Kronos - Versione di assaggio - Edizioni Della Vigna · to di vomito lo colse, anche questo...

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Claudio Chillemi

Kronos

Edizioni Della Vigna

Fermenti n. 3

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Pubblicato per accordi intercorsi direttamente con l’autore.Copyright ©2009 Claudio ChillemiCopyright ©2009 Edizioni Della Vigna

Copertina di Alexa Cesaroni, ©2009

Illustrazioni interne di Franco Brambilla, ©2009

L’immagine usata come separatore tra i paragrafi all’interno dei racconti è©iStockphoto.com/Jamie Farrant

Per la presente edizione,©2009 Edizioni Della Vigna di Petruzzelli Luigi - Arese (MI).

È vietata la riproduzione, anche parziale, senza il consensoscritto dell’editore.

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ISBN 978-88-6276-022-5

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Indice

Kronos .................................................................... 7Nota biobibliografica ....................................... 285

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1.

Dormiva la casa sulla collina.Le finestre buie erano occhi cerchiati di sonno. Le

stanze vuote menti assopite senza pensieri.Strani, mobili e suppellettili, sedie e piantane: fer-

mi, immobili, dopo aver vissuto per tutto il giorno.Chi cercava la vita, l’avrebbe trovata al primo piano.Dormiva anch’essa, come la casa. Dormiva tranquil-

la. Un padre, una madre, due figli.Due figli, un maschio e una femmina, adagiati nei

loro letti, con un respiro regolare, sereno, musicale. Sequalcuno avesse potuto scrutare nelle fantasie nottur-ne di quelle piccole teste non avrebbe colto nulla di stra-no. Il verde del prato, il rosso e il giallo dei giochi, l’azzur-ro del cielo. Un film a colori sognato nel buio della notte.

Leggere i sogni. La mente. Il pensiero. Forse questoavrebbe potuto spiegare ogni cosa. La mano ferma cheapre un’anta di vetro; la stessa mano che estrae dallabacheca un coltello; il coltello del rito familiare annua-le. L’incedere nervoso e incerto. Un respiro affannoso eirregolare. E poi? Giù, febbricitante, seduto come unoggetto, a guardare il vasto salone d’ingresso, con lamano nervosa a stringere sudore e coltello, in un colpo.

E di colpo saltare all’impiedi, dondolando per riac-quistare stabilità.

Il salotto, fabbricato sul finire del Novecento, impre-ziosito da una serie di animaletti di vetro soffiato com-prati dalla nonna della nonna, un secolo prima a Vene-zia; questi furono i primi a cadere, vittime dell’insanafuria che si liberò non vista. Caddero senza fare rumo-re, il leone, l’elefante, perfino l’imponente giraffa. Siruppero in mille pezzi e scivolarono via mossi da unpiede frettoloso. Quindi fu il turno di un piccolo vasoche si frantumò in più parti, e rivelò dei piccoli rispar-mi nascosti nel suo fragile ventre.

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L’ombra, però, non si fermò un momento. Incurantedel rumore prodotto proseguì la sua corsa furiosa, bran-dendo la lama che nel buio non riluceva per nulla. Isuoi passi felpati iniziarono lentamente a salire le scaleche portavano al piano superiore, dove dormivano gliabitanti di casa Kronenberg, la casa sulla collina.

«Mamma,» si sentì mormorare. L’ombra non parveturbata e continuò il suo sinistro cammino. «Mamma,»mormorò un biondo bambino assonnato, che con fareinfastidito si copriva gli occhi con la mano. «Mamma.»E un fiotto di sangue gli uscì dalla gola; e un altro dalbraccio e, dalla gamba, un altro ancora. Si piegò su sestesso, senza gridare, senza dir nulla, con la voce spez-zata da una lama che gli aveva reciso la carotide. Egiacque inerme ai piedi dell’ombra.

Qualcun altro, però, aveva sentito.Dalla porta aperta da poco, uscì una bambina. I suoi

piedi scalzi calpestarono il sangue ancora caldo del fra-tello, ma non lo riconobbero. «Mamma,» anche lei mor-morò, prima che la sua voce fosse spenta da uno stra-no bagliore che le precipitò addosso sfregiandole il viso.Anche lei cadde all’istante, ferita sul volto, sul petto,nella mano con cui si difendeva. Riposò sul corpo delbimbo morto da poco, anche lei priva di vita.

L’ombra non li guardò nemmeno, aggirò i due tristicadaveri e si avviò verso una porta chiusa.

Dormivano là i padroni di casa.Fu facile entrare senza fare rumore, e la stanza ap-

parve immersa nel buio. Sul letto s’intravedeva il corpodi un uomo, illuminato a tratti da bagliori di luce chegiungevano da un’ampia finestra. Da qui l’ombra potévedere i rami di una grande quercia mossi dal vento, ela Luna, che non era ancora svanita dietro le montagnea sud. Furono questi gli unici testimoni di quello chestava per accadere.

La lama si sollevò lentamente, rimase per un mo-

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mento sospesa. Ma, in quello stesso momento, una raf-fica di vento più impetuosa delle altre mosse uno deirami della quercia con tale forza da rompere il vetrodella finestra. L’uomo che dormiva ignaro, svegliato daquel rumore improvviso, sembrò per un attimo indeci-so sul da farsi, poi vide l’ombra accanto a sé, la lucetagliente dell’arma, e realizzò in un istante il pericoloimminente. Afferrò il polso dell’assassino, e lo fermò unmomento prima che vibrasse il colpo mortale. Quindi,gli diede un forte spintone e lo costrinse ad allontanar-si. «Sara... Sara,» gridò l’uomo chiamando la moglie, chepresumeva dormisse accanto a lui; e, senza perdersi d’ani-mo, si gettò sull’ombra continuando la colluttazione.

Un forte vento entrava dalla finestra rotta. La stan-za era in preda a una turbinosa tempesta che muovevale bianche tende come fossero tristi fantasmi. In quel-l’irreale teatro si stava consumando una lotta furiosa,dove l’uomo combatteva col proprio assalitore, senzache qualcuno gli venisse in aiuto. «Sara... Sara,» conti-nuava a chiamare, senza ricevere alcuna risposta. E lalama lo colpì tre volte, una al torace, una all’avambrac-cio sinistro, una allo zigomo destro. Ma nulla lo fecearretrare, continuò la sua lotta senza tregua, spingen-do e ricevendo spinte, colpendo, ed essendo colpito asua volta. Poi, quando la sua mente realizzò il cruentodestino della sua famiglia, prese con sé tutte le forze espinse l’ombra verso la finestra aperta.

Un grido, dei rami spezzati, una pesante caduta, loconvinsero che era tutto finito.

Lui, ansimante, ma non domo, si buttò a capofittonel letto. «Sara... Sara!» gridò una e più volte, mentrestrappava lenzuola e coperte alla ricerca della moglie.Convinto, dopo pochi istanti, che la donna non era piùlà, uscì come un lampo dalla stanza, e si precipitò ver-so le scale. Non vide i corpi dei bambini che giacevanoin una pozza di sangue, e inciampò pesantemente, ca-

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dendo sulla soffice moquette. Si voltò di scatto, e unabionda ciocca di capelli colpì la sua vista. Seduto perterra indietreggiò inorridito, poi si portò la mano allabocca, trattenendo un grido di dolore.

Le lacrime sgorgarono da sole, senza che lui le vo-lesse chiamare.

Bagnarono le guance, rigarono il collo, scivolaronolungo la mano che non lasciava le labbra. Poi, un cona-to di vomito lo colse, anche questo profondamente istin-tivo. Un’innata pudicizia gli impedì di sporcare per ter-ra e, trascinandosi lentamente, si rifugiò nel bagno. Nonaccese neanche la luce e, riverso sulla tazza del water,pianse e vomitò, vomitò e pianse, per parecchi minuti.L’acre sapore del suo stomaco gli rimbombò nel cer-vello, annebbiando pietosamente il suo dolore. Me-scolava singulti e sospiri nella vaga speranza che ilsuo corpo prima o poi si fermasse. Poi chiese allasua povera anima di sopportare. Sopportare il terro-re e il dolore.

Non ebbe nessuna risposta.Uscì dalla stanza in cui aveva trovato temporaneo

riparo, con in bocca ancora quel nome. «Sara... Sara...»Ma anche questo grido non ottenne risposta.

Si avvicinò ai corpi dei figli caduti. Li guardò comein un film: su uno schermo in penombra. Come nonfossero cosa sua. Lontani, nella irrealtà. Li ricomposecon dolce coraggio, come giochi di un’infanzia perduta.

Scese lentamente le scale.Il vasto salone era immerso nel buio. Fece alcuni

passi titubanti e si ferì i piedi nudi con la probosciderotta dell’elefante di vetro. Non gridò, non ritrasse l’ar-to, continuò semplicemente il suo cammino, come senulla fosse avvenuto. Voleva guadagnare l’uscita, vole-va vedere negli occhi l’assassino che aveva distrutto lasua famiglia, che gli aveva annientato la vita.

«Sara... Sara,» chiamò ancora una volta, sospettan-

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do, ogni minuto di più, che la moglie fosse morta insie-me ai suoi figli.

Il vento lo colpì in pieno viso, quando aprì la portad’ingresso. L’aria era pungente, ma lui non ebbe nes-suna difficoltà ad affrontarla con indosso un leggeropigiama. Sentiva il freddo riempirgli le ossa, lo assapo-rava come dolce anestetico per il suo dolore.

Camminò, sicuro e spedito, fino al luogo dove avevavisto cadere quell’ombra che l’aveva aggredito. Mano amano che avanzava verso quel corpo inerme, un so-spetto inquietante gli colpì la mente. I suoi passi si fe-cero lenti, ancor più lenti, quasi si fermò ai limiti del-l’ombra. «Sara... Sara,» gridò come non aveva mai gri-dato prima.

Il corpo della moglie giaceva sul prato, con ancorain mano la lama.

2.

Una luce che dondola luccicante dal soffitto, unlampadario, un vecchio lampadario del Novecento chesi muove spinto da una forza misteriosa. Gli occhi chestentano a mettere a fuoco, poi il buio. Quando le pal-pebre si riaprono ancora buio nero pece e puzza di muffae polvere stantia. L’uomo si alza e barcolla nell’oscuritàper qualche minuto. In mente ha ancora il ricordo diquella luce che pendola ai due lati del suo cervello. «Dovesono?» si chiede ad alta voce sperando che qualcuno glidia una risposta. «Dove sono?» ripete ossessivamentesenza ricevere alcuna indicazione. La stanza è deserta,le altre camere lo sono di più; polvere e muffa le abita-no quasi ovunque. Poi, ancora una volta, un torporestrano e il buio, un buio innaturale, vacuo, senza spes-sore, molto simile al nulla.

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L’uomo dormiva riverso vicino al camino. I suoi abitilogori e stropicciati testimoniavano una lunga perma-nenza in quella posizione. Erano passate trentasei oredall’ultimo risveglio, e le sue mani iniziarono a tastareil terreno intorno a sé. «Dove sono?» si chiese ancorauna volta riaprendo gli occhi. A fatica assunse la posi-zione eretta, si spolverò i pantaloni e il grembiule cheindossava sulla camicia, passò la mano sul viso e, istin-tivamente, cercò qualcosa per mettere a fuoco la vista.Ma, dei suoi occhiali, nessuna traccia, allora strizzò lepupille e si guardò intorno. «Sembra casa mia...» mor-morò. Poi rifletté un attimo. No, non lo è, ma vi assomi-glia molto. Abbozzò i primi passi, e sentì tutta la debo-lezza di un corpo affamato e assetato. Si chiese per quan-to tempo fosse rimasto privo di sensi. Il ricordo del suolaboratorio lo assalì, insieme a strani intervalli di luci eombre e uno strano odore. «Come sono finito qui?»,mormorò a bassa voce. Si fece forza, le sue ginocchiatremarono sotto la spinta della volontà, ma reagirono ecoordinarono i primi passi.

«Questa non è casa mia, ma vi assomiglia molto,» siripeté per darsi una ragione. «Maledizione, dove saran-no finiti gli occhiali!» imprecò guardandosi intorno. «Maguarda! Quel quadro è identico a quello della povera ziaTania!» disse a mezza voce e, barcollando, riuscì a rag-giungere una finestra.

L’aprì e vide il sole entrare trionfante tra le mura.All’esterno, una splendida giornata illuminava la cittàdi Amburgo, mentre degli aeroveicoli viaggiavano tra lenuvole alte nel cielo, sul grande lago al centro della cit-tà. Pensò con soddisfazione che fuori era tutto uguale acome l’aveva lasciato, ma dentro? Dentro cosa era ac-caduto? Trascinò il suo corpo nelle altre stanze e videpolvere e sudiciume un po’ dappertutto.

«La pulizia è stata trascurata, ultimamente,» com-mentò ad alta voce non senza un sogghigno.

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Quindi, mentre stava distrattamente visionando al-cuni soprammobili, la sua attenzione fu attirata da unvecchio vaso che troneggiava su una credenza.

«Non sarà casa mia, ma l’orrendo regalo di Williamsta ancora al suo posto!» borbottò a mezza voce conti-nuando nel suo sarcastico commento.

Prese una sedia, l’accostò al muro e vi salì. Lo accol-se una nuvola di polvere che si alzò spinta dal suo re-spiro. L’uomo tossì più volte, allontanò quell’aria insa-lubre con un veloce movimento delle mani, poi mise afuoco l’oggetto della sua attenzione. «Questo orrore Madein China della fine del secolo scorso è stato comunquecassaforte preziosa per i miei risparmi,» sussurrò trasé. «O, almeno, per quelli del proprietario di questa casa,»concluse con un sospiro. Afferrò il vaso, lo girò a testasotto e una manciata di piccoli dischetti di plastica caddeai suoi piedi. Li prese tra le mani e li contò accurata-mente. Erano quasi cinquemila global: una buona cifra,pensò gongolante. Ora, però, doveva uscire dalla casa etrovare delle risposte, e doveva farlo subito.

Si diresse con sicurezza verso quella che doveva es-sere una porta d’ingresso ma, nella foga, inciampò inun tappeto e cadde investendo un tavolo pieno di so-prammobili. Il rumore fu fragoroso. L’uomo si alzò velo-cemente all’impiedi, si pulì dalla polvere che lo avevainsozzato, poi si diede un contegno, non senza sorrideresotto i baffi color della muffa. «Spero proprio che sia ladebolezza e non la vecchiaia!» si disse a mezza voce cer-cando di giustificare i suoi goffi movimenti. Ma il frastuo-no aveva attirato l’attenzione di qualcuno che, vociando,irruppe in casa, pretendendo ben altre spiegazioni.

Maria Sutter, padrona dell’immobile, grassoccia erubiconda, lo investì con tutta l’arrogante prosopopeadel suo ruolo.

«Chi è lei? E cosa ci fa qui?» disse agitando l’indicecome un bastone acuminato.

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«Ecco... Io... Io, sono Joseph Stein...» balbettò l’uomo.«La manda l’agenzia?»«Sì... Già, proprio...»«A beh! Se è così. Ma mi deve ripagare i danni, e

spiegare come ha fatto a entrare.»«Per i danni non ci sono problemi,» prese una man-

ciata di dischetti e li porse alla sua interlocutrice. «Eccocinquecento global, credo che bastino, no?»

«Eccome! Ma come è entrato in casa?» disse la don-na con sguardo avido, mostrando i bianchissimi dentiche contrastavano con il rossore delle sue gote.

«Credevo bastassero anche per questo,» sogghignòStein cercando, tra le sue espressioni facciali, quellapiù vicina all’ammiccamento.

«Oh sì! Anche per questo,» disse la donna rispon-dendo alla strana espressione dell’uomo inarcando lesopracciglia un paio di volte. «Le piace l’appartamento,da quando il vecchio inquilino è morto, tre anni fa, nonsono riuscita più a riaffittarlo. Lo ritengo adatto per unsignore di mezza età ricco e distinto come lei.»

«Certamente lo è,» disse Stein sorridendo. «Ma vede,lo rivedrò volentieri quando sarà pulito.»

«Allora ripassi tra qualche giorno, glielo farò trovarelindo, pronto per essere abitato.»

«Lei è davvero molto gentile, ora vorrei uscire da qui,per favore. Ho un appuntamento.»

«È un medico, vero? Lo capisco dal suo camice,» chie-se la padrona di casa facendo un piccolo inchino colcapo.

«Sì, un medico... La saluto,» disse Stein risponden-do all’inchino del capo con un leggero cenno degli occhi.

L’uomo uscì da casa velocemente, mentre la donnalo guardò con distrazione, più attenta ai soldi che ave-va tra le mani che allo strano individuo. «Povero scioc-co,» mormorò. «Per quattro mobili vecchi mi ha dato seimesi d’affitto!» bofonchiò soddisfatta e, sorridendo, ac-

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costò la porta d’ingresso, senza chiuderla. Salì le scaleche s’inerpicavano alla sua destra, mentre Stein eraancora fermò all’ingresso del palazzo, incerto di qualedirezione prendere.

3.

Ted Torres era un poliziotto vecchia maniera. Nonportava armi dell’ultima generazione come pistole aenergia immobilizzanti o a proiettili teleguidati e, in ve-rità, non portava nessun tipo di armi. Non ne avevamai portate e ripeteva spesso che, da che mondo è mon-do, un poliziotto che ricorre a un colpo di pistola ha inparte fallito il suo compito. Il suo modo di vestire, scial-bo e trasandato, faceva pensare a uno di quei vecchidetective del ventesimo secolo protagonisti di molte ras-segne cinematografiche di qualche club esclusivo dicinefili; se qualcuno gli faceva notare questa stranasomiglianza, lui rispondeva beffardo: «Beh! A nessunodi quelli è mai sfuggito un criminale!» e tirava dritto perla sua strada. Non pensava mai troppo, né troppo poco,e diceva sempre che “è meglio porsi le domande giuste,che avere le risposte banali”.

Per questo quando vide il corpo dinoccolato di SaraKronenberg si fece, appunto, una delle sue semplicidomande: Perché mai è successo? Guardò a lungo il voltotirato e pallido della donna e fissò i suoi occhi sbarratinel vuoto. Il leggero vento che soffiava da nord scompi-gliava i capelli del cadavere dando la strana sensazioneche ci fosse qualcosa di vivo in quelle ossa ormai inani-mate. Torres girò un paio di volte attorno al corpo, quindisi soffermò a lungo con lo sguardo sul pugno che affer-rava, ancora ben stretta, l’arma del delitto. Il lungo col-tello era sporco di sangue fino al manico, la punta peròera leggermente spezzata: era stata la furia omicida o la

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caduta a provocare quel piccolo danno? E poi, un col-tello da cucina? Una strana arma da usare alle sogliedel ventiduesimo secolo, quando i coltelli non si usava-no più da decenni, sostituiti dai taglieri laser più facili esicuri da usare. Fece mente locale su ciò che aveva vi-sto e subito tutto gli parve strano: una follia di questogenere nell’epoca degli Stabilizzatori Mentali; un vec-chio coltello da cucina, nell’epoca del laser; un omici-dio in città nell’epoca del Crimine Zero. Troppe, ma ve-ramente troppe coincidenze.

Tirò un sospiro di sollievo, quasi rassicurato da queldelitto “vecchia maniera” tanto simile a lui e si avvicinòa uno degli agenti della polizia scientifica, che stavaesaminando il cadavere con uno scanner dinamico.

«Cosa avete trovato?» chiese.«Sul coltello solo le impronte digitali della vittima, i

vestiti sono sporchi di sangue. Del suo e di quello deifamiliari. Sulla lama ho rilevato tracce microscopichedi pelle e tessuto umano, sono quelle dei figli. L’esamedella retina ha rivelato l’ultima immagine catturata dal-l’occhio. Si tratta del cielo. Si riconosce la Luna.»

«Okay... Okay,» lo interruppe, infastidito di doversentire dei dettagli, inutili alla sua indagine. «E il mari-to?» chiese.

«Quel poverino è ancora in stato di choc, lo sta cu-rando l’unità mobile di pronto soccorso. Lo può trovarelà,» rispose l’agente.

Quando Ted vide per la prima volta Steve Kronen-berg ebbe un moto di disagio. Non seppe spiegare comee perché, ma sentì che quell’uomo era falso. Incredi-bilmente falso. Gli si avvicinò mentre un infermiere ri-marginava le ferite infertegli dalla moglie. Un piccolomacchinario, che emetteva un’intensa luce blu, abil-mente manovrato dall’assistente sanitario, ricucivaistantaneamente anche le lacerazioni più profonde. Tedavvertì un sentimento di repulsione, come ogniqualvolta

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prendeva coscienza di una nuova diavoleria tecnologi-ca; ma, d’altro canto, la scienza del ventunesimo secoloaveva salvato parecchie vite umane, e si era rivelataveramente importante per le indagini giudiziarie, eccoil motivo per cui il tenente Ted Torres, poliziotto vec-chia maniera, aveva deciso di tollerare il progresso scien-tifico, sperando che il progresso scientifico tollerasselui.

«Lei è il signor Kronenberg?» domandò in modo reto-rico.

«Sono io,» rispose l’uomo fissando il vuoto.«Tenente Torres della polizia urbana di Crown. Mi

dispiace importunarla in un momento come questo, madevo rivolgerle alcune domande.»

«Faccia pure.»«Ha mai sospettato che sua moglie potesse compiere

un gesto come questo?»«Se lo avessi sospettato, i miei figli non sarebbero

morti!» disse Steve, guardando per la prima volta il suointerlocutore. «Non crede?» aggiunse in tono sarcasti-co.

«Penso di sì. Mi deve scusare, ma sono domande diprammatica.»

«C’è bisogno che mi chieda tutte queste cose? Il regi-stratore olografico d’emergenza deve aver memorizzatotutto. Se lo guardi, e mi lasci in pace!»

«Non vorrei essere scortese, signor Kronenberg. Nonvorrei che pensasse che la polizia è insensibile. Ma quelloche il suo maledetto computer può aver registrato, an-cora, e per fortuna, non rappresenta una prova. Solo leparole contano. E quelle solo lei può dirmele. Quindi,ricominciamo daccapo. A che ora è rientrato ieri sera?»

«Alle nove e trenta. Lavoro alla KRONOS INC, e sonostato trattenuto fino a tardi dal vicedirettore, il dottorLasisi. Lui potrà confermarlo.»

«Bene, come si è svolta la serata?»

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«Direi in modo normale. Io e Sara abbiamo cenato, ibambini erano già a letto. Quindi ho fatto una doccia emi sono messo sotto le coperte. Mia moglie mi ha rag-giunto con qualche minuto di ritardo. Ero parecchiostanco e mi sono addormentato quasi subito.»

«E questa notte?»«Stavo dormendo, a un tratto il vento ha spezzato

un ramo della quercia che abbiamo in giardino che,cadendo, deve aver rotto il vetro della finestra della ca-mera da letto. Mi sono svegliato e ho visto un’ombracon un coltello in mano che stava per aggredirmi. Nonho riconosciuto Sara...» Si interruppe, deglutì respiran-do con affanno, come a trattenere un senso profondo didolore, poi continuò. «Istintivamente mi sono difeso, neè seguita una colluttazione, e...» Per qualche istante nonemise un suono, poi, come facendo leva su se stesso,concluse: «... Il mio aggressore è volato giù. Il resto losapete.»

«Quindi lei conferma che non ha riconosciuto subitosua moglie?»

«Per nulla, l’ho cercata per tutta la casa! La chiama-vo... La chiamavo...» ripeté più volte scuotendo il capo echiudendo gli occhi nel disperato tentativo di trattene-re le lacrime.

«Sa, per caso, se sua moglie teneva un diario o qual-cosa del genere? La sua lettura potrebbe svelarci moltecose.»

«No...» mormorò l’uomo titubante. «No, nessun dia-rio,» disse asciugandosi le lacrime che gli rigavano ilviso con il dorso della mano.

Ted Torres lo guardò a lungo, le lacrime gli sembra-rono sincere, la sofferenza gli parve genuina, era l’in-sieme che non lo convinceva. Osservava Steve Kronen-berg appoggiato su una barella, con ancora indosso ilpigiama macchiato di sangue e continuava a dirsi che,nell’insieme, c’era qualcosa che non andava. Un infer-

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miere gli chiese cortesemente di farsi da parte e lui siscostò continuando a fissare il volto dell’uomo che ave-va innanzi, indeciso se continuare a fare domande o,più semplicemente, chiudere il tutto, anche il suo cer-vello, e passare alla prossima inchiesta.

Era intento a soppesare questo dilemma quandosopraggiunse il procuratore capo, che era stato avvisa-to della tragedia ed era voluto subito intervenire. AlbertBean, un sessantenne ben messo, con una fluente bar-ba bianca e profondi occhi blu, si avvicinò a Torres conpasso spedito e, presolo in disparte, lo rimproverò inmodo dolce ma deciso.

«Tenente, ma cosa mi combina? Torchiare un uomoche ha appena subito una così incredibile tragedia?»

«Mi scusi, signor procuratore. Ma io faccio il mio la-voro.»

«Senta, l’IAP ha già verificato tutta la storia diKronenberg, cosa può scoprire lei con le sue doman-de?» gli chiese mostrando un largo sorriso.

«Non mi venga a parlare dell’IAP! Quella macchinadella verità, come l’hanno pomposamente ribattezzata,ha preso più di una cantonata. Quindi, io mi fido anco-ra delle mie domande e del mio istinto!»

«E cosa le dice il suo istinto? Che è stato l’uomo auccidere la sua famiglia, e non la moglie?» commentòsarcasticamente Bean.

«Il mio istinto mi dice che c’è qualcosa che non va, eio intendo scoprirlo,» rispose Torres a muso duro.

«Bene, faccia le sue maledette domande, ma non unadi più!» e, detto questo, lo salutò con un cenno del capodirigendosi verso la folla dei giornalisti.

Ted lo guardò andar via con sollievo. Mise la manonella tasca interna del cappotto ed estrasse un pac-chetto di sigarette. Ne prese una e l’accese, aspirò ilfumo, quindi reclinò il capo verso l’alto, e lo inspirò vio-lentemente. Sembrò riflettere qualche secondo e, dopo

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aver lanciato un’occhiata di odio alla sigaretta, la gettòvia con disprezzo per terra.

«Ha ragione, fanno davvero schifo!» intervenne SteveKronenberg, ancora seduto nei pressi dell’eliambulanza.

«Già, da quando il tabacco è stato messo fuorilegge,queste maledette sigarette sintetiche non riescono asostituirlo degnamente!» gli fece eco Torres.

«Ha altre domande da farmi?» disse Steve che sem-brava aver riacquistato un minimo di stabilità emotiva.

«Un sacco, ma possono aspettare.»«Allora, glielo offro io di che fumare seriamente,» ed

estrasse dalla tasca del pigiama uno strano sacchettoche conteneva pochi sigari. «Sono illegali, ma spero chenon mi arresterà.»

«Arrestare un uomo che ti dona l’ossigeno?» disseTed sorridendo e, iniziando ad aspirare profondamenteil fumo, accompagnò il nuovo amico nel suo ritorno acasa.

4.

«Il caso Kronenberg ci sta mettendo maledettamen-te in imbarazzo,» disse Ronald Bean III passeggiandonervosamente nel suo ufficio, al 104° piano del KRONOSCENTER, a pochi metri della gigantesca K argentatache ruotava sul tetto dell’edificio.

Era un uomo sulla quarantina, vestito di un com-pleto blu; sfoggiava una barba rada, e i suoi occhi grigisfuggenti e inquisitori sembravano guardare contem-poraneamente in più direzioni. Era a capo del più gran-de gruppo industriale del Pianeta: la KRONOS INC, natanel 2025 dalle ceneri della Prima Globalizzazione. Lafamiglia Bean aveva progettato un sistema operativo percomputer alternativo a quello che, fino ad allora, avevagestito in modo monopolistico le reti informatiche di

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tutto il mondo, e che era andato completamente distruttoda un attacco virale all’alba del 31 dicembre 2024. Daallora i sistemi K dei Bean, dal vetusto K.01 in poi, era-no stati la fortuna della Ditta, la quale era diventataanche produttrice di Tutto quello che è il Futuro: l’Auto-mobile a Idrogeno, la Cura per il Cancro, le NavicelleSpaziali a Motori Ionici, dando vita a quella che moltiavevano definito come la Seconda Globalizzazione.

«La sua è una preoccupazione legittima,» gli risposequalcuno seduto nell’ombra, su un lungo divano rossoche occupava due pareti.

«Cosa può essere successo? Qualcosa non ha fun-zionato? Oppure si tratta di un deprecabile caso?»

«Ritengo improbabile che l’attuale ricerca che l’inge-gner Kronenberg conduce per noi possa avere un qua-lunque legame con la pazzia omicida della moglie.»

«Ma, non ne possiamo essere sicuri. Non é vero,dottor Lasisi?» grugnì Ronald Bean senza smettere dipasseggiare su e giù in tono inquisitorio.

«In qualità d’esperto mi sentirei di escluderlo, peròmi permetta di osservare che il suo scrupolo mi sembrapiuttosto tardivo,» azzardò Lasisi non senza primadeglutire un paio di volte.

Ronald Bean III si voltò furiosamente verso il suointerlocutore, il suo volto era teso e il suo sguardo ema-nava un forte senso di disprezzo.

«Noi non abbiamo scrupoli, non abbiamo dettamimorali, non osserviamo la legge. Noi siamo la morale, lalegge, gli scrupoli. Noi non ragioniamo con la vostradietrologia, non ci occupiamo di cose effimere e prive disenso come la vita del singolo. L’interesse della Ditta èal di sopra di tutto, perché corrisponde all’interesse dellacollettività.» Respirò profondamente dopo il lungo soli-loquio e fissò il suo sguardo nel vuoto aspettando larisposta di chi aveva rimbrottato.

«Certamente, signor Bean... Io... io non volevo...»

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balbettò l’uomo imbarazzato, tradendo a stento, perl’emozione, un forte accento francese.

«Ecco quello che deve fare. Faccia sparire ogni trac-cia di questa faccenda dai mezzi di comunicazione dimassa. E mi porti la buona notizia che Steve Kronenbergè tornato al lavoro, e sta producendo per noi!»

«Farò come desidera.» E, nel dire questo, uscì dal-l’ombra apparendo un piccolo essere filiforme vestitointeramente di nero. La testa, decisamente smisuratarispetto al resto del corpo, era reclinata sulla destra egli occhi, grandi e incavati, producevano strani baglio-ri. «Posso esserle d’aiuto in qualcos’altro?» chiese condeferenza.

«A che punto siamo con la ricerca delle origini diquel maledetto cronovirus?»

«Ancora nulla, continua a mutare e a saltare nel tem-po,» disse l’uomo timoroso di dover dare ancora unabrutta notizia al suo superiore.

«È stata fatta una stima su quando avrà raggiuntol’apice della virulenza?» chiese Bean in tono glaciale,quasi privo di ogni emozione.

«Pensiamo che entro 250 ore inizierà ad attaccare isistemi K.1 e inferiori, come i vetusti K.09, e nell’arco diun mese tutte le versioni da K.2 a K.7 saranno inservi-bili,» disse Lasisi porgendogli un foglio elettronico.

«Lei lo sa che al mondo otto miliardi di computersono gestiti da sistemi operativi K? Lo sa quale immen-so danno economico e d’immagine sarà per la Ditta que-sta disfatta!» esclamò chiudendo gli occhi a fessura eavvicinandosi minaccioso a Lasisi. «Faccia in modo chela Storia non si ripeta, perché se ciò accade lei non saràqui a rendersene conto; e un’altra volta mi risparmi isuoi commenti moralistici. E ora si tolga dai piedi!» con-cluse Ronald Bean III senza neanche guardarlo, osser-vando con attenzione il foglio elettronico che aveva trale mani.

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«La ringrazio per la sua comprensione, signore,» dis-se il piccolo uomo facendo un mezzo giro su se stessonel mettersi in direzione d’uscita.

«Ah, dottor Lasisi,» lo richiamò nuovamente Bean.«Smetta di giocare all’Uomo in Nero, e la prossima voltache si presenta in quest’ufficio indossi un completochiaro. La ringrazio.»

«Farò come chiede, signore.»Quando il suo sottoposto uscì Ronald iniziò la lettu-

ra del foglio elettronico che, nervosamente, aveva tra lemani da diversi minuti. Ancora quattro tentativi d’attac-co, pensò tra sé stringendo le labbra rabbiosamente. Ela macchina ancora non è pronta, forse ho fatto male amettere il destino della Kronos in mano a quel francese ea Kronenberg... Avrei fatto meglio a gestire da solo tuttala faccenda. Riguardò i dati che luccicavano di una te-nue tonalità blu elettrica sul foglio trasparente, quindisospirò. Da quando questa storia è iniziata non riesco afarmene una ragione, com’è possibile che tutto, l’interosistema della Ditta, la rete mondiale, sia minacciata daun singolo e microscopico algoritmo! pensò tra sé. Que-ste cose potevano accadere sessanta anni fa, i sistemi Kdovrebbero essere immuni da attacchi virali su largascala, concluse scuotendo il capo furibondo.

Ronald Bean III era un uomo sicuro di sé, incredi-bilmente sicuro di sé; eppure, ogni qual volta guardavaall’imponenza e alla contemporanea, intrinseca, fragili-tà della sua ditta, sentiva di esserle affine. Anche luiera imponente e fragile a un tempo. Imponente, per laforza economica, per il potere, per la rete di amicizie edi favoritismi che aveva messo in moto. Fragile, perchétutto era stato costruito sull’inganno, quasi sessant’anniprima, quando suo nonno aveva iniziato. Un inganno,già! Che stentava a confessare anche a se stesso, uninganno di cui nessuno nella sua famiglia parlava mai.

Chiuse gli occhi e pensò a suo padre, l’unico mem-

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bro dei Bean del passato a cui aveva dato considerazio-ne e disprezzo a un tempo. Ricordò come quell’uomo,che lo aveva cresciuto a sua immagine e somiglianza,gli aveva raccontato a sedici anni il segreto di famiglia:sussurrando dentro il bunker antiatomico della Torredella KRONOS.

«Il tuo bisnonno era uno degli ingegneri informaticidella ditta che ci ha preceduto, mi ha raccontato cheun giorno il grande capo in persona lo mandò a chia-mare nel suo ufficio per il lancio di un nuovo sistemaoperativo...» Sentiva quelle parole dentro la sua testa,dentro le sue orecchie, e seguivano un percorso tortuo-so, quasi innaturale; come se, a un tempo, il suo cer-vello cercasse di nasconderle, ma anche di ricordarle.«Quindi decise di infettare con un virus quei program-mi, di distruggere quella ditta che gli aveva fatto tantodel male. Quello che ne seguì fu chiamata la Fine dellaPrima Globalizzazione... E a lui toccò avviarne un’al-tra.» Era nata la KRONOS, e Ronald Bean il Vecchio erastato il primo presidente della Ditta.

Osservò ancora a lungo suo padre con gli occhi chiu-si, chino su di lui, sussurrargli all’orecchio il segreto difamiglia. Poi, d’un tratto, aprì le palpebre.

«Forse dovevo dare ascolto a mio padre e non tra-scurare lo studio,» mormorò a bassa voce e guardò lapergamena della sua laurea in Ingegneria Elettronicaappesa alla parete sogghignando. Quanto ti è costato,papà, farmi appendere al muro quel pezzo di carta?rifletté tra sé. Ti ho odiato con tutte le mie forze, luridobastardo... Eppure, se avessi realmente studiato orasaprei come affrontare questo maledetto virus cronotonicoche sta per infettare tutta la rete informatica della socie-tà, e non mi dovrei fidare di quel branco di inetti dei mieidipendenti. Di Lasisi e delle pazze invenzioni di quelloscienziato tedesco! Sbuffò come spesso gli capitava pen-sando a tutti quelli che lavoravano per lui. Non era cer-

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to tenero con i suoi subalterni, non lo era perché nes-suno era mai stato gentile con lui. D’altro canto come sipoteva essere gentili con uno degli uomini più ricchidel pianeta? Al massimo si poteva essere servili, e diservilismo, alla Kronos, ve ne era in grande misura.

«Bastardi! Se non avessi bisogno di loro li prendereitutti a calci in culo, mangiano alle mie spalle e... e sepotessero mi salterebbero addosso subito!» gracchiòlasciando cadere per terra il foglio elettronico che avevatra le mani e guardando una spia luminosa che con lasua intermittenza avvertiva, discretamente, che qual-cuno stava cercando di mettersi in contatto con lui.

«Dio Santo, spero che non sia Clara! Ne ho le taschepiene delle sue amiche, dei suoi giochi di società, dellesue raccolte di beneficenza, sembra che mi abbia spo-sato per dar via i miei soldi!» esclamò ad alta voce pre-mendo contemporaneamente il pulsante di rispostadell’interfono. «Chi è?» sbraitò.

«Signor Bean, suo cugino, il procuratore, desideravederla,» lo avvertì la segretaria.

«Lo faccia entrare,» sbuffò Ronald.Dopo pochi istanti Albert Bean entrò nell’ufficio. Al

contrario dell’uomo spavaldo e autoritario che qualcheora prima aveva redarguito pesantemente il suo sotto-posto, Ted Torres, Albert Bean si mostrò al cugino piut-tosto dimesso e inerme.

«Tu lo sai quanto è costato alla società metterti nelposto che occupi?» lo investì Ronald.

«Sì, lo so... Ma quel Torres è davvero intrattabile. Èpiù testardo di un mulo,» balbettò Albert in segno discusa.

«Ho dato ordine a Lasisi di far sparire la cosa daogni mezzo d’informazione, ma io voglio che spariscaanche dalla tua scrivania, dalla mente di quello stronzodi poliziotto, dal ricordo di ogni abitante di questa cit-tà!»

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«Ma ci sono delle prassi, delle leggi. Entro un paio digiorni sistemerò tutto, vedrai.»

Albert Bean guardò a lungo il volto del cugino dopole sue parole e riconobbe subito quell’espressione che,imperiosa, troneggiava sullo sguardo del proprietariodella KRONOS: gli occhi non lo guardavano, ma si per-devano verso l’alto; le labbra serrate non gli parlavano,ma mugugnavano sordamente; le mani non gesticola-vano, ma erano ferme, chiuse a pugno, inchiodate sul-la scrivania. Era l’avvertimento che più temeva, quelloche aveva subito più di una volta da bambino, quandoRonnie pestava a sangue l’ingenuo Al, dopo una partitaa calcio andata male. La stessa inconfondibile minac-cia, di quando il giovane e rampante Ronald si era por-tato a letto la mogliettina del cugino. Quell’espressione,quell’avvertimento, quella minaccia, non permettevanonessuna replica. E fu così.

5.

La scala era una barriera insormontabile.Il dosso gibboso di un mostro che dormiva quieta-

mente, senza respirare.Gli scalini vette invalicabili, ripide e nevose, sulla

cui sommità mancava l’ossigeno. Conducevano ai luo-ghi della tragedia, della consapevolezza di non averepiù una moglie e dei figli. Collegavano con un mondoscuro e irrazionale, dove una tranquilla donna di casa,bella, dolce e responsabile, si era armata di un coltelloda cucina e aveva fatto strage della sua famiglia.

Quelle stanze e quei corridoi, quei pochi passi checonducevano al dolore puro, a una sensazione d’insop-portabile sconfitta, erano stati dimenticati da SteveKronenberg che, dalla sera della tragedia, dopo venti-quattro ore passate in ospedale sotto osservazione, si

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