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8/5/2019 La "dignità" non esiste | L'INDISCRETO https://www.indiscreto.org/la-dignita-non-esiste/?fbclid=IwAR0hHlbxfr9hL3Awr2Npc2eGRiN9fF2ieSKXRyateGDYRUT9hylfR3_FKNw 1/13 L'INDISCRETO Non c’è testo contenuto in carte costituzionali, saggio di filosofia morale, scritto di ascesi religiosa, enciclica papale, sentenza di corti di giustizia dove la dignità non sia assunta a valore omnicomprensivo della “natura umana in sé”, ma cos’è la “dignità”? Un concetto assoluto? Una qualità da conquistare o innata? Una parola priva di senso a cui appellarsi? IN COPERTINA: ANONIMO, SEC. XVIII, COPPIA DI ARISTOCRATICI , ASTA PANANTI ONLINE (Questo testo è tratto da “ di Cosimo Marco Mazzoni. Ringraziamo per la gentile concessione) di Cosimo Marco Mazzoni Non vi è libertà ogni qualvolta le leggi permettono che, in alcuni eventi, l’uomo cessi di esser persona e diventi cosa. Cesare Beccaria La “dignità” non esiste 08/05/2019 Quale Dignità” Olschki E

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L'INDISCRETO

Non c’è testo contenuto in carte costituzionali, saggio di filosofia morale,

scritto di ascesi religiosa, enciclica papale, sentenza di corti di giustizia

dove la dignità non sia assunta a valore omnicomprensivo della “natura

umana in sé”, ma cos’è la “dignità”? Un concetto assoluto? Una qualità

da conquistare o innata? Una parola priva di senso a cui appellarsi?

I N C O P E R T I N A :   A N O N I M O , S E C . X V I I I , C O P P I A D I A R I S T O C R A T I C I , A S T A P A N A N T IO N L I N E

(Questo testo è tratto da “ di Cosimo Marco Mazzoni. Ringraziamo per la gentile concessione)

di Cosimo Marco Mazzoni

Non vi è libertà ogni qualvolta le leggi permettono che, in alcuni eventi, l’uomo cessi di esser persona e diventi cosa.

Cesare Beccaria

La “dignità” non esiste08/05/2019

Quale Dignità”  Olschki

E

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A chi, al giorno d’oggi, venisse l’idea di provare ad interrogarsiattorno a una parola osannata e dileggiata, come quella che il lessicoantico ha in comune con quello contemporaneo, si troverebbe aparlare di dignità con spirito incerto e magari dubbioso, ben sapendodi fare opera oziosa.

Dibattere ancora della dignità, dopo i fiumi di scritti degli ultimitempi, può sembrare proposito che lascia il tempo che trova, oppuretemerario, oppure addirittura pregiudizioso. Tuttavia, è proprio lasua sempre rinnovata modernità, così smisurata da diventare unamoda pressoché quotidiana del parlare corrente, accresciuta daicontinui proclami contenuti in quasi tutte le leggi europee, aobbligare a ripercorrere – tanto per cominciare come primoargomento all’ordine del giorno – il suo lungo percorso espressivo. Sitroverà di fronte, chi volesse azzardare l’impresa, a un tale groviglio

semantico, che solo un colpo di spada potrebbe scioglierne il nodo gordiano. Tenterò di ripeterne e con unpo’ di coraggio riassumerne le tappe essenziali, cercando di aggiungere qualche tassello di originalità, maevitando di invischiarmi verso indagini dall’incerto statuto.

La parola ha avuto nei secoli modalità lessicali e varietà di sensi talmente diversi da lasciare esitanti sullasua consistenza concettuale. Proverò allora in queste pagine a descrivere le forme d’uso del termine e la suafenomenologia con spirito critico, estendendo l’analisi, in qualche modo scettica, delle diverse concezionidella nozione.

Attorno alla locuzione si è sviluppato un dibattito anche troppo ampio, che si è poi articolato in una serietumultuosa di esemplificazioni, di applicazioni normative, di dichiarazioni di principio, di esortazioni allasua effettività. Il vocabolo è tirato per i capelli da più parti per indicare stati d’animo e comportamenti, direiantropologici, dove interviene sempre l’uomo. L’espressione è usata nei quadri i più vari, applicata non soloa individui, ma a circostanze, f rangenti i più diversi, dando così àdito a una visione olistica del nostroconcetto. Se n’è circoscritto il campo parlando di “dignità umana”. Il suffisso non ha eliminato tuttavia ilproblema della prolificazione semasiologica del concetto: tra dignità e dignità umana corre solamenteun’aggettivazione che ne restringe l’arco applicativo, quasi a voler estrarne un sintagma, ma noncontribuisce alla chiarificazione del concetto. Da quel dibattito cercherò di cavare alcune nozioni, e speroforse il suo percorso storico, filosofico ed epistemologico, limitandomi alla considerazione dell’onorabilitàdella vita dell’uomo, e dunque tralasciando altri sensi che riguardano cose, o attività, o istituzioni; oppureanimali, territorio, paesaggio, natura insomma, se non in un breve ragionamento alla fine.

Si deve subito avvertire che è forse impossibile – come si dedurrà chiaramente dalle pagine che seguono –esporre l’argomento se non in prospettiva storica. Che cosa ha significato il concetto storicamente. Prima diproseguire è tuttavia necessario chiedersi: dignità è un concetto assoluto, oppure più semplicementeun’espressione ellittica che intende indicare fenomenologie di volta in volta diverse nel tempo? È ildilemma che si è posto chi ha svolto il discorso in termini storici, per esempio di recente Michael Rosen eNicola Casaburi. Per cominciare, vorrei far rilevare una verità lapalissiana: dignità non è concettoecumenico, generale, e neppure principio assoluto. Il suo valore polisenso è sempre stato collocato in direttorapporto all’ambiente sociale, alle situazioni economiche, alle posizioni personali, persino ai sentimentidelle persone, infine alla storia: anzi, direi che solo il percorso storico può chiarire il senso del suorelativismo e del suo viluppo semantico. Devo solo avvertire che non sarà un itinerario lineare, ma spesso àrebours, come qualche volta capita nei discorsi storici, ma sempre dovrà tener conto della consecuzione

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storica delle idee. Perché ciò di cui mi accingo a fare è proprio un percorso attorno ad un concetto che hauna lunga tradizione nella storia delle idee, antiche e moderne.

Ancora un’altra avvertenza nel discorso che comincia. Si sono sedimentate nel tempo due correnti dipensiero che oggi si contendono il campo e pretendono ciascuna la loro esclusività. Di queste due correnti sisono impadronite le principali impostazioni filosofiche. Ridotte all’osso, si possono sintetizzare in questitermini: dignità come qualità innata dell’uomo, da un lato; e dignità come virtù da conquistare econservare, dall’altro. Come ci si accorge subito, si tratta di distanze concettuali siderali.

***

Dalla sua origine di termine che indica la funzione, l’ufficio, e conseguentemente la qualità e la condizionedi onorabilità di chi quella carica ricopre o sottende (significato tutt’ora presente nel lessico italiano), e delquale si descriverà tra poco i caratteri originali partendo dai filosofi antichi, la speculazione filosofica ne hamaturato un concetto vasto ma lontano da quell’origine. Esso si avvicina, gradualmente, alle qualitàintrinseche dell’uomo delle quali la carica o l’ufficio ricoperto dovrebbe o vorrebbe essere lo specchio.

Si è così venuto consolidando nel tempo il senso che la parola vuole esprimere con la locuzione “principiodella dignità umana” (Kant). È questo il punto di partenza per ogni considerazione del concetto comeprincipio etico e metagiuridico cui occorre rifarsi: dignità dunque come principio. Anche se vogliamoaccostare il vocabolo a contenuti politici e giuridici dove essa è attualmente richiamata, è necessario partireda alcuni riferimenti filosofici, a cominciare dal seguente fondamentale testo:

Nel regno dei fini tutto ha un prezzo o una dignità. Ciò che ha un prezzo può essere sostituito con qualcos’altro come

equivalente. Ciò che invece non ha prezzo, e dunque non ammette alcun equivalente, ha una dignità.

La dignità di un essere ragionevole consiste nel fatto che egli non obbedisce a nessuna legge che non siaistituita anche da lui stesso, afferma il filosofo tedesco. Il nesso kantiano è ripetuto ovunque einstancabilmente, avverte il filosofo belga Gilbert Hottois, e come vedremo meglio più avanti:

Kirk draws Dignity (The Simpsons)Kirk draws Dignity (The Simpsons)

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Questo riferimento non è ingiustificato, ma esso contiene dei presupposti e dei vincoli raramente resi espliciti. Non è

né neutro né innocente. Rafforza le concezioni dualiste, universaliste, essenzialistiche, idealiste, spiritualiste e religiose

cristiane caratteristiche del pensiero kantiano.

Nei testi costituzionali recenti essa prende posto al centro della dichiarazione dei diritti fondamentali.Pretende di rappresentarne il presupposto. Il termine in ogni caso è oggi causa di visioni divergenti sia sulsuo significato proprio, sia sulla sua utilità d’impiego nell’ambito dei diritti umani. Se n’è dette di tutte alsuo indirizzo, dato il suo carattere generico: è concetto sfuggente, espressione ambigua, nozione inutile,artificio retorico senza sostanza, luogo comune, requisito banalmente estetico, persino stupido. Bisognaprestare attenzione a giudizi del genere, ancorché tranchant, perché interpretano un modo di sentire e ungiudizio assai diffuso, e risalente. Schopenhauer si divertiva a dileggiare la parola:

Le parole dignità dell’uomo, una volta pronunciate da Kant, diventarono lo shibboleth di tutti i moralisti sconsigliati e

spensierati, che nascosero la mancanza di un fondamento morale – un fondamento vero o almeno qualcosa di

somigliante – sotto le impressionanti parole dignità dell’uomo, calcolando con furbizia che anche il loro lettore si

vedesse fornito di questa dignità e si considerasse quindi soddisfatto.

Nel 2008 Steven Pinker, uno psicologo di Harvard, scrisse un articolo che fece chiasso, dal titolo “TheStupidity of Dignity”.

Il problema è che la “dignità” è una nozione sdolcinata e soggettiva, inidonea a svolgere i pesanti compiti morali a essa

assegnati.

L’occasione riguardava un Report del President’s Council on Bioethics creato in quell’anno dal presidenteBush dal titolo Human Dignity and Bioethics. Attraverso una serie di esempi, spesso ridicoli o paradossali,lo psicologo intendeva dimostrare che è un concetto inutile, espressione di una percezione umanasuperficiale, alla quale forse si vuole attribuire un effimero significato morale, e per svilirne il senso, usametafore sarcastiche: “è lo sfrigolìo, non la bistecca, è la copertina, non il libro”:

Non dovremmo ignorare un fenomeno che induce una persona a rispettare i diritti e gli interessi di un altro. Ma ciò

spiega anche perché la dignità è relativa, fungibile, e spesso dannosa. Dignità è superficiale, è lo sfrigolìo, non la

bistecca; la copertina, non il libro. Ciò che alla fine importa è il rispetto per una persona, non il perpetuo richiamo che

lo scatena. In effetti, il divario tra percezione e realtà ci rende vulnerabili verso le illusioni della dignità.

Sulla stessa linea d’onda di violento rifiuto è la presa di posizione di Ruth Macklin, che insegna eticamedica al Albert Einstein College of Medicine:

Non significa nient’altro che rispetto per le persone e la loro autonomia… L’appello alla dignità popola il territorio

dell’etica medica. La dignità è concetto utile per un’analisi etica delle attività mediche? Un’attenta osservazione di casi

importanti mostra che gli appelli alla dignità sono vaghi riferimenti ad altre, più precise, nozioni, oppure meri slogan

che niente aggiungono alla sua comprensione.

C’è solo da osservare che ambedue gli scrittori ora citati si muovono attorno ai problemi legati alla bioeticae alle tecnologie riproduttive. Tutte le ipotesi esaminate riguardano la dignità applicata alla geneticaumana. Non ci sarebbe niente di male, naturalmente, ma il campo risulta alquanto più ristretto.

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Vorrei adesso voltare pagina per aprire un lungo discorso sulle riflessioni che il sociologo americanoRichard Sennett dedica alla parola, e al concetto, di rispetto. “Rispetto”, egli dice, non è proprio unsinonimo di dignità. Gli ricorda molto la parola “prestigio”, somiglia a riconoscimento, a onore, a status. È,questo di Sennett,

un libro di grande fascino, arricchito di ricordi personali e considerazioni storiche nei quali il concetto di rispetto si

eleva a principio dell’etica, a riconoscimento della dignità propria o altrui, al senso della reciprocità sociale: «Rispetto è

un modo di esprimersi. Vale a dire, trattare gli altri con rispetto non è una cosa automatica, anche con la migliore

volontà del mondo; portare rispetto significa trovare le parole e i gesti che lo rendano convincente».

Bisogna tuttavia convenire che il rispetto sia spesso minacciato da forme sentimentali o emotive di falsasolidarietà. Alla sfera delle emozioni lo riduce lo stesso Kant, quando definisce il rispetto (Achtung) comel’impegno a riconoscere negli altri uomini, oltreché in se stessi, una dignità che si è in obbligo disalvaguardare:

Ma la stessa legislazione, che assegna ogni valore, deve appunto perciò avere una dignità, ossia un valoreincondizionato, incommensurabile, per il quale solo la parola rispetto (Achtung) fornisce l’espressioneappropriata alla stima che un essere razionale deve avere verso di essa.

È probabile che nella nozione di rispetto sia contenuta la solidarietà che dovrebbe avere alla base laconsiderazione reciproca. Ma solidarietà si può confondere talvolta con compassione. Il sociologoamericano usa parole crude al proposito, come sentimento che urta la dignità e il rispetto delle persone cuiè rivolto. Compassione è un sentimento, un’emozione che induce alla beneficienza; e regalare qualcosa puòessere uno strumento manipolatorio. Nietzsche lo considerava un istinto depressivo e contagioso cheindebolisce gli altri istinti:

La compassione sta in contrasto con gli affetti tonici che elevano l’energia del sentimento vitale: essa agisce in senso

depressivo. Si perde forza quando si ha compassione… Aristotele, come è noto, vide nella compassione uno stato

morboso e pericoloso.

Il far del bene è offensivo dell’amor proprio del destinatario. Sennett descrive come la compassione verso ilpovero, che consiste nell’aiutarlo materialmente attraverso un coinvolgimento sentimentale, possa ferirne ladignità. Il benefattore desta sospetto, perché la beneficienza è gemella dell’orgoglio, si trasforma incondiscendenza e alla fine in disprezzo, e solo più raramente in solidarietà. «Un sentimento di pietà mista ariprovazione e sdegno per una condizione di traviamento morale, di colpa, o anche di compatimentosprezzante». «Dare agli altri può essere un modo per manipolarli», perché il fatto di dare non è di per séportatore della carica positiva di un atto di solidarietà, perché «la carità ferisce», come dice Mary Douglas.Lo stretto rapporto tra compassione e dignità lo si può trarre dalle parole della grande antropologa inglese:

La carità è intesa come dono gratuito, una cessione di risorse volontaria non richiesta. Sebbene la lodiamo come virtù

cristiana, sappiamo che la carità ferisce… Il fatto è che tutta l’idea di dono gratuito è basata su un equivoco. Non

esistono doni gratuiti. Ciò che è sbagliato nei cosiddetti doni gratuiti è che l’intenzione di chi dona è di essere esentato

da doni che arrivano dal beneficiato… Un dono che non fa niente per aumentare la solidarietà è una contraddizione.

Anche l’atto del dono può essere piegato ad una visione della dignità che tradisce un rapporto disottomissione. È il gesto del ricco, armato di dignità e di potere, che si “degna” di dispensare doni sottoforma di elemosine. La sua onorabilità si esprime nel modulare il dono verticale, non restituibile, egarantisce della bontà dell’atto e che si esprime nell’autocompiacimento, nel godimento di se stessi; si

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manifesta come espressione della propria dignità, fatta di potere, di supremazia e che non attenderestituzione. Jean Starobinski ha scritto pagine magnifiche sul rapporto tra chi dona e chi riceve comestrumento di sovranità. Si tratta del paradosso del dono ridotto all’acquisizione di un potere, di unprestigio. Ecco un altro luogo dell’animo dove si può scorgere una forma, anomala, di dignità.

Curiosa e degna di nota, perché proviene da un sociologo americano, forsanche versato agli studisull’umanesimo italiano, la citazione che Sennett fa di Giovanni Pico:

Il filosofo rinascimentale Pico della Mirandola formula l’idea che “l’uomo è artefice di se stesso”, con la quale intende

che la formazione di sé è un’esplorazione, piuttosto che l’applicazione di una ricetta. Religione, famiglia, comunità,

sostiene Pico, definiscono la cornice, ma è compito di ciascuno scrivere la propria parte.

Tornando alla nostra parola, alcuni giuristi, almeno italiani, ne sembrano invece affascinati: Elogio della

dignità (Flick), La rivoluzione della dignità (Rodotà). Ha sempre colpito l’immaginazione del giurista, forseperché è un vocabolo d’incerta collocazione nel dizionario giuridico; forse perché è comparso daprotagonista, col suo fascino evocativo di intenso magnetismo, nelle recenti carte costituzionali; forseperché è uno strumento linguistico che si può giocare su vari tableaux contemporaneamente. Fatto sta chenon se ne può parlare se non cedendo alla sua seduzione. Un esempio di come il discorso possa portarelontano in un indefinito luogo dell’anima, dove il termine diventa oggetto di riscatto dalle ingiustizie, dirifugio contro il male, sostegno dai disagi dell’esistenza, è dato dalle pagine di Giovanni Maria Flick: «Ladignità è un ponte

dagli orrori, gli errori, e le angosce del passato verso i fantasmi, le inquietudini e le paure del presente e del futuro».

Può essere accostata a tutto, è termine di confronto per qualunque moto dell’animo umano e di qualunquecondotta dell’individuo dentro la società. E così, è invocata come argine alla «dimensione dei nuovi conflittilegati all’intolleranza, al fanatismo e al terrorismo globale». Non c’è più limite di fronte alla sua pervicacepresenza: ecco la voce magica, il toccasana per ogni tempo e per ogni luogo; basta pronunciarla e subito siaprono le porte del paradiso. In alcuni tratti quelle pagine sembrano assumere un senso vagamenteideologico. È l’ideologia dell’integrità e dell’onestà, della vita retta in contrasto ai mali del mondo, allacorruzione, alla violenza. E alla fine, tutto diventa possibile: «La dignità, nella sua vaghezza, è o dovrebbeessere un punto di riferimento essenziale e insostituibile, per cercare di incanalare e di gestire – anche senon di riuscire a placare – le nostre inquietudini e angosce di fronte alla realtà».

“Dobbiamo ancora parlare di dignità della persona umana?” si chiede il gesuita francese Paul Valadier, inun saggio in aperto contrasto col razionalismo kantiano. «Non diventa fonte di confusione e dunque non èscaduto il suo rango di criterio di giudizio?».

Nella maggior parte dei proclami, anche tra i più recenti e i più autorevoli, per esempio quelli cheprovengono dalla politica europea, si vuole continuare a vederne un’idea centrale e irrinunciabile, uncaposaldo universalmente accettato della vita civile, un principio fondativo. Per la verità, qualchecommentatore controcorrente e in vena di scetticismo ha sostenuto che la voce non abbia alcun significatocoerente, ma che sia divenuta nel tempo il mero contenitore di un ampio coacervo d’idee politiche, sociali,religiose. Ma, d’altronde è bene avvertire, che l’opinione che avanzi questi dubbi al riguardo è vista consospetto dalla stragrande maggioranza di coloro che discettano dell’argomento; la verità è che essa èdiventata intoccabile, guai a metterla in discussione.

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Si potrebbe solo aggiungere, a chi avesse tentato di trovarne uno sbocco pratico, una qualche forma diapplicazione diretta, una Verwirkung, che questi, pur armato delle migliori intenzioni, si sarà sempre accortodi aver di fronte la forza impalpabile dell’idea, che rigetta nel calderone della genericità il destino delconcetto. Se ne potrà ripercorrere il frastagliato percorso semantico e poi ermeneutico attraverso l’acuto espesso divertente libro di Casaburi, sopra citato.

Insomma, è un argomento tabù, che dispensa dal discutere: è inutile stare a criticare un assioma cosìevidente. Non c’è testo contenuto in carte costituzionali, saggio di filosofia morale, scritto di ascesi religiosa,enciclica papale, sentenza di corti di giustizia dove la dignità non sia assunta a valore omnicomprensivodella “natura umana in sé”. Allora, bisognerà ammettere che è abbastanza raro che una nozione moraleincroci così aspri e contrastanti giudizi. L’appello alla dignità diventa il vertice, la summa, l’argomentodecisivo e inconfutabile per il riscontro della validità di principi d’eguaglianza, di libertà,dell’autodeterminazione dell’uomo, della sua inviolabilità fisica e morale, di giustizia, eccetera. Vorrebbeessere, alla fine, la sembianza che l’uomo ha di se stesso.

Ecco il punto centrale – per chi crede nella persistente utilità della locuzione – dal quale si dovrebbe partire.Ma ciascuno può intuire la colossale vastità che si vuole assegnare ad un concetto del genere; e per conversoil rischio grandissimo di veder fallito in partenza ogni pur robusto sforzo per chi volesse trarredall’approfondirlo. Ci sarà sempre il rischio di ridurre (o degradare) il vocabolo semplicemente a “toposargomentativo”; chiunque parli di dignità – magari sul divano di casa – farà sempre la sua bella figura difronte agli altri che ascoltano. E in questo, forse, sta la sua utilità. «La dignità umana, come la si intendecomunemente nella contemporaneità, è divenuta un super-argomento, un argomento mitico, un argomentocapace di chiudere una discussione».

È una concezione decorativa della dignità, per usare il paradosso di Thomas De Koninck. In fin dei conti, alpari di tutti i principi generali, assoluti e astratti, anche la dignità svela ad ogni passo la sua fragilità. Comealtri concetti dei quali tanto più si proclama la diffusa realtà morale o giuridica, tanto meno si rendono didifficile compimento, perché alla fine i tentativi di precisarne i contenuti si dimostrano solo apparenti. Lavera ragione è che si vogliono lasciare indeterminati e astratti. La dignità viene sublimata a valore umanoimmateriale e trascendente. Non si può apprezzare la Dignità in sé. Sarebbe come lodare la Libertà o la Vitao l’Arte in astratto e in generale: salvo poi a scontrarsi, e a contraddirne il senso, con le singole dignità diogni giorno e di ogni uomo.

Un concetto astratto come quello di cui si parla cede la sua parte di senso quando viene declinato in formaplurale: le dignità, ogni volta diverse ed applicabili a situazioni o categorie lontane tra loro. Alla dignità – alsingolare – si sostituiscono o si surrogano tante dignità. Come dire tante mentalità, tante culture, tanteciviltà: «anche linguisticamente sono casi che hanno in comune una terminologia astratta che nasce con unsingolare obbligato e si piega a fatica e col tempo all’uso plurale». Ragionare in termini di alti valori, diprincipi sommi, für evvig, e poi fermarsi lì, rischia di essere pernicioso a chi voglia trovare in quelli deiveicoli da utilizzare nella realtà quotidiana. Una vicenda simile è accaduta nella storia recente quando si èvoluto moltiplicare l’acquisto di nuovi diritti a beneficio dei singoli. I buoni sentimenti trasmessi dalla bellaparola rischiano di favorire l’espandersi di diritti e di valori cosiddetti universali, ma sempre imprecisati,secondo una formula che potrebbe essere sperimentata solo alla prova dei fatti: più diritti = più dignità.Oggi l’uomo, il cittadino dei paesi occidentali, ha acquistato una quantità di diritti che soltanto unagenerazione fa non si sognava neppure di rivendicare. Siamo forse diventati tutti noi più carichi di dignitàperché possediamo più diritti? Ma sì, proviamo a dare tanti diritti, diritti soggettivi, diritti politici, a chi nonne ha, per esempio a quelli che sono ancora sui barconi. Accresciamo forse la loro dignità? Oppure quegliuomini e quelle donne hanno già la loro dignità in sé, in quanto esseri umani?

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La verità è che il sincretismo della nostra parola cerca di trovare un lasciapassare per tutte le stagioni. Sicerca di trovare ad ogni costo, come scrive il filosofo belga, «il fondamento transculturale, la legittimazioneultima universalmente accettata, che sembra far difetto all’idea troppo moderna o troppo occidentale,secondo taluno, di “diritti dell’uomo”».

Si ponga mente al fatto che i criteri assoluti (dignità, eguaglianza, libertà, giustizia) sono tutti privi dicontenuto normativo. Per ciascuno di essi si può ripetere quanto Montesquieu assai affabilmente, e con unapointe satirica, scriveva a proposito della libertà: «Non c’è parola che abbia ricevuto maggior numero disignificati diversi, e che abbia colpito gli spiriti in tante diverse maniere, come quella di libertà».

Ecco perché manifesta la sua fragilità. Ecco dunque il paradosso della dignità: più se ne accentua il valore dibene sommo dell’essere umano, più se ne svilisce il senso. Gustavo Zagrebelsky qualche anno fa mostrava ilproprio scetticismo a proposito di principi dei quali tanto più se ne celebra la generale validità, tanto più lisi svuota. «I criteri assoluti (di libertà, di uguaglianza, di giustizia) sono tutti privi di contenuto». Così è perla dignità: «troppo facilmente ci facciamo accecare dalle belle parole, le quali spesso, tanto sono più belle,tanto più facilmente contengono concetti molto ‘disponibili’». Gli esempi d’ignominia e di orrore che ciassalgono ogni giorno dimostrano «quale fragile barriera sia il valore della dignità che ci protegge dallabarbarie».

Date queste premesse, l’avvio del discorso consente una domanda, forse peregrina ma in un certo sensopregiudiziale: quali sono i diritti cosiddetti fondamentali che possono fare a meno della dignità? È attorno aquesto interrogativo che si deve collocare il rapporto tra dignità e diritti. Nel prosieguo vedremo come lanozione di dignità non solo riassuma, ma costituisca il fondamento, o se vogliamo il presupposto, perl’esistenza di quelli. Si potrebbe dunque assegnare alla dignità il compito riassuntivo di comprendere tutti idiritti spettanti alla persona umana, proprio nel suo insieme. Si chiamino essi – in quest’ottica non fadifferenza – diritti fondamentali, diritti umani, diritti della personalità.

È costume separare taluni diritti della personalità, per esempio i fondamentali, l’eguaglianza e la libertà, epoi ovviamente la giustizia. Essi apparterrebbero alla sfera pubblica del loro esercizio, assai più che a quellaprivata. Per la verità, il trattamento che i diritti di libertà e di eguaglianza hanno nei testi di dirittocostituzionale occupa un posto assai esiguo. Spesso non si va al di là della loro definizione, magari a partiredalla Dichiarazione dell’89.

Un ulteriore chiarimento propedeutico. Degno di che cosa? Quando si parla di dignità, chi è che decide? Ladignità è nozione e valore riferito a se stessi, nel senso che sono io che decido della mia propria dignità, ladignità è rivolta verso me stesso? Oppure sono sempre io che decido qual è il grado di tollerabilità della miadignità verso gli altri, rivolta nei confronti degli altri? Oppure ancora: sono gli altri che decidono il grado direputazione sociale; è la società nel suo insieme che assegna dignità al cittadino, al lavoratore, ma anche alpovero, al disoccupato, al drogato, al carcerato, al migrante, al rifugiato? (e via di questo passonell’enumerare le peggiori circostanze nelle quali può mai trovarsi la condizione umana). Oppure sonoquesti soggetti, nella loro tragica umanità, che si rivolgono alla società per reclamare onorabilità erispettabilità?

Chi dobbiamo chiamare in causa? A chi dobbiamo rivolgerci? Proviamo a porre degli interrogativi su comefare quando abbiamo a che fare con la dignità. Per esempio, va da sé che tutti gli esseri umani ne sonocoinvolti, ma in qual modo? Il singolo che si trova in una determinata condizione di fatto, oppure è lasituazione di fatto che ne determina i limiti? Esiste un diritto alla dignità? C’è una misura, una casistica cuifar riferimento? Dov’è che la soglia oltre la quale quel principio è oltrepassato? Chi è che decide? Il

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tribunale della dignità; oppure è il singolo individuo che deve rivendicarne la lesione e pretenderne latutela?

Insomma, qual è la norma che ne governa l’esercizio; qual è il precetto che presiede alle sue violazioni? Essavuole esprimere l’idea di un alto ed eguale rango di ogni persona umana. Vuole esprimersi nellaconsiderazione universale dell’essere umano. È questa la vocazione cui con tanta enfasi è enunciata la suaperdurante validità. È un’idea così evidente che appare di comprensione intuitiva, osserva MarthaNussbaum, come vedremo più avanti. Ma anche la filosofa di Chicago dà in questo modo per scontato ilsenso della voce, che vuole esimere dal conf ronto o dalla definizione. In un curioso libro di difficilecollocazione, il filosofo francese Éric Fiat cerca di riassumere le concezioni della dignità in varie ed assaiopinabili tipologie; ne distingue cinque: concezione borghese, concezione monoteistica, concezionekantiana, concezione razionale, concezione moderna, dove per ciascuna specie sono narrati – a proposito oa sproposito – aneddoti e storielle in gran quantità, dove la parola intenderebbe trovare la sua conferma o lasua smentita. Tenta di dare una risposta a domande eterne: tutti gli uomini sono degni? o solamente imigliori; la dignità è intrinseca alla persona umana? o la si può perdere a causa di condotte o di situazioni;tutti gli uomini devono essere rispettati; c’è del sacro in tutti gli uomini?

C O S I M O M A R C O M A Z Z O N I , G I U R I S T A , H A I N S E G N A T O E H A S V O L T O R I C E R C H E I NV A R I E U N I V E R S I T À , I T A L I A N E , S O P R A T T U T T O S I E N A , E S T R A N I E R E , S O P R A T T U T T O I NF R A N C I A E N E G L I S T A T I U N I T I . É S T A T O H U M B O L D T - S T I P E N D I A T A L L ’ U N I V E R S I T À D IT Ü B I N G E N . S I È O C C U P A T O N E G L I A N N I R E C E N T I D I A S P E T T I G I U R I D I C I L E G A T IA L L E B I O T E C N O L O G I E E A L L A B I O E T I C A . O L T R E A L I B R I E S A G G I D E L R E P E R T O R I OC I V I L I S T I C O T R A D I Z I O N A L E , H A S C R I T T O O C U R A T O I V O L U M I :   U N A N O R M A G I U -R I D I C A P E R L A B I O E T I C A , ( 1 9 9 8 ) , T R A D . I N G L E S E   A L E G A L F R A M E W O R K F O R B I O E -T H I C S   ( 1 9 9 8 ) ,   U N Q U A D R O E U R O P E O P E R L A B I O E T I C A   ( 1 9 9 8 ) ,   E T H I C S A N D L A WI N B I O L O G I C A L R E S E A R C H   ( 2 0 0 2 ) ,   P E R U N O S T A T U T O D E L C O R P O   ( 2 0 0 8 ) ,   P S I C H EO L A F O R M A D E L C O R P O   ( 2 0 1 3 ) ,   L A P E R S O N A F I S I C A   ( 2 0 1 6 ) ,   I L D O N O È I L D R A M -M A   ( 2 0 1 6 ) . ( F E B B R A I O 2 0 1 9 )CATEGORIES

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La casa editrice Olschki, nata a Verona come Libreria Antiquaria Editrice nel 1886 e trasferitasi aFirenze nel 1897, ha mantenuto invariato nel tempo il progetto che ha contraddistinto le scelte delfondatore, Leo Samuel Olschki: costituire uno dei più efficaci vettori per la diffusione del pensieroitaliano nel campo delle scienze umane, a livello internazionale, garantendo sempre ladisponibilità delle proprie pubblicazioni, a beneficio degli studiosi e delle istituzioni culturali ebibliotecarie.

Le scelte della casa editrice, uno dei rari esempi di azienda editoriale rimasta per oltre un secolonella stessa famiglia, continuano a essere ispirate a criteri di rigore scientifico e di qualitàtipografica. La sigla “dal cuore crociato e diviso”, come la definì Gabriele D’Annunzio,rappresenta un punto di riferimento per gli studiosi, i bibliotecari, gli istituti culturali e leuniversità di tutto il mondo.

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