailles a Cassibile, Bologna, Cappelli, 1954.A. M o o r e h e a d , La guerra del deserto, Milano, Garzanti, 1968.

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importanza ai fini immediati del conflitto, e che questa seconda guerra non sia stata altro che qualcosa di transitorio e di accidentale a confronto con i più determinanti avvenimenti della prima; una sorta di guerra in sedicesimo, insomma, dove solo di riflesso giungevano gli echi dei più risolutivi eventi che avevano per protagoniste le squadre da battaglia. Ed in effetti in quella guerra combattuta attorno alle navi mercantili naviganti tra i porti italiani e quelli dell’Africa settentrionale mancano quei grandi scontri di tipo tradizionale, quelle manovre e concezioni a grande respiro, quelle azioni combattute dalle grandi unita di superficie che quasi danno un segno tangibile, con la loro mole, del peso esercitato sugli avvenimenti, elementi questi che hanno sempre caratterizzato, nei tempi, la grande guerra sul mare. Niente di tutto ciò, invece, ma una guerra combattuta quasi in sordina, giorno dopo giorno; combattuta e vinta anche, e soprattutto, quando nulla accadeva; decisa spesso da pochi uomini soli a bordo dei loro aerei, dei loro sommergibili, delle loro piccole unità impegnate nei servizi di scorta. Una guerriglia, più che vera e propria guerra, punteggiata di imboscate, attacchi solitari, tragedie improvvise aventi per teatro poche miglia di mare e per protagonisti piccoli convogli di navi da trasporto, piccole formazioni di aerei, qual­che sommergibile, tre o quattro navi di superficie britanniche, cacciator­pediniere o al massimo incrociatori leggeri veloci nel colpire e nel dile­guarsi, qualche unità di scorta italiana.

Una guerra, insomma, in cui i mezzi erano impiegati apparentemen­te al risparmio e che proprio nella scarsità dei mezzi impiegati offre forse la spiegazione della sua scarsa importanza apparente; una guerra inoltre, se così vogliamo, combattuta solo per il sopravvenire di neces­sità contingenti, quali il trasporto di materiali bellici in Africa.

Questa dunque l’impressione; ma se proviamo a guardare più a fon­do nei problemi, se passiamo dal campo delle semplici constatazioni a quello dei perché, allora il quadro cambia, e cambia proprio dall’alto, in quella guerra « principale » che viene a perdere buona parte della sua importanza e viene a situarsi, rispetto alla guerra « minore » dei convogli, su un piano di parallelismo e fin di convergenza per quanto attiene agli obiettivi, piuttosto che di distaccata superiorità.

Per dimostrare tale assunto incominciamo col chiederci allora quali furono i motivi di fondo che portarono alla maggior parte delle azioni navali « pure » (cioè non direttamente connesse con la protezione dei nostri traffici) in Mediterraneo nel periodo 1940-43; quali furono cioè le origini più remote degli scontri di Capo Teulada, di Matapan, delle due Sirti, di Pantelleria; e chiediamoci, ancora più generalmente, quale sia stato il motivo fondamentale che portò la Regia Marina e la Royal Navy ad affrontarsi sulle acque del Mediterraneo. Cerchiamo cioè di ve­dere quale sia stato il tema conduttore della guerra, che la portò ad

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assumere certe caratteristiche in luogo di altre; e vedremo che, alla fine, perde ogni senso parlare di due guerre più o meno distinte tra di loro, mentre inizia a delinearsi un quadro nuovo in cui le due principali at­tività svolte dalla nostra marina — scorta ai convogli nazionali e con­trasto delle analoghe attività britanniche — non son altro che la risul­tante della stessa situazione generale affrontata a livelli operativi diffe­renti. Questo perché tutta la guerra navale in Mediterraneo ha tratto la sua origine dall’esistenza di linee di traffico da proteggere; Italia e Gran Bretagna, prive di frontiere terrestri europee comuni, si impegna­rono sugli unici fronti che le mettessero direttamente a confronto: quelli africani. Ma ovviamente tali teatri operativi, situati in regioni spesso desertiche e comunque prive di qualsiasi risorsa bellica locale, dipende­vano, anche solo per la materiale sopravvivenza, dai rifornimenti che potevano esservi fatti affluire; afflusso che poteva realizzarsi solo attra­verso i mari, e soprattutto attraverso le acque del Mediterraneo. È qui dunque che deve essere cercata la giustificazione di fondo della guerra navale in queste acque; la situazione geo-strategica nel Sud-Europa era infatti tale che avrebbe reso improduttiva qualsiasi azione puramente navale, anche se mirante eventualmente ad obiettivi terrestri; difatti nessuna delle posizioni mediterranee inglesi, Malta esclusa, era tale da poter essere neutralizzata con un’azione puramente navale, o comunque di cooperazione, ma che escludesse successivamente la necessità di ali­mentare una campagna terrestre di dimensioni continentali. Suez, Ales­sandria, Gibilterra, i cardini cioè del potere navale inglese nel Mediter­raneo e nei suoi accessi erano legate, per poter sopravvivere, all’esi­stenza di fronti terrestri o a particolari situazioni politiche; la resistenza dell’Armata del Nilo e la neutralità spagnola erano i fattori condizionanti. E analogo discorso vale per le colonie italiane in Africa; solo a seguito di campagne terrestri (su cui gli scontri navali potevano influire solo indirettamente, nel senso di condizionare le possibilità di approvvigio­namento per via marittima) si sarebbe decisa la loro sorte.

Perché dunque, allora, una guerra navale? Per la conquista del po­tere marittimo nella sua espressione più tradizionale, vale a dire della libertà di impiego dei mari per effettuare i propri indispensabili tra­sporti; ma tenendo conto del fattore fondamentale che nella realtà della nuova guerra e nelle strette acque mediterranee, circondate da basi aeree terrestri, la componente aerea veniva ad assumere un peso determinante. Quindi i fattori puramente navali per se stessi perdevano ancora di im­portanza, dato che la conformazione geografica particolare del teatro d ’operazioni era tale da imporre soluzioni nuove anche per problemi già tradizionali nel passato, quale appunto il raggiungimento della sicurezza dei traffici marittimi; ma questa volta la soluzione andava cercata in chiave aereonavale.

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Riconosciuta la validità di tale impostazione, allora viene a cadere qualsiasi discorso relativo a due guerre separate; la battaglia per la pro­tezione dei traffici diviene l ’unica forma di lotta, non solo possibile, ma anche logica, sulle acque mediterranee; e questo perché l’eliminazione di parte o della totalità delle navi da combattimento di superficie di una delle due flotte contrapposte non avrebbe avuto un peso direttamente determinante, poiché nella battaglia dei convogli fondamentali si stavano dimostrando l ’arma subacquea e la componente aereonavale; l ’elimina­zione di una delle due componenti (nel caso specifico quella navale) non avrebbe avuto conseguenze determinanti se l’altra (quella aerea) poteva venire potenziata. Quindi la battaglia navale tradizionale, tipo Jutland, lo scontro diretto delle flotte per conquistare il potere marittimo me­diante l ’eliminazione fisica dell’avversario in un unico scontro decisivo perdeva ogni valore nella peculiare situazione aeronavale del Mediter­raneo condizionata anche dall’aviazione di base a terra; e come il ricer­carla, allora, poteva essere un errore di impostazione strategica, così il volerne fare oggi la chiave di volta teorica della nostra condotta è un palese errore di prospettiva storica.

Prima di discutere nei particolari gli elementi caratterizzanti propri della battaglia per il rifornimento della Libia, dunque, è necessario chiarire i temi di fondo della guerra mediterranea, cercare cioè quelli che furono i motivi conduttori di tale guerra sul piano strategico. So­prattutto è importante che la ricerca sia svolta a questo livello; gli eventi tattici pur essendo, a lunga scadenza, condizionati anche dalla situazione strategica, rappresentano fondamentalmente dei momenti oc­casionali, in cui anche la fortuna, per dire, gioca un ruolo importante. Ma basilare è la ricerca dei grandi temi strategici; una volta che ciò sia stato fatto, allora l ’affermazione precedente acquista tutto il suo valore.

Partiamo dunque ancora dalla prima questione, forse la più lineare nella sua formulazione, cercando di capire a fondo non solo i motivi che portarono alla guerra marittima, ma anche le strategie che le ma­rine inglese ed italiana furono, per certi aspetti, obbligate a svolgere in Mediterraneo. Qual è stato quindi, in primo luogo, il motivo che ha spinto le due marine a combattersi qui. Perché, per ridurre all’assurdo, sia stata la marina inglese a creare una Mediterranean Fleet e una H Force distaccate dalle forze in patria e non piuttosto la Regia Marina a distaccare una squadra del Canale per azioni nel Mare del Nord, così come fece invece la marina stessa con i sommergibili atlantici di Betasom o la Regia Aereonautica che inviò in Belgio il CAI — Corpo aereo italiano — per partecipare alla battaglia di Inghilterra; e pensiamo al- l’ARMIR. Riflettiamo allora sul fatto, già anticipato, che Italia ed Inghil­terra non avevano frontiere metropolitane comuni ed erano inoltre si­tuate in posizione geografica tale che anche una guerra aerea, dati i

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mezzi esistenti, non era possibile nel 1940; e questo anche se i bom­bardieri inglesi furono su Torino già la notte tra T l l e il 12 giugno, dopo due soli giorni di guerra. Le due nazioni avevano però due fron­tiere in comune nelle loro colonie; una in Africa Orientale, tra Kenia, Sudan, Somalia Britannica ed Etiopia ed una, ben più importante, in Africa Settentrionale tra la Libia e l ’Egitto; ma più che l’Egitto nella sua totalità il punto focale era il Canale di Suez. Esso rappresentava il passaggio ■obbligato della rotta più breve per l’Estremo Oriente: rotta che pas­sava per tutto il Mediterraneo, di cui gli inglesi tenevano i bastioni ■estremi (Alessandria e Gibilterra) oltre al fondamentale punto d’appog­gio intermedio costituito da Malta. Questa rotta rapida per l ’Oriente rappresentava, nel 1940, un elemento fondamentale nel quadro del po­tere marittimo inglese; essa cioè gli consentiva una sufficiente mobilità, •così da permettergli di controllare due zone oceaniche lontanissime tra di loro pur con forze non esuberanti. La lotta terrestre quindi si tra­sferì sui fronti coloniali e soprattutto su quello libico-egiziano, di gran lunga il più importante date le potenzialmente enormi conseguenze che avrebbe potuto avere la caduta della zona del Canale nelle mani del­l ’Asse. Poiché però si trattava di fronti eccentrici, distaccati dai centri produttivi, era necessario attuare delle linee di rifornimento marittime; ■di conseguenza la guerra navale si concentrò sulle acque del Mediter­raneo, l ’unico mare in cui italiani ed inglesi dovevano scendere in lotta ■diretta per la conquista del potere marittimo.

Ma, tra la situazione italiana e quella inglese si profilò subito una ■sostanziale differenza, portata in primo luogo da fattori geografici e se­condariamente da una serie di errori politici iniziali; per cui mentre le linee di navigazione italiane dovevano, come detto, necessariamente pas­sare attraverso il Mediterraneo centrale, anche se qui esisteva il bastione inglese di Malta, le linee di navigazione britanniche non erano costrette ad attraversare quella predeterminata zona sottoposta ad un potenziale, ■e qualche volta effettivo, controllo aereonavale italiano. E questo perché l’accesso all’Egitto presentava due entrate, quella veloce attraverso il Mediterraneo e quella, per così dire di emergenza, attraverso il Mar Rosso ■dopo la circumnavigazione del Capo di Buona Speranza; il che dava agli inglesi la certezza, stante la assoluta impotenza delle scarse forze navali italiane in Mar Rosso, che una via di rifornimento per l’Egitto sarebbe sempre rimasta aperta, indipendentemente dall’andamento della lotta in Mediterraneo ma in grado a sua volta di condizionare tale lotta influendo sul corso della guerra sui fronti terrestri. Ed in effetti per tutta la du­rata della campagna di Libia i rifornimenti per l’8a Armata arrivarono sempre per la rotta del Capo (con un’unica eccezione), nonostante la lunghezza di tale rotta e il pericolo degli U-boote in Atlantico.

Una volta quindi che le necessità strategiche generali portarono la

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marina inglese e quella italiana ad affrontarsi in Mediterraneo, la situa­zione di fatto fece sì che i concetti operativi e i motivi conduttori delle due marine differissero tra di loro; il tema centrale per la marina bri­tannica fu l ’interruzione del traffico italiano diretto in Libia o per lo meno, come emerge da un esame particolareggiato della situazione poi verificatasi, il sottoporlo ad un sufficiente attrito, compatibilmente con i mezzi di volta in volta disponibili, fino ad interromperlo pressoché completamente solo e soprattutto in certi periodi oculatamente scelti. Inoltre, in non molti casi per la verità, la protezione delle proprie ope­razioni di convogliamento, miranti principalmente al rifornimento di Mal­ta; in tutto 26 operazioni fino alla primavera del 1943, riferendoci solo a quelle che richiedevano l’attraversamento del Mediterraneo centrale in direzione Est-Ovest, non considerando quindi i convogli per la Grecia e Creta. La marina italiana invece si dovette concentrare sulla prote­zione continuativa del traffico con la Libia, compito ben presto rivelatosi durissimo sia per il non essere quasi mai stato considerato prima della guerra, sia per il gap tecnologico esistente tra i mezzi tecnici italiani e quelli inglesi; e questo compito, sempre più impellente e preoccupante, finì con l’assorbire tu tti gli sforzi e tutta l’attenzione della nostra ma­rina, che commise qui il suo grande errore nella valutazione strategica della situazione. Non venne cioè riconosciuto (anche per l’influenza re­strittiva di molti fattori oggettivi quali la scarsità di nafta, che poneva limiti invalicabili all’attività della nostra flotta, la mancanza di aviazione di marina e di mentalità aerea, l’inadeguatezza della ricognizione, l’in­sufficienza del naviglio leggero) che il principale tema strategico britan­nico, vale a dire l ’interruzione delle nostre linee di traffico con la Libia era, in parte, un corollario ed una conseguenza sul piano operativo di un altro tema basilare; vale a dire il mantenimento in attività della rotta rapida per l’Oriente attraverso il canale di Suez e soprattutto il mante­nimento in efficienza del bastione di Malta, sia come punto d’appoggio su tale rotta sia come base avanzata, principalmente aerea, per gli at­tacchi contro la nostra navigazione mercantile. L ’opporsi a questa se­conda strategia avrebbe richiesto il blocco aereonavale di Malta; blocco- che non fu pero mai realizzato in forma totale, il che permise all’isola di mantenere sempre, anche se in certi periodi ridotta a minaccia po­tenziale, la sua funzione offensiva; quella di base principale, soprattutto per aerei e sommergibili, per la guerra offensiva contro il nostro traffico con l ’Africa.

Non che Malta, da un punto di vista generale e per noi specifica­tamente, sia stata il punto chiave di tutta la guerra; il problema della guerra d’Africa è più complesso e dal punto di vista logistico esso è stato per noi condizionato assai di più da altri fattori (quali la scarsa disponibilità di materiali in Italia e, in ogni caso, la ridottissima ca­

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pacità logistica dei porti africani) che non dalle perdite subite in mare per affondamenti operati dagli inglesi (il valore medio delle perdite si aggira sul 14 per cento al mese); però il non aver colto tutta l’impor­tanza, che potremmo dire riflessa, di Malta sul nostro traffico, e quindi la possibilità di migliorare le condizioni in cui esso si svolgeva attra­verso misure indirette, fece sì che tutta la nostra guerra fosse condotta in pratica senza un vero concetto strategico di guida; fu solo un in­sieme di atti tattici separati, senza che un pensiero strategico offensivo di fondo coordinasse tutte le attività. Solo le azioni che la nostra flotta in qualche caso intraprese contro le operazioni inglesi di rifornimento ■di Malta rappresentarono, anche se questo concetto in fondo non era colto nella sua pienezza, la migliore forma di protezione strategica del nostro traffico con la Libia, assai migliore dell’impiego delle corazzate nei servizi di scorta diretta, come spesso fu fatto. Quindi la battaglia dei convogli e le poche battaglie combattute dalla nostra marina per fer­mare i convogli inglesi diretti a Malta non sono che le due facce di una stessa realtà, forse non sempre ben compresa dai responsabili del coordinamento del nostro sforzo bellico, ma non per questo oggi me­no reale.

La battaglia per la difesa dei convogli libici rappresentava dunque il motivo fondamentale di guerra per la nostra marina; esso fu perse­guito male, perché non si seppero mai attuare contromisure strategiche, ma fu condotto con coerenza fino a quando non si esaurì; e si esaurì solo quando il fronte africano si dissolse, fatto questo che ancora una volta riconferma che solo l ’esistenza e le necessità di un fronte terrestre lontano dall’Italia avevano creato anche per noi il fattore condizio­nante dell’esistenza di un certo fronte marittimo. La battaglia dei con­vogli, fondamentalmente difensiva, e le poche azioni di tipo offensivo condotte contro la navigazione mercantile inglese — come Mezzo Giugno e Pantelleria (14-16 giugno 1942), le due Sirti (17 dicembre 1941 e 22 marzo 1942) e consideriamo anche Capo Matapan (28-29 marzo 1941) poiché l’operazione così tragicamente conclusasi era nata come nostra incursione contro i convogli inglesi naviganti tra l’Egitto e Creta — sono dunque i due aspetti che prese la nostra guerra navale contro l’Inghilterra; purtroppo essa fu condotta solo sul piano tattico e troppo poco fu fatto sul piano strategico per opporsi alla strategia inglese. Se a questo errore di fondo di valutazione si aggiunge il fatto che la nostra marina, negli anni prebellici, non aveva considerato seriamente il problema della scorta dei convogli, non realizzando né i materiali né l ’organizzazione né, soprattutto, la dottrina necessaria, e ancora l’abisso esistente tra le capacità tecnologiche italiane e quelle inglesi, allora vie­ne spontaneo chiedersi non tanto la ragione delle perdite subite, quanto quella dei successi a volte ottenuti. L’errore nella valutazione dei temi

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operativi fondamentali fu dunque il motivo che condizionò sul piano strategico la nostra guerra; sul piano pratico poi, quello cioè della vera efficienza della scorta dei convogli, pesarono principalmente gli altri due fatti indicati in precedenza, vale a dire il disinteresse mostrato dalla marina verso tali problemi negli anni prebellici, e il gap tecnologico. Se il secondo era collegato un po’ a tutta la situazione generale del paese (e difatti tale gap é riscontrabile, ad esempio, in tutta la situa­zione degli armamenti italiani nel corso della guerra) il primo fatto è invece dovuto proprio ad una valutazione di fondo, relativa al periodo prebellico, dei compiti che la marina sarebbe stata chiamata ed adem­piere in caso di conflitto, e quindi delle sue necessità di navi da guerra e di mezzi ausiliari; valutazione errata che ci portò a costruire una marina superata e le cui conseguenze furono scontate amaramente du­rante la battaglia dei convogli. Difatti, se entrammo in guerra con una grande marina, non c’è però dubbio che questa marina, sprovvista di portaerei, aviazione alle sue dipendenze a terra o imbarcata, e di unità concepite appositamente per i servizi di scorta, sarebbe stata adatta (in parte) ad una ripetizione del conflitto del 1915-18, ma non alle nuove esigenze di una guerra in cui, sul mare, un ruolo fondamentale sarebbe stato ricoperto da aerei e da sommergibili. Ma la mentalità esistente nell’Italia fascista portò a queste conclusioni e quanto esse fossero er­rate lo dovemmo imparare a nostre spese.

Ecco dunque i fattori che condizionarono maggiormente il compor­tamento della nostra marina nel corso del secondo conflitto mondiale; errori di valutazione, deficienze tecniche, mancanza di collaborazione tra le varie armi; e d’altro lato le necessità di un fronte terrestre sul quale anche le possibilità favorevoli andarono perdute malamente, an­che se l’influenza diretta dell’andamento dei trasporti non fu certo il solo fattore condizionante in assoluto; da tutto ciò è derivata una bat­taglia prolungatasi per quasi 36 mesi con tutto il suo seguito di tragedie e di lutti. Una battaglia che, avendo visto lo sbarco in Africa dell’86 per cento1 del materiale partito dall’Italia (questo per i 31 mesi della campagna di Libia che più ci interessa; negli ultimi 5 mesi, durante quella di Tunisia, le perdite medie aumentarono), possiamo considerare, tutto sommato, vittoriosa; ma essa lo fu sul piano tattico, perché su quello strategico non si realizzò mai nessun progresso e l’iniziativa ri­mase sempre in mano agli inglesi; e fu quindi loro sempre possibile coordinare strategia terrestre e strategia navale come era logico fare con­siderando il teatro bellico mediterraneo nella sua interezza.

1 Ufficio storico Marina militare, La marina italiana nella I I guerra mondiale, Voi. VI, Roma 1958, p. 20. In seguito citato come MM VI.

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La battaglia dei convogli libici fu dunque condotta senza che un concetto strategico di fondo la guidasse; essa fu di conseguenza solo una lunga battaglia difensiva, come tale perduta in partenza nella sua totalità perché, come insegna Clausewitz, lo stare sempre sulla difen­siva non fa procedere sulla via della vittoria. Nel caso specifico, ad esempio, era anche possibile che la scorta di un convoglio, particolar­mente efficiente, riuscisse a mandare a vuoto l ’attacco di un sommer­gibile; ma una volta esauritosi l’attacco ed allontanatesi le unità di scorta insieme ai mercantili loro affidati, il sommergibile restava in mare pronto per attaccare il convoglio successivo. Più in generale la contro- misura difensiva strettamente tattica poteva sì mandare a vuoto un sin­golo attacco, ma non impedire che questo si rinnovasse in tempi suc­cessivi fino ad ottenere pieno successo; e questo proprio perché tale tipo di difesa, avendo un raggio d’azione limitatissimo, non poteva certamente bloccare la fonte da cui gli attacchi scaturivano. Per farlo sarebbero state necessarie, come abbiamo già detto, contromisure di ordine strategico; esse pero non furono mai attuate e quindi la battaglia dei convogli si svolse sempre a senso unico; gli inglesi in attacco e noi sulla difensiva.

Venendo ora ad esaminare i problemi tattici del traffico, questa ri­cerca si deve indirizzare in due direzioni diverse. Da un lato l ’esame di fattori che potremmo definire oggettivi e condizionanti a priori (esclu­dendo però il problema della disponibilità di materiale bellico da inviare in Africa, che rientra in un altro ordine di problemi); vale a dire la disponibilità di naviglio mercantile e militare, i porti libici utilizzabili per lo sbarco e, di conseguenza, le rotte da seguire per raggiungerli; proble­ma quest’ultimo condizionato ai primi tre elementi. Collegati a questi vengono poi i problemi pratici di impiego dei mezzi navali; quindi formazione dei convogli, loro successione, entità e disposizione delle forze di scorta in base ai tipi di attaccanti più probabili: aerei, som­mergibili o unità di superficie. Dall’insieme delle soluzioni escogitate per questi tre problemi derivava, per quanto era in nostro potere, l ’andamento della battaglia dei convogli; ma su tutto veniva poi ad es­sere dominante il livello dell’attività inglese, il fattore veramente con­dizionante; su questo però, come già detto, causa la errata imposta­zione di base della nostra guerra non ci fu possibile influire diretta- mente se non in qualche raro caso (primavera del 1941 e del 1942, ad esempio); in genere potevamo solo difenderci contro attacchi più o meno violenti a seconda delle circostanze.

Incominciamo dunque con questi problemi oggettivi, e prima di tutto da quello della disponibilità di naviglio.

È storia ormai nota che al momento della nostra entrata in guerra

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quasi un terzo della nostra marina mercantile (tra l’altro la parte qua­litativamente migliore) si trovò bloccata al di là di Gibilterra e di Suez non essendo stata preavvisata dell’intervento; si persero così 212 navi per 1.216.637 tonnellate di stazza lorda su un totale di 786 per 3.318.129 tonnellate2. I motivi che causarono tale avventata decisione sono di due specie; più dichiaratamente essa fu dovuta alla volontà di tenere na­scosta la data precisa della nostra entrata in guerra (il ritiro del naviglio mercantile sarebbe stato un sintomo premonitore chiarissimo e facil­mente interpretabile), ed alla necessità di mantenere fino all’ultimo il flusso di valuta pregiata che quelle navi alimentavano con i loro ser­vizi all’estero; ma, fondamentalmente, anche queste decisioni giustifi­cative furono condizionate da altri due elementi, vale a dire da un lato la fede quasi dogmatica che la guerra sarebbe stata di breve durata, e dall’altra la convinzione che, in caso di guerra, le nostre linee di comu­nicazione marittima si sarebbero ridotte talmente che anche le sole navi superstiti in Mediterraneo sarebbero state ampiamente sufficienti. Que­sto solo fatto dimostra le assurdità che furono alla base della nostra entrata in guerra. Ancora nel 1939, difatti, una apposita commissione valutò il fabbisogno di importazioni necessarie per il 1940 (e posto che non si fosse entrati in guerra, ma venisse solo portato avanti il il piano di riarmo accelerato appena varato) in 22,4 milioni di tonnel­late, di cui i 3/4 combustibili non disponibili in Italia. Fu stimato che un consistente aiuto sarebbe venuto dalla Germania, per cui le im­portazioni via mare non sarebbero ammontate a più di 5 milioni di tonnellate: la flotta italiana era dunque esuberante. Non si tenne pero conto del fatto che, in guerra, sarebbe stato necessario pianificare la sostituzione delle perdite, che forse ben poco sarebbe arrivato dalla Ger­mania e soprattutto che i consumi sarebbero di molto aumentati; inol­tre bisognava tenere presente la possibilità che si aprissero fronti bel­lici oltremare. Ma la guerra « doveva » essere breve. Tutto ciò dimostra chiaramente, tra l ’altro, che prima di entrare in guerra il problema di un eventuale rifornimento della Libia non venne assolutamente consi­derato. Quando invece si rese necessario provvedere all’organizzazione di linee regolari di traffico con l’Africa Settentrionale (si parla della Libia perché essa è al centro di questo articolo, ma analogo discorso si potrebbe fare per la Grecia, le isole italiane, i possedimenti dell’Egeo, la Tunisia e il cabotaggio costiero italiano e libico) il primo grandissimo ostacolo da superare fu appunto quello della mancanza di navi adatte. Si rese quindi necessario impiegare « carrette » di bassa velocità, pes­sime doti nautiche e dotate di mezzi di comunicazione insufficienti, e questo proprio quando la velocità, sia nella traversata sia nelle opera­

2 A. I a c h in o , Tramonto di una grande marina, Milano, 1966, p. 80.

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zioni di scaricamento in porto, insieme alle rapide manovre evasive co­ordinate sotto attacco si dovevano dimostrare vitali. La situazione inol­tre andò sempre peggiorando, pur se ebbe qualche momento felice, in quanto la cantieristica nazionale non fu assolutamente in grado di so­stenere la guerra con nuove costruzioni. In Italia infatti non fu pre­parato un piano organico che permettesse di reintegrare le perdite, anche perché questo problema non fu affrontato, in base al concetto della guerra breve che non gli annetteva soverchia importanza; né, d’al­tra parte, nemmeno avrebbe potuto esserlo in maniera radicale, data l ’assoluta insufficienza del potenziale cantieristico italiano. Comunque solo 48 mercantili di nuova costruzione entrarono in servizio prima dell’8 settembre ’43 3, mentre le sole perdite in mare sulle rotte principali libiche (escluse quindi quelle del cabotaggio costiero libico, anch’esso importantissimo ai fini della ridistribuzione dei materiali e del loro av­viamento ai fronti, stanti le insufficienze delle linee di comunicazione in terraferma) ammontarono a 151 mercantili; cifra in sé piccola se confrontata al numero totale delle navi-viaggio impiegate per i trasporti libici (1789), ma di gran peso se si considera che quelle per la Libia non erano che alcune delle molte rotte da servire, e soprattutto se lo si confronta con le 574 navi mercantili rimaste all’Italia dopo il 10 giugno 1940 (tra l’altro il rapporto tra questi due ultimi valori può già darci una idea del lavoro cui le navi da carico furono sottoposte); le perdite totali italiane arrivarono alla fine a 430 unità per 1.729.257 tonnellate.

L’unico momento favorevole fu rappresentato dall’entrata in servizio delle motonavi veloci da carico verso la fine del 1941, inizio del ’42, grazie alle cui prestazioni poterono essere costituiti i primi convogli or­ganici veloci per il trasporto di materiali e potè essere raggiunto, anche per la particolare situazione allora creatasi in Mediterraneo, il massimo di 150.389 tonnellate di rifornimenti sbarcate in Africa in un solo mese (aprile 1942). Per il resto la situazione del nostro naviglio mercantile fu sempre pesante e se pure di crisi vera e propria si può parlare solo per un determinato tipo di nave, la cisterna, a partire dalla metà del ’42, per il resto del naviglio anche se non vi fu una crisi evidente manife- stantesi nella pratica mancanza di navi di quel determinato tipo speciale, i vuoti vennero via via ripianati con materiale sempre più scadente; entrarono cioè in servizio, per forza di cose, anche quei mezzi che prima erano stati scartati per la loro assoluta insufficienza. Quindi la situazione generale del traffico sotto questo punto di vista andò continuamente peggiorando.

Le conseguenze di tali deficienze, sia quantitative sia qualitative, del

3 MM VII, pp. 529-530. come anche per tutti i dati successivi fino alla prossima nota.

naviglio mercantile furono pagate col fatto di non poter organizzare in maniera efficiente, dal punto di vista del rendimento, né il convoglia- mento né la sua protezione; e questo, unito alle ulteriori limitazioni portate dall’insufficienza dei porti libici, fece sì che nonostante il superlavoro cui le unità di scorta e mercantili furono sottoposti il ma­teriale sbarcato in Africa non riuscisse a soddisfare le necessità cor­renti. È bene però chiarire subito che ciò fu determinato non tanto dalle perdite subite in mare, ma da un motivo ben più radicale, connesso con tutta la situazione del nostro paese nel secondo conflitto: la man­canza di materiali. E un fatto ce ne dà, anche se indirettamente, chiara misura. Il tonnellaggio mercantile convogliato nei due sensi fu di 8.821.566 tonnellate di stazza lorda, per cui il tonnellaggio in sola andata può essere valutato alla metà, cioè 4.400.000 circa; su questo tonnellaggio furono caricate in Italia 2.245.381 tonnellate di materiale. Ora la tonnellata di stazza e quella di peso sono due unità di misura diverse: la prima difatti è una unità di volume, equivalente a 2,83 metri cubi, per cui una tonnellata di peso e una di stazza vengono a corrispondere solo quando la densità del materiale imbarcato si aggira sullo 0,3; allora ad una tonnellata di stazza, equivalente a circa 3 metri cubi di volume, corrisponde un peso di una tonnellata. Quindi se con circa 4.400.000 tonnellate di stazza lorda disponibili, cioè con un volume di circa 13 milioni di metri cubi, si sono caricati solo 2.200.000 ton­nellate circa di materiale ciò significa, anche nella favorevole ipotesi prima esemplificata, che la capacità di carico disponibile è stata sfrut­tata al 50 per cento (si tratta di valori di stazza lorda; il volume di carico effettivamente utilizzabile può essere valutato in circa 10 milioni di metri cubi); ma poiché il materiale bellico non rientra certamente nella categoria del materiale leggero, ne deriva che l ’impiego effettivo del tonnellaggio disponibile è stato ancora minore.

E questo fenomeno si rileva sempre, nei momenti più duri della battaglia come in quelli più favorevoli, come nei primi sei mesi di guerra quando il contrasto inglese fu pressoché nullo ma furono tra­sportate in Africa solo circa 230.000 tonnellate di materiale, mentre i più recenti studi del periodo della non-belligeranza richiedevano, se del caso, 113.000 tonnellate di rifornimenti al mese; sempre però la capacità di carico dei mercantili fu assai poco sfruttata, e a questo non esiste altra spiegazione che la scarsità di materiali bellici disponibili in Italia per il fronte africano, a motivo della scarsa produzione indu­striale italiana e alla scarsità di materia prime.

Se la insufficienza, sia numerica sia per quanto riguarda le caratteri­stiche di impiego, del naviglio mercantile rappresentava uno dei due fattori condizionanti la formazione dei convogli, l’altro fattore era rap­presentato dalla disponibilità di naviglio da guerra per scortarlo; e se

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nel primo caso eventuali crisi poterono essere superate, anche se fa­cendo ricorso a materiale dalle caratteristiche insufficienti e quindi a scapito dell’efficienza generale del sistema, nel secondo caso non c’erano rimedi. Inoltre la situazione di partenza era assai più grave. Quando entrammo in guerra, in Italia non esistevano unità concepite espres­samente per la scorta della navigazione mercantile, esclusion fatta in par­te per le quattro torpediniere di scorta della classe Pegaso e il caccia­sommergibili Albatros; quando si rese necessario formare gruppi omo­genei per la scorta dei convogli, si dovette fare ricorso prima a qualche cacciatorpediniere di squadra (soprattutto per la scorta dei convogli veloci per il trasporto truppe) e a buona parte delle torpediniere e dei cacciatorpediniere più anziani, poi a tutte le torpediniere ed infine anche a tutti i cacciatorpediniere di squadra; tutte unità, specie queste ultime, che per dimensioni, armamento, prestazioni e caratteristiche architet­toniche generali non erano assolutamente adatte per tale compito par­ticolare, che richiede unità concepite ed armate solo per questo. Le unità sottili furono così sottoposte ad un insostenibile superlavoro, in quanto oltre alle esigenze dei servizi di scorta (e quelli per le rotte libiche non rappresentavano che una parte del lavoro totale di scorta) restavano sempre gli impegni rappresentati da altri insopprimibili servizi quali il dragaggio veloce, la caccia e la ricerca antisommergibile, la scorta alle maggiori unità da guerra; ma a fronte di tutte queste esigenze stava la scarsa consistenza numerica delle unità leggere italiane. Al 10 giugno 1940 erano infatti in servizio 59 cacciatorpediniere e 63 torpedi­niere, e pochissime furono le unità entrate in servizio prima dell’8 set­tembre 1943 (5 cacciatorpediniere, una decina di torpediniere e 22 cor­vette della classe Gabbiano4, le prime vere unità di scorta antisom­mergibili italiane, che entrarono però in servizio troppo tardi per esercitare un peso determinante sugli avvenimenti); considerando, ad esempio, che solo la scorta delle unità maggiori di squadra avrebbe richiesto in continuità circa 30-35 cacciatorpediniere tra i più moderni, si comprende chiaramente il lavoro cui le nostre unità leggere furono sottoposte. In totale, fino all’8 settembre, per eventi bellici si persero 44 cacciatorpediniere e 41 torpediniere; di questi 15 caccia e 10 tor­pediniere 5 furono affondati mentre erano impegnati nella scorta diretta di convogli naviganti sulle rotte libiche; servizio di scorta che, a turno, finì con l’impegnare tutte le unità leggere italiane, senza che però mai la protezione potesse essere veramente efficace e sicura. E questo perché sull’efficacia della scorta veniva ad esercitare il peso maggiore non tanto il numero delle navi impiegate quanto la loro qualità; e le doti belliche

4 A. F r a c c a r o l i , Italian warships of WW II, Londra, a n n o 1968, p p . 99-105.5 Ufficio storico della Marina militare, La marina italiana nella seconda guerra mondiale, Vol. II, Roma, 1965, pp. 26-45.

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delle nostre unità leggere erano troppo scarse di fronte alla qualità degli attacchi inglesi. Attacchi che, oltre alla guerra di mine, potevano assu­mere tre aspetti; incursioni notturne di navi di superficie, attacchi di sommergibili ed attacchi aerei; ma a nessuna di tali forme di offesa le nostre unità di scorta potevano validamente opporsi. Non ad attacchi notturni in superficie, per la mancanza di radar ma soprattutto di armi e di addestramento specifici per il combattimento notturno; non ad at­tacchi di sommergibili, data la mancanza di rilevatori ad ultrasuoni per la ricerca attiva subacquea e le caratteristiche assai modeste delle nostre bombe di profondità e delle loro apparecchiature di lancio; non ad attacchi aerei diurni (meno che mai a quelli, assai più frequenti, notturni) causa la debolezza, come calibro e sistemazione, del loro armamento antiaereo, insufficiente a fornire adeguata copertura alle stesse unità da guerra. Di conseguenza queste limitazioni di impiego, oltre alla frequente necessità di lavori, resi sempre più frequenti dall’intensissimo impiego, condiziona­vano già ampiamente la disponibilità di navi di scorta; ma un altro fat­tore venne a pregiudicare le possibilità di impiego di queste unità, in maniera sempre più vincolante col procedere della guerra: lo stato delle riserve di nafta. Nel 1942, ad esempio, l’Italia potè disporre di 1.500.000 tonnellate di petrolio grezzo per tutte le sue necessità civili, belliche e industriali; la sola marina, se avesse operato con una certa libertà e co­munque solo sui livelli dei primi mesi di guerra, ne avrebbe consumate di più. Una volta esaurite le scorte, dunque, tutto l’impianto bellico ita­liano fu costretto a vivere alla giornata; per cui molte volte capitò che un convoglio venisse differito perché non era ancora possibile fornirlo di unità di scorta; e questa impossibilità fu spesso condizionata proprio da mancanza di nafta.

Il problema di dotare i convogli di una loro forza di protezione auto­noma fu dunque sempre uno dei più spinosi; anche quando, come in certi periodi, le scorte ebbero una qualche funzionalità pratica e non solo di deterrente (in certi periodi della prima fase della battaglia dei convogli, ad esempio, durante i quali gli attacchi aerei erano portati dagli inglesi di giorno con bombardieri orizzontali a volo radente con la tecnica dello « skid-bombing », la scorta riusciva in certi casi ad abbattere più del 50% degli attaccanti) e quindi non esisteva il problema di cercare contromisure particolari per specifiche attività britanniche, esisteva co­munque sempre quello di riunire materialmente la scorta e fornirla del carburante necessario per navigare. Inoltre va tenuto presente che unità diverse riunite per l’occasione non rappresentano una forza di scorta efficiente; essa lo è solo se le unità sono omogenee come tipo e caratte­ristiche e sono addestrate ad operare insieme. Ma ben presto, con il procedere della guerra e causa le perdite e la indisponibilità per motivi diversi di certe navi, non fu più possibile ottenere ciò; e passando sopra

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ad ogni considerazione di omogeneità di tipo e di inquadramento le scorte dovettero essere formate con le unità immediatamente disponibili.

Una volta, comunque, che si fossero riuniti i mercantili necessari, si fosse trovato il carico da imbarcarvi, si fossero radunate e rifornite le unità di scorta (quando possibile si fosse provveduto anche alla compo­nente aerea), salivano in primo piano altri due elementi; in primo luogo quali porti erano disponibili in Africa e, di conseguenza, quali rotte dovevano seguire i convogli per raggiungere l ’uno o l’altro porto, tenendo anche presente la situazione delle forze di mare e di terra inglesi nel Mediterraneo; vediamo i due problemi separatamente.

I porti sulla costa nord africana, tra la Tunisia e l ’Egitto, in grado di accogliere e scaricare grosse navi mercantili (non dimenticando anche la rapidità nel successivo smistamento ai fronti dei materiali sbarcati) erano in tutto tre: Tripoli, Bengasi e Tobruk. Esclusion fatta per Tripoli, che rimase sempre in nostre mani fino al termine della campagna (anzi con la sua caduta il 23 gennaio 1943 si considera terminata la campagna di Libia), gli altri due scali furono perduti e riconquistati almeno una volta, con le comprensibili conseguenze negative sulle condizioni di efficienza delle infrastrutture portuali. Ma oltre al fatto puro e semplice di chi, italiani o inglesi, occupasse quella determinata località in quel particolare momento, un altro elemento andava tenuto ben presente, e cioè la situa­zione generale del fronte africano che poteva condizionare in diversa maniera la disponibilità dei porti. Ad esempio Tobruk, per tutto il 1940, pur essendo in nostre mani, non fu impiegato come scalo per i convogli provenienti direttamente dall’Italia, nonostante la sua vicinanza al fronte che avrebbe permesso un notevole accorciamento delle linee di riforni­mento a terra con conseguente miglioramento di efficienza.

Ma proprio questa vicinanza di Tobruk al fronte, di grandissima uti­lità ai fini dei servizi logistici a terra, ne rendeva sconsigliabile l’impiego in quanto esso, proprio per la vicinanza della linea del fuoco, era conti­nuamente esposto alle incursioni aeree britanniche, cui la debolissima difesa contraerea della piazza avrebbe potuto opporre ben poco contrasto. Di conseguenza navi ormeggiate colà sarebbero state un facile bersaglio per le bombe inglesi; dato che le navi mercantili avrebbero necessariamente dovuto sostare in porto alcuni giorni, causa la lentezza con cui le operazioni si svolgevano, è comprensibile il rifiuto della Marina ad utilizzare tale capolinea che richiedeva, per essere raggiunto, una navigazione in acque pericolose (Creta era ancora in possesso degli inglesi), ed esponeva i mercantili a pericoli giudicati eccessivi sia nella navigazione sia nella sosta in porto. Si potrebbe oggi anche obiettare che ciò non era del tutto vero, in base all’esperienza del vecchio incrociatore corazzato S. Giorgio che rimase a Tobruk, impiegato come batteria antiaerea galleggiante, dal 10

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giugno del ’40 fino alla prima caduta della base e senza mai essere dan­neggiato anche se più volte fatto oggetto di pesanti attacchi aerei; bisogna però ricordare che, in primo luogo, la nave era ormeggiata in rada e non nello stretto porto (dove i mercantili avrebbero dovuto entrare per scaricare), in secondo luogo che disponeva di un armamento contraereo notevole, almeno come numero di armi imbarcate, e infine che fu assistito da una fortuna quasi miracolosa (non per nulla è passata alla storia come la « nave miracolo » di Tobruk); ma in base a ciò che avvenne negli altri sorgitori libici, anche più lontani dai fronti ma sottoposti a pressione aerea inglese, le navi mercantili sarebbero certamente andate incontro ad una sicura distruzione.

Ora questa disponibilità dei porti veniva ad avere due conseguenze; in primo luogo si trattava di scegliere le rotte su cui avviare i convogli (ed anche questo problema, come vedremo, era condizionato sia da fattori militari in senso stretto sia da fattori logistici in senso lato), mentre d ’altro lato concorreva a determinare, come meglio vedremo in seguito, la stessa struttura, organizzazione e periodicità dei convogli.

In primo luogo, comunque, la scelta delle rotte; scelta che doveva quasi sempre essere fatta, anche se poi potevano intervenire altri fattori condizionanti, dato che per raggiungere Tripoli (e in certi casi anche Ben­gasi) vale a dire i due scali più impiegati, erano due le rotte possibili tra cui si trattava di scegliere: rotta di ponente e rotta di levante, ponente o levante rispetto a Malta (non consideriamo il traffico che, soprattutto nell’estate del 1942, si svolse tra la Grecia e Tobruk, in quanto rappre­sentava un caso isolato e legato ad eventi particolari e che comunque com­portò problemi e difficoltà sue specifiche).

I fattori condizionanti erano anche qui di tipo organizzativo e militare. Tra i primi, fondamentali erano il porto di partenza dei convogli (il capo­linea principale era Napoli, ma spesso i mercantili salpavano anche da altri porti) e la loro velocità; i convogli lenti (6-8 nodi di velocità) erano in genere sempre avviati sulla rotta più breve, anche se obbligata, quella di ponente se avevano per meta Tripoli, mentre quelli veloci venivano av­viati sulla rotta di levante, più lunga ma che offriva maggiori possibilità di manovra. Tra i fattori militari quali il pericolo di mine, di attacchi di som­mergibili nei passaggi obbligati e davanti ai porti, la possibilità di incursioni di unità di superficie, uno dominava su tutti: la possibilità di attacchi aerei, connesso in buona misura con il livello di pericolosità delle forze aeree di Malta. Questo fattore rappresentò a lungo il fattore di scelta determinante: così fino a che l’aviazione di Malta potè disporre solo di aereosiluranti Swordfish, con un raggio d ’azione non superiore alle 120 miglia, la rotta di levante potè essere spostata verso est tenendola così al di fuori del raggio d’azione delle forze aeree dell’isola. Così facendo essa correva il rischio di rientrare in quello degli aereoporti egiziani e poteva aumentare

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il pericolo potenziale di incursioni in superficie partenti da Alessandria; si trattava però di pericoli minori rispetto al precedente, quindi su questa rotta di levante furono avviati tutti i convogli più importanti, quali ad esempio quelli veloci per il trasporto di truppe. Convogli, questi ultimi, che navigarono più o meno sempre sulle stesse rotte, nelle stesse circo­stanze e con le stesse modalità, per cui finirono così con l ’offrire un facile bersaglio ai sommergibili, una volta che l’efficientissima ricognizione in­glese ebbe rivelato tutti questi elementi. Mano a mano che l’autonomia degli aereosiluranti di Malta aumentava non fu più possibile spostare la rotta verso est a meno, prima, di non allungarla a dismisura, e in seguito perché il raggio d’azione degli aerei inglesi era oramai tale da coprire tutto il Mediterraneo; quindi quando anche da parte italiana si tentò di attuare una protezione aerea per i convogli, l’attenzione si concentrò di nuovo sulla rotta di ponente, dato che la sua minore lunghezza e la presenza lungo di essa del punto di appoggio intermedio di Pantelleria rendevano in parte più semplice il lavoro degli aerei di scorta, che erano comunque normalissimi caccia terrestri monomotori con scarsa autonomia, pochis­simo adatti ai servizi di scorta sul mare; si tratta comunque di un di­scorso già fatto. Inoltre per lo stesso motivo delle necessità della scorta aerea la rotta di levante veniva a perdere la sua caratteristica principale, quella cioè di consentire ampie possibilità di manovra ai convogli, ma­novre che non furono più possibili una volta che furono stabiliti punti fissi di riunione per permettere agli aerei della scorta, privi di radar di ricerca e perfino di collegamento radio diretto con le navi, di ritrovare i convogli da scortare; da un certo momento della guerra in poi le due rotte finirono quindi con l’equivalersi. Il loro grado di pericolosità era pressoché lo stesso e difatti i due peggiori disastri singoli subiti dal nostro traffico — le Kerkennah, distruzione del convoglio Tarigo nelle prime ore del 16 aprile 1941 e la distruzione del convoglio Duisburg nella notte sull’8-9 novembre dello stesso anno — causati tutti e due da incursioni di navi leggere inglesi che attaccarono di notte, si riparti­rono equamente sulle due rotte; gli elementi che quindi potevano in­fluire sulla scelta, da un certo momento in poi, furono essenzialmente in primo luogo la destinazione dei convogli (per Bengasi rotta di levante e per Tripoli quella di ponente) e in secondo luogo la velocità di navi­gazione (convogli veloci ad est e convogli lenti ad ovest).

Il problema delle rotte, comunque, ammetteva sempre un’alternativa anzi, in certi momenti particolarmente difficili (novembre-dicembre 1941, ad esempio), questo elemento fu sfruttato per disperdere il più possi­bile il traffico, nel tentativo di far sì che i convogli in navigazione con­temporaneamente sulle due rotte si coprissero a vicenda (soprattutto contro le incursioni notturne in superficie); ma, connesso col problema

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dei porti, esisteva un altro fattore vincolante di enorme peso: la loro capacità logistica.

Si tratta di un problema finora poco considerato, e a torto, perché proprio dalla scarsa capacità logistica dei porti vennero a dipendere due fattori di enorme importanza; da un lato l ’organizzazione stessa del si­stema dei convogli, vincolati dal ridotto numero di navi che i porti africani potevano ospitare contemporanemente con un minimo di sicu­rezza, e dall’altro la frequenza delle loro partenze, fattore vincolante i quantitativi massimi mensili di rifornimento avviabili in Libia e condi­zionato in buona misura dai tempi necessari per la discarica delle navi mercantili. Il primo riferimento a questo problema compare nella DG 10/A 26, vale a dire lo studio condotto dalla marina subito prima della guerra sul problema del rifornimento della Libia; studio che la marina aveva condotto isolatamente sulla base di una certa ipotesi di guerra, in quanto l’esercito non aveva a quel punto mostrato molto interesse al problema, affermando la autosufficienza della colonia per almeno sei mesi (la guerra breve); tale studio non poteva quindi rappresentare un valido esame della situazione sia perché partiva da presupposti bellici e logistici che dovevano quasi subito dimostrarsi inadeguati sia perché, in fondo, rappresentava una presa di posizione preliminare circa non la possibilità, ma piuttosto la impossibilità di rifornire la Libia anche di poche migliaia di tonnellate di materiale al mese (l’esercito ne richie­deva almeno 113.000) stante una situazione che doveva però cambiare radicalmente con l’uscita dal conflitto della Francia alla fine di giugno. In tale studio, comunque, le possibilità logistiche dei tre porti erano così stimate, ovviamente nelle situazioni più favorevoli: a Tripoli ormeggio contemporaneo di 5 mercantili e 4 navi per trasporto truppe, con una capacità di discarica di 1.000 uomini/ora e 2.000 tonnellate/giorno di materiale. Bengasi poteva ospitare 3 mercantili e 2 trasporti per truppe (ma in caso di guerra il numero totale doveva essere ridotto a 3, perché non sarebbe più stata impiegabile la rada esterna, assolutamente spro­tetta) per un totale di 1.000 uomini/ora e 1.000 tonnellate/giorno; la capacità di Tobruk era valutata pari a quella di Bengasi.

Da questi dati scaturiscono due conseguenze. La prima, essenzial­mente teorica, è che se anche i tre porti avessero potuto funzionare al massimo della loro potenzialità stimata, cosa che non fu mai perché Tobruk fu sempre troppo esposta ai bombardamenti inglesi e quindi fu scarsamente utilizzata, Bengasi fu molto danneggiata durante le sue al­terne vicende belliche e Tripoli subì gravi danni nel ’41 per l ’esplosione in porto di una nave carica di munizioni (anche se poi in qualche pe­riodo Tripoli e Bengasi arrivarono a scaricare più di quanto previsto

6 Citato in MM VI, pp. 4-5.

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anche se sempre poco) e avessero potuto mantenere questo ritmo di lavoro per ognuno dei giorni che essi rimasero in nostro possesso, essi non avrebbero potuto in ogni caso assorbire più di 3.100.000 ton­nellate di materiale, cioè mediamente 100.000 tonnellate mensili contro le 113.000 richieste dall’esercito nelle fasi iniziali del conflitto. Si tratta comunque di un calcolo teorico a posteriori, valido però a stabilire quale sarebbe stato il quantitativo massimo di materiali che sarebbero in ogni caso giunti in colonia, ferme restando le condizioni di base ma supponendo che non vi fosse contrasto in mare; si noti bene « in mare », si suppone cioè che Malta fosse sufficientemente neutralizzata da non costituire più minaccia attiva.

Ben più importanti furono invece le conseguenze pratiche imme­diate che tali limitazioni di ordine logistico esercitarono sull’organizza­zione dei convogli.

Difatti dai documenti dell’esercito si può calcolare che per mante­nere in efficienza le forze armate italo-tedesche in periodi di operazioni attive fossero necessarie almeno circa 100.000-120.000 tonnellate di ma­teriale vario al mese; per trasportarlo in Africa impiegando navi da6.000 tonnellate di stazza lorda cariche al 100 per cento (facciamo rife­rimento al tonnellaggio delle motonavi da carico veloci impiegate nella primavera del ’42 ed alla loro percentuale di utilizzazione; cioè, ancora una volta, alle circostanze più favorevoli) sarebbero stati necessari circa 15-18 piroscafi al mese (si tenga presente quanto è stato detto in prece­denza circa la corrispondenza tra tonnellata di stazza e tonnellata di peso).

Il sistema più logico e funzionale per avviare queste navi in Africa superando il contrasto inglese, sarebbe stato quello di comporre ogni mese un unico grande convoglio che avrebbe potuto essere scortato da tutte le forze da combattimento necessarie per assicurargli il transito; e difatti la DG 10/A2, nella sua prima stesura in cui Malta era consi­derata solo come base di forze leggere di superficie, prevedeva appunto un unico grande convoglio mensile appoggiato da tutte le forze navali; e così fu fatto praticamente, trasportando però assai poco, anche se per altri motivi e comunque quasi senza perdite, nei primi mesi di guerra, anche se in questo caso senza effettiva necessità stante l’inattività in­glese. Ma non appena il traffico si dilatò per cercare di raggiungere i livelli subito richiesti dalle forze di terra (quelle che avrebbero dovuto essere autonome « per almeno sei mesi » — aveva affermato Mussolini stesso), a questa soluzione — quella dell’unico o comunque dei pochi convogli mensili fortemente protetti — la più produttiva, come ha insegnato l’esperienza di tutta la guerra, non fu più possibile ricorrere e proprio per le insufficienti caratteristiche dei porti libici, oltre che per l ’immenso consumo di nafta collegato all’impiego continuativo delle navi

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pesanti. Potremmo però aggiungere che, dato che gli inglesi attaccavano essenzialmente con forze aeree e subacque, l’impiego di navi pesanti era un assurdo; si sarebbero dovuti sempre costituire pochi convogli for­temente scortati, protetti però da unità adatte come cacciasommergibili d’altura e portaerei di scorta; mezzi però che in Italia non erano nep­pure concepiti.

Il numero massimo di trasporti che i tre porti libici insieme potevano accogliere contemporaneamente, in caso di guerra, era di 11 unità; inol­tre però, dato che ogni singolo convoglio si sarebbe dovuto dirigere su un solo porto, il numero massimo di navi che lo componevano non poteva superare le 5 se dirette a Tripoli e le 3 se dirette a Bengasi o eventualmente Tobruk. Inviare convogli più numerosi era del tutto assurdo, come lo era inviare nuovi convogli finché quelli precedenti non avessero finito di scaricare; e poiché ciò avveniva molto a rilento, anche se i mercantili erano caricati solo al 50-60 per cento, un convoglio « tipo » (5 navi con 20.000 tonnellate di carico) a Tripoli non poteva scaricare in meno di 10 giorni; e per 10 giorni il porto non poteva ac­cogliere altre navi mercantili anche se, per ipotesi, qualche mercantile avesse terminato la discarica prima degli altri; ma fino a che esso non fosse ripartito, e ciò poteva avvenire solo in convoglio e comunque sotto scorta, il porto non poteva offrire altre possibilità di ormeggio e di di­scarica. Era quindi inutile farvi arrivare altri mercantili che avrebbero dovuto sostare nelle rade senza poter essere scaricati, rimanendo esposti agli attacchi inglesi come accadde purtroppo spessissimo. Il convoglia- mento dovette quindi organizzarsi non sulla base di pochi grandi con­vogli, ma su quella di tante piccole operazioni; sistema che porta allo scadimento del rendimento economico del sistema di trasporti, anche perché non restava tempo in Italia per accentrare il materiale necessario per completare ogni carico, e questo sia per la scarsa produzione indu­striale, sia per le difficoltà di deposito in un porto esposto ai bombarda- menti come quello di Napoli sia, soprattutto, per l’assoluta mancanza di pianificazione di tutta l’operazione; per cui caricato il materiale più ur­gentemente richiesto o comunque immediatamente disponibile i mer­cantili venivano fatti salpare subito, spesso carichi solo a metà o anche meno.

Inoltre tale spezzettamento del traffico rende per il difensore (nel caso specifico la nostra marina) assai più complesse le operazioni di scor­ta, dato che il numero di unità di scorta necessarie, sia navali sia aeree, non è vincolato tanto alle dimensioni dei singoli convogli quanto al li­vello dell’attività nemica; supponiamo che 20 mercantili riuniti in un unico convoglio, stante la pressione nemica, richiedano una scorta di 10 unità da guerra; ma un convoglio di 10 navi navigante nelle stesse acque richiederà sempre almeno 8-10 unità di scorta, appunto perché

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il fattore determinante non è il rapporto tra unità di scorta e unità scortate, quanto quello tra unità di scorta e unità attaccanti, in rela­zione anche all’area di mare occupata dal convoglio. Sarebbe stato quindi necessario disporre di un numero di unità di scorta assai superiore a -quello effettivamente disponibile; unità soprattutto che venissero impie­gate solo nei servizi di scorta e fossero adatte come prestazioni ed arma­mento. Però, alla resa dei conti, i convogli avviati sulle rotte libiche furono ben 896 in 31 mesi, per un totale di 1.789 navi-viaggio7; dal che, tra l ’altro, si trae che i convogli furono in media 28 al mese, per i 31 mesi della campagna di Libia, cioè quasi uno al giorno statistica- mente il che significa ancora che in media ogni giorno erano in mare 30 4 convogli.

Il numero delle navi per ogni convoglio fu invece mediamente meno ■di 2, a ulteriore comprova della dispersione in cui il nostro traffico si svolse; è quindi anche chiaro il logorio cui furono sottoposte le nostre unità leggere (che erano in tutto, come si è visto, 122) che solo per scortare i convogli per la Libia furono impiegate in 1.913 viaggi, più altre 460 missioni effettuate per trasporto materiali. In queste condi­zioni non era possibile che unità, che da un punto di vista tecnico non ■erano bene attrezzate, erano sottoposte ad un durissimo lavoro, oltre­tutto inutile perché basato su criteri di impiego errati, e dovevano per di più operare senza appoggio aereo, potessero raggiungere un rendi­mento eccezionale nei servizi di scorta; o meglio il loro rendimento fu ■eccezionale in rapporto alle circostanze in cui furono costrette ad operare.

Se dunque P86 per cento del materiale avviato arrivò in Africa questo può essere considerato, in sé e per sé, un successo. D ’altronde va anche notato che vi furono mesi in cui nulla arrivò in colonia, e questo ac­cadde soprattutto in corrispondenza delle grandi offensive inglesi in terraferma; ciò non avveniva casualmente, bensì era il frutto di una strategia generale mediterranea che agiva nei diversi settori per ottenere lo scopo ultimo della vittoria definitiva.

A questo punto è infatti bene chiarire un punto fondamentale, e cioè che il livello delle perdite di materiale fu sempre ampiamente oscillante, -da un minimo dello zero ad un massimo del 70 per cento. Per 19 mesi su un totale di 31 il livello delle perdite si tenne al di sotto del valore medio generale; e questo ci conduce a vedere in breve quale sia stata la strategia inglese nella lotta ai nostri traffici. Questa strategia non postu­lava l’interruzione totale con ogni mezzo delle nostre linee di traffico; era sufficiente, in fondo, che le perdite fossero mediamente tali da non consentire mai alle forze dell’Asse di raggiungere la prevalenza in Libia. Si spiega quindi che in certi periodi in cui le forze aereonavali inglesi

1 Citato in MM VI, p. 462.

in Mediterraneo, e soprattutto le forze di Malta, non erano in buone condizioni di efficienza, gli attacchi contro il nostro traffico diminuissero di intensità senza che gli inglesi intraprendessero altre azioni oltre a quelle miranti a ridare efficienza alle forze leggere, ai sommergibili e agli aerei dell’isola. Ora esaminando la curva degli affondamenti si può notare come i valori minimi delle perdite siano stati raggiunti dal giu­gno al novembre del 1940 (perdite medie dell’1,2 per cento causate da un 7 per cento in novembre, mentre negli altri mesi non si perse nulla) in corrispondenza cioè di un periodo in cui sia le difese sia la forza of­fensiva di Malta erano al loro livello più basso (Cunningham stesso, preoccupato delle deboli difese dell’isola in previsione di un tentativo di sbarco italiano, ammoniva allora di limitare l ’azione offensiva dell’isola per non attirare troppo su di essa l ’attenzione degli italiani) e quindi non vi fu in pratica contrasto; ma nonostante questo il materiale tra­sportato nel periodo non raggiunse le 230.000 tonnellate. Poi ancora nel gennaio-febbraio del 1941, con perdite medie dell’1,5 per cento, quando su Malta agì il X CAT in corrispondenza dell’inizio del trasferimento in Libia dell’Afrika Korps (unica operazione per cui si può parlare di pianificazione preventiva); ed infine nel gennaio-maggio 1942, con per­dite medie dell’8 per cento (determinate essenzialmente dal 33 per cento di marzo), quando il II CAT sottopose Malta alla pressione aerea che avrebbe dovuto preludere all’invasione (Operazione Hercules, esigenza C3 Malta), mentre la marina inglese nel Mediterraneo era priva di por­taerei o comunque unità pesanti ad est di Malta. Ma ancora l’esame della curva degli affondamenti rivela un altro, importantissimo fatto, vale a dire la concentrazione delle perdite, segno evidente del rafforzarsi del­l’attività inglese, in alcuni mesi: mesi che, come vedremo facilmente, sono legati tra loro da una logica superiore.

Infatti nel dicembre del 1940 le perdite furono dell’l l per cento e in quel periodo O ’Connor respinse Graziani fin quasi a Tripoli; dal set­tembre al dicembre del 1941 le perdite furono rispettivamente del 23- 23-70 e 40 per cento e furono quelli i mesi della preparazione e dello svolgimento delle operazioni Battleaxe e Crusader, che respinsero Rom­mel dalla Cirenaica; poi nell’agosto del ’42 si perse il 33 per cento del materiale e Rommel fu fermato ad El Alamein ed infine nell’ottobre-no- vembre-dicembre si perse il 37, il 15 e il 62 per cento rispettivamente di materiali e Montgomery respinse definitivamente le forze dell’Asse. È quindi chiarissima la connessione esistente tra la guerra sul mare e le vicende a terra; connessione però in cui parte attiva furono solo gli in­glesi, mentre noi non ne fummo che le vittime. Difatti l ’aumento delle perdite in mare e la sconfitta delle forze di terra furono sempre dovute ad iniziative inglesi che si svolgevano parallelamente; l’accumulazione delle forze inglesi, che preludeva all’attacco, aveva il suo corrispondente

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nella diminuzione dei rifornimenti per le truppe dell’Asse; la guerra al traffico rappresentava cioè una specie di preparazione strategica ad am­plissimo respiro, sfruttante a fondo la particolare situazione mediter­ranea e la mobilità del potere marittimo.

Per ottenere questi risultati agli inglesi però non occorreva tanto spingersi in forza nel Mediterraneo centrale per portare attacchi diretti ■con le loro unità pesanti di superfìcie, quanto incrementare la guerra dei sommergibili e gli attacchi dell’aviazione di Malta; di conseguenza la possibilità di svolgere questa azione offensiva era condizionata dalla pos­sibilità di rifornire adeguatamente l ’isola, e per poterlo fare i fattori de­cisivi erano due. In primo luogo il possesso della Cirenaica, per pro­teggere la navigazione verso l’isola di convogli partenti da Alessandria; e poi la disponibilità a Gibilterra di portaerei, per trasportare a distanza sufficiente dall’isola gli apparecchi da caccia che dovevano garantire la sicurezza di Malta e delle navi in porto contro gli attacchi aerei del­l ’Asse, oltre a fornire protezione ai gruppi in mare. Quando fossero state presenti queste due condizioni che, si noti, sono determinate da fattori estranei alla guerra navale in Mediterraneo, allora i grossi con­vogli britannici protetti da forze pesanti potevano raggiungere Malta e mantenerla in efficienza. Ma le forze pesanti che scortavano questi con­vogli avevano chiaramente una funzione offensiva indiretta; l’impiego delle portaerei era determinato dalla necessità di dotare i convogli di una propria componente aerea indipendente che li mettesse in grado di affrontare il Mediterraneo centrale controllato dalle basi aeree terrestri dell’Asse, mentre quello delle navi da battaglia discendeva dalla politica inglese di non impiegare portaerei senza scorta pesante in acque in cui potevano essere presenti navi da battaglia nemiche. Queste forze pesanti non svolsero però mai alcuna azione diretta contro il nostro traffico, e questo perché un attacco isolato portato contro un traffico così disperso •come il nostro non poteva avere conseguenze determinanti, con la sola eccezione delle due azioni notturne che portarono alla distruzione dei convogli Tarigo e Duisburg. Ma in questi due casi esercitò importanza determinante da un lato la sorpresa che poterono realizzare piccoli gruppi ■come la Forza K e che sarebbe certamente mancata in caso di incursioni di gruppi pesanti da battaglia, e dall’altro la particolare situazione del traffico in quei momenti specifici; traffico cioè che aveva dovuto con­centrarsi a causa dell’accresciuta attività di aerei e sommergibili, che richiedevano gruppi di scorta sempre più consistenti che potevano es­sere forniti solo a grossi convogli. Inoltre le navi inglesi non potevano operare a lungo nel Mediterraneo centrale dove l’aviazione dell’Asse era sempre in grado di intervenire dalle sue basi costiere, e lo stesso poteva almeno in teoria fare anche la marina italiana. Data dunque l’impossi­bilità, per le forze pesanti, di soffermarsi nel Mediterraneo centrale se

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non durante operazione complesse appoggiate da portaerei, non aveva senso impostare la nostra guerra con l’idea di affrontare le forze navali inglesi altrove se non durante le loro operazioni di scorta ai convogli; la ricerca della battaglia « pura » non aveva senso. D ’altra parte era per gli inglesi inutile affrontare il rischio di inviare le loro unità pesanti a dare battaglia nel Mediterraneo centrale, dal momento che aerei e som­mergibili erano sufficienti ad imporre alla nostra navigazione un tasso d’attrito sufficientemente alto. D ’altronde dato che aerei e sommergibili agivano essenzialmente da Malta e che per mantenere l’isola in efficienza era necessario l ’appoggio della flotta per scortare i convogli di riforni­menti, era per gli inglesi assurdo rischiare le loro navi pesanti in Me­diterraneo centrale per tentare una impossibile conquista del potere marittimo incontrastato, dato che esse avevano valore principalmente come garanti delle possibilità di azione di Malta.

Anche se le perdite totali inglesi non furono leggere (la exchange- rate 8 per i sommergibili, ad esempio, per tutta la guerra in Mediterra­neo è dell’ordine di 6) l’azione delle loro forze leggere fu sufficiente a causare pesanti perdite soprattutto in quei momenti in cui tali perdite si sarebbero maggiormente fatte sentire; di conseguenza per i britannici le forze pesanti navali agirono solo indirettamente, con l ’assicurare cioè la continuità d’azione dei mezzi leggeri (aerei e sommergibili) in grado di operare comunque, anche nei momenti in cui il controllo pratico del Mediterraneo centrale apparteneva piuttosto all’Asse; le nostre forze pe­santi furono invece vincolate al concetto della fleet in being e vennero- conservate nei porti a svolgere una funzione puramente passiva di deter­rente, del tutto inutile perché le forze pesanti non sono adatte a con­trastare direttamente o indirettamente un attacco condotto da sommer­gibili e da aerei; e finirono con l ’essere affondate nei porti, come a Taranto.

Sono ora necessari alcuni chiarimenti.La dottrina della fleet in being, concepita da Lord Torrington dopo

la gravissima sconfitta di Beachy Head del 30 giugno 1690 e successi­vamente teorizzata dal Colomb nell’800, rappresenta una speciosa giu­stificazione di un atteggiamento del tutto passivo e rinunciatario, qual­cosa di molto simile alla « avanzata di ritorno » inventata dal Quartier Generale nipponico nell’ultima guerra per non parlare di ritirata quando le cose iniziarono ad andare male. In base a questa dottrina la flotta inferiore di forze deve restare « in potenza » senza dare battaglia, ren-

8 La exchange rate è il rapporto tra unità attaccanti affondate nel corso dell’azione tattica e navi attaccate affondate; è cioè una indicazione e una misurazione dell’anda­mento operativo della guerra. Un rapporto di 6, cioè 6 navi affondate contro un sommergibile perduto in azione, indica che la campagna è combattuta ma volge a favore dell’attaccante.

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derido così impossibile una conclusione del conflitto. È però chiaro che l ’efficacia di una fleet in being è direttamente proporzionale all’incapacità dell’avversario; essa difatti non svolge nessuna attività propria e quindi l ’attività dell’avversario è condizionata solo dalla sua abilità nell’impiego delle sue forze. Inoltre in pratica la flotta in potenza non può inflig­gere danni. Poiché la guerra mediterranea, come detto, è stata guerra di traffici condizionata dal possesso del potere marittimo, l ’applicazione del­la teoria in questo caso era assurda perché la conquista del potere ma­rittimo implicava anche le forze aeree di terra anzi, la loro importanza era predominante sui fattori navali; ma poiché da parte inglese il raf­forzamento delle forze aeree di terra nel vitale settore di Malta era con­dizionato ad attività navali, allora la conquista del potere marittimo ri­chiedeva il contrasto diretto delle attività navali inglesi; difensiva attiva allora, ma non certo flotta in potenza.

Se si passasse ora ad un esame particolareggiato di ciò che accadde per 31 mesi sulle rotte libiche emergerebbero molti problemi, connessi soprattutto con i singoli diversi avvenimenti; ma ciò porterebbe ad af­frontare, nei suoi mille aspetti, la cronistoria della battaglia dei convogli; e pur essendo di grande interesse, questo argomento esula dai limiti che per questo lavoro ci siamo imposti.

Resta da discutere però, in questo studio generale, il problema di Malta; l ’isola, come già accennato, non rappresentò, nonostante tutto, il punto cruciale della guerra africana; rappresentò, questo sì, un ostacolo spesso gravissimo sulle linee di rifornimento, ma non determinò l ’anda­mento di « tutta » la guerra. Il problema di Malta va quindi visto sotto questa veste: che essa rappresentava un ostacolo serio, ma comunque aggirabile in varie maniere, come dimostrò l’esperienza di vari periodi di guerra, alla soluzione integrale del problema del trasporto di materiali bellici in Libia.

La soluzione radicale, l’invasione, la cui mancata effettuazione è spes­so e volentieri considerata causa fondamentale di tutti i guai che tra­vagliarono i convogli libici, quando non addirittura la ragione ultima della sconfitta, non sarebbe stata necessaria qualora la supremazia aereo­navale che la situazione geostrategica dava all’Italia fosse stata attuata e mantenuta con l’impiego dei mezzi adatti. Anche Malta, difatti, di­pendeva per vivere ed operare dai rifornimenti dall’esterno; ma perché tali rifornimenti vi giungessero in copia sufficiente era necessario che si attuassero certe circostanze, alcune delle quali erano a loro volta legate alle vicende della guerra terrestre. Se cioè la campagna di Libia poteva essere, per quanto ci riguarda, condizionata da Malta attraverso la sua azione contro i nostri convogli, la guerra in terraferma poteva a sua volta condizionare Malta, determinando la possibilità di far giungere nel­l ’isola convogli partenti da Alessandria. Data la situazione, in genere

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sempre carente, della flotta di Alessandria per quanto riguarda le por­taerei (prima causa le perdite e poi lo scoppio della guerra in Estremo Oriente) il possesso, per gli inglesi, degli aereoporti cirenaici era deter­minante; senza di essi non c’era speranza che le navi da carico avviate lungo il Bomb alley, il viale delle bombe tra Creta e le coste del Nord Africa, arrivassero a destinazione. Quindi strategia navale e strategia terrestre si mescolavano nei problemi connessi con il rifornimento, la sicurezza e l ’attività di Malta; in ogni caso anche per i britannici il pro­blema costituito dall’isola non avrebbe ammesso una soluzione pura­mente navale. La mancata invasione dell’isola subito dopo lo scoppio della guerra o nel 1942 (la famosa operazione Hercules) può essere con­siderata un errore, ma solo nel campo ristretto della sicurezza dei tra­sporti; in più lunga prospettiva il fatto che l ’isola venisse conquistata dato che ciò fosse possibile (ma né nel ’40 né a maggior ragione nel ’42, a nostro avviso, esistevano probabilità di successo) non avrebbe mo­dificato il corso della guerra. O meglio avrebbe potuto cambiarlo la conquista di Malta nel ’40 in concomitanza con l ’occupazione dell’Egitto da parte delle forze di terra. In questo caso la perdita del canale di Suez e con essa della mobilità del potere marittimo inglese avrebbe potuto agire già sul Giappone nel 1940; in questo periodo, con le armate hitle­riane sulle coste della Manica e la minaccia italiana in Mediterraneo, la situazione inglese avrebbe potuto farsi molto pesante. Eppure proprio in quei mesi in cui l’azione offensiva inglese fu pressoché nulla, ben poco fu trasportato in Libia anche se le perdite furono minime e tutti quei fattori limitativi del traffico che abbiamo citato (mancanza di na- vigUo, materiali bellici e nafta) non avevano ancora potuto manifestarsi appieno.

È chiaro quindi che non fu Malta a condizionare la guerra, ma lo furono piuttosto altri elementi, propri della nostra organizzazione mili­tare, accoppiati alla assoluta insufficienza delle strutture produttive del paese. E questi elementi furono la disorganizzazione da un lato e la si­curezza eccessiva in se stessi dall’altro; la conseguenza principale che ebbero le avventure di Spagna e di Etiopia sulla nostra organizzazione militare fu questa, piuttosto che non le perdite di materiale subite.

Una guerra vittoriosa è in fondo la peggiore preparazione per una guerra futura; e la sua influenza è particolarmente nefasta quando si fraintendano i motivi della vittoria. Il successo, soprattutto quello della guerra d’Etiopia, fu una dimostrazione lampante del fatto che la supe­riorità dei mezzi avrebbe rappresentato il punto cruciale in una nuova guerra; quindi sarebbe stato logico, anche da parte nostra, prepararci, in caso di nuovo conflitto, per disporre della superiorità materiale. E se motivi contingenti, quali la scarsità di materie prime o la insufficiente attrezzatura industriale, non davano la certezza di poter raggiungere que-

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sta superiorità, allora non si doveva intraprendere una guerra; un at­teggiamento molto più « eroico » di quello assunto sarebbe stato il rico­noscere la propria inferiorità. Ma nell’Italia di allora non fu così; e si entrò in guerra con una dottrina sbagliata, una strategia sbagliata e un armamento non più adatto ai tempi e ai nuovi sviluppi degli ultimi anni; sviluppi che, paradossalmente, per certe armi come l ’aviazione erano nati dalla stessa comune esperienza, quella della guerra di Spagna. Ma in Italia una mentalità distorta seppe vedere solo i lati positivi, mentre all’estero si approfondì lo studio soprattutto di quelli negativi; e così l ’Italia continuò a volare sui biplani, mentre il resto del mondo aveva già compiuto il passo successivo. Restando comunque ai temi militari, tutti i problemi caratteristici della guerra dei convogli libici possono essere in fondo ridotti a queste matrici comuni. La sopravvalutazione degli eventi bellici degli anni ’30 portò al mancato rinnovamento del materiale; la sicurezza in se stessi portò ognuna delle tre armi a con­centrarsi sempre più sulle sue funzioni specifiche, trascurando la coope­razione con le altre; un clima politico che bandiva la critica portò a concepire dottrine di guerra chiaramente superate.

Su tutto si inserì quello che potremmo definire come l ’errore di fondo: la sottovalutazione del fatto che la guerra moderna sarebbe stata vinta, prima che sui campi di battaglia, nelle fabbriche, nelle miniere e nei laboratori. Ma le condizioni in cui si entrò in guerra erano ben sim­boleggiate dalla frase che affermava che « non è la mitragliatrice che conta, ma lo spirito che la fa cantare »; ma se, purtroppo, lo spirito esisteva, almeno come senso di dovere, anche se non come partecipa­zione personale effettiva alle cause della guerra, la mitragliatrice non esisteva assolutamente; e il prezzo fu una guerra malamente perduta.

A lfred o M a r c h elli