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L’ATOMO DI BOHR LA LEZIONE 1913 LA STRUTTURA ATOMICA E GLI SPETTRI PRIMA DI BOHR Agli inizi del 1913 il giovane fisico danese Niels Bohr di ritorno dall’Inghilterra elaborò il suo modello atomico dell’atomo di idrogeno a partire dalla spiegazione delle linee spettrali del più semplice degli atomi, prendendo in considerazione un aspetto fino ad allora trascurato nelle ricerche con Joseph John Thomson al Cavendish Laboratory di Cambridge e in quelle con Ernest Rutherford a Manchester. fig.1 Atomi di Thomson in tre dimensioni, costituiti da una sfera di carica positiva e da corpuscoli negativi all’interno fig.2 Radioelementi e i loro decadimenti secondo Rutherford La ricostruzione che Bohr diede della vicenda rimanda a una conversazione con uno spettroscopista danese. Eppure la teoria atomica era intimamente legata agli spettri e in particolare al valore di una costante comune a tutti gli elementi. Prima di tracciare la storia che porterà ai tre articoli di Bohr sulla costituzione degli atomi e delle molecole conviene chiarire fin da subito le conoscenze diffuse nei libri dell’epoca, riportando lunghi brani della seconda edizione del 1913 del manuale Modern electrical theory di Norman Robert Campbell, assistente di Thomson al Cavendish Laboratory. È probabile che il numero totale degli elettroni in un atomo non sia molto diverso dal numero che esprime il peso atomico. […] In ogni atomo ci sono alcuni elettroni che si possono più facilmente separare dall’atomo. […] Questi elettroni […] saranno chiamati elettroni di valenza. […] Se gli elettroni possono essere considerati dei punti carichi, un atomo non può essere costituito interamente da elettroni. Esso deve contenere anche una carica positiva e opposta alla somma delle cariche negative di tutti gli elettroni, che neutralizza gli effetti di queste cariche […] e lega gli elettroni. Due ipotesi principali sono state avanzate per la distribuzione di questa carica positiva. La prima suggerisce che questa sia distribuita uniformemente all’interno di una sfera coincidente con il raggio dell’atomo, la seconda propone che essa sia concentrata su una singola particella attorno alla quale siano disposti gli elettroni; secondo tale teoria

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L’ATOMO DI BOHR

LA LEZIONE

1913 LA STRUTTURA ATOMICA E GLI SPETTRI PRIMA DI BOHR

Agli inizi del 1913 il giovane fisico danese Niels Bohr di ritorno dall’Inghilterra elaborò il suo modello atomico dell’atomo di idrogeno a partire dalla spiegazione delle linee

spettrali del più semplice degli atomi, prendendo in considerazione un aspetto fino ad

allora trascurato nelle ricerche con Joseph John Thomson al Cavendish Laboratory di

Cambridge e in quelle con Ernest Rutherford a Manchester.

fig.1 Atomi di Thomson in tre

dimensioni, costituiti da una sfera di carica positiva e da corpuscoli negativi all’interno

fig.2 Radioelementi e i loro decadimenti secondo Rutherford

La ricostruzione che Bohr diede della vicenda rimanda a una conversazione con uno

spettroscopista danese. Eppure la teoria atomica era intimamente legata agli spettri e in particolare al valore di una costante comune a tutti gli elementi. Prima di tracciare

la storia che porterà ai tre articoli di Bohr sulla costituzione degli atomi e delle

molecole conviene chiarire fin da subito le conoscenze diffuse nei libri dell’epoca,

riportando lunghi brani della seconda edizione del 1913 del manuale Modern electrical

theory di Norman Robert Campbell, assistente di Thomson al Cavendish Laboratory.

“È probabile che il numero totale degli elettroni in un atomo non sia molto diverso dal numero che esprime il peso atomico. […] In ogni atomo ci sono alcuni elettroni che si

possono più facilmente separare dall’atomo. […] Questi elettroni […] saranno chiamati

elettroni di valenza. […] Se gli elettroni possono essere considerati dei punti carichi,

un atomo non può essere costituito interamente da elettroni. Esso deve contenere

anche una carica positiva e opposta alla somma delle cariche negative di tutti gli

elettroni, che neutralizza gli effetti di queste cariche […] e lega gli elettroni. Due

ipotesi principali sono state avanzate per la distribuzione di questa carica positiva. La prima suggerisce che questa sia distribuita uniformemente all’interno di una sfera

coincidente con il raggio dell’atomo, la seconda propone che essa sia concentrata su

una singola particella attorno alla quale siano disposti gli elettroni; secondo tale teoria

il raggio dell’atomo è una quantità non ben definita che rappresenta

approssimativamente la più grande distanza alla quale un elettrone si trova dalla

particella positiva. Queste due ipotesi non sono, naturalmente, le sole […], ma

entrambe sono sufficientemente semplici per permettere dei calcoli sulle proprietà

degli atomi. […] Le due ipotesi portano a differenti distribuzione degli elettroni all’interno dell’atomo. [Esperimenti] con raggi alfa e beta che penetrano corpi solidi

[fanno pensare] come più corretta l’ipotesi che la carica positiva sia concentrata su

una singola particella piuttosto che distribuita.”

Dopo essere passato in rassegna il modello di Thomson e quello planetario di

Rutherford, Campbell continuava: “Un atomo di peso atomico N è così costituito da un

numero vicino di N elettroni raggruppati intorno a una carica positiva. È bene

sottolineare che tale struttura è troppo semplice per dar conto delle proprietà dell’atomo. Consideriamo ad esempio lo spettro dell’idrogeno. Se l’idrogeno contiene

solo due o tre elettroni e una singola carica positiva, il numero di gradi di libertà del

sistema è certamente molto minore del numero di linee conosciute per lo spettro

dell’idrogeno e poiché il sistema non può avere più frequenze naturali dei gradi di

libertà, è assolutamente impossibile che una teoria così semplice possa dar conto della

complessità dello spettro.”

fig.3 La serie di Balmer

Secondo la fisica classica solo tantissimi elettroni, come spiegheremo tra breve, potevano portare a un numero elevato di righe spettrali, e per l’autore: “La struttura

dell’atomo dev’essere più complicata di quella proposta da entrambe le ipotesi che

abbiamo menzionato. […] D’altra parte, ci sono indizi che fanno intravedere come

possano essere ottenute strutture più complicate. Così il fatto che l’elio è prodotto

dalla disintegrazione di tutti gli elementi radioattivi ci suggerisce che l’atomo di elio è

in qualche modo un costituente degli atomi di quegli elementi. […] Ciò fa pensare che gli attuali elementi possano essere costituiti a partire da protoelementi. Altri

argomenti per la presenza in tutti gli atomi di qualche struttura comune più

complicata di quella di un elettrone debba essere basata sul numero N0, caratteristico

degli spettri di tutti gli elementi.” N. R. Campbell, Modern electrical theory, 1913,

pp. 335-338.

La sfida che dei semplici punti materiali dotati di carica spiegasse la regolarità e la molteplicità delle righe spettrali che Balmer, Rydberg, Ritz, Kayser e Paschen avevano

catalogato fu affrontata da Bohr che nel corso del 1913 presentò tre distinte memorie

pubblicate sulla rivista Philosophical Magazine, normalmente conosciute come trilogia.

La risoluzione del problema classico della stabilità radiativa dell’atomo di Bohr fu

risolta semplicemente ammettendo che un atomo in un’orbita stazionaria non

obbedisse più all’elettrodinamica, ma prima di parlare della soluzione di Bohr

all’enigma dello spettro dell’idrogeno conviene affrontare più dettagliatamente il problema della costante spettroscopica e i primi tentativi di introdurre la costante di

Planck nel modello atomico.

fig.4 Ritratto del giovane

Bohr

fig.5 Le orbite spiraleggianti di un

elettrone rotante intorno

a un nucleo positivo in un

modello planetario

classico in un disegno di

Bohr

GLI SPETTRI E LA FISICA CLASSICA

Dopo la scoperta dell’elettrone e fino al 1906, i dati sperimentali facevano propendere per un atomo popolato da un numero molto grande di elettroni. I modelli atomici

erano così creati con elettroni distribuiti su vari anelli o su altri tipi di configurazione

oscillanti intorno alle loro posizioni di equilibrio. Il gran numero di gradi di libertà

doveva spiegare dal punto di vista classico gli spettri osservati. La stabilità radiativa

dovuta all’accelerazione di un gran numero di corpuscoli, in accordo a Larmor,

Thomson, e Rayleigh, non era un problema insormontabile, ma la dipendenza della

frequenza degli spettri da numeri interi al quadrato, come indicavano le equazioni fenomenologiche, non poteva essere prevista dai modelli classici. Già nel 1885

Johannes Balmer aveva proposto un’equazione per le lunghezze d’onda delle righe

spettrali dell’idrogeno nello spettro visibile. Agli inizi del 1910 questa era esplicitata

nella forma:

λ=m2 /27418,75 (m2-4)

con m numero intero maggiore di tre; oppure nell’espressione equivalente:

λ-1=27418,75 (m2-4)/m2=109675,0 (1/22-1/m2),

con la costante spettroscopica N0= 109675,0 cm-1 calcolata da Friedrich Paschen nel

1908, dopo che aveva contribuito alle misure dello spettro normale del corpo nero.

Spesso il reciproco della lunghezza d’onda era indicato semplicemente dagli

spettroscopisti con il simbolo solitamente adottato per la frequenza e in questo caso il

“limite”, presente nella formula di Balmer, che si aveva per grandi valori di m,

coincideva con 27418,75 cm-1, uguale a N0/4. Rydberg e altri autori avevano inoltre

generalizzato l’espressione degli spettri principali di ogni elemento nella forma:

λ-1=A - N0/(n+μ)2,

con A e μ parametri caratteristici di ciascun elemento e N0 costante universale, n

numero intero. L’espressione precedente si riduceva a quella per l’idrogeno per μ=0.

Walther Ritz nel 1908 analizzando gli spettri dell’idrogeno e di altri elementi ricavò un

modellino atomico in cui le oscillazioni degli elettroni erano proporzionali alle velocità.

L’atomo magnetico di Ritz era costituito da una semplice calamita il cui campo H era

proporzionale alla differenza

1/r12-1/r2

2,

dove r1 e r2 rappresentavano le distanze dai due poli della calamita. Per arrivare alla

giusta dipendenza delle linee spettrali, la lunghezza del magnete era un multiplo

intero di uno spazio elementare

s: l=ns.

Come spiega Nadia Robotti, “In base a questo modello non solo potevano essere

variati i valori di r1 e r2 e quindi anche la lunghezza della calamita, ma la stessa calamita poteva essere ribaltata. In questo caso nell’espressione delle frequenze

sarebbero dovute essere presenti sia nuove righe, sia nuove serie […]. Questa

previsione del modello (ora nota come principio di combinazione di Ritz)[…] venne

immediatamente confermata da Ritz attraverso un’analisi puntuale degli spettri allora

disponibili. […] Sta di fatto che il modello di

Ritz […] apriva la via a considerare la frequenza delle righe spettrali come differenze

di due termini, che oltre tutto, attraverso

proprio il principio di combinazione,

diventeranno interscambiabili e del tutto

equivalenti.” N. Robotti, La fisica classica e

il problema degli spettri atomici, 1997

fig.6 Tavola sugli spettri di un manuale del

1913

fig.7 Pagina dell’articolo

W. Ritz, Magnetische

Atomfelder und

Serienspektren, 1908

fig.8 Pagina del lavoro F.

Paschen, Zur Kenntnis ultraroter Linienspektra, 1908

Su queste basi Ritz arrivò a prevedere per l’idrogeno, oltre la serie di Balmer, altre

righe indicando l’espressione spettrale di una linea:

ν=N(1-1/22)

dell’ultravioletto misurata dall’americano T. Lyman.

Una terza serie dell’idrogeno doveva riguardare l’infrarosso e soddisfare la formula:

λ-1=109675,0(1/32-1/n2), n=4, 5, …

Le prime due linee della nuova serie furono individuate da Paschen nel 1908. Si

iniziava ad affermare la possibilità di scrivere per lo spettro dell’idrogeno un’equazione

generale della forma:

λ-1=N0(1/m2-1/n2).

fig.9 La serie principale degli elementi era considerata come una funzione dipendente

dalla stessa costante spettroscopica nota oggi come costante di Rydberg

IL PRIMO TENTATIVO DI INTRODURRE LA COSTANTE DI PLANCK IN UN

MODELLO ATOMICO

Nel marzo 1910 l’Accedemia delle scienze di Vienna riceveva un lavoro di un giovane

abilitato in filosofia, esperto di storia della fisica, Arthur Erich Haas, Sul significato

della legge di radiazione di Planck e una nuova determinazione del quanto elementare

di carica e delle dimensioni dell’atomo di idrogeno.

Le reazioni iniziali dei fisici austriaci, come ricorda l’autore nella sua biografia, furono

di scherno, quella strana commistione tra costante di Planck, teoria atomica di

Thomson e costante dell’equazione di Balmer per la serie spettrale dell’idrogeno nel

visibile appariva quasi uno scherzo di carnevale. Gli studi di storia della fisica classica

di Haas erano accompagnati dall’interesse verso la moderna teoria della radiazione e

dell’atomo. La costante h era stata collocata da Planck in un sistema di unità naturali nelle Lezioni del 1906. Nel 1909 Einstein a sua volta metteva in relazione h con il

rapporto e2/c e nello stesso periodo W. Wien proponeva di indagare il significato fisico

della nuova costante grazie alle proprietà universali degli atomi. Haas aveva scritto

brevi osservazioni sulle nuove unità di misura e nel 1910 affrontò un modello

dell’atomo di idrogeno alla Thomson. Innanzitutto ipotizzò che il sistema fosse

costituito da un solo elettrone, mentre come abbiamo già ricordato il sistema per altri

doveva essere più complesso. La carica positiva necessaria per rendere l’atomo neutro era diffusa su una sfera di raggio r (il simbolo originale dell’autore è 'a'). All’estremità

della sfera ruotava la carica negativa. L’interazione tra cariche coincideva con quella di

un modello planetario costituito da una carica positiva centrata nell’origine. La forza

Coulombiana e2/r2 (la costante nel sistema elettrostatico era posta uguale a 1), era,

per la seconda legge della dinamica, uguale al prodotto:

mω2r=mr(2πf)2.

L’imposizione di una condizione quantistica (una pratica comune tra i giovani

interessati alla teoria dei quanti)

hf= e2/r,

dove f era la frequenza meccanica di rotazione dell’elettrone, permetteva ad Haas, isolando f e sostituendola nell’equazione del secondo principio, di ottenere un legame

tra il raggio dell’atomo di Thomson, l’unico al quale ricordiamo era attribuito un

significato fisico preciso, e la costante h. Per questa doveva valere la relazione h=

2πe(rm)1/2, conoscendo il quanto elementare e la massa dell’elettrone si poteva allora

ricavare la costante di Planck.

Per inciso l’equazione precedente esplicitata rispetto a r porta alla costante oggi

universalmente conosciuta come raggio di Bohr.

I risultati di Haas non si limitarono al legame tra queste costanti. L’indeterminazione

sulle misure sperimentali del quanto elementare di carica lo spinse ad affidarsi

all’equazione di Balmer calcolata nel limite per il numero intero tendente a infinito

della “frequenza” (l’inverso della lunghezza d’onda) pari alla costante N0/4=27418,75

cm-1. Il valore della costante spettroscopica, una volta accettato che la frequenza

radiativa ν era uguale a quella meccanica f, poteva essere scritto come combinazione di h, e, m.

Molti anni dopo Haas in un libro sulla teoria atomica scriveva: “Comparando la formula

derivata da Bohr per via teorica e quella empirica stabilita da Balmer, noi otteniamo

[…] la relazione

N=2π2me4/ch3.

Questa relazione, che connette la costante fondamentale della spettroscopia con le quantità fondamentali della teoria dell’elettrone e del quanto elementare di azione, fu

per la prima volta ottenuta dall’autore di questo libro nel 1910.”

Per poi precisare meglio in una nota “[La mia]derivazione nella quale il principio

quantistico era applicato per la prima volta alla teoria dell’atomo, era comunque

basata sul modello di atomo alla Thomson e quindi portò a un fattore numerico non

corretto (invece del valore esatto due).” A. Haas, Einführung in die theoretische

Physik, 1921

fig.10 Pagina del manuale A. Haas, Einführung in die theoretische Physik, 1921

In effetti la derivazione di Haas portava, utilizzando il simbolo della costante spettroscopica, all’equazione N0=16π2me4/ch3 con un fattore otto volte più grande di

quello successivo di Bohr del 1913.

L’equazione che collegava proprietà spettroscopiche e costanti microscopiche era

impiegata dall’aspirante fisico austriaco per una determinazione del quanto di

elettricità a partire dai dati spettroscopici. Il valore indicato, pari a 3,1 10-10 ues, era

lontano da quello indicato da Planck nel 1900 (4,69 10-10) o Rutherford, ma vicino a misure del laboratorio di J. J. Thomson.

L’ironia con la quale fu accolta la memoria di Haas fu abbandonata grazie agli

apprezzamenti di Hendrik Lorentz. Il premio Nobel della fisica parlò dell’articolo di

Haas per la prima volta nelle sue Lezioni dell’ottobre 1910. L’ipotesi di partire da

costanti molecolari per valutare h fu poi ripresa da Arthur Schidlof. Il cambiamento di

atteggiamento del corpo accademico austriaco fu sancito dalla libera docenza di Haas

in Storia della fisica. Nel 1911 durante il I Congresso Solvay, Paul Langevin, Arnold

Sommerfeld, Hendrik Lorentz e Max Planck discussero brevemente della teoria di

Haas. Con Sommerfeld che sentenziava sulla preferenza di un approccio basato su

principi generali piuttosto che su modelli particolari. Dopo pochi anni avrebbe partecipato alla fondazione di una prima teoria atomica legata alle equazioni

fenomenologiche spettrali.

1913 LA TRILOGIA DI BOHR

Di ritorno dalla sua ricerca svolta nel Laboratorio di Cambridge e a Manchester, Bohr era alle prese con la stabilità del modello planetario di atomo e con un abbozzo di

teoria capace di spiegare la periodicità degli elementi a partire dal numero degli

elettroni che lo costituivano.

Come argomentava nel primo articolo della trilogia: “per spiegare i risultati degli

esperimenti di diffusione dei raggi alfa nella materia il prof. Rutherford ha proposto

una struttura degli atomi. In accordo a questa teoria, l’atomo consiste di un nucleo

circondato da un sistema di elettroni legati al nucleo da forze attrattive; la carica totale negativa degli elettroni è uguale alla carica positiva del nucleo. Inoltre il nucleo,

assunto come principale costituente della massa dell’atomo, ha dimensioni lineari

eccezionalmente piccole se confrontate con quelle dell’intero atomo. Il numero di

elettroni è dedotto essere approssimativamente uguale alla metà del suo peso

atomico. […] Il tentativo di spiegare alcune proprietà della materia sulla base di

questo modello atomico incontra, comunque, difficoltà di seria natura; dovute all’apparente instabilità dei sistemi di elettroni: difficoltà che non avevano i modelli di

atomo precedentemente considerati, per esempio, quello proposto da sir J. J.

Thomson.” N. Bohr, On the constitution of atoms and molecules I, 1913, p. 1

Il problema classico della radiazione emessa da una carica accelerata, che avrebbe

provocato un’orbita spiraleggiante dell’elettrone verso il nucleo, fu risolto dal giovane

fisico danese ammettendo, come del resto gli spettri indicavano, l’esistenza di stati

stazionari in cui il sistema semplicemente non emetteva energia. Questi stati stazionari potevano essere descritti dall’ordinaria meccanica classica con forze di tipo

elettrostatico come aveva già indicato Haas. Solo il passaggio tra differenti stati

stazionari doveva invece essere regolato dalla costante di Planck in modo che la

differenza di energia tra due stati fosse il prodotto tra la costante di Planck e la

frequenza della radiazione monocromatica emessa. Rimaneva la questione di legare la

frequenza meccanica di rotazione e quella radiativa. L’atomo di idrogeno era allora, proprio perché il più semplice e il più studiato, il candidato migliore per esemplificare

la nuova teoria. L’atomo di Bohr era composto da un singolo elettrone ruotante

intorno a nucleo positivo. Oggi l’immagine è scontata, anche se parliamo di protone

invece di nucleo, ma nel 1913 anche questa semplice assunzione non lo era.

Trascurando la massa dell’elettrone rispetto a quella del nucleo (considerata in questo

modo come infinita) l’orbita risultava circolare se le perdite di radiazione potevano essere considerate nulle.

Il modello planetario secondo l’approssimazione elettrostatica era descritto

dall’equazione del moto circolare

mr(2πf)2= e2/r2

(che rispetto ai manuali odierni non presenta il termine 1/4πε0) con f frequenza

meccanica di rivoluzione (nei primi venti anni del secolo si era soliti introdurre questa

equazione parlando di forza centrifuga). La scelta dell’energia del sistema che poi

doveva essere quantizzata con l’introduzione della costante h poteva essere

molteplice. Nel 1912 Bohr aveva pensato all’energia cinetica dell’elettrone pari a:

m(2πfr)2/2= e2/2r;

Haas nel 1910 aveva optato per il modulo dell’energia potenziale e2/r . Se si calcola

l’energia totale (cinetica più potenziale) del sistema si scopre che essa è, a parte il

segno, uguale all’energia cinetica: e2/2r - e2/r=-e2/2r. Accanto allo studio dei primi

modelli atomici, Bohr aveva finalmente approfondito le equazioni fenomenologiche di

Balmer, Paschen e Ritz probabilmente a partire dalla lettura del libro di J. Stark,

Prinzipien der Atomdynamik, del 1911, tanto che alcune note dell’articolo richiamavano esattamente gli stessi lavori citati dal fisico tedesco (in particolare quelli

legati a Haas e alla prime applicazioni della costante h al modello atomico).

La scoperta da parte di Bohr delle serie spettrali fu una folgorazione. L’atomo non

doveva avere un solo raggio e un solo stato possibile, anche se quello più stabile era

importante, ma un insieme di stati discreti caratterizzati da un numero intero n. Il

raggio di Haas dell’atomo di idrogeno r= h2/4π2e2m

(anche Bohr utilizza la lettera 'a' per il raggio, ma qui, per evitare fraintendimenti,

abbiamo preferito modificare alcuni simboli per avvicinarli a quelli odierni)

conseguenza dell’equazione dinamica e della quantizzazione: hν= e2/r, nell’ipotesi che

la frequenza meccanica e quella di radiazione fossero uguali, veniva generalizzato da

Bohr nella forma:

r= n2h2/4π2e2m,

attraverso due assunzioni: 1) l’energia totale dell’elettrone doveva essere esprimibile

attraverso un multiplo intero del quanto di energia: nh; 2) la frequenza della

radiazione omogenea emessa era uguale alla metà della frequenza di rivoluzione

dell’elettrone: ν=f/2. Le energie di legame, necessarie per passare da una distanza grandissima all’elettrone legato in uno stato stazionario al nucleo, erano allora uguali

a:

E= 2π2e4m/ n2h2.

Il primo livello di energia (n=1) era considerato il più stabile. Con i valori delle

costanti reperibili in letteratura (e=4,7 10-10, e/m= 5,31 10-17, h=6,5 10-27) Bohr

otteneva per il raggio della prima orbita r= 0,55 10-8 cm, per la frequenza di rotazione 6,2 1015 Hz e per il potenziale di ionizzazione: E/e=13 V. L’obiettivo della prima

memoria era quello di trovare una corrispondenza tra modello atomico e formule

spettrali dell’idrogeno. Le serie spettrali dell’idrogeno erano raggruppate da Bohr nella

forma:

frequenza di radiazione ν=cλ-1=N0c(1/m2-1/n2)

dipendenti da due numeri interi; con m=2 si aveva la serie di Balmer (n maggiore di

3); con m=3 (e n maggiore di 4) quella di Paschen e così per ogni valore fissato di m. Il valore della costante spettroscopica (109675,0 cm-1) per la velocità della luce nel

vuoto (3 1010 cm/s) era uguale a 3,290 1015 Hz. Interpretando la differenza tra i due

livelli energetici divisa per la costante di Planck come frequenza emessa dall’elettrone,

la costante N0c diveniva esprimibile attraverso l’equazione: 2π2me4/h3. Con i soliti

valori delle caratteristiche dell’elettrone e della costante di Planck, 2π2me4/h3 era

uguale a 3,1 1015 Hz, diverso ma non lontanissimo dal valore deducibile dalle misure spettrali dell’idrogeno.

Nella seconda memoria, probabilmente considerando l’uguaglianza:

2π2me4/h3= 2π2e2/(e/m)(h/e)3,

e grazie ai valori proposti da R. Millikan nel 1912 (e=4,78 10-10), da P. Gmelin

(e/m=5,31 1017) e da A. H. Bucherer (e/h=7,27 1016), arrivava a una conferma molto

più stringente: 3,26 1015 Hz.

fig.11

Pagina

dell’articolo

N. Bohr, On

the

constitution of atoms

and

molecules I,

1913

fig.12 Pagina dell’articolo

N. Bohr, On the

constitution of atoms and

molecules II, 1913

Anche Haas aveva, tre anni prima di Bohr, messo in relazione la costante di Balmer

con le costanti microscopiche, ma per il fisico austriaco la “frequenza” limite non era la

costante spettroscopica, ma il valore verso il quale addensavano le linee spettrali, uguale, per la serie di Balmer, a N0/4=27418,75 cm-1, inoltre egli considerava

l’energia come e2/r a differenza di Bohr che privilegiava e2/2r. Complessivamente un

fattore otto differenziava le due trattazioni. Ciò nasceva essenzialmente dalla mancata

conoscenza del valore del quanto elementare di carica nel 1910. Secondo Haas la

carica elementare era uguale a 3,1 10-10, mentre per Bohr, in accordo a Planck, il

valore più attendibile diventava 4,7 10-10. Non a caso il rapporto tra (eBohr/eHaas)5=8,01, proprio perché in prima approssimazione si possono considerare le

due espressioni spettroscopiche proporzionali alla quinta potenza della carica

elementare (il fattore 5 tiene conto che anche la massa dell’elettrone era calcolata a

partire dalla carica elementare).

fig.13 Linee spettrali

dell’idrogeno (A. Haas, Atomic theory

an elementary

exposition, London

1935)

Haas non aveva certo in mente di giustificare le espressioni degli spettri dell’idrogeno,

mentre Bohr non solo otteneva una corrispondenza precisa tra costante spettroscopica

e costanti naturali, ma prevedeva vecchie e nuove linee spettrali dell’idrogeno.

Inserendo nella sua espressione cλ-1=N0c(1/m2-1/n2) il valore m=1 si aveva ad

esempio per l’idrogeno la serie a cui Lyman stava lavorando con le misure nell’ultravioletto (come abbiamo già ricordato era conosciuto il valore della prima riga

spettrale della serie) e che saranno pubblicate l’anno successivo in un libro che non fa

nessuna menzione dei lavori di Bohr: T. Lyman, The spectroscopy of the extreme

ultra-violet, 1914.

fig.14 Tavola del libro T. Lyman, The spectroscopy of the extreme ultra-violet, 1914

I livelli energetici dell’idrogeno rappresentati a partire dalle orbite circolari o secondo

linee parallele saranno arricchiti negli anni seguenti da altre serie nell’infrarosso oltre

quelle di Paschen.

fig.15 Serie spettrali e orbite circolari nell’idrogeno (A. Haas, Atomic theory an

elementary exposition, London 1935)

fig.16 Serie spettrali e livelli

energetici nell’idrogeno (A.

Haas, Atomic theory an

elementary exposition, London 1935)

La scoperta della formula di Balmer da parte di Bohr è stata ricostruita dall’autore

della trilogia associandola ad alcune discussioni con lo spettroscopista danese Hans

Marius Hansen. Certo è che almeno tre articoli citati da Bohr nella sua prima memoria

(datata aprile, spedita a Rutherford il mese prima e pubblicata nel mese di luglio sulla

rivista Philosophical Magazine) esplicitavano tale equazione: Ritz 1908, Paschen 1908 e Haas 1910. Il teorico danese in seguito cancellò quasi del tutto Haas dai suoi ricordi,

negando in alcune interviste di conoscere la sua teoria. I riferimenti di Bohr al fisico

austriaco nella prima memoria erano limitati a poche frasi. ”L’accordo con l’ordine di

grandezza dei valori assunti dalla frequenza e dalle dimensioni degli atomi e i valori

per queste quantità calcolate con considerazioni simili a quella data sopra, sono state

l’oggetto di molte discussioni. Ciò è stato sottolineato dapprima da Haas, in un tentativo di spiegare il significato e il valore della costante di Planck sulla base del

modello atomico di J. J. Thomson, attraverso le dimensioni lineari e la frequenza

dell’atomo di idrogeno.” N. Bohr, On the constitution of atoms and molecules I,

1913, p. 5

L’articolo citato da Bohr, come già aveva fatto Stark nel suo manuale, era il breve A.

E. Haas, Der Zusammenhang des Planckschen elementaren Wirkungspuantums mit

den Grundgröβen der Elektrontheorie, Jahrbuch der Radioaktivität und Elektronik, 7, 261-268, 1910, mentre Lorentz al primo Congresso Solvay parlava del lavoro di Haas:

Über eine neue theoretische Bestimmung des elektrischen Elementarquantums und

des Halbmessers des Wasserstoffsatoms, Physikalisches Zeitschrift, 537-538, 1910.

Entrambe le memorie erano tratte dall’originale e molto più elaborato: A. Haas, Über

die elektrodynamische Bedeutung des Planck’schen Strahlungsgesetzes und über eine

neue Bestimmung des elektrischen Elementarquantums und der Dimensionen des Wasserstoffsatoms, Sitzungsberichte der kaiserlichen Akademie der Wissenschaften in

Wien, 119, 119-144, 1910. Probabilmente Bohr non fu indirizzato verso gli spettri dai

lavori di Haas e le sue conoscenze sull’argomento possono essere state mediate dal

manuale di Stark.

Bohr, paradossalmente, riconobbe invece un ruolo di precursore al matematico John

William Nicholson, alle prese nel 1912 con un’interpretazione degli spettri che lo

portava a parlare di proto elementi, costante di Planck collegata al momento angolare.

Nella seconda parte della trilogia Bohr, invece di utilizzare la strana condizione:

E=nhf/2,

che per la prima volta negava esplicitamente l’uguaglianza tra frequenza meccanica e

radiativa, introdusse la costante di Planck in una forma più vicina alle dimostrazioni

presenti nei libri liceali. Imponendo l’equazione:

2πrp=nh,

con p quantità di moto. “Assumiamo -scriveva - che gli elettroni siano disposti a uguali

intervalli angolari in anelli coassiali ruotanti intorno al nucleo. Per determinare le

frequenze e le dimensioni degli anelli noi useremo l’ipotesi principale[…] che in uno stato stazionario il momento angolare di ogni elettrone che ruoti intorno al centro

della sua orbita sia uguale alla costante universale h/2π.” N. Bohr, On the

constitution of atoms and molecules II, 1913, p. 477

Accanto alla derivazione delle linee spettrali dell’idrogeno, Bohr trattava un modello

con un nucleo avente una carica Ze e un singolo elettrone ruotante intorno ad esso

(elio ionizzato, litio, ecc.) che già nella prima memoria era servito per giustificare una costante spettroscopica, in conformità con la teoria di Rydberg, uguale per tutti gli

elementi. L’equazione per la frequenza dell’elio (numero atomico Z=2) era riscritta

nella forma:

ν=2π2me4/h3 [1/(m/Z)2-1/(n/Z)2] = 2π2me4/h3 [1/(m/2)2-1/(n/2)2]

e confrontata con le linee spettrali attribuite da Charles Pickering nel 1896 a una sorta

di proto idrogeno non presente sulla Terra, invece che all’elio.

fig.17 Confronto tra serie di Balmer e quella di Pickering

Nel corso del 1914 Bohr discusse, per meglio far corrispondere la sua teoria alle

misure di Fowler, un modello leggermente più elaborato nel quale la costante di

Rydberg non fosse ottenuta semplicemente assumendo la massa del nucleo infinita. In

termini moderni la costante di Rydberg per un nucleo di massa M è uguale al valore di

Rinfinito corretto secondo il termine 1/(1+m/M). Infine nella trilogia Bohr presentava

uno schema, limitato agli elementi leggeri, basato sul numero otto per cercare di

spiegare la disposizione degli elettroni negli atomi.

fig.18 Elementi ed elettroni

secondo Bohr nel 1913

Per il suo modello atomico Bohr, solo quattro anni dopo Planck, ricevette nel 1922 il

premio Nobel per la fisica. Durante la sua lettura, del mese di dicembre, poté

finalmente mostrare una disposizione della tavola periodica degli elementi secondo le

caratteristiche elettroniche degli stessi, sfruttando l’enorme mole di lavoro che la sua

teoria aveva prodotto.