La bambina dei sogni

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Carlo Menzinger 1 LA BAMBINA DEI SOGNI di Carlo Menzinger di Preussenthal

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Poteri paranormali in una bambina di 4 anni

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Carlo Menzinger

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LA BAMBINA DEI SOGNI di

Carlo Menzinger di Preussenthal

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Scritto a Firenze dal 20/02/2007 al 29/09/08 Revisionato dall’autore dal 05/06/09 al 21/11/10 Sottoposto a web-editing (revisione on-line) dal 01/09/11al 14/4/2012 Copertina di Angelo Condello (05/08/2011)

ISBN 9781471623073

Copyright dei testi: © 2011 Carlo Menzinger Copyright delle immagini: © 2011 Angelo Condello

La Bambina dei Sogni by Carlo Menzinger di Preussental is licensed under a Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia License. Based on a work at www.menzinger.too.it. http://creativecommons.org

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COPYRIGHT E COPYLEFT Tutti i diritti di quest’opera, il romanzo intitolato LA BAMBINA DEI SOGNI, appartengono all’autore Carlo Menzinger di Preussenthal. Tutti i diritti sull’immagine di copertina appartengono all’illustratore Angelo Condello che l’ha messa a disposizione per illustrare e promuovere in ogni forma questo libro. L’autore Carlo Menzinger di Preussenthal e l’illustratore Angelo Condello autorizzano e incoraggiano chiunque venga in possesso di quest’opera a effettuarne copie o riproduzioni in formato cartaceo o elettronico, purché integrali e non alterate in alcuna parte, compreso il presente disclaimer. Tali copie potranno essere distribuite gratuitamente e liberamente e chi le riceverà potrà a sua volta copiarle e distribuirle gratuitamente e liberamente. Ogni copia dovrà sempre contenere i nomi dell’autore e dell’illustratore. In alcun caso nessuno al di fuori dell’autore potrà distribuire a pagamento o a scopo di lucro copie del presente romanzo senza l’autorizzazione dell’autore stesso. In alcun caso tale licenza deve intendersi estesa ai diritti di sfruttamento economico, rimanendo nel pieno diritto dell’autore accedere a contratti di edizione, far tradurre l’opera o farne realizzare trasposizioni radiofoniche, cinematografiche o teatrali. Rimangono altresì trai diritti dell’autore non ceduti la possibilità di realizzare audio-libri o nuove versioni del presente testo.

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Siamo fatti della stessa materia di cui son fatti i sogni. (La Tempesta – William Shakespeare)

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1 - UNDERGROUND BABY

La vita è sogno (Calderon de la Barca)

Le porte della metro erano aperte. Appoggiato al palo, mi reggevo con la mano sinistra, tenendo nella destra “Lolita”, il romanzo di Vladimir Nabokov. Con il libro appiccicato al viso, mi ostinavo a leggere nonostante la folla, che mi premeva da più parti. La lettura mi aveva preso e non badavo a chi mi stava attorno. Dalle pagine del romanzo, il protagonista Humbert Humbert stava mostrandomi la sua predilezione per quelle che definiva ninfette, la sua passione malata per le ragazzine di dodici anni o poco più. Alla fermata stavano salendo le ultime persone. Stavamo sempre più pigiati, al punto che la borsa mi premeva ora fastidiosamente sullo stomaco. Notai una donna con due bambine che si divincolò per passare in mezzo alla folla e si lanciò verso la porta ancora aperta, cercando di uscire. Riuscì quasi miracolosamente a scendere, ma una delle bambine, all’ultimo, forse bloccata dalla calca, lasciò la sua mano e si fermò all’interno della carrozza. La donna la chiamò, protendendo le dita, ora vuote: − Scendi, forza! Stanno per chiudere. La piccola rimase impassibile a guardarla. Dimostrava quattro anni. Grandi occhi leggermente tristi, ma determinati. Le labbra lievemente imbronciate. − Vieni! – le urlò di nuovo la donna, con tono perentorio, il braccio ancora paralizzato nel gesto di prenderle la mano. Fu questione di pochi secondi, poi la porta si chiuse indifferente. La donna, dietro il vetro, sempre immobile nel suo gesto inutile, pareva arrabbiata, piuttosto che in ansia, come mi sarei aspettato. La cosa mi stupì ma, preso dal problema immediato, avvicinatomi al vetro, le gridai muovendo le labbra come se parlassi a un sordo:

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− La porto io alla prossima stazione... venga a prenderla alla prossima stazione. Alla prossima! La donna annuì. Non ero certo che avesse sentito le mie parole, ma il senso immaginai dovesse averlo intuito. Al posto suo, mia moglie sarebbe entrata nel panico. Lei invece pareva piuttosto serena, a parte quello sguardo rabbioso. Mentre il treno si allontanava, riuscii a vederla tornare a sedere tranquilla per aspettare la metro successiva. Credo che, anch’io, mi sarei agitato molto più di lei. Persino la bambina rimasta a bordo non pareva un granché preoccupata. Si reggeva con la manina paffuta al sostegno vicino all’uscita. Ero il solo a preoccuparsi. Gli altri passeggeri non parevano far caso all’episodio. Giusto qualche occhiata distratta. Il treno scivolò via nell’oscurità. Mi rivolsi alla bambina. − Ciao. − Ciao – mi rispose educata. − Quanti anni hai? Sollevò la manina morbida con il pollice piegato. − Hai quattro anni? Annuì. − E come ti chiami? − Elena. − Adesso la tua mamma viene a prenderti. Scendiamo assieme alla prossima fermata e la aspettiamo. − Quella non è la mia mamma – rispose, rimanendo sempre calma. Qualcosa dentro di me sobbalzò. Cercai di non farlo vedere, ma i miei sospetti si erano rafforzati. − È la zia? – le chiesi, continuando a chiacchierare per non farla agitare, temendo che potesse mettersi a piangere da un momento all’altro. − No.

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− Come si chiama quella signora con cui stavi? − Non lo so. È cattiva. Mi ha portato via. Io voglio tornare dalla mia mamma. − Ti ha portato via da dove? – le chiesi, domandandomi se la bambina fantasticasse o se ci fosse della verità in quello che diceva. − Via da mamma. L’aveva rapita? − Dov’è la tua mamma ora? − Non so. − Come si chiama? − Mamma. − Papà come la chiama? − Non ho papà. È via. Uhmpf! − Gli altri come chiamano la tua mamma? – le mie domande non sembravano condurre da nessuna parte. − Mamma. − Okay – sospirai rassegnato. La fermata si avvicinava e non riuscivo a capire la situazione. Era stata rapita da quella donna? Mi sembrava improbabile, però non era da escludersi in un mondo come il nostro. La donna non mi pareva una Signora Humbert Humbert, ma ci sono purtroppo molti altri motivi per rapire bambini, persino peggiori della pedofilia. Dovevo aspettarla e cercare di capire se fosse proprio la madre della bambina? Dovevo andare subito alla polizia con la piccola? Se la donna era la madre o una persona di famiglia, non trovandola alla fermata si sarebbe spaventata e, magari, mi avrebbe persino denunciato per rapimento. Poteva essere semplicemente una tata o una baby sitter cui la bambina ancora non si era abituata, pensai. − Perché sei rimasta sulla metro? – ripresi la mia piccola indagine.

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− Perché quella è cattiva. Non voglio stare con lei. − L’altra bambina è tua sorella? − No. − È la figlia della signora? − No. − Sai chi è? − Luisa. − Da dove viene? − L’ha portata via la signora. − Da dove? − Dalla sua mamma. − Cosa ti ha detto quella signora? − Che andiamo in un bel posto. Io non voglio. Arrivammo alla fermata. Ero combattuto. Non sapevo cosa fare. Decisi di scendere. La donna doveva ancora arrivare. Avevo ancora un po’ di tempo per decidere, mentre aspettavo il prossimo treno. Pensai che fosse il caso di avvertire la polizia. Intorno non c’erano agenti. − Aspettami – dissi – devo fare una telefonata. Non ti allontanare mentre parlo. Chiamai la polizia con il cellulare. Cercai di spiegare la situazione. Mi dissero di portare la bambina al commissariato di zona. La piccola mi guardava parlare tranquilla. − Non so se quello che la bambina dice è vero. Vorrei aspettare qui la donna, ma gradirei ci foste anche voi – spiegai all’agente in linea. Mi chiese che motivi avevo per considerare la situazione sospetta. Mi confusi e non seppi spiegarmi. L’agente mi parve perplesso. Mi rispose di parlare con la donna e di richiamare nel caso non fosse veramente la madre. Non mi stava prendendo sul serio. Forse faceva bene: ero io a preoccuparmi troppo. Avevo fatto la figura del paranoico.

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Riattaccai di malumore, ma riuscivo a capirli, non potevano certo stare dietro alle preoccupazioni di ciascuno. La bambina per fortuna era rimasta accanto a me. Sembrava fidarsi. Pensai di chiedere aiuto al personale della stazione, ma non vidi nessuno. Salire verso l’ingresso e cercare aiuto mi avrebbe fatto perdete troppo tempo e non sarebbe servito a molto. Provai a fermare una signora di passaggio, ma m’ignorò come un mendicante inopportuno. Provai ancora con un tale dall’aria da uomo d’affari ma, quando cominciai a spiegarmi, mi guardò come se fossi pazzo e se ne andò senza una parola, scuotendo la testa, come per dire di no. – Non voglio i tuoi soldi! – gli gridai alle spalle, ma non si fermò. La bambina mi dava la mano. Avevo solo pochi minuti. Il prossimo treno stava per arrivare. Decisi quindi di affrontare la donna da solo. In fondo eravamo in un luogo pubblico e uno contro uno! Che cosa poteva mai fare questa fantomatica Signora Humbert Humbert? Il problema, piuttosto, era riuscire a capire in che rapporti fossero veramente la piccola e la sua accompagnatrice. Feci ancora alcune domande a Elena, per poter contro-interrogare la donna. − Come si chiamano i tuoi nonni? − Nonno e Nonna. «Alleluia! Questa sì che era un’informazione». − Ti ricordi dove abiti? − Cosa? − Dov’è che dormi? − Nella stanza brutta con le altre bimbe. Non ci voglio andare. Voglio tornare a casa. Stava per mettersi a piangere. Capii che non era il caso di insistere con le domande, ma decisi di correre il rischio di scatenare le lacrime. Dovevo scoprire qualcosa di più. − Il tuo giocattolo preferito come si chiama?

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− Lolla. «Oh! Finalmente un’informazione che una madre dovrebbe conoscere e, forse, una rapitrice no». − La signora mi ha preso la bambola e l’ha messa nella stanza brutta. Le ho detto «Voglio Lolla» e lei ha detto «No». É cattiva. Inutile: anche la donna ne conosceva il nome! Che cosa sapevo alla fine di questa bambina? Che aveva una mamma di nome Mamma, due nonni di nome Nonno e Nonna e aveva una bambola di nome Lolla! Perché la bambina avrebbe dovuto mentirmi, dicendo che quella donna non era sua madre e l’aveva rapita? I bambini possono raccontare bugie, ma Elena mi pareva troppo piccola per averne inventata una così grossa, senza che le fosse capitato realmente qualcosa. Dalla galleria m’investì fumoso il vento del treno in arrivo. Il tempo a mia disposizione era esaurito. La metro aveva aperto le porte e stava vomitando il solito carico di passeggeri in corsa. Vidi la donna venire tranquilla verso di noi, trascinandosi dietro l’altra bambina. Aveva meno di trent’anni. Forse poco più di venti. Capelli scuri. Occhi chiari. Un bel fisico atletico. Nessuna deformazione tale da preoccupare il signor Lombroso con le sue teorie pseudo-scientifiche sui criminali brutti e cattivi, anzi. L’altra bambina dimostrava cinque anni o poco più. La seguiva con aria annoiata. − La ringrazio tantissimo – mi salutò cordialmente, venendomi incontro con un bel sorriso rilassato – Temevo di averla persa. Senza di lei sarei stata nei pasticci. Nei pasticci? Che razza di modo di esprimersi! Una madre, che ha perso la figlia, dovrebbe essere disperata, non nei pasticci. Non corse ad abbracciare la bambina. Qualunque madre l’avrebbe fatto, pensai. Cominciavo a convincermi che la bambina non stesse fantasticando. − Sua figlia è stata bravissima – cercai di sondare - è davvero una bambina coraggiosa.

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− Oh sì. É una brava bambina, ma non è mia figlia. Ero convinto che avrebbe finto di essere la madre. Non mi aspettavo ammettesse subito di non esserlo. Il mio interrogatorio vacillava già ai primi colpi. Dopo un attimo di smarrimento chiesi: − Non è sua figlia? Allora come mai è con lei? − Sono un’assistente sociale. La guardai con curiosità e la donna allora aggiunse: − Lavoro all’orfanotrofio − guardò verso la piccola che non pareva ascoltarci e abbassò la voce − Elena è arrivata solo ieri. La sua mamma, poveretta, ha avuto un brutto incidente ed è morta. Non ha nessuno che si occupi di lei. Ero spiazzato. Se era una storia inventata, era ben congegnata. Ogni cosa aveva un senso. Mi sentivo un idiota. − Non ha un padre o dei nonni? – chiesi. − Il padre è sconosciuto e i nonni sono molto anziani, vivono in una casa di riposo. − Capisco – tutto tornava. Mi resi conto che muovevo impercettibilmente il piede sinistro per il nervosismo. Lo fermai. Nonostante la spiegazione, continuavo a sentirmi turbato. Sapevo che non poteva essere così, ma l’idea del rapimento non mi abbandonava. Approfittando del silenzio creato dalla mia esitazione, la donna mi salutò. − Allora, arrivederci e grazie. Stavano già per andarsene. La bambina si protese verso di me. − Vieni − implorò. Esitai perplesso. La piccola mi fissava. Le fermai con una domanda. − È lontano l’orfanotrofio? − Oh no! È poco distante dall’altra fermata. − Le dispiace se vi accompagno?

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La bimba sorrise illuminandosi. La donna mi guardò un po’ perplessa. Annaspai alla ricerca di una scusa. − Mi piacerebbe sapere dove vive. Le sembrerà strano, ma anche se tutto è stato così veloce, ora mi sento, come dire? Coinvolto. Sì, credo sia questo. Ero ancora poco convinto, anche se non capivo più perché. Sentivo che la mia risposta era debole, ma la donna parve credere che fossi sincero e, un po’ titubante, annuì. − Venga pure. Si chiama L’Isola dei Bambini Perduti – mi sorrise maliziosa – Lo conosce? Non lo conoscevo.

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2 - L’ISOLA DEI BAMBINI PERDUTI

I sogni sono quelle cose da cui ci si sveglia. (Raymond Carver)

Non avevo mai sentito parlare dell’Isola dei Bambini Perduti. Il nome mi riportava alla mente la storia di Peter Pan e la sua Isola che Non C’è, dove andavano ad abitare tutti i bambini che nei parchi cadevano dalle carrozzine, in particolare quello di Kensington. Non era per nulla un’isola, ma un edificio degli anni ’50 piuttosto brutto, con l’intonaco che cascava a pezzi. Le pareti erano affrescate con riproduzioni approssimative di personaggi disneyani. Un gruppetto di bambini giocava in un angolo con delle preistoriche automobiline di plastica, sotto le fauci spalancate e un po’ storte di un enorme Paperino disegnato a mano da qualche aspirante artista. Niente Wii, PSP o Xbox in vista. – Eccoci, siamo arrivati – annunciò la ragazza – Signor…? – Paolo Demetri – le sorrisi – Paolo. – Maria. Ci scambiammo una stretta impacciata. Mi parve che le sue dita, nel lasciare le mie, le accarezzassero. La guardai e vidi i suoi occhi sfuggire dai miei. Elena entrò rassegnata, ma non lasciò mai la mia mano, cui si era aggrappata da quando era comparsa l’assistente sociale alla fermata della metro. Anzi, quando eravamo entrati nell’edificio, si era fatta più vicina a me e l’aveva stretta con maggior forza. Maria ci guidò fino a una sala in cui vari bambini giocavano sotto lo sguardo di una signora grassottella e di due ragazze. − Bene – disse Maria, come per congedarmi – il posto è questo – e si aggiustò un ciuffo ribelle. Seguii per un attimo il movimento delle sua dita sottili. − Vedo – risposi e mi abbassai per salutare la bambina.

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− Ciao piccola – le feci, guardandola negli occhi immensi. Elena ricambiò lo sguardo e mi disse: − Dove vai? − Torno a casa mia. − E io? – chiese delusa. – Tu devi stare qui per un po’. – No – rispose determinata. – Questa signora è molto gentile – ero accovacciato davanti a lei. – No. Non andare – m’implorò, restando aggrappata a me. Aveva gli occhi lucidi. Prima o poi piangerà, pensai. Qualunque bambina, al posto suo, l’avrebbe già fatto da un pezzo. Elena però resistette. – Sai – le dissi – ho anch’io una bambina. Si chiama Laura. Ha sei anni. Ora mi aspetta a casa. – Portami con te. – Questo non è possibile. Devi stare qui. – Perché? Come potevo spiegarglielo? Come potevo dirle che ora era un’orfana, che la sua mamma non c’era più e che quella ormai era la sua casa? – Il signore tornerà a trovarti – mi soccorse Maria. – Vieni a giocare con gli altri bambini. – Non voglio – squittì la bambina. – Tornerò presto. Ora devo andare – le dissi aggrappandomi a quella scusa. Non pensavo di farlo veramente, ma quella non sarebbe certo stata né l’unica delusione, né il più grosso dolore che quella bambina avrebbe dovuto sopportare in quei giorni. Prima o poi, avrebbe capito di essere rimasta sola al mondo. A soli quattro anni. Mi ripetevo che, in fondo, per lei ero solo un signore sconosciuto di passaggio. La constatazione mi parve molto logica e razionale, ma dentro di me qualcosa diceva che non era così. Sentivo una

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sorta di dovere morale che mi legava, stranamente, a quella piccola, come fossi suo padre. Mi allontanai salutando. Finalmente la piccola riuscì a piangere. La cosa non mi aiutò certo a lasciarla, ma la bimba apparve ai miei occhi più normale, più umana e questo mi liberò, in parte, di quella sensazione strana, che pareva vincolarmi a lei. – Chiamerò per sentire come sta – gridai dal corridoio all’assistente sociale, spinto da quel che rimaneva di quel legame improvviso. – Chieda di Elena Dati – mi rispose Maria – la bambina si chiama così. Ero in ritardo per la cena, ma non riuscivo ad affrettarmi, come se qualcosa trattenesse i miei passi. A casa erano abituati ai miei orari irregolari. Sarei arrivato dopo le otto. Mia figlia, finita la cena, probabilmente sarebbe già stata pronta per andare a dormire, schierando il piccolo esercito di pupazzi, fedele custode del suo sonno. Forse anche mia moglie aveva ormai già finito e così avrei mangiato da solo, riscaldandomi qualcosa nel microonde. Gli occhi e il tocco di quella bambina mi rimasero in testa per tutta la strada. E anche quelli di Maria. Arrivato a casa, parlai dell’orfana con mia moglie che, portando la forchetta alla bocca, si limitò a dire: – Povera piccina! – ma non diede particolare peso alla cosa. Parve persino meno stupita di me dalla mia decisione di seguire la bambina in orfanotrofio. Da quando era nata nostra figlia era diventata piuttosto distratta su ciò che mi riguardava. Come previsto, mi trovai da solo in cucina a consumare poco attraenti avanzi di pasta, accompagnato dal ronzio del forno che faceva rotare il piatto del secondo. Dopo aver riordinato, controllai la posta elettronica, le novità su facebook e anobii, mi infilai il pigiama e andai a dormire.

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Al mattino mi districai nel traffico di utilitarie, SUV, motorini, microcar, camioncini e berline, che si facevano la guerra per conquistare alcuni inutili metri di vantaggio verso gli obiettivi più disparati. Uscii dalla città e presi l’autostrada fino all’aeroporto. Fissavo con odio le auto davanti a me, che rallentavano l’andatura della mia. Tamburellavo con le dita sul volante. Mi imbarcai velocemente, superando il gate quasi di corsa. Il mio volo si levò fulmineo in cielo. Un sibilo d’acciaio nel vento. Le hostess erano particolarmente graziose e avevano un’aria vagamente ammiccante. Notai che quasi tutti i passeggeri erano donne e anche piuttosto attraenti. D’un tratto il cielo si oscurò, dentro e fuori della cabina, stimolando un coro di esclamazioni dei viaggiatori. L’aereo prese a sobbalzare tra un vuoto d’aria e l’altro. Ero abituato a viaggiare e quelle turbolenze non mi preoccupavano. Una strana eccitazione crebbe, invece, in me, quando l’altoparlante annunciò di allacciare le cinture in varie lingue, alcune sconosciute, il cui suono mi turbò come una voce spettrale che provenisse da altri mondi. L’aereo stava precipitando! Feci mente locale della posizione del salvagente e delle uscite di sicurezza. Scelsi quella accanto al maggior numero di belle ragazze. A bordo ce n’erano davvero tante! Anche se scendevamo sempre più in fretta, l’idea di precipitare mi eccitava. Accanto a me c’era una ragazza giovane, bionda, bellissima e molto spaventata. Le presi la mano per confortarla e lei mi abbracciò, aggrappandosi al mio collo. La baciai e lei ricambiò, con la passione della vita che fugge via. Gli armadietti si spalancarono e le valige presero a volteggiare per l’abitacolo. Sobbalzammo all’impatto della carlinga con l’acqua. Mi trovai ad affrettarmi verso l’uscita di sicurezza, trascinandola per mano. Tutto era avvolto nella nebbia. Non mi importava che tutto fosse grottesco. Mi interessavano solo le ragazze, come capita in certi

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sogni, dove tutto il resto è solo contorno. L’aereo ammarò indenne e, per un po’, galleggiò in mare. Ci gettammo tra le onde. Nuotammo verso un gruppo di altre quattro ragazze che ci chiamavano agitando le braccia e ci aggrappammo assieme, sorretti dai giubbotti gonfiabili. Osservammo la coda dell’aereo sparire sott’acqua in un ultimo rigurgito di bianco. Non c’erano più tracce degli altri naufraghi. Il cielo pareva lontanissimo e non si scorgeva la terra. Una luce intensa ammantava l’orizzonte. Un’onda ci trascinò in una lunga corsa verso una verdeggiante spiaggia tropicale. Quasi volavamo sull’acqua. Con poche bracciate raggiungemmo la riva, schizzandoci a vicenda di acqua e sabbia. La catastrofe appena vissuta sembrava qualcosa di dimenticato. Anche il mare sembrava essersi placato. Eravamo solo noi sei e l’Isola, dimentichi di tutti gli altri naufraghi e del loro dolore remoto. Mi apprestai così a un’insperata vacanza di sesso sfrenato. Giocavamo a rincorrerci, quando, tra le larghe foglie della vegetazione lussureggiante alcuni tronchi presero vita e si trasformarono in visi scuri: indiani! Con tanto di penne in testa e archi. Come nei vecchi western. Anzi, come in un cartone animato. Gli indiani cominciarono a inseguirci, facendo quel tipico verso che imitavamo da bambini giocando ai cowboy, con la mano che sbatte sulla bocca. Poiché non avevo da offrire loro altro che uno scalpo, per quanto ancora ben fornito di capelli, m’imprigionarono e legarono a un totem comparso dal nulla e mi abbandonarono lì, e si divertirono a rincorrere le ragazze. Dubito avessero mai visto prima squaw tanto belle. Comparve allora un nugolo di bambini vestiti con pellicce d’animali e armati di fionde, sassi e bastoni. Saltavano, correvano, piroettavano e urlavano come ossessi, ridendo a più non posso. L’isola parve brulicarne. Erano bianchi, grassottelli e riccioluti! Quando vidi chi li comandava capii subito chi fossero. Li guidava un ragazzetto poco più grande di loro, più magro, agile, veloce e

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che… volava. Era proprio lui: Peter Pan e quelli, indubbiamente erano i Bambini Perduti, simili alle illustrazioni del libro che leggevo da bambino! I marmocchi assalirono gli indiani, che scapparono via, inseguiti da tiri di cerbottana, sputi e, i più sfortunati, pizzichi nelle chiappe seminude. Fu in quel momento che comparve Elena, la bambina dell’orfanotrofio. – Lasciatelo legato – disse – è un uomo cattivo. Mi ha abbandonato sull’Isola. La sua comparsa mi sbigottì ancor più di quella di Peter Pan. Provavo una certa vergogna. Avevo la sensazione che la bambina avesse assistito a tutto fin dall’inizio. Ero cosciente di trovarmi in un sogno. Elena, però, pareva vera, come se avesse un’altra consistenza, quasi fosse una statua inserita in un dipinto. Il mio imbarazzo si trasformò quasi in paura. I bambini presero a volteggiarmi attorno, danzando come prima avevano fatto i pellerossa, con passo ritmato, ma caotico, intonando canzoncine sconnesse. L’aria si fece scura. Le nuvole presero a girare attorno alla mia testa, sempre più velocemente. Nonostante fossi legato, mi parve di perdere l’equilibrio. In mezzo al mare scorsi la sagoma di una lontana torre nera. Piccole fate dalle ali vibranti mi volteggiavano attorno agli occhi, come zanzare importune. Non riuscivo a vedere bene il loro re, ma non mi pareva Peter Pan. Sembrava piuttosto un satiro. Seduto su un ramo, sghignazzava. Era come se sapesse cose celate alla comprensione dei comuni mortali, segreti inenarrabili e misteri della cui conoscenza si beava con supponente alterigia: la profondità del tempo multiforme in cui ogni presente ha infiniti futuri; arcani arcaici tramandati da mostri lovecraftiani provenienti da ere remote; tracce di futuri lontanissimi e alternativi; la storia dell’Uomo, primevo primate ignaro della propria ignoranza; il segreto delle interconnessioni neuronali e delle sinapsi cosmiche.

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Insomma non capivo un accidente ma mi sentivo in soggezione, come capita davanti ai veri re! All’improvviso, un bambino saltò ai piedi del totem cui ero legato. Si arrampicò veloce come uno scoiattolo e mi ritrovai il suo viso davanti agli occhi. Aveva il muso d’asino, con grandi denti equini sghignazzanti. I suoi occhi avevano la profondità di un cielo notturno senza stelle. Urlai e, finalmente, mi svegliai, ansimando. Quando aprii gli occhi, la prima cosa che mi venne in mente fu che quel sogno doveva essere stato generato dai sensi di colpa per aver lasciato la bambina. Mi pareva, però, che quel sogno fosse altro, contenesse altri messaggi e avesse una natura che non comprendevo. Che cosa avrei dovuto fare, del resto? Non potevo certo rapire la piccola orfana e portarmela a casa. La visione di Elena, così viva e reale, però, mi aveva turbato. Non sembrava un sogno. I miei desideri sessuali, nel frattempo, si erano del tutto afflosciati. Forse se non fossi stato così ignorante in materia di psicoanalisi, sarei riuscito a trovare un senso al tutto, pensavo. La sera affrontai nuovamente l’argomento “Elena” con mia moglie. − Sai, Giovanna, ho ripensato a quella bambina. La nostra casa è abbastanza grande. Forse… non so… magari potremmo farla stare qui… per un po’… finché non trova qualcuno che la adotti… Giovanna rimase in silenzio a guardarmi con uno sguardo privo d’intensità, che ormai avevo imparato a conoscere. Di solito se le proponevo qualcosa mi travolgeva con le sue considerazioni o m’ignorava con palese disgusto. Si era certo resa conto della serietà della cosa, che non poteva liquidare con una battuta.

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Ormai avevamo rinunciato ad avere un secondo figlio. La gravidanza e i primi anni di un bambino erano un impegno troppo gravoso, così Giovanna, dopo la nascita di Laura, non si era mai detta disponibile a ripetere un’esperienza che l’aveva provata nel fisico e nello spirito. − Non so, Paolo, se sia il momento per pensare a un’adozione... – rispose senza enfasi. − Veramente – mi difesi – non ho mai parlato di adozioni. Pensavo solo che mi dispiace per quell’orfanella, così, sola, in quel brutto posto. Forse potremmo farla stare un po’ in famiglia, finché… − Non pensi sia crudele tenerla con noi per poi abbandonarla di nuovo? Non lo pensavo. Ne ero certo. Ne ero già certo. Già allora mi era difficile pensare di lasciarla. Aveva prodotto su di me una sorta d’imprinting al contrario: dovevo seguirla come un anatroccolo segue la madre.

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3 - LA BAMBINA DEL SOGNO

Solo ieri ci incontrammo dentro un sogno (Il Profeta – Kahlil Gibran)

Il giorno dopo, alzata la serranda su una mattina ancora fuligginosa, baciai Laura, per farla svegliare. Sprofondata nelle coperte, era ancora calda della notte e profumata d’infanzia. − Ho sognato una bambina – mi disse prima ancora di aprire i suoi piccoli immensi occhi – Ha detto che era mia sorella. Ho una sorella? − No, amore. È stato solo un sogno – le carezzai le guance morbide. Aprì gli occhi e si tirò a sedere sul cuscino. − Lo so, ma la bambina era vera. Verrà a vivere con noi. È simpatica. Vorrei tanto avere una sorella! – era così allegra mentre lo diceva, che mi faceva male pensare di doverla deludere. − Hai molte amiche, Laura − protestai. Era la classica scusa di mia moglie alle sue richieste di incrementare la famiglia. − Anche lei sarebbe mia amica. È carina. Mi piacerebbe come sorella. Non le avevo mai parlato del mio incontro con la piccola orfana, né pensavo lo avesse fatto mia moglie. Tanto meno le avevamo mai parlato dei miei pensieri in merito a far venire Elena in casa nostra. Non era la prima volta, del resto, che nostra figlia chiedeva una sorella. Sapevo che le due cose non erano connesse, ma questo suo sogno – unito a quello che avevo fatto io - mi lasciò addosso per tutto il giorno una sensazione strana. Quella bambina ci parlava mentre dormivamo e chiedeva aiuto? Cercava una famiglia. Sapevo che era assurdo. La bambina sognata da Laura non poteva essere Elena. Era solo una coincidenza, che la mia fantasia rielaborava a modo suo. Questo cercavo di pensare, ma qualcosa dentro di me non si lasciava convincere.

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A cena, mentre mangiava la sua minestrina, di punto in bianco, Laura brandì il cucchiaio e, con il brodo che le colava lungo la mano, chiese: − Cosa starà facendo la bambina adesso? − Quale bambina? – chiese Giovanna, protendendo il tovagliolo per asciugarla. − Quella del sogno. − Hai sognato una bambina? – le chiese affettuosamente mia moglie, fissandola senza completare il suo gesto. − Sì. Mia sorella. − Tu non hai sorelle – le spiegò la mamma con voce dolce, prima di lanciarmi un’occhiataccia – Era solo un sogno. − Questa mattina le ho detto la stessa cosa, quando si è svegliata – mi difesi. − L’hai sognata, non è una vera bambina – aggiunsi, rivolgendomi a mia figlia. − A volte sogno anche te e mamma. Voi siete veri, no? − Certo che lo siamo. A volte si può sognare di persone reali, ma quello che fanno in sogno è finto. Come un cartone. − Elena, però, era reale. − Elena? – saltammo su, in coro, mia moglie e io. Giovanna si girò con lo sguardo di brace pronto a incenerirmi. − Si chiama così. L’ha detto lei – precisò nostra figlia, guardandoci come se avesse pronunciato senza volere una parolaccia. Quella sera, quando Laura si addormentò, dovetti subire il terzo grado dalla donna dagli occhi di ghiaccio. − Come ti viene in mente di parlare di adozioni a Laura? Non hai cervello. Non puoi farla illudere di avere una sorella, se poi questo non si può fare, come sai benissimo.

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− Ti giuro che non ho mai parlato con lei di Elena, né di adozioni, né di sorelle in arrivo. Non capisco. È solo un caso. − Ha detto che si chiama Elena. Proprio Elena – mi aggredì. - Non può essere un caso. Quella bambina si chiama così! Come diavolo può essere un caso? Un caso. Un caso! Ma caz… Sei un idiota. Quando si parla con i bambini, bisogna fare attenzione a quello che si dice. Non si può illuderli con cose che non sono certe. − Ti ripeto che non capisco, ma credo sia una coincidenza. O magari ci ha sentito discuterne l’altra sera. Pensavamo dormisse, invece era sveglia. − Ci avrebbe chiamato. Se si sveglia, non resta mai nel suo letto. − Forse era curiosa ed è rimasta a sentire e poi si è riaddormentata da sola. Oppure, non so, ci ha sentito nel dormiveglia e questo l’ha influenzata. − Giuri di non averle detto nulla? − Lo giuro, ma dovresti credermi, anche se non lo facessi. Dov’è la tua fiducia? Un tempo mi avresti creduto, anche se ti avessi detto di essere stato sulla luna in bicicletta. − Un tempo. Appunto. Un tempo forse ti avrei creduto. Un tempo forse tu avresti persino provato a pedalare per raggiungerla e magari offrirmela. Ora non mi offriresti neanche una margherita. − Non è vero. Farei di tutto per voi. Per voi, in effetti. Non le dissi per te. La notte stentai ad addormentarmi. Quei due sogni m’inquietavano. Ovviamente, più cercavo di trovare motivazioni razionali, meno ne trovavo e più faticavo a prender sonno. Giovanna, invece, si era assopita tranquillamente. Le sue sole preoccupazioni erano che io le avessi mentito, come credeva ancora, e che mi fossi fissato con quella bambina, coinvolgendo Laura.

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Quando finalmente presi sonno, mi ritrovai ancora sull’Isola che Non C’è, ma senza Elena e i Bambini Perduti, che mi avevano liberato, nonostante il suo ordine. Nessuna traccia delle fate. Le cinque ragazze mi erano tutte addosso e mi carezzavano, cercando di consolarmi, mentre l’angoscia mi assaliva. Restavo però cosciente di sognare. Forse non ero del tutto addormentato. Cercavo di lasciarmi andare, di lasciarmi eccitare, baciandole una dopo l’altra, più volte, percorrendo con tutta la mia fantasia i loro corpi nudi e perfetti in una spasmodica ricerca d’estasi, ma la cosa non funzionava. Ero lì e non c’ero. Sognavo sapendo di farlo. Anche se i Bambini Perduti avevano avuto la decenza di allontanarsi e andare a giocare altrove, non riuscivo a godere della situazione come avrei voluto. Qualcosa mi turbava. Questa volta gli indiani non si fecero vedere e potei finalmente rotolarmi con quelle ragazze da calendario nel mare ora calmo e trasparente, ma ero a disagio. Cercavo di pilotare il sogno verso situazioni sessualmente interessanti, ma sentivo come un peso, che mi sospingeva verso immagini più caste. Nel momento in cui ero quasi riuscito a superare quel blocco, Elena comparve nuovamente, con mio grande imbarazzo. Sapevo che era solo un sogno e che volendo potevo farla scomparire. Cercai d’ignorarla per liberarmi di lei, ma inutilmente. La bambina rimase a fissarmi imperturbabile, inespressiva, ma estremamente concreta. Un incubo su cui non riuscivo ad avere alcun controllo. Mi risvegliai improvvisamente in uno stato d’agitazione, che stentò a lasciarmi per il resto della notte. Dei mostri che avessero tentato di divorarmi, mi avrebbero spaventato meno di quella muta presenza infantile.

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4 - LA VISITA

Degli aerei sogni son due le porte, una di corno e l’altra

d’avorio. Dall’avorio escono i falsi, e fantasmi con sé fallaci e vani portano: i veri dal polito corno,

e questi mai l’uom non scorge indarno. (Odissea, libro XIX – Omero)

La giornata successiva passò convulsa, tra diecimila impegni che mi impedirono di pensare a Elena. Uscendo dall’ufficio, esitai a disagio per qualche istante sotto il portone su cui campeggiava il logo stilizzato con le due zanne d’elefante incrociate, simbolo della mia ditta. Mentre sprofondavo con la metropolitana nelle viscere inquiete della città, decisi di uscire alla fermata dell’Isola dei Bambini Perduti per sentire come stesse la piccola orfana. Ma era davvero per quello o piuttosto cercavo un’impossibile risposta ai nostri strani sogni? Arrivai davanti all’edificio ed entrai. – Salve – salutai – cerco la signora Maria. – Maria come? – mi chiese la donna in portineria, alzando gli occhi da una rivista dai titoli mirabolanti, che parlavano di amori estivi di vip di celluloide dall’indegna fama, piena di foto di attricette in costume da bagno. Indossava un camice bianco, ma non aveva l’aria molto professionale: sguardo distratto, capelli raccolti dietro la testa in uno scomposto chignon, indegno della memoria di Oscar Wilde. Anche se non le vedevo i piedi, li immaginai calzati da quelle brutte ciabatte bianche da ospedale, la cui variante in plastica colorata è ora diventata tanto di moda tra le ragazzine. – Non saprei. Sono qui per una bambina, che lei… – Ah. Allora non vuole Maria Truzzi, la cuoca. Lei cerca l’assistente sociale: Maria Fiorini – precisò lasciando cadere di

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nuovo lo sguardo, per una strana forma di magnetismo, su quella rivistucola, che a quanto pare suscitava in lei assai più interesse della mia persona o del suo lavoro. – Sì. Certo. – «In quanti cercano la cuoca?» Mi chiesi. Quella donna mi irritava. – A quest’ora dovrebbe essere nell’ultima stanza in fondo al corridoio, sulla destra, quella con l’immagine di un rinoceronte – mi spiegò, tralasciando a fatica le pagine dalle foto patinate sul bancone. Ogni stanza era identificata da una piccola figura che rappresentava un animale. Bussai a quella con il muso cornuto. – Avanti. Ah, è lei, Il Tato! Buonasera – mi accolse Maria con un bel sorriso. Era piuttosto carina, anche se non si curava molto. L’abbigliamento non era molto diverso da quello della portinaia, ma addosso alla ragazza faceva tutto un altro effetto - La bambina ha chiesto spesso di lei – aggiunse. – Non pensavo che sarebbe tornato. – Neanche io. Neanche io. É che… quella bambina… uhm… mi è rimasta nel cuore. – Amore reciproco, direi… Senta, non è che le interesserebbe… beh, ecco… lo so che sto correndo troppo, ma non avrò un’altra occasione per chiederglielo: sarebbe possibile prendere i bambini in affido … per un periodo. In una famiglia per loro è un’altra cosa…. – No… Non so neppure perché continuo a interessarmi alla bambina. Non c’è nulla che ci lega. Ora lei mi sta spiazzando. Davvero non ho mai pensato ad adozioni o altro… Non… non saprei. Credo che sia una cosa lunga, la pratica – biascicai. Cercavo di difendermi, ma sentivo che qualcosa dentro di me aveva già ceduto. Non ero lì per caso. Qualcosa mi ci aveva portato. Non credevo nel destino, ma quella proposta mi toccava. – Per l’affido temporaneo? No. Niente affatto. Una settimana. Due al massimo. Sempre che lei sia sposato, abbia un lavoro e

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una casa, nessun precedente giudiziario… Il tribunale può decidere d’urgenza per un collocamento presso una famiglia. – Sì. Sono in regola. Ho tutti i visti e non ho ucciso nessuno per ora, non nel corso dell’ultimo anno – scherzai – ma è che… che davvero… davvero mi pare un impegno troppo grosso, poi uno… uno finisce che… – mi stavo confondendo. – Lei ci pensi su. Ho voluto parlargliene perché stare in famiglia per un bambino è sempre meglio. Ora venga a salutare la piccola. Sarà contenta di vederla. La ragazza mi precedette. Anche da dietro Maria non era male, nonostante quel camice bianco. O, forse, grazie a quello, non saprei. La osservai camminare lungo il corridoio. Per fortuna non portava quelle orrende ciabatte che avevo immaginato addosso alla donna in portineria! Indossava invece delle Nike bianche (mi ostino a leggere niche, come la vittoria alata, non naichi, che mi fa venire i brividi). Mentre percorrevo quel corridoio, per un attimo ebbi la sensazione che tutto quel che c’era fuori da lì, la città frenetica, il mio lavoro, la politica, l’economia fosse lontanissimo e non avesse relazione con me. Per alcuni istanti mi parve che la mia vita fosse tutta lì. Maria aprì la porta. Entrammo in un’altra stanza, quella del cervo. La piccola stava seduta in un angolo, con una bambola in braccio. Non giocava. Teneva la bambola senza cullarla e senza guardarla. Come mi vide, parve illuminarsi. Si alzò dalla minuscola sedia montessoriana, corse verso di me e m’abbracciò, mentre mi chinavo verso di lei per accoglierla al volo. Forse me l’aspettavo, ma la cosa mi sorprese. Non capivo come mai si fosse creato questo strano feeling. Cosa le avevo fatto, in fondo? Perché mi trattava come se fossi suo padre? Ero solo uno sconosciuto e non ero stato né particolarmente simpatico, né affettuoso con lei. Un’altra bambina si sarebbe già dimenticata di me. − Non tornavi più – mi rimproverò.

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− Hai ragione ma, sai, ho tante cose da fare. − Ho conosciuto la tua bimba – mi sorprese Elena. − Come? – chiesi allibito. Avevo capito che parlava di mia figlia. Qualcosa dentro di me sobbalzò. Ancora una volta, come il giorno che l’avevo conosciuta, mi trovavo a pensare che quella bambina stesse fantasticando. − Sì. L’ho sognata. − Ah! – risposi sconcertato. − Mi aspetta. Siamo sorelle. Quelle parole mi presero alla gola come una morsa. La stessa idea di Laura. Come se avessero fatto lo stesso sogno. Come se si fossero sognate a vicenda o si fossero messe d’accordo. − Laura mi piace – aggiunse. Trasalii. Sapeva il nome di mia figlia, come Laura sapeva il suo! Questo era troppo! Troppe coincidenze. Poi, mi ricordai di averle parlato di lei. Forse le avevo detto anche come si chiamava. Certo. Dovevo averglielo detto io, però non me ne ricordavo. Per nulla. Ma doveva essere così. Lei se l’era ricordato. Per certe cose i bambini hanno una grande memoria. − Mi porti da Laura? – chiese. − Un’altra volta, magari. Oggi non si può. Avrei voluto chiederle come si trovasse in quel posto, se stesse bene, ma preferii non farlo. Avevo paura della risposta e del ripetersi della richiesta che ne sarebbe derivata. Anche questa volta non fu facile lasciarla. Maria mi accompagnò fuori dalla stanza. Aveva un gradevole profumo di fresco, qualcosa a metà tra il talco e il biscotto. Mi piaceva il suo profilo affilato e dolce nel contempo. − La bambina le vuole molto bene – disse con partecipazione. − Non ce n’è motivo. Ci siamo solo incrociati per caso. Non mi conosce affatto.

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− I bambini hanno una diversa percezione delle cose. Il tempo per loro è diverso. Sono per i colpi di fulmine − mi sorrise e provai un brivido: mi era parso quasi di cogliere un’allusione in quelle parole e in quello sguardo. − Quanti anni ha sua figlia? – Chiese poi. − Sei. − É l’età giusta. − Giusta per cosa? – chiesi sospettoso. − Una bambina più piccola in casa non creerà conflitti. Sua figlia resterà sempre la primogenita, la padrona della casa. Potrebbero star bene assieme. Anche a sua figlia farebbe piacere avere una sorellina, vedrà. Mettere in casa un nuovo bambino più grande del proprio cambia le gerarchie della famiglia e può essere più difficile, ma così questo problema non c’è. Avevo la fastidiosa sensazione di parlare con una piazzista che cercasse di vendere la propria merce e l’ancor più fastidiosa sensazione di non riuscire a resistere alle sue lusinghe. Ricorsi alla più banale delle scappatoie, ma che, in fondo, era proprio la verità e, nel contempo, la più pesante delle ragioni: − Mia moglie – e con questa parola mi difendevo anche dall’attrazione verso Maria - non accetterebbe mai. Non potrei. In fondo è lei quella che sta di più con le bambine… cioè, volevo dire, con nostra figlia. Non posso sobbarcarla… − Ci pensi. Pensateci. Fareste felice anche vostra figlia. In due stanno meglio. Elena è una bambina molto dolce. Vi troverete bene con lei. − Forse troppo… − bisbigliai – e poi? Come andrebbe a finire? Come faremmo, quando qualcun altro la adottasse? Sarebbe un dolore per tutti. Maria mi sorrise, ma non aggiunse altro. Capiva anche lei di non poter insistere. Quando sorrideva gli occhi le s’inumidivano e diventavano radiosi.

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Me ne andai con la testa piena di pensieri e immagini: Maria, Elena, un diverso futuro, una famiglia diversa, più grande, più viva. Ero confuso e disorientato. Le cose che non riuscivo a spiegare mi lasciavano agitato. In strada rimasi immobile davanti al semaforo verde e solo quando tornò rosso e il fiume d’auto riprese a scorrere davanti a me, mi scossi. Quella bambina m’inquietava.

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5 - MIA MOGLIE

Carter aveva dimenticato che la vita è soltanto una teoria d’immagini nella mente:

che non c’è differenza tra quelle nate da esperienze reali e quelle generate dai sogni più intimi,

e che non c’è motivo di ritenere le prime più importanti delle seconde. (Il Guardiano dei sogni – la chiave d’argento - Howard Phillips Lovecraft)

Pare incredibile, ma quando raccontai a mia moglie della mia visita alla bambina, mi disse: − Sabato vengo con te a conoscerla. Ammutolii per qualche secondo. Ultimamente Giovanna mi stupiva. Stentavo a prevederne le reazioni. Ero certo che si sarebbe messa per traverso. Avrei voluto chiederle cosa pensasse, quali fossero le sue intenzioni, se volesse solo conoscerla o se stesse pensando a qualcosa di più, ma non sapevo da che parte cominciare. Fu lei a rompere il silenzio. − Voglio proprio vedere chi è che ti ha fatto innamorare! – scherzò e tutto finì lì. Per il momento. Devo confessare che, a quelle parole, non mi passò per la mente il volto di Elena, ma quello di Maria. Forse fu per quello che, temendo di scoprirmi, le risposi con una smorfia che voleva vagamente somigliare a un sorriso. Con l’idea di scacciare dalla mente la bella assistente sociale, feci uno dei miei classici approcci maldestri per cercare di convincere Giovanna a fare l’amore e lei mi scacciò annoiata e, dopo poco, si addormentò come un sasso, russando leggermente. Cercai di addormentarmi anch’io pensando a Elena e… a Maria. Beh, sì, anche a lei, in effetti. Ero già mezzo addormentato, quando la porta della camera s’aprì. Pensai fosse Laura. A volte si svegliava e veniva nel lettone a cercare conforto: un’abitudine che proprio non riuscivamo a farle

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perdere. Giovanna continuò a dormire. Era buio, ma riuscivo a scorgere la figura che avanzava nella stanza. Era troppo grande per essere Laura. Un ladro? Il suo modo di muoversi non mi faceva in alcun modo pensare a un malintenzionato. Era una donna. Sensuale. Si avvicinò al letto. Si spogliò e anche se non riuscivo a vederla bene per l’oscurità, mi parve lo facesse in modo particolarmente erotico, sentii il fruscio dei vestiti afflosciarsi in terra, quindi s’infilò sotto il lenzuolo. Il suo corpo setoso scivolò lungo il mio. Era Maria. Mi baciò a lungo, mentre con le mani mi esplorava silenziosa, ma decisa e io la ghermivo incredulo. Giovanna continuava a dormire nell’altra metà del letto. Il ritmo regolare del suo respiro lo confermava. Ero inebriato dall’assurda incoscienza della situazione quando la porta si aprì di nuovo. Questa volta la figura che stava entrando era molto più minuta. Pensai che, ora, potesse essere proprio Laura. La cosa sarebbe stata… drammatica. La bambina avrebbe visto Maria, avrebbe svegliato la madre e le conseguenze sarebbero state facilmente immaginabili. Come potevo trovarmi in una situazione così assurda? Come aveva fatto Maria a entrare in casa? Non mi pareva sapesse neppure il mio indirizzo. Non era, però, Laura. Era Elena. Elena! La bambina dell’orfanotrofio. Il sangue mi si ghiacciò nelle vene. La piccina non urlò. Rimase ferma. Non parlò neppure e non svegliò Giovanna. Maria scomparve nel nulla e svegliandomi trovai solo mia moglie nella stanza. Anche Elena era comparsa, sebbene la sua consistenza mi fosse parsa più concreta di quella di Maria. L’orfana stava diventando la mia censura onirica personale. Stentai a riaddormentarmi e quando ci riuscii feci subito un altro strano sogno. Questa volta mi parve di assistere a un film che narrasse un’altra vita, che parlasse di gente sconosciuta.

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Vidi una giovane donna, una ragazza mora e minuta seduta in una stazione ferroviaria. Aveva più o meno l’età e l’aspetto di una studentessa universitaria. Era seduta lontano dai binari, come se il suo treno non fosse ancora prossimo a partire. Con movimenti incerti trafficava nella borsa alla ricerca di qualcosa. Ne estrasse un fazzoletto e si asciugò il viso. Solo allora mi resi conto che doveva aver pianto. Forse stava ancora un po’ piangendo. Non la vedevo bene. C’era come una strana foschia. Un uomo in piedi, poco lontano da lei, la guardò. Sembrava aver notato il gesto. Le si avvicinò e le rivolse la parola sfrontatamente: − Un sogno infranto rivela al suo interno un sogno più bello – affermò provocante. La ragazza alzò gli occhi lucidi su di lui. Avrebbe potuto non guardarlo e non rispondergli, ma fece entrambe le cose: − Cosa ne sapete voi dei sogni? − Molte cose. Io sono il re dei sogni. La ragazza sorrise a quella vanteria grottesca ed esagerata. − Certo – lo derise – come ho fatto a non riconoscervi! Voi siete certamente il nobile Oberon. − Se voi lo desiderate, lo sarò e non solo per una notte d’estate – rispose lui galante, con un lieve ghigno, e poi, dopo un attimo di silenzio, aggiunse – ma dovrete guadagnarvi questo privilegio venendo con me a bere un caffè – le porse il braccio. La ragazza si alzò, raccolse la borsa e con l’altra mano s’appoggiò a lui che l’accompagnò al bar poco distante. Poi il sogno si fece confuso e non ricordo altro. Risvegliandomi mi chiesi perché li avessi sognati e chi fossero quei due, ma dato che non avevo una risposta, finii per non pensarci più. Solo il giorno dopo mia moglie e io tornammo a parlare di Elena. Era venerdì mattina. Giovanna beveva il suo chai-latte al tavolo di cucina. Lo avevo acquistato nel mio ultimo viaggio a Londra. A

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Giovanna piaceva molto. Io mi stavo preparando per uscire e andare al lavoro – L’ho sognata, Paolo – mi fulminò mia moglie con la tazza in mano. – Chi? – chiesi io, sebbene sospettassi la risposta. – La tua bambina. – Ci stiamo facendo suggestionare tutti… − mormorai, facendo mezzo passo indietro, in un vano tentativo di fuga mentale. – Non era un sogno normale. Era… era così vera… Non saprei descriverla. Non saprei dirti neanche se avesse i capelli biondi o neri. La sentivo, lì, nel sogno, eppure era come se ne fosse fuori, come se fosse… vera. Eppure era lì. Stranissimo. Pareva… – …reale – mormorai con un fil di voce. – Sì, ecco: reale. Eppure sembrava anche chiaramente parte del sogno. In quel momento stavo sognando altro, non ricordo più cosa. E lei è apparsa. Pareva che… pilotasse il sogno, che fosse lei a decidere cosa dovevo sognare. – Ti ha spaventato? – Un po’… ma non era un incubo, anzi. Era tutto così strano, però. Mi stupisce non essermi svegliata di soprassalto. Era come se lei non volesse che mi svegliassi ed era come se volesse avvertirmi di qualcosa. Qualcosa che riguardava te. Non ho capito. Rimasi ad ascoltarla esterrefatto, senza sapere cosa dire. Sentivo che mia moglie stava esprimendo le stesse sensazioni che avevamo provato sia io, sia probabilmente nostra figlia. Aveva ragione, quella bambina sembrava pilotare i sogni. Andai al lavoro, ma trascorsi tutta la giornata in stato d’agitazione. Ero distratto. Non vedevo l’ora che fosse il giorno dopo, sabato, per andare a trovarla. Tutto sembrava andare a rilento. Il computer stentava a passare da una pagina all’altra e non si connetteva, i clienti si attardavano in chiacchiere inutili, i

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colleghi non facevano che sottopormi problematiche inesistenti o che non mi riguardavano. Poi, finalmente, la giornata finì e scesi in strada. Le zaffate di polveri sottili, particolato, idrocarburi incombusti e ossidi d'azoto mi parvero aria fresca di montagna in confronto a quella dell’ufficio, satura di stress e mobbing. Ero finalmente fuori. La sera, prima di andare a dormire, distraendo Giovanna dal cinquanta pollici davanti al divano del salotto, le riparlai brevemente di Elena, giusto per organizzare la visita. Decidemmo di andare solo noi due. Senza coinvolgere Laura. Non volevamo farle venire strane fantasie. Ci sembrava già troppo coinvolta in una storia da cui persino noi adulti, io in particolare, ci stavamo facendo prendere in modo eccessivo pur senza capire quali fossero le nostre intenzioni e che futuro potesse avere la cosa.

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6 - LO SCONOSCIUTO ONIRICO

Demetrio: «Ma siete proprio certi d’esser svegli? O forse siamo ancora addormentati,

e quello che vediamo è tutto un sogno?» (Sogno di una notte di mezza estate - William Shakespeare)

Eccomi salire in cima a una collina. C’era un vento fresco che agitava l’erba tutto attorno, come un mare verde in salita. Mi sentivo tranquillo e rilassato. Il cielo era limpido e azzurro. In lontananza scorsi come una piccola nuvola nera. Mi voltai a guardarla, cercando di capire se si avvicinasse la pioggia. Veniva velocemente nella mia direzione. Non portava acqua e non era una nuvola di smog. Erano uccelli. Uno stormo di uccelli dalle lunghe ali nere. Forse corvi. Sì, mi parevano corvi. Riempirono l’aria con il loro gracchiare. Erano tanti. Tantissimi. Oscurarono il cielo. Volteggiavano ovunque senza scendere mai verso terra. Inquieto, presi a camminare in direzione del sentiero, deciso ad allontanarmi da lì. Lo raggiunsi. Era una stradina di sassi bianchi, che correva in mezzo ai prati. Sembrava condurre a una torre lontana. Scura contro il cielo. Il vento era aumentato e ora soffiava con forza, mentre i corvi volteggiavano da ogni parte. Non c’erano alberi o montagne in vista. Vedevo solo prati, corvi in cielo e ghiaia sotto di me. Verde, nero, azzurro e bianco. Continuavo a camminare. In fondo alla strada scorsi una piccola sagoma. Era ferma nel mezzo. Non avanzava. Mi avvicinai più rapidamente di quanto pensassi fosse possibile e la riconobbi. Era Elena. – Non devi sognare Maria − mi disse e subito i corvi presero a volteggiarmi più vicino. Uno dopo l’altro mi passarono davanti al viso, fissandomi con i vuoti occhi neri e minacciandomi con i becchi acuminati, mentre il frullare delle loro ali mi riempiva le orecchie.

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– Non sono io a decidere i miei sogni – protestai, cercando di difendermi con le braccia da quel volteggiare minaccioso. – Perché? − chiese la bambina e il suo stupore sembrava sincero e dolorosamente profondo. – Perché le persone non possono decidere i propri sogni. – Non è vero. Non sognare la donna cattiva. I corvi s’avventarono su di me in un vorticare tempestoso di affilate penne nere, artigli acuminati e becchi aguzzi. Mi parve che alcuni fossero cavalcati da minuscole fate dagli occhi infuocati e dallo sguardo tagliente. Sentii una risata che derideva la mia ignoranza dell’eterno e dell’infinito. Intuii la presenza di creature ancestrali nelle viscere della terra. Esseri dalle forme inimmaginabili che premevano dagli abissi di pietra e magma sotto i miei piedi per emergere e tornare a dominare il tempo. Sentii la nullità del mio passaggio mortale nel mondo degli uomini. I corvi mi avvolgevano. Mi svegliai prima di essere travolto. Quando sopraffatto dalla stanchezza finalmente mi riaddormentai, tornai a sognare la ragazza mora. Era ancora in compagnia del tipo che l’aveva abbordata nel sogno precedente. Erano in un bar e chiacchieravano. Non avevano lasciato la stazione e si sentiva il rumore dei treni che arrivavano e partivano. Alle loro spalle un piccolo LCD trasmetteva una partita di campionato, ma non lo guardavano. I loro boccali avevano solo un residuo schiumoso di birra. Evidentemente non c’era stato nessun caffè oppure il suo tempo era già scivolato via, per cedere il passo a bibite più impegnative. − Come ti chiami? – stava chiedendo lei. − Oberon – insistette lui. − Il tuo vero nome, intendo. Quello è il nome che ti ho dato io. Lascia stare Shakespeare. Come ti chiamava tua madre… per esempio? – scherzò senza allegria.

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− Mia madre? Non ne ho mai avuta una – la gelò – sono figlio di una stella e del magma o forse di un demone e di una fata. Lei abbassò lo sguardo confusa, forse persino un po’ offesa da quella risposta all’apparenza improbabile. − Quell’uomo non ti meritava – cambiò argomento lui, confondendola ancor più. − Di quale uomo parli? − Di quello per cui stavi piangendo. − Non piangevo… − tentò di difendersi. − Un uomo senza carattere − insistette − che non ha neppure avuto la forza di trattenerti quando l’hai lasciato e che si è perso una simile fortuna: una ragazza bella, sensibile e intelligente. − Non volevo… non volevo essere trattenuta… ma cosa dico? Di cosa parlo? Cosa ne sai tu? Perché parlo con te? Non so neppure chi tu sia, figlio delle stelle. − Io conosco tutti i tuoi sogni e anche i tuoi incubi. − Sei uno sbruffone! – protestò – Non conosci nulla. − Io conosco anche il tuo futuro. − L’hai letto in un sogno? Pensi forse che i sogni possano predire il futuro? − Lo conosco perché il tuo futuro sono io – la placcò romantico. − Tu? Cosa pensi di avere a che fare, tu, con la mia vita? − Tutto. La tua vita mi appartiene. La mia vita ti appartiene. − Sembra una proposta… − È una certezza. − Lo sarà per te. Io neppure ti conosco. − E lui lo conoscevi bene? − Sì, certo… − esitò. − Eppure alla fine era diverso da come credevi. Io non potrò essere diverso. Io sono così. Sarò sempre così.

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− Così? Così come? Non so nulla di te. Neppure il tuo vero nome. E magari ora mi dirai anche che mi ami? − Certo: ti amo e anche tu mi ami. Ti amo come si ama il proprio destino. O forse ti odio così tanto da non poter fare a meno di te. Questo è l’amore più grande e sincero. Non c’è sincerità tra gli amanti. Solo tra chi si odia. − Mi ami? Bella presunzione, detta da uno sconosciuto a una sconosciuta. Mi odi? Perché allora non mi lasci stare? Cosa vuoi da me? Non sai neppure chi sono. − Abbiamo tutto un futuro davanti per conoscerci. Io di te però ho già sognato tutto. − Tutto? Conosci tutto di me? Sei proprio un buffone. Dimmi almeno il tuo nome. Pretendi di sapere ogni cosa di me e non vuoi che io sappia nulla di te. Come potrà mai esserci qualcosa tra di noi? Come potrà esserci un futuro, se non hai un passato e neppure un presente? − Il mio nome è quello che mi hai dato tu: Oberon. Io sarò sempre quello che tu vorrai io sia. Sarò il re dei tuoi sogni. − Allora torna dalla tua Titania. Risvegliandomi mi chiesi come mai fossi tornato a sognare l’incontro tra questi due sconosciuti. Non mi pareva un sogno come gli altri. Sembrava troppo vero. Un piccolo film. Doveva avere qualcosa a che fare con Elena, ma ancora non capivo cosa. Di sicuro, per un motivo inspiegabile, mi avevano messo addosso il desiderio di rivederla. Erano sogni che sempre mi riconducevano con la mente verso di lei. Erano sogni che non mi davano riposo. Un’altra notte come quella e i miei nervi ne sarebbero usciti a pezzi.

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7 - SECONDA VISITA

Il sogno è l'infinita ombra del Vero (Alexandros – Giovanni Pascoli)

Quella mattina, anche se era sabato, mi sentivo particolarmente insofferente. Aprii la lavapiatti e presi un cucchiaio per fare colazione. Ancora una volta Giovanna l’aveva montata male! C’era il coperchio di una pentola che ostruiva il getto dell’acqua. Era tutto da rilavare. Ero irritato. Mi trattenni a stento dal mollare un pugno sul coperchio della lavapiatti. Sbuffando presi un cucchiaio dal cassetto. Si cominciava male. In salotto c’era un gran disordine. Un plaid avvoltolato su una poltrona. Una tazza usata. Pantofole abbandonate. Riordinai di malumore. Possibile che Giovanna dovesse lasciare sempre tutto in giro? C’era qualcosa che affrontava con impegno? La vedevo sempre più distratta. La nonna arrivò verso le dieci. Mia suocera, come al solito, era carica di sacchetti. Aveva sempre qualcosa da portare avanti e indietro da casa sua a casa nostra e viceversa, tipo verdure bollite e minestroni o golf e fazzoletti della bambina. Quella volta portava un paio di litri di passato di verdure. Già sapevo che sarebbe finito almeno per metà nel secchio della spazzatura. Laura, infatti, non ne mangiava, mentre io e mia moglie ne consumavamo pochissimo. Sarebbe certo andato a male prima che riuscissimo a finirlo. Come sempre. Il solito spreco! Erano anni che lo dovevo sopportare. La casa dovrebbe essere un luogo dove sentirsi rilassati, ma non era così per me. Giovanna e io salutammo Laura e uscimmo con le solite raccomandazioni: – Non guardare troppa TV e obbedisci alla nonna. Rispose: – Va bene. – che nel suo gergo da figlia unica voleva dire: «La guarderò finché ne avrò voglia e obbedirò, se la nonna mi dirà di fare qualcosa che mi va».

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Prendemmo la metropolitana, che era il mezzo più comodo per arrivare all’orfanotrofio. Sedevamo l’uno accanto all’altra. Davanti a noi un signore anziano leggeva “La vita è sogno” di Calderon de la Barca. Fissai per qualche istante la copertina rossa del libro e cominciai a interrogarmi, riflettendo su quel titolo. Mi chiesi se, piuttosto, non fosse il sogno a essere la vera vita. Non era forse vivere anche il nostro muoverci in sogno? Quando sogniamo non siamo a volte assai più noi stessi che quando ci muoviamo da svegli, non siamo più liberi da inibizioni e convenzioni? Da bambino ricordavo che i sogni venivano da soli. Da adulto mi pareva di averne un maggior controllo. Di riuscire in parte a orientarli. Erano fantasticherie volute. Vite immaginarie. Eravamo in grado, in qualche modo, di controllarli? Quanto erano veramente spontanei? Che differenza c’era tra i sogni dei bambini e quelli degli adulti? Non tanto per i loro contenuti, le cui differenze sono note, quanto per la capacità degli uni e degli altri di gestirli. Quando una fantasticheria da dormiveglia (su cui abbiamo un certo controllo) si trasforma in un vero e proprio sogno (che dovrebbe essere controllato solo dal nostro inconscio)? Mentre riflettevo così, l’anziano lettore alzò gli occhi dal libro, mi fissò per qualche istante, mosse le labbra come se volesse dirmi qualcosa, poi scosse la testa, riabbassò gli occhi e tornò a leggere, mentre la sua testa continuava a oscillare debolmente da destra a sinistra e viceversa, come in una reiterata negazione. Un po’ perché ero ancora indispettito dal caos in cui si trovava costantemente la nostra casa e dall’indifferenza con cui Giovanna affrontava la cosa, un po’ perché non mi fa piacere parlare in un ambiente pieno di estranei, mia moglie e io non parlammo quasi per tutto il tragitto ed io continuai a cullarmi in simili riflessioni, un po’ patologiche. I nostri corpi erano vicini, ma non ci toccavamo. Eravamo entrambi coscienti di stare per fare qualcosa d’importante. Qualcosa che avrebbe cambiato le nostre vite. Mia

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moglie non lo disse, ma sapevo che anche lei provava simili sensazioni. Era solo una visita, ma era come se fosse qualcosa di più. I nostri rapporti non erano più quelli di una volta e lo sapevamo entrambi. In nessuno dei due c’era una precisa volontà di tornare al passato, però eravamo consapevoli di avere ancora un futuro da costruire assieme. Un futuro da cui nessuno dei due pensava di fuggire. Le scelte di vita sarebbero state scelte comuni. Sebbene avessimo entrambi la sensazione di essere a un punto di svolta, a livello razionale e cosciente cercavamo entrambi di non dare peso alla cosa: stavamo solo andando a trovare una piccola orfana bisognosa d’affetto. Un piccolo gesto di generosità. Nulla di più. Eppure, nel subconscio, l’idea dell’adozione lavorava. Era come se quella bambina mi fosse entrata nel cervello e si fosse messa lì a sedere, buona buona, ma nel contempo impossibile da ignorare. Ingombrante. Era una sensazione simile a quella che si potrebbe provare lavorando in ufficio, mentre una bambina, seduta immobile in un angolo, ti fissa ininterrottamente. Impossibile non rivolgerle almeno uno sguardo. Impossibile non sorriderle almeno una volta. Gli ultimi sogni m’inquietavano. Le mie fantasie notturne con Maria non erano certo un problema. Ritenevo che alla luce del giorno non sarebbero riaffiorate. Mi illudevo fossero normali fantasie elaborate da una libido forse un po’ repressa, ma perfettamente sotto controllo. Quello che mi preoccupava era l’intrusione di Elena. Avevo la sensazione che la bambina davvero conoscesse le mie fantasie e che, per qualche strano motivo, le considerasse reali. Così come lei entrava nel sogno con una sua corporeità, così, immaginavo, forse leggeva i nostri sogni come qualcosa di vero, di appartenente a questo nostro mondo di carne e sangue. La sensazione era che riuscisse a leggere se non i miei pensieri, almeno i miei sogni. E forse anche quelli del resto della mia famiglia. Anzi, che addirittura in questi sogni ci vivesse! Pazzesco. Irrazionale!

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Era come se Elena, intromettendosi nei miei sogni, volesse impedirmi di immaginare una possibile fuga extraconiugale, come se difendesse l’integrità di una famiglia, che non era neppure la sua, ma che, altrettanto stranamente, considerava propria. Forse erano solo mie fantasie. Forse lei non c’entrava per niente e la sua immagine era solo una strana forma di censura onirica, che la mia mente faceva sembrare dotata di eccezionale corporeità. Era qualcosa che stava succedendo solo nella mia testa? Incontrare Maria, che ci accolse con grande gioia e simpatia, mi mise quindi a disagio, anche se non ne avevo motivo. Era come se quelle che erano solo fantasie notturne, fossero state trasformate da Elena in qualcosa di più. Ridussi al minimo la conversazione con l’assistente sociale e le chiesi subito di vedere la piccola. Quando entrammo nella stanza dove giocavano i piccoli orfani, mia moglie fece un cenno con la testa per indicare una bambina che se ne stava seduta in un angolo con una bambola. La solita bambola, direi. La sua Lolla, immagino. E, come l’altra volta, la reggeva in mano distrattamente, in orizzontale, come una donna potrebbe tenere una borsetta, non come una bambina con un giocattolo, non come se la bambola avesse per lei una sua vita immaginaria. Un oggetto inanimato. − É lei? – mi chiese Giovanna. La sua mi parve più un’affermazione che una domanda. − Sì – rantolai. Quasi non mi stupiva che fosse riuscita a riconoscerla, come una novella Giovanna D’Arco che riconosce il Delfino di Francia seppure mascherato. Vedere che la individuava così facilmente, però, mi tolse il respiro. Ognuno di questi particolari confermava in me la convinzione che ci fosse qualcosa di molto strano in Elena. Mi vennero in mente le teorie ottocentesche sul magnetismo e l’ipnotismo, di cui avevo letto recentemente in alcuni racconti di Guy de Maupassant, secondo cui alcune menti hanno il potere di influire su altre,

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determinandone i comportamenti o stabilendo comunicazioni a distanza. Se Giovanna l’aveva riconosciuta doveva essere perché l’aveva davvero già vista in sogno. Le mie descrizioni non avrebbero potuto esserle sufficienti. Eppure a volte riconosciamo una persona di cui abbiamo solo sentito vagamente parlare. Forse fu così, per esempio, anche per Giovanna D’Arco quando riconobbe Charles di Valois nascosto in mezzo ai dignitari della corte. La bambina se ne stava da sola, ma non pareva triste. Era come se avesse tutto un mondo dentro con cui giocare. Come se questo le bastasse e non avesse bisogno di giocare. Era un mondo, però, con un grande vuoto da colmare. Questo lo sapevo. Ci vide subito e mi corse incontro. Pareva persino più contenta dell’altra volta. Mi abbracciò. Poi guardò mia moglie. − Sei la mia nuova mamma? – le chiese subito. Giovanna sussultò e vidi che gli occhi le s’inumidivano. − Sono la moglie di Paolo – rispose, nel classico modo con cui un adulto cerca di non rispondere a una domanda diretta e imbarazzante di un bambino. Perché quella bambina ci aveva adottati come famiglia? Perché proprio noi? Solo perché le ero capitato sottomano in un momento in cui aveva bisogno d’aiuto ed ero stato disponibile? Dovevamo portarcela a casa come si porta a casa un gattino sperduto, che si sia messo a seguirti per strada? Una bambina non è un cucciolo. Eppure era quasi così. Era stata lei ad averci scelto. − Quando lei è qui Elena diventa un’altra: sembra felice – osservò Maria. – La sua presenza le fa bene. Non dico sia una bambina triste, ma se ne sta sempre per conto suo. L’unica persona che le interessa, oltre sua madre, sembra sia lei. Era tutta la mia fantasia o, davvero, negli occhi di Maria c’era stato una specie di lampo a sottolineare quell’ultima frase, quasi che volesse comunicarmi che anche lei era interessata a me? Si era

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davvero impercettibilmente protesa verso di me, come mi era parso? Decisi che doveva essere solo l’immaginazione, probabilmente favorita dal sogno notturno, che mi aveva portato a vederla diversamente da come fosse. Cosa mi interessava del resto? Non ero certo più un ragazzino a caccia di conquiste. Maria mi prese per il braccio e ci accompagnò fuori. Ancora una volta ebbi la sensazione che quel contatto fosse voluto, che sottintendesse altro, che riservasse in sé la promessa di altri contatti. Poco importava che con l’altra mano avesse preso anche il braccio di mia moglie. Poteva essere solo un gesto per dissimulare l’altro, per ingannare mia moglie e non farle notare il tentativo d’intimità. Fantasie adolescenziali: lo sapevo. Maria era fatta così, mi dissi. Quel gesto per lei era del tutto normale e senza alcun sottinteso. La mia razionalità ne era perfettamente cosciente, anche se il mio cuore ignorava la logica e sembrava preferire la lettura di maliziosi sottintesi nei piccoli gesti. Quando uscimmo da quella stanza, mia moglie disse solo: − Va bene. Avrei voluto chiederle: «Va bene cosa?» In quel momento avevo in testa più Maria di Elena e non afferrai subito l’oggetto della frase. In realtà, però, conoscevo già la risposta e, riprendendomi in tempo, riuscii a non farle domande inutili. Tornammo da Maria che ci accompagnò ad avviare la pratica per l’affido temporaneo. Mi sentivo come stregato e mia moglie mi pareva in una condizione non dissimile. Non capivo bene quello che stavo facendo. Mi pareva fossimo in una sorta di trance. − Verrò a trovarvi per vedere come sta la bambina – promise Maria alla fine e, ancora, mi parve di cogliere, nelle sue innocue parole, un’altra, diversa, promessa. Nelle settimane seguenti fummo sottoposti ad alcuni controlli, presentammo i documenti richiesti e, dopo qualche tempo, ci

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arrivò la telefonata di Maria. Aveva la voce allegra. Mi pareva di vederla sorridere. Percepivo quasi le sue labbra carnose accanto al mio orecchio, oltre la cornetta. Fu un sollievo sentirla. Forse di più: devo dire che aspettavo con ansia di sentire la sua voce. − É tutto a posto. Quando volete, potete venire a prenderla. Era stato tutto, per certi versi, velocissimo e, per altri, interminabile. Fu velocissimo, perché quando arrivò quella telefonata, che ci catapultò nella nuova realtà, non avevamo ancora assimilato l’idea di avere Elena in casa con noi. Fu interminabile, perché ogni controllo, ogni documento da produrre ci pareva non arrivare mai, ci pareva allontanare la conclusione di quella storia. Eravamo quasi in ansia a lasciare ancora la bambina da sola in orfanotrofio, anche solo per poche ore. Cominciavamo a sentirla come nostra e ci pareva assurdo esserne tenuti lontani solo da lungaggini burocratiche. Fu interminabile anche perché avrei voluto rivedere prima Maria. A dir il vero un paio di volte avevo provato a cercarla, ma invano. L’obiettività, però, non è qualcosa che riguardi questa storia: la pratica, in realtà, si svolse con una discreta celerità. L’affido non è, infatti, una vera adozione. La bambina aveva ancora dei nonni, per quanto invalidi, che erano la sua vera famiglia e dai quali l’avremmo portata periodicamente in visita. Mi chiesi se avrei ora avuto pace nei miei sogni, ma già qualcosa dentro di me mi diceva che non sarebbe stato così e ne ebbi prova la notte stessa. Eccomi quindi in sella a un grande cavallo dal manto scuro. In lontananza, vicino a una torre antica, un uomo in nero si allontanava galoppando. Mentre cavalcavo il mio stallone nero attraverso la prateria, che si estendeva da est a ovest per vuote incommensurabili miglia, scorsi una mandria sconfinata di bufali, più numerosi delle stelle della galassia di Andromeda. Lanciai il cavallo al galoppo e raggiunsi gli animali, che si spostavano in corsa da un pascolo

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all’altro, sollevando nugoli di polvere cosmica, che si sollevava fino a oscurare il cielo. Il sole dardeggiava allo zenit. I pianeti rotolavano invisibili lungo le loro ellissi. Raccolsi la mandria e la guidai verso un recinto lontano, che avevo predisposto appositamente. Lunghe staccionate d’abete costruite con legna discesa dal grande nord su lente chiatte solitarie. Una giovane squaw richiuse il cancello e lasciò la mandria a roteare su se stessa in quel nuovo universo, tanto più ristretto per loro. Smontai e l’abbracciai. La ragazza mi sorrise e mi gettò le braccia al collo. La possedetti con impeto e, pochi attimi dopo, partorì una nidiata di bambini, che stentavamo a contare e presero a correre per tutta la fattoria, sciamando incessantemente dal centro delle sue gambe scure e forti. Non riuscivo a vederli in volto. Avrei voluto capire se mi somigliavano, se erano davvero figli miei. Ne rincorsi uno e l’afferrai, sollevandolo da terra. Lo rigirai per guardarlo in volto e vidi con orrore che aveva un viso da bisonte. Sconvolto, lo lasciai cadere al suolo e subito fuggì via muggendo. Provai con un altro bambino e ancora una volta scorsi sul suo viso gli stessi lineamenti belluini. E così ogni volta, con crescente raccapriccio, in un moto che avrei voluto arrestare, ma che non potevo interrompere, finché sollevai l’ultima bambina e, finalmente, aveva tratti umani. Fu però quest’ultima a spaventarmi più di tutti gli altri. Non mi somigliava e non somigliava alla giovane squaw, di cui, m’accorsi, peraltro, di non ricordare i tratti. Aveva un volto che ben conoscevo. Feci cadere anche lei a terra, ma questa bambina non fuggì raspando il terreno come avevano fatto gli altri. Aveva l’aspetto di una bambina di quattro anni, sebbene sapessi fosse stata appena concepita e partorita. Aveva dei capelli biondi ondulati. Era Elena. Cadde al suolo diritta come un fuso. Dritta sulle sue gambe. Rimase a fissarmi senza parlare o allontanarsi.

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Mi guardai attorno e non vidi più gli altri bambini dal volto di bisonte, non c’erano più neppure i bisonti nel recinto. Ero, invece, circondato dagli indiani fasulli dell’Isola che Non C’è. Uno di loro, il più piccolo, aveva la testa d’asino. Sentivo il bisogno di destarmi, ma non mi riusciva. – Voglio svegliarmi – urlai, ma Elena mi rispose che non potevo. – Perché? – Perché il sogno non è finito. Perché non vieni a prendermi? – É complicato da spiegare, ma stiamo venendo. Ho dovuto chiedere dei permessi. Verremo presto a prenderti e potrai stare con noi. – Domani? – Presto. – Presto quanto? – Non lo so. Non ti preoccupare. Non venirmi a dis… non visitarmi in sogno. – Perché? – Perché non è bene. Ognuno deve stare nei suoi sogni. Non si deve far fare i propri sogni agli altri. Fatta in sogno, quella conversazione mi pareva quasi razionale. La bambina non aggiunse altro. Il sogno si riempì di bambini in pelliccia, i Bambini Perduti, che presero a sciamare ovunque, scacciando gli indiani a calci e pizzichi. Poi la terra tremò, come sottoposta dal basso a una pressione insopportabile, un’energia che non era quella della lava o dei moti tettonici, un’energia che immaginai appartenere alle creature lì imprigionate, esuli da un tempo indefinito, lontano ere da noi. A quel sommovimento Elena sparì e, finalmente, riuscii a svegliarmi.

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8 - A CASA

C'è nei sogni, specialmente in quelli generosi, una qualità impulsiva e compromettente

che spesso travolge anche coloro che vorrebbero mantenerli confinati nel limbo innocuo della più inerte fantasia.

(Alberto Moravia)

− Verrai a stare un po’ da noi – dissi a Elena il giorno dopo, quando andai a prenderla. La bambina ne fu felicissima. Le avevano già preparato la valigia. Raccolse la sua Lolla, la bambola ad assetto orizzontale, e mi diede la mano, fiduciosa e serena. Non credo avesse afferrato il significato della delimitazione temporale un po’. Per una bambina di quell’età il tempo è ancora un concetto vago e io ero stato piuttosto impreciso. Io stesso non sapevo per quanto sarebbe rimasta da noi. Il futuro era una nebulosa indistinta e lontana. Andando via, la piccola accettò persino un bacio da Maria, la donna cattiva, che volle baciare anche me sulla guancia. Ricambiai con tutto il trasporto che un simile bacio può consentire. Un attimo dopo mi sentii molto stupido per l’emozione provata. Caricai la valigia della bambina nel portabagagli, misi a sedere Elena sul seggiolino posteriore e avviai il motore. Maria ci salutò dal marciapiede, incorniciata dallo specchietto retrovisore, quasi fosse già diventata una foto ricordo. Probabilmente non l’avrei più rivista per molto tempo, pensai. Poi mi ricordai delle visite che aveva promesso di fare per controllare la bambina. Probabilmente, però, le avrebbe fatte in orari in cui io sarei stato al lavoro. Storsi la bocca. Ci allontanammo. La sagoma di Maria che agitava la mano verso di noi, mi rimase a lungo impressa in mente, come l’ombra di un logo che abbia segnato lo schermo del televisore. La piccola canticchiava a bassa voce una canzoncina senza parole e guardava fuori dal finestrino la strada che le scorreva accanto in

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una lunga teoria di palazzi, lampioni, insegne pubblicitarie, auto in sosta e in movimento: la nostra giungla quotidiana. Avevamo deciso di farla entrare in casa in un momento in cui Laura fosse stata a scuola. In questo modo avremmo potuto gestire separatamente il momento dell’ingresso in casa e quello dell’incontro con nostra figlia. Due momenti ciascuno con le proprie problematiche, che volevamo tenere separate. Giovanna venne ad aprire la porta, si chinò a baciare la bambina, che le gettò le braccia al collo, come se l’avesse sempre conosciuta. Mia moglie si emozionò, anche se cercò di non farlo vedere. La soccorsi, portando via la piccola, mentre lei si asciugava una lacrima. − Ti va di vedere la cameretta dove dormirai? − Sì. Il nostro era solo un normale appartamento, ma abbastanza grande da poterci permettere due stanze per i bambini. La casa ci costava due mesi di stipendio per ogni metro quadro, sborsati in rate di mutuo semestrale a tasso variabile. Senza la sovvenzione familiare dei rispettivi genitori, con gli attuali prezzi di mercato, staremmo a dormire sotto un ponte. La sua stanzetta valeva quasi due anni di stipendio: un piccolo lusso, di questi tempi! E poi dicono che gli italiani non fanno più bambini! C’eravamo chiesti se non mettere Elena in camera con Laura, ma non volevamo invadere subito il suo spazio. Decidemmo così di aggiustare la stanza in cui, fino a quel momento, avevo una sorta di piccolo studio per me. Quando comprammo la casa, avevamo pensato che potesse essere la stanza per un secondo bambino. La ripristinammo, dunque, al suo scopo originale. Io avrei trovato altri spazi per le mie cose. Del resto lavoravo sempre fuori. Quello studio mi serviva solo per sbrigare la gestione della casa e poco altro. I tempi erano stati stretti, per cui la camera l’avevamo aggiustata come si poteva. Cercammo di ingentilire la stanzetta con un paio di poster e qualche peluche che Laura non usava più. Giocattoli

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non ci mancavano. Laura era sempre stata sommersa di regali da tutti, come i tanti figli unici della sua generazione. Eravamo abbastanza consapevoli di viziarla un po’, ma non eravamo capaci di non farlo. Forse ne avremmo pagato le conseguenze più avanti, ma ci piaceva farle avere tutto ciò che le serviva o poteva farle piacere. Così del resto si comportavano anche i genitori di altri bambini che conoscevamo. − Ti piace? – chiesi a Elena, mostrandole la sua nuova cameretta. − Sì – rispose. Era proprio una brava bambina. Tutto le andava bene. Mi pareva tanto autonoma e matura. Laura non aveva mai giocato da sola come, invece, faceva Elena. Che cosa avrebbe fatto nostra figlia Laura, se fosse rimasta orfana? Non pareva capace di allontanarsi da noi. Io credo che avrebbe pianto per giorni. Il solo pensiero mi turbava. Elena, invece, no. Pareva sempre serena, anche se era evidente che qualcosa le mancava dentro. Il suo stesso attaccarsi a me, ne era un segno. Si manteneva, comunque, allegra e positiva. Si mise a esplorare la nuova stanzetta e i giochi che avevamo lasciato là per lei. Era curiosa e felice più di quanto mi aspettassi. Vedendola così, non mi pareva potesse esserci alcuna connessione tra lei e la bambina che s’intrufolava nei nostri sogni. Elena era normalissima e il suo carattere, di giorno, era del tutto diverso da quello della bambina dei sogni. Questa chiedeva e pretendeva. Lei, invece, accettava tutto, era sempre contenta, non reclamava nulla. Condividevano solo l’aspetto fisico. Quando Giovanna riportò a casa Laura, Elena le corse incontro e abbracciò anche lei. Anche Laura parve contentissima di vederla. La mamma le aveva detto di Elena lungo la strada dalla scuola e, quando arrivò, nostra figlia non stava nella pelle dall’eccitazione. Laura guidò Elena a conoscere la casa e si misero subito a giocare. Parevano due sorelle che fossero sempre state assieme ed Elena sembrava aver sempre vissuto in casa con noi.

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Vedendole così felici assieme, mi parve proprio che avessimo fatto la cosa giusta. Se ne esiste una. Nel pomeriggio, consumammo tutti e quattro assieme il rito infantile dei giardinetti. Mia moglie e io guardavamo, scomodamente seduti su una panchina sconnessa, le due bambine giocare in una di queste piccole gabbie a cielo aperto che a volte abbiamo l’ardire di chiamare parchi e in cui siamo soliti far trascorrere l’ora d’aria ai nostri cuccioli urbani. Mentre eravamo lì, pensavo al senso e al futuro della scelta che avevamo appena compiuto. Se apprestarsi ad avere un figlio proprio può preoccupare, la scelta di gestire il futuro di un bambino adottivo (o in affido, che fosse), in qualche modo, mi pareva ancor più pesante. Avrei voluto parlarne con Giovanna, ma ogni mio tentativo di intavolare una discussione veniva interrotto da qualche telefonata di lavoro o dallo squillo pigolante di qualche SMS importuno. Ben tre volte mi chiamò quel rompiscatole barocco di Luca, con le sue frasi post-moderne tipo: – Allora, Paolo, attendo la tua green light per il briefing post week end di domani sul breach dei covenants della target con i colleghi che seguono i key clients e i partners della SGR. Mi raccomando, perché abbiamo una timeline molto stringente. Temo ci sia anche da rivedere il security package e prevedere un nuovo hedging. Un equity injection penso che sarebbe imprescindibile con un current trading come quello che ti ho circolato in attach nella mail di ieri. Potevo tollerare che mi parlasse a quel mondo durante la settimana, ma sentirlo baroccheggiare di domenica m’irritava alquanto, soprattutto perché non c’era alcun motivo di parlare di quelle cose senza aspettare il ritorno al lavoro. Faticai a non trattarlo male, ma il risultato fu che non riuscii a scambiare due parole utili con mia moglie. Rientrando a casa, comprammo una bella torta per festeggiare a cena l’arrivo di Elena. Che il dolce piacesse a Laura ne eravamo

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certi. Anche Elena la gradì, cosa che non davamo tanto per scontato. Quando eravamo piccoli noi, non c’era bambino che non accogliesse con entusiasmo qualsiasi dolciume. La generazione di Laura era diversa. Troppo spesso avevo visto le sue amichette rifiutare dolci o gelati. Ancor più spesso li avevo visti lasciare, devastati, nei piatti. I bambini di oggi sono talmente sommersi di cose buone da mangiare, che hanno perso qualsiasi interesse per dolci e leccornie. Lo stesso discorso vale per i giocattoli, che, spesso, destano il loro interesse solo nel momento di aprire la confezione regalo e vengono poi dimenticati in mezzo al cumulo degli altri giochi.

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9 - IL NONNO

Gran parte dei nostri sogni li viviamo con assai maggiore intensità della nostra esistenza da svegli.

(Hermann Hesse) Elena entrò dunque a far parte della nostra famiglia. La iscrivemmo all’asilo dove era stata Laura, accanto alle elementari che frequentava ancora. Le bambine si alzavano, facevamo colazione tutti assieme e le accompagnavo a scuola. Elena accettò di buon grado l’idea di frequentare la materna. Già ci andava l’anno prima, quando la sua mamma era ancora viva. Le parve normale andarci e non si lamentò per il distacco. Il fatto che ora, nello stesso edificio ci fosse anche Laura, sembrava farle piacere. Al ritorno le bambine giocavano tra di loro, senza mai litigare. Questo mi stupiva, perché mi ero aspettato gelosie e attriti. Sapevamo che Elena non era nostra figlia, ma ogni giorno che passava con noi ci sembrava sempre più che lo fosse. Per Laura era diventata da subito una vera sorella. Mi stupiva che la bambina non chiedesse più della sua mamma. Mi pareva impossibile che l’avesse dimenticata. Quale meccanismo mentale l’aveva portata a rimuoverla? Era un bene? Probabilmente era un sistema naturale del cervello per difendersi dal dolore, ma la cosa non finiva di meravigliarmi. Laura per addormentarsi si era sempre accontentata che le tenessi la mano. Elena, invece, voleva che gliela tenessi sulla sua guancia. Vederla così, con gli occhi chiusi, mi ricordò una poesia che avevo scritto da giovane. Allora non pensavo certo a una bambina, ma a una ragazza, però quelle parole mi parvero particolarmente adatte a descrivere quel momento. Andai a ricercare tra i miei appunti di tanti anni prima e la ritrovai, dopo aver rovistato tra un’enormità di cose inutili, persa tra vecchie note e altre vane tracce di un passato ormai cancellato:

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Ragazza sottile sul palmo della mia mano come una ferita lieve. Tra le mie dita, come una farfalla leggera, tra le mie mani, come una perla tra le valve cieche d'una conchiglia. Dei campi di grano la tenera figlia posa sulla mia mano, sulla mia mano riposa del vento la candida sposa e ne son tutto scosso e confuso mentre la guardo, prona su un fianco, pura dormire nel palmo socchiuso della mia mano. Rilessi più volte quelle parole. Scrivendole non avevo pensato si potessero adattare a una bambina, eppure, rileggendole, mi parve esprimessero bene il senso di tenero scombussolamento che mi aveva preso. Elena mi suscitava sentimenti nuovi, che non avevo provato con Laura. Il suo sonno aveva su di me un effetto rasserenante. Dopo un paio di settimane, una domenica, l’accompagnammo all’ospizio dove vivevano i suoi nonni. Una funerea torre nera, che spiccava cupa tra i palazzi più chiari. Due corvi erano posati sul davanzale di una finestra del secondo piano. Nonno Giuseppe non si poteva più alzare e viveva disteso nel suo letto. Nonna Matilde riusciva a camminare, ma era del tutto

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smemorata e stentava a riconoscere la nipote. Mi facevano quasi pensare ai nonni di Charlie ne “La Fabbrica di Cioccolato” di Dahl. Elena era contenta di vederli e pareva volere un gran bene anche a loro. La sensazione era che questa bambina avesse dentro di sé una quantità infinita d’amore e d’affetto da distribuire. – Anche se tu non stai con me – le disse il nonno – ti sogno tutte le notti. – Anche io. E sogno anche mamma – rispose Elena. Il nonno sorrise tristemente. – So che con voi, signor Demetri, si trova molto bene – disse il vecchio rivolto verso di me. La presi per una frase di cortesia, dato che era un’informazione che non poteva avere, essendo la prima volta che lo vedevo e visto che la bambina non poteva certo averlo incontrato da quando era venuta a stare da noi. – Elena me l’ha detto tante volte – aggiunse. Forse non era solo la nonna a essere ormai fuori di testa, pensai – Quando la notte Elena viene a trovarmi mi dice che le piace la sua stanza, con tutti quei peluche, e che si trova molto bene con la sua nuova sorellina. – E tutte queste cose la bambina gliele avrebbe dette in sogno? – Certo. É da quando è nata che viene a trovarmi mentre dormo. – La sogna spesso? Le vuole molto bene, vero? – Non sono io a sognarla. É lei a venire nei miei sogni. È diverso, sa? Questa cosa Matilde, mia moglie, non la accetta. Non riesce a capirlo. Le visite di Elena le hanno scombussolato il cervello. Avete visto com’è ridotta mia moglie? Certo anche prima non era tanto lucida, ma da quando è nata la bambina… Lo guardavo senza più sapere cosa dire. Elena si era messa a passeggiare per la stanza. – Ha visitato anche lei, Signor Demetri, lo so. É venuta a trovarla in sogno. – É vero – dovetti ammettere, mio malgrado, perché questo mi faceva sentire un po’ pazzo – l’ho sognata. Era come se fosse davvero lì. Nel sogno.

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– Era lì. Era lì – annuì il nonno – è proprio lei che viene. Entra nel sogno. Anche mia figlia non voleva capire. Povera ragazza! Non ha mai capito la bambina. Eppure anche lei, da piccola, era un po’ così. Non proprio come Elena. Un po’. Anche mia moglie Matilde non capiva nostra figlia. Quei sogni la turbavano troppo. Io li trovavo piacevoli, in fondo. – Non vorrei essere indiscreto, ma mi chiedevo come sia morta sua figlia? – chiesi, approfittando del fatto che Elena pareva distratta a giocare sul pavimento con la sua bambola. – Non ce l’ha fatta! – sospirò il vecchio, serrando i pugni in fondo alle braccia secche distese lungo il letto. Lo fissai in attesa di una spiegazione più esaustiva, che però non arrivò. Non volli sfidare oltre il suo dolore. In fondo era solo la prima volta che lo vedevo. Non avevo il diritto di frugare così nella sua vita, anche se ora sua nipote viveva con noi. Mi sarebbe piaciuto, però, sapere qualcosa di più della famiglia di quella bambina. Che cos’era successo a sua madre? Magari avrei indagato più avanti.

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10 - APPARIZIONI

…il pensiero umano, se opportunamente indirizzato, è in grado di influenzare e modificare la massa fisica.

(Il Simbolo Perduto – Dan Brown)

Da quando Elena viveva con noi non l’avevo più sognata. Ero in viaggio di lavoro per sistemare un contratto assieme a clienti di Napoli. Avrei alloggiato per tre notti in un hotel sul golfo. Dalla finestra vedevo Castel dell’Ovo, tra il blu del mare da cui sorgeva e il blu del cielo. La prima sera mangiai pizza fritta e friarielli in un locale in Santa Lucia e, dopo una passeggiata sul lungomare, mi ritirai nella mia stanza. Non riuscendo a dormire, uscii di nuovo sulla strada, improvvisamente piena di gente. L’aria era tiepida e piacevole. Uomini e donne passeggiavano senza posa, avanti e dietro, quasi fosse una via più centrale in un’ora di punta. Mi parve di riconoscere anche i miei clienti, anche se mi parve fossero vestiti diversamente e in modo un po’ strano. Provai a salutarli, ma la folla era tale che non riuscii a farmi notare e fui risucchiato via dal movimento delle persone. All’improvviso il mare, nero come il cielo notturno, prese a gonfiarsi. Oltre le teste della gente, si sollevò una grande onda tenebrosa, che avanzò incombendo verso la riva. La folla fu presa dal panico e cominciò a fuggire. L’onda scura e schiumosa stava già per travolgere il castello, che sorgeva poco distante dalla riva e che, nonostante la sua imponenza, pareva un balocco di fronte alla maestosità di quella manifestazione della natura. Fu allora che vidi Elena. D’un tratto mi parve che la massa d’acqua in arrivo perdesse concretezza, quasi diventasse un’immagine su un grande schermo. Le persone scappavano da ogni parte, ma ogni movimento si svolgeva ora nel più totale silenzio. Tra me e il mare c’era Elena. Aveva una concretezza che

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nessun sogno ha mai avuto. Sapevo di stare sognando e che quelle persone che mi correvano attorno erano immaginarie. Lei no. Lei mi pareva reale. Tutto sembrava frutto della fantasia. Solo lei appariva così vera. L’onda, bloccata nella sua avanzata da una strana moviola, si muoveva al rallentatore. Le persone parevano non avere più dei connotati precisi. Solo la nostra orfana era chiara e nitida. Era più una visione che un sogno. Ripensandoci il giorno dopo, mi vennero in mente le persone che dicono di aver visto la Madonna o qualche santo. Non dicono mai d’averla sognata. Loro l’hanno vista! Il sogno dell’onda pareva un film che si svolgesse dietro di lei. Avevo la stranissima sensazione che Elena fosse davvero nella stanza dell’albergo, anche se sentivo e sapevo che non c’era e che la stavo sognando. Del resto non vedevo la camera. Ero lì: sul lungomare impazzito dipinto dal mio sogno. Provavo la sensazione inquietante di fare due sogni in contemporanea. Un’esperienza di cui non ho mai sentito parlare. Elena mi salutò. Non mi abbracciò, né baciò, come era solita fare nella vita reale. Si limitò a un gesto della mano, come se non potesse avvicinarsi. Era una visione dietro un vetro inattraversabile. Alle sue spalle, ce n’era un altro, dietro cui scorreva il film del sogno. Lei stava tra queste due superfici trasparenti. In un mondo suo. Né vera, né sognata. Né lontana, né realmente vicina. Remotissima vicinanza. − Quando torni? – mi chiese teneramente. − Presto – le risposi con affetto. Non c’era nulla di terribile o di spaventoso in quel momento. La situazione era però così strana da turbarmi profondamente. Il mare travolse la folla con calma innaturale, distrusse, nella nostra totale indifferenza, auto in sosta e palazzi. Io e lei volteggiavamo in un non-spazio solo nostro. Oltre la vita reale. Oltre il sogno. Nonostante l’angoscia della scena dietro di lei. Il mare pareva un mostro preistorico, un’oscura essenza liquida e

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massiccia nel contempo, animato da una propria coscienza; una protuberanza di Solaris, un’esplosione vitale del pianeta vivente sognato da Lem. Qualcosa di troppo anomalo, che si muoveva nella mia mente, rovesciandone la razionalità. Quando mi svegliai al mattino, il ricordo era sfumato. Ricordavo di aver sognato Elena ma, a differenza di altre volte, non sarei stato in grado di descriverla nei particolari. Non avrei, per esempio, saputo dire che vestito indossasse. Questo mi convinse che anche la sua presenza fosse stata solo un sogno: è normale non ricordarne i particolari. Anche quel mare autocosciente mi parve solo una mia illusione notturna, forse partorita dalle mie troppe letture fantastiche. La notte successiva Elena tornò a farmi visita. Questa volta pareva più triste e quasi arrabbiata. – Ancora non sei tornato. – Sto lavorando – le risposi – ora non posso venire. Tornerò presto. – Presto quando? – chiese lei. – Tra due giorni – è difficile spiegare il tempo a una bambina. Non meno difficile era spiegare il concetto di lavoro e d’impegno. Farlo in sogno era un’impresa senza speranza. La sua immagine aveva sempre le stesse caratteristiche di corporeità e di sovrapposizione rispetto al sogno normale. Il fatto che non fosse la prima volta che la percepivo così, non ridusse per nulla il mio sbigottimento, anzi, il ripetersi di quella strana sensazione contribuì a turbarmi ancora di più. Mi chiesi persino se non fosse il caso di sentire uno psicanalista. Avevo, però, la netta sensazione che nessun medico avrebbe compreso la natura di quel fenomeno. Mi pareva quasi più materia da medium o veggenti, anche se avevo sempre disprezzato simili soggetti, ritenendo il mondo del paranormale tutta una trappola per prendersi gioco degli ingenui.

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Probabilmente Elena era riuscita a sviluppare delle potenzialità della mente che avevano a che fare con la trasmissione del pensiero e, forse, la telecinesi. Cose che sfuggivano alla mia razionalità. Pensai alle sinapsi. Le mie conoscenze di medicina erano e sono quanto mai limitate, ma credo che i neuroni comunichino tra loro mediante qualcosa di simile a delle scariche elettriche. Nel loro piccolo, era forse una sorta di comunicazione a distanza. Non poteva essere che un gruppo di neuroni o un intero cervello riuscisse a comunicare oltre grandi spazi? Come poteva essere possibile a centinaia di chilometri? Del resto, chi si stupisce più delle onde radio, dei cellulari, della televisione. Se abbiamo sviluppato una tecnologia che consente di far entrare in ogni casa immagini provenienti da molto lontano, perché, allora, in natura non dovrebbe esistere un qualche organismo in grado di fare altrettanto? E perché non dovrebbe essere un cervello umano, dato che abbiamo la presunzione di considerarlo quello più evoluto? Non era, quindi, possibile che l’evoluzione, nella sua continua sperimentazione, che talora produce mostri o esseri malati, avesse prodotto, in Elena, un essere dotato di particolari capacità psichiche? Lei era il ripetitore televisivo e il mio cervello il televisore su cui proiettava le immagini generate dalla sua mente. Era, anzi, qualcosa di più simile a un videotelefono, dato che durante questi sogni riuscivo a conversare con lei. I cellulari e i televisori si servono di ripetitori, di satelliti. In che modo le sue onde cerebrali potevano raggiungermi così? C’era forse un ponte di menti come la sua di cui si serviva? Era lei a manovrare il sogno, ma anch’io potevo recitarvi la mia parte. Provai a convincermi che non dovevo spaventarmi, che anzi fossimo alle soglie di un salto evolutivo della nostra specie di cui non potevamo che rallegrarci. Subito dopo la mia razionalità riprendeva il sopravvento e mi dicevo che questo era assurdo e che era solo la mia fantasia a

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immaginare tutto e che più mi preoccupavo della cosa, più questa prendeva consistenza. La terza notte, l’ultima che avrei dovuto passare in albergo, come ormai m’aspettavo, Elena tornò ad apparirmi. – Torna. Ti aspetto. – Domani sera tornerò, piccola. Non temere. Tornerò domani. Tu ora dormi. – Va bene – disse e se ne andò. Non scomparve e non si allontanò. Il sogno la inghiottì, la fagocitò improvvisamente. Mentre la sognavo andarsene, provai l’impulso di seguirla e il sogno mi precipitò addosso, come il Mar Rosso sugli egizi. Nel contempo, sentii di sprofondare in un immenso materasso di piume. Profondo come un pozzo, da cui venivo aspirato. Non sentivo né il contatto con l’acqua, né con le piume. Il sogno aveva una sua diversa consistenza. Mi parve di soffocare e mi svegliai di soprassalto, boccheggiando. Elena, andandosene, aveva creato un risucchio che si era portato via tutta l’aria: un finestrino spaccato in un aereo ad alta quota. Era stata lei a manipolare il sogno, come, giorni prima, aveva mosso i Bambini Perduti che mi tenevano imprigionato? Questa volta la sensazione fu diversa. Aveva mutato la consistenza del sogno. L’aveva trasformato in materia. Materia psichica, forse, ma estremamente corposa, come pareva reale lei nelle sue apparizioni. La bambina aveva delle grandi capacità. Spiderman avrebbe detto che grandi poteri, comportano grandi responsabilità. Lei, pur essendo solo una bambina che ancora non sapeva neanche leggere o scrivere, aveva dei poteri che anche un adulto avrebbe stentato a usare nel modo migliore. Si poteva insegnare a una bambina a non abusare della propria forza? Mi sentivo un domatore di leoni. Potrà sembrare strano, ma questo mi rincuorò. Se un uomo riesce a dominare e domare belve tanto più forti e

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pericolose di lui, pensai, perché un altro uomo non dovrebbe riuscire a insegnare a una bambina a usare la sua forza sovrumana in modo giusto, senza provocare danni? Anche armato di frustino, però, non credo che sarei entrato a cuor leggero in una gabbia piena di leoni! Quella che uno strano fato mi aveva assegnato come figlia era qualcosa di più di una bambina prodigio. Essere il padre di Mozart, in quei momenti, mi parve dovesse esser stato compito assai meno gravoso. Mi sentivo, piuttosto, uno dei genitori adottivi di Superman. Un Superman con, ancora, un senso piuttosto vago della giustizia e pronto a distruggere tutto il mobilio di casa per il minimo capriccio. Che i bambini reclamino la presenza dei genitori è normale ed è normale, quando sono piccoli, che non amino lasciarli andar via e che magari piangano per il distacco. Dunque, non mi sorprendevo poi troppo delle continue richieste di maggior presenza fatte da Elena, sebbene giungessero per via onirica. Queste richieste però, forse proprio per la forma anomala in cui mi pervenivano, stavano assumendo un carattere che nella mia mente sembrava sempre più ossessivo. Nel rifletterci mi venne in mente il romanzo di Lem, “Solaris”: il pianeta vivente, riesce a riprodurre, in forma umana e corporea, Harey, la moglie morta del protagonista. La donna, che gli appare sotto forma di incubo a occhi aperti, è incapace di lasciarlo e si dispera ogni volta che lui si allontana. Se non fosse per il fatto che Elena mi appariva in sonno e non quando ero sveglio, mi sembrava quasi Harey. C’era qualche connessione tra il mare solariano dell’altro sogno e questa sua natura o ero solo io a trovare queste somiglianze? Elena era, allo stesso modo di Harey, generata da uno strano mare psichico o non era, come credevo, piuttosto l’inverso? Quando tornai a casa preferii non parlare a mia moglie di questi sogni per non turbarla e non ne parlai con nessun altro. Chiunque mi avrebbe preso per uno squilibrato. Mia moglie, invece,

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avrebbe potuto spaventarsi, perché già aveva sperimentato la corporeità delle apparizioni di Elena. Fu, invece, lei a entrare in argomento. – Paolo, sono agitata – esordì. La guardai cercando di nascondere l’apprensione. – Continuo a sognare Elena – proseguì mia moglie, confermando i miei sospetti repressi – è così… strana. Di giorno è una splendida bambina. Assolutamente adorabile. Affettuosa, educata, gentile. Non piange e non si lamenta mai. Di notte, però… beh… anche di notte è adorabile, quando la guardo dormire ha un’aria così dolce, sembra un angelo, ma… quei sogni… è come… come se fosse lei a farsi sognare. Sembrano suoi messaggi. Lo so che non ha senso e sembrano mie fantasie, però… mi chiede di notte tutto quello che non chiede di giorno. Se un cibo non le piace lo mangia lo stesso, ma poi la notte mi rimprovera. Se il pomeriggio la trascuro, la notte mi fa capire d’averlo fatto. Se favorisco Laura – e sai bene che cerco sempre di non farlo – in sogno mi rimprovera. È come se mi sentissi in colpa verso di lei e inadeguata a soddisfare i suoi bisogni. È tutto così assurdo. Lo so che sono solo dei sogni. Eppure… Non mi sembra possa essere tutto frutto solo del mio rimorso o delle mie incertezze. Mi fa sempre più paura. Non capisco perché continuo a sognarla così. Deve essere un segno. La sua presenza mi turba. Lo so che credi che sia pazza… ma se non ne parlo con te con chi potrei… − Non sei pazza. Anch’io… La bambina continua ad apparire in sogno anche a me. Sembra che lei sia lì in carne e ossa. Io non la sogno così spesso, ma in questi giorni che sono stato via mi è apparsa tutte le notti. Non so se siano solo proiezioni dei nostri sensi di colpa, però è strano che capiti a tutti e due. Anche suo nonno mi ha detto qualcosa sul fatto che lei lo visitava in sogno. Mi pareva un po’ svagato, un po’ lunatico… ma sentivo che non era pazzo, non del tutto almeno. Deve avere qualche strano

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potere paranormale. Qualcosa che le permette di manipolare le nostre menti. – Poteri paranormali, Paolo? Ma cosa dici? Sei tu a dire una cosa simile? Non ti riconosco! Dove è finito tutto il tuo scetticismo verso le superstizioni e persino la religione? Sono solo incubi, ma significano qualcosa: questa bambina sta turbando le nostre vite. Non è bene stia con noi. Che cosa dobbiamo fare, Paolo? Ho paura. – Non devi temere. É una brava bambina e ci vuol bene. Anche ammesso che abbia poteri paranormali non ci farebbe mai del male. – Poteri? Paolo! Insisti! Non è questo il punto. Siamo noi che non riusciamo ad accettarla. È tutto nelle nostre teste. Non ha nessun potere. Non siamo in un fumetto, ma se noi siamo così agitati, la cosa potrebbe turbare anche Laura. – Le bambine vanno così d’accordo. Laura mi pare molto tranquilla. Non ti preoccupare. Qualche giorno prima avevamo avviato la pratica per trasformare l’affido temporaneo in adozione. Quei sogni, però, ci turbavano talmente che fummo assai poco solleciti nei vari adempimenti da seguire. Non che avessimo deciso di interrompere la procedura, ma non riuscivamo più a sentire l’impulso ad andare avanti. La paura ci rallentava.

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11 - MARIA

Nel grande abisso vivono strane creature e il cercatore di sogni deve stare attento

a non provocare o incontrare quelle sbagliate. (Howard Phillips Lovecraft)

Maria ci aveva promesso che sarebbe venuta di tanto in tanto a vedere come stava Elena. Come assistente sociale questo rientrava nei suoi compiti. Non era certo una sua iniziativa personale. Durante la sua prima visita io ero al lavoro e, così, incontrò solo mia moglie. Giovanna mi raccontò che la ragazza era stata un po’ di tempo con le bambine, che aveva parlato con loro, poi aveva fatto qualche domanda sul loro comportamento e mia moglie le aveva riferito che andava tutto bene, senza fare nessun accenno ai sogni. Dopo un paio d’ore Maria se n’era andata e a Giovanna era parsa soddisfatta. Venne quindi, successivamente, un altro assistente sociale per l’indagine relativa all’adozione, uno che non conoscevamo, e anche questa volta la visita si svolse, in mia assenza, piuttosto bene e tranquillamente. Un sabato mattina Maria si presentò non annunciata. Le visite a sorpresa rientravano nel programma di controllo per verificare la regolarità della nostra vita familiare. C’ero solo io in casa. Giovanna aveva portato Laura ed Elena ai giardinetti. − Sono da solo. Mi dispiace, se avessi saputo della sua visita, avrei detto a Giovanna di non uscire con le bambine. Comunque, se vuole entrare lo stesso… − Grazie. Visto che siamo qui, vorrei farle alcune domande. La feci accomodare in salotto. Si sedette in poltrona, accavallando le gambe fasciate in un paio di pantaloni attillati. Ne scrutai la

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forma. Erano lunghe e magre. La sua scollatura mi portò a interrogarmi sul motivo per cui avesse scelto una maglia che le lasciava così esposto il lungo collo sottile e le spalle ben formate, con un piccolo tatuaggio che calamitava lo sguardo. Non conoscendola mi chiedevo se quel suo modo di vestire fosse per lei normale o fosse dedicato a me. Si aspettava di trovarmi da solo? Fantasticai chiedendomi se volesse sondare la solidità del mio matrimonio, mettendolo alla prova o sedurmi. Le offrii qualcosa da bere. Accettò un caffè. Lo preparai solo per lei. Io non ne prendo mai. Non mi piace e non capisco come certe persone non possano farne a meno. Il solo modo, per me, per mandarlo giù è annegarci dentro svariati cucchiai di zucchero. Da tempo ho quindi deciso di evitarlo. Per farle compagnia mi versai un succo di mela. Maria mi fece le solite domande del tipo: la bambina le sembra serena? Come si trova con Laura? Mangia e dorme regolarmente? Sua moglie è contenta? Le diedi con diligenza tutte le risposte. Nel complesso il quadro era assolutamente positivo. Lo era veramente, in effetti, se non si faceva cenno ai sogni. Elena, in fondo, dormiva in modo tranquillo e regolare. Lei! La piccola sembrava essersi inserita perfettamente in famiglia e non mostrava traumi per la perdita della madre. Era come se questa non fosse mai avvenuta. Le feci notare che tanta disinvolta serenità forse era un po’ preoccupante: − Mi sembra così strano che non manifesti nostalgia per la sua mamma. − Questo non è male, anche se sarebbe stato più normale se ne avesse reclamato la presenza – concordò la ragazza – Non vorrei che covi tutto dentro di sé. Il dolore potrebbe esplodere improvviso, in modi che non immaginiamo. Dopo un po’ che discutevamo, visto il tono confidenziale che avevamo instaurato, le proposi di darci del tu e lei accettò volentieri con uno di quei sorrisi che m’illuminavano il cuore.

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Le offrii un secondo caffè, che, contro le mie previsioni, accettò. Mentre lo preparavo, mi seguì in cucina e, per chiacchierare, le chiesi qualcosa della sua vita. Mi raccontò del suo amore per i bambini, che l’aveva spinta a scegliere quel lavoro, e poi mi disse quanto le dispiacesse non avere ancora figli propri. − Ho cominciato a fare l’assistente sociale per caso. Non è che non mi piaccia, ma se potessi dedicarmi a figli miei, questo lavoro lo lascerei, ma − aggiunse dopo una pausa che mi parve ammiccante − ancora non sono riuscita a trovare l’uomo giusto. − Una ragazza carina come te, certo non avrà difficoltà a trovarlo – le risposi, mentre in testa mi riaffioravano le immagini dell’ultimo sogno in cui mi era comparsa. Non volevo provarci. Non avrei voluto lanciarle segnali. Ero un uomo sposato e lei era più giovane di me. Eppure sentivo affiorare una certa attrazione verso di lei e sentivo che in questo c’era una certa reciprocità. Le osservai il collo chiaro, su cui ricadevano i lunghi capelli neri. La scollatura suscitava fantasie di baci vampireschi. Anche lei mi parve cosciente delle barriere che ci separavano. Il nostro si trasformò dunque in un piccolo gioco vano di lieve seduzione reciproca, che entrambi sapevamo non avrebbe portato a nulla. Di nuovo provai la sensazione che mi stesse mettendo alla prova, ma non ero affatto convinto che fosse per capire se ero il padre adatto per Elena. I segnali mi parevano troppo sinceri per essere una messinscena. Osservai compiaciuto il lieve movimento delle sue mani affusolate. Scrutai l’accavallarsi delle gambe. Rinunciando a ogni sospetto, lanciai frasi prudentemente maliziose, che afferrò al volo rispondendo con altrettanta casta malizia. Ritrovarla in quella stessa casa in cui l’avevo sognata entrare provocante, mi suscitava desideri e fantasie. Li repressi, scacciandoli dalla mente, come con la mano si potrebbe scacciare una mosca molesta, ma, proprio come una mosca molesta, quelle immagini continuarono a insinuarsi nella

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mia mente. Mentalmente continuavo a spogliarla e a rivederla mentre si avvicinava nuda al mio letto e s’insinuava sotto le coperte. Finché riaffiorava nella memoria quell’altro sogno. Quello in cui Elena mi rimproverava e mi ordinava di non sognarla. Questo riusciva a placare le mie fantasie, come una doccia fredda e improvvisa che ci ridesti dal torpore. Trascorremmo così una piacevole, ma conturbante mezz’ora di sguardi che dicevano quello che le bocche mai avrebbero potuto dire. Tristi, languidi giochi di prigionieri dietro invisibili sbarre. Con l’immagine di Elena in mezzo a noi, a dividerci forse più che quella di Giovanna. Elena ci aveva fatto conoscere, ma ci teneva lontani. Maria si trattenne così in casa più del necessario e, poi, infine, se ne andò, con la promessa di tornare presto. − Verrò a vedere come sta la bambina. Credo che non ci saranno problemi per l’adozione. − Vieni quando vuoi. La porta è sempre aperta. − Ciao Paolo. Ero incerto se salutarla con un bacio sulle guance, ma mi parve prematuro. Quando era entrata, in fondo, ci davamo ancora del lei. Le strinsi la mano. − Ciao. Ricambiò la stretta, aggiungendo una lieve pacca cameratesca sul braccio sinistro e uno sguardo di complicità. Per tutta la visita non feci neanche un accenno agli strani sogni che ci tormentavano. La osservai allontanarsi scrutandone l’andatura. Esitai a richiudere la porta. Non si voltò.

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12 - LITIGI

I sogni non vogliono farvi dormire, al contrario, vogliono svegliare. (René Magritte)

Solo dopo alcune settimane che Elena viveva con noi, capitò quello che in tutte le case è questione quotidiana o quasi: le bambine litigarono. Pur non dando troppo peso alla cosa, che ci parve più che naturale, mia moglie e io ne fummo colpiti proprio per il fatto che era la prima volta che si verificava un bisticcio tra di loro e ci stavamo quasi illudendo che l’armonia tra le piccole non si sarebbe mai spezzata. Fu uno di quei classici conflitti territoriali e di possesso in cui i bambini danno un esempio di come diventerebbero da adulti, se privi di un sistema morale di regole, dimostrando - se ce ne fosse bisogno - che siamo tutti figli di Caino e Abele o, almeno, di Romolo e Remo. Elena aveva usato delle bambole di Laura senza chiederle, andandosele semplicemente a prendere tra i suoi giochi quando lei non c’era. Quando Laura l’aveva scoperto, si era arrabbiata e l’aveva insultata. Le costringemmo a fare la pace e spiegammo a Laura che ciascuna poteva usare i giochi dell’altra, bastava che li trattasse con cura. Le bambine parvero accettare la regola e pacificarsi. La cosa sarebbe potuta finire lì e non avrebbe meritato di essere ricordata, se quella notte Laura non avesse sognato Elena. Laura si svegliò nel cuore della notte e si mise a piangere. Quando cercai di capire cosa avesse, mi raccontò del sogno, dicendo che Elena l’aveva minacciata e che era rimasta a fissarla tutta la notte. Laura non sapeva dirmi se Elena fosse stata proprio nella sua camera o se l’avesse solo sognata. Dato che Elena dormiva

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tranquillamente nel suo lettino, ne dedussi che doveva essere uno di quei sogni che ormai conoscevo anche troppo bene. − Non mi lascia dormire – si lamentò. – Se chiudo gli occhi, mi costringe a riaprirli. Non sapevo cosa fare. Avrei dovuto svegliare Elena e dirle di non disturbare più Laura in sogno? Mi pareva assurdo. Eppure ero quasi convinto che Elena non fosse del tutto innocente. Razionalmente decisi che dovevano essere i sensi di colpa per la litigata del pomeriggio a tenere sveglia e agitata Laura. Non dovevamo farci suggestionare. Decisi che il giorno dopo avrei cercato di esplorare cosa Elena sapesse dei propri misteriosi poteri. Feci riaddormentare Laura, tenendole la mano. Quando sentii che si stava addormentando, come ero solito, feci scivolare la mia mano dal palmo della sua al dorso. La manina cercò di trovare ancora la presa, ma poi, sentendo il mio palmo intorno, si quietò e Laura finì di addormentarsi. Allentai la presa sul piccolo pugno, che si distese e, dopo qualche secondo, le lasciai la mano. Ora dormiva veramente. Dopo qualche altro attimo, potei alzarmi e tornarmene a letto. Inquieta com’era, mi meravigliai, di essere riuscito a farla dormire piuttosto in fretta. I bambini hanno questa magica capacità d’inquietarsi in un attimo e di placarsi ancor più velocemente. Dormii tranquillamente fino al mattino, anche se mi trovai ad attraversare in sogno una strada di periferia deserta, che costeggiava i binari della ferrovia, il cielo aveva l’illuminazione leggera delle ore che seguono il tramonto. Non c’erano treni. Il cielo era alto sopra di me, ma pareva abbassarsi in lontananza, per un effetto che non era solo dovuto alla prospettiva. Quello che mi turbò fu però la sua velocità. Era un cielo in movimento, in cui le nuvole si componevano e scomponevano rapidamente. Un film accelerato. Scorrevano via, nella direzione della strada. Un fiume d’aria velocissimo. Alzando la testa per guardare meglio, mi

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parve di perdere l’equilibrio e di cadere all’indietro. Svegliandomi non riuscivo più a ricordare dove fosse cominciato il sogno. Quando la mattina Elena fu sveglia le chiesi: − Che cosa hai sognato questa notte? E lei, spontaneamente, mi confessò: − Sono stata da Laura, perché era cattiva. − E cosa hai fatto con Laura? − L’ho punita. − Tu non puoi punire gli altri bambini. Non devi. Solo i grandi possono punire. Capito? Era un concetto generale ma, nel dirlo, praticamente stavo ammettendo con me stesso che era tutto vero e che Elena aveva dei poteri paranormali. Questo andava contro tutto il mio moderno razionalismo, ma era così. Sogno dopo sogno, notte dopo notte, stavo ormai arrivando a quella sconcertante conclusione: Elena aveva dei poteri psichici eccezionali. Di più: Elena aveva capacità paranormali di cui non avevo mai sentito parlare prima. Ero al corrente dell’esistenza presunta di individui che pretendono di piegare o muovere gli oggetti con il pensiero, conoscevo l’esistenza di persone che ritenevano di aver avuto visioni (sia di natura religiosa, sia di altro genere). Sapevo di medium che sostenevano di poter parlare con i morti. E, ovviamente, sapevo che esistono persone che sostengono di leggere il pensiero. Non avevo mai creduto a nessuno di loro e non me n’ero mai interessato e quindi, sebbene, la mia cultura in materia fosse certo modesta, mai prima avevo sentito dire di qualcuno in grado di manipolare, con la sola forza del pensiero, i sogni altrui. Elena in questo mi pareva davvero unica. − Come l’hai punita? − Non l’ho fatta dormire.

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Come aveva detto Laura. Lanciai uno sguardo fuori dalla finestra. Le nuvole correvano velocissime. Mi avvicinai al vetro e rimasi a fissarle perplesso, riflettendo. Sapevo che se avessi raccontato una simile storia a mia moglie, Giovanna sarebbe entrata in agitazione e avrebbe voluto fare qualcosa per proteggere nostra figlia. Il mio razionalismo m’impediva di accettare pienamente la cosa e di vederci un pericolo. La mia sola preoccupazione era che non fosse Giovanna a farlo: a vedere in Elena una minaccia. Quella bambina non meritava di essere considerata un mostro. Era troppo buona, troppo affettuosa. Ormai le eravamo tutti affezionati. Come poteva essere davvero pericolosa? E, soprattutto, come poteva essere vero che avesse simili sconvolgenti capacità. Non riuscivo ad accettarlo, sebbene ne fossi ogni giorno - e ogni notte - più consapevole. Fu però Laura, durante il giorno, a manifestare un certo timore verso la bambina, nonostante fosse più piccola di lei. E Giovanna lo notò. − Che cosa avrà Laura? La vedo un po’ troppo guardinga nei confronti di Elena. Sembra quasi che ne abbia un po’ paura. − Dici? – chiesi con fare distratto, approfittando della generica convinzione che hanno le donne, secondo cui i mariti non si accorgerebbero mai di nulla di quello che avviene in casa. Così Giovanna rimase con il suo dubbio, Laura con i suoi timori e io con la mia apprensione. Giovanna, però, prese a vigilare più attentamente sulle bambine. Una volta che notò un piccolo sopruso di Elena nei confronti di Laura, cui nostra figlia non aveva neanche provato a reagire, la difese e sgridò Elena. Fu così che il fantasma onirico di Elena si piazzò a sedere nel mezzo di un sogno di mia moglie e rimase imperturbabile a fissarla per tutta la notte. Non si mosse. Non fece nulla. Fu il suo

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sguardo di rimprovero a scuotere i nervi di Giovanna. Il suo sguardo fisso e interminabile. Al mattino Giovanna me ne parlò. Non sapeva se attribuire il sogno ai propri sensi di colpa per aver sgridato la bambina, forse troppo severamente, o ad altro. Anche lei cominciava a interrogarsi su possibili poteri paranormali di Elena. Fu Laura a interromperci. − Mamma – gridò – hai visto quanti corvi fuori dalla finestra? Quando c’affacciammo stavano già volando via ed erano una nuvoletta scura in lontananza. Non ricordavo di aver mai visto tanti corvi in città, ma per quel che potevo giudicare da quella distanza potevano anche essere altri uccelli. Con un brivido ripensai a quando li avevo sognati. Mi preoccupava che la tranquillità e l’armonia della nostra casa, nonostante di giorno paresse perfetta e idilliaca, di notte si stesse trasformando in una strana tortura psichica. Qualcosa di questa difficile situazione notturna stava minando anche le nostre veglie. Di giorno Elena era un tesoro di bambina, buona, ubbidiente, gentile, affettuosissima, educata. Di notte, invece, agiva in modo negativo sulle nostre menti, lasciandole poi inquiete e confuse anche durante le ore diurne. Era come se compensasse la bontà manifestata da sveglia con qualcosa che non oserei davvero definire cattiveria. Forse era solo un insolito tentativo di richiamare l’attenzione su di sé, come certi capricci dei bambini. Se l’idea di suoi possibili poteri psichici ci fosse apparsa solo lontanamente accettabile e verosimile, avremmo subito preso provvedimenti e probabilmente avremmo sgridato o addirittura allontanato la bambina. Il fatto che, invece, tutto ciò non avesse senso per il nostro modo di pensare, c’impedì di reagire correttamente e tempestivamente. Trascorsero così vari giorni prima che una nuova lite tra le bambine venisse a turbare la quiete quotidiana.

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La notte successiva fummo svegliati dalle grida di terrore di Laura. Mi svegliai di soprassalto. Quando ci precipitammo in camera sua, la trovammo con il volto quasi cianotico, come se non riuscisse a respirare. Non urlava più, ma aveva gli occhi sbarrati. La sua espressione era di puro terrore. – Che cos’è successo? – le chiesi. – Elena mi voleva uccidere. – Hai fatto un incubo. Non ti deve preoccupare. L’hai solo immaginata – provò a tranquillizzarla la mamma, che era forse più agitata di lei, anche se cercava di non darlo a vedere. – Non potevo più respirare. Elena mi aveva avvolto il sogno addosso. – Come può aver fatto una cosa simile? – chiese Giovanna – I sogni non sono… non sono delle stoffe. Forse sei rimasta impigliata nelle coperte e ti sembrava di soffocare. – No – pianse – No. No. Era il sogno. Era il sogno! Mi ha fatto affogare dentro. Era arrabbiata per stamattina. Rivissi la sensazione di sprofondare dentro al sogno, come se questo avesse avuto una sua consistenza. Riuscivo a capirla. Non mi pareva così assurdo. Andai a vedere cosa stesse facendo Elena: dormiva tranquillamente nella sua stanza. Ero certo che non stesse fingendo, però, pensai che anche questa volta fosse cosciente del suo effetto sul sogno di Laura. Decisi di non svegliarla e di aspettare il mattino per avere conferma del fatto che fosse a conoscenza degli incubi di Laura. Mi sembrava fosse come svegliare un sonnambulo. Non so se sia vero, ma ricordavo che non si deve fare, perché può essere pericoloso. Al mattino, ottenni la conferma. – Laura non ha chiesto scusa – disse Elena. – Tu allora cosa lei hai fatto? – Ho chiuso il sogno. – Che cosa hai fatto? – Ho chiuso il sogno.

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– Come hai fatto? – L’ho piegato…così – unì le manine come a imitare un libro che si chiuda. – Come fai a fare queste cose con i sogni? – Non so. – Non devi farle più. Non va bene. Capito? Mai più. Devi lasciare i sogni di Laura e… anche i nostri. Non devi entrare nei sogni degli altri. Di nessuno. Questo non mi piace. Hai capito? Lo prometti? – Sì. – Promesso promesso? – Promesso promesso. Perché no? – Perché fa male. Tu sei una bambina buona e non vuoi far male, vero? – No. Non voglio entrare nei sogni. Mi trovo dentro – piagnucolò. – Ci vai, però, solo quando sei arrabbiata o dispiaciuta. Vuol dire che puoi decidere se farlo, no? – Non so. Sono una bambina cattiva? – No. Sei buona, ma certe cose non le devi fare. – Sono cattiva. Anche con mamma sono stata cattiva. Voglio morire come lei. Così non farò più male. – Non devi neanche pensarle queste cose. Tu sei buona. Tutti i bambini fanno qualcosa che non devono. Devi solo cercare di non farlo più. Hai un potere speciale, ma non devi usarlo. Non devi entrare nei sogni degli altri. Ognuno ha i suoi sogni. Tu resta nei tuoi. Che cosa stavo dicendo?

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13 - LA FAMIGLIA DI ELENA

I medici più acuti sostengono che bisogna badare con molta attenzione ai sogni.

(De divinatione per somnum – Aristotele) Decisi di andare ancora una volta, da solo, a trovare il nonno di Elena. Volevo capirla meglio e scoprire qualcosa di più su di lei e sulla sua famiglia d’origine. Feci gran parte della strada a piedi, un fiume di nubi in corsa sembrava guidarmi scorrendo su di me. Ogni passo era una fatica. Mi sentivo fiacco e debole, come non ero mai stato. Quel cielo alieno mi faceva girare la testa. Cercavo di ignorarlo. Il vecchio era a letto come sempre. Tipico letto da ospedale con tubolari d’acciaio. Tipico afrore dal vago olezzo medicinale. Tipica finestra anodizzata, affacciata su un cortile grigio cemento, illuminato solo dal verde di un paio di abeti simil-cimiteriali. Tipica TV catodica cubiforme da 18 pollici stile XX secolo, con proiezione in corso di show demenzial-familistici. – Salve. Non vi aspettavo oggi – mi salutò guardandosi attorno per cercare la bambina, sporgendo il collo da tartaruga fuori dal pigiama della Upim. Aveva guance che non avevano incontrato un rasoio da almeno due giorni e, unitamente al pallore, questo gli dava un vago colorito grigiognolo da mummia, che s’intonava con le maioliche del pavimento. – Sono venuto da solo – gli spiegai, sedendomi sulla sedia di formica anni ‘60 – volevo parlarle un po’ da solo. Ci sono alcune cose che vorrei capire. Si tratta dei sogni. – Ah… i sogni! – il vecchio inspirò e si sistemò un po’ più su, come se fosse conscio che quello era un momento particolare, che richiedeva da parte sua una certa attenzione. Si sistemò il pigiama attorno al collo magro, su cui la pelle ricadeva con piccole pieghe rugose. Mi chiesi se un tempo fosse stato grasso.

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– Mi diceva che anche lei la sogna, vero? – mi domandò per entrare in argomento, anche se sapevo che conosceva già la risposta. – Sì. Viene a far visita anche a me e a tutta la mia famiglia. Il vecchio annuì. Il fatto che avessi detto far visita e non che l’avevamo sognata, gli fece capire che avevo una percezione particolare della cosa, sulla quale concordava. Almeno così dedussi dal dondolio della sua testa e dal suo sguardo. Aveva occhi chiari e vivaci. Sembrava ancora una persona intelligente, nonostante quell’ambiente in cui era relegato e le immagini di soubrettine chiacchieranti, che scorrevano insensibili sul teleschermo davanti a lui, come una sorta di lavaggio del cervello continuo. − É vero – aggiunse dopo un paio di secondi – sono delle vere e proprie visite. É lei a venire. Non credo lo faccia di propria volontà, ma ad apparire in sogno è proprio Elena. Se le parlo quando la vedo in sogno, è come se quelle cose le avessi dette proprio a lei. Il giorno dopo, quando la incontro, se ne ricorda. Quando era più piccola e non sapeva parlare era diverso. Anche allora compariva, ma non riuscivamo a capire che la sua immagine era una proiezione della sua mente. Era molto reale. Troppo. Il fatto che non parlasse non ci aiutò a capire. Eppure… Eppure che la cosa fosse strana lo sapevamo. Qualcosa di simile l’avevo vissuto con sua madre… ma la cosa si era ridotta progressivamente. Mia figlia Michela non ha mai raggiunto la capacità di comunicare di Elena. Elena, quando era piccina, era capace di comparire per ore intere e mettersi a piangere, lì, nel tuo sogno. Di giorno, invece, non piangeva mai, era un tesoro. Per fortuna non mi tormentava, ma con mia figlia… Non la lasciava stare. Credo che Michela fosse particolarmente ricettiva. Lei e Elena erano quasi costantemente in contatto, quando dormivano. Le notti di mia figlia erano diventate una tortura. Michela si svegliava di soprassalto e anche quando dormiva, non riusciva a riposare veramente. La bambina voleva stare sempre con lei, nei

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sogni. Non si dorme veramente con lei… seduta lì, in un angolo del tuo cervello. Non è possibile. Da me veniva poco, però. Povera Michela! Mia figlia si stava prosciugando. Aveva certe occhiaie. Non riusciva quasi più a ragionare per la stanchezza, però doveva continuare a lavorare, a occuparsi di Elena. É stato così che poi c’è stato l’incidente. − Quale incidente? − Un maledetto incidente d’auto. Non avrebbe dovuto guidare in quelle condizioni. Era allucinata. Stanchissima. Dicono che sia stato un colpo di sonno. L’auto era in condizioni disastrose e mia figlia… Mio Dio! Beh… quando mi chiesero di riconoscerla… Diavolo! No, non fu facile. Non fu per nulla facile! Non avevo mai visto un corpo in simili condizioni! C’era stato anche un incendio. L’auto aveva preso fuoco. Maledette auto assassine. Lo sa che gli incidenti d’auto sono una delle prime cause di morte in Europa con 120.000 vittime l’anno? Dovrebbero proibirle, le auto! É una vera guerra. Credo che nel mondo muoia sulle strade un milione di persone l’anno. Dico! Un milione! Si rende conto. Come se tutti gli anni spazzassero via una città come… come Torino o Napoli. Pazzesco. Se in un anno morissero tutti gli abitanti di Milano cosa scriverebbero i giornali, quanto si agiterebbe la gente! Invece, muoiono per le strade del mondo e nessuno fa nulla. E così anno dopo anno! Ho letto che gli incidenti stradali sono la principale causa di morte tra i giovani. Una guerra! Una guerra atomica! Ogni anno una bomba nucleare su una città. Chi lo permette è un criminale peggiore di chi sganciava le bombe durante le guerre. La guerra almeno aveva un senso. Ci illudevamo di combattere per qualcosa. Ora moriamo di futilità e fretta. – Ha ragione. Pensiamo sempre che tanto non capiti a noi, ma non ci rendiamo conto dei rischi che corriamo ogni volta che saliamo in macchina. – Ora che sono qui bloccato a letto, leggo e guardo la TV in continuazione. Ne sento di incidenti. Un milione di morti e due

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milioni e mezzo di feriti. Le guerre mondiali, al confronto, erano scaramucce tra bande di quartiere. Pensate che la comodità che ci deriva dall’uso delle auto valga tutto questo? – Certo se si pensa anche a tutto il tempo che perdiamo seduti in auto per spostarci da un posto all’altro, agli ingorghi, allo stress della guida, alle difficoltà per trovare parcheggio, ai litigi con gli altri automobilisti, si potrebbe pensare che le auto siano la vera croce di questi nostri anni. Se uno passa un’ora al giorno in auto in un anno sono trecentosessantacinque ore, cioè quindici giorni di vita persi! Anzi di più perché ho contato le giornate di ventiquattro ore, ma il tempo che si dorme non conta. – Per non parlare dell’inquinamento, del rumore… Stavamo divagando. Non ero andato a trovarlo per fare conversazione. Dopo il traffico ci saremmo messi a parlare del tempo? Del clima impazzito? Se avessi osato dire che era una bella giornata, mi avrebbe comunicato che è previsto un aumento di temperatura del pianeta da uno a sei gradi nel corso del secolo, con conseguente innalzamento dei mari e sconvolgimento degli ecosistemi? Cercai di riportarlo in rotta. – E sua moglie? La nonna? Che rapporti aveva con la nipotina? – Mia moglie? Anche Matilde era molto legata a Elena. Le stava molto dietro. Elena la ricambiava, facendole spesso visita la notte. Non spesso come a nostra figlia Michela, ma abbastanza. – Anche lei non riusciva più a dormire? – chiesi, ignorando la vibrazione del cellulare che mi annunciava un sms in arrivo. – No. Per lei è stato diverso. Mia moglie, in realtà, aveva già dei problemi di memoria, dei disturbi… credo che vedere Michela così provata, più l’assurdità di quei sogni, abbia magari influito sulla sua mente, dandole la botta finale. Quando Michela era piccola, Matilde rimaneva particolarmente sconvolta dalle visite della figlia. Però erano diverse da quelle di Elena, meno… corporee, le sue visite. Meno frequenti. E poi Michela non era in grado di pilotare il contesto del sogno. Non so se mi spiego. La sognavamo e basta. Ci parlava in sogno, il che è già strano, ma

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non così sconvolgente. Elena va oltre. Riesce a controllare quello che succede. – Manovra gli altri personaggi del sogno? – Esatto. Per mia moglie è stato diverso, ripeto. Credo che i sogni c’entrino relativamente con il suo stato mentale di ora: giusto il colpo finale. Forse sarebbe diventata così lo stesso, anche senza Elena e Michela. Non lo so. Il cervello umano è una cosa misteriosa. Credo che questo potere di Elena derivi dal suo ramo della famiglia: anche nella mente di mia moglie c’è qualcosa di strano. Elena però credo abbia avuto la sventura di avere anche un padre con la stessa alterazione o magari in forma maggiore. Non lo so per certo, ma lo sospetto. Credo sia questo a renderla così potente. Potente. Sì, Elena era potente. Aveva ragione suo nonno. Che non fosse la sola ad avere queste capacità era un’idea che non riuscivo ad afferrare. Mi pareva già pazzesco sapere che lei era così. Non riuscivo a immaginare che anche altri potessero controllare così le nostre menti addormentate. Il vecchio smise un attimo di parlare, allisciò il lenzuolo con i polpastrelli induriti e mi fissò intensamente negli occhi. − Non vorrei averla spaventata, Signor Demetri, o averle dato una cattiva impressione… forse ho parlato troppo… in realtà, vede, Elena è una buonissima bambina. Non è colpa sua. É solo che ha questo strano potere. Ancora non lo sa controllare. Non si rende conto dell’effetto che può avere sulle persone. Bisognerebbe insegnarle a controllarsi. Non so come. Michela, la sua mamma, smise di comparire nei sogni senza il nostro intervento. Da grande non se ne ricordava più. Credo, però, che anche Elena stia imparando da sola a regolarsi. É intelligente. Deve aver capito che queste sue apparizioni non sono un bene per lei. Spero non ricolleghi la morte della mamma a questi suoi poteri: il senso di colpa potrebbe distruggerla. È ancora così

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piccola. Troppo. Per ora non mi pare abbia collegato. Ora voi siete i suoi nuovi genitori. Dovete insegnarle a non abusare delle sue capacità. – Dice che è lei a decidere se entrare in un sogno? – Forse. Però non lo fa sempre. A volte mi pare che si trovi nel sogno senza volerlo. Ci sono delle occasioni che la spingono a intervenire. Io credo che possa imparare a decidere se farlo o no. Credo stia imparando da sola, però avrebbe bisogno di un maestro… di qualcuno che la guidi, che le faccia capire. Con sua madre non abbiamo fatto molto, forse nulla, però tutto è tornato a posto da sé, o quasi. Con lei temo sia diverso. È un caso più difficile. – Sì, deve imparare a controllarsi. Quando è dentro il sogno, è in grado di fare cose… cose pericolose. – Che cosa? Di cosa parla? Non ne so nulla. – Ha quasi fatto soffocare mia figlia. Elena ha… avvolto il sogno attorno a Laura. – Avvolto? – Anch’io ho fatto un sogno simile con lei. Sprofondavo. Non in un posto particolare. Mi pareva proprio di sprofondare dentro il sogno. Come se questo avesse avuto una sua consistenza. – Capisco. Mi è capitato una volta. Quando Elena lascia il sogno bruscamente crea come un risucchio. Di solito se ne va come se stesse uscendo da una stanza, ma quando apre il sogno e come se aprisse una crepa nella fusoliera di un aereo in quota. Deve imparare a uscire lentamente dai sogni. Deve capire che non può farlo all’improvviso. Credo sia questo a provocare il risucchio. Bisogna spiegarle come fare. É una brava bambina. Cercate di capirla. Vi prego! − Le voglio anch’io molto bene. Se sono qui, è proprio perché sto cercando di capire. Non so, però, se sono in grado di insegnarle a controllarsi. Come potrei insegnarle qualcosa di cui ignoro il funzionamento? Ho paura che prima che io sia riuscito a

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insegnarle qualcosa, lei possa fare del male alla mia famiglia. Questo non potrei accettarlo. − Capisco – accettò il vecchio, abbassando il capo quasi calvo – però, se potete, cercate di…. Non la lasciate… so che vi vuole bene… ora anche lei fa parte della vostra famiglia. Io non potrei fare nulla. Non posso certo farla vivere in una camera d’ospizio. Merita di meglio. − Sì. É vero. Merita una famiglia. Un po’, però, mi fa paura. Al termine di quel colloquio avevo la sensazione che il comportamento di Elena non fosse uguale con tutti. Forse dipendeva anche dalla capacità ricettiva di ciascuno di noi. Dalla nostra predisposizione e dai nostri atteggiamenti nei suoi confronti. Non mi risultava, per esempio, che entrasse in contatto con estranei. Con sua madre aveva avuto, invece un rapporto intenso, forse maggiore che con noi. Dovevo capire come sfruttare queste poche conoscenze, per controllare il suo potere. La piccola aveva dei sensi di colpa, che forse potevano aiutarla a fermarsi, ma forse potevano anche trasformarsi in energia negativa, in qualcosa che ne avrebbe alterato lo sviluppo. Non poteva crescere pensando di essere cattiva e pericolosa. Da una parte ero preoccupato per ciò che lei poteva fare a noi, ma dall’altra lo ero per ciò che poteva fare a se stessa o per ciò che noi potevamo fare a lei, alla persona che stava crescendo dentro di lei, se non fossimo stati in grado di aiutarla a uscire da quella situazione. Tornai a casa con i mezzi pubblici, camminando un po’, per cercare di chiarirmi le idee. Mentre ero assorto nei miei pensieri, sempre più confuso, mi passò accanto un uomo. Non l’avrei notato se non fosse stato per uno strano soffio che sentii al suo passaggio, come una zaffata calda. Mi girai un attimo a guardarlo, ma il suo viso mi colpì, costringendomi ad attardare il mio

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sguardo su di lui più di quanto avessi voluto. Chi era? Dove l’avevo già visto? L’uomo ricambiò lo sguardo. C’era nei suoi occhi qualcosa di maligno e, nel contempo, di familiare. Era come se non fosse lì per caso e se con quello sguardo mi scrutasse dentro. Come se avesse già preso qualcosa di me. Un’ombra nera mi sfiorò, offuscandomi la visuale per un attimo. Girai gli occhi e vidi una sagoma scura volare via. Forse un corvo.

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14 - L’ADOZIONE

Il mondo diventa sogno, il sogno diventa mondo (Enrico di Ofterdingern - Novalis)

Giunse presto il giorno in cui avviare l’adozione. Nonostante i miei timori, ero orientato ad andare avanti e presentare la richiesta. Volevamo tutti molto bene alla bambina. Anche Laura le si era molto affezionata. Pensavo che avesse bisogno di qualcuno che la capisse, che l’aiutasse a cambiare, a liberarsi dai sensi di colpa che temevo le fossero nati per la morte della madre. Credevo di averla capita almeno un po’ e avevo paura che un’altra famiglia avrebbe potuto non essere in grado di farlo. Sospettavo che quei poteri fossero qualcosa che nasceva dal suo stesso senso di colpa, qualcosa che si autoalimentava. Più faceva soffrire chi le stava intorno, più quel potere cresceva. Forse era un’idea assurda, ma in quel periodo mi pareva che le cose potessero funzionare così. Mi ostinavo ancora a cercare spiegazioni psicologiche di qualcosa che sembrava andare al di là delle moderne conoscenze mediche. Fu mia moglie a fermarmi nel processo di adozione. – Paolo, questa bambina mi spaventa. Continua ad apparirmi in sogno, ma questo è il minimo. Mi preoccupa che anche Laura la sogni e la tema. Non possiamo rischiare che faccia del male a nostra figlia. – Ora anche lei è nostra figlia e a Laura non ha fatto nulla. – No. Non lo è. Non lasciarti coinvolgere. É solo un affido temporaneo. Stiamo proprio decidendo se adottarla o no. Ha un influsso negativo su tutti noi. Non mi piace. Ci sta cambiando. Non siamo più quelli di una volta. I nostri sonni sono inquieti e questo mi pare connesso alla sua presenza.

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– Se non l’adottiamo, sarà come abbandonarla. Perderebbe una famiglia per la seconda volta in poco tempo. Questo la segnerebbe per sempre. – Devi pensare anche a Laura. A me. A te. A noi. La sua presenza potrebbe diventare pericolosa. – Non è un cucciolo di leone. É una bambina. – Io temo che sia peggio di un cucciolo di leone. Il cucciolo sai cosa diventerà. Non possiamo sapere cosa sarà questa bambina tra un anno o tra dieci. E se avesse davvero i poteri paranormali che dici tu, se li sfruttasse per tiranneggiarci e minacciarci? Se non li sapesse controllare? Se ci uccidesse in sonno senza volerlo? Non possiamo permetterci di rischiare. – Stai esagerando. Non sappiamo se ha davvero dei poteri. Tu stessa non ci credi e fino a ieri mi davi addosso perché suggerivo che potessero esistere. Se davvero li avesse, non credo che ci farebbe volontariamente del male – protestai – ci vuole bene. – E involontariamente? Se questo potere, è troppo grande per lei potrebbe capitare. Lo usa mentre dorme. Daresti un mitra carico a una bambina? Ti rendi conto di cosa vuol dire? È soprattutto un potere inconscio. A noi sembra che piloti i nostri sogni ma, se lo fa, è veramente lei a farlo o il suo inconscio? Non è, in realtà, qualche parte della sua mente, che si attiva solo in sogno, quella dotata di queste capacità? Sono poteri onirici. Non sono poteri coscienti. Come possiamo dire che non vuole farci del male? Di cosa siamo capaci in sogno? Non commettiamo, forse, in sogno atti che non compiremmo mai da svegli? In sogno non si risvegliano forse i nostri istinti più… animaleschi? Se avessi tu un simile potere, saresti sicuro di riuscire a controllarlo? Ti riusciresti ad addormentare con la certezza di non andare a far visita a nessuno, di non soffocare nessuno in sogno? Dormendo perdiamo tutte le nostre inibizioni. Come potresti essere sicuro di dominarti durante il sonno? E vuoi credere che ci riesca una bambina di quattro anni e, per giunta, emotivamente provata dalla perdita della madre?

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– Tutto questo è assurdo. Forse ci stiamo autosuggestionando. Prima dicevi che non può avere simili poteri e ora la dipingi come una superbambina. Pensiamoci ancora un po’. – Sono settimane che ci penso. Non se ne parla. Basta! Non voglio essere sua madre. Non voglio essere la madre di un mostro, che potrebbe uccidermi mentre dormo. Il fatto che sua madre sia morta, non credo sia un caso e non contribuisce a tranquillizzarmi. Poteri o non poteri, non mi piace quello che ci sta succedendo. Se li ha davvero, la cosa mi terrorizza. Se non li ha, come continuo a voler credere, però è innegabile che ha un influsso negativo su di noi, sulla nostra psiche e sui nostri sogni. Non osai dirle quello che avevo scoperto e che le avevo tenuto nascosto fino a quel giorno sulla fine di Michela, la madre di Elena. Mi convinsi che Giovanna avesse ragione. Non volevo che mia moglie facesse la fine della mamma di Elena. Soprattutto non volevo che capitasse qualcosa a Laura, anche se le nostre paure continuavano a sembrarmi illogiche e infondate, nonostante la mia razionalità vacillasse sempre più. Fu così che rinunciammo alla priorità acquisita nell’adozione e informammo il Centro di farla adottare da qualcun altro. C’era una lunga lista d’attesa, così già in settimana la prima coppia andò a conoscerla. Ora che avevamo deciso di non tenerla, il Centro voleva trovarle quanto prima una nuova famiglia. Era bene non protrarre ulteriormente la permanenza in una casa che avrebbe dovuto abbandonare. Nel giro di due settimane fu scelta una coppia senza figli, che la prese subito in affido, in attesa dell’adozione. Elena capì tutto. Capì che la mandavamo via, che non la tenevamo più con noi. Non voleva lasciarci. Pianse e si disperò come non l’avevo mai vista fare prima. Era la prima volta che la

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vedevo esternare così il proprio dolore di giorno, da sveglia. Vederla così mi angosciava. Mi sentivo un verme. Fui tentato di convincere mia moglie a cambiare la sua decisione, ma non osai. Mi bastava guardarla negli occhi per capire come mi avrebbe risposto. Era irremovibile. La guardammo andar via con quella coppia, con le sue due valige disneyane, piene di tante cose che le avevamo comprato noi, vestiti e giocattoli: il ricordo della sua permanenza nella nostra casa, che ora aveva un vuoto dentro che difficilmente saremmo riusciti a colmare tanto presto. Era stato un passaggio veloce, ma già pensavo che l’avremmo ricordato a lungo. Difficilmente, pensavo, mi sarei perdonato questo abbandono. E dire che mi sembravano bestie quelli che lasciano gli animali in strada! Sapevo che Elena avrebbe avuto un’altra famiglia e che anche con loro non si sarebbe trovata male e con questo cercavo di placare la mia cattiva coscienza. Questa coppia non aveva altri figli e avrebbe potuto dedicargli maggiori energie e attenzioni. Loro, poi, volevano davvero avere un bambino. Noi in realtà non avevamo mai scelto di adottarne uno. In questi anni le adozioni sembravano diventate una moda, le star del cinema e della musica facevano a gara ad adottare bambini benettoniani, uno per ogni continente. Coppie sterili e affamate di equilibri familiari erano in lotta con i più disparati organismi internazionali per portare a casa un figlio, dopo aver speso migliaia di euro e decine di mesi in giro per uffici, viaggiando per mezzo mondo con ogni sorta di low cost. Per noi non era stato assolutamente così. Non avevamo mai voluto o programmato quest’adozione. Era stato solo il caso che ci aveva portato Elena in casa e un destino misterioso che aveva semplificato per noi le procedure burocratiche. Questo, però, non cancellava quel senso di vuoto che si era creato all’istante. La sua presenza ci mancava già. Ci mancava nell’auto orfana del secondo seggiolino, nel corridoio che conservava l’eco delle sue corsette, nella cameretta approntata frettolosamente, nei vestiti troppo

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piccoli di Laura, privi di un secondo utente, nel tavolo da pranzo sgombro del suo piatto di plastica con il faccione tontoloide di Winnie The Pooh, nell’eco spento delle sue rare risate, nel riflesso perduto dei suoi sorrisi, nel tepore svanito del suo addormentarsi. Poi, però, mi ricordavo dei nostri timori e la prospettiva mutava ferocemente. Se Elena era davvero un pericolo, cosa sarebbe stato di quella coppia? Se era una minaccia, forse, la soluzione avrebbe dovuto essere un’altra, non l’adozione. Che cosa avremmo dovuto fare? Sopprimerla? Il solo pensiero, che attraversò per un crudele attimo la mia mente come un brivido gelido, mi sconvolgeva. Le volevo ormai troppo bene e, per me, era già doloroso allontanarla così. Per la bambina, però, non vedevo altre soluzioni possibili, oltre l’adozione. Continuavo a non accettare l’idea che fosse veramente pericolosa. Speravo solo che, con quei due, si calmasse e sarebbe stata felice. Speravo che non sarebbe entrata anche nei loro sogni. Speravo che riuscissero a capirla, a mitigare i suoi sensi di colpa. Prima la perdita della madre, poi l’abbandono da parte nostra: poteva sentirsene colpevole, sentirsi rifiutata, perdere per sempre l’autostima. Io stesso mi sentivo in colpa nei confronti della sua nuova famiglia per non averli avvertiti, per non avere avuto il coraggio di raccontare le cose incredibili che credevo di sapere su Elena, cose che mi avrebbero fatto sembrare pazzo. Se non avessi condiviso la cosa con mia moglie, folle mi sarei sentito davvero. Ciononostante il dubbio s’insinuava nella mia mente e mi chiedevo se, addirittura, non fossi solo io ad aver malamente – e follemente – interpretato le parole di Giovanna, Laura e della stessa Elena. In fondo, Giovanna e Laura parlavano solo di sogni. Giovanna non sembrava credere veramente alle sue capacità oniriche. Sapevo che ogni ragionamento era solo una scusa per cercare di tranquillizzare il cuore. Che cos’altro potevo fare? La scelta l’avevamo presa. Anche Elena presto avrebbe smesso di piangere

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e si sarebbe dimenticata di noi. L’altra famiglia non avrebbe avuto alcun problema, mi ripetevo. Il problema era solo nostro. Solo mio. I poteri di Elena non si sarebbero manifestati più. Forse non erano mai esistiti. Ero io, m’illudevo, che li generavo nella mia mente, in un modo o in un altro, che non capivo. Era tutto nella mia mente. Tutto. Pensavo così. Volevo crederlo. Cercavo di darmi una ragione delle cose e della situazione. Credere che fosse tutta un’illusione mi sembrava la soluzione più semplice e meno inquietante. Il cielo continuava a vorticare. Questo prima che iniziassero veramente gli incubi.

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15 - INCUBI

Il sogno c’insegna in modo eccelso la sottigliezza della nostra anima Nell’insinuarsi tra gli oggetti e

nel trasformarsi allo stesso tempo in ciascuno di essi. (Schiften – Novalis)

In passato avevo avuto già degli incubi, nell’accezione più generale e moderna del termine. Si era trattato, cioè, di sogni angoscianti o spaventosi da cui in genere mi risvegliavo di soprassalto. Per fortuna non mi capitava spesso di averne. Erano anzi passati molti anni dall’ultimo fatto. Il sogno, che feci la prima notte che Elena se ne andò, fu proprio un Incubo, nell’accezione antica del termine, e mi ricordò molto da vicino un folletto che aveva frequentato le mie fantasie infantili e che aveva la corposità degli incubi demoniaci medievali. Nel buio mostruoso della mia camera da bambino c’era un’ombra, più scura della notte, che scivolava lungo l’armadio di rovere, facendone scricchiolare le imposte. Ficcavo la testa sotto le coperte per non vederla, ma la sentivo strusciare sul pavimento con i piccoli piedi dalle scarpe felpate dalla lunga punta. Aveva uno strano cappello simile a quello di Babbo Natale, ma più stretto. Il naso era lungo e aguzzo come un coltello, le gambe sottili e arcuate, le braccia flessuose e forse elastiche, capaci di arrivare ovunque, di insinuarsi in ogni angolo. Mi nascondevo tra le lenzuola che sapevano di pulito e sonno per non vedere quegli occhietti baluginanti, quel ghigno stridente, quello sguardo che ti s’infilava dentro. Non l’avevo mai visto quel folletto, ma sapevo che era così. Lo sentivo dal suo respiro, dal rumore dei suoi passi, dai cigolii della stanza, quasi che quei suoni fossero in grado di disegnarne la sagoma nella mia mente. D’un tratto poi si piazzava sul mio letto, su di me, e di lì non si spostava più. Non avevo più il coraggio di muovermi. Non volevo mi notasse, sebbene,

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standomi seduto sopra, dovesse aver ben chiaro che io ero lì sotto, rannicchiato nella mia paura. Restavo fermo fino a quando una sonnolenza greve e faticosa non mi trascinava via, nel mondo del sonno senza sogni e, solo allora, mi dimenticavo di quel essere, scivolando nel vuoto buio della notte. Ricordandomi di quell’incubo ricorrente, mi venne allora in mente una spiegazione che mi fu data da bambino su cosa fossero gli incubi. Era più una fiaba che una vera spiegazione. Mio padre, seduto nella penombra sul mio lettino accanto a me, mi aveva raccontato che sono dei folletti che la notte entrano nelle camere dei bambini e si mettono a dormire sulla loro pancia. Questo fa fare dei brutti sogni. Per evitare gli incubi, diceva, non bisogna dormire con dei pesi sullo stomaco. Le due cose mi erano state presentate così: fiaba con corredo di suggerimento pratico. Uno dei pochi consigli che mi abbia mai dato mio padre. Non saprei dire se la creatura dei miei incubi fosse stato generato da questa spiegazione o questa mi avesse aiutato a descrivere quello che già provavo. Penso però che in qualche modo il mio incubo si autoalimentasse di questo racconto. Credo che la leggenda dell’incubo risalga almeno ai tempi dell’antica Roma. Più che un folletto era un satiro a sedersi sulla pancia e a turbare il sonno al malcapitato di turno. Per gli antichi romani Incubus era uno dei nomi di Fauno, la divinità dalle zampe caprine. A turbare i sonni, al posto del satiro, poteva venire anche il gatto mammone. Il termine mammone è un appellativo del diavolo, dunque il gatto mammone è il gatto di Satana. Spesso, in effetti, i gatti sono associati a streghe e demoni. A questo da bambino non avevo mai pensato, anche se il gatto mammone, pur avendo un nome che mi pareva materno, mi inquietava non poco. Lo immaginavo immenso e sogghignante come lo Stregatto di Alice, ma in qualche modo somigliante a mia madre, in virtù di quell’attributo. Quando facevo qualche marachella, più volte mi

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fu detto di stare attento e piantarla, altrimenti sarebbe arrivato il gatto mammone. Era il vice-folletto felino, sempre pronto a disturbare il mio sonno e, nel contempo, la longa manus punitrice della mamma. Non mi ero mai interessato molto all’argomento, ma decisi che forse valesse la pena di fare qualche indagine. Se quanto ci stava capitando aveva dei precedenti, speravo di trovarne traccia. La mia idea era che il senso di quanto faceva Elena fosse da ricercare non in testi di psichiatria o psicologia, ma che potesse essere intuito o decifrato leggendo quello che nell’antichità si diceva e pensava di sogni e incubi. Erano tempi in cui ancora affrontavamo il mondo con una mente meno razionale, ma più pronta guardare in faccia la realtà, anche quando esulava dalla comprensione umana. Quale modo migliore per calarmi nell’antico sapere dell’umanità che rivolgermi all’infinita saggezza dell’oracolo? Aprii, dunque, Internet Explorer, la porta su ogni arcano, la sibilla dei moderni navigatori. Il logo di Google, termine misterico dall’etimologia incomprensibile che si rifà all’infinita incommensurabilità dei numeri con cento zeri, già giganteggiava al centro dello schermo. Digitai la parola magica incubo, l’antro dello scibile umano si spalancò e cominciai la mia ricerca, scoprendo così alcune cose che mi parvero interessanti. Secondo i Sacri Scribi della Rete, simili all’incubus romano erano l’efialte in Grecia, l’alp e il mahr nel mondo germanico e, direi, l’alu in quello babilonese. Una figura in qualche modo ricorrente, dunque. Nei meandri oscuri del web scoprii che nel medioevo, come già presso gli antichi, non si faceva, molta differenza fra fauni, satiri e incubi, tutti considerati mostri connessi alla sessualità. In un remoto sito del passato millennio, lessi che, nell’antica Grecia, Efialte, simile a Pan, era il demone dell’incubo, il responsabile delle phantasìai, i sogni erotici, le fantasie. Efialte

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attaccava e opprimeva le sue vittime nel sonno, schiacciandole sotto il suo peso. Ne fissai una raffigurazione antica impressa sullo schermo. Per un attimo parve che l’efialte disegnato si muovesse e i suoi occhi si girassero per scrutarmi torvi, poi tutto tornò normale. Frugando trai siti mi venne in mente che, in effetti, Elena mi era comparsa due volte durante un sogno erotico. Questa poteva essere una coincidenza, ma il fatto che Efialte opprimesse le sue vittime in sonno mi ricordò, con un brivido, la bambina. Mi sentivo la gola prosciugata. Mi alzai e andai in cucina a tirar fuori dal frigo un ace in tetrapak. Versai il liquido arancione nel bicchiere e tornai al computer. Spensi le luci a fluorescenza della cucina, che non avevano neppure avuto il tempo di raggiungere una luminosità normale, e mi rimisi a spippolare sul PC. L'alp medievale, scoprii, è un vampiro di origini tedesche, che tormenta i sogni delle donne. Può anche manifestarsi in forma fisica, divenendo quindi molto pericoloso. L'alp è considerato maschio e può essere lo spirito di un parente deceduto recentemente oppure un vero e proprio demone. L’alp poteva assumere le sembianze di alcuni animali, quali il gatto, il maiale, l'uccello o altro, e in tutte le sue manifestazioni portava un cappello. Questo nell’antichità. E se fosse vissuto ai giorni d’oggi? Magari si sarebbe trasformato in un PC! Un PC con il cappello. O magari un aspirapolvere maligno. Come spirito poteva volare e galoppare, raramente uccideva. Questo mi fece tirare un sospiro di sollievo, di cui mi pentii subito per l’assurdità della mia preoccupazione. In ogni caso le coincidenze erano sempre minori delle discordanze: Elena non si era mai trasformata in animale! L'alp, sotto forma di farfalla, lessi, entra dalle finestre e si poggia sul dorso del dormiente, succhiando vampirescamente sangue dai capezzoli degli uomini e dei bambini, anche se, mica scemo, tende a preferire il latte delle donne. Era così che Elena entrava nei nostri sogni? Non credo. Non aveva certo bisogno di trasformarsi. Doveva essere, più

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logicamente, una capacità legata alle sue particolari onde cerebrali. Che si sedesse su di noi, era però, qualcosa che avevo già sperimentato. Essendo legato alle paure della mente e del sonno, l'alp era virtualmente impossibile da uccidere. Si diventava un alp quando la madre, nel momento del parto, utilizzava delle briglie intorno ai denti per il dolore. Delle briglie? Quasi una pratica sadomasochista. Immaginai il marito nudo che la frustava e tirava le briglie legate alla bocca della poveretta che si contorceva per le doglie. In realtà, presumo che le briglie potessero servire alla donna per aggrapparsi e spingere meglio durante le contrazioni. La correlazione tra briglie e natura del figlio mi parve una di quelle concatenazioni tra causa ed effetto tipicamente medievali, però, non potei non chiedermi se i rapporti tra Elena e sua madre non avessero influito su questo suo stato. Il mahr, una sorta di vampiro, che si nutriva del sangue, soprattutto dei parenti, meglio ancora se bambini, era una bambina morta. Una bambina! Elena un mahr!?! Trovare un demone con le sembianze di una bambina m’inquietò particolarmente. Il mahr, però, non pareva legato agli incubi o ai sogni ed Elena non aveva mai avuto comportamenti vampireschi e non mi pareva certo uno zombie. A Babilonia gli alu, per metà umani e per metà animali, entravano di notte nelle case attraverso buchi o crepe e torturavano le loro vittime. Provocavano venti distruttivi, febbri pestilenziali, mal di testa, piccole liti, odio e gelosia. I venti distruttivi potevano essere paragonati alla sua capacità di manipolare l’aria dei sogni? Forse no. Mi sembravano cose abbastanza diverse. Eppure c’era qualche somiglianza. Uno strano sfarfallio fece oscillare il testo sullo schermo. Strizzai gli occhi, casomai la cosa dipendesse da loro, piuttosto che dal computer. Un vento digitale? Durò solo un istante. Continuai a leggere.

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Secondo la mitologia cristiana, l'incubo era un angelo caduto in disgrazia a causa della sua insaziabile concupiscenza nei confronti delle donne, un diavolo che stuprava le donne nel sonno o provocava in loro desideri sessuali, che soltanto l'incubo poteva soddisfare. Il diavolo, che è spirito, per diventare incubo o rianimava un cadavere oppure usava la carne umana per creare il proprio corpo, in cui poi soffiava dentro il proprio spirito vitale. Notai, non senza raccapriccio, che spesso l’incubo è stato, nella storia, imparentato con la possessione demonica e il vampirismo. Continuai a cercare altre informazioni in rete, ma mi pareva che quello che leggevo aggiungesse poco a quanto avevo già trovato. La mitologia conosceva una miriade di esseri che influivano sui sogni o agivano di notte. La cosa doveva essere legata alla paura delle tenebre, ma forse c’era dell’altro. Forse, sospettavo ora alla luce delle mie esperienze con Elena, poteva esserci una base di verità. Un senso di inquietudine e di disagio si era impossessato di me. Lo sguardo dell’efialte e il soffio digitale dell’alu mi avevano scosso, lasciandomi la sensazione di qualcosa che non andasse nella mia mente. «Forse sono solo troppo stanco» mi giustificai. Deciso a cancellare tutti questi pensieri, prima di andare a dormire, diedi un’occhiata alla posta elettronica e al mio profilo su Facebook, ma ero distratto e non avevo voglia di addentrarmi nei Gruppi o andare a leggere Note, Inviti e Richieste. Quando più tardi Elena entrò nella stanza, mi venne subito in mente la leggenda del diavolo che prende il corpo di un essere umano per comparire in sogno e fui preso da un tremito: lei non poteva essere lì! Un timor panico freddo e tagliente si sovrappose ai sensi di colpa, mescolandosi al dolore del distacco, facendomi sembrare la piccola qualcosa di spaventoso. La bambina si arrampicò sul letto su cui mi ero disteso e si mise a sedere sul mio stomaco, esattamente come il satiro romano e

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come gli altri demoni dell’antichità. Seduta lì, prese a fissarmi con uno sguardo assai difficile da definire. Qualcosa che era tristezza, delusione, rabbia, senso d’abbandono, amore e odio. Tutto assieme in un unico sguardo fisso, che non mi mollò per tutta la notte. Come un flusso continuo di pensieri dai suoi occhi ai miei e viceversa, come un legame psichico che avviluppasse la mia mente. Non aprì bocca, non parlò e non si mosse fino al mattino, continuando a gravare sul mio stomaco e sui miei neuroni. Non mi svegliai, fino a quando suonò la sveglia. Elena svanì. Fu come se qualcosa mi venisse strappato via dallo stomaco. Gemetti. Guardai i numeri rossi proiettati sul soffitto dall’orologio e ammisi controvoglia che era ora di alzarmi. La sensazione era, però, quella di non aver dormito per nulla. Mi rimase un’assurda pesantezza per tutto il giorno. Il senso di colpa e la nostalgia per la piccola mi tormentarono fino a sera. Sentivo di volerle molto bene e tutta questa situazione mi dispiaceva molto. Mi pareva assurdo averne paura, ma sentivo che la scienza moderna poteva aiutarmi poco. Le credenze antiche che avevo provato a esplorare forse potevano fornirmi un filo, una traccia che potesse guidarmi verso la verità, verso la comprensione, ma non ero troppo convinto neanche di questo. Le coincidenze che avevo appena trovato con la nostra situazione mi colpivano, come è naturale, assai più delle discordanze e continuai a interrogarmi sulla vera natura di Elena. Possibile che fosse un demone, una mahr bambina? Poteva essere una sorta di zombie tornato dal mondo dei morti e dotato dell’incredibile potere di comunicare con i vivi non solo attraverso quel corpo posseduto demoniacamente, ma anche attraverso i sogni o entrando nelle menti come i medium sostengono facciano certi spiriti? Se la storia di tutte le civiltà era piena di questi personaggi demoniaci, non poteva essere che questi fossero, in realtà, altri esseri, come Elena, dotati di particolari poteri psichici e che solo l’ignoranza del tempo aveva

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classificato come esseri soprannaturali? Non eravamo, allora, anche noi ancora immensamente ignoranti in materia? Non poteva essere che la nostra mente avesse dei poteri che ignoravamo, perché si manifestano troppo raramente? Si dice che utilizziamo solo una parte della nostra mente. Forse Elena e gli altri come lei, se ne esistevano, erano in grado di usarla più pienamente. Assurdo! Assurdo! Assurdo! Che sciocco che ero! Mi stavo lasciando suggestionare. Elena era solo una bambina normalissima e come tale dovevamo trattarla. Ma che cosa pensavo? Ormai non era più con noi. Avevamo rinunciato ad adottarla e non ci riguardava più. Non dovevo pensarci più e anche gli incubi sarebbero svaniti. Nascevano solo dalla mia cattiva coscienza, volli credere.

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16 - ANCORA INCUBI

«È vero o sta succedendo dentro la mia testa?» «Certo che sta succedendo dentro la tua testa, Harry,

ma perché diavolo dovrebbe voler dire che non è vero?» (Harry Potter - Joanne Kathleen Rowling)

Mi resi però presto conto che non era allontanando la bambina che ci saremmo liberati della sua presenza notturna. Del resto non aveva problemi a visitare i suoi nonni all’ospizio e mi aveva raggiunto a Napoli! Le distanze non erano un problema per lei. Le sue onde cerebrali attraversavano il traffico urbano con la destrezza di un tassista partenopeo e raggiungevano ovunque la propria meta, superando come fantasmi mura e ogni altro ostacolo. Non averla in casa rendeva, anzi, tutto più difficile. Quando era con noi riuscivo, almeno, a controllarla parzialmente, parlandole e facendole capire che non era bene apparire così. Ora non avevo modo di contattarla, salvo ingerirmi nella sua vita nella nuova famiglia, cosa che avevamo escluso. Realizzai, però, che poteva essere possibile comunicare con lei mentre dormiva. Lei ricordava i nostri sogni. Quel che non sapevo fare era impormi di sognare in modo da trasmetterle un messaggio. Suo nonno, però, mi disse che le parlava in sogno, ma credevo si riferisse solo al fatto che la bambina ricordasse i dialoghi dei suoi sogni, non che lui fosse in grado di decidere cosa dirle. O, magari, lui stesso aveva un po’ dei poteri della nipote. A differenza di Elena, io, invece, oltre a non essere in grado di manipolare i sogni altrui, non riuscivo neppure a manovrare i miei. Anche da sveglio questi vincevano sempre nello scontro con la mia razionalità. Mentre riflettevo mi affacciai alla finestra e fui colpito da un inaspettato movimento di uccelli. Che cosa ci facevano tutti quei corvi intorno a casa nostra?

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La notte successiva Elena non comparve. Non nei miei sogni. Fu invece la volta di mia moglie, che si svegliò quanto mai turbata. Il suo incubo era stato simile al mio. Elena era rimasta a fissarla, sedendo su di lei per tutta la notte. – Quella bambina è stregata! É una strega! Dobbiamo fare qualcosa. Perché continua a tornare nei nostri sogni? Perché continuo a fare incubi con lei? – Forse abbiamo fatto la cosa sbagliata. Mandandola via, temo che abbiamo peggiorato la situazione – risposi – devono essere i nostri sensi di colpa che… – É pericolosa. Mi fa paura. – Sono solo sogni. I sogni non possono far male. – Sono incubi! – precisò mia moglie – Un incubo può non far del male al corpo, ma ne fa certamente alla mente. Questi poi sono incubi troppo… veri. Strani. Non mi piace. Dovremmo chiedere aiuto. – A chi? A uno psichiatra? Per noi o per lei? Che cosa ci direbbe? Che cosa penserebbe? O dobbiamo contattare un medium, un parapsicologo? Pensai anche a un’esorcista, ma non lo dissi. Le mie erano domande ironiche. Sapevamo entrambi che nessuno di loro avrebbe potuto aiutarci e non ne facemmo nulla. Guardando dalla finestra non vidi altri corvi, ma il cielo mi parve stranamente basso, come se fosse un tetto e si stesse avvicinando alla terra. Chiusi gli occhi e scossi la testa. Trascorse una settimana che consumò i nostri nervi e le nostre energie. La bambina compariva sia a me, sia a mia moglie. Per fortuna, durante questo periodo, Laura non parve aver mai ricevuto le sue visite. Cosa che ci stupì un po’, ma di cui fummo lieti. Forse una fata buona la proteggeva. Mi trovavo in una lunga galleria. Forse una torre riversa in terra. Camminavo e camminavo, ma più andavo avanti più il tunnel

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pareva estendersi, come fosse stato un telescopio allungabile che venisse aperto progressivamente. La fine della galleria, poi, sembrava particolarmente piccola, proprio come un’immagine che si osservi attraverso un cannocchiale rovesciato. Mi girai, ma alle mie spalle c’erano solo le tenebre. Fu allora che, minuscola, mi parve di scorgere una sagoma umana in fondo a quel tubo immenso. La figuretta pareva irrealmente piccola. Prese, però, a camminare verso di me, crescendo di dimensioni in modo esageratamente veloce. Ne distinsi presto i lineamenti, che erano quelli di un piccolo demone, non dissimile da come dovevano apparire certe creature tra quelle della mia indagine sugli incubi. Aveva un volto belluino, orrendo e spaventoso, gambe storte e sbilenche con zampe da capro e una lunga coda di carne viva, che faceva ribrezzo come un intestino fuoriuscito da un cadavere. Quell’essere mi mise addosso un autentico terrore, misto a orrore e disgusto. Accelerò ancora il suo passo, divenuto una corsa, e con un balzo mi fu addosso, facendomi cadere all’indietro. Questa caduta mi parve lentissima e interminabile ma, alla fine, mi ritrovai disteso sulla schiena, nella semioscurità, con quel mostro seduto sul mio petto e la sensazione di non riuscire a respirare. Aveva occhi lattiginosi che sporgevano in modo disgustoso verso di me. Spalancò la bocca scura, che pareva l’antro di qualche abisso insondabile. La spalancò ancora. E ancora. Oltre l’immaginabile. Sporse in fuori una lingua sottile e appuntita. Come un becco. Un becco. Una testa nera. Occhi neri lucidi. Piume. Un corvo esplose fuori da quelle fauci infernali e schizzò lontano, spalancando le ali e volando in circolo su di me. Il mostro non chiuse quell’abisso. Un nuovo uccello ne emerse e fu proiettato fuori. Poi ne sparò un terzo. E un quarto. Un quinto. Un sesto, un settimo e un ottavo. Lo stormo vorticava sulla mia testa. La galleria si era dissolta o forse si era mutata in cielo. Un cielo basso e opprimente, solcato da nuvole spasmodicamente frettolose di fuggire via.

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Mi svegliai, allora, di soprassalto e mi ritrovai in camera, con Elena seduta sul mio petto. La sensazione di panico non era per nulla cessata e continuavo a respirare a fatica. Cercai di farla alzare o spostare, ma sembrava pesare una tonnellata e le mia braccia erano prive di forza. Le chiesi di andarsene. La pregai. La implorai. Piansi. Finalmente mi svegliai davvero. Davvero? Di nuovo? Ero sveglio? Che lo strano essere fosse comparso per la prima volta solo dopo le mie indagini sull’incubo, m’induceva a pensare che fosse un parto della mia suggestione. In che misura però Elena l’aveva condizionata direttamente? Fu dopo circa una settimana che la bambina non viveva più con noi, che arrivò la telefonata dalla famiglia che l’aveva presa con sé dopo di noi. – Buonasera, sono Nicola Scarpelli, la persona che ha in affido Elena… – Buonasera – risposi con un leggero tremito nella voce. – Volevo chiederle se fosse possibile incontrarsi una sera per parlare un po’ della bambina. Certo saprete di lei molte cose che noi ancora non sappiamo. – Certo. Quando vorreste incontrarci? – i miei sensi di colpa mi risalivano in gola quasi come un conato di vomito represso, un rigurgito disgustoso. – Beh, quanto prima, se si può. Credo sia importante riuscire a capirla subito meglio. Se per voi fosse possibile già domani sera, vi aspetteremmo per cena. – Senz’altro. Potremmo però fare subito dopo aver mangiato... Non vorremmo gravare… – Figuriamoci! No, via! Ci farebbe piacere avervi nostri ospiti. A tavola si parla meglio. Non aspettatevi grandi cose, una cena veloce… – Chiedo a mia moglie e vi richiamo. Il vostro numero dovrei averlo.

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– Perfetto! Vi aspettiamo.

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17 - LA CENA

…durante il sonno… l’elemento ferino e selvaggio, pieno di cibo o di ebbrezza, si sfrena, respinge via il sonno

e cerca di muoversi e di sfogare i propri istinti. (Repubblica – Platone)

Sul momento non avevo realizzato che recarsi a casa degli Scarpelli per parlare di Elena volesse dire anche incontrare Elena, dato che viveva con loro. Fu Giovanna a farmelo notare. – Che cosa farà Elena quando c’incontrerà? – Elena! Già! Ci sarà anche lei... Rivederci potrebbe farle desiderare di nuovo di stare con noi. Forse non è una buona idea andare a casa loro. Magari dovremmo invitarli noi qui o vederci in un ristorante. Provo a suggerirlo? – Forse, Paolo, vederci ogni tanto le renderebbe meno duro il distacco. – Non so. É difficile a dirsi. Sono così confuso. – Ormai è tardi per tirarsi indietro. Andiamoci. Lasciammo Laura con la nonna e una lunga sequenza di barbie disposte in fila ai piedi del letto e uscimmo, non senza una certa tensione per l’incontro. Quando la pesante porta blindata di casa Scarpelli si aprì, mi aspettavo quasi di vedere immediatamente la bambina ad aspettarci. Ci avrebbe accolto con gioia? Con sollievo? Con rancore? Con rabbia? Non riuscivo a immaginare. Aprì Elisabetta Scarpelli. Una donna sui trentacinque anni. Non bella ma interessante. Magra e vestita con gusto tardo novecentesco, che poco indulgeva alle mode di quest’inizio di terzo millennio. Colori poco aggressivi. Abito da boutique. Gioielleria da shopping sabatino, ma niente bigiotteria. L’avevo già vista in occasione del passaggio di consegne, ma vederla in casa sua mi portò a osservarla nuovamente.

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Se noi dovevamo avere certamente l’aria stanca e provata, anche lei, in effetti, mi parve avere un aspetto affaticato, per quanto dissimulato dal trucco esperto, cui doveva aver dedicato almeno un buon quarto d’ora. Cercando di non farmi notare, scrutai, istintivamente, alle sue spalle tra i mobili di antiquariato familiare per vedere dove fosse Elena. – La bambina è da mia madre – spiegò Elisabetta – non ci sembrava il caso che assistesse al nostro colloquio, dato che dobbiamo parlare proprio di lei. É piccola, ma capisce molte cose. – Ottima idea – osservai, sebbene il non vederla un po’ mi dispiacesse – ci stavamo proprio domandando come sarebbe potuto andare questo incontro in sua presenza. É davvero una bambina molto sensibile e attenta e temo che non sarebbe stata una buona idea parlare davanti a lei. Ci preoccupava un po’ il pensiero di incontrarla. Temiamo che possa aver vissuto il cambio di famiglia come un nuovo abbandono. – Volevamo parlarvi anche di questo. Prima, però, che ne dite di metterci a mangiare? Salutammo anche il marito, un prototipo di professionista di mezzo calibro. Seguirono un po’ di convenevoli e chiacchiere generiche, da conoscenti occasionali, quindi ci sedemmo a una tavola elegantemente, ma sobriamente apparecchiata. Dopo qualche complimento alla cuoca e alle sue prodezze con il ricettario regionale ci ritrovammo presto, anche per carenza d’argomenti comuni, a parlare di Elena. – La bambina, pur essendo stata piuttosto poco con voi – osservò il signor Scarpelli – sembra esservi molto affezionata, quasi come se foste davvero diventati la sua famiglia. Vi nomina spesso. – Anche noi le vogliamo molto bene – ammise mia moglie. Negli sguardi degli Scarpelli lessi la domanda inespressa «allora perché l’avete lasciata?» ma forse era solo il mio senso di colpa a farmelo immaginare.

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– Peraltro, dopo il primo giorno, almeno, non si è più lamentata della vostra assenza. Questo, però, non vuol dire che si sia tranquillizzata. – Che cosa intende? – chiesi. Esitavo a parlare dei sogni, perché la loro assurdità non era argomento facile da affrontare con un estraneo. Sentivo, però, che quello che anche lui esitava a dire aveva a che fare con quelle insolite esperienze oniriche. – É come se accumulasse … dolore. Non so come dire. É come se poi lo sfogasse in altro modo. – Avete parlato con suo nonno? – chiesi cercando di venirgli incontro e di farlo sbloccare in modo che dicesse quello che già sapevo ci avrebbe prima o poi detto. – No. – Secondo suo nonno, la bambina lo andrebbe a visitare in sogno – stavo sondando le loro reazioni. Non volevo parlare subito di me, ma sentivo il bisogno di metterli al corrente di quello che sapevamo. Lo reclamavano la mia coscienza e il mio desiderio di condividere questa stranissima esperienza. – Credo di capire – rispose il signor Scarpelli – Voi cosa ne pensate? Credete che la bambina… – Suo nonno dice che fa dei sogni molto strani. La bambina pare che compaia con il suo stesso corpo, come se fosse presente fisicamente. – Anche voi avete fatto gli stessi sogni? – intervenne sua moglie. Sentivo che era più disposta del marito ad aprirsi. – Sì – confessai alfine – L’ho sognata anch’io. – É capitato anche a noi – ammise la signora Scarpelli. – Sogni strani. – Anche i nostri – concordò il signor Scarpelli – molto strani. Troppo. – Come se lei fosse veramente lì – si allargò la moglie. – Come se potesse avere un controllo sui sogni – le fece sponda Giovanna, ammettendo con se stessa più di quanto avesse mai ammesso prima.

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– Un controllo sui nostri stessi sogni – precisò Nicola Scarpelli. – Un vero controllo. Come se fosse veramente lì. Come se fosse poi in grado di ricordare da sveglia quello che ha detto e fatto nei nostri sogni – dissi io, calando ogni linea difensiva. – Esattamente! – ammise il signor Scarpelli, con un sospiro come a levarsi un peso dal petto. – É stato così fin dall’inizio – spiegai – ora, però, da quando sta con voi – i sogni si sono trasformati in incubi. – Per me sono sempre stati degli incubi! – intervenne Elisabetta – Mi spaventa. Non ho mai fatto sogni così. Prima voleva tornare da sua madre poi, in sogno, le ho fatto capire che era morta. Non saprei dire neanche io come ci sia riuscita. Deve essere stata… lei a… a carpirmi l’informazione. Da sveglia sarei stata più controllata. Da quel momento Elena ha cominciato a chiedere di voi. É assurdo. É come se fosse davvero lei e poi il giorno dopo… – … il giorno dopo è come se ricordi quel che ha fatto in sogno… nel nostro sogno – spiegò il marito. – É vero. Io credo che abbia poteri paranormali. Non ho mai creduto in queste cose, ma non trovo altre spiegazioni – risposi. Annuirono entrambi. – Ed è sempre più ossessiva. Non ci lascia dormire. Quella presenza, nei sogni, è davvero inquietante. – Da quando è con voi, viene a trovarci e si siede su di noi per tutta la notte, sullo stomaco. Non ci lascia dormire – raccontò mia moglie – sono dei veri incubi. Non riesco a credere che sia lei a provocarli, ma l’impressione è proprio questa. – É lo stesso per noi. Sembra che riesca in qualche modo a suggestionarci tutti. Non capisco come possa farlo, ma riesce a farsi sognare… in modo così strano. Perché non ci avete avvertito? – chiese Elisabetta. – Avvertirvi? – risposi – Ci abbiamo pensato. Che cosa potevamo dirvi? Non ci avreste creduto.

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– É per questo che avete rinunciato all’adozione? – chiese la donna. – Sì – ammise Giovanna – mi faceva troppa paura. – Pensavamo potesse essere un fatto nostro. Non credevamo che la cosa si potesse ripetere con altri. Pensavo quasi fosse un mio disturbo. Nostro. Forse. Certo c’era anche il nonno. Le sue storie. Era tutto così incredibile – mi scusai – non riuscivo ad ammettere che fosse vero, però, eravamo preoccupati. Stava spaventando anche nostra figlia. Pensavamo che con un’altra famiglia si sarebbe calmata. É una brava bambina. Affettuosa. Buona. C’è dispiaciuto molto rinunciare all’adozione… E voi? Rinuncerete? Temevo che potessero reagire male alle mie parole, che si arrabbiassero per essere stati tenuti all’oscuro, ma si dimostrarono persone ragionevoli e comprensive. O forse erano troppo preoccupati e spaventati per adirarsi con noi. – Non saprei – rispose Nicola – siamo ancora sconvolti e non pensavamo che anche voi… non credevamo che ci avreste confermato… Non so. Non so – scosse la testa desolato. Anche se non pareva volerci accusare per avergli scaricato addosso un simile problema senza avvertirli, mi sentivo lo stesso in colpa. L’averla lasciata a un’altra famiglia, senza volto o quasi, era un conto; trovarsi davanti, sedute attorno a un tavolo, con gli occhi negli occhi, queste persone era tutta un’altra sensazione. – Lasciarla ha solo fatto peggiorare le cose – ammisi – pensavamo di far finire tutto, invece, ha cominciato a venire più spesso in sogno e… in modo più… inquietante. – Forse dovrebbe tornare con voi – azzardò Elisabetta. Il mio senso di colpa mi spingeva ad accettare. – No – rispose decisa mia moglie – non se ne parla. Abbiamo un’altra bambina. Dobbiamo pensare anche a lei. Elena mi fa troppa paura. – Con voi, però, forse si calmerebbe – tentò Nicola – è voi che vuole. Vi ha scelto. Vi reclama. Si è sentita abbandonata. Non ne

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capisce il motivo. Mi pare che viva l’abbandono come una punizione. – Forse – ammisi ma, dentro di me, non ne ero per nulla certo. Non volevo però agitarli ulteriormente. Probabilmente c’eravamo aperti troppo, confermando le loro paure. Ora la bambina rischiava di dover tornare in orfanotrofio e questo mi dispiaceva molto. Mi sentivo un po’ colpevole anche di questo. Del resto non mi pareva giusto non essere sincero con quella coppia. Quando tornammo alla macchina, c’era un uomo appoggiato allo sportello, ci vide arrivare e si scansò allontanandosi. Ci lanciò uno sguardo torvo. Di nuovo quel volto. Lo stesso viso che avevo notato qualche giorno prima. – Chi era? – chiese Giovanna, che aveva notato i nostri sguardi. – Non lo so. Ma mi pare di averlo già visto. Salimmo in macchina. Era ormai notte. Un qualche black-out aveva fatto saltare l’illuminazione, ma la luna proiettava la sua debole luce sulla strada che la rifletteva con uno sbrilluccichio insolito. Dopo un paio di chilometri, su un marciapiede, mi parve di rivedere l’uomo di prima. Come poteva essere arrivato fin là a piedi? Forse aveva un mezzo e ci aveva preceduti o forse non era lui. Purtroppo le cose con Elena andarono proprio come mi ero aspettato. La piccola fu restituita un paio di giorni dopo all’Isola dei Bambini Perduti. Nicola telefonò per avvertirci. Questo non era per nulla un bene. Per la piccola, innanzitutto. Perdere la madre e, poi, essere rifiutata da due famiglie avrebbe minato la sua sicurezza. Lo sentivo. Le avrebbe fatto male. Temevo per l’integrità della sua psiche, ma che cosa potevo fare? Mia moglie era irremovibile e io, più spaventato di lei, per nulla convinto di volerla davvero riprendere. In realtà il rischio non era solo quello generico e lontano che potesse subire negli anni gli effetti psicologici del doppio

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abbandono. Sentivo che le sue reazioni ci avrebbero creato dei problemi concreti molto presto.

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18 - ABBANDONATA

Et quia per somnia sic est possibile conoscere presentes passiones in quibus existunt somniantes

et futuro effectus, qui ex illis passionibus causari possunt, ideo peritis medicis debent significari infirmorum somnia.

(Sui sogni – Boezio di Dacia)1

La sera che Elena ritornò all’orfanotrofio non venne a far visita in sogno né a me né a mia moglie. Questo, però, invece di darmi sollievo mi parve piuttosto un cattivo segno, come di una bambina che si chiuda in se stessa e rifiuti di parlare. Sentivo che non era bene. Peggio delle sue apparizioni. Trascorsi la notte in una sorta di dormiveglia, come se aspettassi l’arrivo dell’incubo, che invece non arrivò. Mentre cercavo di addormentarmi, immaginavo il suo ritorno all’Isola. La vedevo sfilare minuta sotto le fauci paperinesche, scorrere lungo i larghi corridoi tristi, orfani di giochi troppo usati e ancora riposti negli scaffali in attesa che i bambini al mattino sciamino fuori dal dormitorio. La vedevo raggiungere la monotona teoria dei lettini bianchi, riprendere possesso del suo angolo di mondo abbandonato, posizionare la bambola Lolla e qualche altro giocattolo ereditato dal suo veloce passaggio nella frenetica normalità delle nostre vite familiari. La vedevo sedersi muta sulla seggiola metallica in fondo alla sala dei giochi senza speranza. Non la vedevo, però, materializzarsi nei miei sogni, forse proprio perché stentavo a dormire e mi mantenevo sempre nel dormiveglia. Mi tormentava la mia cattiva coscienza. Come potevamo aver fatto questo a quella povera bambina? Il pensiero di saperla, triste, persa tra i letti della camerata o, magari, in pianto, mi 1 Ora, visto che i sogni permettono di conoscere le passioni e le conseguenze che potrebbero avere, bisogna raccontare ai medici più esperti quelli fatti dai malati.

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faceva male. Ma piangeva? Piangere non era da lei. Era sempre così serena, come se assorbisse tutto il dolore e, di giorno, non ne lasciasse trapelare neppure l’ombra. Le ombre invece si scatenavano la notte. L’arrivo di un incubo sarebbe servito sia a punirmi, sia a tranquillizzarmi, consentendomi di vederla e dandomi l’illusione di non aver peggiorato le cose, ma non arrivò. Credo di essere stato il primo uomo sulla terra a rimpiangere di aver passato una notte senza incubi! Ricomparve, invece, la seconda notte. Se la maggior parte degli incubi precedenti mi avevano lasciato inquieto, questa volta la sua apparizione mi terrorizzò letteralmente. Apparve improvvisa. Furente. Non era più una semplice bambina. Era una sorta di spirito. Un vero fantasma corposo. Era lei, ma era diversa. Il suo sguardo era disperato, ma nel contempo enormemente furioso. La sua bocca urlante mi pareva un pozzo infinito in cui sarei stato risucchiato in abissi di abbandono. L’urlo muto che si può sentire solo in sogno aveva un suono agghiacciante di pianto e stridore di metallo e dolore e ringhio animale e cupo gracchio. Qualcosa di mai sentito. Un urlo che era solo dentro il mio cervello, per sentire il quale non avevo bisogno di orecchie. Era come se fossi precipitato nel famoso quadro di Munch e questo avesse preso vita, dando voce e movimento all’urlo che vi è rappresentato. L’orrore di quella visione sovrastava enormemente il raccapriccio provocato dalla vista del demone nella galleria. Questa volta era come se le porte stesse dell’inferno si fossero spalancate, mostrandomi l’eternità della sofferenza senza limiti. Immense ali nere di corvo scossero ogni cosa. Fu un soffio. Una folata rovente che mi attraversò la mente, lasciandola riarsa. Mi svegliai di soprassalto. Annaspai alla ricerca di ossigeno e mi ripresi giusto in tempo per vedere il volto di mia moglie, che mi dormiva accanto, contorcersi nello spavento di un sogno, che sapevo essere lo stesso da cui ero appena sfuggito o qualcosa di

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assai simile. Un attimo dopo, anche lei si drizzò a sedere accanto a me, ansimando e con uno sguardo ancora perso nel sonno. Aveva la bocca spalancata, come se volesse gridare, ma non le uscisse la voce o come se non riuscisse a respirare. Credo che una persona che abbia appena rischiato di finire sotto un treno lanciato ad alta velocità potrebbe avere un’espressione simile. Io non dovevo avere certo un aspetto migliore, a giudicare da come mi guardò. I suoi occhi mi parvero vetri opachi su una stanza abbandonata. Guardandola provai un nuovo terrore, che mi scosse con un fremito. Fu, subito dopo, la volta di Laura. Ci precipitammo in camera sua e ci vollero due ore per riuscire a calmarla, mentre stentavamo a placare noi stessi. Il gracchio osceno di quell’urlo continuava a riecheggiarmi nelle orecchie, mentre lo sguardo allucinato di mia moglie, riflesso del mio, si era impresso nelle mie pupille. Il mattino dopo chiamai Nicola. Durante quella cena eravamo passati rapidamente al tu con i signori Scarpelli e a un’intimità per la quale a volte ci vogliono mesi. − L’abbiamo sognata ancora – dissi – ed è stato peggio che mai. − Anche noi – mi rispose – siamo ancora sconvolti. É stato spaventoso. Allucinante. Non so come descrivere quello che abbiamo provato. Che cosa dobbiamo fare? Non lo sapevo. A chi ci si rivolge in questi casi? A un’esorcista? A un ghostbuster? A uno psicologo o uno psichiatra? Eravamo tutti impazziti? Nessuna soluzione ci pareva possibile. Era una questione tra noi e lei. Dovevamo trovare un rimedio tra di noi. − Credo che dovremmo riprenderla – dissi – ma… − I soli che possono fare qualcosa siete voi, Paolo. É voi che vuole. Lo sapete che ci rifiuta. Sapevo che Nicola aveva ragione, ma più Elena diventava spaventosa, meno ci sentivamo disponibili ad accoglierla di nuovo in casa. Giovanna non avrebbe mai accettato. Mia moglie non accettava l’idea che la vicinanza fisica della bambina non ne

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accrescesse la pericolosità. Credeva che tenendola lontano, si sarebbe dimenticata di noi. Sperava in questo modo di riuscire, lei stessa, a dimenticarla. Forse era vero il contrario. Sentivo che più la rifiutavamo, più la situazione degenerava: era un circolo vizioso. Quella notte tornò. Era una furia. Attraversò i nostri sogni come un uragano di carne e sangue, una tormenta di dolore e tristezza e rabbia. Non era più come durante la settimana passata dagli Scarpelli, quando si prendeva tutto il tempo e non ti mollava fino al mattino. Questa volta furono passaggi veloci, ma non risparmiò nessuno di noi. Quando riuscivamo ad addormentarci, riappariva, sempre furente e scatenata. Così per tre volte. Come l’alu babilonese, provocava venti e tornado, anche se solo in sogno. Non avevamo difesa, se non tentare di non addormentarci. Cosa, alla lunga, impossibile. La notte dopo giocò con i nostri sogni. Ci sprofondammo dentro. Ne fummo sommersi. Ne fummo travolti. Era come se i sogni fossero diventati un mare in tempesta. Ci pareva di affogarci dentro. Non risparmiò neppure Laura. La mattina, era molto presto, prima delle sei, ci telefonò Nicola, chiamando sul fisso. – Elisabetta… − annaspò – non ce l’ha fatta. L’ha fatta annegare. É annegata nel sogno. L’ho ritrovata cianotica. Non respirava più. Non capisco come faccia. Ho sognato anch’io d’affogare in una strana sostanza onirica, una cosa che… – Anche noi… − sibilai senza fiato – è successo anche a noi. – E ora è morta! Ora Elisabetta è morta – singhiozzava terrorizzato. – Dobbiamo fare qualcosa – concluse – Dobbiamo fermarla. É pericolosa. – Morta??? Come morta, Nicola? Sei sicuro? Hai provato a rianimarla – boccheggiavo in preda al panico e alla più totale incredulità.

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– Sì, certo. Ho chiamato il pronto soccorso. Sono venuti, ma era già troppo tardi quando li ho chiamati. Non capisco più nulla. Scusa se ho chiamato voi, ma nessun altro avrebbe potuto capire questa storia. È troppo assurda. Mi pare di essere impazzito. – Sembra una follia anche a me, ma è qualcosa che riguarda tutti noi. Non è nella tua mente. Sono preoccupato. Non pensavo potesse arrivare a tanto. Non pensavo potesse essere così furiosa e non pensavo avesse un potere così forte. Questa non è solo suggestione. – Siamo tutti in pericolo. Quando riattaccai, rimasi a sedere alcuni minuti con il cuore che batteva all’impazzata, faticando a respirare. Sentivo che la situazione precipitava e ci stava sfuggendo di mano. Maupassant forse avrebbe detto: «Quale mistero, questa donna uccisa da un sogno!» Il mistero per noi non era, in quel momento, il problema: troppo grandi erano la nostra emozione e la nostra paura. Nessun ispettore di polizia avrebbe sospettato un delitto in una simile morte. Nessun medico legale avrebbe diagnosticato un assassinio. Io credo che a entrambi sarebbe sfuggito il legame tra la morta e la bambina. Nessuno dei due avrebbe mai osato accusare una bambina di quattro anni, chiusa in orfanotrofio, a chilometri distanza per un simile soffocamento notturno. Solo noi sapevamo. Solo noi potevamo capire e, soprattutto, credere a questa improbabile connessione e, devo dire che, se in questo fossi stato solo, avrei dubitato, ancor più che prima, delle mie deduzioni e della mia sanità mentale. Sapevo, però, che anche i gruppi sono capaci di follie. Ricordavo episodi di cronaca di coppie assassine, non per calcolo, ma per pura pazzia. E la follia dell’amore? Quante pazzie può compiere una coppia per amore. Strana follia l’amore! Strana malattia la follia! Non può certo dirsi contagiosa come certi virus, eppure… Eppure talora si propaga a chi c’è più vicino, a chi vive in sintonia

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con noi. Era questo il nostro caso? Era il caso di mia moglie e mio? E Nicola? Come potevamo aver contagiato anche lui e sua moglie? Non certo tramite questa vicinanza emotiva. È vero che eravamo ormai amici, ma fino a poco fa eravamo perfetti sconosciuti. L’amicizia e l’amore hanno tempi loro. Un amore può unirci in poche ore a una persona più di quanto siamo uniti ad altre che conosciamo da anni. Strana alchimia. Ma questo vincolo poteva accomunarci davvero nella pazzia? Non saprei dire se il contagio della follia si ferma ai parenti stretti, agli amanti. Che cosa dire allora delle follie delle folle! Non abbiamo visto interi popoli impazzire? Non abbiamo visto intere nazioni macchiarsi dei delitti più mostruosi? Popoli interi schierati come un sol uomo hanno marciato in guerra o votato ciecamente un tiranno o un truffatore. Popoli interi hanno ignorato la più elementare razionalità e si sono lasciati abbindolare dai messaggi pubblicitari, dalle promozioni televisive, dalle illusioni demagogiche. L’umanità intera sta avvelenando, giorno dopo giorno, il pianeta stesso su cui vive. E non è questa pazzia? Non è questa la pazzia più grande? Non sono follie collettive le guerre? Era il nostro caso? Nonostante tutto non lo credevo. Non lo volevo credere. Ma il pazzo riconosce forse sempre la propria pazzia? Purtroppo no. È sempre l’ultimo a riconoscerla. Piuttosto considera folli gli altri, anche il mondo intero. Allora, forse, ero io il solo matto. Poteva darsi il caso che la mia insania fosse tale da farmi immaginare la mia stessa aberrazione anche negli altri. Forse ero solo io a fare quegli strani sogni ed ero dunque solo io a immaginare di non essere solo in questo. Non avevo risposte. Dovevo continuare a credermi savio e quindi a credere nell’incredibile. L’alternativa sarebbe stata sprofondare nelle sabbie mobili della pazzia. Dopo un’ora, che mi parve un’eternità, richiamai Nicola.

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– Andiamo a cercarla all’orfanotrofio appena apre – gli intimai risoluto. – Va bene – rispose fiacco Nicola, ancora troppo scosso per prendere decisioni. La sua reazione mi parve comunque positiva. Se non altro non restava a ripiegarsi su se stesso. Non sapevo, però, a cosa sarebbe servito. Che cos’altro potevamo fare, del resto? ELENA AVEVA UCCISO. Questo era troppo! In altre epoche l’avrebbero certo bruciata su un rogo. Era una strega, un mostro. Dovevamo convincercene. Dovevamo? Le sue sembianze da bambina erano solo l’inganno di un demone per difendersi, per indurci a non fargli del male? Era posseduta? Magari era qualche essere infernale a usare la sua mente per le sue azioni perverse. Eppure c’era una logica che poteva ricondurre tutto a Elena, solo a lei, e al suo trauma da abbandono… se solo ci fosse stata una spiegazione per il suo potere! Nel medioevo avrebbero pensato alla possessione, ma eravamo ormai nel terzo millennio! Un simile ragionamento non reggeva: era una bambina. Era solo una bambina! Una bambina con dei poteri, che non sapeva controllare, e un dolore più grande di lei. Noi eravamo gli adulti e dovevamo aiutarla, non punirla e neppure cercare di sfuggirle. Dovevamo capire. Nell’era della scienza e della tecnologia non potevamo lasciarci ingannare e credere ancora nei fantasmi. Una spiegazione doveva esserci e l’avremmo trovata e con essa una soluzione. Freud ci sarebbe stato certo più utile di Torquemada. L’epoca dei roghi era finita. Il potere di Elena doveva andare a beneficio della scienza e dell’umanità, non finire in un processo di stregoneria o in una Stanza Grigia alla Dean Koontz.

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19 - SCOMPARSA

Per color che sono svegli esiste un solo mondo comune, mentre chi si addormenta entra in un mondo suo proprio.

(Eraclito)

Che cosa ci andavamo a fare all’orfanotrofio? Non lo sapevo. Lasciata Laura dalla nonna, perché era ancora troppo sconvolta per andare a scuola, mi recai con Giovanna all’Isola dei Bambini Perduti. Nicola era già lì, davanti alla porta: un cencio slavato. I capelli castani, quasi biondi, erano spettinati, come se se li avesse aggiustati solo con un veloce passaggio delle dita. L’altra sera era vestito sobriamente, ma con accuratezza. Ora portava un maglione arancione aperto che faceva a pugni con la camicia celeste, che teneva malamente infilata nei pantaloni. Aveva lo sguardo spento. Ci guardava e sembrava non vederci. Gli strinsi con vigore la mano che mi porgeva, afferrandogli una spalla con la sinistra, nel vano tentativo di trasmettergli tutta la mia condivisione per il suo dolore. Entrammo assieme, tenendo Nicola tra me e mia moglie. Maria, vedendoci, ci venne incontro agitata e ci aggredì senza neanche salutarci. − Siete stati voi? L’avete presa voi? − Chi? – chiesi – Elena? No. No, davvero. Eravamo qui per… − É scomparsa questa notte. Non la troviamo più. Era nel suo letto stanotte e stamattina non c’era più. É un’ora che la cerchiamo dappertutto. Non osammo parlare all’assistente sociale dei nostri incubi, né della fine di Elisabetta. Anzi io feci un tentativo di parlare, ma Nicola mi fermò con un gesto. − Ora pensiamo a lei – disse con un filo di voce. Lo guardai negli occhi e annuii di fronte alla sua determinazione. Ci mettemmo a cercarla assieme a Maria. Dopo un’ora che cercavamo dentro e fuori l’orfanotrofio e dopo aver avvertito la

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polizia, finalmente ci mettemmo a sedere e fu l’assistente sociale, guardando Nicola, a chiedergli: − Lei, però, non è sconvolto così solo per la scomparsa della bambina? Nicola scosse la testa, ma non rispose. − Sua moglie è morta stamattina – spiegai con un filo di voce. − Ed è venuto qua? – calcò l’accento sull’ultima parola. − Volevo rivedere Elena – rispose. − Proprio non vi capisco. Siete tutti così legati a questa bambina e nessuno di voi la vuole adottare. Perché? Muore sua moglie e la prima cosa che fa è cercare un’orfana che avete tenuto in casa solo pochi giorni! Perché? Non sapevo come spiegarle quanto era successo. Nessuno di noi rispose, nonostante lo sguardo interrogativo di Maria che continuava a scrutarci uno a uno. Dentro di me mi chiesi se Nicola le avrebbe detto qualcosa delle cause della morte di Elisabetta. Poteva anche non dire nulla. Era morta nel sonno. Un blocco della respirazione, l’avevano detto anche quelli del pronto soccorso. C’era un referto. Non sembrava fosse stata assassinata. Nessuno l’avrebbe sospettato. Il caso, per i medici, era chiuso. Probabilmente non avevamo bisogno di parlarne con Maria. Se Nicola taceva, io avrei fatto altrettanto. Poteva aiutarci Maria? Che cosa poteva fare lei più di noi? Chi poteva fare veramente qualcosa? Era inutile coinvolgerla. Quella bambina era pericolosa. Lo era diventata. Non potevamo non fare nulla. Ora, poi, era persino sparita. Era del tutto fuori controllo. Se l’avessimo trovata, cosa avremmo dovuto farle? Imprigionarla? Questo avrebbe annullato i suoi poteri? Certamente no. Portarla dall’altra parte del mondo? E lì cosa avrebbe fatto? Non sarebbe stata in grado di raggiungerci, comunque, con i suoi poteri telepatici? Anche ammesso che non potesse, avrebbe potuto fare del male a qualcun altro laggiù.

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La mia razionalità ancora una volta rifiutava di credere che tutto ciò fosse reale. Non poteva essere che avesse davvero ucciso Elisabetta! Forse il cuore della donna aveva ceduto da solo. Magari le apparizioni di Elena lo avevano provato, ma la bambina non poteva essere colpevole. Non potevo credere che avesse voluto ucciderla. E sua madre? Aveva provocato anche la morte di Michela? L’aveva fatto apposta? L’aveva fatto veramente? I suoi poteri le erano sfuggiti di controllo? Dato che era scomparsa, poteva anche non riapparire più. Se l’avessimo trovata noi, avremmo dovuto farla scomparire per sempre? Dovevamo farlo per il nostro bene e per quello di chiunque altro un giorno si fosse imbattuto in lei? Avremmo dovuto ucciderla? Giustiziarla? Questo andava oltre la nostra morale. Mi rifiutavo anche solo di pensare che si potesse far del male a una bambina, per quanto pericolosa. Uccidere era un’idea che non mi apparteneva. Uccidere una bambina, poi! Uccidere lei? Le volevo troppo bene. Non potevo non volerle bene, nonostante tutto. Impensabile. Ma era una normale bambina? Non era piuttosto un mostro? Un pericolo per l’umanità? Un’assassina? Non fermarla cosa avrebbe comportato? Da morta, magari, sarebbe diventata un fantasma e ci avrebbe perseguitato. Sembrava che più l’allontanavamo e peggio andavano le cose. Le storie di fantasmi non mi sembravano più pura fantasia. La lotta contro la mia razionalità mi sfiancava e mi rendeva incapace di prendere una qualsiasi decisione. Ero ai limiti della schizofrenia. Una parte di me credeva nei suoi poteri e un’altra parte si rifiutava. I miei pensieri erravano senza senso, si ripetevano in un circolo vizioso in cui mi ponevo sempre le stesse domande. Per gli altri non doveva essere diverso. Decidemmo di porci un obiettivo immediato. Dovevamo smettere di ragionare, perdendoci in uno spazio troppo angusto per qualsiasi razionalità

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o forse troppo ampio per non naufragarci privi di bussola o coste cui fare riferimento. Dovevamo agire. Fare qualcosa. Qualsiasi cosa che ci allontanasse dal quel vano elucubrare e ci riportasse alla nostra realtà di uomini e donne in un mondo di terra, carne, tecnologia e certezze scolastiche. Decidemmo di continuare a cercarla. In questo modo potevamo concentrarci su qualcosa di concreto e normale e provare a risolvere un problema più umano. Dedicammo così il resto della giornata a perlustrare strade e a chiedere informazioni ai passanti. Percorremmo le vie familiari attorno alle nostre case, le strade degradate vicino all’orfanotrofio, ci addentrammo in centro nella confusione dei branchi inumani di turisti irreggimentati dietro a ombrellini svolazzanti, degli uomini d’affari a passo di marcia, dei negozianti indaffarati, dei patiti dello shopping ciondolanti, delle scolaresche schiamazzanti e dei venditori ambulanti d’inezie massificate. Consumammo le suole di gomma e quelle di cuoio toscano delle scarpe, fermammo passanti indispettiti per chiedere notizie, lasciammo cartelli A4 con foto da ricercata appiccicati con lo scotch, accanto a quelli di gatti e cani dispersi, esaminammo ogni bambina che occhieggiasse all’orizzonte. Tutto invano. Non ci restava che ricorrere agli avvisi sui tetrapak del latte, wanted ormai in disuso. La notte Elena tornò a trovarci. Il sollievo per averla ritrovata almeno nell’irrealtà del sogno svanì però in un attimo, appena lei prese possesso dei nostri processi onirici. Questa volta andò a rimestare nella nostra memoria. Fu come qualcuno che apra un vecchio baule pieno di ricordi e polvere e ne faccia volare il contenuto per aria. Lei era lì a guardare. Muta e pallida. I miei ricordi volteggiavano ovunque, attorno a me e a lei, come fossero vecchie fotografie gettate all’aria. Ricordi dimenticati da tempo, memorie infantili, pensieri rimossi, ricordi

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dolorosi. Non fu per nulla piacevole. Era come essere sommersi dalla memoria. La nostra mente rimuove i vecchi ricordi, perché è bene sia così, per non farci soffrire, per fare posto ai nuovi, per migliorare l’efficacia del funzionamento del nostro cervello e per ragioni a me sconosciute. Eppure ogni memoria lascia una traccia nel cervello. I ricordi non scompaiono del tutto, rimangono quieti da qualche parte nel nostro cervello e solo a volte riaffiorano. Far tornare a galla i ricordi perduti non fu piacevole. Fu tutto troppo violento e veloce. Una cosa è quando una vecchia memoria riprende poco a poco forma nella mente, altra cosa è se centinaia di ricordi cancellati tornano come fantasmi a riprendere consistenza! Il giorno dopo la mia mente era in stato confusionale. Non dico che non ricordassi più nulla, anzi ricordavo anche troppe cose, ma stentavo a far ordine e a connettere un ricordo con un altro. La sequenza degli eventi della mia vita sembrava essersi persa. Le memorie più recenti sembravano sepolte dietro le più vecchie, che credevo dimenticate per sempre e che ora stuzzicavano la mia curiosità, distraendomi. Rimpianto, nostalgia e sentimenti simili mi stavano sopraffacendo. Mi ci volle tutto il giorno per tornare a ragionare in modo corretto. Pensai alla nonna di Elena. Forse anche lei aveva subito un analogo trattamento ed era stato questo a sconvolgerle la mente. A volte nel cervello celiamo dei mostri che è bene non ridestare. Anche mia moglie e mia figlia dissero di aver avuto lo stesso sogno. Per Laura fu meno traumatico di altre volte, forse perché aveva meno ricordi di noi e quindi il rimescolamento fu relativo. Mia moglie mi parve sconnessa per un paio di giorni. Sbagliava le parole, non ricordava dove fossero le cose e aveva gli occhi lucidi come per una continua emozione. Su di me non ne vedevo altrettanto chiaramente gli effetti. Credo, però, che fossero minori, anche se mi trovai più volte ad annaspare alla ricerca di una parola che non mi veniva fuori o faticai a ricordare delle password che normalmente tenevo a mente. Eventi del lontano

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passato mi parevano avvenuti di recente e mi ricordavo di persone morte o di cui avevo perso i contatti, come se ci fossero ancora. Per fortuna questo stato confusionale da Alzheimer finì in fretta. Tra le altre cose, però, ci dimenticammo di cercare Elena. Era stato quello il suo obiettivo? Ne aveva uno? Può una bambina di quattro anni, per quanto paranormale, programmare azioni di questo genere? E, soprattutto, che cosa poteva fare, alla sua età, da sola per la città? Se fosse stata una bambina come altre si sarebbe certo cacciata nei guai. In questo, mi pareva, lei fosse normale: piccola e sprovveduta come qualsiasi bambina dell’asilo. Magari sarebbe finita sotto una macchina. Per un veloce, gelido, crudele istante, quasi lo sperai. Così almeno tutto sarebbe finito. Subito dopo inorridii al pensiero. Come mi stavo riducendo? Stavo diventando anch’io un mostro insensibile? La sera ebbi conferma che era sopravvissuta alla giungla di cemento. La trovai in casa. Era sul terrazzo assieme a Laura e giocavano tranquillamente, poi mi vide e fu come se avesse aspettato quel momento. Mi fissò per un istante, quindi afferrò le caviglie di mia figlia con entrambe le mani e, con una forza che mi parve mostruosa per una bimba così piccola, la sollevò e la spinse oltre la ringhiera. Mi precipitai verso di loro, urlando disperatamente, mentre vedevo Laura precipitare di sotto. Mi affacciai e la vidi, quattro piani più giù, immobile. La mia vita era spezzata. Finita. Quanto avevo di più caro al mondo non c’era più. Lo scopo della mia esistenza era stato cancellato per sempre da quel folle gesto di una bambina troppo piccola per crederla consapevole della propria sconfinata crudeltà. Ignorando Elena, angosciato corsi giù per le scale, che parevano turbinarmi attorno, e raggiunsi mia figlia in strada. Non era

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morta, ma era priva di sensi e pareva paralizzata. Sapevo che non dovevo illudermi, che per lei (per me) non c’era speranza. Era solo questione di tempo, ma il suo destino era segnato. Non si sopravvive a una caduta simile. L’ambulanza impiegò un’eternità ad arrivare e quando i medici la videro, le loro parole mi straziarono l’anima, anche se le attendevo: non sarebbe sopravvissuta alla notte. La sua vita era ormai appesa a un filo e… anche la mia. Mi presero un’angoscia e un dolore, quali mai avevo provato in vita mia. Credevo che per me non potesse esserci dolore più grande di questo. In quel momento ebbi conferma di quanto avevo sempre pensato, cioè che non ci fosse nulla al mondo che amassi più di Laura. Sentii gracchiare in cielo. Di nuovo i corvi, presagio funereo, pronti per il loro lugubre pasto. Volteggiavano su di noi. Sbarrai gli occhi e mi trovai a fissare il soffitto della camera da letto. Ero riuscito a risvegliarmi da quell’incubo impietoso, ansimando e maledicendo Elena, sebbene questa volta forse non era stata la diretta artefice del sogno. Perdere mia figlia mi avrebbe straziato l’anima. L’angoscia non mi lasciava. Avevo un disperato bisogno di tornare alla realtà, di scacciare anche solo il sospetto che quell’incubo potesse essere vero. Corsi in camera di Laura a vedere come stesse. La camera era vuota. Alzai le coperte. Sangue. Sangue ovunque. Le gettai in terra. Mi guardai attorno disperato. Mi svegliai e saltando giù dal letto corsi in camera di Laura e, grazie al cielo, questa volta, dormiva tranquillamente. Mi girava la testa. Questa volta Elena, se era stata lei, era andata a cercare nel mio cervello le più segrete paure, rendendole reali. Quando mi riaddormentai Elena (o la mia angoscia) non smise di tormentarmi e mi fece rivivere paure di quando ero bambino, che ripresero possesso di me, come se non fossi mai cresciuto: paura del buio, paura degli insetti. Nelle tenebre fece comparire millepiedi e scarafaggi orripilanti. Io ero tornato bambino ed

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esseri mostruosi dagli occhi sfaccettati e dalle numerose zampe mi aggredivano assalendomi da ogni parte. Non c’era modo di difendersi. Gli scarafaggi si mangiavano l’un l’altro e diventavano sempre più grandi. Sbavavano. Cigolavano innaturalmente. Le finestre furono scosse da un soffio di vento. Vibrarono. Si spalancarono. Uno stormo colossale di corvi eruttò nella stanza, volteggiando ovunque. Gli uccelli divorarono gli insetti, poi uno mi fissò. Capii subito che qualcosa stava per accadere. Mi si avventarono tutti addosso, beccandomi e graffiandomi. Ero piccolo. Sempre più piccolo. Sei anni. Quattro. Un lattante. Un corvo colossale m’inghiottì in un boccone solo. Sgusciai attraverso il suo corpo umido, puzzolente e scuro e uscii dall’ano. Subito un altro corvo mi afferrò e m’inghiottì nuovamente.

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20 - ALL’OSPIZIO

La perenne tentazione della vita è quella di confondere i sogni con la realtà.

(Jim Morrison)

La mattina ci svegliammo ancor più sconvolti e stravolti. Dopo quella notte avevo ormai un solo pensiero: fermarla. Fermare Elena a ogni costo. Mia moglie era ancora in stato confusionale. Provai a chiamare Nicola. Mi rispose che pareva un demente. Quasi balbettava e sembrava non ascoltare una sola parola gli dicessi. Cercai di scuoterlo, ma le mie parole si perdevano lungo i cavi del telefono, senza effetto alcuno. Mia figlia aveva i nervi a fior di pelle e si spaventava di tutto. Ci seguiva passo passo anche dentro casa. Non la si poteva lasciare da sola nella stanza accanto: subito veniva a cercarci o ci chiamava con qualsiasi scusa. Non si poteva andare avanti così. Dovevo trovare Elena e sistemare la situazione, in un modo o nell’altro. Mi aggirai per la città come un pazzo. Avevo la barba non rasata e mi ero messo addosso le prime cose che avevo trovato. Quando fermavo qualcuno per chiedere se avessero visto una bambina di quattro anni aggirarsi da sola, mi guardavano con preoccupazione. Non capivo se per il mio problema o per il mio stato mentale e, forse, fisico. Spesso non mi rispondevano e tiravano dritto, come davanti a un venditore ambulante colpevole di sognare una vita migliore o a un barbone demente e alcolizzato. Decisi di andare dai suoi nonni, all’ospizio. Non contavo di trovarla, ma speravo di scoprire qualche indizio per dipanare la follia in cui stavo annaspando. Percorrendo il corridoio su cui s’affacciava la camera di nonno Giuseppe, mi venne incontro sua moglie, nonna Matilde. Pensai di provare a chiedere qualcosa anche a lei, anche se non speravo di tirarne fuori nulla di utile. Quella donna, in precedenza, mi era

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parsa del tutto fuori di senno. La salutai. Temevo non mi riconoscesse. La donna m’aggredì subito, sommergendomi di parole: − Il seme del diavolo produce esseri infernali! Il Demone sopravvive nella Figlia. ASCOLTA! Il peccato non sarà cancellato. ASCOLTA! La sua furia non ha fine. Il dolore è inferno che brucia. Il dolore è vendetta. Il piccolo cuore non comprende il tradimento. Ella − o forse aveva detto Elena − ha richiamato gli Spiriti dell’Abisso. Senza amore non c’è pace. Senza pace il sogno è incubo. La luce è spenta. La luce è spenta. ASCOLTA! Ascolta la voce della notte, ascolta la voce dello Spirito. Non lasciarti ingannare dai trucchi del Maligno. Sembrava una predicatrice millenarista sfuggita da Hyde Park Corner. Alternava al suo sproloquio delle grida penetranti con l’invito ad ascoltare. Chiunque, sentendo un simile fiume di parole sconclusionate e allucinate, avrebbe confermato la sua pazzia e non vi avrebbe cercato alcun senso, ma io le ero, mentalmente, ormai troppo vicino per ignorare quel vaneggiamento. Colsi, dunque, delle allusioni che mi fecero sperare che, forse, qualcosa avrei potuto cavare da quella vecchia sconvolta. − Il diavolo? − chiesi. − Venne, bello e gentile. Elegante e fascinoso. Mia figlia ne fu stregata. Le dissi: «Guardati da lui!» Ma lei non mi diede ascolto. Le figlie non ascoltano le madri. Le dissi: «Quell’uomo è il diavolo!» Ma lei non mi diede ascolto. Io lo avevo conosciuto. Avevo provato il suo seme. ASCOLTA! Era sempre lui. Era suo padre… − Giuseppe? La vecchia rise sguaiata. − Suo marito Giuseppe è il diavolo? – chiesi ancora. − Giuseppe è un piccolo, povero uomo. Il Diavolo ha preso mia figlia. Il possente angelo perduto dalle ali di corvo spettrale.

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− Il padre di Elena? È lui il diavolo? − che razza di conversazione stavo facendo? Che cosa pensavo di scoprire? − Era il padre di Michela. È il padre incestuoso di Elena. Appare e scompare. In un secondo è dentro di te e poi scompare per decenni. Non conosce il tempo. È fuori del tempo. Non invecchia, lui. Non muore. Soffre in eterno. Soffia nel ventre delle donne e le sue creature sono dannate come lui. Elena è doppiamente dannata. Il demone venne di notte. Non visto. Mi prese nel mio letto. Venne a rivendicare il suo frutto. Il Diavolo è avido. Vuole anime ma anche corpi. Il Diavolo conduce i suoi figli nell’abisso. Senza Luce. È calore ed è gelo. − Dov’è ora Elena? − Nei sogni. Elena vive nei sogni. Michela è un sogno. Lui è l’Incubo. Lui è l’Abisso. La Bestia. Ma la Bestia non può dominare gli spiriti liberi. Non poteva dominare Michela. Non poteva e l’ha uccisa. Ora vuole Elena, ma non avrà neanche lei. È così dalla notte dei tempi. L’Incubo muore con l’alba. Elena vincerà Mefistofele. Elena troverà la strada. − Come possiamo aiutarla? − L’Amore sconfigge il Maligno. La porta aperta fa fuggire l’Incubo. La porta aperta lascia entrare l’Amore. La bambina potrà essere bambina. La donna potrà essere donna. Il sogno potrà essere riposo. Quindi la vecchia cambiò espressione e, accigliandosi, prese a urlare: − ASCOLTA! Senza l’Amore, l’Incubo non ha fine. La solitudine è il regno dell’Incubo. L’Incubo uccide. L’Incubo uccide! ASCOLTA! Urlando se ne andò, quasi di corsa, curva, trascinando le pantofole con i piedi strascicanti. Sparì dietro l’angolo del corridoio. Rimasi lì fermo, in piedi. Incerto. Non capivo. Sentivo la voce della donna nella mia testa e qualcosa mi diceva che c’erano indizi in quelle parole insensate, anche se forse non c’era

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la verità. «Senza l’amore, l’incubo non ha fine! L’incubo uccide!» Era stato quando avevamo negato a Elena il nostro amore, che lei aveva peggiorato il suo comportamento paranormale. La solitudine è il regno dell’incubo! Ora che Elena era sola aveva anche lei degli incubi? Come viveva i nostri sogni? Se erano orrendi per noi, che siamo adulti, cos’erano per lei? Lei stessa era prigioniera dei suoi stessi sogni? Erano la rabbia, il dolore e la tristezza che la facevano diventare cattiva? Eravamo noi che la rendevamo malvagia? Chi era colui che la vecchia definiva Diavolo? Feci i pochi passi che ancora mi separavano dal letto di nonno Giuseppe. − L’ho sentita! − mi disse accogliendomi − ho sentito mia moglie che urlava nel corridoio. L’Incubo uccide! Gridava così − tacque un istante. − Dov’è Elena? − Speravo potesse essere lei a dirmelo! − È sola e disperata. Questo lo so. Non saprei dove sia. Ha fatto qualcosa di grave? È così disperata! Il rimorso la rode. − Dopo che abbiamo rinunciato all’adozione, l’aveva presa un’altra famiglia. Anche loro non se la sono sentita di tenerla. Eravamo tutti troppo spaventati dai sogni che Elena ci faceva fare. L’hanno riportata all’orfanotrofio. Lei, però, è scappata. Se n’è andata. La donna che l’aveva presa dopo di noi è morta. − In sonno? − In sonno! − Oh! Ohi ohi! – il vecchio si agitò nel letto con aria sinceramente addolorata, sembrava che oltre a essere dispiaciuto per la morte di Elisabetta, fosse sconvolto dalla piega degli eventi. Credo temesse per la sorte della nipote − Allora è peggio di come immaginassi. Mia moglie ha visto giusto. Il suo dolore deve essere davvero immenso! Povera piccina! − Chi era suo padre? Dov’è? Forse potrebbe riprenderla lui.

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− Suo padre? Io non l’ho mai visto. Mia moglie dice che è il diavolo. − L’ha detto anche a me. − Dice che è lo stesso uomo con cui ha concepito Michela. − Michela non era figlia sua? − Chi può dirlo. Come dicono i latini? Mater semper certa est, pater nunquam. Certo, quando tua moglie ti dice che non sei tu il padre, il sospetto ti viene. Solo che Matilde lo vede com’è? Come si può credere a quello che dice? Un uomo. Sempre lo stesso. Sempre bello e giovane. Un uomo che torna dopo oltre vent’anni e fa innamorare la figlia della stessa donna con cui l’aveva concepita! Demoniaco o impossibile, non trova? Non sono neanche sicuro che Matilde l’abbia davvero visto, il ragazzo di Michela. Magari somigliava solo a qualche suo ricordo. Chissà? Certo, Michela non è stata per molto con lui. Non ha mai voluto parlarne. Sono sicuro che fosse un amore passeggero. Una botta e via, come dicono i giovani − spiegò storcendo tristemente la bocca − quello che forse mi dispiacerebbe di più, se avesse ragione mia moglie, sarebbe di… non aver mai avuto veramente una figlia mia, di non aver mai avuto una nipote vera. Le ho amate, però, come se lo fossero state. Sì… − Con Elena mi pare ci fosse molta sintonia. Vi somigliate. − Elena si attaccherebbe a chiunque. È una bambina con un disperato bisogno di amore. L’avete visto. Ha bisogno di una famiglia. Ha sempre avuto bisogno di un padre e ora anche di una madre. Fatele riavere una famiglia e si placherà.

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21 - CON MARIA

In sogno, in visione notturna, quando il sopore discende sugli uomini ed essi dormono nei loro giacigli, allora Egli apre le orecchie agli uomini

e li erudisce istruendoli nella disciplina. (Bibbia - Giobbe)

Tornai all’orfanotrofio. Parlai con Maria delle mie ricerche inutili. Anche la ragazza era molto preoccupata. Si offrì di accompagnarmi e così riprendemmo a vagare assieme nel caos indifferente del traffico cittadino. Con lei accanto mi sentivo meno pazzo. Mentre ci spostavamo da un quartiere all’altro riuscivamo a chiacchierare e la tensione si allentava. Il fatto di non averle detto dei poteri di Elena rendeva quei momenti più normali e io avevo un gran bisogno di normalità e di razionalità, di poter tornare alle cose concrete e reali, di poter dimenticare sogni, incubi e follie. La sua voce mi cullava, mi avvolgeva. Ogni volta che mi giravo per guardarla, mi sembrava sempre più bella. Una bellezza interiore che si manifestava nella radiosità dei suoi sorrisi sereni. Nel mio stato confusionale, sentivo che stavo per cedere: me ne stavo invaghendo (parlare d’innamoramento sarebbe certo eccessivo). C’era qualcosa che mi trascinava verso di lei. Un magnete dell’anima o forse solo del corpo. Più che da lei, però, credo fossi attratto dalla vita normale. Maria mi pareva la rappresentasse, sia rispetto alle fatiche del lavoro e del tran tran quotidiano, sia rispetto a quel mondo onirico che si stava impossessando di me. Luce tra le tenebre. Mi stupiva come riuscisse a vedere in Elena solo una bambinetta abbandonata, che, presa dalla tristezza, si era persa per le vie della città. Avrei voluto vedere le cose con i suoi occhi, ma mi riusciva - un poco -solo quando le ero accanto. La città era troppo grande per trovare chiunque, anche se a volte tra la folla emerge un volto, s’incontra chi meno t’aspetti o un ricordo prende forma in un viso dimenticato. Non fu il nostro

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caso. La sera avevo i piedi che mi facevano male e i calzini di filo di Scozia bucati per il troppo camminare, ma di Elena non avevo trovato neanche una traccia, neppure illusoria. Nessuno che avesse notato una bambina, una qualsiasi, che se ne stesse da sola da qualche parte. Che fine poteva aver fatto? Si nascondeva? Si era persa? Nonostante i suoi poteri, era ancora tanto piccola. Doveva essere disperata. Eppure in quei momenti non sempre riuscivo a pensarla come una bambina. Troppo spesso mi appariva come un mostro pericoloso. Anche se la presenza di Maria mi confortava, ogni volta che la nominavamo ripensavo a tutte le assurdità che avevamo vissuto. Le parole allucinate di sua nonna mi rimbombavano nella testa. Un demone! Ripensavo alle antiche credenze su incubi, efialte e mahr e quei mostri mi danzavano corposi nel cervello. Più volte, camminando, Maria mi chiese se mi sentissi bene. − Hai un’aria sconvolta. Questa storia sembra averti davvero preso molto. O c’è dell’altro? Alla fine Maria mi chiese d’accompagnarla a casa. Quando fummo arrivati, vedendomi ancora confuso, stanco e agitato, mi offrì di salire un attimo a darmi una rinfrescata. Ero esausto. L’idea di rimettermi in marcia subito per tornare a casa mi affaticava. Accettai, mentre il mio cuore improvvisamente accelerava i suoi battiti. Il solo pensiero di salire le scale dietro di lei me la rendeva più attraente. L’ingresso della casa era semplice. Un portaombrelli, un tavolino con sopra un corno di rinoceronte, uno specchio e una poltroncina. Mi colpì soprattutto quel cimelio da safari che non avrei abbinato a lei. − Qui ci sono gli asciugamani – mi disse, portandomi in bagno – fatti una bella doccia e vedrai che ti sentirai meglio. Un’offerta singolare, ma che non rifiutai, pur sentendomi confuso.

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Entrai in bagno e m’infilai sotto l’acqua. Avevo proprio bisogno di una doccia. Non solo per il sudore, ma, soprattutto, per rilassarmi. Si dice che una doccia aiuti anche a placare i bollenti spiriti, ma forse farlo nella casa della donna che quegli spiriti sta scaldando non riesce a sortire lo stesso effetto e il mio corpo stava reagendo in senso inverso. La porta della stanza non aveva chiave e la lasciai aperta, non avevo scelta, ma in questo ammetto una certa malizia. Stavo cominciando a insaponarmi, quando entrò lei. Era completamente nuda, come solo in un sogno di solito avviene, eppure ero certo di essere sveglio, almeno questa volta, sebbene facessi sempre più confusione tra i due stati. Maria andò al lavandino e si lavò come fosse la cosa più naturale di questo mondo farlo davanti a me. Essere tutti e due nudi, nella stessa stanza, non riuscivo, personalmente, a considerarlo ordinaria amministrazione. Mi vennero in mente certe usanze scandinave, che consideravo più che altro leggende metropolitane, e cercai di convincermi che non ci fosse alcuna provocazione nel suo comportamento. La vedevo attraverso il vetro della doccia solo vagamente opaco e anche lei vedeva me. Non poteva non notare che mi stavo eccitando. Fissandomi si sedette sul bidet e continuò a lavarsi. Uscii dalla doccia che era ancora seduta lì. I miei desideri erano evidenti davanti ai suoi occhi. Mi agguantò per le gambe, tirandomi a sé, poi piazzò le mani con vigore sulle mie natiche, mi guardò alzando la testa e... Fui vento e fui tempesta. Fui pietra e fui magma e lava. Ero una belva affamata. Ero energia e potenza. Ero motore pulsante, muscoli in tensione. Ero desiderio e passione. Ero passato e futuro. Eravamo una cosa sola. Eravamo due corpi fusi nel rotolare umido di sudore e essenze vitali, ma un solo spirito. Eravamo vita. Nulla esisteva attorno a noi. Non c’era più il tempo. Non c’erano più la luce e il buio. Lo spazio era una finzione elastica, che si adattava alla nostra presenza assente.

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Quanti anni erano passati dall’ultima volta in cui mi ero sentito così? Era mai successo prima? Stava succedendo allora o era solo illusione? Dove stavamo andando? Alla fine, spossati, restammo distesi sul letto, uno accanto all’altra. Rapidamente precipitammo di nuovo sulla terra. Eravamo ancora però in uno spazio nostro. Lontano dal resto del mondo. Respiravamo. In quell’intimità ebbi il coraggio di confidarle qualcosa di Elena. − Continuo a sognare la bambina. Sono sogni strani. Incubi. Sono preoccupato. Agitato. Chiaramente non sapeva di cosa parlassi, perché decise di tranquillizzarmi baciandomi ancora, come se il problema fosse tutto nella mia mente, una banale preoccupazione. O forse anche lei era ancora troppo presa dalla magia di cui eravamo stati schiavi per qualche attimo, per poter pensare ai problemi materiali. Le parole sono solo brezza, quando a parlare sono i corpi. Non ero, del resto, certo il primo uomo al mondo a fare degli incubi e non le avevo spiegato quanto fossero strani. Non tornai sull’argomento. Con lei accanto mi pareva fosse davvero tutto solo un brutto sogno. Restammo un po’ rilassati sul letto e la vidi addormentarsi. Il mio respiro tornò normale. La mia mente si liberò dall’allucinazione psichedelica in cui si era spinta. Io continuavo a stare sveglio, tuttora inquieto, incapace di prender sonno. Mi affacciai alla finestra. Le nuvole, ancora una volta, correvano troppo veloci, guardarle mi faceva perdere l’equilibrio. Ancora non mi ero ripreso dallo stordimento di quell’incontro. Distolsi lo sguardo e mi girai. Elena era tra me e il letto. Cercai goffamente di nascondere la mia nudità alla bambina. − Vattene! – le intimai – non disturbare i miei sogni – neanche per un istante mi passò per la testa che Maria potesse aver finto di cercarla assieme a me e che la tenesse invece nascosta in casa sua.

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La piccola aprì la porta e se ne andò, lasciandola aperta. Mi avvicinai per richiuderla, ma fui assalito da uno stormo di corvi che entrava. Mi svegliai più irritato che spaventato. Maria dormiva. La lasciai sul letto e, dopo averne ammirato ancora una volta il bel corpo nudo, solo parzialmente coperto, scappai a casa. Fu una vera e propria fuga. Da me stesso, dalla mia debolezza e da quella follia. Sentivo di dover chiudere quel capitolo, ma non lo volevo veramente. Mia moglie era ancora troppo sconvolta per rendersi conto del mio ritardo esagerato o di altro. Già era a letto. La raggiunsi e rimasi sveglio per quasi un’ora a ripensare alla giornata. Sentivo Giovanna respirare. Mi sentivo in colpa verso di lei, ma più che altro provavo un senso di tristezza per come il nostro amore si fosse appannato negli anni e per come lei ora mi apparisse distante. Rimpiangevo la passione perduta. Sentivo di volerle ancora bene e mi angosciava questa sofferenza che era piovuta anche addosso a lei e che, involontariamente, ero stato proprio io a portare. Riecco Elena. Aveva un’aria estremamente offesa. Non parlò. Rimase lì in piedi per tutta la notte. O almeno credo. La ignorai. Ero troppo stanco e, rispetto a precedenti apparizioni, questa era sufficientemente blanda da consentirmelo. Fu un uomo, però, a catturare la mia attenzione. Con indosso una tonaca da vescovo, portava una barba lunga da rabbino e un turbante. In mano reggeva un bastone pastorale di corno e lo protese verso di me, accusatore. La sua voce rimbombò nel sogno, ma non né capivo le parole. Di una cosa sola ero certo: rimproverava la mia condotta e ciò che sembrava irritarlo particolarmente pare fosse la mia visita alla doccia di Maria. Uno tsunami incombeva dietro di lui, che costituiva il mio solo riparo dalla quella foga divina. Poi il suo volto si rasserenò, l’onda si sciolse e mi mostrò ampi paesaggi, cieli, placido mare, stelle, animali e piante, quasi a ricordarmi della Genesi dell’Universo. Di nuovo l’uomo parlava e

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ancora non riuscivo a intendere il senso delle sue parole. L’oceano si confondeva con la terra. M’indicò allora un canale o forse un sentiero che correva tortuoso tra colline e boschi. Guardai là dove indicava e, quindi, mi voltai verso di lui per capire perché mi mostrasse quella strada, ma era scomparso. Il sentiero era diventato una larga pista da elefanti illuminata dal sole o forse un fiume. Per tutto il tempo Elena ci fissò muta. La guardai. Tornai a guardare la strada nel bosco. Era tornata un sentiero stretto e curvoso che scendeva verso una valle scura. Anzi precipitava in una ripida discesa verso un abisso lontano. L’acqua, che prima non avevo notato, vi scorreva ora lattea e tumultuosa, come all’approssimarsi di una cascata.

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22 - RITROVATA

Ciò che pesa nell’uomo è il sogno (Bernanos)

Fu l’Arma a riportarla all’orfanotrofio, con una volante senza sirena, senza ali e senza magia. A renderla a Maria furono dei carabinieri, neri nelle loro divise, nonostante i sorrisi da bravi ragazzi. Ad accoglierla fu la solita Isola senza mare e senza sole. Una bambina così piccola non può andarsene in giro per la città da sola senza essere notata. Come io l’avevo soccorsa in metropolitana la prima volta (parevano secoli prima!), così una signora la trovò che dormiva in un giardino, minuta e indifesa nella felpa sottile, e la portò dai carabinieri, che la identificarono sfogliando lo schedario elettronico su un vecchio IBM e la ricondussero nel luogo da cui era fuggita, portandosi solo la bambola Lolla e la sua tristezza. Non lo seppi subito. Mentre lei era già al commissariato, su una sedia di legno senza imbottitura a sostenere la sua solitudine, io continuavo a errare da una via all’altra, cercandola in preda a un subbuglio di sentimenti e sensazioni. Pur di liberare me e la mia famiglia da quegli incubi, avrei fatto qualunque cosa, eppure quella bambina mi stava maledettamente a cuore. Per fortuna a trovarla furono i carabinieri. Se a trovarla fossi stato io, non so come mi sarei comportato. Non escludo che avrei potuto rivelare istinti che la mia razionalità non riusciva più a reprimere. Istinti violenti, probabilmente, nonostante l’affetto che provavo per lei. Alla fine della giornata, ignaro del ritrovamento, decisi di fare ritorno là da dove erano partite le mie ricerche: l’Isola dei Bambini Perduti. Non pensavo di ritrovarci Elena, ma volevo sentire che notizie avevano o, forse, volevo solo rivedere Maria.

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Arrancai fino all’edificio con le forze residue e le gambe a pezzi per tanto inutile errare. Appena entrato la bambina mi corse incontro, sfuggendo al disordine degli altri bambini indaffarati a imitare una vita non loro, e mi abbracciò, come la più normale delle bambine che ritrovi un caro zio. Era tranquilla, allegra e per nulla minacciosa. Senza rimorsi, sensi di colpa o rimproveri negli occhi. Come se nulla fosse stato. Come solo ai bambini accade, disperati e un attimo dopo totalmente tranquilli e dimentichi del pianto più dirompente. Improvvisamente la mia aggressività si sciolse come neve al sole. Era una bambina. Solo una bambina! Come potevo aver pensato che quelle braccia morbide d’infanzia appartenessero a un mostro? Come potevano essere i nostri incubi pilotati da lei? Come poteva volerci fare del male? Doveva essere tutto frutto della mia immaginazione, della nostra fantasia, delle nostre paure. Eppure…. Ancora una volta ero psicologicamente in ginocchio. Non sapevo cosa fare. Il mio istinto mi diceva di portarla a casa e che sarebbe bastato questo a placare i suoi poteri malefici. La mia paura e il desiderio di proteggere la mia famiglia m’impedivano, però, di farlo. Mia moglie poi non me l’avrebbe mai permesso, lo sapevo bene. La mia razionalità scientifica mi diceva che era tutto sbagliato. Era sbagliato temerla, ma anche sbagliato esserle così affezionato. − Portami a casa − fu Elena a spezzare il mio intontimento – ti prometto che sarò buona. «Ti prometto che sarò buona. Ti prometto che sarò buona. Ti prometto che sarò buona». Quelle parole mi riecheggiarono nella testa più volte. Sapeva allora di essere stata cattiva? Sarebbe davvero stata buona? Dipendeva da lei? − Non scapperò più – aggiunse – voglio stare con voi. La fuga: era quello per lei l’esser stata cattiva? Fosse davvero stato solo quello!

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Alla fine vidi in lei solo la bambina di quattro anni e mi piegai. In uno stato di totale stordimento e confusione, firmai quel che c’era da firmare e la presi per portarla da noi per qualche giorno, senza quasi rendermi conto di quel che stavo facendo e rinunciando a riflettere sugli effetti e le conseguenze. Ripensandoci, sospettai che a farmi agire così fosse stata lei stessa, con la sua magia, che quella mia scelta non fosse stata una vera scelta e che la mia volontà fosse controllata dall’esterno. Mentre ero all’orfanotrofio, chiesi più volte di Maria. Volevo rivederla. Volevo parlarle di Elena. Raccontarle del suo ritrovamento e del suo ritorno a casa. Volevo parlarle della sera prima. Volevo parlarle di noi. Volevo anche abbracciarla e baciarla. Sì! Anche quello. Forse anche quello. Mi mancava. La desideravo, contro la mia stessa volontà. Non la trovai. Nessuno ne sapeva nulla. Quel giorno non era andata al lavoro. Non aveva avvertito. I colleghi l’avevano cercata a casa, ma non rispondeva. Lasciai l’orfanotrofio con un senso di nostalgia e di vuoto. E mia moglie? Come avrebbe reagito rivedendo la bambina? Non osavo pensarci. Se le avessi portato in casa un cane abbandonato, non mi avrebbe perdonato. Portarle in casa così quella bambina, che lei aveva scacciato, che, come me, considerava un mostro, non era certo una bella trovata! Per giunta l’ultima volta che l’avevo vista, quella mattina, era ancora in stato confusionale. Eppure non potevo fare diversamente. La mia coscienza me lo impediva. Quando aprì la porta, Giovanna sbarrò gli occhi in un’espressione che era di terrore più che di rabbia e che non prometteva nulla di buono. La bambina mostrò di non notarlo. Corse invece ad abbracciarla, chiamandola mamma. − Mamma!

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Mamma! Bastò quella parola per far sciogliere l’ira di Giovanna e ridestare i suoi istinti materni. Mia moglie la accolse come se nulla fosse. Il suo subitaneo cambiamento d’espressione m’impressionò. Non capivo come potesse aver cambiato così rapidamente atteggiamento. Non potevano essere state solo la vista di Elena e quella piccola parola! Come la mia decisione mi pare ora fosse stata pilotata, così credo che questo suo improvviso ammorbidimento non provenisse dalla sua stessa volontà. In quel momento, però, non capivo. La guardavo stupito, temendo l’esplosione del vulcano e la drammatica fuoriuscita del magma che si accumulava minaccioso sotto un sottile strato di roccia. Mettendoci a letto, dopo aver fatto addormentare le bambine, mi chiesi con apprensione cosa sarebbe successo quella notte. Non sapevo se sarei riuscito ad addormentarmi. Non ne parlai con Giovanna, ma sapevo che anche lei era in ansia. Parlarne a cosa sarebbe servito? Giovanna mi sembrava come estraniata, lontana, assente. Si addormentò in fretta e con una tranquillità che mi inquietava. Fissavo i riflessi dei led della sveglia sul muro incedere regolari e inesorabili oltre le 00:00. Mi tranquillizzai cercando di convincermi che la bambina non fosse fisicamente pericolosa. Mentivo a me stesso, perché sapevo bene di cosa fosse capace. Temevo anzi che i suoi poteri fossero ancora maggiori di quelli che già conoscevamo. Che fosse vicina o lontana questo non cambiava la sua capacità d’intervenire sulle nostre menti, dunque non dovevamo avere più paura del solito. Del resto l’avevamo accontentata. Non aveva più motivo di avercela con noi. Era così? Lo speravo. Alla fine, distrutto da tutte quelle notti insonni e devastanti, dalla schizofrenia delle mie riflessioni senza meta e da quella giornata di vagabondaggi isterici, mi addormentai come un sasso tra le lenzuola di cotone che sapevano di rifugio e passai una lunga, silenziosa notte piena di sogni affascinanti. Sognavo di viaggiare,

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di vedere posti sconosciuti, di volare, di dipingere, di cantare e suonare. Era come se tutte le Muse fossero nella mia testa e m’invitassero a realizzare opere d’arte d’ogni genere. Come se la Bellezza avesse deciso di rivelarmisi in tutte le sue forme. Non vidi, però, Elena. Quando mi svegliai, mi chiesi se anche questo sogno potesse venire dalla bambina. Mi sentivo un poco come Sinclair di Hermann Hesse, solo che la musa ispiratrice dei miei sogni non era, a quanto pare, una donna matura, oggetto di desideri e pulsioni, ma una semplice orfana di quattro anni. La sua capacità di dominare i miei sogni pareva poi enormemente maggiore del potere, pur sconvolgente, di Eva la madre di Demian, nei confronti di Sinclair. Eva influenzava i sogni e pareva essere cosciente della loro sostanza. Elena, invece, li manipolava, ci penetrava liberamente, ne mutava la consistenza, li dominava. Che cosa stava facendo? Stava forse sperimentando i suoi poteri? La creatività di questi ultimi sogni pareva il frutto di tentativi artistici, come se Elena sfogasse i propri istinti creativi plasmandoli! A soli quattro anni? Impossibile! Oppure cercava di ripagarmi per gli incubi che mi aveva fatto patire, regalandomene il loro opposto? Era il suo modo per chiedere scusa e per ringraziarmi per averla fatta tornare tra di noi? Eppure la sua capacità d’intervento andava al di là di quelle che potevano essere le conoscenze di una bambina di quell’età. Forse andava oltre la sua stessa volontà. Cosa poteva sapere dell’Arte e della Bellezza? In che modo riusciva a tirar fuori tutto ciò dalla mia mente, se davvero era lei a farlo? Quella notte fu come se avesse messo a nudo i miei sentimenti, mostrandomi la natura della mia mente, oserei quasi dire della mia anima. Attraverso di lei la percezione che avevo di me stesso, degli altri, del mondo e della vita mi parve fosse mutata.

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Se è vero che il sogno ha il potere di riorganizzare la nostra memoria, di ripulirla dai ricordi inutili, di razionalizzare le esperienze, di produrre le intuizioni, ora tutto questo processo in me era manipolato dall’esterno. E non da un individuo d’intelligenza superiore, da un Dio o da qualche essere superiore che, secondo le credenze antiche, parlava all’animo umano tramite il sogno. No! Le mie percezioni oniriche dipendevano da una bambina che ancora non andava neanche a scuola! Potrete, dunque, capire il grado di stordimento totale con cui mi ero svegliato quella mattina, la totale confusione dei miei pensieri, il disordine dei miei ricordi. Un meccanismo così complesso come il sogno non poteva essere governato da una bambina. Era come affidarle la guida di una nazione o di un Airbus A380. Qualcuno potrebbe obiettare che le folle hanno la stessa capacità razionale di un bambino di quattro anni, eppure governano le democrazie del mondo. Non lo fanno, però di solito, direttamente, ma si affidano a vecchi politici dementi e di sicuro le folle non pilotano aerei di linea. Ma era lei? Era ancora lei la causa di tutto? O era la mia mente ormai ad andare alla deriva? La mattina, arrivato in ufficio, cercai Maria al telefono. – Chi parla? – mi chiese la centralinista, che aveva risposto dopo alcuni squilli a vuoto. – Sono il padre di uno dei bambini in affido, cercavo Maria… – Mi dispiace, ma la signora non lavora più da noi. – Com’è possibile? L’ho vista solo l’altro giorno. Non mi ha detto nulla. – Purtroppo si è sentita male durante la notte – esitò – L’hanno ritrovata morta in casa sua. «Cosa?!!» una voce urlava nella mia testa «Che? Come? Morta? Chi? Lei? Maria! Maria? Ora? No.» – Come? Dice sul serio? Ma stiamo parlando della stessa persona? L’assistente sociale Maria Fiorini?

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– Purtroppo sì. – E come sarebbe morta? Cos’ha avuto? – Non saprei bene. Mi hanno parlato di soffocamento. Nel sonno, credo. Rividi il mare in tumulto, vidi risorgere lo tsunami, ma questa volta non c’era alcun sacerdote dalla lunga barba a frenarlo. Vidi Maria travolta dall’onda. Vidi il cielo diventare mare e l’oceano farsi nubi per precipitare di nuovo su se stesso. Mi girava la testa. Per fortuna ero già seduto. Presi la testa tra le mani. Dalla cornetta del telefono, crollata sulla scrivania, sentivo una voce lontana. - Pronto? Pronto? Mi sente? Tutto bene? Come poteva andar bene? Come potevo esser pronto a questo? Soffocamento? Come la moglie di Nicola? Come Elisabetta Scarpelli? Era stata Elena? Perché? Come? Ero nuovamente spaventato e… sconvolto. Non amavo Maria - oppure sì? - Ne ero stato attratto, stavo bene con lei, ma in fondo la conoscevo poco e da poco, però quella notizia mi tagliò le gambe. Mi sentivo mancare. Respirai a fondo. Strizzai gli occhi. Avevo la vista appannata. Non focalizzavo. Li strizzai ancora. Mi passai la mano sul viso con energia. Scossi leggermente la testa. Ero stordito. Appena ebbi di nuovo un po’ di forze, mi alzai e andai in bagno a darmi una rinfrescata. Più che addolorato ero terrorizzato e confuso. Stavo cominciando a illudermi che tutto fosse risolto, che, nonostante le follie dei giorni scorsi, le cose potessero tornare alla normalità, ma la morte di Maria proprio non me l’aspettavo. Era qualcosa che mi faceva di nuovo sprofondare nell’incubo. Piansi. Maria! Era mai esistita la Maria che immaginavo? Forse stavo piangendo la morte di un’altra donna. La conoscevo così poco. Stavo piangendo un fantasma, un’idea di donna più che una persona reale. Quel che c’era stato tra di noi, se c’era stato, era poca cosa. Le nostre vite si erano appena

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incrociate. Un attimo nell’eternità. Un breve momento nella mia vita. Era così che cercavo di consolarmi, ma non ci riuscivo. C’era poi il mistero a tormentarmi. Come era morta e perché? C’entrava la bambina? L’unico modo per sapere era interrogare Elena. Era meglio farlo di giorno o aspettare la notte? Forse sarebbe stato bene parlarle in sogno, ma per me sarebbe stato più facile pilotare il famoso Airbus che i miei stessi sogni. Non ero in grado di fare delle domande mentre dormivo. Questa mia incapacità mi tormentava sempre più, quasi che non fosse così per tutti… o quasi. Mi pareva una sorta di handicap personale. Rientrando a casa, decisi di affrontarla da sveglia. – Cos’è successo questa notte alla signora Maria? – La signora Maria era cattiva. É stata cattiva. – Sei stata a trovarla? – non mi rispose – Dimmi la verità, Elena: questa notte sei stata nei sogni di Maria? – Sì. Perché lei era cattiva. Non volevo, però. – E le hai… avvolto il sogno? – Sì. – E lei non riusciva più a respirare? – Sì. – Perché l’hai fatto? – Perché era cattiva e ti voleva portare via. Voleva stare con te. Voleva prendere il posto della mamma. Era cattiva. Mi ha portato via. Dovevo chiudere il sogno. – L’hai già fatto altre volte? – Cosa? – Di chiudere così il sogno. – Io non voglio. Non voglio. Stava per mettersi a piangere. – Elena, tu sei una brava bambina, vero? – Sì. – Vuoi stare sempre con me, Laura e Giovanna? – Oh sì.

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– Mi devi fare una promessa, allora. Se vuoi restare con noi, mi devi fare una promessa. Sai cos’è una promessa? Devi dire che non entrerai mai più nei sogni delle persone. Mai più. In nessun sogno. Mai. Neanche nei nostri. E dopo che avrai fatto questa promessa, non dovrai, davvero, entrare più in nessun sogno. Le promesse sono importanti. Se uno promette una cosa, poi deve farla. Non si può più cambiare idea, capito? Puoi farlo? – Sì. – Prometti di farlo? – Sì. – Prometti che mai più entrerai in un sogno? Ripeti con me: non entrerò mai più in un sogno. – Non entrerò mai più in un sogno. – Mai più. – Mai più. – Prometti anche che non userai mai i tuoi poteri per entrare nelle menti degli altri. Dimmi: non entrerò nelle menti degli altri. – Non entrerò nelle menti degli altri. Ero stupito che ancora non piangesse, anche se la vedevo pronta a esplodere. – Brava. Ricordati: se non farai così, se anche solo una volta entrerai in un sogno di qualcuno, io ti riporterò all’orfanotrofio e non verrò mai più a riprenderti. – Come potevo minacciarla così? Non era giusto trattare in quel modo una bambina, ma lei cosa era realmente? Non sapevo neppure se sarei riuscito a convincere Giovanna a tenerla con noi (l’aveva momentaneamente accolta, ma non ero sicuro che non l’avrebbe cacciata via tra poco), ma dovevo fermarla, farle capire che sbagliava, che era pericolosa - Hai capito? Ti lascerò lì. Non tornerai più con noi. Capito? Non è un gioco. È una cosa importante. È molto importante. Devi obbedire. Capito? Le promesse sono una cosa seria. Lascia stare i nostri sogni. Non avvolgere i sogni. Non li devi chiudere. Non entrare nei sogni. D’accordo? È pericoloso. Sono cose che non si

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fanno, non si devono fare. Sono cose che nessuna bambina fa e che neanche tu farai più. Mai più. D’accordo? – Sì. Non volevo. Era lui che… – Lui chi? – Il sogno. Dovevo chiuderlo. – Non farlo più, d’accordo. – Sì. Ci si può fidare delle promesse di una bambina? Forse sono meglio quelle di un marinaio o di un politico, il che è tutto dire. Non sapevo se Elena mi avrebbe obbedito. Ero spaventato. Era un’assassina. Non uccideva con le sue mani. Nessun altro avrebbe mai sospettato di lei, ma era pericolosissima. Era più pericolosa di un cobra o una tigre, ma era solo una bambina e le volevo bene. Di giorno non aveva nulla di inquietante. Che stesse in casa nostra o fuori, poi, non faceva differenza. Non c’era muro che fermasse questo suo potere. Decisi di darle questa nuova possibilità. Dentro di me sentivo che poteva controllarsi, che poteva essere controllata ed educata. Anche le tigri vengono addomesticate, mi dissi. Pensai però che dovevo ritrovare suo padre. Spettava a lui occuparsene. Chiunque egli fosse. Potevamo tenere ancora Elena per un po’, ma se aveva un padre, doveva essere lui a riprendersela. Mi rifiutavo di credere che fosse il diavolo, come diceva sua nonna. Volevo considerare i suoi solo come i vaneggiamenti di una povera vecchia fuori di senno. Lo desideravo dal più profondo del cuore, perché se non fosse stato così, allora anche gli ultimi pilastri della mia razionalità sarebbero crollati e non sapevo cosa sarebbe potuto essere di me. Cosa sarei diventato, se avessi definitivamente finito per credere a telepatia, incubi e demoni?

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23 -ALLA RICERCA DEL PADRE

L’immaginazione non conosce nulla riguardo al futuro, per cui l’immagine formata nel sonno non è in rapporto con niente di futuro.

(Sui Sogni – Boezio di Dacia)

Per ritrovare il padre di Elena dovevo risalire alla madre. Non sapevo nulla di lui, ma anche di lei sapevo ben poco. Il mio solo legame con la famiglia di Elena erano i suoi nonni. Per quanto strani, non avevo altra scelta che tornare da loro. Dovevo farmi indicare il nome di qualche amica di Michela, che sapesse qualcosa su chi fosse il suo misterioso amante e di dove potessi trovarlo. Probabilmente quell’uomo non sapeva neppure di essere diventato padre. Forse non era uno stinco di santo, ma doveva sapere di sua figlia. − So pochissimo della vita di Michela negli ultimi anni − mi rispose il nonno di Elena. − Non conosco il padre della piccina e, purtroppo, non conosco neanche le amiche di Michela. Qualche volta lasciava Elena da una donna… una certa Marta… Marta…. …ini. Un nome che finiva in ini o forse oni. Peroni? Pironi? Forse Pieroni. − Era un’amica o una baby sitter? − Un’amica. Michela non si poteva permettere una baby sitter. Fecero anche un viaggio assieme. In Calabria, mi pare. − Dove potrei trovare un’agenda di Michela? Qualcosa su cui possa aver scritto dei nomi e degli indirizzi. − A casa sua. Stava in un appartamento in affitto. Mia moglie e io non siamo in grado di andarci. La proprietaria forse l’ha già svuotato. I mobili erano della casa. Quella donna voleva spedirmi delle scatole con i vestiti e altre cose sue, ma io non avrei saputo dove metterle, qui in ospizio. Le ho detto che poteva tenersele, come indennizzo per il mese ancora da pagare. Non è stata contenta. Non era d’accordo. Ha detto che le avrebbe tenute

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ancora un po’. Insisteva che qualcuno venisse a prendersele e le pagasse il mese. Diceva che non sapeva che farsene del suo ciarpame. Forse le ha ancora lei. − Dov’era questa casa? − Oh! Ha cambiato varie volte. In questa c’era entrata che io ero già qui. Non l’ho mai vista. Era in vicolo Pascoli. L’indirizzo esatto dovrebbero averlo alla segreteria dell’ospizio. Chieda a loro. Feci così. Per fortuna furono gentili e non imbastirono storie per farmi sapere quello che chiedevo. Andai in vicolo Pascoli. Una viuzza stretta di case popolari dall’aria piuttosto fatiscente. Sul citofono c’era ancora il nome di Michela Dati. Suonai. Come immaginavo non rispose nessuno. L’appartamento doveva essere ancora sfitto. Suonai al pulsante accanto. Rispose una voce di donna. – Salve. Ho saputo che l’appartamento della signora Dati ora è libero, saprebbe dirmi con chi potrei parlare? Fingere di cercare un appartamento mi parve la scusa più semplice. – La proprietaria dell’appartamento sta al pian terreno. È la signora Levi. Sta spesso a casa. Provi a citofonarle. – Grazie mille, lo farò. Lo feci. – Sì? – rispose la voce di una signora anziana. – Salve. È lei la proprietaria dell’appartamento, dove abitava Michela Dati? – Sì. – Ho preso in affido la piccola Elena, la figlia di Michela. Potrei parlarle un attimo? La donna esitò qualche istante. – Va bene. Venga pure. Sono al pian terreno. – Grazie mille. Era una vecchina di oltre ottant’anni. Mi accolse in pantofole, con una sorta di largo scialle sulle spalle e mi fece accomodare in

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salotto, su una poltrona con i copribracciolo di merletto. Davanti a me un tavolino pieno di vecchia chincaglieria. – Sono contento che la bambina abbia trovato qualcuno che se ne occupi, poverina! Mi si stringeva il cuore a saperla così sola in orfanotrofio – si aggiustò la mantellina sulle spalle ossute. – Vorrei sapere qualcosa di più della sua famiglia. Ho parlato con il nonno, in ospizio. Lui non conosce il padre della bambina. Vorrei contattarlo. Il padre potrebbe rivolere la piccola. – Mi pare giusto. Io però non l’ho mai visto. Sapevo che era una ragazza-madre. – Mi dice il padre di Michela che lei, signora, ha ancora le sue cose. Mi piacerebbe poter avere un’agenda della sua inquilina, per contattare chi la conosce. – Ora devo vedere. Non so se ne aveva una. Ha lasciato tante cose. Non saprei se posso farle avere qualcosa di suo. Sa, la… privacy, la chiamano così, ora. Un tempo avremmo detto riservatezza. Non si poteva continuare a chiamarla così? Comunque, sarebbe meglio se di questo se ne occupasse la polizia. Era più formale degli impiegati dell’ospizio! – Ha ragione. La polizia, però, ha molte altre cose di cui occuparsi. Se lei fosse così gentile da farmi dare un’occhiata alle sue cose… Vorrei solo vedere l’agenda per un attimo, non deve lasciarmela. La donnina era combattuta. Io per lei ero uno sconosciuto. Potevo essere un malintenzionato. Se lo ero davvero, potevo pretendere l’agenda con la forza. Oppure poteva darsi che non me ne importasse nulla e che la mia fosse solo una scusa per derubarla. Cosa avrei mai potuto prenderle, immagino che pensò, dato che lei aveva ben poco. Forse fu il mio aspetto, che definirei civile, ma qualcosa, alla fine, indusse l’anziana signora a cedere. In fondo a lei importava poco di quella donna. Michela era morta e non aveva più nessuno. I suoi genitori le sue cose non le avevano

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volute. Avrebbe anche potuto buttarle, deve aver pensato, tanto valeva assecondarmi. Alla faccia della privacy. – Lei mi pare una brava persona – decise. – Venga. Le faccio vedere le sue scatole. La seguii in uno stanzino, in cui aveva ammucchiato tre scatoloni. – Certo che se qualcuno si riprendesse tutta la sua roba… Forse potrebbe prenderla lei, visto che tiene la bambina. Magari, però, ci vorrebbe un notaio o qualcosa del genere. Per ora la conservo, ma non posso tenerla mica sempre qui. Non ho molto spazio. – Farò presente il problema agli assistenti sociali della bambina. In effetti, sono cose sue, ora. – Un’agenda potrebbe essere in quella scatola – indicò. La aprii. C’erano varie carte, libri, fascicoli, giornali vecchi. Frugai e, finalmente, la trovai. Andai alla P. Nessun Pieroni o simile. Provai alla M. C’era un nome che sembrava Marta Pietrosi o forse Pietroni. C’era il telefono. – Ha un pezzo di carta – chiesi. – Senta, tenga pure l’agenda. La riporterà quando non le servirà più. Non si preoccupi. Veda, piuttosto, di farsi dare un’autorizzazione per portar via tutto. – Grazie mille. Me ne interesserò. Avevo fatto un passo avanti. Appena fuori di casa composi sul cellulare il numero che avevo trovato. – Marta Pietroni? – Sì. Salve. – Buonasera. Mi chiamo Paolo Demetri. Ho preso in affido la piccola Elena Dati. – Oh! Davvero? La figlia di Michela? – Sì. Era una sua amica, vero? – Sì. Certo. – Mi piacerebbe poterle parlare cinque minuti. Se potessimo incontrarci, forse sarebbe più semplice che al telefono. – Va bene domani sera? – chiese.

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– Perfetto. Facciamo al Bar Boschi, in Piazza Atene? – Sì. Facciamo alle sette e mezzo. – Va bene. Allora a domani. Come la riconoscerò? – Porterò una maglietta con delle fatine disegnate. – Bene. Arrivederci. – A presto.

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24 - LE MEMORIE RISVEGLIATE

I sogni si realizzano; senza questa possibilità, la natura non c'inciterebbe a farne.

(John Updike)

Mi svegliai di soprassalto. Avevo il fiatone. Quello non era un sogno normale. Non era il solito sogno provocato da Elena. Eppure quel sogno proveniva da lei. Lo sentivo. Questa volta non mi era apparsa, né il sogno si era ripiegato su se stesso. Non ne ero stato quasi soffocato. Il nuovo sogno si era inserito violentemente in quello che stavo facendo. La sua consistenza aveva un terribile sapore di verità. Eppure non era qualcosa che proveniva dall’esterno. Era mio. Era come se qualcuno mi avesse esplorato la mente e ne fosse stato estratto un ricordo ormai perduto. Forse mi sbagliavo. Forse Elena non c’entrava. Era solo suggestione. Lo era? Non ci credevo. Credevo di riconoscere, nonostante tutto, la sua impronta, per quanto mascherata. Che cosa aveva di tanto speciale questo sogno? Non molto. Semplicemente aveva tirato fuori, con la vividezza della vita vissuta, il ricordo di un dolore infantile. La morte del mio cane Ruffo. Un bel pastore tedesco con cui ero cresciuto fin quasi dalla nascita. Quando morì, io dovevo avere forse sette anni. Fu il mio primo incontro con la morte, con la sua ineluttabilità, con la sua irreparabilità. La morte in forma di cane. Un cane irrigidito a forma di morte. Quella notte mi ero ritrovato improvvisamente a essere di nuovo bambino e Ruffo era lì, con me. Stava male. Vomitava bile. Si contorceva. E, infine, era morto e io piangevo su quell’ammasso di pelo inerte. Cercavo di sollevarlo, come se quel gesto potesse riportare a galla la sua anima sprofondata negli abissi dell’oltretomba. Non sembrava più lui. Sembrava un pupazzo duro e freddo. Un pupazzo che mi metteva un po’ paura con

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quegli occhi che non avevano più vita, con quel ghigno che non era un sorriso, ma solo denti scoperti. Negli anni mi ero dimenticato di tutto ciò. Mi ricordavo ancora, ovviamente, di Ruffo, della sua malattia e di quella vita scivolata via dal suo corpo un tempo così allegro. Quelle che non ricordavo più erano le mie emozioni, le mie sensazioni, i miei sentimenti, il mio dolore, la mia rabbia contro quella cosa che ancora non conoscevo e non comprendevo, troppo grande e strana per un bambino: la morte. Quella notte il sogno mi aveva fatto rivivere tutto. Con una nitidezza che non aveva il sapore dolce e triste del ricordo: aveva il gusto amaro e forte della realtà. Il sapore delle lacrime irrefrenabili, che cercano di colmare un vuoto che sembra impossibile riempire, anche a piangere tutto l’oceano. Mi ero trovato faccia a faccia con la fine della vita. L’avevo vista. Ne avevo sentito l’odore con la coscienza ignara di un bambino, non con quella solida e attuale di adulto. Avevo ricordato e rivissuto la scoperta amara della fine cui tutto tende. Fino ad allora morte era stata per me solo una parola, una delle tante parole vuote usate dagli adulti. D’un tratto ne avevo appreso il significato profondo e una parte della mia infanzia era sgorgata fuori dalla mia anima, lasciandola un po’ più fragile e un po’ più forte nello stesso momento. Avevo capito che era qualcosa che poteva riguardare chiunque, anche chi mi era caro; i miei genitori, innanzitutto. Avevo capito che un giorno sarei potuto rimanere solo. Che un giorno sarebbe capitato anche a me, che il mio corpo sarebbe divenuto un oggetto senza vita, duro come pietra, che si sarebbe scomposto e dissolto. Come allora, quando ero un bambino, mi sentivo scosso e abbandonato dal mondo. Sedevo nel letto e avrei quasi voluto mettermi a piangere. La veglia, però, mi restituì la mia razionalità e la scorza che ci difende dal dolore. La scorza che ci costruiamo giorno dopo giorno, con la vita vissuta, ma che un bambino non ha. La scorza di cui quel sogno mi aveva privato, per un po’. La

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memoria della morte, però, mi riportò alla mente le due recenti scomparse: Elisabetta e Maria. Maria che aveva toccato la mia anima per un istante e che ora non c’era più. Maria, di cui mi ero invaghito, lasciandola uccidere da un sogno non mio. Perché Elena aveva voluto che facessi quel sogno? Era stata davvero lei? Perché aveva violato il divieto, che le avevo imposto, di entrare nei sogni altrui? Perché proprio con quel ricordo? Come aveva fatto ad annullare il vaccino psicologico che io, come ogni uomo, mi ero creato crescendo e divenendo adulto? Dovevo capire. Dovevo parlarne con lei anche se non sapevo come affrontare l’argomento. – Elena! Ti avevo detto che non volevo che interferissi con i nostri sogni. Stanotte l’hai fatto di nuovo. – No. Non è vero. Non l’ho fatto – stava quasi per mettersi a piangere. Quasi le credevo. – Non raccontare bugie. – Non dico bugie. Non è colpa mia. Non mi mandare via. Voglio stare qui. Non voglio tornare nella stanza brutta! Aveva capito cosa le stavo dicendo? Capiva cosa volesse dire interferire? Probabilmente no. − Non devi entrare nei nostri sogni, capisci? – spiegai. − Non l’ho fatto. Diceva la verità? Non potevo saperlo. Non mi parve giusto insistere. La consolai e la tranquillizzai. Se era sincera, da dove proveniva quel sogno? Forse era solo un normale incubo. Mi lasciò, comunque, scosso per tutto il giorno e quasi stavo per dimenticarmi l’appuntamento con la Pietroni. Arrivai con cinque minuti di ritardo in piazza Atene. A uno dei tavolini sedeva da sola una donna sulla trentina. Mora. Magra. Stando seduta, non ne capivo bene l’altezza, ma non mi parve molto alta. Aveva una maglietta da ragazzina, con delle Winx disegnate sopra. Era certo lei. Stava leggendo un libro. Lo

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riconobbi subito. Era “L’ombra del vento”. Un bel romanzo in cui letteratura e vita parevano intrecciarsi. Scarpe e borsa di Prada. Anzi, no, solo un’imitazione, valutai. La vidi, in un flash, nel suo appartamento, che immaginavo arredato Ikea, seduta su un divanetto Beddinge, con accanto un tavolino Ramvik pieno di riviste. All’Ikea hanno il vezzo di dare dei nomi anche ai più insulsi pezzi di legno. Il direttore marketing deve essere Geppetto. – Marta? – Ciao, Paolo. – Ciao. Scusa il ritardo – eravamo già passati al tu. Quando ero ragazzo il lei era un uso difficile da sradicare. Continuavamo a darlo per anni. Oggi dura il tempo di una telefonata. – Non è nulla. Mi ero appena seduta. – Hai già ordinato? – No. – Che cosa prendi? – Un Campari. Non era posto da servizio al tavolo. Andai al banco a ordinare. Per fortuna non c’era fila. Ordinai il Campari e chiesi, certo di tentare invano, se per caso non avessero un ginger ale. Non lo avevano. È un vero peccato che sia così difficile trovarne uno in questo Paese. Per me non esiste bibita migliore! Presi due Campari e tornai al tavolo. – Vi conoscevate bene, con Michela? – Abbastanza. Eravamo buone amiche. – Mia moglie e io abbiamo preso la bambina in affido, ma vorrei scoprire se esiste da qualche parte un padre. Non vorrei che saltasse fuori all’improvviso. – Un padre? Non l’ho mai conosciuto. Credo che Michela non abbia mai avuto una vera storia con lui. Fu cosa di una notte e via. Michela non ha mai voluto cercarlo. – Ora però la bambina non ha più la madre. Forse quell’uomo potrebbe volerla.

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– Michela ne aveva una pessima impressione. Non so se sarebbe contenta di sapere la figlia nelle sue mani. – È pur sempre il padre e lei è morta. Non ricordi un nome o un indizio? – No. Michela non ne parlava mai. Solo una volta mi raccontò delle cose strane. Mi disse, quando era ancora incinta, che il padre della bambina la tormentava in sogno. Che le faceva fare degli incubi. Lo chiamava Oberon, ma non era il suo nome. Credo si riferisse a quel personaggio del “Sogno di una notte di mezza estate”, il re delle fate. Forse, per via degli incubi. Una donna incinta ha sempre strane fantasie. All’improvviso mi tornò in mente il sogno dei due sconosciuti che s’incontravano in stazione e capii che erano loro: Michela e Oberon! Perché li avevo sognati? O meglio: CHI me li aveva fatti sognare? Era stata Elena? Come poteva avermi mostrato un evento antecedente alla sua stessa nascita? Era allora sua madre, la defunta Michela, che mi parlava attraverso quel sogno? Ero giunto al punto di credere che i morti parlino ai vivi attraverso i sogni? In che razza di medioevo stavo sprofondando? Persino Boezio di Dacia, nel 1270, aveva una visione più moderna di me del sogno. – Fu la sola volta che parlò di questi incubi? – chiesi dopo qualche istante di silenzio. – Uhm… Sì. Anzi, no. Mi disse qualcosa anche altre volte. Però non parlava più di Oberon. Per un periodo, dopo la nascita della bambina, si era fissata con l’idea che Elena le apparisse in sogno. Me ne parlò un paio di volte. Forse tre - era un argomento che conoscevo e sorvolai. – Chi potrebbe aver conosciuto Oberon? – Non ne ho idea. Credo che lui e Michela si siano incontrati in modo del tutto casuale. Michela mi disse «Mi sono lasciata stregare da quel farabutto. In un’ora mi ha cambiato la vita». – Come stava Michela ultimamente?

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– Male. Oh sì! Non stava per niente bene. Era stanca. Non dormiva abbastanza. Io credo che non abbia mai smesso di fare incubi, da quando ha iniziato la maternità. La sua memoria perdeva colpi. Forse è un fatto di famiglia. Ho conosciuto sua madre… – Anch’io, capisco cosa intendi. – Certamente Michela non era strana come la madre, ma a volte diceva anche lei cose senza senso. Come questa storia degli incubi. E… beh, non so se è vero, è una mia impressione… mi pare avesse paura… paura della bambina e, forse, di Oberon. – Aveva altre amiche? Forse c’è qualcuno cui ha confidato qualcosa di più. – Certo. C’era Ermione. Ermione Laghi. Erano amiche d’infanzia. Ogni tanto si sentivano. Era forse più in contatto con me, ma, chissà, magari a lei potrebbe aver detto qualcosa che io non so. Credo però che di quell’uomo non avesse molta voglia di parlare. Altre amiche ne aveva. Credo, però, che quelle con cui fosse più in confidenza fossimo noi. Da quando era nata Elena aveva tagliato un po’ i ponti con molte amiche. La maternità l’ha cambiata. Molto. È diventata… Era diventata così irascibile, così… sensibile. Si offendeva facilmente. Si emozionava. Si spaventava più spesso che nel passato. – Dove posso trovare Ermione? – Non saprei. Credo che viva a Milano. Non siamo amiche. Venne anche per il funerale. Avevo con me l’agenda di Michela. La sfogliai. Alla E c’era scritto Ermione, non riportava il cognome, ma il numero era di Milano. – Deve essere lei – confermò Marta quando le lessi il numero. La chiamammo assieme. Neppure lei aveva mai conosciuto Oberon. – Michela diceva che quell’uomo era il diavolo. Non credo sia una buona idea fargli sapere della bambina. Michela lo odiava. Probabilmente il suo giudizio era un po’ deformato dalla rabbia per essersi ritrovata incinta, senza volerlo, di uno sconosciuto.

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Però mi disse di averlo ricercato, dopo aver scoperto della gravidanza. Non gli disse nulla del suo stato, ma lui fu molto stronzo con lei. Non saprei perché – mi spiegò Ermione. Dunque alla fine l’unica che paresse saperne qualcosa era la madre pazza di Michela, ma quel che diceva era prossimo al delirio profetico. Forse la sola ad averlo visto, però, era proprio lei. Mi rimaneva l’agenda. Potevo telefonare a tutti i numeri? Se quelle che sembravano le sue due migliori amiche non sapevano nulla, difficilmente avrei trovato qualcuno che ne sapesse di più. Sfogliai le pagine senza entusiasmo. Arrivato alla O, l’occhio mi cadde sul nome scritto accanto a un numero di cellulare. C’era scritto Oberon.

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25 - A CUORE APERTO

Non si trovi in te chi si occupi di sogni (Bibbia −Deuteronomio)

Avrei potuto telefonare subito a questo Oberon, ma le parole delle amiche di Michela mi avevano messo in allarme nei suoi confronti e, quella sera, non ero più tanto convinto che la cosa migliore fosse contattarlo. Decisi di pensarci sopra. Forse non era il diavolo ma, probabilmente, non era la persona migliore per crescere una bambina. Una come Elena, in particolare. Rimasi con le dita avvolte attorno al cordless per alcuni minuti senza decidermi, poi l’abbandonai sul suo supporto e me ne andai a dormire inquieto. Quella notte incontrai l’Oberon shakespeariano tra le nebbie che ammantavano il sottobosco di una foresta incantata. Non era un nobile re delle fate di bell’aspetto, ma un essere assai più simile a un satiro o a un demone. L’atmosfera era cupa. Le fate erano streghe, che volteggiavano stridendo tra i rami delle querce, ombre nere in una notte di mezzaluna. – Rivoglio la bambina! – m’intimò shakespearianamente Oberon. – Chi sei? – gli chiesi. – Ridammi la bambina – insistette. – Che cosa vuoi farne? – tornai a domandare. – Non è affar tuo. Rendimi mia figlia! Poi ogni cosa si dissolse. La foresta si sciolse, come i colori appena stesi su una tela sotto un acquazzone. Le streghe e Oberon evaporarono in un nebbiolina color acquerello. Rimasi immerso in un sogno in cui tutto era deformato. Era come un miscuglio irregolare di colori sovrapposti, che colavano inesorabili.

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In quel guazzabuglio sentii qualcosa che rovistava nella mia anima, che esplorava i miei sentimenti e li riportava in superficie, come in un’efficacissima e fastidiosissima seduta di psicoanalisi. Tutto ciò che la mia mente aveva rimosso venne ripristinato. Mi pareva che la testa mi scoppiasse. Dolore e gioia erano mescolati a ogni altra sorta di sentimento, su cui non riuscivo più ad avere alcun controllo e, in sogno, mi pareva di ridere e piangere, sospirare e urlare. Tutto nel medesimo tempo. Poi, come solo nei sogni avviene, la scena cambiò completamente e mi ritrovai in una stanza in penombra e davanti a me c’erano due figure che si muovevano su un letto. Scorsi una schiena muscolosa e più scura che copriva un corpo più esile e chiaro. Erano un uomo e una donna che facevano l’amore. Già la visione mi stupiva, mettendomi stranamente a disagio, quando notai qualcos’altro che mi meravigliò ancor più: i due sul letto li conoscevo. Non che li avessi mai visti veramente, ma li avevo già incontrati in sogno: erano i due che si erano conosciuti alla stazione, Oberon e la ragazza. O meglio, Oberon e Michela, dato che ormai mi ero convinto che questa fosse la madre di Elena. Stavo dunque assistendo al suo concepimento, al momento in cui il demone stava generando la sua creatura? Oberon si muoveva con particolare intensità e quasi con violenza, come, del resto, mi sarei aspettato da lui. Michela sembrava quasi subirne l’irruenza, totalmente soggiogata nel corpo, che sussultava, e nello spirito, perso nello spasmo di quell’amplesso. Al momento dell’orgasmo la stanza s’illuminò totalmente e tutto parve diventare bianchissimo, poi ogni cosa mi parve ruotare velocemente. Risvegliandomi ero sconvolto, sia dalle emozioni provate nella parte centrale del sogno, sia dalle immagini iniziali e finali che aggiungevano una nuova visione alla mia percezione dei fatti.

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– Questa notte l’hai fatto di nuovo? – chiesi a Elena. – Fatto cosa? – Sei entrata di nuovo nei miei sogni? – No! – piagnucolò – No. – Va bene. Va bene. Ho capito, su! Non piangere. Era solo una domanda. Tirò su con il naso. Stavo diventando troppo insistente sull’argomento. Le asciugai gli occhi con il fazzoletto, baciandola sulla guancia accaldata. Si calmò. Davvero non era stata lei? Oppure non se ne accorgeva. Era la seconda volta che negava. Se non si rendeva conto di quello che faceva, la cosa poteva diventare pericolosa. Non avevo modo di controllarla. Aveva già ucciso. Due volte. Forse tre, contando sua madre. Non volevo che lo facesse ancora. La prossima vittima sarei potuto essere io. O Laura. O Giovanna. Perché mi faceva sognare Oberon e sua madre? Come poteva una bambina di quattro anni generare sogni da adulti? C’era qualcosa che non mi tornava. I suoi poteri erano qualcosa di cui ormai ero convinto, ma che potesse usarli in quel modo non mi pareva possibile. Se era davvero lei a farlo, allora forse anche la sua età era soltanto apparenza. Non poteva conoscere eventi del passato e non poteva conoscere il mondo degli adulti. Probabilmente non poteva neanche sapere chi fosse Oberon, anche ammesso che fosse il padre, se lui, come credevo, era scomparso prima della sua nascita. Questo modo d’insinuarsi in sogno mi faceva pensare alle apparizioni mitologiche degli Dei. Era una Dea? Una Dea eternamente relegata in un corpo da bambina, ma non per questo con una mente e una memoria infantili? Pura fantasia! Mi lasciavo suggestionare dalle superstizioni più assurde. La mia razionalità reclamava una spiegazione che non comprendesse la magia o interventi sopranaturali, divini o

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diabolici che fossero. Avrei potuto accettare l’idea che la mente umana, talora, possa avere poteri inattesi, che i collegamenti sinaptici potessero realizzarsi a distanza tra cervelli diversi, che le onde cerebrali fossero in grado di trasmettersi nell’aria e proiettare un sogno in una mente rilassata e aperta, ma non potevo proprio credere che una bambina fosse in grado di trasmettere pensieri che non dovrebbe avere, costringermi a sognare cose che non dovrebbe conoscere. Non riuscivo, del resto, neppure ad accettare che vi fossero esseri demoniaci in giro per le nostre città. Avevo ormai un solo obiettivo in mente: trovare Oberon. Questo sia per dimostrare a me stesso che era un uomo comune, non certo un demone infernale, sia per ritrovare a Elena la sua vera famiglia. Mi pareva l’unica strada. Decisi di seguirla. Aprii l’agenda e compilai il numero di cellulare di Oberon. Mentre lo facevo, mi chiesi come mai Michela avesse deciso di usare proprio quel soprannome anche sull’agenda, anziché scriverci il suo vero nome. E mi chiedevo perché ne conservasse il numero, se aveva davvero troncato con lui. Forse lo aveva fatto proprio per Elena, perché Oberon era suo padre e voleva lasciarsi la possibilità, un giorno, di far tornare assieme padre e figlia. Oppure aveva dimenticato di averlo ancora. Non rispose nessuno. La segreteria automatica mi avvertì che il numero non era attivo. Che cos’altro potevo fare? Dovevo far intervenire la polizia. Mi recai alquanto controvoglia in commissariato, dove spiegai di avere preso in affido la bambina, ma che avevo scoperto che questa, probabilmente, doveva avere un padre, da qualche parte. Mostrai l’agenda e spiegai che Michela lo chiamava Oberon. Pregai gli agenti di fare qualche ricerca per scoprire chi avesse acceso quella linea.

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Mi dissero che l’avrebbero fatto, ma che avrebbero parlato loro stessi con il titolare e poi mi avrebbero riferito. Non potevano farmi sapere il nome. Mi parve un buon compromesso. – Allora attendo notizie – risposi, alzandomi per andar via. – Aspetti pure nell’altra stanza – mi disse uno degli agenti. – Facciamo subito un controllo e le facciamo sapere. Dopo pochi minuti, lo stesso agente si affacciò nella saletta d’attesa. – Mi dispiace – disse – ma il numero non risulta essere mai stato attivato. Vuole sporgere una denuncia? – Una denuncia? Per cosa? – Per smarrimento di persona – azzardò. – E come potrei? Non so nulla di lui. Avevo solo quel numero e un soprannome. Non è mica un mio parente. – Come vuole. Ringraziai e me ne andai. Come potevo trovare Oberon? Probabilmente non c’era modo. Forse anche Michela aveva solo quel numero di telefono fasullo. Però, la sua amica aveva detto che una volta Michela l’aveva cercato. Come aveva fatto? Per telefono? Per e-mail? Come potevo accedere alla sua posta elettronica? Sfogliai la sua agenda alla ricerca di un altro nome con un numero di cellulare simile, casomai l’avesse trascritto male. Non lo trovai. Rinunciai a cercarlo. Quella notte, però, Oberon, trovò me. Venne di nuovo a visitarmi con l’aspetto dello strano satiro della notte precedente. Il volto era quello dell’uomo della stazione e dell’amante di Michela, ma l’aspetto generale era belluino. Ancora una volta reclamò la consegna della bambina. – Voglio sposarmi! – mi urlò addosso shakespearianamente il re delle fate – e voglio che sia Elena a reggermi lo strascico.

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– Gli uomini non portano lo strascico – obiettai da sciocco, come capita talora nei sogni. – Gli sia tagliata la testa! – urlò allora la regina delle fate, che aveva l’aspetto della Regina di Cuori di “Alice nel Paese delle Meraviglie”. Apparve allora il Bianconiglio che disse: – E chi reggerà i miei guanti bianchi? Alice. Dov’è Alice? Mai che si trovi quella benedetta figliola, quando si ha bisogno di lei! – Ovvia! – sbottai – Questo non è un sogno serio. Io devo parlare con Oberon. – Sono io Oberon. – esclamò solennemente il re delle fate. – Sei tu il padre della bambina? – Io? Ma se ancora non mi sono sposato? Come puoi pensare che io sia il padre? – Oberon è il padre. Se tu sei Oberon, sei il padre – insistetti. – Hai una bambina? – sbraitò la Regina di Cuori, rivolta contro il satiro. – Chi è la sgualdrina con cui ti sei unito? È certo Alice! Trovatemi Alice. Avrei dovuto capirlo da come giocava a croquet! Trovate Alice e tagliatele la testa. – Non conosco nessuna alice, né alcun altro pesce – sbraitò il re. – Era forse una coniglia? – urlò la regina. – No e poi no! – urlò il re. – Allora era una topa! – gracchiò la regina – vai sempre dietro alle tope. – Vuoi sempre aver ragione! – sibilò Oberon. – Io, allora, sposo Paolo – proclamò la regina di cuori. – Chi? – chiese il re. – Me? – chiesi io. – Te – rispose la regina. – Ma io sono già sposato! – Allora tagliategli la testa! – gridò la regina con voce stridula, mentre un enorme sorriso si materializzava sulla sua spalla. Di certo apparteneva allo Stregatto. In quell’istante precipitai in un pozzo carrolliano pieno dei miei ricordi, che mi volteggiarono attorno. Ancora una volta provavo

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la sgradita sensazione di sentire la mia memoria infilata in un frullatore e fatta vorticare all’impazzata. Mi parve di inghiottire rabbia, dolore, scoraggiamento, frenesia, gioia, allegria, eccitazione, desiderio, voluttà, panico, paura, freddo, caldo, fame, sete, sonno e ogni altra possibile umana sensazione. Ne ero travolto e angosciato. Finalmente, mi svegliai. Nel momento stesso in cui aprii gli occhi, mi sorse un sospetto: possibile che fosse proprio Oberon a pilotare i miei sogni? Come aveva fatto a trovarmi? Grazie al fatto che io cercavo lui? Il diavolo va da chi lo cerca? Lo avevo evocato io? Che motivo poteva avere, altrimenti, Elena di farmi fare simili sogni e sconvolgermi così la memoria? Da quando era tornata a casa, pareva tranquilla, serena e ubbidiente: non sembrava voler violare il divieto che le avevo imposto. Se davvero non mentiva e non era lei a pilotare i miei sogni, allora poteva essere Oberon a farlo? Stesso sangue, stessi poteri? Ma questi poteri non li aveva ereditati dalla madre? Decisi che era ora di parlarne con Giovanna. Avevo cercato di non coinvolgere troppo mia moglie per non agitarla ulteriormente. Avevo, però, bisogno di un supporto. – Così pensi che possa essere il padre della bambina a entrare nei tuoi sogni? – chiese Giovanna dopo che le ebbi raccontato le mie ultime esperienze oniriche. – Non lo so. Non so neanche chi sia. Non penso, però, che questa volta sia colpa di Elena. Forse non lo è stato mai. Credo che quello che ci succede la notte sia provocato da qualche forza esterna alle nostre menti. Mi ero convinto che tutto dipendesse da Elena, ma ora sto sospettando di essermi sbagliato. Quello che è successo non può essere opera di una bambina. Credo che lei sia solo il tramite. Qualcuno forse la usa per raggiungere le persone cui lei è legata. Non so. Ancora non capisco. Sono molto

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confuso. Non sai quanto! E tu? Hai avuto sogni particolari, ultimamente? – I miei sogni sono normali – rispose mia moglie. – Questa notte, però, ho sognato due persone che discutevano. Un uomo e una donna. Non saprei dire perché, ma al risveglio ho pensato potessero essere i genitori di Elena. – E cosa facevano? – Lei era molto agitata. Dopo che lei gli ha detto che aspettava un bambino, lui è rimasto indifferente. Lei gli ha spiegato che il bambino era figlio suo. Lui allora si è messo a ridere. Lei era sconvolta. Piangendo, gli ha chiesto se non gli importasse di stare per diventare padre e lui, sempre ridendo, le ha detto che lo sapeva già. Che l’aveva sempre saputo, già prima di incontrarla. La ragazza era sempre più scossa e gli ha detto: «Ma ti rendi conto che aspetto un figlio tuo e non so neppure come ti chiami?» Lui ha continuato a ridere e lei si è messa a singhiozzare così forte che non riusciva a parlare. – Penso che potrebbero essere loro: Michela e Oberon. Credo che dovrei trovarlo, trovare il padre di Elena. Devo capire chi è. Lo voglio cercare. – Ma cosa dici? Era solo un sogno strano. Non ti capisco. Non puoi inseguire un sogno. Lascia stare. Non è nulla di reale. – Anche io li ho sognati. Sento che sono sempre loro due. Anche tu hai detto che pensavi fossero i genitori di Elena. Questi sogni non nascono dentro di noi. Vengono da fuori. – Come possiamo scoprire qualcosa, allora? – Forse potremmo ricorrere a un medium e parlare con Michela. – Cosa? Sei proprio tu a propormi questo? Parlare con una morta? – Che cos’altro potremmo fare? Forse un’esorcista… – Di male in peggio!

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Nonostante condividessi del tutto il suo scetticismo, mi dissi che non costava nulla tentare. Al massimo avremmo buttato via un po’ di tempo e di soldi. Non conoscevo medium e non sapevo dove trovarne. Il grande e fondo web mi fornì, come pensavo, una risposta. Trovai l’indirizzo di una maga che riscuoteva una discreta fiducia tra il popolo della rete. Presi appuntamento, sebbene convinto si trattasse di un’abile imbrogliona. Venne anche Giovanna. Non spiegammo nulla alla medium dei sogni e del resto. Le dicemmo solo che volevamo contattare la madre della bambina, che ora viveva con noi e che la donna era morta di recente. Dopo aver pagato la tariffa pattuita, com’ero ormai rassegnato a fare, chiamò due sue assistenti e formammo un tavolo per una seduta spiritica. Non si materializzò nessun fantasma, ma la medium entrò in trance. La cosa non mi colpì, particolarmente: era il minimo che mi sarei aspettato da lei. Dopo una breve sceneggiata di tremori, sussulti e occhi strabuzzati, cominciò a borbottare parole senza senso. Poi tra quei suoni cominciai a distinguere delle parole: – figlia… bambina… dolore… morte… vita… amore…. – se pensava di farmi effetto con parole così generiche aveva proprio sbagliato persona! Poi proseguì – dolore… inferno… incidente… non volevo… demone… era un demone… Satana… venne dal buio… mi prese… l’incubo mi prese… ero preda dell’incubo… il satiro infernale… – cominciava ad avvicinarsi alla mia sensibilità, ma mi pareva ancora troppo generica. Parlare d’incubi e demoni in una seduta spiritica doveva essere ordinaria amministrazione – Per una notte fui sua e ora sono sua per sempre… satiro infernale… incubo maledetto… – credo che i medium abbiano la capacità di cogliere una nostra maggior attenzione verso certe parole e a spostarsi in quel campo. Pensai che stesse facendo proprio questo – Egli venne da me… in me… era il Maligno…

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Era il re dei sogni… Non aveva nome, disse, o ne aveva infiniti… come posso chiamarti, allora? Chiesi… Chiamami Oberon, rispose, colui che fa amare e sognare… questo rispose il satiro. Alla parola ‘Oberon’, sussultai sulla sedia in modo assolutamente evidente. Oberon! Tutto il resto poteva averlo inventato per intuito o per caso, ma Oberon? Quante probabilità potevano esserci che quella medium pronunciasse quel nome? Proprio quel nome? Ben poche, anche se fosse stata una patita di Shakespeare. Ne ero certo. Purtroppo da quella seduta non uscì nessuna informazione utile. Ne guadagnai solo una maggior inquietudine. La medium ottenne, invece, oltre ai miei soldi e a un poco della nostra fiducia, un nuovo appuntamento, di lì a qualche giorno. – Non potete pensare di ottenere subito le informazioni che volete al primo contatto. Bisogna entrare in confidenza con lo spirito – ci spiegò salutandoci. Eh già! Per entrare in confidenza, ci vogliono molti incontri e… molto denaro per la nostra cara fattucchiera.

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26 - L’INVESTIGATORE DELL’INCUBO

Molte cose si chiariranno alla luce delle nostre paure più cupe. (L’Accademia dei Sogni - William Gibson)

– Buon giorno, sono l’ispettore di polizia Dilani. Lei dovrebbe aver incontrato recentemente la signorina Maria Fiorini – mi aggredì senza mezzi termini una voce decisa al telefono, subito dopo avermi chiesto se ero io Paolo Demetri. – Sì. Certo. Era l’assistente sociale che seguiva la bambina che abbiamo preso in affido. Mi hanno informato del suo decesso. – Sto interrogando le persone che l’hanno incontrata negli ultimi giorni. Potrei venire a farle qualche domanda? – Sicuramente. Ma non si è trattato di morte naturale? Da quanto mi avevano detto, avevo pensato a un infarto? Mi aveva stupito molto, visto che era così giovane… – Può essere. Era cianotica, il medico legale ha delle perplessità e ci ha pregato di fare una piccola indagine. Fissammo un appuntamento per la sera. L’ispettore, alto e magro, sulla trentina, arrivò puntuale alle sette. Lo accompagnava un collega taciturno, che salutò senza presentarsi. Li feci accomodare e offrii da bere a entrambi. – No, grazie. Non bevo più. Al massimo qualcosa di analcolico – rispose Dilani. L’altro si limitò a scuotere la testa. – Un’aranciata? – Grazie – rispose l’ispettore, mentre il suo accompagnatore continuava a scuotere la testa sorridendo. Dopo aver fissato per alcuni secondi il bicchiere che teneva in mano, Dilani mi chiese: – Potrebbe parlarmi dei suoi incontri con la signorina Fiorini? Lo feci, omettendo, però, la serata in cui ero stato da lei e avevamo fatto l’amore.

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– Non è mai stato a casa sua? – mi chiese l’investigatore, dimostrando un fiuto non indifferente o, temetti, informazioni che non sapevo come potesse aver avuto. – Beh… – esitai – quel giorno che mi accompagnò alla ricerca di Elena, passammo davanti a casa sua e ci fermammo un attimo da lei a riposare. Dove voleva andare a parare? Non gli raccontai nulla dei poteri di Elena. Non mi avrebbe creduto. Se l’avessi fatto, questo avrebbe aumentato i sospetti. Si era trattato di morte naturale, apparentemente. Che cosa cercavano? Il soprannaturale non riguarda la polizia. – Sono stato a trovare anche il Signor Scarpelli – aggiunse l’ispettore. Gli avevo parlato del nostro incontro, dicendo solo che gli Scarpelli volevano avere qualche notizia sulla bambina. Lì per lì non mi aveva risposto nulla. Come mai quel salto del discorso? – La morte delle due donne ha insolite somiglianze. Anche la signora era cianotica, come per effetto di un soffocamento. Anche lei non presentava apparenti segni esterni di colluttazione o violenza. Trovo strano che due persone che si sono incontrate di recente muoiano allo stesso modo – osservò giocherellando con il portachiavi della sua auto. – Non ci avevo pensato – dichiarai. Ed era vero: non mi era parsa strana la coincidenza, perché avevo una mia idea su quale fosse la connessione tra le due morti, ma non potevo certo dirlo a lui. – Pensate a un virus? – buttai lì, anche se non ho mai sentito dire che la polizia indaghi sui virus. – Posso chiederle ancora un bicchier d’acqua? – chiese senza rispondermi. – Certamente. O vuole altra aranciata? – No. Grazie. Mi basta un po’ d’acqua. – E lei? – chiesi al collega. – Nulla, grazie –rispose aprendo per la prima volta la bocca. Cominciavo a sospettare fosse muto.

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Mentre mi allontanavo, notai l’ispettore chinarsi verso la mia poltrona e sfiorarla con le dita. Dalla cucina li guardai di nuovo e mi parve che il suo collega infilasse qualcosa in una bustina di plastica. – Lei crede nel paranormale, signor Demetri? – mi chiese, mentre gli porgevo il bicchier d’acqua. Quell’uomo mi stupiva. Mi stava studiando. Sapeva della mia visita alla maga? – Strano che lei mi faccia questa domanda. In realtà non ci credo, ma, pensi che buffo, proprio ieri, mia moglie e io ci siamo divertiti a far visita a una medium. – Davvero? Che idea simpatica! – mi sfotteva? Dilani non pareva per nulla divertito, almeno a giudicare dal grugno che gli adornava il viso. L’agente semi-muto almeno sorrideva – E di cosa vi ha parlato? – Oh! Niente di particolare. Come immaginavo è stato tutto un bluff. Tante parole. Tremiti. Sussulti. Non ci ha rivelato nulla sul nostro futuro – sorrisi. – Pensate di tornarci? Sapeva pure del nuovo appuntamento? Che diavolo d’uomo! – Tutto sommato è stato divertente. Penso di sì. La signora è riuscita a convincerci a fissare un nuovo appuntamento. Era così insistente che non ho rifiutato, ma, in realtà, pensavo di non andarci. – Quasi, quasi però… – rispose allusivo e un po’ ironico. Mi stava diventando proprio antipatico. – Beh, può essere che ci si lasci tentare un’altra volta, chissà! – Curioso. Piacerebbe anche a me provare. Deve essere affascinante farsi raccontare il proprio futuro, parlare con i morti: chissà quante cose potrebbero svelarmi! Potrei risolvere molti misteri assai più velocemente. – Ci provi. Una volta non fa male a nessuno. – No. È vero.

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Quel Dilani mi metteva sempre più in imbarazzo. Non vedevo l’ora che la sua visita finisse, ma non osavo inventarmi qualcosa per farlo andar via, temendo di ottenere l’effetto opposto o di apparire poco disponibile, come chi abbia qualcosa da nascondere. Qualcosa, in effetti, volevo nascondere, ma nulla che lo riguardasse. Chi si credeva di essere questo Dilani? Dylan Dog, l’indagatore dell’incubo? Dylan forse avrebbe capito. Dilani poteva solo far confusione. In questa storia non c’era nulla che potesse riguardare la polizia, mi pareva. Forse un inquisitore sarebbe stato più adeguato.

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27 -IN CERCA D’AIUTO

Secondo la dottrina idealista, i verbi vivere e sognare

sono rigorosamente sinonimi (Lo Zahir - Jorge Luis Borges)

Il mio bisogno di supporto era sintomatico delle mie condizioni di sconforto e confusione mentale. Fu tale bisogno a spingermi a contattare di nuovo, dopo aver coinvolto mia moglie, anche Nicola Scarpelli. Forse avrei fatto bene a tenere quel poveruomo fuori da queste cose. La morte della moglie l’aveva già provato a sufficienza. La verità era che eravamo tutti scossi. Io giocavo a fare l’eroe, ma non stavo certo meglio di mia moglie o di lui. Quando gli raccontai, con estrema titubanza e vergogna, del nostro incontro con la medium, invece di darmi del deficiente, si mostrò del tutto comprensivo e, anzi, si offrì di accompagnarci al prossimo appuntamento. Gliene fui grato. Quando si rasenta la pazzia, la compagnia è davvero importante. La solitudine ci fa sentire irrimediabilmente malati. Condividere la follia con qualcun altro, invece, ci fa sentire un po’ più normali. Gli parlai anche della visita dell’investigatore. Mi disse che era venuto anche da lui. Si sentiva il sospettato numero uno. In effetti, essendo il marito di Elisabetta, era quello più vicino a una delle vittime. Dato che nessuno era al corrente della mia piccola avventura, i suoi rapporti con Maria dovevano sembrare del tutto simili ai miei. Mi ero fatto anch’io l’idea che Dilani sospettasse di me, ma forse aveva ragione a credere che sospettasse maggiormente di lui. Eppure era fuori strada in entrambi i casi. Noi lo sapevamo. Anche Nicola non aveva parlato dei poteri di Elena e degli incubi né con Dilani, né con nessun altro. Gli dissi che l’ispettore sapeva del mio incontro con la maga.

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– Non è mica vietato visitare medium, in questo Paese. Sei libero di farlo. Non può dirti nulla e non ci vedo nessuna connessione con la morte di Maria ed Elisabetta. Anzi, sai che ti dico: ci vengo anch’io, dalla tua maga. Magari riesco a parlare con Elisabetta! Non ci metteranno al rogo per questo. – Al rogo no, ma così finirà per prenderci definitivamente per pazzi – constatai, ma non per questo lo fermai. Non so se il suo fosse coraggio o rassegnazione. Mi recai così assieme a Giovanna e Nicola al secondo appuntamento con la medium, che, nuovamente, entrò in trance, con il suo solito rituale di occhi rivoltati all’indietro, sussulti, tremori, bava dalla bocca. Questa volta, però, la osservai con minor scetticismo e, forse, persino con meno disgusto. Cresceva invece il senso di colpa, che sapevo venirmi dalle parole di Dilani. Anche in questa seduta la donna prese a fare strani versi e dire cose senza senso o molto generiche. A un tratto, però, la sua voce cambiò. Sussultai nel sentirla parlare come Elisabetta. Un’imitazione perfetta, per come la ricordavo. Tenevo per mano mia moglie da una parte e Nicola dall’altro, per formare la catena. Sentii Nicola tremare. − La bambina − mormorò la voce di Elisabetta − non è sola. È figlia dell’oscuro. È una creatura della notte. Il suo potere è immenso. Il suo potere è grande. La guida l’Incubo. Padre e figlia: un solo incubo. L’incubo non ha fine. Non muore mai. − Elisabetta! − Sussurrò Nicola − Come… Come sei morta? − Il sogno uccide. Il sogno. Il sogno uccide. Uccide. Uccide. Ha ucciso. Ucciderà… La medium sussultò. Tremò. Dalla gola le uscì un lungo fischio, una sorta di sibilo. Poi un lungo rantolo e cambiò voce. Prese a parlare con quella che aveva usato l’altra volta. Quella che mi era parsa la voce di Michela.

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− Elena non ha colpa. Elena è buona. Elena. Elena. Oberon è il male. Oberon è l’oscuro. Egli è il signore degli incubi. Egli domina il sogno. È lui. Lei è solo uno strumento. Cercate Oberon. Schiacciate Oberon. Cancellate Oberon. Uccidetelo. La medium cambiò improvvisamente voce. Ora aveva un timbro maschile: − Il Signore della Notte non può essere ucciso. Il Signore non può morire. Tornò l’altra voce, quella di Michela: − Lui è l’Oscuro. La Luce uccide le Tenebre. L’Acqua spegne il Fuoco. Quel conflitto di anime stava sfiancando la medium, che sembrava agitatissima, tossì, roteò gli occhi, urlò e si risvegliò. Il fatto che citasse il nome della bambina non mi meravigliò, dato che la maga lo conosceva già. Fu, invece, di grande effetto l’imitazione di Elisabetta, che la donna certo non conosceva, e quell’accavallarsi fregoliano di voci diverse. A cosa stavano servendoci queste sedute? Non imparavamo nulla di nuovo. Servivano solo a minare la mia razionalità e la mia fede nella scienza. Cominciavo a credere a quelle assurdità di medium, spiriti e demoni. «Cercate Oberon!» Eravamo lì proprio per quello: trovare Oberon. Che cosa dovevamo fare? Come potevamo trovarlo? Non avevamo risposte. Essere esortati a farlo non ci aiutava. Avevamo bisogno d’indizi, d’informazioni, di una via da seguire. La medium ci assicurò che avevamo bisogno di una nuova seduta. La pagammo e fissammo un terzo appuntamento. Cercai di ricapitolare quello che avevamo appreso: gli spiriti ci consigliavano di annientare questo misterioso Oberon e ci dicevano anche come, seppur in modo alquanto sibillino. «La Luce uccide le Tenebre. L’Acqua spegne il Fuoco».

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Alludeva a qualcosa, in particolare? Dovevamo andare in giro con una torcia e una borraccia? E le corone d’aglio? E i paletti di frassino? Che razza di consigli! Cosa mi aspettavo, del resto, da una medium e tre fantasmi? Quella notte sognai Elisabetta. La donna aveva lineamenti vaghi e un abito lungo e bianco, come a volte s’immaginano gli angeli o certi fantasmi. L’ambientazione del sogno era altrettanto confusa e indefinita. Forse una stanza. Una qualunque. La donna sussurrava con una voce che sembrava venire da molto lontano. – Guardati da Oberon! Guardati dall’Incubo di carne. In quell’istante apparve Oberon e la donna fuggì, svanendo. Oberon mi corse incontro con aria maligna. Cominciai a correre per sfuggirgli. Sentivo che mi veniva dietro. Anche Oberon aveva la consistenza di un sogno ma, mentre correvamo, mi pareva sempre più reale e con lui ogni cosa attorno a noi sembrava sempre più vera. Sentivo il rumore dei suoi zoccoli caprini dietro di me. Mi trovai a correre in un vicolo bagnato. Pioveva. Le pareti del vicolo avevano finestre chiuse da imposte mezze rotte e intonaci cadenti. Oberon era sempre più vicino. Davanti a me il vicolo si apriva in una piazza con una chiesa dall’aria abbandonata. Se Oberon era il diavolo, forse la chiesa poteva essere un buon rifugio. Non credevo in Dio. Non credevo neanche nel Diavolo. Dato, però, che questo m’inseguiva, la mia fede subì una svolta e con essa i miei passi. Scartai sulla destra ed entrai. Oberon stava quasi per prendermi, ma si fermò sull’uscio. Mi parve di scorgere con la coda dell’occhio un suo gesto di stizza. La chiesa era vuota, gotica, con alte navate. C’era odore d’incenso. Avanzai lentamente, sia per riprendere fiato, sia per la soggezione del luogo. C’era un silenzio spettrale. Poi, lentamente, dal pavimento parve emergere un canto, come di numerose suore. Era un coro sommesso. Appena percettibile. Come la musica aumentava di volume e intensità, così dal lastricato di

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pietra, andava emergendo una nebbiolina umida che, presto, riempì le tre navate e salì verso le volte a sesto acuto del soffitto. In breve la nebbia mi nascose ogni cosa alla vista. Quando si diradò, mi accorsi di non essere più in chiesa, ma in campagna. Sulla sinistra vidi del fumo emergere da un villaggio lontano, sulla destra c’era una donna che camminava con aria sconvolta, allucinata. I suoi abiti e i capelli erano bruciati e il volto e le mani erano ustionati. Pareva sfuggita a un incendio. Si girò verso di me. Aveva il viso di Giovanna, mia moglie. I suoi abiti medievali erano di foggia maschile e sembrava più Giovanna D’Arco che non la donna che avevo sposato qualche anno prima. La chiamai: – Qui êtes-vous? – mi chiese in francese. Notai che tra le braccia teneva un bambino di pochi mesi, con il volto coperto da un cappuccio. Mi avvicinai per vederlo meglio e con la mano sollevai la stoffa che gli copriva il volto. Sobbalzai nel vedere non il volto di un bambino di pochi mesi, come le sue dimensioni lasciavano immaginare, ma quello di una bambina di circa quattro anni: Elena! La fissai atterrito, poi alzai lo sguardo su Giovanna, ma non era più né Giovanna D’Arco sfuggita al rogo, né mia moglie, ma Michela, la ragazza della stazione, l’amante di Oberon. La mattina, risvegliandomi, decisi di andare in chiesa. Come dicevo, mi consideravo ateo, ma gli avvenimenti degli ultimi tempi stavano mutando la mia visione del soprannaturale. Mi parve che il sogno contenesse l’indicazione di una strada da seguire per risolvere i nostri problemi. Era ancora presto e la parrocchia, a quell’ora, era frequentata solo da alcune anziane signore. Cercai un prete e chiesi di confessarmi. Non per liberarmi dal peso dei miei peccati, ma per parlare di Elena e Oberon. – Qualunque cosa le dirò, padre, è coperto dal segreto del confessionale, vero? – chiesi. – Certamente. Puoi parlare liberamente, figliolo.

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– Lo so che questo non è necessario, ma potrebbe giurarmi che non dirà a nessuno nulla di ciò che le riferirò. – In effetti, non sarebbe per niente necessario, ma se questo ti fa stare più tranquillo, lo giuro. Giuro che non riferirò a nessuno niente di ciò che ora mi dirai. La riconciliazione è un sacramento. Che cosa pesa sul tuo cuore? – Grazie. – È molto che non ti confessi? – Anni. Decenni, direi, ma non sono qui per confessare i miei peccati… – No? Ma… – Ho bisogno di parlarle di qualcosa che riguarda il diavolo. – Il diavolo? – Non saprei da dove cominciare. – Prova a raccontare dall’inizio. – Non saprei. Sarebbe una storia troppo lunga. Quello che vorrei sapere è… è possibile che il diavolo abbia assunto sembianze umane e che mi tormenti in sogno? – Cosa intendi esattamente? – Qualche tempo fa ho incontrato una piccola orfana di quattro anni. Impietosito, l’ho presa in casa mia. Non so, però, se fu per vera pietà che l’ho presa. – Provavi desideri particolari nei suoi confronti? – No. Non è questo. Era come se non fossi io a volerla adottare. Era come se fosse la bambina stessa a guidare la mia volontà. – In questo ci vedrei, forse, più la volontà del Signore, che ti ha spinto a compiere un’opera buona – tentò di confortarmi benevolo, ma sentivo il sospetto nella sua voce. – Potrebbe essere, ma poi ho scoperto che quella bambina s’insinua nella mia mente. – Fai pensieri impuri? – No, le ripeto. La questione è un’altra. Non sono un pedofilo. La bambina mi appare in sogno. È come un incubo. Uno di quei demoni dell’antichità, ha presente? Una sorta di folletto, non

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l’incubo come l’intendiamo comunemente oggi, nel senso di cattivo sogno. Una sorta di piccolo demone. Sembra vera, anche se è solo un’immagine. Pilota i miei sogni, quelli di mia moglie e di mia figlia. Avevamo paura e l’abbiamo resa all’orfanotrofio. – Paura di una bambina? L’avete abbandonata? – Paura dei suoi poteri. Mi chiedo se non sia… posseduta da qualche demonio. L’ha presa con sé una nuova coppia e lei ora è morta, la donna che l’aveva in affido, intendo. Credo l’abbia uccisa la bambina… in sogno. – Come potrebbe…? Il Signore dà la vita e il Signore la riprende… Neanche Satana può disporre della vita umana. – E poi io ho avuto una breve storia con la sua assistente sociale e ora anche lei è morta… – Avete peccato assieme … Annuii veloce. Non era quello il punto. – Poi è comparso suo padre, il padre della bambina… in sogno… e credo che sia il diavolo… – Forse è solo un sogno. Io credo tu abbia bisogno di riposo. Forse queste due morti ti hanno un po’ scosso e… – Questo è quello che mi avrebbe detto uno psicologo. Io sono entrato in chiesa per avere… per sapere qualcosa… come posso difendermi dal diavolo? – Con la fede. Con la preghiera. Con una vita rispettosa di Dio e dei suoi comandamenti. La luce della Fede cancella le tenebre del male. Prega. Prega molto. La luce cancella le tenebre. Di nuovo quell’idea, la stessa che avevo sentito dalla medium. – Non credo di avere fede sufficiente. – Però credi nel diavolo? – Non so più cosa credere. Non so più in cosa credo. Non credevo in nulla che fosse soprannaturale. Non in Dio, non negli angeli, non nei santi e tanto meno nel diavolo, nei demoni, nei fantasmi o nelle creature delle tenebre. Ora, però, stanno succedendo cose troppo strane. Ho consultato una medium…

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– Non credo sia quella la strada… – Mi dia allora lei un’indicazione! Mi dia uno strumento per difendermi, per difendere la mia famiglia, per aiutare quella bambina. La Chiesa dovrebbe intendersene dei diavoli, dovreste conoscere la concorrenza, no? – A parte i sogni, la bambina si comporta in modo normale? – rispose ignorando la provocazione. – Assolutamente. È la bambina più dolce del mondo... di giorno. – Credo allora che tu debba cercare in te la risposta. Leggi il Vangelo. Rifletti sulle parole di Cristo. Caccia i pensieri oscuri. Cerca la pace dell’anima. Vedrai che tutto questo finirà. La preghiera, molta preghiera, aiuta a ritrovare la tranquillità dell’anima. Comincia ora con un Padre Nostro e tre Ave Maria. Ripetili ogni giorno. Ti daranno serenità. Mentre mi allontanavo dal confessionale, il silenzio della chiesa fu cancellato da un coro femminile, che proveniva da qualche spazio dell’edificio che non riuscivo a vedere. Come nel sogno. A ogni passo aumentava di volume. Sulla porta una donna con una bambina in braccio mi chiese l’elemosina. Non la guardai in volto per paura di riconoscerci il viso di Giovanna. Mi allontanai dalla chiesa con un forte senso di frustrazione e una gran confusione in testa. Mi pareva di non aver concluso nulla. Persino il prete dubitava della mia storia. Mi era parso più razionale di quanto non fossi io stesso. Più laico! Andai in un bar e comprai una bottiglietta d’acqua. Ne bevvi un po’ e buttai il resto. Rientrai in chiesa e la riempii di acqua benedetta. Sorrisi dentro di me, mentre lo facevo. Mi pareva un gesto molto sciocco, ma quella bottiglietta nella tasca della giacca mi diede un po’ di sicurezza. L’Acqua spegne il Fuoco, aveva detto la medium. L’acqua benedetta contro il fuoco dell’inferno.

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Medievale! Il coro riempiva con le sue arie l’intera navata. Quelle voci sterili mi davano i brividi.

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28 - LO SQUILIBRATO

Tutto quello che vediamo, quel che sembriamo non è che un sogno dentro un sogno.

(Edgar Allan Poe)

Ero in ritardo per il lavoro. Mi affrettai. Sulla metropolitana cercavo inutilmente di leggere il romanzo di Dick “Gli androidi sognano pecore elettriche?”, ma ero troppo distratto dai miei pensieri. A un certo punto mi parve che qualcuno mi osservasse. Alzai gli occhi e vidi un volto che mi fissava in mezzo alla folla. Quando lo guardai a mia volta, non abbassò lo sguardo. Notai, con un fremito, che aveva qualcosa dei lineamenti dell’Oberon del mio incubo. Quello del sogno aveva un aspetto assai più belluino, ma c’era qualcosa in lui che mi faceva pensare all’immagine onirica. Forse lo sguardo o, forse, il fatto che mi fissasse. Feci finta di rimettermi a leggere, ma continuavo a sentirmi i suoi occhi sul collo. Dovevo affrontarlo? Dovevo parlargli? Era frutto della mia immaginazione? Chi era? Lo guardai di nuovo. Era sempre lì che mi fissava. Scesi. Non mi seguì. Il giorno dopo, salendo sul vagone della metro, scrutai la gente e ritrovai i suoi occhi immobili fissi su di me. Mi spostai in fondo al vagone. Era lontano. Essendo entrambi piuttosto alti, anche a distanza, sentivo che continuava a fissarmi oltre le teste dei passeggeri. Penetrante e ineludibile. Ore dopo partii con un enorme traghetto. Lo incontrai a bordo. Vederlo lì, mi fece trasalire. Mi fissava. Venne verso di me, così veloce e determinato che non riuscii neanche a capacitarmi della sua presenza. Si tuffò ai miei piedi e mi afferrò per le gambe. Mi sentii sollevare verso l’alto da una forza impensabile. Mi accorsi con orrore improvviso di precipitare fuori bordo. Mi aveva

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scagliato come se fossi stato un sacchetto di spazzatura, leggero e fastidioso. Sprofondai in mare, più sorpreso che spaventato. Quando riemersi, l’uomo continuava a fissarmi dal parapetto della nave. Il suo volto era diventato quello dell’Oberon del sogno. Più animalesco. La nave si allontanò e io rimasi da solo in mare. Annaspavo e non riuscivo a nuotare. Sentivo di non aver scampo. Cominciai a gridare. Mi svegliai, svegliando anche mia moglie. – Continui a fare incubi? Urlavi – borbottò insonnolita. – Sì. Era Oberon. Il padre di Elena. – Non pensarci più. Oberon non esiste. Lei non ha mai avuto nessun padre. Il terzo giorno, con mio sollievo, non lo vidi. Sognai, però, la madre di Elena. La donna stava allattando una bambina. Questa volta era una normale neonata. Non aveva il volto di una bambina più grande. Michela era seduta su un letto e tutto sembrava tranquillo e familiare. Tende, un tappeto, un armadio, due comodini, dei libri, qualche rivista, dei vestiti su una sedia. A un certo punto Michela però si mise a parlare alla piccola. − Che sciocca! Che mamma sciocca che hai! Come ho fatto a cadere nella trappola di quell’uomo. Non credo di averne mai conosciuto uno più malvagio e io… io me ne sono innamorata! Forse non proprio innamorata, però ero ammaliata… come stregata. Mi pareva speciale. Eppure non sapevo nulla di lui. Ancora ora non so nulla di lui. Non mi ha mai neanche voluto dire il suo nome. Sono stata proprio stupida a seguirlo, a fidarmi di lui. Se a dover pagare le conseguenze fossi solo io, non me ne importerebbe, sarebbe giusto, me lo sarei meritato. Ora però ci sei anche tu. Sarai tu a pagare per il mio errore e la sua malvagità. Crescerai senza un padre e con una madre idiota. Davvero sciocca!

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Il quarto giorno quell’individuo era di nuovo in metropolitana. Mi misi a sedere, per scomparire alla sua vista tra la folla accalcata in piedi nel corridoio del vagone, che scivolava nella notte artificiale del sottosuolo. Si avvicinò e lo trovai dritto davanti a me. Mi guardava. – Ha bisogno di qualcosa? – gli chiesi seccamente. Non mi rispose. Ero indispettito. Taceva. – Cos’ha da guardare? – chiesi ancora. Già immaginavo una reazione brutale, ma anche questa volta non rispose. Non smise, però, di fissarmi. Quando fu la mia fermata, scesi. Questa volta l’uomo mi venne dietro. Accelerai. Mi stava sempre alle calcagna. La situazione mi ricordava il sogno del vicolo, però, alla luce del giorno, immaginai una motivazione più razionale. Mi ero imbattuto, pensai, in un mezzo squilibrato che si doveva essere irritato per le mie parole. Non aveva reagito subito, proprio perché era un tipo strano, ma ora voleva vendicarsi. Una simile spiegazione avrebbe dovuto spaventarmi, ma, in realtà, la trovavo assai meno inquietante dell’ipotesi che quella persona fosse veramente Oberon: un demone! Cercai un modo per affrontarlo senza rimediarci qualche osso rotto. Fermarmi e parlargli non mi parve la miglior soluzione. Rivolgermi alla polizia sarebbe stata una bella idea, ma di agenti non c’era traccia. La via era vuota. Il mio ufficio non era poi così lontano. Potevo sperare di raggiungerlo in tempo e rintanarmici. Me l’avrebbe permesso? Io non ero certo mingherlino, ma anche lui aveva l’aria alquanto robusta. Non avevo voglia di arrivare a uno scontro fisico. Feci allora la cosa più sciocca che potessi fare. Per capire se mi stesse seguendo veramente, m’infilai in una stradina laterale. Se mi segue anche qui, pensai, vuol dire che mi sta davvero pedinando.

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Sulla strada principale sarei stato più al sicuro. Se quell’individuo mi avesse aggredito, forse qualcuno mi avrebbe soccorso. In quella stradina appartata, invece… L’uomo mi seguì anche lì. Ce l’aveva con me. Come un animale braccato, mi misi a correre e lui, come qualsiasi predatore, scattò in avanti, dietro di me. Istintivo. Non conoscevo quella strada. Immaginavo quasi che mi sarei trovato all’improvviso di fronte alla piazza con la chiesa del sogno. Invece, svoltava e, poi, improvvisamente, finiva contro un muro. Una via senza uscita. Ero un topo in trappola! Mi guardai attorno alla ricerca di vie di fuga o mezzi di difesa. Nulla. Il gatto si avvicinava. Mi frugai nelle tasche e trovai la bottiglietta che avevo riempito di acqua benedetta e poi dimenticato di avere. Brandendola come una pistola, minacciai il bruto: – Se fai un altro passo te la verso addosso! – gridai. Non pensavo che la minaccia potesse sortire alcun effetto, se non una risata. L’uomo mi guardò con quel suo sguardo immobile. Aggrontò le sopracciglia (o forse no). Si girò e se ne andò senza correre, con passo tranquillo, come se non fosse successo nulla. Il giorno dopo non lo rividi e neppure il giorno appresso. Un grido mi fece sobbalzare. Due grandi occhi sbarrati di chi si è appena svegliato per un incubo erano piantati nei miei. Era Michela che mi fissava senza guardare me, senza vedere nulla, seduta nell’oscurità della sua camera. Respirava affannosamente e ripeteva piano: − No, Elena, no. Basta. Basta Elena. Non farlo più. Non ce la faccio. Non ce la faccio. Così mi fai impazzire. Devo dormire. Devo dormire. Così non posso andare avanti. Elena basta. Lasciami stare. Lascia stare i miei sogni. Accanto a lei, sul letto, c’era Elena, ancora piccolissima, che la guardava. Era lì senza esserci veramente, un sogno dentro un

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sogno, come se la sua fosse una materia onirica diversa da quella di Michela. Pur essendo il sogno fatto da un sogno, era più reale di Michela. Nasceva tutto dalla mia fantasia o qualcuno provocava questi miei sogni? Chi mi aveva mandato questa visione? Michela per avvertirmi dei poteri di Elena, come se non li conoscessi, oppure solo per continuare a raccontarmi la sua storia? Perché una morta dovrebbe volermi parlare di sé? E se non era lei a farlo, chi era? Elena, Oberon? O magari, arrivai a pensare, Dio o uno dei suoi angeli che cercavano di mettermi in guardia?

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29 - OBERON

Nella profondità del sogno, ciò che l’uomo incontra è la propria morte.

(Il sogno – Michel Foucault) Elena aveva davvero smesso di manipolare i nostri sogni o aveva semplicemente affinato la sua tecnica? Anche se lei non mi appariva più ormai da qualche tempo, i miei sonni erano tutt’altro che tranquilli. C’era questo suo presunto padre, che pareva aver preso il suo posto. Si manifestava, però, in modo diverso. Nel caso di Elena, l’anomalia del sogno era talmente evidente che c’eravamo subito messi in allarme. I sogni provocati dalla bambina erano troppo strani, avevano una consistenza troppo diversa dagli altri, perché non li riconoscessimo come qualcosa di alieno. Ora la natura dei nostri sogni era cambiata. L’intruso sembrava un altro. Non più solo e sempre Elena, ma anche e soprattutto Oberon. Possibile? Oberon agiva con più stile. Riusciva a mimetizzarsi meglio, a confondersi con i sogni normali. I sogni stessi parevano sempre più reali, al punto che stentavo a riconoscerli. Era davvero Oberon a fare questo o era solo la mia fantasia? Quell’uomo che incontravo sulla metropolitana era proprio lui? Se era così, ero io a sognare l’uomo della metropolitana o era il mio sogno che si materializzava in quell’uomo? La mia mente viaggiava ben oltre la razionalità, cui avevo improntato tutto il resto della mia vita, fino a quello strano giorno in cui avevo incontrato Elena. Era Elena a farmi sognare Oberon o non c’entrava affatto? C’erano poi i sogni sulla vita di Michela, che arrivavano come le puntate di una serie televisiva, a raccontarci di lei. Stavamo subendo tre infiltrazioni oniriche diverse: le corporee richieste d’attenzione di Elena, le minacce spaventose di Oberon e questa sorta di biografia di Michela. Mi chiedevo se le fonti fossero

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davvero tre diverse, forse proprio originate da ciascuno di loro tre. Questo continuava a contrastare con il mio rifiuto di credere che un morto potesse interagire con i vivi. In fondo però ero persino andato da una medium! Le mie difese intellettuali stavano decisamente crollando. Continuavo a ripetermelo, come se quest’autocoscienza potesse essermi d’aiuto, ma non sembrava essere così. Tre contatti soprannaturali erano qualcosa di troppo improbabile. La risposta non poteva che essere una sola: stavo impazzendo! Ultimamente Giovanna e Laura erano tranquille. Non avevano subito visite. Anche Nicola non pareva turbato da nuovi incubi. Ero solo io. Ero solo. Non mi restava da far altro che attendere il terzo incontro con la medium. Avrebbe portato a qualcosa? Una sera invitammo Nicola a cena da noi. In un momento in cui Giovanna ci aveva lasciati in salotto, gli raccontai dello scontro con lo strano individuo della metropolitana. Parlarne con lui sembrava naturale come discutere l’andamento di una partita di calcio o i risultati di Borsa. – Pensi davvero che somigli all’Oberon del sogno? – Non saprei. In realtà nel sogno non aveva lineamenti così precisi. È stato quando l’ho visto che mi è parso essere lui. – Potresti aver rielaborato, a posteriori, l’immagine onirica, adattandola a quella dell’uomo che hai incontrato. – Penso tu abbia ragione. Tutta questa storia mi sta suggestionando. Non ragiono come dovrei. – Credo che la tua sia stata un’associazione normale. Alcuni sogni sono considerati premonitori, spesso solo perché si rielabora quanto sognato, adattandolo agli eventi che si verificano successivamente. Ripensandoci ci pare che le immagini coincidano, ma è solo suggestione. – Perché quell’uomo mi ha inseguito, allora?

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– L’hai detto tu stesso: era uno squilibrato. Il fatto stesso che ti fissasse a quel modo e non rispondesse alle tue domande lo dimostra. Ti sei imbattuto in uno fuori di testa. Può capitare. Capita. Ti è capitato. Non devi farti impressionare. Il mondo è pieno di gente strana. – Ed è scappato davanti all’acqua benedetta? – Probabilmente sarebbe scappato anche se gli avessi agitato sotto il naso un bicchiere di brunello di Montalcino: era uno fuori di testa. Le sue reazioni non sono normali. Ti ha inseguito finché scappavi. Quando ti sei fermato e l’hai minacciato, si è arreso e se n’è andato via. Come un cane che insegua un gatto. Se questo si ferma o comincia a inseguirlo, a volte è il cane stesso a scappar via. – Se lo incontrassi ancora, cosa dovrei fare? – Ignoralo, no? Non ti riguarda. Non è il padre di Elena. Non è Oberon! Non è il diavolo! È solo un mentecatto che fa il tuo stesso percorso in metropolitana. Quella notte Oberon entrò nella mia camera. Senza accendere la luce, salì sul mio letto e si mise a sedere sul mio stomaco. Fissandomi in viso. Concreto come era stata concreta Elena. Pesante come un macigno. Cercai di svegliarmi, ma non ci riuscii. Mi parve di passare ore intere con gli occhi sbarrati a fissarlo, mentre lui mi fissava a sua volta senza parlare. Ero immobilizzato. Non osavo dire nulla. Alla fine decisi di scacciarlo. – Vattene! – gli urlai. Non si mosse. Non rispose. Cercai di scrollarmelo di dosso, ma era troppo pesante. Sembrava aver messo radici nel materasso. Aveva zampe caprine i cui zoccoli, sui miei fianchi, parevano scendere attraverso il letto, come radici, fino giù all’inferno. Quando mi svegliai mi parve di non aver dormito per niente. Mi sentivo ancora stanco, mi girava la testa e avevo gli occhi pesanti.

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Accompagnai le bambine a scuola. Pensai a quanto volessi bene a entrambe. Anche a Elena. Ormai la ritenevo figlia mia. Continuavo, però, a considerarla, almeno indirettamente, responsabile di quegli incubi. Nel guardarla mi chiedevo sempre cosa ne sapesse e quanto dipendessero da lei. Era un pensiero fisso, che rovinava il nostro rapporto e il mio affetto verso di lei, e questo mi dispiaceva enormemente. Forse più della stanchezza che mi provocavano quei sonni agitati, forse più della paura che m’incuteva tutta quella situazione. Pensai che dovessi venirne a capo non solo per me, ma anche per Elena, che, da quando era comparso Oberon, mi pareva più la vittima che il colpevole. Il solo modo per farlo mi parve consistesse nel rintracciare quest’uomo, che ormai chiamavo Oberon e che era, nella mia mente, la strana mescolanza del padre sconosciuto di Elena, dell’uomo della metropolitana, dell’Oberon di Shakespeare e del mio Incubo. Per farlo avevo tre strade. Una era la medium, che avrei rivisto quella sera. L’altra era parlare con l’uomo della metropolitana. La terza, forse la più saggia, sarebbe stata ritrovare il vero padre di Elena, ma mi pareva la via più difficile. Quel giorno ebbi dunque la ventura di poter tentare la seconda di quelle strade. Infatti, sulla metropolitana, incontrai di nuovo lo squilibrato. Questa volta non si limitò a fissarmi. Si avvicinò a me e mi sussurrò: − Sono il tuo incubo! Dopo di che si allontanò e rimase a fissarmi da lontano. In un altro contesto avrei interpretato la frase come una minaccia. Fatta da uno sconosciuto, delle cui facoltà mentali dubitavo, poteva parere la minaccia di un folle, la prepotenza di un bullo. Dato, però, che lui, effettivamente, aveva le sembianze del mio incubo, quell’affermazione mi fece raggelare. Non era solo una minaccia, era una vera e propria affermazione d’identità!

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Dapprima sentii venir meno le ginocchia, poi mi ripresi: era solo un uomo! Era un pazzo. Pensai di andare da lui e fargli una scenata, chiedendogli cosa volesse da me. Dar di matto in pubblico, però, non mi andava. Non ero ancora a quel punto. Decisi di affrontarlo quando fossimo rimasti da soli. Ero certo che un simile momento si sarebbe presentato, perché ero convinto che anche questa volta mi avrebbe seguito. Attesi dunque la mia fermata e scesi. Mi guardai alle spalle per vedere se mi seguiva. Lo vidi, invece, ancora nella carrozza. Non pareva aver alcuna intenzione di scendere. Le porte si chiusero, portandosi via il suo sguardo. Quella sera mi recai da solo dalla maga. Invece della seduta spiritica, questa volta mi offrì di leggere le carte: – Questo è il folle e questa è la morte e questo è il sogno. Queste tre carte si sono unite. Questo vuol dire incubi. Qualcuno morirà presto. Il folle precede la morte e… – sollevò un’altra carta – …e la segue. La follia porta la morte e la morte porta la follia. Devi fare molta attenzione – sollevò un’altra carta – Questo è il re. Questa è la magia. Devi fare attenzione al re delle fate. Questo è il libro. Il pericolo viene dal sogno. Il sogno viene dal libro – Oberon in Sogno di una notte di mezza estate era il re delle fate. Sollevò un’altra carta. – Il diavolo. Il papa. Ma questo può anche essere il padre. Capisci di cosa parlano le carte? – Credo di sì – risposi. Non volevo darle indizi. Non le dissi cosa pensavo delle sue informazioni. Mi chiedevo quanto la loro coincidenza fosse frutto della sua abilità di cartomante, quanto della mia suggestione e quanto, magari, vera divinazione. Che Oberon fosse un incubo e un pazzo e che fosse un pericolo già lo pensavo. – Stai attento! Non sono carte positive – mi ammonì quando me ne andai con aria persa.

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Quella notte, ovviamente, sognai di nuovo Oberon. Scendevamo assieme dalla metropolitana e ci ritrovavamo in un bosco con un salto di scena che solo un sogno può rendere possibile. Oberon si piantò davanti a me e fissandomi negli occhi con sguardo folle, mi lanciò la sua sfida: – Io sono Fobètore, il Dio venuto per portarti il terrore. Sono il fratello malvagio di Morfeo. Sono il tuo incubo personale. Sono il padrone dei tuoi sogni. Sono l’angoscia che non ti molla. Non potrai mai liberarti di me. Vengo dalle profondità della tua mente, vengo dalle profondità della Terra, vengo dalle profondità della Storia. Ci sono sempre stato e sempre ci sarò. La Notte mi guida e il Sonno mi ha ceduto il suo dominio. Come ebbe pronunciato queste parole folli, si slanciò su di me, cercando di strangolarmi. Lottammo come se dal nostro dibatterci dipendessero non solo le nostre vite, ma i destini dell’universo e l’equilibrio delle sfere celesti. In quel momento comparve Elena – Basta, papà! – gridò. Mi chiesi a chi dei due si rivolgesse. Forse a entrambi. Era lei. Non era un sogno normale. Era una delle sue apparizioni oniriche. Nel vederla mi accorsi, anzi, che anche Oberon, questa volta, aveva la sua stessa consistenza: erano entrambi più veri del sogno. Oberon, in effetti, mi stava davvero strangolando. La sua stretta mi toglieva il respiro. Sentivo di sognare, ma soffocavo lo stesso. – Fermi – urlò ancora Elena e creò un risucchio nel sogno con cui cominciò a tirar via Oberon-Fobètore. Lui, però, resisteva. Questa volta il sogno si ripiegò su di Elena, quasi a volerla schiacciare. Intuii che questo fosse opera di Oberon. Dovevo salvarmi, ma dovevo anche aiutare Elena. La bambina, però, riuscì a difendersi da sola. Sentii un forte vento che rigonfiò il sogno attorno a lei. Per farlo Elena dovette, credo, allentare la presa su Oberon, che tornò a soffocarmi con maggior vigore. Pensai che la sola cosa che potessi fare per difendermi fosse svegliarmi. Non ci riuscii. Credo fosse Oberon a impedirmelo.

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– Voglio svegliarmi! – urlai. Credo che Elena capisse che solo così potevamo bloccare Oberon e mi venne in soccorso. Non so come, ma sono convinto che sia stata lei a far cessare il sogno. Mi rizzai a sedere sul letto. Sentivo il collo indolenzito e respiravo a fatica.

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30 - SOSPETTATO

Che me ne faccio della realtà, datemi il sogno…

(Gabriele D’Annunzio) Quella mattina non incontrai Oberon. In compenso Dilani, l’ispettore di polizia, mi chiese un nuovo appuntamento per la sera. – Lei era l’amante di Maria Fiorini? – mi chiese, al nostro incontro, senza troppi preamboli. – No – risposi, senza mentire troppo. La nostra era stata solo la storia di una notte. Non mi ero mai immaginato come il suo amante. Avevo, poi, un ricordo così confuso di quella sera, che stentavo a credere ci fosse mai stata. A volte credevo di averla solo sognata. Il collega semi-muto di Dilani sorrideva con quel suo solito sguardo che non riuscivo a interpretare: sembrava volesse dire «ti ho capito, io!» e nello stesso tempo mi dava l’impressione che non capisse proprio nulla. – Dall’esame del DNA, risulta che lei ha avuto un rapporto con la donna poco prima che morisse. Mi sono permesso di prelevare un suo capello per effettuare gli esami. «Prego, si accomodi, vuole anche l’unghia dell’alluce o una provetta di sangue!» pensai con sarcasmo, ma risposi: – Come fa a dire che era proprio un mio capello? – L’ho preso l’altra volta dalla sua poltrona, ma questo non è un problema. Se lei sostiene di non avere avuto rapporti con la signorina, possiamo fare un’analisi del suo DNA direttamente su di lei e verificare se è diverso. – Non avete nessun diritto a esaminare il mio DNA, senza una mia autorizzazione! Non dovreste avere anche, che so, un ordine della Procura?

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– Dunque, sostiene di non aver fatto del sesso con la signorina il giorno in cui è morta? A queste parole di Dilani, il suo collega allargò ancor più il suo sorriso furbetto, piegando la testa in modo allusivo. – Questo no – mi arresi davanti all’evidenza – ma non ero il suo amante. È stata la prima e l’ultima volta, purtroppo. – Una strana coincidenza, non trova? – Forse. Continuo a non capire perché lei stia indagando come se la signorina Fiorini fosse stata uccisa. Non si è trattato, dunque, di morte naturale? – Probabilmente sì, ma come le dissi l’altra volta, il medico legale è perplesso. Mi è parso il caso di capire meglio. – Che cosa pensa il medico? – Pare che il cuore si sia fermato a seguito di un mancato afflusso di ossigeno. La donna, però, prima di morire si è agitata, come se lottasse con qualcuno. Quello che è strano è che, nonostante ciò, non presentasse sul corpo i segni tipici di una colluttazione. Non un livido, né un graffio. In effetti, era come se, mancandole il respiro, avesse cercato di lottare contro qualcosa dentro di sé. Questo farebbe escludere l’omicidio, ma resta alquanto strano. In questi casi il moribondo si limita a sussultare, cadere in terra, annaspare. Lei, invece, ha messo a subbuglio la stanza. Un’ipotesi, però, potrebbe essere che un tale disordine l’abbia provocato prima, magari durante un amplesso piuttosto vivace. Forse lei può dirmi qualcosa in merito.

Fui vento e fui tempesta. Fui pietra e fui magma e lava.

Ero una belva affamata. Ero energia e potenza.

– Fui tentato di confermare la versione dell’amplesso vivace, tanto per dargli una soluzione facile e allontanarlo dalla follia che stavo vivendo, ma perché dovevo mentire? Non avevamo certo

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messo a soqquadro la stanza! Strani pensieri continuavano a martellarmi in testa, rendendomi difficile rispondere.

Fui vento e fui tempesta.

Avevo ammesso la relazione, ma perché avrei dovuto ammettere un rapporto così agitato? Questo non mi avrebbe messo ancor più in cattiva luce? Ammettendolo, non sarebbe sembrato che confermassi che quella specie di lotta fosse avvenuta tra di noi e che durante questa lotta l’avessi uccisa? Perché dovevo mentire in questo modo? Stavo finendo nell’angolo.

Fui pietra e fui magma e lava. Ero una belva affamata.

– Abbiamo fatto l’amore, ma in modo piuttosto tradizionale, se posso esprimermi così. Non abbiamo certo rovesciato la casa – risposi.

Ero energia e potenza. – Capisco. Vorrà dire che, escludendo altre visite, la donna ha fatto tutto da sola – il suo tono era pacato, ma mi parve di cogliere una certa ironia nelle sue parole – probabilmente deve esser stata ancora preda dell’euforia sessuale: ma cosa fa lei alle donne? – mi prese poi in giro spudoratamente – le trasforma in furie scatenate. Rimasi zitto come un’idiota, anche se le strane voci dentro di me si erano placate. Ci voleva proprio Dilani per tranquillizzarmi! Ora non solo ero tormentato da storie paranormali, tallonato da un pazzo maniaco, ma anche sospettato dalla polizia per un omicidio che non avevo commesso. Magari per due omicidi. Praticamente ero quasi un serial killer!

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Quella notte non avrei voluto addormentarmi. Temevo di incontrare nuovamente Oberon. Sentivo che avrebbe potuto uccidermi in sonno. Riflettendoci, mi chiesi se non fosse stato proprio lui a uccidere Elisabetta e Maria. Avevo sempre pensato che tutto dipendesse da Elena, ma era davvero colpevole? La bambina ormai dormiva. Dovevo capire. Dovevo sapere. Ero troppo spaventato. Mi alzai dal letto. Anche Giovanna dormiva e non si accorse che uscivo dalla stanza. Entrai nella cameretta di Elena e la svegliai. – Cosa c’è? – mi chiese, aprendo a fatica gli occhi. – Ti ricordi il sogno di ieri notte. – L’uomo che voleva ucciderti? – Sì – quasi esultai. Mi stupivo sempre di scoprire che Elena conoscesse i miei sogni. – Sai chi era quell’uomo? – Lo chiamavi Oberon. – L’avevi già visto altre volte? – Sì. È cattivo. – Quando è stata la prima volta che l’hai visto? – Non ricordo. Sempre. Lo vedo da sempre. – Ti ricordi di Maria, la signora dell’Isola dei Bambini Perduti. – Sì. – Ti ricordi che mi hai detto che le hai avvolto il sogno attorno, perché era stata cattiva? – Sì. Non lo farò più. Promesso. – Ti ricordi cosa è successo dopo? – Dopo? – Che cosa ha fatto Maria dopo che le hai avvolto il sogno? – Non lo so. Dormiva. – Era morta? Capisci cosa intendo? – Non era morta. Oberon le parlava. – Oberon? C’era Oberon? – Sì.

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– L’ha uccisa lui? – Non so. Sono andata via. Oberon mi ha sgridato e mi ha mandato via dal sogno. − Allora non avevo capito nulla! Elena aveva dei poteri, ma il malvagio era Oberon! – E la signora Elisabetta? Anche lei è stata visitata da Oberon? – Sì. Oberon mi segue sempre. Se io vado in un sogno, viene anche lui. Io gli apro il sogno e lui entra. – Gli apri il sogno? – Uhm… sì. Cioè… Non so. – È come se apri una porta? – Uhm… sì, credo. È diverso, però. Lui non la sa aprire. Oberon vuole che apro. – Ieri notte l’hai fatto entrare tu nel mio sogno? – Dovevo. Lui lo voleva. – Dove vive Oberon? Dove sta, quando non è nei sogni? – Non so. – Ancora una cosa, poi ti lascio dormire: hai fatto male a Elisabetta? – No – si rattristò - È stato Oberon. – Però, sei stata tu a farlo entrare? – È cattivo con me. Se non obbedisco, mi fa fare brutti sogni. – Pensi che potresti impedirgli di entrare nei miei sogni? Credo che mi voglia uccidere. – Non so. È cattivo. È forte. – Puoi provare? – Proverò. – Ti voglio bene, piccola. – Anch’io… papà. Non voglio che tu muoia. – Buonanotte – la baciai sulla guancia. «Speriamo sia davvero buona almeno questa, di notte» pensai. Feci sogni confusi, credo ci fossero anche Elena e Oberon, ma erano solo rielaborazioni della mia mente. Nessuno dei due venne

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a trovarmi con la concretezza che caratterizzava le loro apparizioni. La mattina chiesi a Elena cosa fosse successo nella notte. Mi disse che Oberon l’aveva minacciata, chiedendole di farlo entrare nei miei sogni e lei si era rifiutata. Poi l’aveva lasciata stare. Dopo poco lo incontrai sulla metropolitana. O, quantomeno, incontrai il suo alter ego di carne. La scena era la stessa dei giorni precedenti, cui stavo quasi per abituarmi. Mi fissava da quattro o cinque metri di distanza. Alla solita fermata scesi e questa volta mi seguì. Mi mantenni, però, per strade frequentate e lui si tenne sempre qualche passo indietro. Quando arrivai in ufficio, non mi seguì all’interno. Dopo un’oretta mi telefonò Nicola: – Questa notte ho sognato Oberon. Non era corporeo come Elena, però non era un vero sogno. Era pilotato. Mi ha parlato di te. Era arrabbiato. Diceva che non avresti dovuto influire su Elena, che Elena è sua. Che dobbiamo tenerci alla larga. Che era inutile che provassi a difenderti. Mi ha detto che dovevo avvertirti. – Grazie. Credo di aver scoperto che la causa di tutto è lui, non Elena. Anche per tua moglie. È stato lui. Te ne parlerò meglio quando ci vedremo. – Oberon? Avrebbe ucciso lui Elisabetta? – Credo di sì. Tramite Elena. Ora non posso parlare. – Va bene. Ti chiamo a casa. – Ciao. La sera rientrando trovai Dilani sulla porta. Questa volta era solo. – Salve. – Salve, ispettor Dilani. Tutto bene? – Chi è Oberon? – Cosa?

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– Chi è Oberon? – Il re delle fate in “Sogno di una notte di mezza estate” – sparai lì. – E cosa ha a che fare con Elena? – Chi le ha parlato di Oberon? – La maga Morfea e… il suo telefono. – Tiene sotto controllo il mio telefono? Ancora una violazione della mia privacy! Io la denuncio. – Faccia pure. Sarà un’occasione per chiarire in tribunale varie cose. È il padre della bambina? Perché lo protegge? Potrebbe essere stato lui a uccidere Elisabetta e Maria. Perché non me ne vuol parlare? – Non ho nulla da dire. Non lo conosco. Ho provato a cercare il padre della bambina, ma nessuno sa chi sia. – Chi è allora quest’Oberon? Perché lei e il signor Scarpelli pensate che abbia ucciso sua moglie? E, soprattutto, perché non lo denunciate? – Era solo un gioco – sparai, non venendomi in mente idee migliori. - Uno scherzo che facevo con il signor Scarpelli. – Strano che il signor Scarpelli gradisca scherzare sulla morte della propria moglie e per giunta con una persona che si conosce appena, non trova? E poi perché qualche giorno fa ha fatto controllare ai miei colleghi un numero di telefono che diceva fosse di questo Oberon? Sapeva anche quello, ovviamente. – Non conosco il padre della bambina, la madre viveva da sola e non era sposata, ma sospetto che lo chiamasse Oberon. Non era il suo vero nome. Non so come si chiamasse. Con Nicola ogni tanto facciamo qualche battuta su questo nomignolo, tanto per allentare la tensione. Da quanto abbiamo preso in affido la piccola, ci siamo incontrati e siamo entrati subito in amicizia. – Fa piacere incontrare gente tanto allegra e cordiale – commentò con ironica freddezza, fece un cenno con la mano per salutare e se ne andò.

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Mi stava diventando antipatico o, forse, lo era sempre stato.

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31 - LA RESA DEI CONTI

L'azione è l'ultima risorsa di quelli che non sanno sognare.

(Oscar Wilde)

La notte Elena entrò in camera nostra e s’infilò nel lettone. Non era un sogno e non era un’apparizione. Era proprio lei, in carne e ossa. Era spaventata e pallida. – Cosa c’è, piccola? – le chiesi. – Oberon mi fa fare brutti sogni. Vuole venire da te. Si sistemò tra Giovanna e me, sotto le coperte. – Può farti del male? – le chiesi. Sapevo che avrei dovuto tranquillizzarla, dirle di non aver paura e che Oberon era solo un sogno, ma come potevo? Lei era una bambinetta, ma i suoi poteri erano la sola difesa che avessi in sonno contro quel demone e nel contempo, a quanto pare, era tramite lei che lui poteva raggiungere la mia mente. Solo un sogno: una simile affermazione mi suonava poi quanto mai riduttiva. I sogni erano ormai per me qualcosa che poteva essere estremamente vero e concreto. Eppure quante volte dei bambini sono stati tranquillizzati con una simile frase! «Dormi, tesoro, è stato solo un sogno». – Non lo so – pianse – però mi fa paura. Mi fa fare gli incubi. Dice che devo aprirgli i tuoi sogni. – Cerca di non farlo entrare. Prova ancora questa notte. Domani cercherò di fare qualcosa per fermarlo. – Va bene. Fare qualcosa? Davvero non sapevo cosa. L’unica possibilità era incontrare l’uomo della metropolitana. Sperare fosse davvero lui l’Oberon del sogno e riuscire a bloccarlo. Come? Stentai ad addormentarmi nel cercare una soluzione. Elena fece il suo dovere e, nonostante gli incubi che Oberon le somministrò, mi difese dai suoi attacchi onirici.

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Era stata brava e coraggiosa. Ora toccava a me fare l’adulto, cosa che la nostra generazione era così poco abituata a fare. Toccava a me difendere Elena. Dovevo affrontare Oberon. Uscii di casa armato: in una tasca tenevo la bottiglietta con l’acqua benedetta e una croce d’argento. Per maggior precauzione avevo preso anche dell’aglio. Dovrebbe servire per i vampiri, ma non si poteva mai dire. Sapevo veramente con chi o con che cosa avevo a che fare? Ogni credenza poteva nascondere un nocciolo di verità. Nell’altra tasca misi, invece, un’arma meno spirituale: un coltello a serramanico con la lama affilata. Mi sentivo come l’eroe di un western. L’ultimo cavaliere a caccia dell’uomo in nero. O, magari, Van Helsing a caccia di Dracula. Per fortuna sulle metropolitane ancora non ci sono i metal detector, né ti perquisiscono. Temevo di non incontrarlo. Invece lui era lì. Era sorprendente, in effetti, il numero di volte che lo trovavo sul vagone su cui salivo. Statisticamente improbabile. Quale scienza umana, però, aveva più valore in questa storia? La teologia? Neanche quella, credo! Mi fissò. Ricambiai lo sguardo con aria di sfida. Restammo per tutto il percorso a fissarci. Quando scesi, mi seguì. Difficilmente, mi parve, avrebbe potuto resistere al magnetismo dei miei occhi, che lo chiamavano allo scontro. Mi seguì, a pochi passi di distanza, fino al vicolo senza uscita. Questa volta mi ci infilai con la volontà di essere seguito e il desiderio di affrontarlo in uno spazio deserto, libero da occhi indiscreti. Arrivati a metà del vicolo, mi girai e, fissandolo, gli chiesi: – Sei Oberon? Quel campione di loquacità non mi rispose. – Che cosa vuoi da me? Perché mi segui? - insistetti. Continuò a non rispondere. Le mie erano domande di cui credevo di avere già le risposte. Le facevo solo per sentirmele

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confessare. Per avere una confessione, che liberasse la mia coscienza. – Chi sei? – chiesi ancora. – Sono il tuo incubo! – disse ripetendo le sole parole che gli avessi mai sentito pronunciare nel suo corpo diurno. Pareva una sorta di zombie. Anzi, mi venne piuttosto in mente il corpo rianimato da qualche pratica vudù, un cadavere tornato in vita solo per compiere una missione di morte, l’incarnazione di una loa. – Ti ordino di lasciarmi in pace e di non visitare più Elena – tentai invano. – Sono il tuo incubo! – ripeté, come un disco rotto, come se non sapesse dir altro. Avanzò verso di me con espressione minacciosa. Estrassi la bottiglietta d’acqua benedetta. Lontano un corvo gracchiò. – Fermati! – non lo fece. – É acqua benedetta! Mi si scagliò contro. Gli gettai l’acqua in viso. Esitò un instante, ma non si fermò. Ebbi il tempo di estrarre e far scattare il coltello che avevo nell’altra tasca. Non ci badò. Mi afferrò il collo con entrambe le mani e cominciò a stringere come nell’incubo. La vista mi si annebbiò. Il suo volto mi parve deformarsi in un ghigno che aveva ben poco di umano. Fobétore, pensai, il fratello malvagio di Morfeo. Mi mancava l'aria. Il vincolo mi parve restringersi come se i palazzi si stessero avvicinando tra loro. Lo colpii allo stomaco, sussultò, ma non parve farci caso. Un fiotto caldo mi bagno la mano. Una sostanza densa e gelatinosa, più che sangue. Continuava a stringere. Presto avrei perso i sensi. Oberon mi conficcò lo sguardo negli occhi. La mancanza d'aria e quel suo fissarmi mi stavano annientando. Mi stava ipnotizzando? Non riuscivo a reggermi in equilibrio. Il pavimento si inclinò. Stavamo scivolando. Sempre più velocemente. La stradina era diventata un pozzo. Precipitavamo. Mi aggrappavo a quel mostro come a un'ancora di salvezza, come se lasciarlo mi avrebbe fatto sprofondare in abissi infernali. Non c'era, in realtà, bisogno di reggerlo, dato che le sue mani erano sempre avvinte attorno al

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mio collo. Era lui a reggere me. Alle sue spalle vidi per un attimo il volto terrorizzato di Elena. Pareva concentrata, oltre che spaventata. Stavo morendo. Il pozzo era sempre più buio. La luce era ridotta a un fioco lume in lontananza, alla bocca del pozzo. Erano i miei ultimi istanti. Sentii un grido. Era Elena? No. Forse ero io stesso. Ma con quale fiato potevo aver urlato, se non ne avevo più? Ero confuso. D'un tratto, però, mi ricordai di avere ancora il coltellino in mano. Lo colpii nella schiena. Il corvo gracchiò più vicino. Fu come affondare l'arma in terra. Non si fermava. La sua presa era sempre più forte. Sentivo che avrebbe potuto spezzarmi l’osso del collo. Ero sporco del suo sangue, che fiottava copioso dalle ferite. Stavo soffocando. Avevo esaurito anche le ultime riserve di ossigeno. Le forze mi stavano lasciando. Le raccolsi come potei. Peter Pan mi sfrecciò accanto. Riapparve Elena. No, non era lei. Era lo Stregatto di Alice. Sogghignò. La Regina di Cuori gridò: - Tagliategli la testa! Una torma di fauni si stava calando giù nel pozzo. Peter Pan svolazzava inquieto in mezzo a uno stormo di corvi affamati d'anime. Riuscii a raggiungere il collo di Oberon e ci piantai la lama. Allentò la presa. Colpii ancora. Al centro della fronte. Il terzo occhio, pensai follemente. Urlò. Il suo grido fu un ululato che spezzava le montagne e raggiungeva il cielo. Qualcosa di inumano e ancestrale. La forza primitiva dei giganti e dei troll. La potenza delle viscere dei vulcani. Il rombo dell'eruzione. Il rantolo mortale delle sirene assassinate. Un grido che mi trapassava il cervello. I corvi gracchiarono in coro. Finalmente mollò la mia gola. Mi fissò ancora con quei suoi occhi allucinati e cadde in ginocchio ai miei piedi. Nel cadere mi graffiò con le unghie la mano che teneva l’arma. Il pozzo tornò d'un tratto un vicolo. I fauni, Peter Pan e le altre allucinazioni sparirono. Respiravo. Gli diedi una ginocchiata sul mento e crollò all’indietro. Sul pavimento finalmente orizzontale. Respiravo.

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Respirai. Per essere certo della sua morte, gli piantai ancora tre volte la lama nel cuore. Respirai ancora. Con liberazione. Per precauzione, gli infilai l’aglio e la croce in bocca. Smettesse ora lui di respirare! Mi scossi. Il ritorno alla realtà fu duro. Avevo appena ucciso un uomo. Forse era un mostro, ma quello che giaceva ai miei piedi, per qualunque poliziotto, era innegabilmente un essere umano. Dovevo comportarmi di conseguenza. Ero un assassino. Cosa si fa in questi casi? Avevo lasciato impronte digitali? Non mi pareva. La croce l’avevo lucidata con la camicia. Chi poteva risalire a me? Non c’erano testimoni. Il vicolo era deserto come sempre. Mi allontanai. Mi sentivo più leggero e più pesante nello stesso tempo. Più leggero, perché mi ero finalmente liberato da quell’uomo. Con la sua morte speravo di essermi anche liberato dei miei incubi e credevo di aver ridato tranquillità alla mia famiglia. Ora respiravo davvero a pieni polmoni. Mi sentivo, però, anche più pesante, perché la mia coscienza era macchiata da un delitto, il più atroce di tutti. Per placarla le raccontavo che si era trattato di legittima difesa. Sapevo, però, di essere uscito da casa determinato a liberarmi di lui, a qualunque costo. Forse non avrei potuto dimostrare a nessun giudice che Oberon mi aveva seguito e aggredito, ma era qualcosa che la mia coscienza doveva accettare per acquietarsi. Eppure resisteva! Ero sporco di sangue. Non potevo certo andare in ufficio così, né tornare sulla via principale. Se qualcuno mi avesse riconosciuto, avrebbe certo testimoniato, indicando la mia presenza sul luogo del delitto. Dovevo evitare che si scoprisse che l'omicidio fosse avvenuto proprio lì, così vicino al mio ufficio. Come potevo portare altrove il cadavere? Ero arrivato in metropolitana. Non potevo certo caricarlo su un autobus! Vidi un cassonetto. Tornai indietro dal cadavere e lo trascinai fin lì. Lo issai dentro a fatica e, quindi, rimestai i rifiuti in modo da far scomparire il corpo sotto di essi. Mi parve di averlo nascosto come si deve, quando della

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spazzatura scivolò via e mi ritrovai i suoi occhi vitrei che mi fissavano senza vita ma ancora feroci. Sussultai. Mi ripresi e con un ultimo sforzo e un conato di disgusto, lo ricoprii di nuovo. Non si vedeva più. Scrutai la superficie di immondizia per sincerarmene. Sembrava tutto a posto. Presto avrebbero portato via i cassonetti e la mia vittima sarebbe finita in qualche discarica. Sarebbe stato difficile capire da dove provenisse. Forse, speravo, nessuno l’avrebbe notato. Rimaneva il problema dei vestiti che ora, oltre a essere insanguinati, puzzavano anche d’immondizia. Dovevo lavarmi. Percorsi il vicolo in direzione del cul-de-sac. La fortuna mi venne incontro. Abbandonata in un angolo, c’era una tanica di plastica. Era piena! Svitai il coperchio. Non era acqua. Puzzava di gasolio. Non avevo altro. Mi versai addosso il carburante, che nascose l’odore di spazzatura e lavò via il sangue. Ora, però, ero ancora più sporco e puzzavo come non mai. Sapevo che qualche centinaio di metri più in là c’era una fontana. Per raggiungerla avrei, però dovuto attraversare la via principale, dove, certo, avrei incontrato qualcuno. Essendo sporco, ma non più insanguinato, potevo provare a raggiungerla. Lasciai il vicolo. La gente mi guardava con la coda dell’occhio, lurido e puzzolente non dovevo fare un bell’effetto. Probabilmente mi presero per un barbone e cercarono di evitarmi. Non notai nessuno di conosciuto. Raggiunsi la fontana e mi ci tuffai dentro tutto vestito. Il gasolio se ne andò solo in parte. Se mi era rimasta qualche traccia di sangue, ora l’acqua doveva averla cancellata. Un bambino mi guardò, mentre m’immergevo. La madre lo strattonò via. Gli altri passanti mi ignorarono. Ora ero fradicio, ma non sembravo più un assassino insanguinato. Uscendo dall'acqua vidi la sagoma di un corvo nero nell'acqua. La fissai meglio e la macchia di gasolio cambiò forma. Scossi la testa per liberarmi da quell'immagine. Avevo cose più concrete di cui preoccuparmi.

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Come potevo giustificare la mia situazione? Potevo dire di essere scivolato e caduto in una fontana. Una fontana sporca, direi. Speravo di non doverlo spiegare a nessuno. La giornata era calda, ma con i vestiti zuppi mi sarei presto infreddolito. Pazienza. Decisi di tornare a casa a piedi. Un uomo bagnato per strada, può anche essere ignorato. In metropolitana mi avrebbero guardato con più attenzione e qualcuno, magari, mi avrebbe detto qualcosa. Non volevo dar confidenza a nessuno. Mentre camminavo, la follia della situazione mi si palesò sempre più. La paura di essere scoperto mi agguantò e non riuscii a liberarmene. Mi resi conto che le probabilità che non risalissero a me erano esili e che i miei tentativi di depistaggio erano goffi e probabilmente inutili. La coscienza mi rimordeva terribilmente. Mi stavo finalmente rendendo conto di aver fatto la più grossa sciocchezza di tutta la mia vita, un gesto che mi avrebbe segnato per sempre. Arrivai a casa fradicio, intirizzito e sconvolto, Giovanna mi accolse con un: – Cosa ti è successo?

– Credo di aver risolto i nostri problemi. – Tuffandoti vestito nel fiume? – Quello è stato il meno. Sono stato aggredito da Oberon. – Oberon? Il padre di Elena? Si è fatto vivo. – Non so se fosse davvero il padre di Elena. È Oberon a controllare i nostri sogni. È stato lui a uccidere Elisabetta e l’assistente sociale. Si serviva di Elena per entrare nelle nostre menti. La causa dei nostri incubi era lui, non Elena. Sfruttava la bambina per farci male. Giovanna mi guardava come se non capisse di cosa stessi parlando. Io la fissai altrettanto meravigliato del suo stupore. Mi pareva logico che anche per lei tutta la situazione fosse evidente, ma, a quanto pare, non era così. – Cosa ti ha fatto? – chiese perplessa. – Ha cercato di strangolarmi.

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– Stai bene. – Sì. Credo di sì. – Ma come fai a essere sicuro che fosse lui la causa? Cosa c’entra questo Oberon con i nostri sogni?

– Era lui a pilotarli. – È tutto troppo assurdo, Paolo, non capisco! Non capisco – scuoteva la testa agitata – E lui dov’è ora? – L’ho ucciso. – Cosa? L’hai ucciso! Mio Dio! E ora che cosa facciamo? Come potrai giustificarti? Ti rendi conto! Non posso crederci… Paolo! - crollò a sedere, pallida come non l'avevo mai vista. – Mi ha aggredito. È stata legittima difesa. Mi fissò per un attimo in silenzio. – E adesso?

– Non lo so. Spero almeno che tutta questa storia degli incubi finisca. Tacemmo ancora qualche secondo. Giovanna scuoteva la testa, inspirando con forza per regolarizzare il battito cardiaco. – Devi andare alla polizia. – A raccontargli cosa? Se gli dicessi che ho ucciso un Incubo, mi prenderebbero per pazzo e mi arresterebbero. – Era per legittima difesa, no? Hai detto così, vero? – Non sono sicuro che la polizia capirebbe. – E allora? – Allora faremo finta di nulla. Spero che non riescano a risalire fino a me – dissi, ma non riuscivo a crederlo davvero. – E se ci riuscissero? Non ti hanno già interrogato sulla morte dell’assistente sociale e di Elisabetta? Sicuro che nessuno ti abbia visto? Magari qualche vicino che ti abbia visto rientrare in queste condizioni? Se ti costituissi, la legittima difesa avrebbe più forza. – Non possono collegare Oberon con loro. Non verranno a cercarmi - dicendo così mi rividi immerso nella fontana, con i passanti che fingevano di non vedermi. Qualcuno mi avrebbe riconosciuto?

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La notte trascorse senza sogni particolari, anche perché non riuscii quasi per nulla a dormire. La mattina, mentre facevo colazione suonarono alla porta. – Chi è? – chiesi stupito per la visita mattutina. – Buongiorno. Sono Dilani – rispose l’ispettore da dietro la porta.

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32 - ACCUSATO

La vita è un sogno dal quale ci si sveglia morendo. (Virginia Woolf)

Quella mattina alle sei, quando passò il camion della nettezza urbana, nel prelevare l’immondizia, gli operatori notarono il cadavere. Io avevo immaginato che il travaso avvenisse con quei camion con le braccia meccaniche, che sollevano il cassonetto e lo rovesciano in cima al contenitore della spazzatura. I netturbini non avrebbero visto il contenuto. La via, però, era stretta e quelle macchine erano troppo grandi per passarci. Il lavoro era svolto con dei camioncini molto più bassi, per cui quando la spazzatura si rovesciò all’interno, il cadavere emerse, mezzo coperto dai rifiuti e lo videro. La seconda sfortuna fu che a occuparsi del caso fosse proprio Dilani, che associò la zona al mio posto di lavoro. Non aveva elementi per arrestarmi o accusarmi, ma erano sufficienti a rendermi ancor più sospetto e farmi portare alla polizia per un interrogatorio. – Lei passa spesso per il vicolo Horace Walpole la mattina? – mi chiese l’ispettore. Ovviamente conosceva la risposta e io non potevo negare. Non mi aveva ancora rivelato il motivo per il quale mi aveva accompagnato nella sua sede. Stava cercando di saggiare le mie reazioni. Finsi indifferenza, più per prendere tempo che per altro. – Non ricordo. Dove si trova? Quando mi spiegò dove fosse, ammisi: – Si trova dalle parti del mio ufficio. Ci passo spesso vicino. – L’ha attraversato ieri? – No. – Come si è fatto quel graffio alla mano? – Quale? – non ricordavo più. Mi guardai le mani. Oberon mi aveva graffiato.

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– Questo? – chiesi stupito – Credo di aver urtato contro un ramo. È una cosa da nulla. – Sapeva che è stato trovato un uomo morto in un cassonetto in vicolo Walpole? – No. Perché me ne parla? – Visto che è morto nella sua zona, pensavo ne avesse sentito dire. – Non siamo in un paese. Certe notizie in città girano più lentamente. Si fa prima a leggerlo sul giornale. Lavoro lì, ma non la considererei la mia zona. – È vero. A volte veniamo a sapere della scomparsa dei nostri amici dai necrologi, prima che dai conoscenti. – Così è in città! – Già! – ammise l’ispettore. – Gli abbiamo fatto l’autopsia – aggiunse poi. – E come sarebbe morto?

– Per quello non c’è stato bisogno di chiederlo al medico: accoltellato. Più volte. – Che orrore! – risposi, cercando di fingere una reazione normale. – L’autopsia l’abbiamo fatta per verificare se il sangue fosse tutto suo. – Pensate a una rissa? – chiesi. – Era un uomo robusto. Non penso si sia lasciato uccidere facilmente. Certamente deve esserci stata una colluttazione. Stiamo verificando il DNA del sangue sotto le unghie. Sotto le unghie! Ebbi la sensazione di sbiancare. Sperai fosse solo una sensazione. Non volevo dar a vedere a Dilani di esser stato colpito dal suo assalto. Avevo pensato alle impronte digitali, ma avevo del tutto trascurato il DNA. Questo succede a leggere solo gialli un po’ datati! – Nel giro di mezz’ora mi dovrebbero portare i risultati. Un’altra cosa strana è che il cadavere aveva in bocca dell’aglio e una croce. Se non fosse stato per il modo assolutamente

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poco rituale dell’uccisione, si sarebbe potuto pensare a qualche setta satanica. Sono convinto, però, che quei due oggetti abbiano un valore simbolico. Lei che ora frequenta i medium, cosa ne pensa? Sembra un’azione contro un vampiro. «Che simpatico!» pensai ironicamente. – Un vampiro? – tentai ancora di recitare – Ah! Già! L’aglio, vero. Credo lo usino in certe storie contro i vampiri. E anche le croci. C’è ancora chi crede davvero a queste cose? – A quanto pare. Sempre che non sia un trucco per sviare le indagini. Gli squillò il cellulare. Dilani rispose. – Mi scusi – disse poi – sono arrivati i risultati dell’autopsia. Le dispiace aspettarmi cinque minuti?

– Prego – non mi pareva di avere alternativa. Attesi che completasse la telefonata. Mi consideravo ormai agli arresti, anche se la cosa era mascherata ancora sotto forma di una richiesta d’informazioni. Che cosa potevo fare? Potevano anche non trovare nulla. Avevo perso ben poco sangue. Quasi nulla rispetto a quello perso da Oberon. Potevano trovarlo? Potevano risalire a me? Non era certo da escludere. Non cercavano a caso. Controllavano sotto le unghie. Qualcosa potevano trovare: una goccia di sangue raggrumato, una pellicina. Avevano già il mio DNA. Dilani lo avrebbe certo messo a confronto con quello trovato sotto le unghie. Avendomi nella stanza accanto, probabilmente sarebbe stato il primo controllo che avrebbero fatto. Forse Dilani già conosceva il risultato prima ancora di venirmi a trovare. Stava solo aspettando che crollassi e confessassi. Dovevo scappare? Come? Dove? Mi avrebbero trovato subito e avrei confermato i loro sospetti. Dovevo confessare e ricorrere alla legittima difesa? Forse era la mia sola possibilità. Credo fosse proprio quello che Dilani si aspettava e voleva. Forse avrei potuto contare su una qualche

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forma di condizionale, si diceva così? Non avevo scelta. L’ispettore rientrò. – L’esame ha dato i risultati che lei immagina – dichiarò con aria dura. Non mi diceva cosa avevano scoperto. Potevano anche non aver trovato nulla. Potevo continuare a mentire? – Facciamo finta che io non sappia ancora cosa hanno trovato. – Giocò con me. – Se lei ora mi volesse raccontare quello che sa, potrei dichiarare che ha rilasciato la sua dichiarazione prima di questa telefonata e potremo considerare la sua come una confessione spontanea, in modo da farle avere le attenuanti del caso. Ero con le spalle al muro. Sapevano? Bluffavano? Ero angosciato e, nonostante mi sforzassi di non mostrarlo, Dilani lo vedeva. Passai al piano B. – Sono stato aggredito mentre andavo in ufficio – confessai – non so chi fosse quell’uomo. Per fortuna avevo con me un coltellino pieghevole e mi sono potuto difendere. Ha cercato di strangolarmi. Ho ancora i segni, guardi. In effetti, avevo ancora il collo arrossato e un paio di lividi. Fui messo agli arresti. C’era l’aggravante che ero sospettato anche per l’omicidio di Maria e, sebbene, mancassero prove e movente, persino per quello di Elisabetta. Inoltre, avevo cercato di nascondere il corpo e avevo mentito a Dilani. L’idea dell’aglio, poi, era stata una vera sciocchezza! Ero nei guai fino al collo. Sui giornali il giorno dopo si lesse: «Arrestato serial killer»!

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33 - PAZZO

Un uomo si giudicherebbe con ben maggiore sicurezza d a quel che sogna che da quel che pensa.

(I miserabili −Victor Hugo). Chiesi di essere assistito da un avvocato. Pietro Masoni era un buon penalista, segnalatomi da un amico. Aveva già trattato casi di omicidio. Una delle prime cose che gli chiesi fu di contattare Nicola Scarpelli. Ero ancora incerto su come fare per difendermi e su cosa dire all’avvocato. Sapevo bene che la storia dei sogni non poteva reggere in nessun tribunale. Dovevo parlarne almeno al mio avvocato? Avevo bisogno del supporto di qualcuno che confermasse la mia versione o neanche lui mi avrebbe creduto. Nicola mi pareva la persona giusta. Provammo a chiamarlo, ma non rispondeva né al fisso, né al portatile. Chiesi a Masoni di continuare a cercarlo. Che fine aveva fatto? L’attesa mi innervosiva. Finalmente l’avvocato tornò a trovarmi, ma portava cattive notizie: Nicola, dopo esser venuto a sapere del mio arresto, si era suicidato. L’avevano trovato a casa sua, con un sacchetto di plastica legato in testa e la cintura della vestaglia intorno al collo. Si era impiccato legandola a una trave. Immagino che il sacchetto, nelle sue idee, dovessee servire ad accelerare il soffocamento. Notai che, sebbene in modo diverso, era morto soffocato come sua moglie, quasi che ne avesse voluto seguire la sorte, come se così avesse potuto meglio riunirsi a lei. Questo pensiero mi fece soffrire molto. Preferivo quasi pensare che anche la sua morte fosse stata provocata da Oberon. Immaginarlo così debole e sconvolto per la perdita di Elisabetta mi intristiva terribilmente. Era morto anche lui! Cielo! Come mi sentivo solo! Nicola non si era mai ripreso del tutto dalla morte della moglie e dagli incubi, immaginai. La mia sconfitta doveva averlo depresso

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ulteriormente. Come se avesse giudicato la nostra battaglia contro il demone ormai persa. L’idea, però, non mi convinceva del tutto. Lo conoscevo poco, ma non mi pareva tipo da suicidio. L’avevano ucciso? Se non fossi stato già in carcere, certamente mi avrebbero accusato anche per la sua morte. Non potevo pensare che fosse stato spinto a farlo da Elena e, del resto Oberon ormai era morto. Non era comunque nel loro stile. Elena e Oberon non avevano certo bisogno di una corda o di un sacchetto per soffocare qualcuno! Perché allora si era suicidato? Se non si era ammazzato da solo, chi poteva averlo ucciso e perché? Per incastrare me? Per privarmi del solo testimone attendibile? Giunsi a sospettare persino di Dilani e, poi, a chiedermi se fossi davvero riuscito a uccidere Oberon. Era stato sufficiente eliminare in suo alter ego fisico, per annullare il potere dell’Oberon onirico? Forse le cose non erano così semplici come mi ero illuso di credere. Forse la natura spirituale di Oberon era più forte di quella materiale ed era in grado di sopravvivergli. Oppure avevo davvero preso fischi per fiaschi, uccidendo uno squilibrato, o, peggio, un innocente un po’ irascibile, mentre il mio incubo continuava la sua esistenza semi-materiale? Oberon era ancora in giro! Oberon uccideva ancora! Il mio sacrificio era stato allora inutile? Non potevo accettare un'idea simile, sebbene non mi sentissi di escluderla. Alla fine mi dovetti rassegnare a credere alla versione del suicidio. Pensarmi in prigione con Oberon ancora vivo era qualcosa che non potevo accettare, qualcosa che mi terrorizzava: cosa sarebbe successo alla mia famiglia? Che Oberon fosse ancora attivo era una minaccia che mi inquietava profondamente. Mi convinsi, per il mio bene mentale, che fosse tutto solo una fantasia. Nicola non aveva retto alla morte della moglie e allo stress di questa situazione e io… io non avevo più un testimone che mi aiutasse a giustificare la storia degli incubi! Questa era la sola realtà a cui dovevo credere. L'aternativa era la follia.

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Sarebbe comunque bastata la sua testimonianza a salvarmi? Probabilmente no, ma ero rimasto ancor più solo. Avevo perso anche un amico, perché ormai lo consideravo tale. Ero spaventato e la paura non mi faceva ragionare come si deve. Potevo ancora contare su mia moglie e sul vecchio nonno di Elena, ma la testimonianza di una moglie, in questi casi non conta e quella del vecchio, poteva essere considerata nulla, se si fosse sospettato che non ragionava troppo bene. E mia moglie mi credeva? Quando le avevo raccontato della colluttazione, mi aveva guardato come un pazzo. Lo ero diventato? Perché Giovanna non mi credeva più? Mi aveva mai creduto? E la storia di Maria? Non ero riuscito a parlarne con lei, ma ormai doveva sapere che ero sospettato non solo di esserne l’assassino, ma anche l’amante. Non poterne parlare con mia moglie mi agitava. Dal punto di vista penale mi sentivo ormai perso. Non volevo, però, perdere anche la sua stima. Se Giovanna non credeva che fossi io l’assassino, forse non credeva neppure l’avessi tradita. Lo speravo con tutto il cuore. Potevo fare in modo che Elena visitasse i giurati in sonno per dimostrare che davvero aveva questo potere? Ora che Oberon era morto ci sarebbe riuscita da sola? Non lo sapevo. Sarebbe riuscita a visitare qualcuno al di fuori della propria sfera affettiva? Per ora il suo limite era stato quello: visitava solo le persone cui era legata. Anche se fossi riuscito a dimostrare l’insolita natura dei sogni di Elena, sarebbe bastato questo a scagionarmi? Sarebbe stato chiaro che Oberon era un demone? Sicuramente no. Neppure io ne ero convinto. Non volevo sacrificare la bambina. Dimostrare in un pubblico processo i suoi poteri significava trasformarla in un mostro. Decisi di rinunciare a coinvolgerla. Se non fossi riuscito a venirne fuori in un altro modo, mi sarei, piuttosto, preso sulle spalle tutto il peso della colpa. Non mi rimaneva altro che seguire la strada della legittima difesa, sostenendo che Oberon fosse un bruto sconosciuto che mi aveva

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assalito. Era difficile, però, spiegare perché gli avessi riempito la bocca con l’aglio e una croce. Che gesto idiota! Più ci pensavo e più mi sentivo un imbecille per averlo fatto. Cosa potevo dire? Che avevo tentato di soffocarlo con le prime cose trovate in tasca? Che avessi una croce si può capire, c’è ancora chi ne porta con sé, ma cosa ci facevo con l’aglio? Per condire l’arrosto? Per merenda? E poi, perché accanirmi così su un uomo che già avevo accoltellato non una ma più volte? In questi casi, se uno è stato aggredito, una volta neutralizzato l’assalitore, cerca di scappare via o di chiedere aiuto? Non riuscivo a inventarmi una spiegazione plausibile. Non ero in grado di giustificare i miei gesti fuori dal contesto paranormale da cui erano nati. Decisi di fingere di essere ossessionato dalla paura dei vampiri e che quello fosse il motivo per cui andavo sempre in giro con aglio e croce. Raccontai a Masoni che quando, casualmente, ero stato aggredito da Oberon, mi era venuto spontaneo cercare di difendermi con quelle armi, anche se sapevo di non avere davanti un vampiro. L’avvocato mi ascoltava impassibile, ma percepivo tutto il suo scetticismo. Mi resi conto solo tempo dopo di quanto sciocca fosse stata quest'idea: sostenendola la mia difesa si trasformò da legittima difesa in infermità mentale. In tribunale sedevo accanto a Masoni, quando l’avvocato dell’accusa chiamò un testimone oculare. Non compresi il nome. Chi poteva averci visto in quella via isolata? La cosa mi sorprese. Mi voltai a vedere chi entrava. Un brivido mi scese gelido lungo la schiena. Tutti mi sarei aspettato, ma non lui. La figura che entrava con passo sicuro e dinoccolato mi fece accapponare la pelle. – Non può essere… Non può essere – borbottai. L’avvocato accanto a me pareva impietrito. L’intera sala parve ghiacciarsi e tutti gli sguardi si fissarono sul nuovo arrivato, che andò a sedersi sul banco dei testimoni, fissandomi con un ghigno. Era lui: Oberon. Oberon che testimoniava contro di me per il suo stesso omicidio.

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– Cosa fai qui? Sei morto. Morto. Non esisti più, sei solo un ammasso di ossa e carne in putrefazione – gli urlai addosso. – “Io sono costante e immutabile come la Stella dell'Orsa Minore alla cui fissità nessuna stella è pari, nell'intero firmamento”. – Lascia stare Shakespeare e, soprattutto Cesare – risposi digrignando i denti, quasi che la citazione fuori contesto m’avesse irritato ancor più della presenza del suo fantasma – dimmi, piuttosto, “Chi sei tu? Da dove vieni?”

– “Sono il tuo cattivo demone: ci rivedremo”. Mi svegliai sudando. Respiravo a fatica. Era un normale incubo da stress e apprensione o era stato pilotato da Oberon? Faticai a riaddormentarmi. Nei giorni successivi, l’avvocato Masoni decise di indagare sulla mia vittima, per scoprire se fosse stato un violento. Questo avrebbe avvalorato l’ipotesi che mi avesse aggredito. Sarebbe, però, rimasta l’accusa per l’omicidio di Maria. Se anche Oberon avesse avuto dei precedenti, a quanto pare ne avevo anch’io. Ero sospettato persino della morte di Elisabetta. Il suicidio di Nicola dopo il mio arresto aveva fatto pensare ai poliziotti al suicidio di un complice, che, visto il suo compare scoperto, tema di esserlo anche lui. Sua moglie, secondo questa versione dei fatti, l’avremmo soffocata assieme o, quanto meno, d’accordo tra noi. Mancava il movente, pensavo, ma fui io stesso a fornirglielo con le mie visite alla medium, l’aglio e la croce: eravamo una setta di satanisti! E io ero un pazzo! Quando mia moglie cercò, nonostante i suoi dubbi, di difendermi, sospettarono anche di lei. Se avevo ucciso Maria e complottato per uccidere Elisabetta, confessato l’omicidio di Oberon, allora anche la linea della legittima difesa non si reggeva più. Ero un assassino! Quando venne a parlarmi, cercai di convincere mia moglie di tenersi fuori, per il bene di nostra figlia.. delle nostre figlie! Lei non mi accusò in alcun modo, neanche per la storia con Maria,

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cosa che mi sollevò il morale. Faticai anzi parecchio a tenerla fuori. Finalmente si convinse che era meglio così. Oberon non aveva documenti con sé. Nonostante ripetute ricerche né il mio avvocato, né la polizia riuscirono a scoprire chi fosse, dunque non trovammo nessun precedente compromettente: era solo un passante innocente e anonimo che io avevo aggredito e ucciso! Questo si disse durante le indagini e sulla stampa. La sua foto apparve sui giornali, ma nessuno lo identificò. Eravamo in un vicolo cieco. Avevo ucciso un uomo che non esisteva, comparso dal nulla, solo per turbare la mia esistenza. Questo mi convinceva del fatto che fosse proprio il demone che immaginavo fosse, ma non forniva alcun aiuto al mio avvocato per organizzare la difesa. La data del processo si avvicinava. Nel frattempo i giornalisti si sbizzarrirono. Cominciarono a montar su un caso su una mini setta satanica, composta dagli Scarpelli, Maria, mia moglie, io e, forse, Oberon. Ci additarono come dei mostri. Ci furono dibattiti e tavole rotonde sulla mia follia satanista. Per tener fuori mia moglie, fummo costretti a tentare la via della malattia mentale. Giovanna fu scagionata e considerata mia succube. Io ne venni fuori come un pazzo, che aveva trascinato tutti gli altri in sedute spiritiche, cacce ai vampiri e omicidi rituali. Fui condannato per la morte di Oberon, Maria ed Elisabetta e sospettato per quella di Nicola, che però fu dichiarata essere un suicidio. Del resto quando avvenne ero già agli arresti. In pratica ero un serial killer! Io! Proprio io!

Fui rinchiuso in un ospedale psichiatrico giudiziario, dove avrei avuto tutto il tempo per arrovellarmi sui miei dubbi. A peggiorare le cose contribuirono certamente la stampa e la televisione. Se non avessero messo me e la mia famiglia così alla berlina, inventandosi dei personaggi che non esistevano e cucendoceli

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addosso, anche la mia difesa in tribunale si sarebbe potuta svolgere diversamente. Dover portare il peso di colpe che non avevo o di cui non mi sentivo veramente responsabile fu per me assai dura, ma finii per rassegnarmici, tutto sommato convinto di aver evitato il peggio. In manicomio riuscii a trovare i miei spazi. Leggere e scrivere mi è stato di grande conforto. Leggevo per distrarmi dai miei sospetti e dalla paura che Oberon potesse tornare e scrivevo per cercare di fare chiarezza su questa storia, che continuava a non sembrarmi affatto chiara: Elena davvero entrava nei nostri sogni? Lo faceva da sola o guidata da Oberon? Avevo ucciso Oberon o solo un fantoccio? Quali erano i limiti dei poteri di Elena? Senza Oberon li perdeva? Le cose si erano svolte come le ricordavo o avevo sognato tutto? Ero pazzo? Totalmente e irrimediabilmente pazzo, al punto da non riuscire ad ammettere di esserlo? Sapevo e temevo che per questi dubbi potesse non esserci alcuna risposta o che, se c’era, non l’avrei mai conosciuta. Fu solo accettando questa sola e semplice verità, che, di tanto in tanto, trovavo un po’ di pace interiore: non avrei mai saputo. Vorremmo sempre una verità, una soluzione per un enigma, ma nel mondo reale spesso questa non c’è. Non ci sono gran finali risolutori e si rimane per sempre con il dubbio. Questo era il mio caso. Il dubbio avrebbe continuato a tormentarmi a lungo. Quando sarei riuscito a tornare a distinguere la fantasia dalla realtà? Anche se Giovanna non fu condannata, l’essere così esposta, lei e le bambine, alla curiosità morbosa dei media e al disprezzo della gente, la provò enormemente. La sua psiche, già indebolita da tutto quanto avevamo patito, vacillò e fu costretta a ritirarsi in ospedale per curarsi, ma si è ripresa piuttosto bene e in fretta. Dopo il processo, la TV venne a intervistarmi. Negai le accuse di stregoneria e satanismo ma, poi, rivedendo il servizio, con le mie dichiarazioni tagliate e alternate a immagini raccapriccianti, si

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aveva l’idea che negassi cose sulla cui evidenza non potevano esserci dubbi. Il servizio era stato montato per farmi apparire un mostro. Dopo aver visto quel video, mi convinsi che per me ormai non ci fosse più nulla da fare: il manicomio criminale sarebbe rimasto la mia sola casa. Era lì che terminava la mia vita. Durante la degenza di Giovanna, le bambine furono prese dalla nonna, mia suocera, che fece il possibile per non far patire loro l’atmosfera velenosa che si era creata attorno a noi. Anche dopo fu molto vicina a Giovanna e a loro, cercando di tamponare la mia assenza. Certo avere il padre in manicomio e la madre in crisi non era un bel modo per trascorrere l’infanzia. Sono cose che ti segnano. È questo che mi è pesato maggiormente di questa mia degenza/ prigionia che continuo a sentire come un’ingiustizia. Provavo una grande rabbia verso questa giustizia sommaria, incapace di andare oltre la concretezza degli eventi, ricercandone le vere ragioni, verso questa giustizia così succube della televisione e della stampa e che ti giudica più per il personaggio che ti hanno fatto diventare che per quello che sei veramente. Provavo anche un grande dolore per mia figlia, anzi per tutte e due le mie figlie, abbandonate a loro stesse, private della mia guida, del mio affetto e della mia presenza e, per un lungo periodo, anche di quelli della madre.

Rimasi davvero stupito che, nonostante il mio processo, mai il giudice tutelare decidesse di toglierci l’affido di Elena. A ogni seduta mi aspettavo che ci venisse portata via. Non capita sempre così? Come mai nessuno pensò di togliercela? Fu quando ero ormai in manicomio che un sospetto si fece largo dentro di me: era stata Elena. La bambina stava crescendo e stava imparando a controllare i suoi poteri. Lei aveva convinto i giudici a farla restare con noi. Era stata lei a cancellare la loro volontà di separarci, agendo sulle loro menti. Quale altra spiegazione poteva esserci? Eppure questo era un potere diverso da quello di entrare

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nei sogni. Si trattava di manipolazione psichica della volontà. Troppo per Elena. Finii per convincermi che la bambina non c’entrasse con l’indifferenza della magistratura nei suoi confronti. Forse i giudici erano più umani di quanto li si dipinge e avevano capito che con mia moglie la piccola stava meglio che in orfanotrofio. Chissà?

La stampa nei suoi confronti riuscì a mostrarsi relativamente riservata, trattandosi di una bambina, nessuno dei giornali più importanti infierì su di lei. Solo un giornale locale con poco seguito sollevò il quesito dell’opportunità che una famiglia come la mia avesse una bambina in affido. Era solo una riflessione fra le righe e si perse nel nulla. Quel che più conta fu che riuscii a non far emergere nulla dei suoi strani poteri, che, se conosciuti, l’avrebbero trasformata in un fenomeno da baraccone o addirittura in un mostro. Il solo mostro ero io. Ogni volta che ripenso ai giorni convulsi dell’arresto e del processo, provo una grande angoscia per la mia famiglia, per l’assurdità di questa vicenda e per come malamente è stata interpretata. Del resto, mi dico, quale tribunale o quale uomo potrebbe credere a quello che ho vissuto, senza averlo sperimentato personalmente? E, a quanto pare, siamo davvero in pochi ad aver fatto una simile esperienza. Al giorno d’oggi si parla tanto di paranormale, ma nessuno ci crede veramente. Certo non la magistratura. Per vari mesi Elena smise di concretizzarsi in sogno. Nonostante tutto, pensavo, qualcosa di buono l’avevo fatto: avevo sconfitto Oberon e guarito Elena. Nonostante i miei sospetti al momento della morte di Nicola, infatti, da quel momento di lui, di Oberon, non avevamo più saputo nulla, a parte alcuni incubi di dubbia origine. Senza l’influsso di quel mostro, il potere della bambina pareva scomparso o almeno sotto controllo. Se davvero era

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proprio lei a impedire ai giudici di portarcela via, era ormai pienamente padrona dei propri poteri. Speravo però non fosse così. Il suo era un potere, è vero, ma troppo pericoloso. Sarebbe stato dunque meglio per lei e per tutti se l’avesse perso del tutto.

* * * *

Il mio comportamento in manicomio non credo possa essere considerato quello di un malato di mente, sono, infatti, molto tranquillo e posato, non faccio discorsi strani, non urlo, non mordo gli infermieri, non sbavo in giro, non salto sui tavoli e non mi vesto da Napoleone, ma temo che, ugualmente, non uscirò mai da qui. La speranza, però è l’ultima a morire e mi auguro che i medici potranno apprezzare la mia razionalità. Se sono pazzo, c’è del metodo nella mia follia! Ho comunque cominciato a scrivere queste memorie, perché un giorno le bambine possano conoscere la verità e non debbano credere per sempre di aver avuto un padre pazzo. Se sono qui, è stato perché non era possibile far comprendere al mondo che creatura eccezionale fosse Elena. Non accuso certo Elena per quanto è successo. Lei era solo una bambina. Oberon l’aveva manipolata, ma i suoi poteri sono qualcosa di straordinario che potrebbe un giorno rivelarsi utile e importante per l’umanità. Se ho detto di essermi sacrificato per non coinvolgere Elena, non ho mentito, è stato anche per quello, ma soprattutto perché ero convinto che farlo non sarebbe servito a salvarmi, mentre avrebbe rovinato anche lei, ancor più di quanto possa averlo fatto questa mia condanna. Ho dovuto scrivere di nascosto queste pagine, perché non volevo che la psichiatra le leggesse, mentre continuo a sostenere anche con lei la versione del tribunale. Se le leggesse, certo mi considererebbe ancora pazzo e la speranza di uscire da qui, già

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flebile, si farebbe ancor più vaga. Per fortuna mi garantiscono una certa privacy e non vengono a rovistare tra le mie cose. So che almeno Elena potrà capirmi, se leggerà queste righe, perché, dopo vari mesi che non la vedevo, ha ripreso a visitarmi in sogno. Dunque non ha perso i suoi poteri e, se anche presto dimenticherà quanto le è successo, perché difficilmente i bambini di quell’età ricordano a lungo molto della loro vita, conoscendo i propri poteri, potrà capire che quanto scrivo è vero. Oberon la manovrava, ma i poteri le erano connaturati. Ha avuto bisogno di qualche tempo per imparare di nuovo a dominarli senza l’influsso del demone. Anche lo shock del mio processo deve averla inibita dall’usarli per lungo tempo. Ora sembra averne ripreso possesso e li controlla meglio, senza provocare danni. Mi fa piacere quando mi viene a trovare in sogno. In questo modo posso vederla quasi tutte le notti e lei mi racconta della sua vita, di Laura e di Giovanna, che sono riuscite a riprendere un’esistenza normale e che ogni tanto mi vengono a trovare in manicomio. Qui le giornate sono lunghe e noiose, ma la notte, grazie alle visite di Elena, torno a vivere. I sogni che mi aiuta a fare sono eccezionali, una vera seconda vita. Meglio di un film, più veri. Certo un tarlo continua a rodermi: non avrò immaginato tutto? Non starò ancora immaginando tutto?

Con Elena, non abbiamo più avuto problemi. Fino al giorno del suo ottavo compleanno.

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COPYLEFT E WEB-EDITING: un romanzo nato da internet per internet In questo periodo il mondo del libro sta cambiando radicalmente. I mutamenti in corso sono superiori persino alla rivoluzione prodotta dall’introduzione della stampa.

L’invenzione dei caratteri mobili consentì di accelerare la diffusione del libro e di renderlo accessibile per tutte le classi sociali. Oggi con internet, le vendite onprint-on-demand e l’ebookacquistato un potenziale ancora maggiore, seppure fortemente ridimensionato dal forte sviluppo degli

altri media. La diffusione degli ebook, in particolare, sta cambiando i rapporti tra lettori, autori e editori. Come già nel mondo della musica, il lettore comincia a interrogarsi su perché debba pagare per leggere un volume cartaceo, quando può avere un ebook. La smaterializzazione del libro abbassa ulteriormente la percezione dell’utente finale sul prezzo giusto da pagare per un romanzo o una raccolta di racconti o poesie. Se si tratta solo di un file, il lettore scopre che questo, una volta messo in circolazione, diventa reperibile gratuitamente.La riproduzione e diffusione di libri coperti da diritti di autore è, come noto, vietata. Il lettore, però, stenta a comprendere il senso di tale divieto. In ciò, credo, la percezione del lettore è forse più avanti del diritto e degli interessi delle case editrici. Ci si chiede allora perché pagare per un volume elettronico prezzi simili a quelli di uno cartaceo, quando non ci sono più né i costi della carta, né quelli della distribuzione?

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EDITING: un romanzo nato da

In questo periodo il mondo del libro sta cambiando radicalmente. rsino alla rivoluzione

L’invenzione dei caratteri mobili consentì di accelerare la diffusione del libro e di renderlo accessibile per tutte

Oggi con internet, le vendite on-line, il and e l’ebook, il libro ha

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La diffusione degli ebook, in particolare, sta cambiando i rapporti

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La smaterializzazione del libro abbassa ulteriormente la percezione dell’utente finale sul

romanzo o una raccolta di

Se si tratta solo di un file, il lettore scopre che questo, una volta messo in circolazione, diventa reperibile gratuitamente. La riproduzione e diffusione di libri coperti da diritti di autore è,

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In ciò, credo, la percezione del lettore è forse più avanti del

Ci si chiede allora perché pagare per un volume elettronico prezzi a quelli di uno cartaceo, quando non ci sono più né i costi

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È forse tempo che gli editori comincino a ripensare le proprie fonti di guadagno. Gli ebook (ma anche il volume tradizionale) devono ora diventare totalmente gratuiti per il lettore. Come già capita con certi quotidiani, l’editore guadagnerà mediante le inserzioni pubblicitarie che sarà in grado di inserire nel volume. Potranno così finire sia la triste pratica dei piccoli editori di chiedere contributi agli autori emergenti, sia l’onere del prezzo di copertina per il lettore. Potranno magari restare a pagamento certi volumi di particolare pregio artistico, ma il resto dell’editoria dovrebbe orientarsi verso la distribuzione gratuita, se non del cartaceo, almeno dell’ebook. La strada probabilmente sarà lunga. I piccoli autori, però, possono cominciare a incamminarsi. Un autore minore ottiene di norma guadagni assai modesti dai propri libri, se non nulli. Perché allora gravare i lettori con il fardello di un prezzo di copertina uguale e spesso superiore (visti i piccoli numeri) a quello di opere maggiori, cui il lettore certo ambisce maggiormente? Sulla base di queste considerazioni, ho infine deciso di pubblicare con copyleft il presente romanzo. La scelta è dunque quella di regalare ai miei lettori un volume in formato ebook totalmente gratuito. Questo è possibile evitando i costi di stampa, editoria e distribuzione. Ho cioè, almeno per questa volta, rinunciato a servirmi di un editore. Non tutti amano gli ebook. Per chi non li gradisce, ho realizzato una versione cartacea del romanzo acquistabile su Lulu, che non è un editore e pertanto non vincola in alcun modo i diritti dell’autore, pur consentendo di avere un codice ISBN che identifica il libro. Nelle mie intenzioni, comunque, la priorità dovrebbe andare alla distribuzione elettronica gratuita.

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La rinuncia a un editore comporta, però, la rinuncia a due supporti importanti: l’attività di editing, cioè la revisione attenta del testo, e la promozione dell’opera. Purtroppo il panorama delle case editrici minori in tema di editing è piuttosto desolante e molte non ne fanno affatto. La cosa è comprensibile, perché l’editing farebbe lievitare i costi del volume, annullando spesso i guadagni, considerato il basso numero di copie della maggior parte degli autori emergenti. Quelle che lo fanno, possono mettere a disposizione dell’autore al massimo uno o due editor, di professionalità variabile. Solo le case editrici maggiori fanno veramente editing e la differenza si vede. Non volendo offrire al pubblico un volume non revisionato solo perché gratuito, ho pensato di sottoporre il testo prima di distribuirlo al vaglio del popolo del web, che ha risposto con la consueta generosità e disponibilità. Anziché un solo editor, ho così potuto averne decine. Per farlo sono ricorso soprattutto alle community di Liberodiscrivere, dove il volume è stato postato capitolo dopo capitolo, Facebook, anobii, Splinder e FIAE. Visto la novità dell’approccio, ho ritenuto utile coniare una denominazione apposita: web-editing. Web-editing è anche il nome del Gruppo di anobii da me fondato, dove altri autori stanno già seguendo il mio esempio. Per quanto riguarda la promozione, la situazione delle case editrici minori, è purtroppo analoga a quella dell’editing: ne fanno pochissima e, soprattutto, con risorse economiche scarse. Di norma un autore poco noto (come amo chiamare esordienti e emergenti, dato che spesso non arrivano affatto a emergere) deve autopromuoversi.

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Tanto vale allora fare anche questo direttamente da solo, confidando ancora una volta sul web, cui devo molto come autore. Furono infatti i lettori in rete a selezionare il mio primo romanzo (“Il Colombo divergente”) per la pubblicazione. Fu nel Laboratorio on-line di Liberodiscrivere che riuscii a riunire il gruppo di autori che ha realizzato il volume “Ucronie per il terzo millennio”. Fu nel web che ho trovato gli artisti, disegnatori e fotografi che hanno realizzato le oltre cento immagini de “Il Settimo Plenilunio”. Sempre in rete ho trovato gli illustratori di “Jacopo Flammer e il Popolo delle Amigdale”. In rete ho scritto “Parole nel web”. Spero che la rete mi aiuterà ancora a diffondere questo libro e questa idea: rendere il libro gratuito e aumentarne la diffusione. La formula di copyleft mi consente non solo di autorizzare i lettori a copiare diffondere questo libro, ma addirittura di incoraggiarli a farlo. Dunque se questo libro vi è piaciuto, copiate il file e regalatelo a tutti i vostri amici. Se potete, fate sapere in giro che l’avete letto, consigliatelo. Sono in particolare molto graditi i commenti su www.anobii.com, sul mio sito www.menziger.too.it o sul mio blog http://carlomenzinger.blogspot.com e in qualunque community. Se questo romanzo vi è piaciuto, potrete trovare altri miei lavori nel sito www.menzinger.too.it. La maggior parte è edita da Liberodiscrivere (www.liberodiscrivere.it) e può essere ordinata in qualunque libreria. NOTA: Su http://www.copyleft-italia.it/en/intro.html si legge: L'espressione inglese copyleft (talvolta indicato in italiano con permesso d'autore) è un gioco di parole sul termine copyright nel quale la parola right significa diritto (in senso legale), ma giocando sul suo secondo significato (ovvero destra) viene scambiata con left (sinistra). Copyleft Individua un modello di gestione dei diritti d'autore basato su un sistema di licenze attraverso le quali l'autore (in quanto detentore originario dei diritti sull'opera) indica ai fruitori dell'opera che essa può essere utilizzata, diffusa e spesso anche modificata liberamente, pur nel rispetto di alcune condizioni essenziali. Nella versione pura e originaria del copyleft (cioè quella riferita all'ambito informatico)

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la condizione principale obbliga i fruitori dell'opera, nel caso vogliano distribuire l'opera modificata, a farlo sotto lo stesso regime giuridico (e generalmente sotto la stessa licenza). In questo modo, il regime di copyleft e tutto l'insieme di libertà da esso derivanti sono sempre garantiti. L'espressione copyleft, in un senso non strettamente tecnico-giuridico, può anche indicare generalmente il movimento culturale che si è sviluppato sull'onda di questa nuova prassi in risposta all'irrigidirsi del modello tradizionale di copyright.

Copyright dei testi: © 2011 Carlo Menzinger Copyright delle immagini: © 2011 Angelo Condello

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RINGRAZIAMENTI

Ogni sogno è una realizzazione irreale, ma che aspira alla realizzazione pratica.

(Edgar Morin) Questo romanzo l’ho scritto a Firenze dal 20/02/2007 al 29/09/2008. L’ho poi riletto e revisionato varie volte dal 2009 al 2012. Le prime revisioni le ho effettuate da solo, poi, nell’estate del 2010 ho partecipato al Torneo Letterario IoScrittore, indetto dal Gruppo Editoriale Mauri Spagnol, durante il quale ho ricevuto dei commenti particolarmente incisivi, che mi hanno indotto a riflettere su come migliorare questo libro. Ringrazio quindi tutti i lettori anonimi del concorso, cui devo il primo contributo esterno alla revisione del libro. Nel frattempo mi sono sempre più convinto che senza editing un romanzo rischia di mantenere varie debolezze, dai refusi, agli errori, a impostazioni sbagliate. Nell’estate del 2011 ho così deciso di ricorrere a internet e, ancora una volta, nei meandri del profondo web ho trovato tanti amici virtuali pronti a dare il proprio aiuto, ciascuno a modo suo. Ho dunque pubblicato

(http://www.liberodiscrivere.it/autori/schedaAutore.asp?AnagraficaID=1207) nello Spazio Autori di Liberodiscrivere (www.liberodiscrivere.it) il libro da correggere, capitolo per capitolo. Ho quindi linkato e segnalato tali brani su Facebook, Splinder, aNobii e nel sito del FIAE (Forum Italiano Autori Emergenti). Tra i lettori dello Spazio Autori di Liberodiscrivere (www.spazioautori.it), oltre a ringraziare per i loro commenti ad alcuni capitoli i tanti che sono intervenuti, ringrazio soprattutto, per la costanza con cui hanno

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seguito la pubblicazione on-line delle bozze del romanzo, dandomi suggerimenti sempre utili, Ida Acerbo, Pieranna Lovotti (Zoe1411) e Pellegrina Repetto. Ringrazio, poi, Nadia Zapperi (Debnik) oltre che per i suggerimenti di revisione, per avermi dato in fase di stesura alcuni consigli sul sogno nel mito. Tra gli amici di Facebook (www.facebook.com) che mi hanno dato suggerimenti, devo ringraziare soprattutto Enrico Pellerito (che mi ha seguito in tutti i passaggi direttamente sul sito), Anna Disanza e Chiara Onofri (che hanno revisionato l’intero romanzo off-line). Massimo Bolognino (Maxbolo), Cristiana Iannotta (Cristiana) e Jana, che hanno partecipato alla revisione anche su aNobii (www.anobii.com). Su Splinder (http://splinder.com), la piattaforma per blog che, purtroppo, è stata chiusa il 12 gennaio 2012, ho trovato significativi contributi per i primi capitoli del romanzo da parte di Giulia Ghini, e Mariachiara Cabrini. Nel ringraziare tutti gli autori del F.I.A.E. (Forum Italiano Autori Emergenti), un pensiero speciale va soprattutto la sua fondatrice Amneris Di Cesare (Ipanema), per aver revisionato con grande attenzione i primi capitoli. Visto che l’iniziativa funzionava, ho voluto dare la possibilità anche ad altri di ripetere la mia esperienza e il 6 novembre 2011 ho aperto un nuovo Gruppo su aNobii intitolato “Web-editing”, dove ciascuno può ora sottoporre i propri testi per una revisione da parte degli altri membri. All’interno di questo spazio, ho ricevuto i contributi di vari utenti, tra cui ringrazio (oltre a ai tanti che mi hanno fornito alcuni veloci ma sempre utili pareri) in particolareChiaratosta e Caterina De Luca (katerina), che hanno revisionato l’intero testo, a Gian Paolo Marcolongo (Newwhitebear), Cristina Contilli, Ladygiodesi,Maria Francesca

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C., Roberto Principiano, Giorgia Baldarelli (Grianne84) che mi hanno seguito nella revisione di gran parte del libro. A metà febbraio 2012 ho realizzato l'e-book di questo libro e ho cominciato a farlo circolare liberamente in rete. Trai commenti critici più utili ricevuti dai primi lettori segnalo quelli di Silvio Donà, che qui ringrazio anche se non ho potuto metterli in atto se non in minima parte, e di Laura, che mi ha fatto riflettere ancora sul finale. Un paio di refusi mi sono stati segnalati ancora da cotoletta di anobii.

Devo poi chiaramente ringraziare Angelo Condello per la bella copertina senza la quale questo libro sarebbe un altro (e per avermi segnalato per primo alcuni refusi).

Ho scelto fin da subito la formula del copyleft, per poter distribuire gratuitamente il volume in e-book. Nel mese di Aprile 2012 Simone Aliprandi mi ha segnalato il suo volume “Creative Commons: manuale operativo” (http://www.aliprandi.org/manuale-cc/index.html), grazie al quale ho potuto migliorare un po’ la licenza d’uso che trovate all’inizio del volume.

In ogni caso nessuna delle persone citate è responsabile per come è stato scritto il romanzo, dato che non tutti i consigli sono stati accolti e la scelta finale su come attuare i suggerimenti è stata solo mia. L’avventura non finisce qui. Ho appositamente scelto di pubblicare senza un editore per essere libero di continuare a rimaneggiare il romanzo ancora molte volte. Ogni nuova segnalazione di errori o consiglio per migliorare, sarà dunque sempre ben accetto.

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Se volete inviarmeli in privato fatelo all’indirizzo [email protected], scrivendo nell’oggetto “WEB-EDITING – La Bambina dei Sogni”. Aspetto anche commenti e recensioni sul mio sito www.menzinger.too.it, sul mio blog http://carlomenzinger.wordpress.com e sulla scheda del libro su aNobii. Grazie, infine, a chiunque ha letto questo libro e a chi l’ha consigliato in giro.

Firenze, 14/4/2012

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Possiamo dunque supporre nell’individuo, come cause della strutturazione del sogno

due forze (istanze) psichiche (correnti sistemi); una delle quali plasma il desiderio espresso nel sogno,

mentre l’altra esercita una censura su questo desiderio, provocando necessariamente una deformazione della sua espressione.

(Sigmund Freud)

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Carlo Menzinger

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L’AUTORE CARLO MENZINGER DI PREUSSENTHAL Carlo Menzinger, nasce a Roma il 3 gennaio 1964 e lì, dopo la maturità classica, si laurea in Economia e Commercio. Nel 1989 pubblica la raccolta di poesie “Viaggio intorno allo specchio”. Nel 1991 si trasferisce per la prima volta a Firenze, dove comincia a lavorare nel marketing per Banca Monte dei Paschi di Siena. Dopo un paio d’anni si sposta per lavoro in nord Italia dove svolge in varie regioni attività commerciale per la banca. Si sposa a Firenze nel 1994. Rientrato in Toscana, lavora per alcuni anni a Siena, prima seguendo i rapporti con i grandi gruppi industriali, poi con le banche estere e le Regioni. Nel 1997 nasce sua figlia. Nel 1998 diventa funzionario e nel 2001 ritorna a lavorare a Firenze nel marketing presso l’allora Mediocredito Toscano, divenuto poi MPS Capital Services, occupandosi successivamente di analisi di mercato e, dal 2004, di finanza strutturata. Nel 2001 pubblica il primo romanzo ucronico “Il Colombo divergente”, cui seguirà nel 2007 “Giovanna e l’angelo”. Con entrambi affronta le possibilità della storia alternativa con uno sguardo introspettivo su personaggi come Cristoforo Colombo e Giovanna D’Arco, reso anche grazie a un’insolita scrittura in seconda persona che a volte si fa quasi poetica e altre volte sfiora toni epici. Deciso a diffondere il genere letterario ucronico, riunisce attorno a sé un gruppo di diciotto autori, che con il nome “Il Dottor Menzinger e gli Ucronici” pubblicano la raccolta “Ucronie per il terzo millennio”. Nel tentativo di ricercare una scrittura più semplice e diretta e di aprire l’ucronia a un pubblico più giovane, inizia a scrivere il ciclo di romanzi per ragazzi “I Guardiani dell’Ucronia”, pubblicando nel 2010 il primo volume “Jacopo Flammer e il Popolo delle Amigdale”, illustrato da Niccolò Pizzorno e Ludwig Brunetti.

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Sempre con l’intento di raggiungere uno stile più lineare e diretto, nel 2007 pubblica il veloce psyco-thriller “Ansia assassina”. Alla ricerca di una scrittura multimediale, realizza nel 2010 il romanzo collettivo “Il Settimo Plenilunio”, che affronta il romanzo gotico in ambientazione fantascientifica, trasformandolo in quella che definisce una gallery novel: riunisce accanto ai tre autori (Carlo Menzinger, Simonetta Bumbi e Sergio Calamandrei) diciassette artisti, tra fotografi, pittori e illustratori, che realizzeranno una vera e propria galleria di 117 illustrazioni per il romanzo. In precedenza aveva già affrontato la scrittura collettiva con il volume “Parole nel web”, edito nel 2007, che raccoglie tre suoi lavori scritti a quattro mani, la storia surreale “Se sarà maschio lo chiameremo Aida” (scritto con Andrea Didato), l’e-tragicommedia d’amore “Cybernetic love” (scritta con Simonetta Bumbi), in cui si prende gioco dell’uso eccessivo di termini inglesi, e il racconto di un amore rubato “Lei si sveglierà” (scritto con Sergio Calamandrei). Con il romanzo “La bambina dei sogni” torna al romanzo d’ambientazione contemporanea, affrontando in un romanzo paranormale il tema del potere del sogno. Sottopone il libro prima della pubblicazione a decine di lettori per una revisione critica complessiva, in un processo di correzione e aggiustamento che l’autore ha definito web-edting, in quanto svoltosi pubblicamente in internet. Offre quindi il romanzo in rete per una libera fruizione, secondo le regole del copyleft, completando il superamento dei tradizionali rapporti tra autore ed editore già avviato con la fase di web-editing. Carlo Menzinger ha, infine, pubblicato vari racconti, poesie e altro in antologie, riviste e siti internet. Recentemente, in particolare, ha collaborato a vari numeri della rivista “IF – Insolito & Fantastico”.

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La maggior parte dei suoi lavori sono editi da Liberodiscrivere (www.liberodiscrivere.it) Il suo sito internet è www.menzinger.too.it. Il suo nuovo blog è http://carlomenzinger.wordpress.com/.

Cronologia pubblicazioni 1989: Premio Ala della Vittoria con la raccolta personale di

poesie "Viaggio intorno allo specchio", Edizioni Gabrieli. 1999-2007 Pubblicazione di racconti e poesie in internet (vedi il sito

personale di scrittura www.scrivo.too.it) su Liberodiscrivere, Scrittura Fresca, SF2, Non Solo Parole, Il Denaro, Eptafuso, L'Isola del Tesoro, Yourwriters, Parole di Donna, Poeti & Poesie, Liberosesso, Scrivi.com, Bookcafé, Sannio Press, Immagini e Poesie, Divinoscrivere, Ucronia.

Pubblicazione di articoli su Filo Diretto, MPS News, Toscana Affari, La Nazione e altri periodici e sui siti

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www.mpsmerchant.it, www.mps.it, www.portalegruppomps.it.

Ottobre 2001 Pubblicazione del romanzo IL COLOMBO DIVERGENTE – Edizioni Liberodiscrivere.

Novembre 2001 Partecipazione con la lirica “Poeta pallido sulle scale” alla raccolta di poesie "E il naufragar m'è dolce in questa radio" - Ed. Giuseppe Aletti.

Marzo 2002 Partecipazione con cinque haiku alla"Antologia del premio letterario I fiori 2001- Poesia" (Ed. I fiori di Campo).

Aprile 2002 Partecipazione con il racconto “Scrivania” alla "Antologia del premio letterario I fiori 2001 - Narrativa" (Ed. I Fiori di Campo).

Giugno 2002 Partecipazione con cinque liriche all’antologia "La poesia vola sulla rete" – Edizioni Liberodiscrivere.

Luglio 2002 Il saggio "Gli interventi di Private Equity delle finanziarie regionali per lo sviluppo" esce nel Rapporto MET 2001 dal titolo "Le politiche per le attività produttive - Le Regioni e i nuovi strumenti", presentato al pubblico già a maggio in un Convegno che ha visto l'intervento di personalità politiche del Governo, dell'Unione Europea, delle Regioni, dell'Università e dei Centri di Ricerca.

Novembre 2002 Partecipazione con il racconto “Lo spacciatore” all’antologia "Quindici Voci" – Edizioni Liberodiscrivere.

Dicembre 2002 Partecipazione con il racconto “La poltrona” all’antologia "Racconti 2002" – Edizioni Liberodiscrivere.

Dicembre 2003 Autore (anonimo) del calendario 2004 di MPS Merchant che raccoglie 12 haiku (e altrettanti slogan) a commento di altrettante foto di mare.

Giugno 2004 Partecipazione con la recensione a “La Guerra dei Castori e dei Salmoni” alla raccolta di Banchina – Circolo Liberodiscrivere di Genova “Pietra su Pietra” – Edizioni Liberodiscrivere

Gennaio 2007 Pubblicazione del romanzo “ANSIA ASSASSINA” – Edizioni Liberodiscrivere.

Gennaio 2007 Pubblicazione del romanzo “GIOVANNA E L’ANGELO” – Edizioni Liberodiscrivere.

Febbraio 2007 Partecipazione al volume del Circolo Banchina di Liberodiscrivere “Lo specchio” con il racconto “Senza specchio”.

Giugno 2007 Pubblicazione del volume “PAROLE NEL WEB” – Edizioni Liberodiscrivere – che contiene esclusivamente

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suoi scritti a quattro mani, cioè il romanzo “Se sarà maschio lo chiameremo Aida”, scritto con Andrea Didato, la storia in versi “Cybernetic Love” scritta con Simonetta Bumbi e il racconto “Lei si sveglierà” scritto con Sergio Calamandrei.

Ottobre 2007 Seconda edizione del romanzo ucronico “IL COLOMBO DIVERGENTE” – Edizioni Liberodiscrivere.

Novembre 2007 Pubblicazione dell’antologia di racconti “UCRONIE PER IL TERZO MILLENNIO – Allostoria dell’umanità da Adamo a Berlusconi” – Edizioni Liberodiscrivere – una raccolta curata da Carlo Menzinger, che riunisce 18 autori e 46 racconti ucronici, di cui alcuni del curatore stesso (“Genesi”, “Oltre il rogo”, “La Dama di Corchiano”, “Terra!”, “La scuola nuova”, “Il pittore di Branau”, “Il governatore della Tripolitania”, “La regina del Belgio”, “Notte prima degli esami”, “Il Berlusconi divergente”).

Febbraio 2010 Pubblicazione del romanzo “IL SETTIMO PLENILUNIO” – Edizioni Liberodiscrivere – scritto assieme a Simonetta Bumbi, con la collaborazione di Sergio Calamandrei e illustrato da diciassette artisti.

Marzo 2010 Partecipazione con il racconto “Il pittore di Branau” e con un articolo sull’ucronia al n. 3 della rivista Insolito & Fantastico dal titolo “Ucronia” – Edizioni Tabula Fati.

Novembre 2010 Partecipazione con l’articolo “Perché scrivere di vampiri e licantropi nel terzo millennio” al n. 5 della rivista Insolito & Fantastico dal titolo “Vampiri” – Edizioni Tabula Fati.

Novembre 2010 Pubblicazione del romanzo “JACOPO FLAMMER E IL POPOLO DELLE AMIGDALE” – Edizioni Liberodiscrivere.

Gennaio 2011 Partecipazione con l’articolo “I dinosauri sono ancora tra noi” al n. 6 della rivista Insolito & Fantastico dal titolo “Vampiri” – Edizioni Tabula Fati.

Luglio 2011 Partecipazione con la recensione de “Il Vampiro” di Franco Mistrali al n. 7 della rivista Insolito & Fantastico dal titolo “Vampiri” – Edizioni Tabula Fati.

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JACOPO FLAMMER E IL POPOLO DELLE AMIGDALE

I Guardiani dell’Ucronia

Jacopo Flammer sta per partire per un avventuroso viaggio nel tempo in una preistoria ucronica dai mille pericoli. Che cosa può succedere a un bambino di nove anni che se ne va in vacanza con il nonno nella preistoria? Come può essere che Jacopo ed Elisa abbiano la stessa età ma siano nati uno nel 1997 e l’altra nel 1964? Chi sono gli esseri mostruosi che hanno attaccato il Popolo delle Amigdale e separato Jacopo Flammer e i suoi amici dai loro nonni? Il segreto si cela nell’antichissima

Porta del Tempo costruita da misteriosi esseri sopravvissuti da epoche antichissime. A proteggere Jacopo ci sono i Guardiani dell’Ucronia, strane creature provenienti da mondi in cui l’evoluzione non ha premiato l’uomo, ma altri animali. Saranno sufficienti l’insolito coraggio e il nuovo potere di Jacopo per affrontare il feroce Gruhum, lasciare la preistoria e tornare a casa?

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IL COLOMBO DIVERGENTE La prima ucronia di Carlo Menzinger

Come saremmo oggi se Cristoforo Colombo non avesse fatto ritorno vincitore dal suo viaggio alla ricerca delle Indie? Come sarebbe stata la storia del navigatore ligure, se si fosse scontrato con gli Aztechi? Questo romanzo ucronico offre una risposta a queste domande e a molte altre: chi era veramente Colombo? Da dove veniva? Cercava veramente le Indie? Chi c’era dietro di lui? I banchieri ebrei? I Cavalieri di Cristo? Ne esce fuori un ritratto inedito di

Colombo. Il ritratto di un uomo ostinato e caparbio anche nella sconfitta. Il ritratto di un uomo dalle molte donne ma da un solo amore: il mare. Il ritratto di un uomo pronto a sacrificare tutto per un progetto. Il romanzo, ricco di giochi verbali, può essere letto come un libro di viaggio e avventura ma anche come riflessione sulla vita e sul destino o come esplorazione di civiltà lontane, ucronicamente ravvicinate in un mondo anticipatamente globalizzato in cui Spagnoli, Aztechi e Berberi si muovono uno accanto all’altro. Nel 2007 è uscita una nuova edizione riveduta, corretta e aggiornata con varie note.

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GIOVANNA E L’ANGELOLa seconda ucronia di Carlo Menzinger

La storia di Giovanna d’Arco vista attraverso gli occhi di un angelo ateo. La storia sognata di Giovanna d’Arco che sopravvive al rogo. Una vita ucronicamente reinventata.Le misteriose trasformazioni della Pulzella d’Orléans da pastorella, a eroina, a comandante d’eserciti, a guida della Francia. I tormenti di un angelo che non ha nessun contatto, oltre Giovanna d’Arco, né con il mondo terreno, né con quello celeste. L’oscura figura di Barbablù, il

Maresciallo Gilles de Rais, condottiero e maniaco sessuale. Le ambizioni di Charles de Valois, il bel delfino. Le passioni, le trasformazioni e la follia del re bambino che governa Francia e Inghilterra. Battaglie, assedi, processi dell’Inquisizione. Roghi di streghe ed eretici. Questo e molto altro in questo romanzo di Carlo Menzinger che, come “Il Colombo divergente” descrive una storia alternativa a quella reale.

GIOVANNA E L’ANGELO

La storia di Giovanna d’Arco vista averso gli occhi di un angelo ateo.

La storia sognata di Giovanna d’Arco che sopravvive al rogo. Una vita ucronicamente reinventata. Le misteriose trasformazioni della Pulzella d’Orléans da pastorella, a eroina, a comandante d’eserciti, a

I tormenti di un angelo che non ha nessun contatto, oltre Giovanna d’Arco, né con il mondo terreno, né

L’oscura figura di Barbablù, il Maresciallo Gilles de Rais, condottiero e maniaco sessuale. Le

. Le passioni, le trasformazioni e la follia del re bambino che governa Francia e Inghilterra. Battaglie, assedi, processi dell’Inquisizione. Roghi di

Questo e molto altro in questo romanzo di Carlo Menzinger che, Colombo divergente” descrive una storia alternativa a

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ANSIA ASSASSINA Un insolito psyco-thriller firmato da Carlo Menzinger

“Ansia assassina” narra una veloce sequenza di incidenti la cui casualità è solo apparente. É un romanzo immediato, in cui sfortunati e drammatici eventi travolgono la vita di alcune famiglie, legate tra loro: un’inspiegabile serie di coincidenze fatali, in cui i carabinieri che indagano si perdono e nel cui meccanismo vengono coinvolti e trascinati loro malgrado. Il protagonista è una ragazzo, che tutti cercano ma che nessuno riesce a

trovare, mentre l’ansia cresce e diviene…letale. Il romanzo si snoda passando da un personaggio all’altro ma ruotando sempre attorno alla figura assente del protagonista. In “Ansia assassina” Carlo Menzinger descrive un mondo dove le macchine sono causa di morte, dove l’ansia travolge la vita, dove telefoni e cellulari sono veicoli di mancata comunicazione o di informazioni imprecise generatrici d’angoscia. Dopo un’inverosimile serie di decessi, si arriva al capitolo finale per scoprire la causa scatenante di tutto ciò e sarà difficile non restare sorpresi per la trovata surreale che chiude la storia.

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PAROLE NEL WEB Tre storie scritte a quattro mani, via e-mail, da Carlo Menzinger e altri

tre autori: Bumbi, Calamandrei e Didato.

Tre storie scritte nel web. Tre storie scritte per e-mail da tre coppie d’autori. “Lei si sveglierà”, scritto da Sergio Calamandrei e Carlo Menzinger, è il racconto di un amore rubato. “Se sarà maschio lo chiameremo Aida”, scritto da Carlo Menzinger e Andrea Didato, è il romanzo d’amore di un ragazzo e una ragazza l’uno per l’altra e di entrambi per la musica lirica. Un amore che li porterà a costruire un teatro tra le nevi di

un’altissima montagna. Una storia irreale, ambientata su un’inesistente vetta alpina del sud Italia, tra tormente di neve e tormenti d’amore. “Cybernetic love” di Simonetta Bumbi e Carlo Menzinger, è la storia di un tragico triangolo nato nel web, attraverso una chat. È una storia in versi, scritta usando un linguaggio informatico e anglofono e parafrasando i classici della letteratura. Una moderna e-tragicommedia d’amore.

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UCRONIE PER IL TERZO MILLENNIO Allostoria dell’umanità da Adamo a Berlusconi

“Ucronie per il terzo millennio” è una raccolta di allostorie, ovvero di racconti in cui si descrivono i se della Storia.Come sarebbe il mondo se Dio non avesse creato Adamo? E se a comandare fossero le donne? E se Hitler avesse fatto il pittore o Berlusconi il cantante? Questa curiosa antologia di racconti ucronici, curati (ma non guariti) da Carlo Menzinger, offre una scoppiettante carrellata di allostorie, nelle quali i 18 autori (Il Dott. Menzinger e gli ucronici) si divertono a

raccontarci che il mondo potrebbe anche essere diverso da come è oggi, che Nerone avrebbe potuto fare il gladiatore e Miller l’agente segreto, Washington ritirarsi in campagna, Freud studiare le pecore, Garibaldi consegnare l’Italia al papa e Madre Teresa andare a fare shopping a Beverly Hills. L’invito è a vivere in questo strano mondo, né migliore né peggiore del nostro, ma certo diverso, ricordandoci sempre che il nostro futuro non è immutabile e spetta a noi disegnarlo, perché ciascuno di noi può modificare la Storia. Almeno in un racconto.L’ucronia è la Storia sognata da noi.

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IL SETTIMO PLENILUNIO Una gallery novel curata da Carlo Menzinger

“Si avvicina la battaglia finale della guerra millenaria tra licantropi e vampiri. Che cosa sarà del mondo dopo il Settimo Plenilunio? Potrà l’amore di una donna per un vampiro e per un licantropo spezzare per sempre l’antichissima maledizione che condanna queste due razze alle tenebre e al sangue?” “Il Settimo Plenilunio” è una storia gotica con vampiri e licantropi e ambientazione fantascientifica, scritta da tre autori (Menzinger, Bumbi e Calamandrei)

e illustrata, con oltre cento immagini, da diciassette artisti. “Il Settimo Plenilunio” è una Gallery novel, un romanzo che è anche una galleria di immagini. Gli illustratori, tutti bravissimi, sono Raffaele Addivinelo, Fabio Balboni, Massimo Bernardi, Angelo Condello, Guido De Marchi, Arturo Di Grazia, Daniela Divano, Alessandro Fantini, Laura Fazio, Marco Ferrara, Alessandro Giovagnoli, Alessia Grassi, Giuseppe Iannolo, Elena Masia, Luca Oleastri, Silvia Perosino, Niccolò Pizzorno. Niccolò Pizzorno che ha realizzato il maggior numero di immagini del volume, è anche uno dei due illustratori di “Jacopo Flammer e il Popolo delle Amigdale”.

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INDICE Copyright e Copyleft Pag. 3 1-Underground baby Pag. 7 2-L’Isola dei Bambini Perduti Pag. 15 3-La bambina del sogno Pag. 23 4-La visita Pag. 27 5-Mia moglie Pag. 33 6-Lo sconosciuto onirico Pag. 39 7-Seconda visita Pag. 43 8-A casa Pag. 53 9-Il nonno Pag. 59 10-Apparizioni Pag. 63 11-Maria Pag. 71 12-Litigi Pag. 75 13-La famiglia di Elena Pag. 83 14-L’adozione Pag. 91 15-Incubi Pag. 97 16-Ancora incubi Pag. 105 17-La cena Pag. 111 18-Abbandonata Pag. 119 19-Scomparsa Pag. 127 20-All’ospizio Pag. 135 21-Con Maria Pag. 141 22-Ritrovata Pag. 147 23-Alla ricerca del padre Pag. 157 24-Le memorie risvegliate Pag. 163 25-A cuore aperto Pag. 171 26-L’investigatore dell’incubo Pag. 181 27-In cerca d’aiuto Pag. 185 28-Lo squilibrato Pag. 195 29-Oberon Pag. 201

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30-Sospettato Pag. 209 31-La resa dei conti Pag. 217 32-Accusato Pag. 227 33-Pazzo Pag. 231 Copyleft e Web-Editing: un romanzo nato da internet per internet Pag. 243 Ringraziamenti Pag. 249 L’autore Pag. 255 Indice Pag. 267 Riferimenti autore: www.menzinger.too.it

http://carlomenzinger.wordpress.com/

Riferimenti illustratore: www.angelocondello.eu

ISBN 9781471623073

Copyright dei testi: © 2011 Carlo Menzinger Copyright delle immagini: © 2011 Angelo Condello

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