Keltoum Staali, La mimosa di dicembre trad. dal francese...

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Keltoum Staali, La mimosa di dicembre trad. dal francese di Karim Metref Milano, Rediviva Edizioni («Afrika»), 2014, 82 p. ISBN: 978-88-97908-10-4 [ed. orig., Le mimosa de décembre Alger, Edition Lazhari Labter, 2011] © 2014 Rediviva Edizioni, Milano sito web: www.redivivaedizioni.com inizio del romanzo: pp. 11-17

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Keltoum Staali, La mimosa di dicembre trad. dal francese di Karim Metref

Milano, Rediviva Edizioni («Afrika»), 2014, 82 p.

ISBN: 978-88-97908-10-4 [ed. orig., Le mimosa de décembre Alger, Edition Lazhari Labter, 2011] © 2014 Rediviva Edizioni, Milano

sito web: www.redivivaedizioni.com inizio del romanzo: pp. 11-17

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La mimosa di dicembre

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Keltoum StaaliLa mimosa di dicembre

Titolo originaleLe mimosa de décembre

Versione francese:© Edition Lazhari Labter, Alger 2011

Traduzione: Karim Metref

Immagine di copertina:M’hamed Issiakhem, Le courant

1982, olio su tela, collezione Chelliout(particolare)

Tecnoredattore:SIMONA BĂNICĂ

Editing e correzione bozze:DAVIDE ARRIGONI

Rediviva Edizioni, 2014www.redivivaedizioni.com

Finito di stampare nel mese di giugno 2014 presso UNIVERSAL BOOK SRL, Rende (CS)

2014

ISBN: 978-88-97908-10-4

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Prefazione

Ciò che colpisce d’emblée in questo libro emozio­nante è il suo tono, la scrittura. Lo stile di Keltoum Staali è pura vivacità ed energia. Eppure la vita non le ha mai steso un tappeto di rose sotto i piedi. Le vicissitudini di un’esistenza così piena di tormenti avrebbero potuto ge­nerare un lungo e straziante tormento, ma in lei suscitano rabbia e voglia di vivere, di affrontare tutto e tutti, e non un’inutile commiserazione.

Non è facile nascere e crescere in Francia: da un lato una madre algerina che odia questo paese d’esilio (il cui nome le riporta alla mente le violenze dell’esercito colo­niale nel suo paese d’origine) e che si rifiuta di parlarne la lingua; dall’altro un padre, pure lui algerino, che è pieno di amore e ammirazione per la Francia, considera l’arabo solo una sorta di dialetto, ma questo non gli im­pedisce di coprire di insulti quella tra le figlie che scappa per sposare un francese.

Keltoum Staali non sarà risparmiata dalle contraddi­zioni. Vuole l’Algeria. Ha rifiutato la cittadinanza fran­cese, anche come prerequisito per ottenere una borsa di studio, e si paga gli studi facendo le pulizie. Tuttavia, al Ke

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profondo affetto per il suo paese d’origine, sentimento che pervade tutti i suoi libri, si affianca in seguito una più profonda delusione. Stabilitasi finalmente ad Algeri, una città a cui dedica una bellissima canzone d’amore, vive gli avvenimenti dell’ottobre 1988 e l’esperienza della repressione con il riapparire della tortura, questa volta praticata da algerini contro altri algerini. Ancora molto giovane, divenuta giornalista per la storica testata «Alger Républicain», diretta da Mohamed Benchicou, è costretta a lasciare la sua amata città per rientrare in Francia, quando i fanatici cominciano a uccidere i gior­nalisti, e invano tenta di cancellare dalla memoria gli anni algerini.

Ci auguriamo sinceramente che Keltoum Staali in­contri, su entrambe le sponde del Mediterraneo, molti lettori, anche perché la sua opera, lucida e tonificante, incarna a meraviglia la frase, resa famosa da Antonio Gramsci, «pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà», e permetterà a molti di comprendere una situa­zione complessa, risultato di una storia turbolenta. Lo slancio, l’energia, la tenace aspirazione alla libertà attra­versano tutta la produzione di Keltoum Staali, una scrit­trice che in qualche modo preannuncia quella “primavera araba” che sta rivoluzionando molti paesi e che di sicuro non trascurerà l’Algeria.

Questo libro così affascinante e ben scritto comunica un messaggio essenziale: neppure le più dure tribola­zioni potranno mai soffocare la speranza.

Gilles PerraultScrittore­giornalista

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Qui-là

Il mio fratellino è morto. Ma io non lo so. Quando l’ho saputo?

Fine dell’estate 1963: Ho tre anni. Non so ancora par­lare. Non so perché due lingue competono nella mia bocca. L’arabo materno, acido, violento, carico della fu­ria e delle frustrazioni di quella donna che è mia madre, strappata al suo paese, al suo amato padre, di cui non ha più notizie dagli anni della guerra. Suo padre, una specie di santo, venerato, adorato, mio nonno, mai eguagliato da nessuno nel suo cuore, se non forse un po’ dai suoi figli, i miei fratelli. La seconda lingua, che assedia il bordo delle mie labbra, è il francese, lingua orgogliosa e raffinata, che mi squadra, sorniona, sicura del suo potere trionfante. Mio padre ama il francese, ammira aperta­mente la Francia, civiltà superiore. Parla francese per non turbare la nostra scolarizzazione. Lui, che va scalzo, che non ha potuto godere a lungo dei benefici della scuola del villaggio. Me l’ha fatta vedere un giorno quella scuola, 46 anni dopo, come mi avrebbe mostrato un mausoleo. Vecchio e venerabile edificio europeo, simbolo sacralizzato e carico di emozioni della sua più Ke

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grande frustrazione. Studiare! Uscire dall’ignoranza che confonde, nella stessa condizione, uomini e bestie, li condanna ad un’esistenza ruvida. Ammiro mio padre. Faccio mia la sua umiliazione di uomo analfabeta e do­lorosamente perspicace!

Gli piace parlare in francese, parla senza accento, senza arrotare le “r”, pur non avendo frequentato la scuola più di qualche settimana o qualche mese, non so, il tempo di imparare a leggere un po’, abbastanza per prevedere tutto ciò che stava per perdere. Dopo è dovuto andare ad aiutare nei campi. Deve meravigliarsi di sen­tirci balbettare questa lingua, bella e velenosa come una femme fatale, straniera, civile, che prende, senza nessuna resistenza da parte sua, l’anima dei figli. Il francese, spa­valdo, si sostituisce rapidamente all’arabo, sin dai nostri primi anni e rimarrà lingua essenziale, quasi esclusiva. L’arabo graffiante, umiliato di mia madre non avrà nes­sun peso. «Un dialetto», come ama chiamarlo mio padre con disprezzo, una parlata contadina che sente la campa­gna, la povertà, l’ignoranza. Lui le ha proibito di parlare con noi in francese per paura di confonderci. Mia madre si rifiuta di cedere al francese, la lingua degli occupanti, i gauri, quelli che ci hanno fatto tanto male, per così tanto tempo che non sappiamo più quanto... Nel borgo dove è nata, ha visto pochi francesi. O meglio, non ha visto della Francia e della sua bella civiltà che soldati, preceduti da storie di stupri e di torture. Non dice quello che hanno fatto, ma tutto in lei trasuda repulsione, una sorta di diffidenza ancestrale verso la Francia.

La Francia è il nome di una maledizione che strappa gli uomini più giovani e più coraggiosi alle loro fami­glie. A volte prende la forma di un anatema lanciato Ke

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contro la testa del suo peggior nemico, in momenti di rabbia. Dio ti mandi in Francia! Ma mia madre è stata cresciuta nella scuola della pazienza, sabr1, inculcata presto alle ragazze per renderle obbedienti e rassegnate. Lei è obbediente e rassegnata. Spesso dice: «Nella casa di mio padre c’erano otto ragazze. Ti rendi conto: otto ragazze!». La frase va decifrata: «Che prova di compas­sione e di misericordia averci cresciute!». Suo padre era un santo.

Segue mio padre in Francia, questo paese maledetto, pronta ad affrontare tutte le difficoltà.

Come potrebbe parlare francese? Non ho bisogno che i miei genitori raccontino la colonizzazione, la guerra. Sono loro la colonizzazione, la guerra. Nei loro silenzi, nelle loro mezze parole. La paura, come una seconda pelle, che trasuda al minimo segno di ostilità dalle popo­lazioni autoctone che mal sopportano la nostra presenza. La paura è un vecchio riflesso. La parola “Algeria” si trascina dietro una scia di sangue. Non aveva bisogno di conoscere la storia per raccogliere il carico di ferite por­tate dal mio paese il cui nome brucia come uno schiaffo.

Come potrebbe parlare francese... La sua unica possi­bile ribellione, la sua lealtà, è il rifiuto del linguaggio nemico. Quasi 50 anni dopo il suo arrivo in Francia, rie­sce solo a usare una sorta di maldestro sabir, miscuglio imbarazzante di arabo rurale e di francese “tagliato con l’accetta”, che mastica come una rinuncia finale, un’ul­tima fuga. La Francia vince la guerra delle lingue. È in mezzo a questo scontro linguistico sbilanciato che

1 Sabr: pazienza (in arabo). «Sabr Ayoub» è la pazienza di Giobbe [NdA].Ke

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imparo a comunicare e non ci riesco. Parlare significa già scegliere. Quindi di solito sto zitta, buona buona, mi ritiro e mi rivolgo alle pietre, io amo i sassi, già mi con­fondo con la terra, sono una manciata di terra, sono un sasso. Colleziono tutto quello che trovo per terra, com­prese le gomme da masticare. Assaggio e ascolto il mondo come posso. Sono un tutt’uno con l’universo. Quando mia madre ha fatto i m’besses, quei piccoli dolci di semolino che si sbriciolano sotto i denti, mi pare di mangiare sabbia, quella sabbia usata per costruire il ca­stello in cui giochiamo. Sabbia e dolci si fondono nella mia immaginazione. Quando piove, ho un appuntamento con il mondo, in un rituale cosmico che mi calma. Bevo la pioggia e presto mi allontano dalla mia lingua madre che non fa nulla per trattenermi, che moltiplica le de­nunce e le maledizioni, striglia i miei giochi, fa girare i miei sogni. Che si arrende. Che rinuncia a trasmettere. Che esprime l’irreprensibile fuga materna. Lingua ri­belle e aspra che mina spesso il mio essere intimo. Cosa cerca di dire mia madre in questa lingua, che mi mal­tratta perché non la capisco del tutto. Solo poche parole che si distinguono da un magma confuso che percepisco senza capirlo. Mia madre mi parla in una lingua diven­tata straniera. Inoltre, dice poco. A volte le sue parole provocano in me come una ferita che si sveglia, mi getta in un terribile malessere. Vorrei cancellarmi, nascon­dermi, non essere più. Soprattutto non essere più una ra­gazza. È nel mio corpo di ragazza che mi sento maltrattata. Come se le parole di mia madre avessero il potere di ri­fiutare o negare questa terribile, ineludibile, promessa di femminilità. Quasi di vietarla. A volte mi sembra di ca­pire e vorrei non aver capito. L’arabo diventa un codice Ke

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matriarcale, parlato tra mia madre e le mie zie, una lin­gua sempre più lontana e restia, quella delle storie che mi escludono, che trasformano in terribili segreti anche le storie più banali, che fanno di me un’estranea nella mia stessa tribù. Lingua di un paradiso che so perduto prima ancora di averlo conosciuto. Mio padre ricorda Mazouna1, il paese dove è nato, come un regno lontano al quale dobbiamo fedeltà. Il nome da solo è la culla della mia nostalgia. Patrimonio onomastico. Mito delle origini. Portiamo questo nome come il cuore sacro della mitologia familiare. La lingua è una terra dove non esi­sto. Che ha dimenticato di registrarmi nella geografia genetica. Lontana dal suo ambiente naturale, non ha sa­puto prolungarsi, priva com’era del suo terriccio. È solo una serie di fatti rimaneggiati e conversazioni dolorose, durante le quali le donne evocano la famiglia rimasta in paese, il dolore della separazione, el ghorba2, l’esilio, la fatica delle gravidanze che si succedono e tutti i lavori che incombono. Le loro chiacchiere tessono una bolla infantilizzante, un bagno di voci nel quale sguazziamo, senza capirci un granché, riconoscendo di sfuggita qual­che parola. Cresciamo, ma siamo linguisticamente bam­bini, “infanti”, incapaci di parlare nella propria lingua madre e a volte anche di capirla. Uno dei nostri giochi preferiti è quello di scimmiottare le donne della nostra famiglia, zie e vicini di casa, a noi note come “tata”3. Ci diamo della “tata” tra di noi, giochiamo alle “tata”, ar­roccate su scarpe rubate alle cugine più grandi, il capo

1 Mazouna: comune della provincia occidentale di Relizane in Algeria [NdA].2 El ghorba: l’esilio (in arabo) [NdA].3 “Tata”: zia (in arabo dialettale algerino) [NdA].Ke

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coperto con una sciarpa. Abbracci, saluti, baci ripetuti, salamelecchi, come abbiamo visto: «Kiraki, bkheir, ghaya?»1. Due volte due baci sulle guance. In Algeria, nelle zone rurali, le donne hanno un modo curioso di salutarsi. Si baciano una guancia, ma più volte, con una specie di frenesia quasi comica. La commedia sociale degli adulti ci offre spettacoli esilaranti, argomenti di di­strazione ma anche di apprendimento. Lingua del gioco, delle finzioni, di una realtà che ci sfugge. Nel corso del tempo, mi perdo, riconosco solo alcune parole, quelle che ricorrono più spesso. Quelle della lingua di tutti i giorni, neutre, prive di affetto. Un arabo in qualche modo domestico. A poco a poco questo entra, incorpora parole, frasi e intonazioni del francese imposto, anche a casa, dalla scuola, da mio padre e dalla TV. Sono cresciuta in una lingua che mi chiude le porte in faccia, una ad una, lasciandomi solo alcune briciole, che ormai costitui­scono una base fragile e insicura. Lingua in rovina, fos­silizzata, interrotta, che tuttavia rinasce miracolosamente quando torno a Mazouna. Come una fonte interiore. Una risorsa. Lingua di donne che parlano di problemi di donne, sopraffatte, abusate, amareggiate. Hanno tutte, appeso al seno, un marmocchio paffuto. A uno ne segue un altro, poi un altro ancora e così via. Fanno bambini come i meli fanno le mele. Si intravvede, generoso, il seno, con curve affascinanti e inquietanti dove scorre un latte che non può avere che il sapore aspro dello sradica­mento e della violenza. I bambini possono apprezzarlo? Per ore riposano contro il cuscino di carne, nutriti, cullati

1 «Come stai? Bene? Tutto a posto?» (nel dialetto arabo dell’ovest algerino) [NdA].Ke

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dalla voce materna. Guardo con un vago disgusto quelle -

stanza grumosa che mi fa subito pensare al piatto chia-mato berkukes1, un tipo di pasta mescolata con il latte

-giato senza pensare male. D’ora in poi, adesso che il confronto ha inquinato la mia mente, non riuscirò più a inghiottirne un cucchiaio. Inoltre, ben presto, la vista del

fanno un po’ paura. Sono estranee. Perché non le capi-sco. Mia madre, in particolare, mi fa un po’ paura. Forse a causa di quella lingua che esprime, più spesso di quanto non faccia lei stessa, il risentimento, la rabbia, la frustra-zione. La sua lingua s’indebolisce per il fatto di non es-

non affetto. Anche le sue rare canzoni, ninne nanne tristi che accompagnano le cose di tutti i giorni, risuonano in me come un rimprovero inquietante, doloroso. Canta quando è depressa. O quando culla l’ultimo piccolo nato: sprofonda in uno stato di incoscienza, si lascia scivolare in una triste tenerezza. Le parole sono del tutto incom-prensibili, appena articolate, accennate, affogate in un lamento melodioso. Si allontana, verso una riva inacces-sibile. Vivere diventa una colpa. Come vivere quando l’altro è morto?

1 Berkukes (berkoukes in trascrizione francofona): pasta in piccoli grani rotondi preparati secondo la tradizione locale [NdA].Ke

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