Jules Verne - I Viaggiatori Del XIX Secolo

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VIAGGI STRAORDINARI

GIULIO VERNE

I VIAGGIATORI DEL SECOLO XIX

CON 74 ILLUSTRAZIONI

Titolo originale

Decouverte de la Terre-Les Voyageurs du XIX Siécle (1880)

CASA EDITRICE SONZOGNO – MILANO

1896.

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INDICE PARTE PRIMA____________________________________ 4

CAPITOLO I. _______________________________________ 4 L'aurora d'un secolo di scoperte. _____________________________ 4

CAPITOLO II. _____________________________________ 97 L'esplorazione e la colonizzazione dell' Africa. ________________ 97

PARTE SECONDA_______________________________ 245 CAPITOLO I. _____________________________________ 245

I circumnavigatori stranieri._______________________________ 245 CAPITOLO II. ____________________________________ 308

I circumnavigatori francesi. _______________________________ 308 CAPITOLO III. ___________________________________ 442

Le spedizioni polari._____________________________________ 442

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PARTE PRIMA

CAPITOLO I.

L'AURORA D'UN SECOLO DI SCOPERTE.

Diminuzione delle scoperte durante le lotte della Repubblica e dell'Impero francese. — Viaggi di Seetzen in Siria ed in Palestina. — L'Huran ed il periplo del mar Morto. — La Decapoli. — Viaggio in Arabia. — Burckhardt in Siria. — Corse nella Nubia sulla due rive del Nilo. — Pellegrinaggio alla Mecca e a Medina. — Gli Inglesi nell'India. — Weeb alle sorgenti del Gange. — Relazioni d'un viaggio nel Penjab. — Cnristie e Pottinger nel Sindhy. — Quesiti stessi esploratori attraverso il Belutchistan fino in Persia. — Elfinstone nell'Afganistan. — La Persia secondo Gardanne. Ad. Dupréj Morier, Macdonald-Kinneir, Price e Ouseley. — Guldenstsed e Klaproth nel Caucaso. — Lewis e Clarke nelle montagne Rocciose. — Raffles a Sumatra e a Giava.

La fine del secolo XVIII ed il principio del XIX non

possono davvero vantare delle grandi scoperte geografiche. Abbiamo visto la Repubblica francese allestire la

spedizione alla ricerca di La Pérouse, e riportante crociera del capitano Baudin sulle coste dell'Australia. Sono queste le sole testimonianze d'interesse che le passioni scatenate e le lotte fratricide permisero al governo di dare a questa scienza, che pure è tanto apprezzata in Francia, la geografia.

Più tardi, in Egitto, Bonaparte si circondò di scienziati e di artisti eletti. Allora furono raccolti i materiali di quella grande e bell'opera che per la prima diede un'idea esatta, benché

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incompleta, dell'antica civiltà della terra dei Faraoni. Ma Napoleone, sacrificando tutto alla sua detestabile passione, la guerra, non volle più intendere parlare di esplorazioni, di viaggi, di scoperte da fare. Erano denaro ed uomini che gli sarebbero stati rapiti. Il consumo che ne faceva era troppo grande per permettergli questa stupida spesa. La cosa apparve chiara quando egli cedette agli Stati Uniti per pochi milioni l'ultimo avanzo del nostro impero coloniale in America.

Fortunatamente gli altri popoli non erano oppressi da questa mano di ferro. Benché assorbiti dalla lotta contro la Francia, essi trovarono ancora dei volonterosi che estendevano il campo delle conoscenze geografiche, costituivano l'archeologia sovra basi veramente scientifiche, e procedevano alle prime ricerche linguistiche ed etnografiche.

Il dotto geografo Malte-Brun, in un articolo ch'egli pubblicò nel 1817 sul principio dei Nuovi Annali dei Viaggi, segnala minuziosamente e con molta precisione lo stato delle nostre conoscenze geografiche al principio del secolo XIX, e i molti desiderata della scienza. Egli nota i progressi già compiuti della navigazione, dell'astronomia, della linguistica. Anziché nascondere te sue scoperte come aveva fatto per gelosia la Compagnia della Baia d'Hudson, la Compagnia delle Indie fonda accademie, pubblica memorie, incoraggia i viaggiatori.

La stessa guerra è utilizzata, e l'esercito francese raccoglie in Egitto i materiali d'un'immensa opera. Come si vedrà fra poco, una nobile emulazione è sorta in tutti i popoli.

Vi ha per altro un paese che inaugura, fin dal principio di questo secolo, le grandi scoperte che i suoi viaggiatori dovevano fare, ed è la Germania. I suoi primi esploratori procedono con tante cure, sono dotati d'una volontà così ferrea e d'un istinto così sicuro, che non lasciano ai loro successori se non l'ufficio di accertare e completare le loro scoperte.

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Il primo cronologicamente è Ulrico Gaspare Seetzen. Nato nel 1767 nell'Oostfrisia, Seetzen, dopo d'aver compiuti i suoi studi a Gottinga, cominciò col pubblicare alcuni saggi sulla statistica e sulle scienze naturali, per le quali egli si sentiva inclinato. Queste pubblicazioni fermarono su di lui l'attenzione del Governo che lo nominò consigliere aulico nella provincia di Tever.

Il sogno di Seetzen, come fu più tardi quello di Burckhardt, è un viaggio nell'Africa centrale; ma egli vuole prepararvisi con una esplorazione della Palestina e della Siria, paesi sui quali la «Palestine association», fondata a Londra nel 1805, doveva fermare l'attenzione. Seetzen non aspettò questo tempo, e munito di molte raccomandazioni partì, nel 1802, per Costantinopoli.

Benché un gran numero di pellegrini e di viaggiatori si fossero succeduti nella Terra Santa e nella Siria, non si avevano ancora se non nozioni molto incerte su queste contrade. La geografia fisica non era sufficientemente stabilita, le osservazioni mancavano, e certe regioni, come il Libano ed il mar Morto, non erano mai state esplorate. Quanto alla geografia comparata, non esisteva ancora. Ci vollero gli studi assidui dell'Associazione inglese, e la scienza dei suoi viaggiatori per costituirla. Seetzen, che aveva spinti i suoi studi da diversi lati, si trovò dunque meravigliosamente preparato per esplorare questo paese, che, sebbene tante volte visitato, era in verità un paese nuovo.

Dopo d'aver attraversato tutta l'Anatolia, Seetzen giunse ad Aleppo nel mese di maggio del 1804, vi rimase quasi un anno dandosi allo studio pratico della lingua araba, facendo dei sunti delle opere degli storici e dei geografi dell'Oriente, verificando la posizione astronomica di Aleppo, attendendo a ricerche di storia naturale, raccogliendo manoscritti, traducendo un gran numero di quei canti popolari e di quelle leggende, che sono

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così preziose per la conoscenza intima di una nazione. Da Aleppo, Seetzen partì nell'aprile 1805 per Damasco. La

sua prima corsa lo condusse attraverso i cantoni di Hauran e di Djolan, situati al sud-est di questa città. Fino allora nessun viaggiatore aveva visitato queste due Provincie, abitate da popolazioni, che durante la dominazione romana ebbero una parte abbastanza importante nella storia degli ebrei, sotto il nome di Auraniti e di Gauloniti. Seetzen fu il primo a dare un'idea della loro geografia.

Il Libano e Baalbeck furono riconosciuti dall'ardito viaggiatore, il quale spinse le sue corse al sud della Damascena, discese in Giudea, esplorò la parte orientale dell'Hermon, del Giordano e del mar Morto. Era la sede di quei popoli ben conosciuti nella storia ebrea, gli Ammoniti, i Moabiti, i Galaditi, i Batanei, eco. La parte meridionale di questa contrada portava al tempo della conquista romana il nome di Permea, ed è là che si trovava la celebre Decapoli o Lega delle dieci città. Nessun viaggiatore moderno aveva visitato questa regione, e fu per Seetzen un motivo di cominciarvi le sue ricerche.

I suoi amici di Damasco si provarono a dissuaderlo da questo viaggio, dimostrandogli le difficoltà e i pericoli d'una via frequentata dai Beduini; ma nulla poté arrestarlo. Pure, prima di visitare la Decapoli e di riconoscere lo stato delle sue rovine, percorse un piccolo territorio, il Ladscha, che aveva triste riputazione a Damasco, in causa dei Beduini che l'occupavano, ma che si diceva contenesse notevoli antichità.

Partito da Damasco il 12 dicembre 1805 con una guida armena che lo fece smarrire fino dal prima giorno, Seetzen, prudentemente munito d'un passaporto del pascià, si fece accompagnare di villaggio in villaggio da un cavaliere armato.

La parte del Ladscha che ho veduto, dice il viaggiatore in una relazione riprodotta negli antichi Annali dei Viaggi, non

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offre come l'Hawaii che basalto, sovente porosissimo, che forma in molti luoghi ampi deserti di sassi. I villaggi, per la maggior parte distrutti, sono sul fianco delle rupi. Il color nero dei basalti, le case, le chiese e le torri crollate, la mancanza assoluta di alberi e di verzura, tutto dà a queste contrade un aspetto tenebroso e melanconico, che riempie l'animo di un certo terrore. Quasi ogni villaggio offre o iscrizioni greche o colonne, od altre reliquie dell'antichità. (Io ho copiato, fra le altre, un'iscrizione dell'imperatore Marco Aurelio.) I battenti delle porte sono qui, come nell'Hawaii, di basalto.»

Appena Seetzen giunse nel villaggio di Gerata, mentre si riposava alcuni istanti, una decina di uomini a cavallo gli annunciarono che essi erano venuti per arrestarlo a nome del vice governatore dell'Hauran. Il loro signore Omar-Aga avendo appreso che il Viaggiatore era già stato veduto l'anno precedente nel paese, e supponendo che i suoi passaporti fossero falsi, aveva loro prescritto di condurlo alla sua presenza.

Era impossibile opporsi. Senza commuoversi per questo incidente ch'egli considerava come un semplice contrattempo, Seetzen si avanzò di una giornata e mezza nell'Hauran, in cui incontrò Omar-Aga sulla via della carovana della Mecca.

Benissimo accolto, il viaggiatore ripartì il domani, ma rincontro ch'egli fece per via di molte frotte di Arabi, ai quali egli s'impose col suo contegno, gli lasciò la certezza che Omar-Aga avesse voluto farlo spogliare.

Tornato da Damasco, Seetzen stentò molto a trovare una guida che consentisse ad accompagnarlo nel suo viaggio lungo la riva orientale del Giordano e attorno al mar Morto. Pure un certo Yusuf-al-Mílky, di religione greca, che aveva fatto per una trentina d'anni commercio colle tribù arabe e percorsi i cantoni che Seetzen voleva visitare, acconsentì ad accompagnarlo.

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Fu il 19 gennaio 1806 che i due viaggiatori lasciarono Damasco. Seetzen non portava per tutto bagaglio che pochi cenci, i libri indispensabili, della carta per disseccare le piante e l'assortimento di droghe necessario al supposto suo carattere di medico. Egli aveva vestito il costume di sceicco di seconda classe.

I due distretti di Rajscheia e d'Hasbeia, situati a piede del monte Hermon, la cui vetta spariva allora sotto uno strato di neve, furono quelli che Seetzen esplorò per primi, perchè erano i meno conosciuti della Siria.

Dall'altra parte della montagna il viaggiatore visitò successivamente Achha, villaggio abitato dai Drusi; Ráscheia, residenza dell'emiro; Hasbeia, dove egli alloggiò in casa del dotto vescovo greco de Szur o Szeida, pel quale aveva una lettera di raccomandazione. L'oggetto che attrasse più particolarmente l'attenzione del viaggiatore in questo paese montuoso fu una miniera d'asfalto, materia «che qui viene adoperata per difendere le viti dagli insetti».

Da Hasbeia, Seetzen se ne andò poi a Baniass, l'antica Coesarea Philippi, oggi miserabile villaggio composto d'una ventina di casali. Se si potevano ancora ritrovare le traccie delle sue mura di cinta, non era così degli avanzi del tempio magnifico che fu innalzato da Erode in onore di Augusto.

Il fiume di Baniass era creduto dagli antichi la sorgente del Giordano; ma è il fiume d'Hasbeny che, formando il ramo più lungo del Giordano, deve meritare questo nome. Seetzen lo riconobbe, come pure il lago Meron o Samachonitis dell'antichità.

In quel punto fu abbandonato ad un tempo dai suoi mulattieri che per nulla al mondo avrebbero voluto accompagnarlo fino al ponte di Dschir-Behat-Jakub, e dalla sua guida Yusuf» ch'egli dovette mandare per la strada maestra ad aspettarlo a Tiberiade, mentre egli stesso si avanzava a piedi

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verso quel ponte così temuto, seguito da un solo arabo. Ma a Dschir-Behat-Jakub, Seetzen non poté trovare

nessuno che volesse accompagnarlo sulla riva orientale del Giordano, quando un indigeno, apprendendo la sua qualità di medico, lo pregò di andar a visitare il suo sceicco affetto da oftalmia, che abitava sulla riva orientale del lago Tiberiade.

Seetzen non rifiutò questa occasione e fece bene, giacché osservò a sua bell'agio il mare di Tiberiade ed il fiume Wady-Szemmak, non senza aver arrischiato di essere spogliato ed assassinato dalla sua guida. Egli poté finalmente giungere a Tiberiade, la Tabaria degli Arabi, dove Yusuf l'aspettava da molti giorni.

«La città di Tiberiade, dice Seetzen, è situata immediatamente sulle sponde del lago di questo nome, e dal lato della terra essa è circondata da un buon numero di pietre da taglio di basalto; ciò non ostante essa merita appena il nome di borgo. Non vi si trova nessuna traccia del suo antico splendore; ma si riconoscono le rovine dell'antica città che si stendono fino ai bagni caldi situati ad una lega verso Test. Il famoso Djezar-pascià ha fatto costruire una sala da bagni al disopra della sorgente principale. Se questi bagni fossero stati in Europa, avrebbero probabilmente ottenuta la preferenza sopra tutti i bagni conosciuti. La vallata nella quale si trova il lago, favorisce colla concentrazione del calore la vegetazione dei datteri, dei cedri, degli aranci e dell'indaco, mentre il terreno più elevato potrebbe dare i prodotti dei climi temperati.»

All'ovest della punta meridionale del lago giacciono gli avanzi dell'antica città di Tarichoea. È là che comincia la bella pianura EI-Ghor, fra due catene di montagne, pianura poco coltivata percorsa dagli Arabi nomadi.

Seetzen continuò il suo viaggio attraverso la Decapoli senza incidenti notevoli, salvo che dovette travestirsi da

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mendicante per sottrarsi alla rapacità degli indigeni. «Misi sulla mia camicia, dice egli, un vecchio kambas o

veste da camera, e sopra una vecchia camicia azzurra e stracciata da donna; mi copersi il capo con alcuni cenci, e i piedi con ciabatte. Un vecchio abbaje a brandelli gettato sulle mie spalle mi difendeva dal freddo e dalla pioggia, ed un ramo d'albero mi serviva di bastone. La mia guida, cristiano greco, si vestì press'a poco al medesimo modo, ed in tale stato percorremmo il paese per tre giorni, sovente arrestati da pioggie fredde che ci bagnarono fino alla pelle. Io anzi fui costretto a camminare tutta una giornata a piedi nudi, nel fango, perchè mi era impossibile di servirmi delle mie ciabatte su quella terra grassa e tutta intrisa d'acqua.»

Draa, che si incontra un po' più lontano, non è più che un ammasso di rovine deserte, e non vi si trova nessun avanzo dei monumenti che un tempo la rendevano celebre. Il distretto d'El-Botthin, che viene poi, contiene molte migliaia di caverne scavate nella rupe, nelle quali dimoravano i suoi antichi abitanti. Così era press'a poco ancora al tempo del passaggio di Seetzen.

Mkês era un tempo una città ricca e importante, come lo provano i numerosissimi avanzi di colonne e i suoi sarcofaghi. Seetzen l'identifica con Gadara, una delle città secondarie della Decapolitania.

Poche leghe più oltre si trovano le rovine d'Abil, l'Abila degli antichi. Seetzen non poté determinare la sua guida Aoser a recarvisi, perchè spaventato dalle dicerie che correvano circa gli Arabi Beni-Szahar: egli dovette perciò andarvi solo.

«Essa è completamente rovinata ed abbandonata, dice il viaggiatore; non v'è più un solo edificio in piedi, ma le rovine e le reliquie fanno testimonianza dei suo splendore passato. Vi si trovano bellissimi avanzi dell'antica cinta, ed una quantità di archi e di colonne di marmo, di basalto e di granito grigio.

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Oltre questa cinta, trovai un gran numero di colonne, due delle quali d'una grandezza straordinaria. Ne argomentai che vi fosse stato un tempio importante.»

Uscendo dal distretto d'El-Botthin, Seetzen entrò in quello d'Edschlun. Egli non tardò a scoprire le importanti rovine di Dscherrasch, che possono essere paragonate a quelle di Palmira e di Baalbek.

«Non si saprebbe spiegare, dice Seetzen, come questa città, un tempo così celebre, abbia potuto sfuggire finora all'attenzione degli amatori delle antichità. Essa è posta in una pianura aperta, abbastanza fertile ed attraversata da un fiume. Prima di entrarci trovai molti sarcofaghi con bellissimi bassorilievi, fra i quali ne notai uno da un lato della via con

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un'iscrizione greca. Le mura della città sono assolutamente crollate; ma si riconosce ancora tutta la loro estensione, che può essere stata di tre quarti di lega, forse anche una lega. Queste mura erano interamente costrutte di marmo. Lo spazio interno è ineguale e si abbassa verso il fiume. Nessuna casa privata è stata conservata; in compenso notai molti edifici pubblici che si distinguevano per una bellissima architettura. Vi trovai due superbi anfiteatri costrutti solidamente in marmo con colonne, nicchie, ecc., il tutto ben conservato; alcuni palazzi e tre templi, uno dei quali aveva un peristilio di dodici grandi colonne d'ordine corintio, undici delle quali sono ancora ritte. In un altro di questi templi vidi una colonna rovesciata, del più bel granito egiziano lisciato. Ho trovato anche una bella porta di città, ben conservata, formata di tre arcate ed ornata di pilastri, Il più bel monumento che vi rinvenni è una via lunga, tagliata da un'altra ed ornata dai due lati di una fila di colonne di marmo d'ordine corintio; una delle estremità di queste vie terminava in un luogo semicircolare circondato da settanta colonne d'ordine ionico… Al punto in cui le due vie si incrociano, in ciascuno dei quattro angoli si vede un gran piedestallo di pietra da taglio che un tempo portava evidentemente delle statue… Si riconosceva ancora una parte del pavimento costrutto di grandi pietre. In generale io contai circa duecento colonne, ancora ritte, ma il numero di quelle che sono rovesciate è infinitamente maggiore, giacché io non vidi che metà la città, e probabilmente nell'altra metà al di là dei fiume si troverà ancora un gran numero di curiosità notevoli.»

Secondo Seetzen, Dscherrasch non può essere che l'antica Gerasa, città che fino allora era stata collocata erroneamente sopra tutte le carte.

Il viaggiatore attraversò ben presto la Serka, il Jabok degli storici ebrei, che formava il limite settentrionale del paese degli Ammoniti; penetrò nel distretto d'El-Belka, paese un tempo

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fiorente, ma allora assolutamente incolto e deserto, dove non si trova che un solo borgo, Szalt, l'antica Amatusa. Seetzen visitò poi Amman, celebre sotto il nome di Filadelfia fra le città decapolitane, in cui si trovano ancora delle belle antichità; Eleale, antica città degli Amoriti; Madaba, che al tempo di Mosè portava il nome di Madba; il monte Nebo, da cui Mosè salutò la Terra promessa senza che gli fosse dato di mettervi piede; Diban, il paese di Karrak, patria dei Moabiti: le rovine di Robba (Rabbatti), residenza degli antichi re del paese, e giunse dopo molte fatiche attraverso un paese montuoso, nella regione situata all'estremità meridionale del mar Morto e chiamata Gor-es-Szofia.

Il caldo era intenso, e bisognava attraversare grandi pianure di sale non bagnate da alcun corso d'acqua. Fu il 6 aprile che Seetzen «giunse a Betlemme, e poco dopo a Gerusalemme, non senza aver patito orribilmente la sete, ma col raro diletto di attraversare contrade assai curiose, che nessun viaggiatore moderno aveva percorso prima di lui.

Nel medesimo tempo egli aveva raccolte preziose informazioni sulla natura delle acque dei mar Morto, rifiutate molte favole grossolane, corretti molti errori delle carte più precise, contribuito all'identificazione di molte città antiche della Perea, e accertata l'esistenza di numerose rovine che facevano testimonianza del grado di prosperità raggiunto da quella regione sotto la dominazione romana. Il 25 giugno 1806 Seetzen lasciava Gerusalemme e rientrava per mare a San Giovanni d'Acri.

«Questa traversata era stata un vero viaggio di scoperte» dice il signor Vivien di Saint-Martin in un articolo della Revue Germanique del 1858.

Ma queste scoperte Seetzen non volle lasciarle incompiute. Dieci mesi più tardi egli faceva una seconda volta il giro del lago Asfaltile, e con questo nuovo viaggio aumentava di molto

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le sue prime osservazioni. Il viaggiatore se ne andò poi al Cairo, dove soggiornò due

anni intieri. Là egli comperò la maggior parte dei manoscritti orientali, che formano la ricchezza della biblioteca di Gotha, raccolse tutte le notizie possibili sui paesi dell'interno, ma guidato da un istinto sicurissimo, e non accettando se non quelle che sembravano rivestire i caratteri di una certezza quasi assoluta.

Questo riposo relativo, benché così lontano dall'ozio, non poteva convenire per molto tempo alla sete insaziabile di scoperte di Seetzen. Nel mese di aprile 1809 egli lasciava definitivamente la capitale dell'Egitto, dirigendosi verso Suez e la penisola del Sinai che egli contava di rivisitare prima di penetrare nell'Arabia. Paese pochissimo noto, l'Arabia non era stata visitata che da negozianti maluini, venuti là per comperare la «fava di Moka». Fino a Niebuhr, nessuna spedizione scientifica era stata ordinata per studiare la geografia del paese ed i costumi degli abitanti.

Si deve al professore Michälis, a cui mancavano certe notizie per chiarire alcuni passi della Bibbia, questa spedizione, le cui spese furono fatte dalla munificenza del re di Danimarca, Federico V.

Comporta del matematico von Haven, del naturalista Forskaal, del medico Cramer, del pittore Braurenfeind e dell'ufficiale del genio Niebuhr, questa accolta di uomini seri e dotti rispose mirabilmente a quanto si aspettava da essa.

Dal 1762 al 1764 essi visitarono l'Egitto, il monte Sinai, Djedda, sbarcarono a Loheia e penetrarono nell'interno dell'Arabia Felice, esplorando il paese ciascuno secondo la sua attitudine. Ma le fatiche e le malattie vinsero quegli intrepidi viaggiatori, e poco stante Niebuhr rimase solo per utilizzare le osservazioni raccolte da lui stesso e dai suoi compagni. La sua opera è una miniera inesauribile, che oggi ancora si può

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consultare con profitto. Si vede che Seetzen procurava in ogni guisa di superare il

viaggio di chi lo aveva preceduto. Per ottenere questo scopo usò i mezzi più ingegnosi. Il 31 luglio, dopo aver fatto professione pubblica di islamismo, s'imbarcava a Suez per la Mecca, e contava di penetrare in questa città in abito di pellegrino. Tor e Djedda furono le due tappe che precedettero l'entrata di Seetzen nella città santa. Egli fu del resto singolarmente colpito dall'affluenza dei fedeli e dal carattere così stranamente particolare di questa città, che vive del culto e per il culto.

«Tutto questo assieme, dice il viaggiatore, fece nascere in me una viva emozione che non provai mai in nessun altro luogo.»

È inutile insistere su questa parte del viaggio, come anche sull'escursione a Medina. Meglio ricorrere al racconto preciso e veridico di Burchkardt per la descrizione di questi luoghi santi. Del resto noi, dei lavori di Seetzen non abbiamo posseduto a lungo altro che gli estratti pubblicati negli Annali di Viaggi e nella Corrispondenza del barone di Zach. Fu solo nel 1858 che i giornali di viaggio di Seetzen furono pubblicati in tedesco, ma in un modo molto incompleto.

Da Medina il viaggiatore tornò alla Mecca, dove si diede allo studio segreto della città, delle cerimonie del culto, e ad alcune osservazioni astronomiche che servirono a determinare la posizione di questa capitale dell'islamismo.

Il 23 marzo 1810 Seetzen era rientrato a Djedda, poi s'imbarcava coll'arabo che gli aveva servito d'istitutore alla Mecca per Hodeida, uno dei principali porti del Yemen. Dopo esser passato per Berth-el-Fakih, il cantone montuoso in cui si coltiva il caffè, dopo essere stato trattenuto quasi un mese a Doran dalla malattia, Seetzen entrò il 2 giugno in Saana, la capitale del Yemen, egli chiama la più bella città dell'Oriente.

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Il 22 luglio egli discendeva fino ad Aden, e in novembre era a Moka, da dove sono datate le ultime lettere che si ricevettero di lui. Rientrato nel Yemen, egli fu, come Niebuhr, spogliato delle sue collezioni e de'suoi bagagli col pretesto che faceva raccolta di animali per comporne un filtro destinato ad avvelenare le sorgenti.

Ma Seetzen non volle lasciarsi spogliare senza dir nulla. Egli partì immediatamente per Saana, dove contava di esporre a queir iman i suoi reclami. Era il mese di dicembre 1811. Alcuni giorni più tardi si sparse la voce della sua morte improvvisa a Taes e non tardò a venire a cognizione degli europei che frequentavano i porti arabi.

A chi si deve attribuire la responsabilità di questa morte?

All'iman od a coloro che avevano spogliato l'esploratore? Oggi

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poco ci importa; ma è deplorevole che un viaggiatore così bene costituito, già informato degli usi e dei costumi arabi, non abbia potuto spingere più lontano le sue esplorazioni, e che la maggior parte dei suoi giornali e delle sue osservazioni sia andata perduta per sempre.

«Seetzen, dice Vivien de Saint-Martin, è, dopo Lodovico Barthema (1503), il primo viaggiatore che sia penetrato nella Mecca, e nessun europeo prima di lui aveva veduto la città santa di Medina, consacrata dalla tomba del Profeta.»

Si comprende da ciò tutto il valore che avrebbe avuto la relazione di questo viaggiatore disinteressato, ben informato e veridico.

Nel momento in cui una morte inaspettata metteva fine alla missione che si era prefissa Seetzen, Burckhardt si slanciò sulle sue traccie, e, al pari di lui, si preparava, con delle corse in Siria, a una lunga e minuziosa esplorazione dell'Arabia.

«È cosa poco comune nella storia della scienza, dice Vivien de Saint-Martin, vedere due uomini di così grande vaglia succedersi o meglio continuarsi così nella stessa impresa. Burckhardt infatti doveva seguire in molti punti la traccia che Seetzen aveva indicata, ed egli, bene assecondato da circostanze favorevoli che gli permisero di moltiplicare le sue corse esploratrici, ha potuto aggiungere molto alle scoperte fatte dal suo predecessore.»

Benché Gian Luigi Burckhardt non sia inglese, essendo nato a Losanna, deve nondimeno essere posto fra i viaggiatori della Gran Bretagna. Fu infatti mercè le sue relazioni con sir Giuseppe Banks, il naturalista, compagno di Cook, con Hamilton, segretario dell'Associazione Africana, ed il valido concorso ch'essi gli prestarono, che Burckhardt fu messo in grado di viaggiare utilmente.

Dotato di un'estesa istruzione, di cui aveva attinti i primi elementi alle università di Lipsia, di Gottinga, dove seguì i

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corsi di Blumenbaeh, e più tardi di Cambridge, dove apprese l'arabo, Burckhardt si imbarcò, nel 1809, per l'Oriente. Per prepararsi ai disagi della vita del viaggiatore, egli si era volontariamente sottoposto a lunghi digiuni, al supplizio della sete, ed aveva scelto per origliere il lastricato delle vie di Londra, e per letto la polvere delle strade.

Ma codeste prove, comunque assai dure, riuscirono molto inferiori agli stenti dell'apostolato scientifico.

Partito da Londra per la Siria, dove doveva perfezionarsi nella lingua araba, Burckhardt aveva progettato di recarsi in seguito al Cairo e di portarsi nel Fezzan per la strada già percorsa da Hornemann. Una volta giunto in questo paese, le circostanze gli indicherebbero quale via gli converrebbe seguire.

Dopo d'aver preso il nome di Ibrahim-Ibn-Abdallah, Burckhardt si fece passare per un indiano mussulmano. Il viaggiatore dovette ricorrere a più d'un inganno per far credere al suo travestimento. Una notizia necrologica, apparsa negli Annali dei Viaggi, racconta che allorquando era pregato di parlar indiano, Burckhardt non mancava di esprimersi in tedesco. Un interprete italiano, che sospettava ch'egli fosse un giaurro, giunse fino a tirargli la barba, il più grave insulto che si possa fare ad un musulmano. Burckhardt si era tanto investito della parte del personaggio, che rispose immediatamente con un pugno magistrale, che mandando il povero interprete a rotolare a dieci passi, amicò al viaggiatore quelli che ne ridevano, e li convinse della sua sincerità.

Dal settembre 1809 al febbraio 1812 Burckhardt rimase ad Àleppo,. non interrompendo i suoi studi sulla lingua e sui costumi della Siria che per un'escursione di sei mesi a Damasco, a Palmira e nel Hauran, paese che Seetzen solo aveva visitato prima di lui.

Si narra che durante una corsa da lui fatta nello Zor,

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cantone situato al nord-est di Aleppo, sulle rive dell'Eufrate, Burckhardt fu spogliato del suo bagaglio e delle sue vesti da una banda di predoni. Non gli rimanevano più che i suoi calzoni, quando la moglie di un capo che non aveva avuto la sua parte di bottino, volle togliergli anche questa necessario indumento.

«Queste cose, dice la Reme Germànique, ci valsero una notevole quantità di notizie su paesi di cui non si avevano fino allora che poche notizie per mezzo delle comunicazioni ancora incomplete di Seetzen. Anche nei cantoni già frequentemente visitati, lo spinto osservatore di Burckhardt sapeva raccogliere un gran numero di fatti interessanti, che il più dei viaggiatori avevano trascurati… Questi preziosi materiali furono pubblicati dal colonnello Martino Guglielmo Leake, esso pure viaggiatore distinto, dotto geografo e profondo erudita…»

Burckhardt aveva veduto Palmira e Baalbek, le colline del Libano e la vallata dell'Oronte, il lago Hhuleh e le sorgenti del Giordano. Egli aveva segnalato per la prima volta un gran numero di paesi antichi. Furono specialmente le sue indicazioni che ci condussero con certezza sul luogo della celebre Apamea, quantunque egli stesso ed il suo dotto editore si siano ingannati nell'applicazione di questi dati. Infine le sue corse nell'Auranitis, benché fatte dopo quelle di Seetzen, sono egualmente ricche di notizie geografiche ed archeologiche, che fanno conoscere il paese nel suo stato attuale, e gettano vivi sprazzi di luce sulla geografia comparata di tutte le epoche.

Nel 1812 Burckhardt lascia Damasco, visita il mar Morto, la vallata d'Acaba, ed il vecchio porto d'Aziongaber, regioni oggigiorno percorse da frotte d'inglesi, col Murray, il Cook od il Baedeker alla mano; ma che allora non si potevano percorrere se non con pericolo della vita. È in una vallata laterale che il viaggiatore trovò le imponenti rovine di Petra, l'antica capitale dell'Arabia Petrea.

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Alla fine dell'anno, Burckhardt era al Cairo. Non giudicando conveniente di unirsi alla carovana che partiva pel Fezzan, egli si sentì attratto particolarmente dalla Nubia, regione molto più curiosa per lo storico, il geografo e l'archeologo. Culla della civiltà egiziana, nessuno l'aveva

visitata, dopo il portoghese Alvarès, tranne i francesi Poncet e Lenoir Duroule, alla fine del secolo XVII, e al principio del secolo XVIII, Bruce, il cui racconto era stato tante volte messo in dubbio, e Norden che non era andato più in là di Derr.

Nel 1813 Burckhardt esplorò la Nubia propriamente detta,

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il paese del Kennur ed il Mohass. Questa escursione non gli costò che quarantanove franchi, somma ben modica, se la si confronta a ciò che si spende oggidì pel minimo tentativo di viaggio in Africa. É però vero che Burckhardt sapeva accontentarsi d'una manata di durra (miglio) per il pranzo, e che tutto il suo seguito si componeva di due dromedari.

Contemporaneamente a lui, due inglesi, i signori Legh e Smelt, percorrevano il paese spargendo l'oro e i doni sui loro passi e rendendo così molto costosa l'opera dei loro successori.

Burckhardt superò le cateratte del Nilo. «Un po' più lungi, dice là relazione, vicino ad un luogo

chiamato Djebel-Lamule, le guide arabe hanno Fuso di esigere un regalo straordinario da colui che accompagnano. Ecco come vi riescono: si fermano, mettono piede a terra, e formano un piccolo mucchio di sabbia e di ciottoli come quello che i Nubiani mettono sulle loro sepolture; ciò viene chiamato da essi: scavare la fossa del viaggiatore. Questa manifestazione è seguita da una domanda imperiosa. Burckhardt, avendo veduto la guida cominciare questa operazione, si pose tranquillamente ad imitarla; poi le disse: «Ecco la tua tomba; giacché siamo fratelli, è giusto che siamo assieme seppelliti.» L'arabo non poté trattenersi dal ridere; entrambi distrussero i sinistri lavori, e risalirono sui camelli, buoni amici come prima. L'arabo citò il versetto del Corano che dice: «Nessun mortale conosce il cantuccio di terra in cui sarà scavata la sua fossa.»

Burckhardt avrebbe ben voluto penetrare nel Dongolah, ma dovette accontentarsi di raccogliere delle informazioni, del resto interessanti, sul paese e sui Mamalucchi, che vi si erano rifugiati dopo il massacro di questa potente milizia, ordinato dal pascià d'Egitto ed eseguito dai suoi Arnauti.

Ad ogni momento il viaggiatore veniva arrestato da rovine di templi e di città; nulla di più curioso di quelle d'Ibsambul.

«Il tempio, dice la relazione, situato immediatamente sulle

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rive del fiume (Nilo) ha davanti sei statue colossali ritte, che dal suolo fino ai ginocchi misurano sei piedi e mezzo: esse rappresentano Iside ed Osiride in diverse posizioni… Tutte le muraglie e i capitelli delle colonne sono coperti di pitture o di sculture geroglifiche, nelle quali Burckhardt credette di riconoscere lo stile d'un'antichità molto remota. Tutto ciò è tagliato nella viva roccia. Le statue sembra siano state dipinte in giallo ed i capelli in nero. A duecento jarde da questo tempio, si vedono gli avanzi d'un monumento ancor più colossale; sono quattro statue immense quasi sepolte nelle sabbie, in modo che non si può determinare se siano in piedi o sedute…»

Ma a che scopo soffermarsi alla descrizione di monumenti oramai conosciuti, disegnati, fotografati? Le narrazioni dei viaggiatori di quell'epoca non hanno altro interesse che di indicarci lo stato delle rovine, e di farci vedere il danno immenso prodotto dalle depredazioni degli Arabi.

Il tratto percorso da Burckhardt in questa prima escursione non comprende che le rive del Nilo, regione molto stretta, che fa seguito a piccole valli, che vanno a metter capo al fiume. Egli stima la popolazione della contrada a centomila individui, sparsi sopra una lingua di terra, coltivabile, di quattrocentocinquanta miglia di lunghezza.

«Gli uomini sono generalmente ben fatti, forti e muscolosi, un po' inferiori agli Egiziani per la statura; ed hanno poca barba e punti baffi, ma solo un pizzo di barba sotto il mento. Sono dotati di una fisionomia simpatica, e superano gli Egiziani tanto per coraggio che per intelligenza. Sono curiosi, fanno molte domande e non hanno il vitto di rubare. Qualche volta vanno in Egitto a raggranellare, a furia di lavoro, una piccola fortuna; ma non hanno lo spirito di commercio. Le donne condividono le stesse doti fisiche; ve ne sono di belle, e tutte son ben fatte; sui loro volti è dipinta la dolcezza, ed esse vi

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uniscono un grande sentimento di pudore. Il signor Denon ha giudicato troppo male i Nubiani, ma bisogna dire che il loro fisico varia da cantone a cantone; dove il terreno coltivabile è grandissimo, essi sono ben fatti; dove il terreno fertile non è che un lembo stretto, pare che anche gli abitanti diminuiscano di forza e qualche volta sembrano scheletri ambulanti.»

Il paese gemeva sotto il giogo dispotico dei Kachefs, discendenti dei comandanti dei Bosniaci, i quali non pagavano che un tenue tributo annuo all'Egitto. Nondimeno ciò bastava ad essi come un pretesto per opprimere il disgraziato fellah. Burckhardt cita un esempio abbastanza curioso dell'indifferenza insolente colla quale i Kachefs eseguiscono le loro razzìe.

«Hassan-Kacbef, dice egli, aveva bisogno di orzo pei suoi cavalli; egli va pei campi, seguito da un gran numero di schiavi; presso un bel campo di orzo incontra il paesano che ne era il padrone. «Voi coltivate male le vostre terre, esclama; seminate dell'orzo in questo campo in cui avreste potuto raccogliere degli eccellenti cocomeri che varrebbero il doppio. Via, ecco della semente di cocomeri (e ne diede una manata al paesano), seminatene il vostro campo, e voi, schiavi, strappate questo brutto orzo e portatelo a casa mia.»

Nel mese di marzo 1814, dopo d'aver riposato alquanto, Burckhardt intraprese una nuova esplorazione, questa volta non più sulle rive del Nilo, ma sibbene nel deserto di Nubia. Stimando che la salvaguardia più efficace sia la povertà, il prudente viaggiatore rimandò il suo domestico, vendette il suo camello, e accontentandosi di un solo asino, raggiunse una carovana di poveri mercanti.

La carovana partì da Darau, villaggio abitato metà dai Fellahs, metà dagli Ababdés. Il viaggiatore ebbe a lamentarsi molto dei primi, non perchè vedessero in lui un europeo, ma perchè lo credevano un turco di Siria, venuto coll'intenzione di

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impadronirsi d'una parte del commercio degli schiavi, di cui essi avevano il monopolio.

È inutile ricordare qui il nome dei pozzi, delle colline e delle vallate di questo deserto. Preferiamo riassumere l'aspetto fisico della contrada da quanto ne dice il viaggiatore.

Brace, che l'aveva percorsa, la dipinge sotto colori troppo tetri, ed esagera, per farsene un merito, le difficoltà della strada. Se si crede a Burckhardt, questa sarebbe meno arida della strada da Aleppo a Bagdad, o da Damasco a Medina. Il deserto nubiano non è una pianura di sabbia senza limiti, di cui nessun accidente rompa la desolante monotonìa. Esso è seminato di rocoie, delle quali alcune non hanno meno di due a trecento piedi di altezza, e sono ombreggiate qua e là da enormi macchie di dum e da acacie. La vegetazione brulla di questi alberi non è che un riparo ingannevole contro i raggi verticali del sole. Epperò il proverbio arabo dice: «Conta sulla protezione di un grande e sull'ombra dell'acacia.»

Fu ad Ankheyre o Uadi-Berber che la carovana giunse al Nilo, dopo di essere passata per Schiggre, dove esiste una delle, migliori sorgenti in mezzo alle montagne. Insomma, l'unico pericolo che presenta la traversata di questo deserto è di trovare asciutto il pozzo di Nedjeym, ed a meno di sbagliare la strada, il che è difficile con buone guide, non si incontrano seri ostacoli.

La descrizione dei patimenti sofferti da Bruce in questo luogo deve dunque essere singolarmente modificata, quantunque la narrazione del viaggiatore scozzese sia il più delle volte veritiera.

Gli abitanti del paese di Berber pare siano i Barbarmi di Bruce, il Barabrar di d'Anville ed i Barauras di Poncet. Le loro, forme sono belle, i lineamenti affatto diversi da quelli dei Negri. Essi conservano questa purezza del sangue non pigliando per mogli legittime che figlie della loro tribù o di

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qualche altra popolazione araba. La pittura che Burckhardt fa del carattere e dei costumi di

questa tribù, quantunque molto curiosa, non ha però nulla di edificante. Sarebbe difficile dare un'idea della corruzione e dell'avvilimento degli abitanti di Berber. Luogo di commercio, ritrovo di carovane, deposito di schiavi, questa piccola città ha tutto quanto abbisogna per essere un vero rifugio di banditi.

I commercianti di Darau, sulla protezione dei quali Burckhardt aveva fino allora contato molto a torto, giacché essi

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cercavano tutti i mezzi di sfruttarlo, lo cacciarono dalla loro compagnia uscendo da Berber, ed il viaggiatore dovette cercare protezione presso alcune guide, che lo accolsero volontieri.

Il 10 aprile la carovana fu posta a riscatto dal Mek di Damar, un po' al sud del confluente del Mogren (il Mareb di Bruce). È un villaggio di fakiri, pulito e ben tenuto, che contrasta piacevolmente con la sporcizia e le rovine di Berber. Questi fakiri si danno a tutte le pratiche della stregoneria e della magia od al ciarlatanismo più sfrontato. Uno di essi, si dice, aveva perfino fatto belare un agnello nello stomaco dell'uomo che l'aveva rubato e mangiato. Queste popolazioni ignoranti prestano intera fede a questi prodigi, e bisogna confessare a malincuore che ciò contribuisce singolarmente al buon ordine, alla quiete della città ed alla prosperità del paese.

Da Damer, Burckhardt andò a Schendy, ove rimase tutto un mese senza che nessuno sospettasse la sua qualità di infedele. Schendy, poco importante al tempo del viaggio di Bruce, possedeva allora un migliaio di case. Vi si fa un notevole commercio, specie di durra, di schiavi e di cammelli. Gli articoli più offerti sono la gomma, l'avorio, l'oro in verghe e le penne di struzzo.

Il numero di schiavi venduti annualmente a Schendy si eleverebbe, secondo Burckhardt, a cinquemila, dei quali duemilacinquecento per l'Arabia, quattrocento per l'Egitto, mille per Dongola e per il litorale del mar Rosso.

Il viaggiatore approfittò del suo soggiorno alla frontiera del Sennaar per raccogliere alcune informazioni su questo regno. Fra le altre particolarità curiose gli fu raccontato che un giorno avendo il re invitato l'ambasciatore di Mehemet-Alì ad una rivista della sua cavalleria ch'egli credeva formidabile, l'inviato gli chiese il permesso di farlo assistere agli esercizi dell'artiglieria turca. Alla prima scarica di due piccoli pezzi di campagna montati sopra cammelli, la fanteria, la cavalleria, i

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curiosi, la corte ed il re stesso fuggirono spaventati. Burckhardt vendette il suo poco bagaglio; poi, stanco delle

persecuzioni dei mercanti egiziani, suoi compagni di viaggio, raggiunse la carovana di Suakim allo scopo di percorrere il paese, assolutamente sconosciuto, che separa quest'ultima città da Schendy. A Suakim il viaggiatore contava d'imbarcarsi per la Mecca, sperando che l'Hadji gli fosse più utile per realizzare i suoi ulteriori progetti.

«Gli Hadjis, dice lui, formano un corpo, e nessuno osa toccarne un membro, per paura di vederselo venire tutto addosso.»

La carovana alla quale si era unito Burckhardt era forte di centocinquanta mercanti e trecento schiavi. Duecento camelli portavano pesanti carichi di tabacco e di «dammur», stoffa fabbricata al Sennaar.

Ciò che interessò maggiormente il nostro viaggiatore fu l'Atbara, sulle cui rive, fiancheggiate da grandi alberi, riposavano piacevolmente gli occhi affaticati dagli aridi deserti percorsi fino allora.

Il corso del fiume fu seguito fino alla fertile contrada di Taka. La pelle bianca dello sceicco Ibrahim — si sa che tale era il nome preso da Burckhardt — eccitava in parecchi villaggi le grida d'orrore del sesso femminile poco abituato a vedere degli Arabi.

«Un giorno, racconta il viaggiatore, una giovanetta di campagna, dalla quale avevo comperate delle cipolle, mi disse che me ne avrebbe date di più se avessi voluto scoprirmi e mostrarle la mia testa. Io ne volli otto, ch'essa mi diede subito. Quando essa vide la mia testa bianca ed affatto rasa, indietreggiò inorridita, ed avendole io domandato per ischerzo se essa vorrebbe un marito che avesse una testa simile, espresse ü più grande disgusto, e giurò che avrebbe preferito il più laido degli schiavi condotti dal Darfur.».

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Poco oltre Goz-Radjeb, Burckhardt vide un monumento che gli fu detto essere una chiesa od un tempio, giacché la parola usata ha i due significati. Egli si precipitava verso quella parte, quando i suoi compagni lo richiamarono, gridandogli:

«Tutti i dintorni sono pieni di briganti, tu non puoi fare cento passi senza essere assalito.»

Era un tempio egiziano? o non era piuttosto un monumento dell'impero d'Axum? È ciò che il viaggiatore non poté decidere.

La carovana giunse finalmente nel paese di Taka, o El-Gasch, grande pianura inondata dal giugno al luglio, dalla piena di piccoli fiumi, il cui limo è d'una fertilità meravigliosa. Epperò vi è ricercato il durra che vi cresce, e si vende a Djeddah al veriti per cento di più del miglio d'Egitto.

Gli abitanti, chiamati Hadendoa, sono traditori, ladri, sanguinari, e le loro donne sono corrotte quasi tanto come quelle di Schendy e di Berber.

Quando si lascia Taka per andare a Suakim ed alla spiaggia del mar Rosso, bisogna attraversare una catena di montagne di calcare, in cui non si trova il granito come a Schinterab. Questa catena non presenta alcuna difficoltà. Epperò il viaggiatore arrivò senza ostacoli a Suakim il 26 maggio.

Ma disagi che Burckhardt doveva soffrire non erano terminati. L'emiro e l'aga si erano messi d'accordo per depredarlo, ed egli era trattato come l'ultimo degli schiavi, quando la vista dei firmani, che egli aveva da Mehemet-Alì e da Ibrahim-pascià, mutò completamente la scena. Anziché andare in prigione, come ne era minacciato, il viaggiatore fu condotto dall'aga, che volle ospitarlo e fargli dono di una giovine schiava.

«Questa traversata di venti a venticinque giorni, dice il signor Vivien di Saint-Martin, fra il Nilo e il mar Rosso, era la

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prima che un europeo avesse effettuato. Essa valse all'Europa le prime informazioni precise intorno le tribù, in parte nomadi, in parte sedentarie, di quei cantoni. Le osservazioni di Burckhardt sono di un grande interesse. Noi conosciamo poche letture più sostanzialmente istruttive, e nondimeno più attraenti.»

Burckhardt poté imbarcarsi, il 7 luglio, sopra un battello del paese e giungere undici giorni più tardi a Djedda, che è come il porto della Mecca.

Djedda è costruita sulla riva del mare e circondata da mura impotenti contro l'artiglieria, ma che bastano perfettamente a difenderla dai Wahabiti. Questi, che furono detti i «puritani dell'islamismo», costituiscono una setta dissidente, che pretendeva di ricondurre il maomettismo alla semplicità primitiva.

«Una batteria, dice Burckhardt, difende l'ingresso dal lato

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del mare e domina tutto il porto. Sul suo affusto si vede un enorme pezzo di artiglieria che porta una palla di cinquecento libbre, e che è tanto celebre per tutto il golfo arabico, che la sua sola riputazione è una protezione per Djedda.»

Uno dei grandi difetti di questa città è la mancanza d'acqua dolce, che bisogna andare ad attingere dai pozzi posti a quasi due miglia di là. Senza giardini, senza vegetali, senza datteri, Djedda, non ostante la sua popolazione di dodici a quindicimila abitanti, — cifra che si raddoppia nella stagione del pellegrinaggio — presenta un aspetto assolutamente originale. La sua popolazione non è autoctona, ma si compone di indigeni dell'Hadramazt, dell'Yemen, o d'Indiani di aurate e di Bombay, di Malesi, che, venuti in pellegrinaggio, si sono fermati nella città.

Fra i particolari minuziosissimi sui costumi, il modo di vivere, il prezzo delle derrate, il numero dei mercanti, nel racconto di Burckhardt si trovano parecchi aneddoti interessanti.

Parlando degli usi strani degli abitanti di Djedda, il viaggiatore dice: «Quasi tutti hanno l'abitudine di ingoiare ogni mattina una tazza di caffè piena di «ghi» o burro fuso. Poi bevono il caffè, che è considerato come un tonico potente, e quegli uomini si sono tanto abituati fino dalla loro più tenera giovinezza, che si sentirebbero molto male se ne smettessero l'uso. Le persone delle alte classi si accontentano di bere la tazza di burro, ma quelle delle classi inferiori vi aggiungono un'altra mezza tazza che aspirano dalle narici, supponendo così d'impedire all'aria cattiva d'entrare nei loro corpi per queste aperture.»

Il 24 agosto, il viaggiatore lasciò Djedda per Taif. La via attraversa una catena di montagne e di vallate, dai paesaggi romantici e d'una verdura lussureggiante che si è sorpresi di trovare. Burckhardt fu preso per una spia inglese e gelosamente

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sorvegliato. Malgrado l'apparente? buona accoglienza del pascià, egli non ebbe nessuna libertà di movimenti, e non poté accontentare i suoi gusti di osservatore.

Taif è rinomata, pare, per la bellezza dei suoi giardini; le sue rose e le sue uve sono trasportate in tutti i cantoni dell'Hedjaz. Questa «città faceva un commercio notevole ed aveva raggiunto una grande prosperità.

La sorveglianza di cui Burckhardt era oggetto, affrettò la sua partenza, ed il 7 settembre egli pigliava la strada della Mecca. Versatissimo nello studio del Corano, conoscendo a meraviglia le pratiche bell'islamismo, Burckhardt era in grado di fare egregiamente la sua parte di pellegrino. La prima precauzione ch'egli prese fu di indossare, come prescrive la legge per ogni fedele che entra alla Mecca, «l'ihram», pezzi di calicò senza cucitura, di cui uno circonda le reni, e l'altro viene gettato sul collo e sulle spalle.

Il primo dovere del pellegrino è di andare al tempio, prima ancora di pensare a procurarsi un alloggio. Burckhardt non mancò a questa prescrizione, non meno che all'osservanza dei riti e delle cerimonie ordinati in simil caso; tutte cose di un interesse speciale, ma, per ciò stesso, troppo limitate perchè noi ce ne intratteniamo.

«La Mecca, dice Burckhardt, può essere detta una bella città dell'Oriente. Le sue case sono alte e costruite di pietra; le finestre numerose, che si aprono sulle strade, danno loro un'aria più gaia e più europea che a quelle d'Egitto o di Siria, le cui abitazioni non presentano all'esterno che un piccolo numero di finestre… Ogni casa ha la sua terrazza, il cui pavimento, coperto di calce, è leggermente inclinato, per modo che l'acqua scola col mezzo di grondaie nelle strade. Queste piattaforme sono nascoste da muricciuoli a guisa di parapetti; giacché in tutto l'Oriente non è decenza per un uomo di mostrarvisi e lo si accuserebbe di spiarvi le donne che passano una gran parte del

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loro tempo sulla terrazza della loro casa a farvi seccare il grano, a stendere la biancheria, e per attendere ad altre occupazioni domestiche. La sola piazza pubblica della città è l'ampia corte della Grande Moschea. Pochi alberi; non un giardino che ricrei la vista, e la scena non è animata che durante il pellegrinaggio da una moltitudine di botteghe ben fornite, che s'incontrano dappertutto. Tranne quattro o cinque case spaziose, appartenenti allo sceriffo, due medressè, o collegi, ora convertiti in magazzini di grano, e la moschea, con alcune costruzioni e delle scuole che vi sono unite, la Mecca non può vantare nessun edificio pubblico, ed a questo riguardo, forse, essa è inferiore alle altre città dell'Oriente della stessa grandezza.»

Le vie non sono punto selciate, e siccome le fogne sono sconosciute, vi si formano delle pozze d'acqua ed un fango di cui nulla può dare un'idea.

Quanto all'acqua, non si deve contare che su quella del cielo, che viene raccolta in cisterne, giacché quella che forniscono i pozzi è così salmastra, che è impossibile utilizzarla.

«Nel luogo in cui la vallata si allarga di più, nell'interno della città, sorge la moschea chiamata Beithu'llah o El-Haram, edilizio rimarchevole soltanto per la Kaaba che contiene, giacché nelle altre città dell'Oriente vi sono delle moschee quasi grandi altrettanto, e ben più belle.»

Questa moschea è situata sopra una piazza oblunga, circondata da un colonnato di quattro file all'est, e di tre lungo gli altri lati: le colonne sono unite fra di loro da arcate ogivali; ogni quattro sopportano una piccola cupola intonacata di calce e imbiancata al di fuori. Alcune di queste colonne sono in marmo bianco, di granito o di porfido, ma la maggior parte sono di pietra ordinaria delle montagne della Mecca.

Quanto alla Kaaba, è stata così sovente rovinata e riparata,

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che non visi incontrano tracce d'un'antichità remota. Essa esisteva prima della moschea che la contiene oggigiorno.

«La Kaaba, dice il viaggiatore, è collocata sopra una base alta due piedi e presentante un piano fortemente inclinato. Siccome il suo tetto è piatto, essa ad una certa distanza ha l'aspetto di un vero cubo. L'unica porta per la quale vi si entra, e che non si apre che due o tre volte all'anno, è al nord e a sette piedi al di sopra del suolo; per ciò non vi si può entrare che con una scala di legno… All'angolo nordest della Kaaba, vicino alla porta, è incassata la famosa «pietra nera» che forma una parte dell'angolo dell'edificio, a quattro o cinque piedi al di sopra del suolo della corte… È difficilissimo determinare con esattezza la natura di questa pietra, la cui superficie è stata logorata e ridotta al suo stato attuale dai baci e dai toccamenti di molti milioni di pellegrini. La Kaaba al di fuori è coperta da un paramento di seta nera che ne circonda i lati e lascia allo scoperto il tetto. Questo velo o cortina, detta «kesua», viene rinnovato tutti gli anni ai tempo del pellegrinaggio e portato dal Cairo, dove è fabbricato a spese del gran signore.»

Fino allora non si aveva avuto una descrizione così particolareggiata della Mecca e del suo santuario. È per questo che fummo indotti a dare alcuni brani della relazione originale, brani che si potrebbero moltiplicare, giacché essa contiene le notizie più circostanziate sul pozzo sacro chiamato Zemzun, la cui acqua è considerata come un rimedio infallibile per tutte le malattie, sulla Porta della Salute, sul Makam-Ibrahim, monumento che contiene la pietra su cui si sedeva Abramo quando faceva costruire la Kaaba, e che conserva il segno dei suoi ginocchi, come pure su tutti gli edifici racchiusi nel recinto del tempio.

Dopo la descrizione così precisa e così completa di Burckhardt, questi luoghi hanno conservato il medesimo aspetto. La stessa affluenza di pellegrini vi intona i medesimi

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canti. Gli uomini solo hanno cangiato. La descrizione delle feste del pellegrinaggio e del santo

entusiasmo dei fedeli è seguita, nel racconto di Burckhardt, da una relazione, che ci fa considerare le vicende di queste grandi riunioni di uomini, venuti da tutte le parti del mondo, sotto i più tristi colori.

«La fine del pellegrinaggio, diss'egli, dà un aspetto affatto diverso alla moschea; le malattie e la mortalità che succedono alle fatiche sopportate durante il viaggio, sono prociotte dallo scarso ricovero che loro procura l'Ihram, dagli alloggi insalubri della Mecca, dal cattivo nutrimento, e qualche volta dalla mancanza assoluta di viveri. C'è l'uso di riempire il tempio di cadaveri, che ivi sono portati, perchè ricevano le preghiere dell'«iman», loro sacerdote; oppure sono ivi dei malati che si fanno condurre colà, perchè, quando si avvicina la loro ultima ora, vogliono essere trasportati al colonnato, affine d'essere guariti mercè la vista della Kaaba, o almeno, per avere la consolazione di spirare nel recinto sacro. Si vedono dei poveri pellegrini, spossati dalle malattie e dalla fame, trascinare i loro corpi sfiniti lungo il colonnato, e, allorché non hanno più la forza di tendere la mano per domandare l'elemosina ai passanti, si gettano su una stuoia, vicino alla quale è posta una catinella per ricevere ciò che accorda loro la pietà dei passanti. Allorché sentono avvicinarsi il loro ultimo momento, si coprono dei loro vestiti a brandelli, e spesso passa un giorno intero prima che ci si accorga che sono morti.»

Terminiamo ciò che abbiamo tolto dal racconto di Burckhardt sulla Mecca, col giudizio ch'egli fa degli abitanti di questo paese.

«Se i Mecchesi hanno delle buone qualità, se essi sono affabili, ospitalieri, di carattere gaio e fiero, trasgrediscono però pubblicamente le prescrizioni del Corano, bevendo, giuocando, o fumando. Gli inganni e gli spergiuri hanno

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cessato di essere crimini presso i Mecche»; essi non ignorano di quali scandali siano cagione questi vizi; ciascuno di essi impreca contro la corruzione dei costumi…»

Il 18 gennaio 1815, Burckhardt partì dalla Mecca con una piccola carovana di pellegrini, che andavano a visitare la tomba del Profeta. Il viaggio sino a Medina, come pure quello fra la Mecca e Djedda, è fatto di notte, ciò che lo rende meno proficuo all'osservatore, e d'inverno meno comodo che facendolo in pieno giorno. Bisogna attraversare una vallata, coperta da cespugli e da datteri, della quale l'estremità orientale è ben coltivata; porta essa il nome di Uadi-Fatmé, ma è più conosciuta sotto quello più semplice di Uadi.

Un po' più lontano è la vallata di Es-Ssafra, rinomata per le sue estese piantagioni di datteri, e attraversata da tutte le tribù vicine.

«Le boscaglie di datteri, scrive il viaggiatore, hanno un'estensione di quattro miglia all'incirca; essi appartengono agli abitanti di Ssafra e ai beduini dei dintorni, che pagano dei lavoratori per inaffiare il terreno, e vengono essi stessi in questi luoghi al tempo della raccolta. I datteri passano da una persona ad un'altra nel corso del commercio; quindi si vendono al minuto… Il prezzo pagato dal padre di una figlia che si marita, consiste spesso in tre palmizi. Essi sono profondamente piantati nella sabbia, che si raccoglie nel mezzo della vallata e che si ammucchia intorno alle loro radici; essa deve essere rinnovata tutti gli anni, e ordinariamente le correnti d'acque impetuose la trasportano altrove. Ogni orticello è circondato da un muro fatto di terra o di pietra; i coltivatori abitano in parecchie capanne, o in casolari isolati, sparsi fra gli alberi.

«Il principale ruscello scaturisce da un bosco vicino al mercato: una piccola moschea si eleva vicino ad esso. Diversi castagni la ombreggiano. Io non ne ho più visti nel Hedjas…»

Burckhardt dovette viaggiare ancora tre giorni per arrivare

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a Medina. Questo viaggio fu abbastanza lungo, ma non riuscì infruttuoso per lui; egli raccolse dei numerosi documenti riguardanti gli Arabi e i Wahabiti. Come alla Mecca, il primo dovere del pellegrino è di andare a visitare la tomba e la moschea di Maometto. Nullameno, le cerimonie sono molto più semplici e più brevi, e basta un quarto d'ora al viaggiatore per adempierle.

Il soggiorno della Mecca era stato nocivo a Burckhardt; a Medina fu preso dalle febbri intermittenti, che divennero ben presto quotidiane; poi si cambiarono in febbri terzane, accompagnate da vomiti, che lo ridussero ben presto a non potersi più levare dal tappeto senza l'aiuto del suo schiavo, «povero diavolo, che per la sua natura e le sue abitudini sapeva meglio curare un camello che non il suo padrone, indebolito e abbattuto».

Costretto a restare per tre mesi a Medina da una febbre dovuta al cattivo clima, alla qualità detestabile dell'acqua e al gran numero dei malati che vi erano, Burckhardt dovette rinunciare al progetto che egli aveva formato, di attraversare il deserto fino ad Akaba per arrivare al più presto a Yambo, dove egli avrebbe potuto imbarcarsi per l'Egitto.

«Medina è dopo Aleppo, scrive egli, la città meglio costruita che io abbia veduto in Oriente. Essa è tutta in pietra; le case hanno generalmente due piani e i tetti sono orizzontali. Non essendo esse imbiancate e la pietra di colore oscuro, le strade hanno un colore triste e sono per la più parte strettissime, spesso non più larghe di due o tre piedi. Ora Medina ha un aspetto desolato, le case sono lasciate rovinare. I loro proprietari, che in altri tempi traevano un grande profitto dall'affluenza dei pellegrini, vedono le loro rendite diminuire (causa la proibizione fatta dai Wahabiti di visitare la tomba di Maometto, che essi considerano come un semplice mortale). Il prezioso monumento di Medina, che le dà un'importanza da

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pareggiarla alla Mecca, è la grande moschea in cui è la tomba di Maometto… Questa città è più piccola della Mecca… Del resto la moschea è fabbricata con la medesima configurazione dell'altra: è un vasto cortile quadrato, circondato da tutti i lati da gallerie coperte e avente nel centro un piccolo edilizio… È presso all'angolo sud-est che si trova il sepolcro famoso… Una griglia di ferro dipinta in verde circonda la tomba. È un bel lavoro, imitante la filograna, ed è attraversata da iscrizioni in cuoio. Si entra in questo recinto da quattro porte, di cui tre restano sempre chiuse. Il permesso di entrarvi è accordato gratis alle persone distinte; le altre possono comperarlo dai principali eunuchi, al prezzo di una quindicina di piastre. Si distingue nell'interno un arazzo che circonda la tomba e che non è lontano da essa che di qualche passo…»

Secondo lo storiografo di Medina, questo arazzo copre un edifizio quadrato di pietre nere sostenuto da due colonne, nell'interno del quale sono le sepolture di Maometto e dei suoi più antichi discepoli, Abu-Bekr e Omar. Egli dice anche che questi sepolcri sono fosse profonde e che il feretro, il quale rinchiude le ceneri di Maometto, è ricoperto d'argento, chiuso da un marmo con questa iscrizione: «O Dio, accordagli la tua misericordia.»

Le notizie altre volte sparse in Europa intorno alla tomba del Profeta, che dicevasi sospesa in aria, sono sconosciute nel Hedjaz.

Il tesoro della Moschea fu in gran parte saccheggiato dai Wahabiti, ma giova credere che questi fossero stati preceduti più volte in questo saccheggio dai guardiani della tomba.

Nella relazione di Burckhardt si trovano ancora molti interessanti particolari su Medina e i suoi abitanti, sui dintorni e sui luoghi comuni del pellegrinaggio. Noi abbiamo fatto delle note molto importanti al racconto di Burckhardt, perchè il lettore, desideroso di conoscere più a fondo i costumi e le

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usanze degli Arabi, che non hanno cambiato, sia dispensato dal ricorrere al testo medesimo.

Il 21 aprile 1815, Burckhardt si unì ad una carovana che lo

condusse al porto di Yambo, ove si era sviluppata la peste. Il viaggiatore non tardò ad ammalare. Divenne così debole che gli fu impossibile di rifugiarsi alla campagna. Quanto all'imbarcarsi, non poteva neppur pensarci, tutti i bastimenti pronti a salpare essendo carichi di soldati ammalati. Burckhardt

fu dunque forzato di restare diciotto giorni in questa città

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insalubre, prima di poter imbarcarsi su un piccolo bastimento che lo conducesse a Cosseir e di là in Egitto.

Al suo ritorno al Cairo, Burckhardt seppe della morte di suo padre. La costituzione del viaggiatore ebbe molto a soffrire in conseguenza della malattia; cosicché egli non poté che nel 1816 fare l'ascensione al Sinai. Lo studio della storia naturale, la redazione dei suoi giornali di viaggio, gli impegni della sua corrispondenza l'occuparono sino alla fine del 1817, epoca nella quale egli contava unirsi alla carovana di Fezzan. Ma, preso subitamente da una febbre violenta, egli vi soccombette in capo a qualche giorno, dicendo: «Scrivete a mia madre che il mio ultimo pensiero è stato per lei.»

Burckhardt era un viaggiatore nel vero senso della parola: istruito, preciso fino alla pedanteria, coraggioso e paziente, dotato di un carattere astuto ed energico, egli ha lasciato degli scritti molto preziosi. La relazione del suo viaggio in Arabia, di cui egli non poté disgraziatamente visitare l'interno, è così completa, precisa, che, mercè sua, si conosceva meglio allora questo paese di alcune contrade di Europa.

«Giammai, scriveva egli in una lettera indirizzata dal Cairo a suo padre, il 13 marzo 1813, giammai io dissi una parola su ciò che ho veduto o incontrato, che la mia coscienza non giustifichi pienamente, perchè non è stato per scrivere un romanzo che io mi sono esposto a tanti pericoli…»

Gli esploratori che si sono succeduti nei paesi visitati da Burckhardt sono unanimi nel testificare l'esattezza delle sue parole, la sua erudizione e la sua sagacia.

«Pochi viaggiatori, dice la Revue Germanique, hanno avuto nel medesimo grado questa facoltà di fina e rapida osservazione, che è un dono di natura raro come tutte le qualità eminenti. In lui vi è come una specie di intuizione che gli fa discernere il vero, anche indipendentemente dalla sua osservazione personale; così le sue relazioni orali hanno in

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generale un valore che raramente presenta questa specie di relazioni. La sua robusta intelligenza maturò avanti l'età, per la riflessione e lo studio (Burckhardt, quando la morte lo ha colpito, aveva solamente 33 anni); coglie nel vero e si arresta al punto giusto; la sua narrazione sempre sobria racchiude, si può dire, più cose che parole, e per questo essa viene letta con molto piacere; in essa lo scrittore si fa amare non meno del sapiente osservatore.»

Intanto che le terre bibliche erano l'oggetto delle ricerche di Seetzen e di Burckhardt, l'India, donde ebbero origine la più parte delle lingue europee, stava per diventare il centro di moltissimi studi, cioè: la linguistica, la letteratura, la religione e insieme la geografia.

Noi non ci occuperemo per il momento che delle ricerche che hanno relazione coi numerosi problemi di geografia fisica, notando che le conquiste e gli studi fatti dalla Compagnia delle Indie dovevano procurare a poco a poco una maggiore conoscenza del paese.

Noi abbiamo raccontato in un volume precedente come la dominazione portoghese si fosse stabilita nelle Indie. L'unione del Portogallo con la Spagna nel 1580 aveva prodotto la perdita delle colonie portoghesi, che caddero nelle mani dell'Olanda e dell'Inghilterra.

Quest'ultima non tardò ad accordare il monopolio del commercio delle Indie a una Compagnia, che doveva avere una parte importante nella storia.

A quest'epoca, il grande imperatore mongolo Akbar, il sublime discendente di Timur-Leng, aveva stabilito un vasto impero nell'Indostan e nel Bengala sulle rovine degli Stati «radjput». Questo impero, mercè le qualità personali di Akbar, che gli avevano valso il soprannome di «benefattore degli uomini», era all'apogeo del suo splendore. Shap-Djahan continuò la tradizione del padre, ma Aureng-Zeb, nipote

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d'Akbar, grande ambizioso, assassinò i suoi fratelli, fece prigioniero suo padre e s'impadronì del potere. Mentre l'impero mongolo godeva di una pace assoluta, un avventuriero di genio, Servadji, gettava le fondamenta dell'impero anahraste. L'intolleranza religiosa di Aureng-Zeb, la sua politica, la sua astuzia, portarono la sollevazione dei Radjput, e per ciò una lotta che, consumando le migliori risorse dell'impero, ne scosse la potenza. Così la sua decadenza seguì la morte di questo grande usurpatore.

Fin allora la Compagnia delle Indie non aveva potuto estendere la piccola parte di terra ch'essa possedeva intorno ai porti, ma essa profittava abilmente delle suppliche che loro rivolgevano i ndbáb e rajah dell'Indostan. E dopo la presa di Madras per opera di La Bourdonnais nel 1746, l'influenza e il dominio della Compagnia inglese si estesero rapidamente.

Grazie all'astuta politica sleale e cinica dei governatori inglesi Clive e Hastings, che adoperando alternativamente la forza, la perfidia o la corruzione, hanno fondato sulle rovine del proprio onore la grandezza della loro patria, la Compagnia possedeva, alla fine del secolo scorso, un immenso territorio, popolato da 60 milioni di individui. Erano il Bengala, il Behar, le Provincie di Benares, di Madras e dei territori nel nord. Il sultano di Mysore, Tippo-Saëb, solo lotta con energia contro gli Inglesi, ma egli non può tener testa alla coalizione che il colonnello Wellesley, ha saputo riunire contro di lui. Non avendo più un nemico pericoloso, la Compagnia vince con denaro alcune velleità di resistenza, e sotto pretesto di protezione, impone agli ultimi rajah indipendenti una guarnigione inglese che essi devono mantenere a loro spese.

Si potrebbe credere che la dominazione inglese non avesse saputo che farsi odiare è niente affatto. La Compagnia, volendo rispettare i diritti degli individui, non aveva cangiato nulla della religione, delle leggi, dei costumi.

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Quindi non bisogna stupirai se i viaggiatori, anche quando si avventuravano nelle regioni non appartenenti alla Gran Bretagna, non correvano che poco pericolo. Infatti, appena scemate le preoccupazioni politiche e assestate nel miglior modo le cose, la Compagnia delle Indie aveva incoraggiato gli esploratori nei suoi vasti domini. In pari tempo essa dirigeva nei paesi limitrofi alcuni viaggiatori incaricati di dare informazioni. Sono queste differenti esplorazioni che noi passeremo in rivista. Una delle più curiose e delle più antiche è quella di Webb alle sorgenti del Gange.

Le nozioni che si avevano fino allora su questo fiume erano molto incerte e contraddittorie. Epperò il governo del Bengala, comprendendo di quanta importanza fosse per lo sviluppo del commercio la ricognizione di questa grande arteria, nel. 1807 organizzò una spedizione composta dei signori Webb, Raper e Hearsay, che dovevano essere accompagnati da cipay, da interpreti e da servi indigeni.

La spedizione giunse, il 1° aprile 1808, a Herduar, città poco considerevole della riva sinistra del fiume, che per la sua situazione all'ingresso della ricca pianura dell'Indostan, è divenuta un luogo di pellegrinaggio molto frequentato. Quivi nella stagione calda si fanno le purificazioni nell'acqua del fiume sacro.

Siccome non v'è pellegrinaggio senza esposizione né vendita di reliquie, Herduar è la sede d'un mercato importante, in cui si trovano cavalli, camelli, antimonio, assa fetida, frutti secchi, scialli, frecce, mussoline, tessuti di cotone o di drappo, produzioni del Pendjab, del Gabulistan e del Cachemire. Bisogna soggiungere che si vendevano degli schiavi, dai tre ai trent'anni, dalle dieci alle cinquanta rupie. È un curioso spettacolo quello di questa fiera in cui si incontrano tante fisionomie, tante lingue, tanti costumi diversi.

Il 12 aprile la missione inglese, partita per Gangautri, seguì

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una via piantata di gelsi bianchi e fichi fino a Guruduar. Un po' più lungi giravano molini ad acqua d'una costruzione semplicissima, su ruscelli fiancheggiati di salici e di rovi. Il suolo era fertile, ma la tirannia dei governo impediva agli abitanti di trarne un partito conveniente. Il paese diviene bentosto montuoso senza cessare di nutrire delle piante di pesche, di albicocche, di noci e d'altri arbusti europei. Poi bisognò internarsi nel mezzo di montagne che parevano congiungersi coll'Himalaya.

Ben presto, al basso di un colle, si vide il Baghirati, che più lungi prende il nome di Gange. A sinistra, il fiume era fiancheggiato da alte montagne molto aride; a destra si stendeva una fertile vallata. Al villaggio di Tchivali si coltiva in grande il papavero per l'estrazione dell'oppio: i paesani, senza dubbio a causa dell'acqua, avevano tutti il gozzo.

A Djosvara si passò un ponte di corda chiamato «djula», costruzione singolare e pericolosa.

«Da ciascun lato del fiume, dice Webb, si conficcano in terra due pali fortissimi a tre piedi di distanza l'uno dall'altro, e si pone trasversalmente un altro pezzo di legno; vi si attaccano una dozzina o più di grosse corde che sa fissano in terra per mezzo di grandi mucchi di legna. Esse sono divise in due fasci, lontani un piede l'uno dall'altro; al disotto è tesa una scala di corda annodata alle corde anzidette, che fanno da parapetto. Il pavimento del ponte è formato da piccoli rami di albero posti a due piedi e mezzo di distanza e a tre piedi gli uni dagli altri. Generalmente sottilissimi, pare che debbano spezzarsi ad ogni momento il che naturalmente fa sì che il viaggiatore conti sull'aiuto delle corde che servono da parapetto, e le tenga continuamente sotto il braccio. Il primo passo che si arrischia sopra una macchina così vacillante è molto adatto a dare il capogiro, giacché camminando le si imprime un movimento che la fa dondolare da tutte le parti, ed il fracasso del torrente al

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disopra del quale si è sospesi non è tale da rassicurare l'animo. Il passaggio poi è così stretto, che se due persone si incontrano, bisogna che una si faccia da un lato per dar posto all'altra.»

La missione in seguito attraversò la città di Baharat, ove la

maggior parte delle case non era stata ricostruita dopo il terremoto del 1803. Il mercato che si tiene in questa città, la difficoltà di procurarsi, i viveri nei villaggi posti più su, la sua posizione centrale — là vanno a metter capo le vie di

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Djemacchi, Kedar-Nath e Srinagar — hanno dovuto contribuire a dare in ogni tempo, a questa località, una certa importanza.

A partire da Batheri la strada divenne così cattiva che si dovettero lasciare i bagagli: e siccome ben presto non si trovò che un sentiero che costeggiava dei precipizi, in mezzo ad ammassi di ciottoli e di rocce, si dovette rinunciare ad andar oltre.

Devaprayaga è situata al confluente del Baghirati e dell'Alcananda. Il primo di questi corsi d'acqua, che viene dal nord, scorre impetuoso e con fracasso; il secondo è più quieto, più profondo e più largo, e nella stagione delle pioggie non si alza a meno di quarantasei piedi al disopra del suo livello ordinario. Dal congiungimento di questi due fiumi si forma il Gange.

È quello un luogo santo e venerato da cui i bramini hanno saputo trarre un eccellente partito, stabilendo delle specie di piscine, in cui, mediante un contributo, i pellegrini possono fare le loro abluzioni, senza correre pericolo di essere trascinati dalla corrente.

L'Alcananda fu passata sopra un ponte scorrevole o «dindla».

«Questo ponte, dice la relazione, consiste in tre o quattro grosse corde fissate alle due rive, ed alle quali si sospende, per mezzo di anelli posti a ciascuna delle sue estremità una piccola cassa di diciotto pollici quadrati. Il viaggiatore vi si siede e lo si fa passare da una riva all'altra per mezzo di una corda tirata da un uomo situato sulla riva opposta.»

Il 13 maggio la spedizione entrava a Srinagar. La curiosità degli abitanti era così sovreccitata, che i magistrati mandarono un messo agli Inglesi per pregarli di passeggiare per la città.

Già visitata nel 1796 dal colonnello Hardwick, Srinagar era stata demolita quasi intieramente dal terremoto del 1803, e, di più, conquistata lo stesso anno dai Gorkhalis. È in questa

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città che Webb fu raggiunto dagli emissari ch'egli aveva mandati a Gargautri sulla via che lui stesso aveva potuto seguire. Essi avevano visitato le sorgenti del Gange.

«Una gran rupe, dice egli, dai due lati della quale scorre l'acqua pochissimo profonda, offre una grossolana rassomiglianza col corpo e la bocca di una giovenca. È in un foro situato ad un'estremità della sua superficie che l'immaginazione vedeva Gamolchi; o la bocca della giovenca, che secondo la leggenda, popolare vomita l'acqua del fiume sacro. Un po' più lungi, è impossibile andare innanzi; gli Indiani avevano dinanzi una montagna irta come un muro; sembrava che il Gange uscisse di sotto la neve che vi era al piede; la vallata terminava in quel luogo… Nessuno è mai andato più oltre.»

Per ritornare, la missione non seguì lo stesso itinerario. Essa vide i confluenti del Gange, e del Kels-Ganga o Mandacui, gran fiume uscito dal Kerdar; incontrò sulla sua strada frotte immense di capre e di montoni carichi di grano, attraversò un gran numero di gole, passò per te città di Badrinath, di Manah, infine arrivò con un freddo intenso e sotto una neve fitta alla cascata di Barsu.

«Qui, dice Webb, finiscono le devozioni dei pellegrini. Alcuni vi vengono per farsi bagnare dalla pioggia d'acqua santa della cascata. In questo luogo si vede il corso dell'Alcananda fino all'estremità della vallata al sud ovest, ma il suo letto è interamente nascosto sotto mucchi di neve che vi sono probabilmente accumulati da secoli.»

Webb ci dà pure alcuni particolari sulle donne di Manah. Esse avevano al collo, alle orecchie, al naso, delle collane e degli ornamenti d'oro e d'argento che non si accordavano menomamente col loro modo di vestire grossolano. Alcuni fanciulli portavano alle braccia ed al colto degli anelli e delle collane d'argento pel valore di seicento rupie.

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Nell'inverno, questa città, che fa un gran commercio col Tibet, è completamente seppellita sotto la neve. Epperò gli abitanti si rifugiano nelle città vicine.

A Badrinath, la missione visitò il tempio rinomato per la sua santità. La sua costruzione e la sua apparenza tanto esterna che interna, non danno nessun'idea delle somme immense che costa il suo mantenimento. È uno dei santuari più antichi e più venerati dell'India. Le abluzioni vi si fanno in bacini alimentati da un'acqua solforosa caldissima.

«Si conta un gran numero di sorgenti calde, dice la relazione, che hanno, ciascuna, il loro nome e la loro virtù particolare, e di cui, senza dubbio, i bramini sanno trarre buon partito. È così che il povero pellegrino, praticando successivamente le volute abluzioni, vede impicciolire la sua borsa, del pari che il numero dei suoi peccati, e i molti pedaggi che gli vengon chiesti su questa strada del paradiso, possono fargli pensare che la via stretta non è la meno costosa.»

Questo tempio possiede settecento villaggi concessi dal governo, dati in garanzia di prestiti o di compere da semplici particolari che ne hanno fatta offerta.

La missione era a Djosimah il 1° giugno. Là, il bramino che gli serviva di guida ricevette dal governo del Nepal l'ordine di ricondurre al più presto i viaggiatori sulle terre della Compagnia. Questo comprendeva, un po' tardi, bisogna convenirne, che la ricognizione compiuta dagli Inglesi aveva uno scopo, non solo geografico, ma anche politico.

Un mese dopo Webb ed i suoi compagni rientravano a Delhi, dopo d'aver determinato definitivamente l'alto corso del Gange e riconosciute le sorgenti del Baghirati e dell'Alcananda, vale a dire, dopo di aver completamente raggiunto lo scopo che la Compagnia si era proposto.

Nel 1808, il governo inglese risolvette di mandare una nuova missione nel Pendjab, allora posto sotto la dominazione

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di Rendjcid-Singh. La relazione anonima che ne fu pubblicata negli Annales des Voyages contiene alcuni particolari interessanti. Epperò ne toglieremo alcuni brani.

Il 6 aprile 1808, l'ufficiale inglese incaricato della missione giunse a Herduar, città ch'egli descrive come il convegno d'un milione di individui al momento della sua fiera annuale. A Boria, situata fra la Jumna ed il Seteedje, il viaggiatore fu

esposto alla curiosità indiscreta delle dame, che gli chiesero il permesso di andare a vederlo.

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«I loro sguardi e i loro gesti, dice la relazione, esprimevano il loro stupore. Esse mi si avvicinarono ridendo di tutto cuore; la tinta della mia faccia suscitava la loro allegrezza. Mi indirizzarono una quantità di domande, mi chiesero se non portavo cappello, se esponevo la mia faccia al sole, se stavo sempre rinchiuso, o se non uscivo che sotto un riparo, o se dormivo sulla tavola collocata nella mia tenda; il mio letto però vi era vicino, ma le cortine erano chiuse. Poi esse mi esaminarono minutamente, e lo stesso fecero della tela della mia tenda e di tutto quanto vi si atteneva. Avevano tutte delle faccie graziose; i loro lineamenti erano dolci e regolari; il loro colorito era olivastro e formava un contrasto piacevole coi denti bianchi e ben allineati, particolarità che distingue tutti gli abitanti del Pendjab.»

Mustafabad, Mulana ed Umballa furono successivamente visitate dall'ufficiale inglese. Il paese ch'egli attraversava è abitato dai Sikhs, il cui carattere è fondato sulla beneficenza, l'ospitalità e l'amore del vero. È la miglior specie d'uomini dell'India, dice l'autore. Patiata, Makeuara, Fegonara, Udamitta, in cui lord Lake era entrato nel 1805 inseguendo un capo mahratto, e infine Umritsar, furono tappe facilmente superate.

Umritsar è meglio costrutta che le principali città dell'Indostan. È il maggior mercato del commercio degli scialli e dello zafferano, del pari che d'altre mercanzie del Dekkan.

«Il 14, avendo calzato delle scarpe bianche, dice il viaggiatore, ho visitato colle dovute cerimonie l'Amretsir, o la fontana che dona l'immortalità, donde la città ha preso il suo nome. È un bacino di circa centotrentacinque passi quadrati, costrutto in mattoni cotti, in mezzo al quale si innalza un bel tempio dedicato a Gurugovind-Singh. Vi conduce una spianata; esso è elegantemente decorato tanto dentro che fuori, ed il rajah vi aggiunge spesso nuovi ornamenti a sue spese. In

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questo luogo sacro si conserva, sotto un baldacchino di seta, il libro delle leggi scritto da Guru in caratteri guron-mukhtis. Il tempio si chiama Hermendel o la dimora di Dio. Circa seicento «akali» o sacerdoti sono addetti al suo servizio: essi si sono costrutte delle case comode col frutto delle contribuzioni volontarie dei devoti che vanno a visitare il tempio. Quantunque i sacerdoti siano grandemente rispettati, pure non sono assolutamente esenti da vizi. Appena hanno del danaro, lo spendono colla stessa facilità con cui l'hanno guadagnato. Il concorso di belle donne, che vanno tutte le mattine al tempio, è davvero meraviglioso: quelle che compongono questi gruppi di bellezze, superano di gran lunga, per la eleganza della persona, le belle proporzioni delle forme e i lineamenti dei volti, le donne delle classi inferiori dell'Indostan: l'artista può trovare qui dei tipi.»

Dopo Umritsar, l'ufficiale visitò Lahore. È abbastanza interessante di sapere cosa restava di questa grande città al principio del nostro secolo. «Le mura, altissime, dice egli, sono ornate al di fuori con tutto il lusso del gusto orientale, ma cadono in rovina, del pari che le moschee e le case della città. Il tempo aggrava su questa città la sua mano distruttiva, come a Delhi e ad Agra. Le rovine di Lahore sono già tanto vaste quanto quelle di queste antiche capitali.» Il viaggiatore fu ricevuto tre giorni dopo il suo arrivo da Rendjeit-Singh, che l'accolse cortesemente e s'intrattenne con lui principalmente sull'arte militare. La sua fisionomia sarebbe stata simpatica se il vaiuolo non l'avesse privato d'un occhio; le sue maniere erano semplici, affabili, e si sentiva in lui il sovrano. Dopo d'aver visitata la tomba di Schah Djahan, lo Schalamar e gli altri monumenti di Labore, l'ufficiale ritornò a Delhi ed ai possedimenti delüa Compagnia. Si deve a lui se si conosce un po' meglio una regione interessante, che non doveva tardare a svegliare l'insaziabile avidità del governo inglese.

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L'anno seguente (1809), la Compagnia aveva mandato verso gli emiri del Sindhy un'ambasciata composta dei signori Niccolò Hankey Smith, Enrico Ellis, Roberto Taylor, ed Enrico Pottinger. La scorta era comandata dal capitano Carlo Christie.

Un bastimento trasportò la missione a Keratchi. Il governatore di questo forte non volle permettere lo sbarco dell'ambasciata prima di aver ricevuto le sue istruzioni dagli emiri. Ne seguì uno scambio di corrispondenze, in seguito alle quali, l'inviato Smith, rilevò alcune improprietà relative al titolo ed al rango rispettivo del governatore generale e degli emiri. Il governatore se ne scusò adducendo la sua ignoranza della lingua persiana e disse che, non volendo lasciar sussistere nessuna traccia di malinteso, era pronto a far uccidere od acciecare, a scelta dell'inviato, la persona che aveva scritto la lettera. Questa dichiarazione parve sufficiente agli Inglesi che si opposero all'esecuzione del colpevole.

Nelle loro lettere, gli emiri affettavano un tono di superiorità sprezzante; in pari tempo facevano avvicinare un corpo di ottomila uomini e mettevano tutti gli ostacoli immaginabili ai tentativi degli Inglesi di procurarsi le più piccole notizie. Dopo lunghi negoziati in cui l'orgoglio britannico fu più d'una volta umiliato, l'ambasciata ricevette il permesso di partire per Hayderabad.

Al di là di Keratchi, il porto principale d'esportazione del Sindhy, si estende una vasta pianura priva di vegetazione, lungo il mare. Si dovette attraversarla in cinque giorni per arrivare a Tatah, antica capitale del Sindhy, allora deserta e rovinata. Un tempo alcuni canali la mettevano in comunicazione col Sindh o Indo, fiume immenso, vero braccio di mare alla sua foce, sui quale Pottinger diede i particolari più precisi, più completi e più utili che sino allora si fossero raccolti.

Era stato precedentemente convenuto che l'ambasciata, con

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un pretesto plausibile, si dividerebbe e andrebbe ad Hayderabad per due vie diverse, onde procacciarsi più nozioni geografiche che fosse possibile sul paese. Essa non tardò ad arrivarvi, e si dovettero rinnovare le stesse difficili negoziazioni pel ricevimento dell'ambasciata che si rifiutò di aderire alle umilianti pretese degli emiri.

«Le rovine sulle quali riposa la facciata orientale della fortezza d'Hayderabad, dice Pottinger, i tetti delle case ed anche le fortificazioni, tutto era gremito da una moltitudine di persone dei due sessi, che colle acclamazioni e cogli applausi facevano testimonianza delle buone disposizioni verso di noi.

«Giunti nel palazzo, nel luogo in cui dovevano metter piede a terra, gli Inglesi furono ricevuti da Uli-Mohammed-Khan e da molti altri ufficiali d'un grado eminente; essi camminarono innanzi a noi verso un'ampia, piattaforma aperta, all' estremità della quale erano seduti gli emiri. Essendo questa piattaforma coperta dei più ricchi tappeti di Persia, noi ci levammo le scarpe. Dal momento in cui l'inviato fece il primo passo verso i principi, essi si levarono tutti e tre, e rimasero in piedi fino a che egli giunse al posto che gli era stato assegnato; un drappo ricamato lo ricopriva, molto più ricco di quello delle altre persone dell'ambasciata. I principi ci rivolsero ciascuno delle domande gentilissime sulla nostra salute. Del resto, siccome era una udienza di pura cerimonia, tutto si limitò a complimenti e ad espressioni di convenienza… Gli emiri portavano una grande quantità di pietre preziose, oltre quelle che ornavano le impugnature e i foderi delle loro spade e dei loro pugnali, e si vedevano brillar alle loro cinture smeraldi e rubini d'una grossezza straordinaria. Essi erano seduti in ordine d'età, il maggiore in mezzo, il secondo alla sua destra, il più giovane a mancina. Un tappeto di feltro leggiero copriva tutto il circolo: al di sopra vi era un materasso di seta dello spessore d'un pollice all'incirca, e grande esattamente abbastanza perchè

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i tre principi vi pigliassero posto.» La relazione termina con una descrizione d'Hayderabad —

fortezza che durerebbe fatica a resistere agli assalti d'un nemico europeo — e con diverse considerazioni sulla natura dell'ambasciata, che aveva in parte per scopo di chiudere ai Francesi l'ingresso del Sindhy. Appena il trattato fu conchiuso, gli Inglesi tornarono a Bombay.

Per mezzo di questo viaggio, la Compagnia conosceva meglio uno dei suoi paesi limitrofi, e radunava dei documenti preziosi sulle risorse e sulle produzioni d'una regione attraversata da un fiume immenso, l'Indus degli antichi, che avendo la sua sorgente nell'Himalaya, poteva facilmente servire ai trasporti lungo una zona immensa di territorio. Lo scopo raggiunto era più mercantile che geografico, ma la scienza approfittava, anche questa volta, delle necessità della politica.

Il poco che si sapeva fino allora sul tratto compreso fra il Cabulistan, l'India, la Persia ed il mare delle Indie era incompleto e difettoso.

La Compagnia, molto soddisfatta del modo con cui il capitano Christie ed il luogotenente Pottinger avevano compiuto la loro ambasciata, risolvette di affidar loro una missione ben altrimenti delicata e difficile: raggiungere per terra, attraverso il Belutchistan, il generale Malcolm, ambasciatore in Persia, e raccogliere su quest'ampia distesa di paese dei dati più completi e più precisi di quelli cine si possedevano allora.

Non bisognava pensare ad attraversare col costume europeo il Belutchistan, la cui popolazione era fanatica. Epperò Christie e Pottinger si rivolsero ad un negoziante indiano, che forniva cavalli ai governi di Madras e di Bombay, e questi li accreditò come suoi agenti per Kelat, la capitale del Belutchistan.

Il 2 gennaio 1810 i due ufficiali s'imbarcarono a Bombay

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per Sonminy, solo porto di mare della provincia di Lhossa, dove essi arrivarono dopo d'aver riposato a Porebender, sulla costa di Guzarate.

Tutto il paese che, i viaggiatori attraversarono prima di giungere a Bela non è che un'immensa palude salata, invasa dalle jungle. Il «Djam» o governatore di questa città era intelligente. Egli fece agli Inglesi moltissime domande, che dinotavano il suo desiderio di istruirsi, ed affidò al capo della tribù dei Bezendjo, che sono Belutchi, l'incarico di condurre i viaggiatori a Kelat.

Lasciando Bombay la temperatura si era molto mutata. Pottinger e Ghristie ebbero a soffrire sulle montagne un freddo eccessivamente vivo, che giunse fino a gelar l'acqua nelle otri.

«Kelat, scrive Pottinger, la capitale di tutto il Belutchistan, il che le ha valso il suo nome di Kelat, o la città, è posta sopra un'altura all'occidente d'un declivio o valle, ben coltivata, lunga circa otto miglia e larga tre. La maggior parte di questa distesa è tenuta a giardini. La città forma un quadrato. Tre lati sono cinti da un muro di terra alto una ventina di piedi, fiancheggiato ad intervalli di duecentocinquanta passi da bastioni che, al pari delle mura, presentano un gran numero di feritoie per la moschetteria… Non ho avuto occasione di visitare l'interno del palazzo, ma esso non è che un ammasso confuso di costruzioni comuni di terra con tetti piatti in forma di terrazzo: il tutto è difeso da mura basse munite di parapetti e feritoie. Nella città si contano circa 2500 case, ma ve n'è quasi un'altra metà nei sobborghi; esse sono di mattoni mezzo cotti e di legno, il tutto intonacato da calce di terra; le strade in generale sono più larghe di quelle delle città abitate dagli Asiatici. La maggior parte hanno, da ciascun lato, dei marciapiedi rialzati per i pedoni; nel mezzo vi è un colatoio coperto che è molto incomodo per la grande quantità di lordura e immondizie che vi si gettano e per l'acqua piovana stagnante

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che vi si ferma, giacché nessun regolamento preciso obbliga a pulirlo. Un altro grande ostacolo che impedisce alla città di essere pulita e piacevole, dipende dall'uso di far sporgere al disopra delle vie i piani superiori delle case, il che rende la parte sottostante oscura e umida… Il bazar di Kelat è vasto e ben fornito di mercanzie d'ogni specie.

Tutti i giorni esso fa provvista di carni, di erbe e di ogni specie di derrate, che si comprano a buon prezzo.»

La popolazione, secondo Pottinger, è divisa in due classi ben distinte, i Belatela e i Brahui, e ciascuna d'esse è suddivisa in gran numero di tribù. La prima ha un po' del persiano moderno per il suo aspetto e la sua lingua; il Brahui conserva al contrario un gran numero di vecchie parole indiane. Numerose unioni fra le due classi hanno dato origine a una terza.

I Belutchi, usciti dalle montagne del Mekhran, sono Sunniti, considerano i quattro primi imani come i successori legittimi di Maometto. Popolo pastore, essi ne hanno le qualità e i difetti; sono ospitalieri, ma indolenti, e passano il loro tempo a giuocare e fumare. Si limitano generalmente a possedere una o due donne, che essi sono meno gelosi degli altri musulmani di lasciar vedere agli stranieri. Hanno un gran numero di schiavi dei due sessi, che trattano con bontà.

Eccellenti tiratori, sono appassionati amatori della caccia, d'un'abilità a tutta prova; e si divertono a far delle razzie, che portano presso di essi il nome di «tchépaos». Queste spedizioni sono, ordinariamente, opera dei Nherui, i più selvaggi e i più saccheggiatori dei Belutchi.

I Brahui poi spingono ancora più lontano le loro abitudini erranti. Pochi uomini sono più attivi e più forti, per sostenere il freddo glaciale delle montagne e il calore bruciante delle pianure. Generalmente piccoli, bravi e abili tiratori, e fedeli alla loro parola come i Belutchi, essi hanno un gusto meno pronunciato per la rapina.

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«Io non ho visto nessun altro popolo asiatico, dice Pottinger, al quale essi rassomiglino, perchè molti di loro hanno la barba e i capelli bruni.»

Dopo un brevissimo soggiorno a Relat, i due viaggiatori, che continuavano a farsi credere mercanti di cavalli, giudicarono opportuno di riprendere il loro viaggio; ma, invece di seguire la grande via di Candahar, essi traversarono un paese triste e sterile, pochissimo popolato, bagnato dal Caisser, fiume che, durante l'estate, è senz'acqua. Essi arrivarono alla frontiera dell'Afganistan, in una piccola città chiamata Noschky o Nuchky.

In questo luogo alcuni belutchi, che sembravano prendersi a cuore la loro spedizione, indicarono loro le difficoltà di raggiungere il Khorassan e Herat, sua capitale, per la via di Sedjistan.

«Andate a Karman, si diceva loro, passando per Kedje e Benpur oppure per Serhed, villaggio della frontiera occidentale del Belutchistan, e di là entrate nel Nermanchir.»

L'idea di seguire due strade, arrise subito a Christie e Pottinger. «Questa risoluzione era però contraria alle loro istruzioni, ma noi trovammo la nostra scusa, dice Pottinger, nel vantaggio incontestabile che ne risulterebbe, procurando sulle regioni, che eravamo incaricati di esplorare, delle cognizioni geografiche e statistiche più estese di quelle che si poteva sperare di raccogliere viaggiando insieme.»

Christie partì il primo per la via di Duchak; noi lo seguiremo più tardi.

Qualche giorno dopo, Pottinger ricevette a Nuschky, dal suo corrispondente dì Kelat, delle lettere che gli dicevano come dei messi degli emiri del Sindhy erano sulle sue tracce, perchè essi erano stati riconosciuti, e che per la sua sicurezza doveva partire al più presto possibile.

Il 25 marzo, il luogotenente inglese prese dunque la via di

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Serawan, piccolissima città posta presso alla frontiera afgana. Prima di giungervi, Pottinger aveva incontrato sul suo cammino dei monumenti singolare, sepolcri od altari, la di cui costruzione era attribuita ai «Guebri», adoratori del fuoco, che portano anche il nome di «Parsi».

Serawan è a sei miglia dai monti Serawani, in mezzo ad una contrada sterile e nuda. Questa città non deve la sua fondazione che alla provvigione costante e considerevole d'acqua che le fornisce il Beli, vantaggio incalcolabile in una contrada continuamente esposta alla siccità e alla carestia.

Pottinger visitò in seguito il distretto di Kharan, rinomato per la forza e l'agilità dei suoi camelli, e traversò il deserto che forma l'estremità meridionale dell'Afganistan.

In esso la sabbia è eccessivamente fine, le sue particelle sono quasi impalpabili; forma sotto l'azione del vento dei monticelli di dieci a venti piedi di altezza, separati da» piccole valli. Anche nei tempi in cui l'aria è calma, un gran numero di particelle agitano nell'aria, dando luogo a una specie particolare di miraggio; e penetrando negli occhi, nella bocca e nelle narici, cagionano una irritazione eccessiva, ed insieme una sete inestinguibile.

Inoltrandosi nel territorio di Hekhran, Pottinger dovette prendere il carattere d'un «pyrzadeh» o santo; perchè la popolazione è essenzialmente predatrice e la sua qualità apparente di commerciante non avrebbe mancato di attirare su lui le avventure più sgradevoli.

Al villaggio di Gul, nel distretto di Daizuk, succedono il borgo rumato d'Asmanabad, quello di Hefter e la città di Purah, ove Pottinger fu obbligato di confessare la sua qualità di frangui, con gran scandalo della guida, che, da due mesi ch'essi vivevano insieme, non aveva concepito alcun dubbio in proposito.

Infine, spossato dalla fatica, privo di mezzi, Pottinger

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raggiunse Benpur, località visitata, nel 1809, da un capitano di fanteria cipaja del Bengala, il signor Grant. Forte della buona memoria che questo ufficiale ha lasciato, il viaggiatore si reca

dal Serdar. Ma questi invece di mettere a sua disposizione i soccorsi necessari alla continuazione del suo viaggio, invece di contentarsi del piccolo dono che Pottinger gli aveva fatto, trovò ancora modo di estorcergli un paio di pistole che gli sarebbero state molto utili nelle sue peregrinazioni.

Basman è l'ultimo luogo di abitazione stabile del

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Belutchistan. Si visita in questo luogo una sorgente d'acqua bollente solforosa che i Belutchi riguardano come un eccellente specifico nelle malattie cutanee.

Le frontiere della Persia sono ben lungi dall'avere un confine segnato in modo scientifico. Così c'è una larga striscia di territorio che non è neutro, ma soggetto a contestazioni, e teatro ordinario di sanguinosi combattimenti.

La piccola città di Regan, nel Nermanchir, è molto bella. È un forte o piuttosto un villaggio fortificato, circondato da arte muraglie ben tenute e munito di baluardi.

Più lontano, nella Persia stessa, si incontra Bemm, città altre volte molto importante, come ne fanno testimonianza le estese rovine di cui è circondata. Pottinger vi fu ricevuto con molta cordialità dal governatore.

«Quando fu vicino al luogo ove io mi trovavo, scrive il viaggiatore, si volse verso un suo ufficiale e gli domandò ove era il frangui. Mi si designò; mi fece caino con la mano di seguirlo e nel medesimo tempo il suo sguardo fisso, che mi squadrava dalla testa ai piedi, esprimeva la meraviglia che gli cagionava il mio modo di vestire; esso era veramente abbastanza strano per scusare la sconvenienza del suo guardare. Io avevo una grossa camicia all'uso dei Belutchi e dei pantaloni che un tempo erano stati bianchi; ma, dopo sei settimane che io li portavo, il bianco si era cangiato in color bruno ed erano quasi a brandelli; aggiungete un turbante azzurro, un pezzo di corda per cintura e nella mia mano un grosso bastone che mi aveva reso dei grandi servizi per aiutarmi a camminare e a difendermi contro i cani.»

Nonostante lo stato miserabile del personaggio cencioso che si presentava davanti a lui, il governatore ricevette Pottinger con tanta cordialità, quanta se ne può aspettare da un musulmano, e gli diede una guida per andare a Kerman.

Il 3 maggio il viaggiatore entrò in questa città con la

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persuasione d'aver compiuto quanto vi ora di più difficile nel suo viaggio e di essere quasi in salvo.

Kerman è la capitale dell'antica Keramania; era una città fiorente sotto la dominazione afgana, e vi si annovera una fabbrica di scialli che rivaleggiano con quelli del Cachemire.

In questo luogo, Pottinger fu testimonio d'uno spettacolo frequente in questi paesi, ove si tien poco conto della vita di un uomo, ma che sempre cagiona a un europeo un'impressione d'orrore e di disgusto.

Il governatore di questa città era nello stesso tempo genero e nipote dello shah e figlio della sua moglie.

«Il 15 maggio, il principe stesso, dice il viaggiatore, giudicò delle persone accusate d'aver ucciso uno dei loro domestici» È difficile farsi un'idea dello stato d'incertezza e d'ansietà in cui rimasero gli abitanti tutta la giornata. Le porte della città vennero chiuse onde impedire che si potesse uscirne. Gli ufficiali del governo non si occuparono d'alcun affare. Alcuni furono mandati come testimoni, senza avvertirli prima. Io ne vidi due o tre condotti al supplizio. Verso le tre dopo mezzogiorno, il principe pronunziò la sentenza contro gli accusati ch'erano stati giudicati colpevoli. Gli uni furono acciecati, ad altri fu tagliata la lingua. A questi si tagliarono te orecchie, il naso, le labbra; a quelli le due mani, le dita o i pollici dei piedi. Seppi che durante tutto il supplizio di questi miserabili che venivano mutilati, il principe era seduto alla stessa finestra ove io lo avevo veduto, dando i suoi ordini senza il menomo segno di compassione o d'orrore per la scena che succedeva davanti a lui.»

Da Kerman, Pottinger giunse a Gheré-Bebig, città posta a eguale distanza da Yezd, da Chiraz e da Kerman, poi ad Ispahan, ove ebbe il piaceri di ritrovarvi il suo compagno Christie, e infine a Meragha, ove incontrò il generale Malcolm.

Erano passaci sette mesi dacché i viaggiatori avevano

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lasciato Bombay. Christie aveva percorso duemiladuecentocinquanta miglia, e Pottinger duemilaquattrocentododici.

Ma ora è necessario tornare indietro e vedere come Christie seppe superare i pericoli del viaggio che aveva intrapreso; molto meglio e più felicemente di quanto egli stesso sperava.

Egli aveva lasciato Noschky il 22 marzo, aveva attraversato i monti Vachuty e un paese incolto, pressoché deserto fino alle rive dell'Helmend, fiume che si getta nel lago di Hamun.

«L'Helmend, scrive Christie nel suo rapporto alla Compagnia, dopo aver passato vicino a Candahar, scorre a sud-ovest e ad ovest, poi entra nel Sedjistan a circa quattro giorni di cammino da Duchak; descrive un circuito alla base delle montagne, poi forma un lago. A Pellalek, ove noi eravamo, esso è presso a poco largo centododici piedi e profondo tre; la sua acqua è molto buona. Alla distanza di un mezzo miglia da ciascuna costa, il paese è coltivato mercè le irrigazioni, comincia poi il deserto, e si eleva in altre spiaggie perpendicolari. Le sponde del fiume abbondano di tamarischi, mentre forniscono pure la pastura al bestiame.»

Il Sedjistan, regione che si estende lungo le rive di questo fiume, non è che di cinquecento miglia quadrate. Le parti abitate sono le rive dell'Helmend, il cui letto si abbassa tutti gli anni.

A Elomdar, Christie mandò a cercare un indiano, al quale era raccomandato. Questi gli consigliò di rimandare i suoi Belutchi e di prendere il carattere di pellegrino. Qualche giorno dopo penetrò a Duchak, che porta anche il nome di Djellahabad.

«Le rovine dell'antica città coprono un terreno vasto almeno come quello d'Ispahan, scrive il viaggiatore. Essa è

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stata costrutta, come tutte le città del Sedjistan, con mattoni a mezza cottura, le case sono a due piani e hanno dei tetti a volta. La città moderna di Djellahabad è bella, tenuta con proprietà, e in uno stato di accrescimento; essa rinchiude presso a poco duemila case e un bazar passabile.»

Da Duchak e Herat, Christie fece la via abbastanza facilmente, non avendo a prendere che qualche precauzione per sostenere il suo personaggio.

Herat è posta in una vallata, circondata da molte montagne e bagnata da un fiume, e intorno non si vedono che orti e giardini. La città occupa uno spazio di quattro miglia quadrate, ed è circondata da un muro fortificato con torri e cinta da fossati pieni d'acqua.

Dei grandi bazar, con numerose botteghe, la Mechedé-Djuma o Moschea di Venerdì, sono i principali monumenti di questa città. Nessun'altra città è posta in un territorio più fertile e ha una popolazione più agglomerata. Christie crede che giunga a centomila abitanti. Questa è forse, di tutta l'Asia sottomessa a principi indigeni, la città più commerciante. Magazzino di traffico tra Cabul, Candahar, l'Indostan, il Cachemire e la Persia, Herat produce delle mercanzie ricercate: le sete, lo zafferano, i cavalli e l'assa fetida.

«Questa pianta, disse Christie, cresce all'altezza di due o tre piedi; il fusto ha due pollici di diametro; essa ha all'estremità come una pannocchia che, quando è matura, è gialla e rassomiglia ad un cavolo fiore. Gli Indiani e i Belutchi l'amano moltissimo; la mangiano, dopo aver fatto cuocere il gambo sulla cenere e la pannocchia nella stufa, come le altre piante mangiereccie; conserva nullameno il suo sapore e odore nauseante.»

Come molte altre città orientali, Herat possiede dei bei giardini pubblici, ma allora questi non erano tenuti con cura se non per le loro produzioni, che venivano vendute al bazar.

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Dopo un mese di soggiorno a Herat, sotto il travestimento di mercante di cavalli, Christie lascia la città, avendo prima destramente fatto circolare la notizia del suo prossimo ritorno, dopo il pellegrinaggio ch'egli contava di fare a Meched. Egli si dirige verso Yezd, attraverso un paese saccheggiato dagli Uzbeck, che hanno distrutti i serbatoi destinati a ricevere l'acqua piovana.

Yezd è una città molto grande, popolata, posta sul limitare di un deserto di sabbia. Le si dà il nome di «Dar-ul-Ebadet» o la Sede dell'Adorazione. Essa è rinomata per la sicurezza che vi si gode, ciò che ha contribuito potentemente allo sviluppo del suo commercio coll'Indostan, il Khorassan, la Persia e Bagdad.

«Il bazar, dice Christie, è vasto e ben fornito di mercanzie. Questa città contiene ventimila case, indipendentemente da quelle dei Guebri. Il numero di questi ultimi si stima a quattromila. È un popolo attivo e laborioso, quantunque crudelmente oppresso.»

Da Yezd a Ispahan, ove egli discese al palazzo dell'emiro Ud-Daulé, Christie aveva percorso una distanza di centosettanta miglia sopra una buona strada. Egli ebbe il piacere d'incontrare in quest'ultima città, come abbiamo detto, il suo compagno Pottinger; i due ufficiali non ebbero che a felicitarsi reciprocamente d'avere così bene compita la loro missione, d'essere sfuggiti a tutti i pericoli d'una già molto lunga, attraverso paesi di fanatici.

Come si potrà forse giudicare dal riassunto che noi abbiam fatto il racconto di Pottinger è sommamente curioso. Molto più esatto della maggior parte dei suoi predecessori, egli fece conoscere gran copia di fatti storici, d'aneddoti, di apprezzamenti e di descrizioni geografiche che hanno il più vivo interesse.

Dopo la metà del XVIII secolo il Cabulistan non aveva cessato di essere il teatro di guerre civili accanite. I

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competitori, che si attribuivano più o meno diritti al trono, avevano portato dappertutto il ferro e il fuoco, e questa regione, altre volte ricca e florida, fu da essi ridotta un deserto, ove le ruine di città scomparse sembravano gli ultimi testimoni d'una prosperità che si poteva credere estinta per sempre.

Verso il 1808, il principe Shujau-ul-Mulk regnava a Gabul. L'Inghilterra, più inquieta che non paresse pei progetti formati da Napoleone di assalirla nell'India e pei tentativi d'alleanza ch'egli aveva fatti presso lo scià di Persia, servendosi di un accorto negoziatore, il generale Gardane, risolvette di mandare un'ambasciata al re di Cabul, che si trattava di rendere favorevole agli interessi della Compagnia.

L'ambasciatore scelto fu Muntstuart Elphinstone, che ci ha lasciato un'interessantissima narrazione della sua missione. Si devono a lui delle informazioni assolutamente nuove su tutta questa regione e sulle tribù che la popolano. Oggi il suo libro ha ancora un'apparenza di attualità, e si leggono con interesse le pagine consacrate ai Kyberiani ed alle altre popolazioni montanare, che fecero or ora parlare di sé il mondo.»

Partito da Delhi nel mese di ottobre 1808, Elphinstone andò a Canund, dove comincia un deserto di sabbia mobile, poi entrò nel Shekhawuttée, cantone abitato dai Radjput. Alla fine d'ottobre l'ambasciata raggiunse Singauna, bella città, il cui rajah era un arrabbiato fumatore d'oppio.

«Figuratevi, dice il viaggiatore, un ometto i cui grossi occhi erano infiammati per l'uso dell'oppio. La sua barba, rialzata da ciascun lato verso le orecchie, gli dava un aspetto selvaggio e tenibile.»

Djunjunha, i cui giardini fanno un'impressione di freschezza in mezzo a quei deserti, non dipende ancora dal rajah di Bikanir, i cui redditi non sorpassano 1.250.000 franchi. Come mai questo principe può ancora percepire delle rendite tanto considerevoli con un territorio arido e deserto, percorso in

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tutti i sensi da milioni di sorci, orde di gazzelle e d'asini selvatici?

«Il sentiero, attraverso le montagne di sabbia, era molto stretto, dice Elphinstone descrivendo la marcia della sua carovana, e due camelli di fronte vi potevano appena passare. Per poco che uno di questi animali deviasse, si approfondava nella sabbia come nella neve, di guisa che il minimo ostacolo alla testa della colonna arrestava tutta la carovana. L'avanguardia non poteva più camminare quando la coda era ferma, e per paura che la divisione separata dalle sue guide si perdesse fra le colonne di sabbia, il suono del tamburo e della tromba serviva di segnale per impedire qualunque separazione.»

Non si direbbe questa la marcia d'un corpo di truppa? Questi suoni guerrieri, il. luccichio delle uniformi e delle armi, tutto ciò poteva forse dar l'idea di un'ambasciata pacifica? Non si potrebbe applicare all'India il motto così conosciuto, che dinota in Ispagna le idee e le costumanze che sono a noi estranee, e dire Cosas de India, come si dice Cosas de Espana?

La scarsezza dell'acqua, narra ancora l'ambasciatore, e la cattiva qualità di quella che noi bevevamo, era insopportabile ai nostri soldati ed ai nostri servi. Se l'abbondanza dei cocomeri acquietava la loro sete, ciò non era senza molesti effetti per la loro salute. La maggior parte degli indigeni indiani che ci accompagnavano furono presi da febbre lenta o da dissenteria. Quaranta persone morirono nella prima settimana di fermata a Bikanir.»

Si può dire di Bikanir ciò che La Fontaine disse dei bastoni galleggianti:

De loin c'est quelque chose, et de près ce n'est rien. L'aspetto esterno della città è buono, ma essa invece non è

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che un ammasso senz'ordine di capanne con muraglie di terra e stoppia.

In quel momento il paese era invaso da cinque eserciti, e i due belligeranti spedivano messi sopra messi all'ambasciatore inglese, per cercar d'ottenere, se non un soccorso materiale, almeno un appoggio morale.

Elphinstone fu ricevuto dal rajah di Bikanir. «Quella corte, scrive, è molto diversa da tutte quelle che

avevo visto nell'India. Gli uomini sono più bianchi degli Indiani, rassomigliano agli ebrei per la configurazione dei lineamenti, portano dei turbanti magnifici» Il rajah ed i suoi parenti avevano dei berretti di molti colori, ornati di gemme. Il rajah si appoggiava sopra uno scudo d'acciaio, il cui centro rialzato ed il contorno erano incrostati di rubini e di diamanti. Alcuni momenti dopo il nostro ingresso il rajah ci propose di sottrarci al caldo ed all'importunità della folla… Noi ci sedemmo a terra, giusta l'usanza indiana, ed il rajah pronunciò un 'discorso, nel quale ci disse ch'egli era il vassallo del sovrano di Delhi, e che Delhi essendo in potere degli Inglesi, egli si affrettava a riconoscere nella mia persona la sovranità del mio governo. Egli fece portare le chiavi del forte e me le offerse, ma io le rifiutai, non avendo nessun potere a questo proposito. Dopo molte istanze, il rajah acconsentì a conservare le sue chiavi. Qualche tempo dopo, entrò una schiera di bajadere; Le danze e i canti non cessarono che alla nostra partenza.»

Uscendo da Bikanir, si attraversa di nuovo il deserto, in mezzo al quale sorgono le città di Mujghur e di Bahawulpore, in cui una folla compatta aspettava l'ambasciata. L'Hyfase, fiume sul quale navigò la flotta di Alessandro, non corrispose all'idea che un tal ricordo evocava. Il domani arrivava Bahaweel-khan, governatore di una delle Provincie orientali del Cabulistan. Egli portava dei magnifici doni all'ambasciatore

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inglese, ch'egli condusse lungo la riva destra dell'Hyfase fino a Multan, città famosa per le sue seterie. Il governatore di questa città era stato preso da terrore apprendendo l'arrivo degli Inglesi, e deliberò quale attitudine converrebbe di tenere se questi assalissero la città per sorpresa o se esigessero la sua cessione.

Questo allarme si acquietò e il colloquio fu dei più cordiali. La descrizione che ne dà l'Elphinstone, quantunque sembri un po' esagerata, è però interessante.

«Il governatore, dice egli, Salutò il signor Strachey (il segretario dell'ambasciata) all'uso persiano. Essi s'incamminarono insieme verso la tenda, ed il disordine non fece che aumentare. Qui si battevano a pugni; là i cavalieri passavano da parte a parte i pedoni. Il cavallo del signor Strachey fu quasi gettato a terra, ed il segretario durò molta fatica a riprendere l'equilibrio. Avvicinandosi alla tenda, il khan ed il suo seguito sbagliarono la strada, e precipitarono sulla cavalleria con tanto impeto, che questa ebbe appena il tempo di voltarsi per lasciarli passare.

«Le truppe in disordine ripiegarono verso la tenda, i servi del khan presero la fuga; i paraventi furono strappati, le corde stesse della tenda furono rotte, e poco mancò che la tela non ci cadesse sul capo. L'interno fu in un momento pieno di gente, e in una completa oscurità. Il governatore e dieci persone del suo seguito si sedettero, gli altri rimasero sotto le armi. Questa visita durò poco; il governatore non sapeva che recitare il suo rosario con fervore e dirmi in fretta: «Voi siete il benvenuto! voi siete il benvenuto!» Infine, pretestando il timore ch'io fossi disturbato dalla folla, si ritirò.»

Il racconto è divertente; ma sarà poi vero in tutti i suoi particolari?

Il 31 dicembre l'ambasciata passava l'Indo e penetrava in un paese coltivato con cura e con metodo, che non ricordava in

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nulla l'Indostan. La gente del paese non aveva mai sentito parlare degli Inglesi, che essi prendevano per Mongoli, Afgani od Indiani. Epperò le voci più strane correvano fra questa popolazione amante del meraviglioso.

Si dovette fermarsi un mese a Dera per aspettare un «mehmandar», specie di introduttore degli, ambasciatori. Due persone della missione ne approfittarono per far la salita del picco di Tukhte-Soleiman, o Trono di Solimano, sul quale,

secondo la leggenda, si sarebbe fermata l'arca di Noè, dopo il

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diluvio. Il 7 febbraio ebbe luogo la partenza da Dera, e da quel

punto l'ambasciata ebbe i piacere di attraversare delle contrade deliziose fino a Pesehawer, ove si recava anche il re, perchè questa città non è residenza ordinaria della corte.

«Il giorno del nostro arrivo; dice la relazione, il pranzo ci fu fornito dalla cucina del re. Le vivande erano eccellenti. In seguito noi le facemmo cucinare a nostro modo; ma il re continuò a fornirci la colazione, il pranzo e la merenda, più le provvigioni per duemila persone, duecento cavalli e un gran numero d'elefanti. Peccato che il nostro seguito non fosse anche più numeroso, e tuttavia non senza fatica, alla fine del mese, si ottenne da Sua Maestà qualche diminuzione di questa inutile profusione.»

Come si poteva prevedere, i negoziati per le presentazioni alla corte furono lunghi e difficili. Tuttavia si finì per accomodar tutto e i ricevimenti furono cordiali quanto lo permettevano le usanze diplomatiche. Il re era adorno di diamanti e di gemme; egli portava una bellissima corona, e sopra uno dei suoi braccialetti scintillava il «cohinur», il più gran diamante che esista e del quale si trova un disegno nei Voyages di Tavemier.

«Devo dichiarare, scrive Elphinstone, che se alcune cose e sopratutto la ricchezza dell'abbigliamento regale suscitarono il mio stupore, io ne trovai molte altre al disotto della mia aspettazione. Tutto sommato, più presto che gli indizi di prosperità di uno Stato possente, si potevano ravvisare i sintomi della decadenza di una monarchia poco prima fiorente.»

In seguito, l'ambasciatore nota la rapacità colla quale gli ufficiali del re si disputavano i doni degli Inglesi, e alcuni altri particolari che gli fecero cattiva impressione. Un secondo abboccamento col re produsse su Elphinstone una impressione

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più favorevole. «Si crederà difficilmente, scrive egli, che un monarca

orientale possa avere della disinvoltura e conservare la propria dignità nel medesimo tempo ch'egli si sforza di piacere.»

La pianura di Peschawer, circondata, tranne all'est, da alte montagne, è bagnata da tre rami del fiume Cabul, che ivi si congiungono, e da vari piccoli ruscelli. Sicché questa campagna è straordinariamente fertile. Pruni, peschi, peri, melacotegne, melagrane, datteri vi si incontravano ad ogni passo. La popolazione, così rada nelle contrade aride che l'ambasciata aveva attraversate, è qui piuttosto densa; e da un'altura il luogotenente Macartney non contò meno di trentacinque villaggi.

Quanto a Peschawer, vi constatò la presenza di centomila abitanti, che abitavano in case fatte di mattoni, a tre piani. Molte moschee, la cui costruzione però non ha nulla di notevole, un bell'ospizio per le carovane e il ballahissor, castello fortificato nel quale il re ricevette l'ambasciata, tali i monumenti più importanti di Peschawer. Il concorso d'abitanti di razze diverse, dai costumi differenti, presenta un quadro sempre cangiante, vero caleidoscopio umano, che reca grandissimo diletto allo straniero. Persiani, Afgani, Kyberiani, Hazauri, Duranei, ecc., cavalli, dromedari e camelli della Bactriana, bipedi e quadrupedi, il naturalista ha di che osservare e descrivere.

Ma ciò che forma l'incanto di questa città, come di molta parte dell'India, è la lussureggiante vegetazione; è circondata da una larga zona di giardini, ed è rinomata per l'abbondanza e il profumo de'suoi fiori, e sopratutto delle rose.

Frattanto, se la situazione del re era difficile, suo fratello, ch'egli aveva detronizzato in seguito ad una sommossa popolare, aveva ripreso le armi e tentava impadronirsi del Cabul. Un più lungo soggiorno per l'ambasciata era

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impossibile. Essa dovette dunque riprendere il cammino dell'India, passò per Attock e la vallata d'Hussun-AJbdul, celebre per la sua bellezza. Quivi Elphinstone dovette arrestarsi fino a che la sorte delle armi non avesse deciso del trono di Cabul, ma egli aveva ricevuto delle lettere di richiamo. Da quel momento la fortuna fu contraria a Sjuhau, che dopo essere stato completamente battuto, aveva dovuto cercare la sua salvezza nella fuga.

La missione continuò dunque la sua via e attraversò il paese dei Sikh, montanari grossolani, mezzo nudi e semi-barbari.

«I Sikh — che dopo qualche anno fecero così terribilmente parlare di sé — sono uomini alti, dice Elphinstone, magri e nello stesso tempo molto forti. Essi non portano altre vestimenta che dei calzoni, che discendono soltanto fino alla metà delle coscie. Sovente essi portano dei grandi mantelli di pelle, legati trascuratamente sulla spalla. I loro turbanti non sono larghi, ma molto alti e piatti davanti. Le forbici non toccano mai né la l'oro barba, né i loro capelli. Le loro armi sono l'arco e il moschetto. Le persone distinte portano degli archi molto eleganti, e non fanno punte visite senza essere armati in questo modo. Quasi tutto il Pendjab appartiene a Rendjet-Sing, che nel 1805 non era che uno dei numerosi capi del suo paese. All'epoca del nostro viaggio egli aveva acquistata la sovranità di tutta la contrada occupata dai Sikh ed aveva preso il titolo di re.»

Nessun incidente degno di attenzione avvenne net ritorno dell'ambasciata a Delhi. Essa portava seco, oltre il racconto degli avvenimenti svoltisi sotto i suoi occhi, i documenti più preziosi sulla geografia dell'Afganistan e del Cabulistan, sul clima, le produzioni animali, vegetali e minerali di questa immensa estensione di paese.

L'origine, la storia, il governo, la legislazione, la

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condizione delle donne, la religione, la lingua, il commercio, formano soggetto d' altrettanti capitoli, molto interessanti, della relazione di Elphinstone, di cui i giornalisti meglio informati si sono serviti allorché è stata decisa la recente spedizione inglese nell'Afganistan.

Infine la relazione si chiude con uno studio molto particolareggiato sulle tribù che formano la popolazione dell'Afganistan e con un insieme di documenti inestimabili per l'epoca sulle contrade vicine.

Riassumendo, la relazione di Elphinstone è curiosa, interessante, preziosa sotto molti aspetti, e può essere ancora ali giorno d'oggi consultata con frutto.

Lo zelo della Compagnia era infaticabile. Una missione non era appena di ritorno, che un'altra partiva per un'altra direzione, con delle istruzioni differenti. Si trattava di conoscere il terreno intorno a sé, d'essere di continua informati di quella politica asiatica sempre così mutevole, e d'impedire una coalizione di queste tribù di nazionalità diverse contro gli usurpatori stranieri. Nei 1812, un'altra idea — per dire il vero più pacifica — determinò il viaggio di Moorcroft e del capitano Hearsay ai lago Mansarovar, situato nella provincia dell'Undes, che fa parte del Piccolo Tibet.

Questa volta si trattava di impadronirsi di un branca di capre del Cachemire, le quali hanno un lungo pelo che serve alla fabbricazione di quegli scialli famosi in tutto il mondo.

Inoltre la missione si proponeva di distruggere la nota asserzione degli Indiani, che il Gange ha la sua sorgenti al di là dell'Himalaya, nel lago Mansarovar.

Missione difficile e perigliosa! Bisognava prima penetrare nel Nepal, di cui il governo rendeva l'accesso molto difficile, e in seguito penetrare in un paese, da cui erano esclusi gli abitanti del Nepal e a maggior ragione gli Inglesi. Questo paese è l'Undes.

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Gli esploratori si travestirono dunque da pellegrini indiani. Essi avevano un seguito di venticinque persone, e, cosa singolare, uno di questi servitori si era impegnato a marciare continuamente facendo dei passi di quattro piedi: mezzo molto approssimativo per misurare Il cammino percorso.

I signori Moorcroft e Hearsay passarono da Bereily e seguirono la via di Webb fino a Djosimath, che essi lasciarono il 26 maggio 1812. Bentosto dovettero superare l'ultimo contrafforte dell'Himalaya, lottando contro difficoltà sempre rinnovali tisi, scarsità di villaggi, e quindi anche di ricoveri e di portatori, cattivo stato di strade, poste a una grande altezza, sopra il livello del mare.

Essi nondimeno videro Daba, ove si trova una importantissima lameria, Gortope, Maisar, e, a un quarto di miglio da Tirtapuri, delle singolari sorgenti d'acqua calda.

«L'acqua, dice la relazione originale riprodotta negli Annales des Voyages, scaturisce per due imboccature di sei pollici di diametro da uno strato calcareo di tre miglia di estensione, ed elevato quasi dappertutto da dieci a dodici piedi al disopra della pianura che lo circonda. Esso venne formato dai depositi terrosi lasciati dall'acqua, raffreddandosi. L'acqua si eleva a quattro pollici sul livello di questa stratificazione. Essa è molto chiara e così calda da non potervi tenere la mano che qualche secondò. All'ingiro si vede una grossa nuvola di fumo. L'acqua, scorrendo su una superficie quasi orizzontale, scava dei bacini di diverse grandezze che, a forza di ricevere dei depositi terrosi, si restringono; i fondi si alzano, e l'acqua scava un nuovo serbatoio che si riempie a sua volta. Essa scorre così fin quando arriva nel piano. Il deposito terroso ch'essa lascia, è da una parte vicino alle aperture, bianco come lo stucco più puro; un po' più lontano, giallo pallido, e più lontano ancora giallo carico. L'altra sorgente ha dapprima un color rosa, poi rosso carico. Queste diverse tinte si ritrovano

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nello strato calcareo, che deve essere opera dei secoli.» Tirtapuri, residenza d'un lama, e, dalla più remota

antichità, il ritrovo più frequentato dei fedeli, come lo prova un muro di più di quattrocento piedi di lunghezza, formato da pietre sopra le quali sono scritte delle preghiere.

I viaggiatori partirono da questo luogo il 1.° agosto affine di giungere al l'ago Mansarovar, e lasciarono alla loro destra il lago Ravahnard, che si credeva comunemente desse origine al principale ramo del Setledje.

Il lago Mansarovar è scavato al piede d'immense praterie in pendìo, dominate, al sud, da montagne gigantesche. Di tutti i luoghi venerati dagli Indiani, questo è il più sacro. Ciò dipende senza dubbio dalla sua lontananza dall'Indostan, dalle fatiche e dai pericoli della strada, e fors'anche dalla necessità di portare con sé danaro e provvigioni.

I geografi indiani fanno uscire da questo interessante lago il Gange, il Setledje e il Kali. Moorcroft non aveva nessun dubbio sulla falsità della prima di queste asserzioni. Risoluto a verificare le due altre, egli percorse le rive ripide e rotte da profondi scoscendimenti di questo lago, vide un gran numero di corsi d'acqua che vi si gettano; non ne vide uno solo uscire. È possibile che prima del terremoto che rovinò Srinagar, il Mansarovar abbia avuto un emissario, ma Moorcroft non ne trovò traccia. Situato fra l'Himalaya e la catena del Cailas, di forma oblunga, irregolare, questo lago ha cinque leghe di lunghezza sopra quattro di larghezza.

Lo scopo della escursione essendo compiuta» Moorcroft e Hearsay ritornarono verso l'India, passarono a Gangli e videro Ravahnrad; ma Moorcroft era troppo debole per farne il giro; riguadagnò Tirtapuri, poi Daba, ed ebbe molto a soffrire nel traversare il Ghat, o passaggio che separa l'Indostán dal Tibet,

«Il vento che viene dalle montagne del Buthan, coperte di neve, dice la relazione, è freddo e penetrante, la salita è lunga e

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penosa, la discesa rapida e sdrucciolevole, ed esige delle precauzioni. In generale abbiamo molto sofferto. I nostri cavalli, per la negligenza dei conduttori, si erano allontanati dalia strada e si erano arrampicati sulla riva di un precipizio all'altezza di. cinquecento piedi. Un montanaro li ricondusse da quel luogo pericoloso; essi tentarono discendere percorrendo un pendìo molto ripido. Gli ultimi smuovevano i sassi che, cadendo con violenza, minacciavano di colpire quelli che si trovavano all'avanguardia; era una cosa curiosa il vedere con quale abilità, continuando, a correre, i cavalli scansavano i colpi delle pietre.»

Bentosto i Gorkhali, che fino allora si erano limitati a porre ostacoli al cammino dei viaggiatori, li strinsero davvicino e tentarono arrestarli. La fermezza degli Inglesi contenne per lungo tempo questi selvaggi fanatici, ma infine attinsero coraggio dal numero e sa precipitarono sopra i viaggiatori.

«Venti uomini si precipitarono su di me, scrive Moorcroft, uno mi prese per il collo, e appuntandomi un ginocchio contro le reni tentò di strangolarmi stringendomi la cravatta: un altro attaccò una corda ad una delle mie gambe e mi tirò indietro: ero sul punto di perdere i sensi. Il fucile sul quale mi appoggiavo mi sfuggì e caddi; mi tirarono pei piedi come se fossi legato. Nulla potrebbe eguagliare la gioia feroce che si dipinse sul viso di quei selvaggi quando mi rialzai. Temendo che riuscissi a mettermi in salvo, due soldati mi tenevano per l'estremità di una corda, dandomi di quando in quando un buon colpo, senza dubbio per ricordarmi la mia posizione. Sembrava che Hearsay non prevedesse un attacco così immediato e violento; egli si risciacquava la bocca quando cominciò il chiasso, e non intese le mie grida che lo chiamavano in soccorso. I nostri domestici non si trovavano vicini alle poche armi di cui eravamo forniti; alcuni fuggirono non so come; gli altri vennero arrestati come Hearsay. Non lo legarono come

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me, si accontentarono di tenerlo per le braccia.» Il capo di questa banda disse ai due inglesi che essi erano

stati riconosciuti e arrestati per aver attraversato il paese travestiti da pellegrini indiani. Un fakiro, che Moorcroft aveva preso seco come capraio, pervenne nullameno a fuggire e a portare due lettere alle autorità inglesi. Le pratiche furono subito avviate, e il primo novembre gli esploratori venivano lasciati liberi. Non sodamente si fecero loro delle scuse, ma si restituì il mal tolto, e il rajah del Nepal permise loro di lasciare il paese. Tutto è bene ciò che finisce bene.

Rimane a ricordare, per essere precisi, la corsa del signor Fraser nell'Himalaya e l'esplorazione di Hodgson alle sorgenti del Gange nel 1817.

Il capitano Webb aveva, per proprio conto, come abbiamo detto, scoperto il corso di questo fiume dopo la valle di Dhun fino a Cadjani, presso Reital. Il capitano Hodgson partì il 28 maggio 1817, e pervenne tre giorni dopo alla sorgente del Gange, al di là di Gangautri. Egli vide il fiume uscire da una volta bassa nel mezzo d'una massa enorme di neve ghiacciata, che aveva più di trecento piedi di altezza perpendicolare. Il fiume era già importante, avendo una larghezza media di ventisette piedi e diciotto pollici di profondità.

Secondo tutte le probabilità, è in questo luogo che il Gange esce primamente alla luce. Qual è la sua lunghezza sotto la neve agghiacciata? É prodotto il fiume dallo sgelo delle nevi medesime? Scaturisce dalla terra? Ecco i quesiti che il capitano Hodgson desiderava di risolvere; ma avendo voluto rimontare più alto che le guide non consentissero, l'esploratore affondò nella neve quasi fino ai collo e fu forzato di retrocedere non senza fatica.

Il luogo, dal quale esce il Gange, è situato a dodicimilanovecentoquattordici piedi al disopra del livello del mare, nell'Himalaya stesso.

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Hodgson fece anche delle ricerche sulla sorgente della Jumna.

A Djemautri la massa di neve, da cui il fiume sfugge, non ha meno di centottanta piedi di larghezza e più di quaranta piedi di spessore, fra due muraglie perpendicolari di granito. Questa sorgente è situata sul versante sud-est dell'Himalaya.

Se la dominazione degli Inglesi nell'India aveva preso una estensione considerevole, non è meno vero che appunto da ciò proveniva un continuo pericolo. Tutte queste popolazioni di razze diverse, di cui la maggior parte poteva insuperbire di un passato glorioso, non erano state sottomesse che grazie al principio politico molto conosciuto, che consiste nei dividere per regnare. Ma non potevano esse un giorno imporre silenzio alle loro rivalità e alle loro inimicizie per volgersi contro lo straniero?

Considerata freddamente dalla Compagnia questa prospettiva, tutte le sue azioni dovevano tendere all'applicazione del sistema ch'era così ben riuscito fino allora. Alcuni stati vicini, ancora abbastanza possenti per dar ombra alla potenza britannica, potevano servire di rifugio ai malcontenti e diventare il focolare d'intrighi pericolosi. Ora, di tutti questi imperi vicini, quello che doveva essere più strettamente sorvegliato, era la Persia, sia per la vicinanza della Russia, sia perchè Napoleone aveva avuto una grande idea, che le guerre in Europa «non gli permisero di mettere in esecuzione.

Alla metà di febbraio del 1807, il generale Gardane, che aveva guadagnati i suoi gradi durante le guerre della Repubblica, e si era distinto ad Austerlitz, a Jena, a Eylau, fu nominato ministro plenipotenziario in Persia, colla missione di allearsi allo shah Feth-Alì contro l'Inghilterra e la Russia. La scelta era felice, perchè uno degli antenati del generale Gardane aveva compita una simile missione alla corte dello

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shah. Gardane attraversò l'Ungheria, raggiunse Costantinopoli e l'Asia Minore; ma quando arrivò in Persia, Abbas Mirza era successo a suo padre Feth-Alì.

Il nuovo shah ricevette l'ambasciatore francese con distinzione, lo colmò di doni, concesse qualche privilegio ai cattolici ed ai negozianti francesi. Se non che fu questo il solo

risultato della missione che fu ostacolata dal generale inglese

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Malcolm, la cui influenza era allora preponderante. L'anno seguente, Gardane, scoraggiato vedendo tutti i suoi tentativi andati a vuoto e che non poteva sperare alcun buon risultato, rientrò in Francia.

Suo fratello, Angelo Gardane, che gli aveva servito da segretario, offre una breve relazione del viaggio — lavoro che contiene qualche particolare curioso sulle antichità della Persia, ma che stava per essere di molto sorpassato dai lavori inglesi.

Bisogna pure aggiungere alla missione di Gardane la relazione di un console francese, Adriano Dupré, che era stato associato a quest'ambasciata. Esso l'ha pubblicata sotto il titolo di Viaggio nella Persia, compiuto dal 1807 al 1809, attraversando l'Anatolia, la Mesopotamia, da Costantinopoli all'estremità del golfo Persico, e di là a Irwan, seguito da particolari sui costumi, gli usi e il commercio dei Persiani, sulla corte di Teheran e da una notizia intorno le tribù della Persia. L'opera soddisfa in gran parte le promesse del titolo, e giova non poco alla geografia e all'etnografia della Persia.

Gli Inglesi, che fecero in questo paese un più lungo soggiorno dei Francesi, erano perciò appunto più atti a riunire dei materiali senza paragone più abbondanti ed a fare una scelta giudiziosa delle informazioni ricevute.

Due opere sopratutto ebbero lungo tempo autorità; queste sono dapprima le due illazioni di Giacomo Morier; i momenti d'ozio che gli lasciavano la sua posizione di segretario d'ambasciata, li mise a profitto per studiare i particolari dei costumi dei Persiani; e, di ritornò in Inghilterra, egli pubblicò diversi romanzi orientali, ai quali la varietà dei quadri, la fedeltà minuziosa delle pitture, la novità, per così dire, della cornice, procurarono non poco successo.

In secondo luogo, c'è il voluminoso lavoro geografico in 4°, di Giovanni Macdonal-Kinneir, sull'impero della Persia. Questo lavoro, cha ha fatto epoca e che supera di molto tutto

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ciò che era stato pubblicato fino allora, non ci dà solamente le informazioni più precise sui confini del paese, le sue montagne, i suoi fiumi e il suo clima, come il suo, titolo ce lo farebbe credere, ma racchiude i documenti più esatti sul governo, sulla costituzione, sulle forze militari, il commercio, le produzioni animali, vegetali e minerali, suite, popolazione e sui redditi del paese.

Dopo aver descritto, in un vasto e luminoso quadro complessivo, le forze materiali e morali dell' impero della Persia, Kinneir passa alla descrizione delle diverse provincie, sulle quali egli aveva accumulato gran copia di documenti importanti, che hanno fatto della sua opera, fino a questi ultimi tempi, il lavoro più completo e più imparziale sull'argomento.

E invero, dal 1808 al 1814, Kinneir percorse e studiò in direzioni molteplici l'Asia Minore, l'Armenia e il Kurdistan. Le diverse posizioni ch'egli aveva occupate, le missioni di cui egli era stato incaricato, l'avevano messo in grado di vedere bene e bene imparare. Ch'egli fosse capitano al servizio della Compagnia, o agente politico presso il nabab di Carnatic, o semplice viaggiatore, lo spirito critico di Kinneir era sempre sull'avviso, e avvenimenti o rivoluzioni, le cui cause erano sfuggite a molti altri esploratori, non ebbero segreti per lui, a motivo della conoscenza ch'egli aveva acquistato dei costumi, delle abitudini e del carattere degli Orientali.

Alla medesima epoca, un altro capitano al servizio della Compagnia delle Indie, Guglielmo Price, che era stato mandato nel 1810 come interprete e segretario aggiunto presso l'ambasciata di sir Gore Ouseley, in Persia, aveva diretto i suoi studi a decifrare i caratteri cuneiformi. Ben altri avevano tentato, ma erano venuti ai risultati più bizzarri e più fantastici. Come tutte quelle dei suoi contemporanei, le vedute di Price erano arrischiate, e le sue applicazioni pochissimo soddisfacenti; ma egli ebbe il merito di volgere parecchi dotti

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alla ricerca di questo difficile problema, nel medesimo tempo ch'egli continuava la tradizione di Niebuhr e degli altri orientalisti.

Dobbiamo a lui il racconto del viaggio dell'ambasciata inglese alla corte di Persia, racconto a cui sono aggiunte due memorie sulle antichità di Persepoli e di Babilonia.

A sua volta, il fratello di sir Gore Ouseley, Guglielmo Ouseley, che lo aveva accompagnato in qualità di segretario, aveva approfittato del suo soggiorno alla corte di Teheran per studiare la Persia. Solamente i suoi studi non riguardarono né la geografia, né l'economia politica; egli li restrinse alle iscrizioni, alle medaglie, ai manoscritti, alla letteratura, in una parola a tutto ciò che aveva relazione con la storia intellettuale o materiale del paese. E così noi dobbiamo a lui una edizione di Firdusi e molte altre opere, le quali, aggiunte alle precedenti di cui si è parlato, vennero molto opportunamente a completare le cognizioni di già raccolte sul paese degli shah.

Ma vi è un'altra contrada, mezzo asiatica,. mezzo europea che si cominciò a conoscere meglio. Noi vogliamo parlare della regione caucasea.

Fino dall'ultima metà del XVIII secolo, un medico russo, Giovanni Antonio Guldenstaedt, aveva visitato Astrakan, Kislar sul fiume Terek all'estrema frontiera dei possessi russi; egli era entrato nella Georgia, ove lo czar Eraclio l'aveva accolto con bontà; aveva veduto Tiflis e il paese dei Truchmeni, ed era pervenuto in Imerizia. L'anno seguente, 1773, aveva visitato la grande Kabardia, la Kumania orientale, aveva esplorate le rovine di Madjary, raggiunto Tscherkask, Azow, riconosciute le bocche del Don, e si era proposto di terminare quella vasta esplorazione con lo studio della Crimea, allorché fu richiamato a Pietroburgo.

I viaggi di Guldenstaedt non sono stati tradotti in francese; pubblicati incompletamente dal loro autore che la morte

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sorprese mentre ne aveva scritta appena una metà, essi ebbero per editori, a Pietroburgo, un giovane prussiano, Enrico Giulio Klaproth, che doveva esplorare te medesime contrade.

Nato a Berlino l'11 ottobre 1783, Klaproth mostrò in età giovanissima delle disposizioni meravigliose per lo studio delle lingue orientali. A quindici anni, egli imparò da solo il chinese, e appena ebbe terminati i suoi studi alle università di Halle e di Dresda, egli cominciò la pubblicazione del suo giornale Il Magazzino Asiatico. Chiamato in Russia dal conte Potocki, egli fu tosto nominato membro aggiunto per le lingue orientali dell'Accademia di Pietroburgo.

Klaproth non appartiene a quella classe stimata di scienziati da camera che si contentano di vegliare su dei libri. Egli comprendeva la scienza in una maniera più vasta. Per lui non vi era modo più certo d'arrivare a una conoscenza perfetta delle lingue dell'Asia e dei costumi e delle abitudini dell'Oriente, che studiarli sul posto.

Klaproth domandò dunque l'autorizzazione d'accompagnare l'ambasciatore Golowkin, che per recarsi in China doveva attraversare l'Asia. Dacché egli ebbe ottenuto il permesso necessario, l'erudito Viaggiatore partì solo per la Siberia, arrestandosi qualche tempo presso i Samojedi, i Tongusi, i Bashkiri, i Jakuti, i Kirghisi, altre popolazioni finniche o tartare, che vivono in quegl'immensi deserti. Poi egli arrivò a Jakutsk, ove fu bentosto raggiunto dall'ambasciatore Golowkin. Dopo una fermata a Kiatka, si passò la frontiera chinese il 1° gennaio 1806.

Ma il viceré della Mongolia volle sottomettere l'ambasciatore a delle cerimonie che questi considerò come umilianti. Ora, né l'uno né l'altro, non volendo in nulla diminuire le loro pretese, l'ambasciatore dovette riprendere il cammino di Pietroburgo. Klaproth, poco desideroso di rifare la via già percorsa, e preferendo di visitare delle popolazioni

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nuove per lui, traversò il sud della Siberia, e fece, durante questo lungo viaggio di venti mesi, una collezione importante di libri chinesi, manciù, tibetani e mongoli, ch'egli utilizzò nel suo grande lavoro che porta il nome d'Asia poliglotta.

Nominato, al suo ritorno a Pietroburgo, accademico

straordinario, egli fu, poco dopo, incaricato, dietro la proposta del conte Potocki, d'una missione storica, archeologica e geografica nel Caucaso. Klaproth passò un anno intero in

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corse, spesso pericolose, in mezzo a delle popolazioni predatrici, attraverso contrade ancora sconosciute, è visitò il paese che aveva percorso Guldenstaedt alla fine del secolo precedente.

«Tiflis, dice Klaproth — e la sua descrizione è curiosa, allorché la confrontiamo con quella degli autori contemporanei — Tiflis, così chiamata in causa delle sue acque termali, si divide in tre parti: Tiflis propriamente detta o l'antica città, Kala o la fortezza, e il sobborgo d'Isni. Bagnata dal Kur, questa città non offriva, nella metà del suo recinto, che delle mine. Le sue vie erano così strette che anche nelle meno anguste «un'arba», una di quelle carrozze alte, coperte da una specie di baldacchino, che si osservano sovente nelle vedute dell'Oriente, non vi poteva facilmente passare; quanto alle altre, un cavaliere vi trovava un passaggio appena sufficiente. Le case mal costruite in ciottoli, o di mattoni tenuti insieme dal fango, non duravano che una quindicina di anni. Tiflis aveva due mercati, ma tutto vi era estremamente caro, e gli scialli come le stoffe di seta, che sono il prodotto delle manifatture asiatiche vicine, hanno dei prezzi più elevati che a Pietroburgo.»

Parlare di Tiflis senza dire qualche cosa delle sue acque calde, è impossibile. Noi citeremo dunque questo passo di Klaproth:

«I famosi bagni caldi furono un tempo magnifici, ma ora cadono in rovina; tuttavia se ne vedono parecchi, nei quali le pareti e il soffitto sono ricoperti di marmo. L'acqua contiene un po' di zolfo. L'uso ne è molto salutare; gl'indigeni, e sopratutto le donne, ne fanno uso eccessivamente; queste vi restano delle giornate intere, e vi portano i loro pasti.»

La base dell'alimentazione, almeno nei distretti montuosi, è il «furi», un certo pane molto duro e d'un gusto disaggradevole, la cui preparazione singolare ripugna alle nostre idee sibarite.

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«Quando la pasta è sufficientemente impastata, dice la relazione, fanno con della legna ben secca un fuoco chiaro e vivo in vasi di terra altri quattro piedi, larghi due e approfondati nel suolo. Quando il fuoco è bene ardente, i Georgiani vi scuotono entro le loro camicie e le loro brache di seta rossa per far cadere nelle fiamme i pidocchi, pulci, cimici, che infestano le loro vestimenta. Non è che dopo questa operazione che si getta nei vasi la pasta divisa in pezzi della grossezza di due pugni; si tura tosto l'apertura con un coperchio e lo si copre con dei cenci, affine che non si perda nulla del calore, e che il pane si cuccia bene. Questo «furi» è nondimeno sempre mal cotto e difficile a digerirsi.»

Dopo aver descritto ciò che forma la base di tutti i banchetti presso i poveri montanari, assistiamo ora con Klaproth a un desinare principesco.

«Si pose davanti a noi, egli dice, una lunga tovaglia rigata, larga un'auna e mezza e molto sudicia; si mise dinanzi a ciascun convitato un pane di frumento ovale, lungo tre palmi, largo due e dello spessore di due dita appena. Portarono in seguito un gran numero di piattelli d'ottone riempiti di carne di montone e di riso al brodo, dei polli arrosto e del formaggio tagliato a fette. Fu servito al principe e ai Georgiani del salame fumante con degli erbaggi verdi e crudi, perchè era giorno di digiuno. In Georgia non si sa che cosa siano cucchiai, forchette, coltelli, si beve la zuppa con lo stesso piattello, si prende la carne con le mani e si rompe con le dita in pezzi, della grossezza di un boccone. Quando una persona ha molt'amicizia per qualcuno, gli getta un buon pezzo. Si pongono i cibi sulla tovaglia. Al termine di questo pasto si servì dell'uva e della frutta secca. Intanto che si mangiava, si versò in giro con abbondanza del buon vino rosso del paese, che si chiama «traktir» in tartaro e «ghwino» in georgiano; lo si beve in una catinella d'argento d'una forma molto piatta

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somigliante ad una sottocoppa.» Se questo quadro dei costumi è vivo, il modo col quale

Klaproth racconta i diversi incidenti del suo viaggio ha pure molto interesse. Ascoltate piuttosto questo racconto dell'escursione del viaggiatore alle sorgenti del Terek, di cui Guldenstaedt aveva abbastanza esattamente indicato il luogo, ma ch'egli non aveva vedute:

«Io partii dal villaggio di Utsfars-Kan, il 17 marzo, in una mattinata bella ma fredda. Quindici Osseti mi accompagnarono. Dopo una mezz'ora, di cammino, noi abbiamo cominciato ad arrampicarci, per una via ripida e difficile, fino al punto ove l'Utsfars-Don si getta nel Terek. Inseguito, durante un'intera lega, si dovette percorrere un cammino ancor più cattivo lungo la riva destra di questo fiume, che ha qui appena dieci passi di larghézza, quantunque fosse in quei giorni gonfio per io scioglimento delle nevi. Questa parte delle sue rive è inabitata. Ad ogni modo si continuò a salire, e abbiamo raggiunto il piede del Khoki, chiamato anche Istir-Khoki. Siamo infine arrivati a un luogo ove delle grosse pietre ammucchiate nel fiume ne facilitavano il passaggio per entrare nel villaggio di Tsiwratté-Kan, ove abbiamo fatto colazione; è là che si riuniscono i piccoli corsi d'acqua che formano il Terek. Soddisfatto d'essere giunto alla meta del mio viaggio, io versai un bicchiere di vino d'Ungheria nell'acqua del fiume e feci una seconda libazione al genio della montagna ove il Terek ha la sua sorgente. Gli Osseti, i quali credevano ch'io compissi un dovere religioso, mi contemplavano con raccoglimento. Io feci tracciare in color rosso, sopra un enorme masso schistoso, i cui lembi erano lisci, la data del mio viaggio, più il mio nome e quello dei miei compagni; quindi salii ancora un poco fino al villaggio di Ressi.»

In seguito a questo interessante racconto, di cui noi potremmo moltiplicare le citazioni, Klaproth riassume le

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informazioni ch'egli ha raccolte suite popolazioni dei Caucaso insiste particolarmente sulle rassomiglianze spiccate che presentano i differenti dialetti georgiani con le lingue dei Finni e dei Woguli. Vi è qui un riavvicinamento nuovo e fecondo.

Parlando dei Lesghiani, che occupano il Caucaso orientale e il cui territorio porta il nome di Daghestan o Lezghistan, Klaproth osserva che si deve servirsi del nome Lesghiani «come quello degli Sciti o dei Tartari si adoperava altra volta per designare gli Asiajici del nord»; poi, egli aggiunge ch'essi non formano una stessa fazione, come lo indica il numero dei dialetti parlati, che, tuttavia, sembra derivino da una sorgente comune, quantunque il tempo li abbia considerevolmente alterati». Vi ha in ciò una contraddizione singolare; sia che i Lesghiani, parlanti la stessa lingua, formino una stessa nazione, oppure non la formino, essi non dovrebbero parlare dei dialetti, la cui origine è la stessa.

Secondo Klaproth, le parole lesghiane presentano molti rapporti con le altre lingue del Caucaso e con quelle dell'Asia settentrionale, sopratutto con i dialetti samojedi e finnici della Siberia.

A ovest e a nord-ovest dei Lesghiani, si trovano i Metzdjeghi o Tchetchentsi, che sono probabilmente i più antichi abitanti del Caucaso. Questo non è, nullameno, il parere di Pallas, che vide in essi una tribù separata dagli Alani. La lingua dei Tchetchentsi ha molta rassomiglianza e analogia col samojedo, il wogulo e altre lingue siberiane e anche con i dialetti slavi.

I Tcherkessi o Circassi sono i Sykhi dei Greci. Essi abitavano altre volte il Caucaso orientale e la penisola di Crimea, ma hanno spesso cambiato di dimora. La loro lingua differisce molto dagli altri idiomi caucasèi, benché i Tcherkessi «appartengano come i Woguli e gli Ostiaki — fu già detto che il lesghiano e la lingua dei Tchetchentsi rassomigliano a questi

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idiomi siberiani — a un medesimo ceppo, che in'un'epoca molto lontana si è diviso in più rami, di cui uno era formato verisimilmente dagli Unni». La lingua dei Tcherkessi è ima delle più difficili a pronunciarsi; certe consonanti devono essere articolate da un colpo di gola così forte, che nessun europeo ha potuto renderne i suoni.

Si trovano ancora, nel Caucaso, gli Abazi, che non hanno mai abbandonate le rive del mar Nero, ove sono stabiliti da tempi antichi, e gli Osseti o As, che appartengono al ceppo delle nazioni indo-germaniche. Essi chiamano il loro paese

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Ironistan e si fanno chiamare col nome d'Iron.!!! Klaproth vide in essi dei Sarmati Medi, non soltanto in

causa di questo nome che s'avvicina all'Iran, ma per la natura stessa della lingua, «che prova ancor meglio dei documenti storici, e davvero in un modo incontrastabile, ch'essi appartengono allo stesso ceppo dei Medi e dei Persiani». Questa opinione pare a noi del tutto ipotetica, perchè si conosceva troppo poco all'epoca di Klaproth la lingua dei Medi — il deciframento delle iscrizioni cuneiformi era ancora soggetto di studio — per poter giudicare della sua rassomiglianza coll'idioma che parlano gli Osseti.

«Ciò nonostante, continuò Klaproth, dopo aver ravvisato fra questi popoli i Sarmati Medi degli antichi, è ancora più sorprendente riconoscervi anche gli Alani, che occuparono la contrada al nord del Caucaso.»

E più oltre: «Risulta evidentemente da tutto ciò che precede, che gli

Osseti, che si chiamavano essi stessi Iron, sono i Medi, che si davano essi stessi il nome d'Iran e che Erodoto designa col nome di Arioi. Essi sono ancora i Sarmati Medi degli antichi e appartengono i alla colonia medica stabilita nel Caucaso dagli Sciti. Sono gli As o Alani del medioevo; sono infine gli Jassi dei cronisti russi, dai quali una parte della massa del Caucaso fu chiamata Monti Iassichi.»

Non è qui il luogo di discutere queste identificazioni, che sono argomento di critica. Accontentiamoci di aggiungere questa riflessione di Klaproth sopra la lingua osseta, cioè che la sua pronuncia rassomiglia molto a quella dei bassi dialetti alemanni e slavi.

In quanto ai Georgiani, essi differiscono essenzialmente dagli abitanti delle nazioni vicine, tanto per la lingua che per le qualità fisiche e morali. Si dividono in quattro tribù principali: i Karthuli, i Mingreli, i Suani, abitanti delle Alpi meridionali del

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Caucaso, e i Lazi, tribù selvaggia e dedita al brigantaggio. Come si vede, le informazioni raccolte da Klaproth sono

molto curiose e gettano una luce inattesa sulle migrazioni degli antichi popoli. La penetrazione e la sagacità del viaggiatore erano straordinarie, la sua memoria prodigiosa. Quindi lo scienziato berlinese rese dei segnalati servigi alla linguistica. È doloroso che le qualità dell'uomo, la sua delicatezza, la dolcezza del suo carattere non sono state all'altezza della scienza e della perspicacia del professore.

Bisogna adesso lasciare l'antico mondo per il nuovo e raccontare le esplorazioni della giovine repubblica degli Stati Uniti.

Dacché il governo federale uscì dagli imbarazzi della guerra, dacché la sua esistenza fu riconosciuta e fu veramente costituita, l'attenzione pubblica si trasportò verso quei paesi delle pellicce, che avevano alternativamente attirato gli Inglesi, gli Spagnuoli e i Francesi.

La baia di Nootka e te coste vicine, che il grande Cook e gli avveduti Quadra, Vancouver e Marchand avevano riconosciuti, non appartenevano che all'America. Fin da quel tempo la dottrina di Monroe, che doveva più tardi far tanto rumore, era in germe nello spirito degli uomini di stato di quell'epoca.

Mercè una proposta fatta al Congresso, il capitano Meryweather Lewis e il luogotenente Guglielmo Clarke furono incaricati di riconoscere il Missuri, dalla sua foce nel Mississippi fino alla sua sorgente, di attraversare le montagne Rocciose percorrendo la via più breve e più facile per mettere in comunicazione il golfo del Messico coll'oceano Pacifico. Questi ufficiali dovevano inoltre entrare in relazioni commerciali cogli Indiani che avrebbero incontrato lungo il viaggio.

La spedizione si compose di truppe regolari e di volontari,

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il cui numero, compresi i capi, formava un totale di quarantatre uomini. Un battello e due piroghe completavano l'armamento.

Fu il 14 maggio 1804 che gli Americani lasciarono la Wood-river, che si getta nel Mississippi, per entrare nel Missuri. Giusta le riflessioni inserite nel giornale pubblicato da Gass, i membri di questa missione credevano d'incontrare i più grandi pericoli naturali, e di dover lottare contro dei selvaggi d'una statura gigantesca, il cui accanimento contro la razza bianca era invincibile.

Durante i primi giorni di questo immenso viaggio in canotto, che poteva solo paragonarsi a quelli d'Orellana e di La Condamine sull'Amazzone, gli Americani ebbero la buona fortuna di incontrare, in una torma di Siux, un vecchio francese, uno di quei pionieri dei boschi canadiani, che parlano la lingua della maggior parte delle nazioni vicine al Missuri, il quale consentì ad accompagnarli come interprete.

In seguito, essi passarono i confluenti dell'Osage, del Kansas, della Plata o Shaltow-river e del fiume Bianco. Essi avevano incontrate delle numerose torme d'Indiani, d'Osagi, di Siux o Mahas, che si trovavano in uno stato di decadenza completa. Di questi ultimi, una tribù aveva talmente sofferto per il vaiuolo, che i superstiti, presi da una specie di rabbia e come colpiti da pazzia, avevano uccise le loro donne, uccisi i ragazzi risparmiati dalla malattia, ed erano fuggiti da questo territorio infetto.

Un po' più in là incontrarono i Ricari o Rees, considerati dapprima come i più probi, i più affabili e i più industriosi che si fossero trovati. Ma qualche furto venne ben tosto ad affievolire l'idea che si era fatta del loro carattere. Cosa singolare, questa popolazione non era esclusivamente dedita alla caccia; coltivava grano, piselli e tabacco.

Lo stesso non si può dire dei Mandan, più fortemente costituiti dei loro congeneri. Si trova presso di loro un costume

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singolare della Polinesia, quello di non sotterrare i morti, ma di esporli sopra un palco.

La relazione di Clarke ci fornisce qualche particolare su questa curiosa tribù. I Mandan non riconoscono nell'Essere divino che il potere di sanare. Essi riconoscono, in conseguenza, due divinità, ch'essi chiamano il Gran Medico e il Genio. Bisogna credere che per essi la vita abbia tale importanza, che adorano tutto ciò che la può prolungare.

La loro origine non è, a quanto dicono, meno singolare. Essi abitavano originariamente un grande villaggio

sotterraneo, scavato sotto il suolo, alla riva di un lago. Ma una vite avendo messe le sue radici tanto profonde che discesero fino ad essi, qualcuno dei Mandan, servendosi di questa scala improvvisata, pervenne fino alla superficie del suolo. Dietro l'entusiastica descrizione ch'essi facevano dei terreni da caccia, della quantità di selvaggina e di frotta, la nazione, sedotta, risolse subito di conquistare un paese così ricco. Già la metà della tribù era arrivata alla superficie del suolo, allorché la vite, piegando sotto il peso di una grossa donna, cedette e rese impossibile l'ascensione al resto dei Mandan. Dopo morti essi credono di ritornare nella loro antica patria sotterranea; ma non potranno entrarvi se non quelli la cui coscienza sarà senza macchia; gli altri saranno precipitati in un lago immenso.

Appunto è presso questo popolo che il 1° novembre gli esploratori presero il loro quartiere d'inverno. Si costruirono delle capanne comode quanto lo permettevano i mezzi di cui potevano disporre, e si abbandonarono quasi tutto l'inverno, malgrado una temperatura abbastanza rigida, ai piaceri della caccia, che non tardò a divenire per essi una necessità.

Appena il Missuri fu sgelato, gli esploratori pensarono di continuare il loro viaggio. Ma siccome essi avevano spedito a San Luigi il battello con una quantità di pelli e di pellicce che avevano potuto riunire, erano ridotti a circa una trentina

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d'uomini coraggiosi, pronti a tutto sopportare per raggiungere lo scopo.

I viaggiatori non tardarono a oltrepassare la foce della Yellowstone (fiume della pietra gialla), quasi importante quanto il Missuri, e i terreni vicini abbondanti di selvaggina.

Grande fu il toro imbarazzo allorché arrivarono a un biforcamento di strade. Quale dei due fiumi, presso a poco eguali in volume, era il Missuri? Il capitano Lewis, alla testa d'una truppa di esploratori, rimontò il braccio meridionale e non tardò a scorgere le montagne Rocciose completamente coperte di neve. Guidato da un fracasso spaventevole, egli vide bentosto il Missuri precipitarsi su un pendìo di una roccia, poi formare per più miglia un seguito non interrotto di rapide.

La comitiva seguì dunque questo ramo profondamente interrato in mezzo alle montagne, il quale per un tratto di tre o quattro miglia si precipita fra due muraglie perpendicolari di roccie. La corrente infine si divide in tre rami che presero il nome di Jefferson, Madison e Gaílatin.

Bentosto gli ultimi bracci furono sorpassati, e la spedizione discese il versante verso l'oceano Pacifico. Gli Americani avevano condotto seco una donna, Sohsonee, tolta nella sua giovinezza agli Indiani dell'est; non soltanto essa servì loro come interprete fedele, ma, nel capo d'una tribù che manifestava delle intenzioni ostili, essa riconobbe suo fratello, e da quel giorno gli stranieri furono trattati con una grande benevolenza. Per disgrazia, il paese era povero, gli abitanti non si nutrivano che di bacche selvaggie, della corteccia di alberi e di animali quando potevano procurarsene, ciò che era difficile.

Gli Americani, poco abituati a questo nutrimento frugale, dovettero, per sostentarsi, mangiare i loro cavalli, quantunque ben dimagriti, e comperare tutti i cani che gli Indiani vollero vender loro. Essi ebbero perciò il soprannome di «Mangiatori di cani».

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Con la temperatura, la natura degli abitanti si addolciva; i viveri divennero più abbondanti, e, allorché discesero l'Oregon, che porta anche il nome di Colombia, la pesca dei salmoni giovò moltissimo come supplemento per vivere. Quando la Colombia, che ha un corso pericoloso, si avvicina al mare, forma un estuario molto vasto, nel quale le onde, venute dal largo, lottano contro la corrente del fiume. Gli Americani, col loro fragile canotto, corsero il rischio d'essere inghiottiti più d'una volta, prima di aver raggiunto il litorale dell'Oceano.

Felici d'aver raggiunto lo scopo della loro missione, stettero l'inverno in questo luogo, e, allorché ritornarono i bei giorni, ripresero il cammino di San Luigi, ove arrivarono al mese di maggio 1806 dopo un'assenza di due anni, quattro mesi e dieci giorni. Essi avevano calcolato di non aver fatto meno di 1378 leghe da San Luigi alla foce dell'Oregon.

L'impulso era dato. Ben presto le spedizioni per riconoscere il paese vanno succedendosi nell'interno del nuovo continente e prendono, un po' più tardi, un carattere del tutto scientifico particolare, sì da meritare un posto a parie nella storia delle scoperte.

Qualche anno dopo, uno dei più grandi colonizzatori di cui può onorarsi l'Inghilterra, sir Stamford Raffles, l'organizzatore della spedizione che s'impadronì delle colonie olandesi, era stato nominato luogotenente governatore di Java. Durante un'amministrazione di cinque anni, Raffles fece delle riforme considerevoli e abolì la schiavitù.

Ma questi lavori, quantunque l'occupassero molto, non gli impedirono di riunire i materiali necessari per la redazione dei due enormi in 4, che sono molto interessanti e molto curiosi. Essi contengono, oltre la storia di Java, una quantità di particolari sulle popolazioni dell'interno, fino allora poco conosciute, i ragguagli più minuziosi sulla geologia e la storia naturale. Non dobbiamo quindi sorprenderci se il nome di

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«Rafflesia», in onore di colui che fece così bene conoscere questa grande isola, è stato dato a un fiore enorme, che misura qualche volta un metro di diametro e pesa fino a cinque chilogrammi.

Raffles fu anche il primo che penetrò nell'interno di Sumatra, di cui si conosceva solo il litorale, ora visitando i cantoni occupati dai Passumah, atletici coltivatori, ora penetrando al nord fino a Me-mang-Kabu, celebre capitale dell'impero malese ora attraversando tutta l'isola da Benculen a Palimbang.

Ma ciò che costituisce la gloria più durevole di Tomaso Stamford Raffles è d'aver indicata al governo dell'India la posizione eccezionale di Singapur, e di averne fatto un porto franco, che non doveva tardare a prendere uno sviluppo considerevole.

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CAPITOLO II.

L'ESPLORAZIONE E LA COLONIZZAZIONE DELL' AFRICA.

I.

Peddie e Campbell nel Sudan. — Richtie e Lyon nel Fezzan. — Denham, Oudney e Clapperton al Fezzan, nel paese dei Tibbu. — Il lago Tchad e i suoi affluenti. — Kula e le principali città del Burnu. Il Mandara. — Una razzia presso i Felatah. — Sconfitta degli Arabi e morte di Bu-Khalum. — Il Loggun. — Morte di Toole. — In cammino per Kano. — Morte del dottor Oudney. — Kano. — Sackatu. — Il sultano Bello. — Ritorno in Europa.

Appena crollata la potenza di Napoleone I, e con essa la

preponderanza della Francia, appena terminate quelle lotte gigantesche per L'ambizione d'un solo uomo, che arrestarono lo sviluppo scientifico dell'umanità, da tutte le parti si risvegliarono le nobili aspirazioni e ricominciarono le imprese scientifiche o commerciali. Un'era nuova si è iniziata.

Fra le prime potenze che incoraggiano ed organizzano dei viaggi di scoperte, bisogna, come sempre, annoverare l'Inghilterra. Essa porta la sua attività sull'Africa centrale, su questi paesi di cui le ricognizioni di Hornemann e di Burckhardt avevano fatto intravedere la prodigiosa ricchezza.

Dapprima, nel 1816, parte il maggiore Peddie, che staccasi dal Senegal e si dirige verso Kakondy, situata sul Rio-Nunez. Appena giunto in questa città, Peddie soccombe alle fatiche del cammino ed all'insalubrità del clima.

Il maggiore Campbell gli succede nel comando della spedizione e attraversa le alte montagne del Fotau-Djallon, ma

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egli perde in pochi giorni una parte degli animali da soma e molti uomini.

Giunto sulle terre dell'«almany» — titolo portato dalla maggior parte dei sovrani di questa parte dell'Africa — la spedizione è trattenuta in questo regno, e non ottiene il permesso di far ritorno che dopo d'aver pagato un tributo considerevole.

Questa ritirata fu disastrosa; bisognò, non solo attraversare di nuovo i fiumi così a stento già passati, ma sopportare vessazioni, persecuzioni ed esazioni tali che per farle cessare il maggiore Campbell fu costretto ad abbruciare le sue mercanzie, a rompere i suoi fucili ed a bagnare la polvere.

Il maggiore Campbell non poté resistere a tante fatiche, alla rovina delle sue speranze, al completo insuccesso del suo tentativo, e morì con molti dei suoi ufficiali, nel luogo medesimo in cui aveva soggiaciuto il maggiore Peddie. I superstiti della spedizione tornarono a stento a Sierra-Leone.

Un po' più tardi Richtie ed il capitano Giorgio Francesco Lyon, approfittando del prestigio dato alla bandiera britannica dal bombardamento di Algeri, e delle relazioni che il console inglese di Tripoli aveva saputo avviare fra i personaggi importanti della Reggenza, impresero a seguire la via tracciata da Hornemann con lo scopo di penetrare fino nel centro stesso dell'Africa.

Il 25 marzo 1819 questi viaggiatori partono da Tripoli con Mohammed-el-Mukni, bey del Fezzan, che sul suo territorio prende il titolo di sultano. Grazie a questa potente scorta, Richtie e Lyon giungono senza ostacoli fino a Murzuk. Ma quivi, sono tanto spossati dalle fatiche del viaggio attraverso al deserto, e dalle privazioni, che Richtie muore il 20 novembre. Lyon è ammalato per molto tempo, e ristabilitosi riesce appena a sventare le perfide intenzioni del sultano, il quale, speculando già sulla morte dei viaggiatori, cerca impadronirsi dei loro

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bagagli. Perciò Lyon non può spingersi al di là delle frontiere

meridionali del Fezzan; ma tuttavia gli rimane il tempo di raccogliere preziose informazioni sulle principali città di questo stato e sulla lingua degli abitanti. Si devono parimenti a

lui le prime notizie autentiche relative ai Tuarighi, questi selvaggi abitanti del gran deserto, sulla loro religione, sui loro costumi, sulla loro lingua e sulla foggia singolare del loro abbigliamento.

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La relazione del capitano Lyon è ricca di particolari non mai osservati, ma scelti con cura sul Rornu, sul Wadai e sul Sudan in generale.

I risultati ottenuti non erano tali da soddisfare l'avidità inglese che voleva aprire ai suoi negozianti i ricchi mercati dell'interno. Epperò furono accolte favorevolmente le proposte fatte al Governo da uno scozzese, il dottor Walter Oudney, che era stato eccitato dai racconti di Mungo-Park. Egli aveva per amico un luogotenente di vascello, maggiore di lui di tre anni, Ugo Clapperton, il quale si era distinto sui laghi del Canada e in molte circostanze, ma che dopo la pace del 1815 si trovava in ozio forzato, del quale, a motivo della nativa forza di carattere e del bisogno di agire, era del tutto insofferente.

La confidenza che il dottor Oudney fece a Clapperton del suo progetto di viaggio lo decise subito a far parte di quest'avventurosa spedizione. Il dottor Oudney chiese al Ministero T'aiuto di questo ufficiale intraprendente, le cui speciali cognizioni gli dovevano essere di grandissimo vantaggio. Lord Bathurst non oppose alcuna difficoltà; e i due amici, dopo d'aver ricevute istruzioni particolareggiate, s'imbarcarono per Tripoli, dove appresero tosto che dovevano avere per capo il maggiore Dixon Denham.

Nato a Londra il 31 dicembre 1785, Denham era stato dapprima commesso presso un amministratore di grandi proprietà rurali. Entrò poi nello studio d'un avvocato, ma la sua poca attitudine per gli affari, il suo carattere audace, in cerca d'avventure, lo spinsero ben tosto ad arruolarsi in un reggimento che partiva per la Spagna. Egli si batté fino al 1815, poi approfittò dei suoi ozi per visitare la Francia e l'Italia.

Amante della gloria, Denham voleva scegliere la carriera che potesse procurargli rapidamente, anche col pericolo della vita, le soddisfazioni ch'egli ambiva, e si determinò per quella di esploratore; In lui l'azione seguiva immediatamente il

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pensiero. Egli propose al Ministero di recarsi a Timbuctù per la via che doveva seguire più tardi Laing. Quando apprese qual missione era stata affidata al luogotenente Clapperton ed al dottor Oudney, chiese di essere unito a loro.

Senza indugio, munito degli oggetti ch'egli credette necessari alla sua spedizione, dopo essersi procurato un abile carpentiere, chiamato Guglielmo Hillman, Denham s'imbarca per Malta e raggiunge i suoi futuri compagni di viaggio a Tripoli, il 21 novembre 1821. Il nome inglese aveva in quell'epoca un grandissimo prestigio negli Stati barbareschi, non solo per il recente bombardamento d'Algeri, ma anche perchè il console della Gran Bretagna a Tripoli aveva saputo con un'accorta politica mantenersi in buoni rapporti col governo della reggenza.

Questa influenza non aveva anzi tardato ad irradiarsi fuori di questa stretta cerchia. La nazionalità di alcuni viaggiatori, la protezione che l'Inghilterra aveva accordata alla Portarla fama delle sue lotte e delle sue vittorie nell'India, tutto ciò era vagamente penetrato nell'interno dell'Africa, ed il nome inglese, senza che se ne avesse una idea precisa, era ormai conosciuto. La strada da Tripoli al Bornu, al dire del console britannico, era sicura quanto quella da Londra a Edimburgo. Era dunque il momento di approfittare di una condizione che non si sarebbe forse più presentata per molto tempo.

I tre viaggiatori, dopo una benevola accoglienza del bey che mise i suoi servi a loro disposizione, s'affrettarono a lasciare Tripoli. Mercè la scorta data dal bey, essi poterono giungere facilmente a Murzuk, la capitale del Fezzan, l'8 aprile 1822.

In alcuni luoghi erano stati accolti con benevolenza, quasi con entusiasmo.

«A Sockna, racconta Denham, il governatore venne a riceverci e ci incontrò nella pianura. Egli era accompagnato dai

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principali abitanti e da molte centinaia di paesani che circondavano i nostri cavalli, ci baciavano le mani con tutta l'apparenza della franchezza e del piacere. Entrammo così nella città. La folla ripeteva le parole: Inglesi! Inglesi! e quest'accoglienza ci era tanto più gradita in quanto che noi eravamo i primi europei che non si fossero travestiti, e sono persuaso che l'accoglienza sarebbe stata molto meno amichevole se avessimo voluto farci credere maomettani, abbassandoci alla parte di impostori.»

Ma, a Murzuk, dovevano rinnovarsi tutte le vessazioni che avevano impacciato Hornemann. Nondimeno le circostanze erano mutate al pari degli uomini. Senza lasciarsi affascinare dai grandi onori che il sultano rendeva loro, gli Inglesi miravano al serio, quindi chiesero la scorta necessaria per andare al Bornu.

Si rispondeva loro che era impossibile partire prima della primavera successiva, per la difficoltà di riunire la «khafila» o carovana, e le truppe che dovevano accompagnarla attraverso regioni deserte.

Tuttavia un ricco mercante di nome Bu-Baker-Bu-Khalum, amico intimo del pascià, fece capire agli Inglesi che se gli avessero fatto qualche dono, egli s'impegnava di appianare le difficoltà; s'incaricò anzi di accompagnarli nel Bornu, paese in cui desiderava egli pure di recarsi se il pascià di Tripoli glielo avesse permesso.

Denham, persuaso della veracità di Bu-Khalum, comprese che bisognava ottenere questo permesso e andò a Tripoli. Non ricevendo risposte evasive, egli minacciò di imbarcarsi per l'Inghilterra, dove, diceva, avrebbe riferiti gli ostacoli che il pascià frapponeva al compimento della missione di cui egli era incaricato.

Siccome queste minaccie non produce vano effetto, Denham salpò e stava per sbarcare a Marsiglia quando

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ricevette un messaggio del bey che lo richiamava e gli dava soddisfazione, autorizzando Bu-Khalum ad accompagnare i tre viaggiatori.

Il 30 ottobre, Denham rientrava a Murzuk, dove trovava i suoi compagni presi da violentissime febbri e minacciati dalla disastrosa influenza del clima.

Convinto che il cambiamento d'aria ristabilirebbe la salute compromessa, Denham li fece partire e viaggiare a piccole giornate. Egli stesso lasciò Murzuk il 29 novembre con una carovana composta di mercanti di Mesurata, di Tripoli, di Sockna e dà Murzuk, che era accompagnata da una scorta di duecentodieci arabi, comandati da Bu-Khalum, guerrieri scelti fra le tribù più intelligenti e più sottomesse.

La spedizione seguì la via che aveva già percorso il luogotenente Lyon e raggiunse ben presto Tegherhy, la città più meridionale del Fezzan, e l'ultima che s'incontra prima di entrare nel deserto di Bilma. «Mi riuscì tutto così bene, dice Denham, che disegnai la veduta del castello di Tegherhy, presa dalla riva meridionale d'uno stagno salato attiguo a questa città. Si entra in Tegherhy per un passaggio stretto, basso ed a volta, poi si trova una seconda muraglia ed una porta; il muro è forato da feritoie che renderebbero difficilissima l'entrata per quello stretto passaggio. Al disopra della seconda porta vi è anche un'apertura da cui si potrebbero lanciare sugli assalitori le frecce e i tizzoni ardenti di cui un tempo gli Arabi facevano un grande uso. All'interno vi sono dei pozzi la cui acqua è abbastanza buona. Epperò io credo che se questa città fosse difesa, avendo munizioni e viveri, potrebbe opporre una grande resistenza. La situazione di Tegherhy, è veramente bella. Tutto all'intorno crescono i datteri e l'acqua vi è eccellente. Una catena di colline basse si prolunga all'est. I beccaccini, le anitre e le oche selvatiche frequentano gli stagni salati che si trovano vicini alla città.»

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I viaggiatori lasciando questa città penetravano in un deserto di sabbia, attraverso il quale non sarebbe stato facile dirigersi, se la via non fosse stata segnata da scheletri d'animali e da uomini che si incontravano specialmente vicino ai pozzi.

«Uno degli scheletri che noi vedemmo oggi, narra Denham, sembrava ancora fresco; la barba era ancora attaccata al mento, e si distinguevano i lineamenti. Uno dei mercanti della khafila esclamò ad un tratto: Era il mio schiavo! Lo lasciai qui vicino or sono quattro mesi. — Presto, presto, mettilo al mercato, esclamò un altro faceto mercante di schiavi, prima che un altro non lo reclami!»

Attraverso il deserto vi sono alcune tappe segnate dalle oasi, in mezzo alle quali s'inalzano delle città più o meno importanti. Kishi è uno dei ritrovi più frequentati dalle carovane. Quivi si paga il diritto di passaggio attraverso il paese. Il sultano di questa città, — si vedrà che più di uno di questi principi minuscoli prendono il titolo di comandante dei credenti — il sultano di Kishi, se si deve credere a Denham, si distingueva per la mancanza assoluta di pulizia, e la sua corte non offriva certo un aspetto piacevole.

«Egli venne, dice il viaggiatore, nella tenda di Bu-Khalum accompagnato da una mezza dozzina di tibbu, alcuni dei quali erano veramente orrìbili. Avevano i denti giallo-scuri, giacché ad essi piace tanto il tabacco in polvere, che lo prendono pel naso e per la bocca. Il loro naso somiglia ad un pezzetto rotondo di carne appiccicata sulla faccia; le narici sono così grandi che le dita possono penetrarvi tanto quanto vogliono. La vista del mio orologio, della mia bussola, della mia tabacchiera a musica, poco li stupì. Erano veri bruti con faccia umana.»La città di Kirby, che si incontra un po' più lontano nelle vicinanze d'una catena di colline, le più alte delle quali non oltrepassano i quattrocento piedi, è situata in un «uady», fra due laghi salati, che secondo ogni apparenza si formarono mercè gli scavi fatti

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per estrarre la terra necessaria alle costruzioni. In mezzo a questi laghi emerge, come un isolotto, un ammasso di muriato e di carbonato di soda. Questo sale, che viene fornito dagli «uady» molto numerosi in quel paese, è l'oggetto d'un importante commercio col Bornu e con tutto il Sudan.

Quanto a Kirby, è impossibile vedere una città più miserabile. «Nelle case non c'è nulla, neppure una stuoia.» E come potrebbe essere altrimenti, mentre questo paese è esposto alle incessanti razzìe dei Tuarighi?

La carovana traversava allora il paese dei Tibbu, popolo ospitaliero e socievole, al quale le carovane pagano una tassa di passaggio come guardiano dei pozzi e delle cisterne scavate nel deserto. La maggior parte dei Tibbu, pieni di vita e di attività, monta cavalli molto agili, e maneggia con destrezza singolare la lancia, che i più vigorosi guerrieri gettano fino a duecentoquaranta piedi. Bilma è la loro capitale e la residenza del loro sultano.

«Questi, dice la relazione, si presenta agli stranieri con un numeroso corteggio d'uomini e di donne. Queste ultime erano molto migliori di quelle della piccola città; alcune avevano dei lineamenti molto simpatici, i loro denti bianchi e ben disposti contrastavano mirabilmente nel nero spiccato della pelle, e le trecce unte d'olio cadevano con grazia da ciascuna parte del viso; dei pendenti di corallo al naso e delle grandi collane d'ambra le rendevano molto seducenti. Talune avevvano un «cheiche» o ventaglio, fatto di erbette o di crine, per cacciare le mosche; altre dei ramoscelli, altre dei ventagli di piume di struzzo; altre ancora un mazzo di chiavi; tutte tenevano qualche cosa in mano e l'agitavano al disopra della testa camminando. Un pezzo di stoffa del Sudan, attaccato sopra la spalla sinistra, che lasciava la parte destra scoperta, componeva il loro abbigliamento; un altro, più piccolo, girava intorno alla testa e discendeva sulle spalle, o meglio era gettato indietro. Benché

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esse sembrassero pochissimo vestite, non v'era nulla di meno immodesto nei loro modi e nel loro contegno.»

A un miglio da Bilma, al di là di una limpida sorgente che sembrava essere stata posta colà dalla natura per invitare i viaggiatori a provvedersi d'acqua, comincia un deserto, la di cui traversata non esige meno di dieci giorni. Un tempo, senza dubbio, qui si estendeva un immenso lago salato.

Il 4 febbraio 1828 la carovana raggiunse Lari, città situata sulla riviera settentrionale di Bornu, a 44° 40' di latitudine nord.

Gli abitanti, spaventati dalla carovana, fuggirono, colpiti da terrore.

«Ma la tristezza che questo spettacolo ci causò, disse Denheim, si cangiò subito in una sensazione del tutto differente, allorché noi scorgemmo più lontano, alla distanza minore d'un miglio dal luogo dove noi eravamo, il grande lago Tchad che rifletteva i raggi del sole. Questa vista, così interessante per noi, produsse una soddisfazione ed una emozione che nessuna parola sarebbe abbastanza energica per esprimerne la forza e la vivacità.»

A partire da Lari, l'aspetto del paese cangiava completamente. Ai deserti sabbiosi succedeva una terra argillosa, coperta di erbuccia, seminata di acacie e d'alberi di specie diverse, in mezzo ai quali si scorgevano dei branchi di gazzelle, mentre le galline della Guinea e le tortorelle della Barberia facevano luccicare le loro piume, attraversando quella verzura. Invéce di villaggi composti di capanne, ce avevano la forma di campane coperte con la paglia di d'unta adesso s'incontrano delle città».

I viaggiatori continuarono ad avanzare verso il sud, girando intorno al lago Tchad, di cui essi avevano raggiunto la punta settentrionale. Presso la sponda di questo gran bacino, il terreno era fangoso, nero e sodo. L'acqua si eleva molto nella

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stagione invernale, proporzionatamente bassa Testate; è acqua dolce, abbonda di pesci, ed è anche popolata d'ippopotami e d'uccelli acquatici. Quasi in mezzo al lago, verso sud-est, vi sono delle isole abitate dai Biddomah, popolo abituato a vivere di bottino.

Gli stranieri avevano inviato un corriere allo sceicco El-Khanemi, per domandargli l'autorizzazione di recarsi alla sua capitale. Un inviato raggiunse bentosto la carovana, invitando Bu-Khalum e i suoi compagni a dirigersi verso Kuka.

Lungo la via, gli stranieri passarono a Beurwha, città fortificata che fino allora aveva sfidati gli assalti dei Tuarighi, e attraversarono l'Yeu, fiume la cui larghezza in alcuni punti misura più di centocinquanta piedi. Questo, affluente del Tchad viene dal Sudan. Sopra la riva meridionale di questo fiume si inalza una bella città fortificata chiamata ugualmente Yeu e grande la metà di Beurwha.

La khafila arrivò finalmente alle porte di Kuka, e fu ricevuta il 17 febbraio, dopo due mesi e mezzo di cammino, da un corpo d'armata di quattromila uomini, che manovravano con un insieme perfetto. Fra questa truppa si trovava un corpo di negri formanti la guardia particolare dello sceicco, la cui armatura rammentava quella degli antichi j cavalieri.

«Essi portavano, disse Denham, delle cotte di maglia fatte d'anelli di ferro che coprivano il petto fino al collo, si riunivano al disopra della testa e discendevano separatamente davanti e di dietro fino a cascare sui fianchi del cavallo e a coprire le coscie del cavaliere. Essi avevano delle specie di caschetti o cuffie di ferro, fermati da turbanti gialli, rossi o bianchi, accomodati sotto il mento. Le teste dei cavalli erano egualmente difese da piastre col medesimo metallo. Le loro selle erano piccole e leggiere; le staffe di stagno. Non vi si può passare che la punta del piede, che è ricoperta da un sandalo di cuoio, ornato di pelle di coccodrillo. Stavano tutti molto bene a cavallo e

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correvano verso noi a gran galoppo, e non si arrestarono che a qualche passo da noi, agitando le loro lance abbassate dalla parte di Bu-Khalum, gridando: «Barca! Barca!» Benvenuto! Benvenuto!»

Circondati da questo corteo brillante, gli Inglesi e gli Arabi penetrarono nella città, ove un eguale apparato militare era stato spiegato in loro onore.

Essi furono bentosto ammessi alla presenza dello sceicco El-Khanemi. Questo personaggio sembrava essere sui quarantacinque anni. La fisionomia preveniva in suo favore; essa era ridente, spiritosa e benevola. Gli Inglesi gli rimisero le lettere del pascià. Allorché lo sceicco ne ebbe terminata la lettura, domandò a Denham ciò ch'egli e i suoi compagni venivano a fare nel Bornu.

«Unicamente per vedere il paese, rispose Denham, e procurarci delle notizie sopra i suoi abitanti, la sua natura e le sue produzioni.

«Siate i benvenuti, replicò lo sceicco. Il mostrarvi ciascuna cosa sarà un piacere per me. Ho ordinato che si costruiscano delle case per voi nella città; andate a vederle con uno dei miei, e se vi ha qualche cosa di difettoso, non abbiate timore a dirlo.»

I viaggiatori ricevettero bentosto l'autorizzazione di raccogliere le spoglie di animali e di uccelli che paressero loro interessanti, e di prendere delle note sopra tutto ciò ch'essi potessero osservare. E così raccolsero una quantità di notizie sopra le città vicine a Kuka.

Kuka, allora capitale del Bornu, possedeva un mercato, ove si vendevano schiavi, montoni, torelli, frumento, riso, arachidi, fagiuoli, indaco e molti altri prodotti della contrada. Un grande movimento non cessava di regnare nelle vie di questa città, che non contava meno di quindicimila abitanti.

Angornu è pure una città cinta di mura, che non contava meno di trentamila anime. Era l'antica capitale del paese. Il suo

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mercato era importantissimo; vi si videro persino centomila individui disputarsi con offerta di contanti il pesce, la selvaggina e la carne, che vi si vendono crudi o cotti, l'ottone, il rame, l'ambra e il cornilo. La tela di lino era a così basso

prezzo in questa provincia, che la maggior parte degli uomini portavano camicia e pantaloni. Anche i mendicanti hanno una singolare maniera d'eccitare la compassione; si mettono

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all'entrata del mercato, e, tenendo in mano i pezzi d'un vecchio pantalone, prendono un'aria pietosa, e dicono ai passanti: «Guardate, io non ho calzoni.» La novità della trovata, la domanda di questa parte del vestiario, più necessario ai loro occhi che il nutrimento, fece scoppiare dalle rìsa i viaggiatori, allorché ne furono per la prima volta testimoni.

Fino allora gli Inglesi non avevano avuto rapporti se non con lo sceicco che si accontentava d'un potere effettivo, abbandonando la potenza nominale al sultano.

Singolare personaggio questo sovrano, che non si lascia vedere, come un animale curioso e nocivo, che attraverso le sbarre d'una gabbia di canne vicino alla porta del suo giardino! Modi bizzarri che regnavano a questa Corte, ove ogni elegante doveva avere un grosso ventre e procurarsi artisticamente una obesità che pur si considera generalmente molto incomoda.

Certi raffinati galanti, allorché erano a cavallo, avevano un ventre così grosso e prominente che sembrava pendere per di sopra al pomo della sella. Per essi l'eleganza esigeva che avessero un turbante di una mole e d'un peso tale, che obbligava sovente chi lo portava a tenere la testa piegata da una parte.

Queste fantasticherie barocche rammentavano quelle dei Turchi del ballo mascherato. Anche i viaggiatori facevano una gran fatica a conservare la loro gravità in faccia a cose così grottesche.

Ma, vicino a cotesta rivista così solennemente divertente, quante nuove osservazioni, quante notizie interessanti da raccogliere, quanti desideri da soddisfare!

Denham avrebbe voluto inoltrare subito verso il sud. Ora lo sceicco si rifiutò a mettere in pericolo dei viaggiatori che il bey di Tripoli gli aveva confidati. Dacché essi erano entrati nel territorio di Bornu, la responsabilità di Bu-Khalum era finita, mentre era impegnata quella dello sceicco.

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Frattanto erario sì vive le istanze di Denham, ch'egli ottenne da El-Khanemi l'autorizzazione di accompagnare Bu-Khalum in una «ghrazzie» o razzìa che pensava di fare contro i Raffili o infedeli.

La truppa dello sceicco e la truppa degli Arabi attraversarono prima Yeddie, grande città fortificata a venti miglia da Angornu, poi Affa-gay e molte altre città, costruite sopra un suolo d'alluvione, che presenta un aspetto argilloso di color oscuro.

A Delow gli Arabi penetrarono nel Mandara, il cui sultano venne incontro alla testa di cinquanta cavalieri.

«Mohammed-Becker era di piccola statura, scrisse Denham, e dell'età di circa cinquant'anni, la sua barba era tinta del più bel colore azzurro.»

Le presentazioni si fecero, e il sultano avendo osservato il maggiore Denham, domandò tosto chi egli fosse, donde venisse, ciò che egli desiderava, infine s'egli era musulmano.

Alla risposta imbarazzata di Bu-Khalum, il sultano volse altrove gli occhi, dicendo: «Il pascià ha dunque dei Raffili per amici?

Questo incidente produsse una gran cattiva impressione e Denham non fu più ammesso d'allora in poi alla presenza del sultano.

I nemici del pascià di Bornu e del sultano di Mandara portavano il nome di Felatah. Le loro numerosissime tribù si estendevano fino al di là di Timbuctù. Sono begli uomini il cui colorito ricorda il colore del bronzo oscuro, ciò che li distingue dai negri e ne forma una razza a parte. Professano l'islamismo e raramente si mescolano coi negri.

Del resto, avremo occasione di ritornare più tardi sui Felatah, Fulah, Peul o Fan, come li chiamano in tutto il Sudan.

Al sud della città di Mora si eleva una catena di monti, le di cui cime più alte non oltrepassano i duemilacinquecento

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piedi e si estende, al dire degli indigeni, per un tratto di più di due mesi di cammino.

La descrizione che Denham fa di questo paese è troppo curiosa, per non riprodurne i tratti più salienti.

«Da tutte le parti, dice egli, la veduta era limitata dalia catena di montagne della quale non si scorgeva la fine. Quantunque per le dimensioni gigantesche e la selvaggia magnificenza esse non possano esser paragonate né alle Alpi, né agli Appennini, né al Giura e neppure alla Sierra-Morena, tuttavia esse sostengono il confronto sotto il rapporto pittoresco. Le cime di Valmy Savah, Djogghiday, Vayah, Moyung e Memay, i cui fianchi pietrosi sono coperti di gruppi di villaggi, si slanciavano all'est e all'ovest; Horza, che superava tutte le altre in altezza e beltà, si mostrava davanti a noi verso il sud coi suoi burroni e i suoi precipizi.»

Derkolla, una delle principali città dei Felatah, fu ridotta in cenere dagli invasori. Questi non tardarono a prendere posizione davanti Mosfeia, la cui situazione era, molto forte, e che era difesa da palizzate custodite da numerosi arcieri. Il viaggiatore inglese dovette assistere a questa operazione. Il primo urto degli Arabi fu irresistibile. Le detonazioni delle armi da fuoco, la reputazione di valore e di crudeltà di Bu-Khalum e dei suoi accoliti, gettarono un momento di panico nei Felatah. Certamente se i Mandarani e i Bornuesi avessero allora dato con energia l'assalto alla collina potevano prendere la città.

Ma gli assediati, avvertendo l'esitazione dei loro avversari, presero a loro volta l'offensiva e riordinarono i loro arcieri, le cui frecce avvelenate non tardarono a fare negli Arabi delle numerose vittime. In questo momento i contingenti di Bornu e di Mandara fuggirono. Barca Gama, il generale che comandava i primi, ebbe tre cavalli uccisi sotto di lui, Bu-Khalum era ferito come il suo cavallo; quello di Denham lo era egualmente;

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egli stesso aveva avuto il viso ferito leggermente da una freccia, e due altre erano ficcate nel suo mantello.

La ritirata degenera ben tosto in fuga disordinata. Il cavallo di Denham cade, e il cavaliere è appena rialzato che viene circondato dai Felatah. Due s'infuriano alla vista delle pistole con cui l'inglese li minaccia; un terzo riceve la scarica nella spalla.

Denham si considerava come salvo, allorché il suo cavallo cadde una seconda volta con tale violenza, ch'egli fu gettato lontano contro un albero.

Allorché il maggiore si rialzò, il suo cavallo era sparito ed egli era senz'armi. Subito contornato da nemici, Denham ferito alle mani ed alla parte dritta, è in parte spogliato, e solo la paura di sciupargli le ricche vesti impedirono ai Felatah di finirlo.

Una disputa cominciò a proposito di queste spoglie. Il maggiore ne approfittò per svignarsela su un cavallo e disparve frammezzo a delle macchie, nudo, insanguinato; dopo una corsa sfrenata arrivò all'orlo di un burrone, in fondo al quale scorreva un torrente.

«Le mie forze mi avevano quasi abbandonato, scrive egli, io mi ero afferrato a dei giovani rami che si erano sviluppati su un vecchio tronco d'albero sospeso al di sopra del burrone, avendo il progetto di lasciarmi sdrucciolare fino all'acqua, perchè le rive avevano un pendìo abbastanza dolce. Di già i rami cedevano al peso del mio corpo, allorché sotto alla mia mano un grande «uffa», il serpente più velenoso di questi paesi, uscì dal suo buco come per venirmi a mordere. L'orrore di cui io fui preso sconvolse le mie idee. I rami sfuggirono alla mia mano, e io capitombolai nell'acqua. Ciò nonostante quest'urto mi rianimò, e tre movimenti delle mie braccia mi portarono alla riva opposta che raggiunsi con difficoltà. Allora, per la prima volta, io ero al riparo dalla persecuzione dei Felatah…»

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Per fortuna, Denham scorse un gruppo di cavalieri, da cui pervenne, ad onta del grido dei nemici, a farsi intendere. Egli non percorse meno di trentasette miglia senza altre vestimenta che una cattiva coltre sparsa di pidocchi, pulci, cimici, sopra la nera groppa di un magro cavallo. Quali sofferenze con un calore di trentasei gradi, che inasprivano le sue ferite!

Trentacinque arabi uccisi, con essi il capo Bu-Khalum, quasi tutti gli altri feriti, i cavalli morti o perduti; tali furono i risultati d'una spedizione che doveva fruttare un grande bottino e procurare molti schiavi. In sei giorni furono percorse le centottanta miglia che separano Mora da Muka. Denham in quest'ultima città ricevette un'accoglienza benefica dallo sceicco El-Khanemy, che gli inviò, in ricambio dei suoi abiti perduti, un abbigliamento alla moda del paese.

Non appena il maggiore si fu rimesso dalle ferite e dalle fatiche, prendeva parte ad una nuova spedizione che lo sceicco inviò nel Monga, paese situato all'ovest del lago Tchad, i cui abitanti non avevano mai riconosciuto la sua supremazia e rifiutavano di pagare tributo.

Denham e il dottore Oudney partirono da Kuka il 22 maggio, traversarono l'Yeu, fiume quasi asciutto in questa stagione, ma molto grosso al momento delle pioggie; visitarono Birnie e le rovine della vecchia Birnie, l'antica capitale del paese, che poteva contenere presso a poco duecentomila individui. Poco dopo visitarono gli avanzi di Gambaru, dagli edifizi magnifici, residenza favorita dell'antico sultano, distrutta dai Felatah, poi Kabchary, Bassecur, Bately e tante altre città o villaggi, la cui numerosa popolazione si sottomise senza resistenza al sultano di Bornu.

L'inverno non fu favorevole ai membri della missione. Clapperton aveva una febbre terribile. Lo stato del dottore Oudney, già ammalato d'una affezione di petto alla partenza dell'Inghilterra, peggiorava tutti i giorni. Il carpentiere Kilman

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era in uno stato disperato. Solo Denham resisteva ancora. Dacché la stagione delle piogge volgeva al termine, il 14

dicembre Clapperton partì col dottore Oudney per Kano. Noi li seguiremo bentosto in questa parte sì interessante del viaggio.

Sette giorni dopo, un messo chiamato Toole arrivò a Kuka, non avendo impiegato che 3 mesi e 14 giorni per venire da Tripoli»

Nel mese di febbraio 1824, Denham e Toole fecero una corsa nel Loggun, all'estremità meridionale del lago Tchad. Tutta la parte vicina al lago e al suo affluente, lo Chary, è paludosa e inondata durante la stagione delle pioggie. Il clima eccessivamente malsano di questa regione fu fatale al giovane Toole, che morì il 26 febbraio ad Angala; egli non aveva ancora ventidue anni. Perseverante, intrepido, gaio, riconoscente, dotato di sangue freddo e di prudenza, Toole possedeva le qualità che distinguono il vero viaggiatore.

Il Loggun era allora un paese pochissimo conosciuto, non attraversato da carovane, e la cui capitale, Kernok, non contava meno di quindicimila abitanti, È un popolo più bello, più intelligente dei Bornusi — ciò è vero, sopratutto riguardo alle donne, — laboriosissimo, che fabbrica delle tele molto belle e dei tessuti molto fitti.

La presentazione d'obbligo al sultano ebbe fine con uno scambio di parole cortesi e l'accettazione di ricchi doni; aggiungi questa offerta singolare da parte di un sultano a un viaggiatore: «Se tu sei venuto per comperare delle donne schiave, non vale la pena che tu vada più lontano: io te le venderò a buon mercato comunque sia.» Denham ebbe una gran fatica a far comprendere a questo sovrano industriale che ciò non era lo scopo del suo viaggio, e che il solo amore della scienza aveva diretto i suoi passi.

Il 2 marzo Denham era di ritorno a Kuka e il 20 maggio egli vedeva arrivare il luogotenente Tyrwhit, che, portando dei

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ricchi doni per lo sceicco, doveva restare a Bornu in qualità di console. Dopo un'ultima spedizione verso Manu, la capitale del Kanem, e presso i Dogganah, che abitavano in altri tempi nelle vicinanze del lago Fitri, il 16 agosto il maggiore riprendeva con Clapperton la strada del Fezzan, e rientrava a Tripoli dopo un lungo e penoso viaggio, i cui risultati geografici, già numerosi, erano stati singolarmente aumentati da Clapperton.

È tempo ormai di raccontare gli incidenti di viaggio e le scoperte di questo ufficiale. Partito il 14 dicembre 1823, col dottore Oudney per Kano, grande città dei Felatah, situata, all'ovest dei Tchad, Clapperton aveva seguito l'Yeu fino a Damasak e visitato il vecchio Birnie, Bera, situata alle sponde d'un superbo lago, formato dagli straripamenti dell'Yeu, Dogamu, Bekidarfi, che formano quasi tutte parte dell'Haussa. Gli abitanti di queste province, che erano molto numerosi! prima dell'invasione dei Felatah, sono armati d'archi e di frecce, e fanno commercio di tabacco, di noci, di droghe, di antimonio, di pelli di capre da conciare, di tela di cotone in pezza, di abiti.

La carovana abbandonò bentosto il corso dell'Yeu o Gambaron, per avanzarsi in una contrada boscosa, che doveva essere completamente inondata durante la stagione delle piogge.

I viaggiatori entrarono in seguito nella provinciali Katagum, il cui governatore li ricevette con molta affabilità, assicurandoli che il loro arrivo era per lui una vera lesta, come lo sarebbe stato del pari per il sultano dei Felatah, che non aveva mai visto Inglesi. Nel medesimo tempo li assicurò che avrebbero trovato presso di lui, come a Kuka, tutto ciò che sarebbe stato loro necessario.

La sola cosa che lo meravigliò profondamente fu quella di sapere che i viaggiatori non volevano né schiavi, né cavalli, né denaro; che essi chiedevano solo, grazie la sua amicizia, il

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permesso di cogliere dei fiori, delle pianticelle, e Vautorizzazione di visitare il paese.

Katagum è situata a 12° 17' 11" di longitudine e presso a poco a 12° di latitudine, secondo le osservazioni di Clapperton. Questa provincia formava la frontiera del Bornu, prima della conquista dei Felatah. Essa può mettere in armi quattromila uomini di cavalleria e duemila fanti armati d'archi, di spade e di lance. Produce del grano e dei buoi, che sono, cogli schiavi, i principali articoli di commercio. Quanto alla città stessa, era la più forte che gli Inglesi avessero veduta dopo Tripoli. Essa aveva delle porte che venivano chiuse tutte le sere; era difesa da due mura parallele e da tre fossi asciutti, uno interno, un altro esterno, e un terzo scavato fra le due muraglie, alte circa venti piedi e larghe dieci circa alla base. Del resto, nessun altro monumento che una moschea in ruina; le case di terra possono contenere da sette a ottomila abitanti.

È là che per la prima volta gli Inglesi videro le conchigliette, i «cauri», servire da monete. Fino allora la tela del paese e qualche altro articolo erano stati i soli mezzi di scambio.

Al sud della provincia di Katagum è situato il paese di Yacoba, che i musulmani designano sotto il nome di Muchy. Secondo i rapporti che Clapperton ricevette, gli abitanti di questa provincia, attraversata da montagne calcaree, sarebbero antropofaghi. Ciò nonostante, i musulmani, che hanno un invincibile orrore per i Kaffiri, non danno altre prove a quest'accusa, che l'avere visto delle teste e dalle membra umane pendenti dai muri delle loro abitazioni.

È nel Yacoba che avrebbe la sua sorgente il Yeu, fiume completamente asciutto durante l'estate, ma le cui acque, durante la stagione delle piogge, al dire degli abitanti, crescono e diminuiscono alternativamente ogni giorno;

«L'11 gennaio, dice Clapperton, noi continuammo il nostro

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viaggio; ma, a mezzogiorno, bisognò fermarsi a Murmur. Il dottore era in uno stato tale di debolezza e di sfinimento, ch'io non sperai che egli potesse resistere un giorno di più. Dopo la nostra partenza dalle montagne di Obarri, nel Fezzan, dove era stato preso da infiammazione al petto per essersi esposto a una corrente d'aria mentre era in traspirazione, egli deperiva giornalmente.

«12 gennaio. — Il dottore prese allo spuntare del giorno una tazza di caffè, e, secondo il suo desiderio, feci caricare i camelli. Lo aiutai in seguito a vestirsi, e sostenuto dal suo domestico, uscì dalla tenda. Ma nel momento in cui si stava per collocarlo sul camello, scorsi in tutti i suoi lineamenti T'impronta spaventosa della morte. Lo feci tosto rientrare, mi collocai vicino a lui, e con un dolore che non cercherò di esprimere, lo vidi spirare senza proferire un lamento, senza soffrire. Mandai a domandare al governatore il permesso di seppellirlo, ciò che mi fu accordato subito. Feci scavare una fossa presso una pianta di mimosa, vicino a una delle porte della città. Dopo che il corpo fu lavato secondo l'usanza del paese, lo feci ricoprire con degli scialli che portavamo per farne dei doni. I nostri domestici lo portarono, e prima di confidarlo alla terra, lessi l'orazione funebre della chiesa inglese. Feci in seguito contornare la modesta tomba d'un muro di terra per preservarlo dagli animali carnivori, e feci ammazzare due montoni, che distribuii ai poveri.»

Così si estinse miseramente il dottore Oudney, chirurgo di marina, abbastanza istruito in storia naturale. La terribile malattia, il cui germe aveva portato fino dall'Inghilterra, non gli aveva permesso di rendere alla spedizione tutti quei servizi che il Governo si riprometteva da lui; e nullameno egli non risparmiava le sue forze, dicendo che si sentiva meno male in viaggio che in riposo. Sentendo che la sua costituzione indebolita non gli permetteva un lavoro assiduo, giammai egli

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volle mettere un ostacolo allo zelo dei suoi compagni. Dopo questa triste cerimonia, Clapperton riprese la via

verso Kano. Digu, città situata in mezzo a un paese ben coltivato e che nutre delle numerose mandre; Katungua, che

non è più nella provincia dei Katagum; Zangeja, situata vicino all'estremità della catena delle colline Duchi e che deve essere stata considerevole, a giudicare dalla estensione delle sue

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muraglie ancora in piedi; Girkua, il cui mercato è più bello di quello di Tripoli; Sochwa circondata da un'alta bastita di argilla, tali furono le principali tappe del viaggiatore prima della sua entrata a Kano, ov'egli giunse il 20 gennaio.

Kano, la Chano di Edrisi e degli altri geografi arabi, è il grande ritrovo del reame di Haussa.

«Non appena io ebbi passate le porte, disse Chapperton, fui stranamente deluso nella mia aspettativa. Dopo la brillante descrizione che me ne avevano fatta gli Arabi, io m'aspettavo di vedere una città d'una notevole estensione. Le case erano a un quarto di miglio dalle mura, e in alcuni quartieri riuniti in piccoli gruppi, separati da larghi pantani d'acqua stagnante. Avrei potuto dispensarmi dal fare delle spese per la mia «toeletta» (egli portava l'uniforme d'ufficiale di marina); tutti gli abitanti, occupati nei loro affari, mi lasciarono passare tranquillamente senza notarmi e senza volgere gli occhi verso me.»

Kano, la capitale della provincia del medesimo nome, % è una delle principali città del Sudan, è situata fra 12° 0' 19" di latitudine nord e 9° 20' di longitudine est.

Questa città può avere da trenta a quarantamila abitanti, dei quali più della metà sono schiavi.

Il mercato, che è circondato all'est e all'ovest da grandi paludi, o piuttosto canneti, è il ritrovo di numerose bande di anitre, di cicogne e di avvoltoi, che servono di difesa alla città. In questo mercato, fornito di tutte le provvigioni d'uso in Africa, si vede della carne di bue, di montone, di capra e qualche volta di camello.

«I macellai del paese, racconta il viaggiatore, sono accorti come i nostri: essi fanno qualche taglio per mettere in evidenza la grassa, qualche volta uniscono un pezzo di pelle di montone a una coscia di capra.»

Della carta per scrivere, prodotte dalle manifatture

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francesi, delle forbici e dei coltelli di fabbricazione indigena, dell'antimonio, dello stagno, della seta rossa, dei braccialetti di rame, dei grani di conterìa, di corallo, di ambra, degli anelli di stagno, qualche gingillo in argento, degli scialli per turbanti; della tela di cotone, di calìcot, degli abbigliamenti moreschi e molti altri oggetti: ecco ciò che si trova in abbondanza sul mercato di Kano.

Clapperton vi comperò, per tre. piastre, un ombrello inglese di cotone, venuto da Gadamès. Egli visitò altresì il mercato degli schiavi, ove questi infelici sono esaminati minutissimamente «e con la medesima attenzione con la quale i medici visitano i volontari che entrano nella marina».

La città è molto malsana; le paludi che la dividono press'a poco per il mezzo e le buche che si scavano nel terreno, per procurarsi la terra necessaria alle costruzioni, ne rendono costantemente l'aria cattiva.

A Kano è gran moda di tingersi i denti e le labbra coi fiori di «gurgi» e di tabacco, che li colorano d'un rosso sanguigno. Si mastica la noce di «guoro», e la si prende anche mischiata con del «trona», uso che non è particolare a Haussa, perchè si ritrova egualmente nel Bornu, ove è nullameno interdetto alle donne. Infine gli Haussani fumano un tabacco originario del paese.

Il 23 febbraio, Clapperton partì per Sockatu. Egli attraversò un paese pittoresco e ben coltivato, al quale dei boschetti sparsi sulle colline davano qualche somiglianza con un parco inglese. Delle mandrie bellissime, buoi bianchi o d'un grigio cinereo, animavano il paesaggio.

Le località più importanti che Clapperton incontrò lungo la via, sono: Gardania, città pochissimo popolataci di cui abitanti erano stati venduti come schiavi dai Felatah, Doncami, Zinnie, capitale del Zambra; Kagaria, Kuara e i pozzi di Kamun ove lo raggiunse una scorta inviata dal sultano.

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Sockatu era la città più popolata che il viaggiatore avesse veduto in Africa. Le sue case, ben costruite, formavano delle vie regolari, invece d'essere riunite in gruppi, come nelle altre città di Haussa. Contornata da una muraglia alta dai venti ai trenta piedi, con dodici porte che si chiudevano regolarmente al calare del sole, Sockatu possedeva due grandi moschee, un mercato spazioso e una grande piazza davanti la casa del sultano.

Gli abitanti, che per la più parte sono Felatah, hanno molti schiavi, dei quali, coloro che non sono occupati nei lavori domestici, esercitano qualche mestiere per conto dei padroni; sono tessitori, muratori, fabbri, calzolai o coltivatori.

Per fare onore a questi ospiti, per dar loro un'alta idea della potenza e della ricchezza dell'Inghilterra, Clapperton non volle comparire davanti al sultano Bello che in un abbigliamento abbagliante. Egli vestì il suo uniforme dai galloni d'oro, mise dei pantaloni bianchi e delle calze di seta; poi, per completare il suo costume da festa, si coprì il capo con un turbante e i piedi con babbucce turche.

Il sultano Bello lo ricevette seduto sopra un tappeto, fra due colonne che sorreggevano il tetto di stoppia d'una capanna che rassomigliava molto a un villino inglese. Questo sultano era un bell'uomo di circa cinquantacinque anni; portava un «tobè» di cotone azzurro e un turbante bianco, di cui lo scialle gli nascondeva il naso e la bocca secondo la moda turca.

Bello accettò con gioia infantile i doni che gli portava il viaggiatore. Ciò che gli fece maggior piacere fu l'orologio, il telescopio, il termometro, ch'egli chiamava ingegnosamente «orologio del calore». Ma di tutti questi oggetti curiosi, quello ch'egli trovava più meraviglioso, fu il viaggiatore stesso. Egli non poté tralasciare d'interrogarlo sui costumi, sulle abitudini e sul commercio dell'Inghilterra. Più volte, Bello manifestò il desiderio d'entrare in relazione commerciale con questa

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potenza; egli avrebbe voluto che un console e un medico inglese risiedessero in un porto ch'egli chiamò Raka; infine domandava che certi oggetti di produzione della Gran Bretagna gli fossero spediti alla costa marittima ov'egli possedeva una città molto commerciale chiamata Funda. Dopo molti discorsi sui diversi culti d'Europa e sopra altre materie, Bello restituì a Clapperton i libri, i giornali e le vesti che erano stati presi a Denham, al tempo della malaugurata spedizione, nella quale Bu-Khalum perdette la vita.

Il 3 maggio il viaggiatore prese congedo dal sultano. «Dopo molti giri e rigiri, disse Clapperton, io fui infine

ammesso alla presenza di Bello, che era solo e che mi rimise subito una lettera per il re d'Inghilterra, assicurandomi dei suoi sentimenti di amicizia per la nostra nazione. Egli espresse nuovamente il suo ardente desiderio di tenere relazione con noi e mi pregò di scrivergli l'epoca nella quale la spedizione inglese (di cui Clapperton gli aveva promesso l'invio) sarebbe sbarcata in Africa per avviarsi aula volta del suo Stato.»

Clapperton riprese la via ch'egli aveva seguito venendo, e rientrò l'8 luglio a Kuka, ove ritrovò il maggiore Denham. Egli portava seco un manoscritto arabo, contenente un quadro storico e geografico del reame di Takrur, governato da Mohammed Bello di Haussa, compilazione del medesimo principe. Lui stesso aveva raccolto non solo delle preziose e numerose informazioni sopra la zoologia e la botanica di Bornu e di Haussa, ma aveva anche compilato un vocabolario delle lingue di Bégharmi, di Mandara, di Bornu, di Haussa e di Timbuctù.

I risultati di questa spedizione erano dunque ragguardevoli Era la prima volta che si sentiva parlare dei Feiatah, e la loro identità coi Fan doveva essere dimostrata nel secondo viaggio di Clapperton. Si sapeva ch'essi avevano creato nel centro e nell'ovest dell'Africa un immenso impero, si sapeva altresì che

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questi popoli non appartenevano alla razza nera. Lo studio del loro linguaggio e dei rapporti ch'esso presenta con certi idiomi non africani, doveva gettare una luce del tutto nuova nella storia dell'emigrazione dei popoli.

Infine, si conosceva il lago Tchad, se non per intero, almeno nella sua parte più ampia; si conoscevano due dei suoi affluenti: Pieu, il cui corso attraversa una regione montuosa e la sorgente era indicata dai rapporti degli indigeni, e lo Chary la cui parte inferiore la foce erano state visitate con cura da Denham. In quanto al Niger, le informazioni che Clapperton aveva raccolte dalla bocca degli indigeni erano ancora molto confuse, ma dal loro insieme si poteva inferire ch'esso sì gettasse nel golfo di Benin. Del resto Clapperton intendeva, di ritornare in Africa, dopo un breve riposo in Inghilterra, e partendo dalla costa dell'Atlantico, di rimontare il Kuara o Djoliba, il Niger come lo si chiamava in diversi tratti del suo corso, di mettere fine alla questione da sì lungo tempo sollevata, facendo di questo fiume un corso d'acqua differente da quello del Nilo, di unire le sue nuove scoperte con quelle di Denham, e infine compire la traversata dell'Africa, seguendo una diagonale da Tripoli al golfo di Benin.

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II.

Secondo viaggio di Clapperton. — Arrivo a Badagry. — Il Yurriba e la sua capitale Katunga. — Bussa. — Tentativi per ottenere una narrazione fedele della morte di Mungo-Park. — Il Nyffé, il Guari e lo Zegzeg. — Arrivo a Kano. — Fastidi. — Morte di Clapperton. — Ritorno di Lander alla costa. — Tuckey al Congo. — Bowdich presso gli Ascianti. — Mollien alle sorgenti del Senegal e della Gambia. — Il maggiore Gray. — Caillié a Timbuctù. — Laing alle sorgenti del Niger. — Richardet e John Lander agli sbocchi del Niger. — Cailliaud e Letorzec in Egitto, in Nubìa e nell'oasi di Sivah.

Quando Clapperton ritornò in Inghilterra, fu sollecito di

sottomettere a lord Bathurst il progetto ch'egli aveva formato di ritornare a Kuka partendo da Benin, ossia seguendo il cammino più breve — cammino che nessuno dei suoi predecessori aveva percorso — e rimontando il Niger, dalla sua foce fino a Timbuctù.

Tre persone furono aggiunte a Clapperton per questa spedizione, della quale egli aveva il comando: il chirurgo Dickson, il capitano di vascello Pearce, eccellente disegnatore, e il chirurgo di marina Morrison, molto erudito in tutti i rami della storia naturale.

La spedizione arrivò, il 26 novembre 1825, nel golfo di Benin. Dickson avendo domandato, non si sa per quale motivo, di viaggiare solo per raggiungere Sockatu, sbarcò a Juidah. Un portoghese chiamato Suza l'accompagnò fino a Dahomey con Columbus, ch'era stato domestico di Denham. A diciassette giornate da questa città, Dickson toccò Char, poi Yuri, e nessuno intese più parlare di lui.

Gli altri esploratori avevano raggiunto il fiume Benin, allorché un negoziante inglese, di nome Hutson, consigliò loro di non continuare, perchè il re del paese nutriva un odio

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profondo contro gli Inglesi, che ponevano ostacolo al suo commercio più lucroso, la tratta degli schiavi.

Era meglio, egli disse, andare a Badagry, luogo pure vicino a Sockatu e il cui capo, ben disposto per i viaggiatori, fornirebbe loro senza dubbio una scolta fino alla frontiera del reame del Yurriba.

Hutson aiutava il paese da più anni; ne conosceva i costumi e la lingua; Clapperton giudicò dunque utile di tenerlo seco fino a Eyes o Katunga. capitate del Yurriba.

La spedizione sbarcò, il 29 novembre 1825, a Badagry, rimontò un braccio del fiume Lagos, poi, per circa due miglia, il seno di Gazie. che s'addentra in una parte del Dahomey. e discendendo sulla riva sinistra, avanzò nel paese. Questo ora a volte paludoso, a volte mirabilmente coltivato e piantato di dioscoree; tutto spirava abbondanza. Perciò i negri si mostravano renitenti al lavoro. Dire a quanti interminabili chiacchierate si dovette ricorrere, quali trattative fu necessario condurre, quali estorsioni si dovettero sopportare per procurarsi dei portatori, sarebbe cosa molto lunga.

Gli esploratori, in mezzo a queste difficoltà, raggiunsero intanto Djannah, a sessanta miglia dalla costa.

«Noi abbiamo veduto qui, dice Clapperton, parecchi telai da tessitore in moto. Ve n'erano otto o dieci in una casa; era realmente una fabbrica in regola… Gli abitanti fabbricano anche terraglie, ma preferiscono quelle che vengono dall'Europa, quantunque essi non facciano sempre un uso appropriato dei diversi oggetti. Il vaso nel quale il «cabocir» (capo) ei offrì dell'acqua da bere, fu riconosciuto dal signor Hutson. per un bel vaso da notte ch'egli aveva venduto l'anno prima a Badagry.»

Tutti i membri della spedizione erano gravemente colpiti dalle febbri, causate dal calore umido e malsano della regione. Pearce e Morrison morirono nel dicembre, l'uno vicino a

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Clapperton, l'altro a Djannah, prima di aver raggiunto la costa. In tutte le città che Clapperton attraversava, a Assudo, che

non conta meno di diecimila abitanti, a Daffu, che ne contiene cinquemila di più, una fama singolare sembrava l'avesse preceduto. Dappertutto si diceva ch'egli veniva a ristabilire la pace nei paesi ove regnava la guerra e a portare del bene alle regioni da lui esplorate.

A Tchow, la carovana incontrò il messo che il re di Yurriba le inviava con un seguito numeroso, ed entrò bentosto a Katunga.

Questa città «è circondata e sparsa di folti alberi descriventi un circuito attorno alla base d'una montagna rocciosa, composta di granito e lunga circa tre miglia; è uno degli spettacoli più belli che si possano vedere.»

Clapperton soggiornò in questa città dal 24 gennaio al 7 marzo 1826. Fu ricevuto con molta affabilità dal sultano, al quale egli domandò il permesso di entrare nel Niffé o Toppa, affine di giungere per quella via al fiume Hussa o Bornu. «Il Niffé era desolato in conseguenza della guerra civile, e uno dei pretendenti al trono aveva chiamato in suo soccorso i Felatah, rispose il sultano. Non sarà dunque prudenza prendere quella via; meglio sarebbe passare per la provincia di Yuri.» Comunque, Clapperton dovette sottomettersi.

Ma egli aveva approfittato del suo soggiorno a Katunga per fare delle interessanti osservazioni. Questa città non ha meno di sette mercati differenti, nei quali si vendono piante di dioscoree, grano, banane, fichi, burro vegetale, grani di coloquintida, capre, polli, montoni, agnelli, tela e strumenti aratori.

Le case del re e delle sue donne sono contornate da due grandi parchi. Le porte e i pali che sostengono le «verande» sono ornati di sculture» rappresentanti o un boa che uccide una gazzella, o un porco, o truppe di guerrieri con

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accompagnamento musicale, sculture discretamente eseguite. «L'aspetto generale degli Yurribani, dice il viaggiatore,

pareva offrire meno tratti caratteristici di negri, che quelli di qualunque altro popolo da me veduto; le labbra hanno meno grosse, il naso si avvicina più alla forma aquilina che a quella dei negri in generale. Gli uomini sono ben fatti e hanno una scioltezza che deve fermare l'attenzione. Le donne hanno quasi tutte un'aria più volgare degli uomini, la qual cosa può provenire dall'essere esposte al sole, e dalle fatiche che sono obbligate a sopportare; tutti i lavori della terra toccano ad esse»

Qualche tempo dopo essere uscito da Katunga, Clapperton traversò il fiume di Mussa, affluente del Kuara, ed entrò in Riama, una delle città per le quali passa la carovana che, da Haussa e da Borgu, va a Gaudja, sulle frontiere dell'Ashantie. Essa non contiene meno di trentamila abitanti, che son tenuti in conto dei più grandi ladri di tutta l'Africa. «Per designare qualcuno nativo di Borgu, basta chiamarlo ladro ed assassino.»

All'escire da Kiama, il viaggiatore incontrò la carovana di Haussa.

Buoi, asini, cavalli, donne e uomini, in numero d'un migliaio, camminavano gli uni dietro gli altri, formando una linea interminabile, che offriva all'occhio un insieme singolarissimo e bizzarro. Quale strano miscuglio, da queste giovinette nude e questi uomini curvi sotto il carico, a questi mercanti girovaghi, vestiti in modo fantastico e ridicolo nello stesso tempo, che cavalcavano cavalli storpie zoppicanti!

Clapperton dirigeva ora la sua marcia verso Bussa, luogo ove Mungo-Park era perito sul Niger. Prima di giungervi gli fu necessario attraversare l'Oli, affluente del Kuara, e passare per Uaua, capitale d'una provincia del Borgu, il cui recinto quadrato può contenere diciottomila abitanti.

È una delle città più civili e meglio fabbricate che si incontra dopo Badagry. Le vie sono tenute con proprietà,

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larghe, e le case circolari hanno un tetto conico di stoppia. Ma è impossibile? in tutto quanto l'universo, immaginare una città dove l'ubbriachezza sia più generale. Governatore, preti, laici, uomini, donne, bevono eccessivamente vino di palma, rhum che viene dalla costa, e «buza». Quest'ultimo liquore è un miscuglio di «durra», di miele, di pepe del Chili e della radice d'un'erba grossolana che serve al pascolo del bestiame; il tutto

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misto con una certa quantità d'acqua. «Gli Uauani, dice Glapperton, hanno una grande

riputazione di probità. Essi sono gai, benevoli e ospitali. Io non ho visto popolo in Africa che fosse così disposto a dare dei ragguagli sopra il paese da essi abitato, e, ciò che è straordinario, non ho scorto tra loro un solo mendicante. Essi rinnegano gli originari, del Borgu e dicono ch'essi sono usciti dai Haussani e dai Nyffeni. La loro lingua è un dialetto derivato da quella degli Yurribani, ma le donne della città di Uaua sono belle e le Yurribane no; gli uomini sono vigorosi e ben fatti, hanno l'aria di essere dissoluti. La loro religione è un misto d'islamismo un po' corrotto e di paganesimo.»

Dopo la costa, Glapperton — e questa osservazione è preziosa — aveva incontrato delle tribù di Felatah, ancora pagani, parlanti la medesima lingua, aventi le medesime fattezze e il medesimo colore dei Felatah musulmani. Essi erano evidentemente della medesima razza.

Bussa, che il viaggiatore finalmente raggiunse, non è una città regolare; essa è composta di gruppi di case sparse su un'isola di Kuara fra 10° 14' di latitudine nord e 6° 11' di longitudine all'est del meridiano di Greenwich. La provincia, di cui essa è capitale, è la più popolosa del Borgu. Gli abitanti sono pagani come il sultano, quantunque il suo nome sia Mohammed. Si nutrono di scimie, di cani, di gatti, di topi, di pesci, di buoi e di montoni.

«Intanto ch'io mi trovavo col sultano, scrive Clapperton, gli portarono la colazione; io fui invitato a prendervi parte; essa consisteva in un grosso topo d'acqua arrostito e ancora rivestito della sua pelle, un bel piatto di riso bollito, un piatto di pesce secco accomodato in istufato coll'olio di palma; delle uova d'alligatore fritte e allo stufato, e infine dell'acqua fresca di Kuara. Io mangiai del pesce allo stufato e del riso, e il sultano intanto si divertiva assai perchè io non volli assaggiare nè del

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topo, né delle uova d'alligatore.» Il sultano ricevette il viaggiatore con affabilità e gli fece

sapere che quello d'Yuri teneva, da sette giorni, dei battelli pronti, affine di rimontare il fiume fino a questa città. Clapperton rispose che la guerra avendo chiuse tutte le uscite entro il Bornu e l'Yuri, preferiva avanzarsi per il Kulfa e il Nyffé. «Tu hai ragione, disse il sultano, tu hai fatto bene a venirmi a vedere, tu piglierai quella strada che tu vorrai.»

In un'udienza successiva, il viaggiatore si informò degli Europei che, una ventina d'anni prima, erano periti sul Kuara. Questa domanda turbò visibilmente il sultano, che non gli rispose francamente. Era allora, diss'egli, troppo giovane per rammentarsi esattamente di ciò che era successo.

«Io non ho bisogno, rispose Clapperton, che d'avere i libri e le carte che loro appartennero, e di vedere il luogo ove sono periti.

«Io non ho nulla di ciò che ha loro appartenuto, rispose il sultano. Quanto al luogo della loro morte, non ci andare! È un luogo molto pericoloso.

«M'hanno detto che vi si può vedere ancora una parte del battello che li portava. È vero ciò? domandò Clapperton.

«No, no, ti hanno fatto un falso racconto, riprese il sultano. È da molto tempo che le grandi acque hanno portato con sé ciò che era restato fra le rocce.»

A una nuova domanda relativa alle carte e ai giornali di Mungo-Park, il sultano rispose che non possedeva nulla, che queste carte erano state fra le mani di qualche dotto, ma che, poiché ciò stava tanto a cuore a Clapperton, le farebbe cercare. Dopo avere ringraziato, il; viaggiatore domandò il permesso di interrogare i vecchi della città, dei quali parecchi dovevano essere stati testimoni dell'avvenimento. A queste parole, l'imbarazzo si dipinse sul viso del sultano, il quale non rispose. Era dunque inutile fargli ancora delle domande.

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«Fu un colpo mortale per le mie ricerche ulteriori, dice Clapperton, perchè ognuno mostrava dell'imbarazzo quando io domandavo dei particolari, e dicevano: L'incidente è avvenuto prima che io ci potessi pensare, o meglio, io non ne sono stato testimonio. Mi si indicò il luogo ove il battello s'era arrestato e ove il suo disgraziato equipaggio era perito, ma non lo fecero che con precauzione e quasi furtivamente.»

Qualche giorno dopo, Clapperton venne a sapere che l'ultimo sacerdote della loro religione, che era felatah, aveva avuto in suo possesso i libri e le carte di Mungo-Park. Sfortunatamente, questo sacerdote lasciava Bussa dopo qualche tempo. Infine, a Kulfa il viaggiatore raccolse delle notizie, che non gli permisero più di dubitare che Mungo-Park fosse stato ucciso.

Al momento di lasciare Borgu, Clapperton non può trattenersi di rimarcare come sia falsa la cattiva riputazione di questi abitanti, dappertutto ritenuti come ladri e banditi. Per conto suo, egli aveva attraversato tutto il loro paese, aveva viaggiato e camminato solo con essi, e non ebbe mai a far loro il menomo rimprovero.

Il viaggiatore tenta ora di arrivare a Kano, traversando il Kuara e passando per il Guari e lo Zegzeg. Egli arriva bentosto a Tabra, sul May-Yarrow, ove risiede la regina-madre di Nyffé; poi va a vedere il re al suo campo, poco lontano dalla città. Egli era, al dire di Clapperton, il birbante più sfrontato, più abietto e più avido che gli fu possibile d'incontrare, domandando tutto ciò ch'egli vedeva, e non disgustandosi per alcun rifiuto.

«Diede occasione, dice il viaggiatore, alla ruina del proprio paese per la sua ambizione, e per aver chiamati i Felatah, che sono venuti in suo soccorso, e che si sbarazzeranno di lui quando non sarà più buono a nulla. E avvenne che la maggior parte della popolazione industriale di Nyffé è stata uccisa o venduta come schiava, oppure costretta a fuggire dalla propria

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patria.»' Clapperton fu costretto a trattenersi, più che non l'avrebbe

voluto, a Kulfa, città commerciale sulla riva settentrionale di May-Yarrow, che contiene ,dai dodici ai quindicimila abitanti. Da più di vent'anni esposta alle escursioni dei Felatah questa città era stata bruciata due volte in sei anni. Clapperton vi fu testimonio della celebrazione della festa per la luna nuova. Quel giorno, ciascuno fa e riceve delle visite. Le donne hanno la lana della loro capigliatura raccolta in trecce e tinte d'indaco, come le sopracciglia. Le loro ciglia sono dipinte di «khol», le loro labbra in giallo, i loro denti in rosso, le loro mani e i loro piedi sono colorati di «henné». Esse mettono, per questa circostanza, i loro abiti più belli a colori i più vivaci, e portano i loro gingilli, i loro braccialetti e i loro anelli di cuoio, d'argento, di stagno o di ottone. Esse approfittano di questa festa per bere del «buza» come gli uomini, per mischiarsi ai loro canti e alle loro danze.

Il viaggiatore penetrò bentosto nella provincia di Guari, dopo aver lasciata quella di Kotong-Kora. Conquistato col resto di Haussa dai Felatah, il Guari era insorto alla morte di Bello I, e da quell'epoca aveva saputo, malgrado i tentativi dei Felatah, conservare la propria indipendenza. La capitale di questa provincia, che porta pure il nome di Guari, è situata a 10° 54' di latitudine nord e a 8° 1' di longitudine est, da Greenwich.

A Fatika, Clapperton entrò nello Zegzeg, territorio sottomesso ai Felatah; poi visitò Zariyah, singolare città ove si vedevano estensioni di terra coltivate a campi e orti, piantagioni d'alberi a bosco, paludi e praterie; c'erano anche delle case, La popolazione è ritenuta più numerosa che non a Kano, ed era presso a poco di quaranta a cinquantamila abitanti, quasi tutti Felatah.

Il 19 settembre, dopo tanti faticosi viaggi, Clapperton

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arrivò a Kano. Dal primo giorno egli s'accorse che si sarebbe preferito vederlo arrivare dall'est, perchè la guerra col Bornu aveva intercettato tutte le comunicazioni con Fezzan e Tripoli.

Lasciando il proprio domestico Lander alla cura dei bauli, Clapperton si mise tosto alla ricerca del sultano Bello, che si trovava, dicevasi, nei dintorni di Soekatu. Questo viaggio fu molto penoso, Clapperton vi perdette i suoi camelli, i suoi cavalli, e non poté procurarsi, per portare quel poco che aveva seco, che un bue malato di rogna, di modo che egli stesso e i suoi servitori dovettero portare una parte del carico.

Bello accolse Clapperton con bontà e gli inviò delle provvigioni e dei camelli. Ma siccome il sultano stava cercando di sottomettere la provincia di Guber che s'era rivoltata contro di lui, non poté subito accordare un'udienza al viaggiatore, per intrattenersi sui molteplici interessi di cui il governo inglese aveva incaricato Clapperton di trattare.

Alla testa di cinquanta o sessantamila soldati, i di cui nove decimi erano a piedi e coperti d'armature imbottite, Bello attaccò Cunia, capitale del Guber.

Fu questo il combattimento più misero che si possa immaginare, e la guerra ebbe fine dopo questo tentativo abortito. Ciò nullameno, Clapperton, la cui salute s'era di molto alterata, guadagnò Sockatu, poi Magoria, ove vide il sultano.

Dacché ebbe ricevuti i doni che gli erano destinati, Bello non dimostrò più modi tanto amichevoli. Anzi egli voleva far credere di aver ricevuto dallo sceicco El-Khanemi una lettera in cui questi lo incaricava di sbarazzarsi del viaggiatore, che non era che una spia, e a diffidare degli Inglesi, i cui progetti erano, dopo le ricerche sulle risorse del paese, di stabilirvisi e di crearvi dei partigiani, e profittare in seguito delle turbolenze che si sarebbero suscitate, per impadronirsi del Haussa come avevano fatto dell'India.

Fra le più gravi difficoltà accampate da Bello, risultava

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assai chiaramente ch'egli desiderava sopratutto di impossessarsi dei regali destinati al sultano di Bornu. Perciò gli bisognava un pretesto; credette d'averlo trovato facendo spargere la voce che il viaggiatore portava dei cannoni e delle munizioni a Kuka.

Coscienziosamente, Bello non poteva permettere, diceva egli che uno straniero attraversasse i suoi stati per porre il suo irreconciliabile nemico in istato di muovergli guerra. E di più Bello voleva forzare Clapperton a leggergli la lettera di lord Bathurst al sultano di Bornu.

«Tu la puoi prendere, se vuoi, rispose il viaggiatore, ma io non te la darò. Tutto ti è possibile perchè hai la forza, ma, ciò facendo, tu ti disonorerai. Per me, aprire questa lettera sarebbe fare più di quello che la mia volontà non mi permetta. Io sono venuto a te con una lettera e dei doni per parte del re d'Inghilterra, dopo la confidenza che gli ha ispirato la tua lettera dell'anno scorso. Io spero che non tradirai la tua parola e la tua promessa per vedere ciò che contiene questa lettera.»

Il sultano fece allora un gesto con la mano per congedare il viaggiatore che si ritirò.

Tuttavia questo tentativo non fu l'ultimo e le cose andarono benanche assai più lontano. Qualche giorno dopo si mandò ancora a domandare a Clapperton di consegnare i doni destinati a Ed-Khanemi. Dietro il suo rifiuto, gli furono tolti a viva forza.

«Voi vi conducete verso me come ladri, esclamò Clapperton. Voi mancate alla fede giurata. Nessun popolo al mondo si condurrebbe così. Fareste meglio a troncarmi la testa, invece di fare una cosa simile, ma suppongo che raggiungerete il vostro scopo Quando mi avrete tutto rapito.»

Ancor più; si volle prendergli le sue armi e le sue munizioni. Clapperton vi si oppose con un'energia estrema. I suoi domestici, spaventati, l'abbandonarono, ma non tardarono a ritornare, pronti a sottomettersi agli stessi pericoli del loro

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padrone, per il quale avevano la più viva affezione. A questo difficile momento si arresta il giornale di

Clapperton. Era più di sei mesi ch'egli si trovava a Sockatu, senza aver potuto fare alcuna esplorazione, senza essere riuscito a condurre a buon fine l'affare per il quale era venuto dal continente. La noia, le fatiche, le malattie non gli avevano dato riposo e il suo stato era divenuto, a un tratto, molto allarmante. Il suo domestico, Richard Lander, che l'aveva raggiunto a Sockatu, gli prodigò invano tutte le sue cure.

Il 12 marzo 1827, Clapperton fu colpito da una dissenteria che nulla poteva arrestare e che non tardò a indebolirlo. Siccome ricorreva il «rhamadan» Lander non poteva ottenere alcun servizio, neppure dai domestici. E intanto la malattia faceva rapidi progressi in causa del gran calore eccessivo. Durante venti giorni, Clapperton restò nel medesimo stato di debolezza e di sfinimento; poi, sentendo avvicinarsi la sua fine, diede le ultime istruzioni a Richard Lander, fedele servitore, nelle cui braccia morì l'11 aprile.

«Feci avvertire il stallano Bello, dice Lander, della perdita crudele che io avevo fatta, domandandogli il permesso di seppellire il padrone all'usanza del mio paese, e pregandolo di indicarmi il luogo ove io avrei potuto deporre la sua spoglia mortale. Il mio inviato ritornò ben presto col permesso del sultano e io stesso dì, a mezzogiorno mi furono mandati quattro schiavi da parte di Bello, per scavare la fossa. Proponendomi essi che l'avrebbero accompagnato alla sepoltura, lo feci collocare sul dorso del mio camello e lo coprii con la bandiera della Gran Bretagna. La nostra marcia fu lenta; ci arrestammo a Djungari, piccolo villaggio posto sopra un'eminenza, a cinque miglia a sudest di Sockatu. Il cadavere fu tolto dal camello e posto sotto una tettoia intanto che gli schiavi scavavano la fossa; poi ve lo trasportarono vicino, allorché fu terminata. Io apersi allora un libro di preghiere, e, con voce interrotta dai

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singhiozzi, lessi l'uffizio dei morti. Nessuno prestò attenzione a questa triste lettura e non alleviarono il mio dolore, partecipandovi. Gli schiavi si tenevano a qualche distanza; essi, per mostrare il loro dolore, si lamentavano, facendo un gran fracasso. Quando la cerimonia religiosa fu terminata, la bandiera venne levata e il corpo deposto dolcemente nella terra. Ed io, allora, piansi amaramente sopra la spoglia inanimata del migliore, del più intrepido e del più degno dei padroni.»

Il calore, la fatica e il dolore colpirono tanto il povero Lander, che per più di sei giorni fu nell'impossibilità di lasciare la sua capanna.

Bello s'informò più volte dello stato di salute dell'infelice domestico; ma questi non s'ingannò sulle dimostrazioni del sultano: esse non erano ispirate che dal desiderio di impossessarsi delle casse e dei bauli del viaggiatore, che credeva pieni d'oro e d'argento. Lo stupore di Bello giunse al colmo nel constatare che Lander non possedeva neppure la somma necessaria per il suo viaggio fino alla costa. Ma ciò che il sultano non seppe mai, fu che Lander teneva con se un orologio d'oro, che aveva avuto la precauzione di nascondere, orologio che gli era rimasto con quelli dei capitani Pearce e Clapperton.

Tuttavia Lander comprendeva che era necessario raggiungere al più presto possibile e a tutti i costi la costa. Con doni abilmente distribuiti, Lander si guadagnò vari consiglieri del sultano, i quali gli fecero capire che, se Lander fosse morto, non si mancherebbe di spargere la voce ch'egli stesso, il sultano, l'avesse fatto assassinare come il suo padrone. Benché Clapperton avesse consigliato a Lander di unirsi alle carovane arabe che andavano al Fezzan, Lander, temendo che le carte e i giornali della spedizione gli venissero rubati, si determinò di raggiungere il litorale.

Il 3 maggio finalmente partì da Sockatu, dirigendosi verso

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Kano. Durante la prima parte di questo viaggio, Lander credette dover morire di sete, ma la seconda fu meno penosa, perchè il re di Djaooba, che ebbe per compagno durante la via, lo trattò con affabilità invitandolo anche a visitare il suo paese. Gli raccontò che aveva per vicini dei popoli chiamati Nyam-Nyam, ch'erano stati suoi alleati contro il sultano di Bornu, e che, in seguito ad un combattimento, questi Nyam-Nyam, dopo aver involati i cadaveri dei loro nemici, li avevano arrostiti e mangiati. Noi crediamo sia questa, dopo Hornemann, la prima volta che si parla, in una relazione di viaggio, con siffatta riputazione d'antropofagìa, di questo popolo che doveva essere il soggetto di tante favole ridicole.

Lander entrò il 25 maggio in Kano, e non facendovi che un breve soggiorno, prese la via per Funda, sulla riva del Niger — via che egli intendeva seguire fino a Benin. Il viaggiatore, tenendo questa direzione, vi trovava inoltre parecchi vantaggi. Se il cammino era più sicuro, era nel tempo stesso nuovo, e Lander poteva aggiungere notizie alle scoperte precedentemente fatte dal suo padrone.

Kanfu, Cariffo, Gowgie, Gatas furono visitate successivamente da Lander, che notò come gli abitanti di questa città appartengano alla razza di Haussa, e paghino tributi ai Felatah. Egli vide anche Damoy, Drammalik, Gudonia; incontrò un gran fiume che scorreva verso il Kuara, visitò Kottop, importante mercato di buoi e di schiavi, Cudgi e Dunrora, le quali sono vicine ad una l'unga catena di alte montagne che si estendono all'est.

A Dunrora, proprio nel momento in cui Lander faceva caricare le sue bestie, da soma, quattro cavalieri coi cavalli coperti di spuma corsero a panciaterra dal loro capo, e di concerto con lui forzarono il viaggiatore a ritornare sul suo cammino per andare a trovare il re del Zegzeg che aveva, dicevano essi, un grande desiderio di vederlo. Il che non era

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affatto nelle viste di Lander, il quale invece voleva raggiungere il Niger, da cui non era molto lontano, e dal quale contava scendere al mare. Tuttavia bisognò cedere alla forza. Le guide di Lander non seguirono, per venire a Dunrora la stessa strada, ciò che permise al viaggiatore di vedere la città di Eggebi, governata da uno dei principali guerrieri del sovrano di Zegzeg.

Il 22 luglio, Lander entrò in Zegzeg. Egli fu tosto ricevuto

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dal re, che gli dichiarò non averlo fatto ritornare se non per la sola ragione che la guerra essendo scoppiata fra Bello e il re di Funda, quest'ultimo non avrebbe mancato di farlo uccidere allorché venisse a sapere ch'egli aveva portato dei doni al sultano dei Felatah. Lander finse di prestar fede a questa prova di benevolenza, ma capì perfettamente che soltanto la curiosità e il desiderio d'ottenere qualche regalo movevano l'animo del re di Zegzeg. Egli, pertanto, si scusò della povertà dei suoi doni, narrando d'essere stato derubato delle sue mercanzie, ed ottenne tosto il permesso di ripartire.

Uari, Uomba, Kulfa, Bussa e Uaua segnano le tappe del suo viaggio di ritorno a Badagry, ove entrò il 22 novembre 1827. Dopo due mesi egli s'imbarcava per l'Inghilterra.

Se lo scopo commerciale, principale motivo del viaggio di Clapperton, non era proprio riuscito, a cagione della gelosia degli Arabi che avevano mutate le disposizioni di Bello, perchè l'apertura di una nuova via avrebbe rovinato il loro commercio, la scienza per lo meno fu arricchita di molto per i lavori e le fatiche dell'esploratore inglese. Nella sua storia dei viaggi, Desborugh Cooley apprezza nel modo seguente i risultati ottenuti, a quell'epoca, dai viaggiatori dei quali abbiam detto più sopra:

«Le scoperte fatte nell'interno dell'Africa dal capitano Clapperton, oltrepassano di molto, dal doppio punto di vista del loro studio e della loro importanza, quelle di tutti i suoi predecessori. Il 24° di latitudine era l'estremo limite raggiunto nel mezzogiorno dal capitano Lyon; ma il maggiore Denham, nella sua spedizione al Mandara, pervenne sino a 9° 15' di latitudine, aggiungendo così 14° 3/4, o novecento miglia, ai paesi scoperti dagli Europei. Vero è che Hornemann aveva di già attraversato il deserto, e si era avanzato nel mezzogiorno fino a Nyffé, a 10° 1/2 di latitudine; ma non possediamo alcuna relazione del suo viaggio. Nella sua prima spedizione Park

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raggiunse Siila a 1° 34' di longitudine ovest, lontano centoundici miglia dalla foce del Gamba. Per ultimo, Denham e Clapperton dopo la costa orientale del lago Tchad (17° longitudine) fino a Sockatu (3° 1/2 longitudine), esplorarono cinquecento miglia dall'est all'ovest dell'Africa; di modo che soltanto quattrocento miglia restavano ancora sconosciute fra Siila e Sockatu; ma nel suo secondo viaggio, il capitano Clapperton ottenne dei risultati dieci volte più importanti. Egli scoprì infatti la via più breve e più comoda per ritornare nelle regioni così popolose dell' Africa centrale, e può vantarsi d'essere stato il primo viaggiatore che completasse un itinerario del continente africano sino a Benin.»

A queste riflessioni così ragionate, a questi apprezzamenti così giusti, c'è ben poco da aggiungere.

Le informazioni dei geografi arabi, ed in ispecie quelle di Leone l'africano, erano verificate e si aveva una conoscenza approssimativa d'una parte considerevole del Sudan. Se la soluzione del problema che agitava da sì lungo tempo i dotti —il corso del Niger — e che aveva decisa la spedizione di cui noi abbiamo parlato, non era ancora completamente trovata, si poteva almeno intravederla. Infatti si capiva adesso che il Niger, o Kuara o Djoliba, qualunque sia il nome con cui l'hanno voluto chiamare, e il Nilo, erano due fiumi diversi, dai bacini completamente distinti.

Nel 1816, si chiedeva ancora se il fiume conosciuto sotto il nome di Congo non sarebbe la foce del Niger. Per questa ricognizione fu incaricato un ufficiale di marina, che aveva dato numerose prove d'intelligenza e di coraggio. Fatto prigioniero nel 1805, Giacomo Kingston Tuekey non era stato liberato che nel 1814. Quando egli seppe che si organizzava una spedizione per esplorare il Zaira, domandò di farne parte, e gliene fu affidato il comando. Vi si aggiunsero ufficiali di merito e diversi dotti.

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Tuckey partì dall'Inghilterra il 19 marzo 1816, avendo sotto i suoi ordini il Congo e la Dorotea, bastimenti-trasporto. Il 20 giugno, gettò l'ancora a Malembè, sulla costa del Congo, a 4° 39' di latitudine sud. Il re del paese, a quanto sembra, fu scandalizzato quando seppe che gli Inglesi non venivano a comperare degli schiavi, e si sfogò in ingiurie contro questi Europei che rumavano il suo commercio.

Il 18 luglio, Tuckey rimontò il vasto estuario del Zaira col Congo; poi, quando l'altezza delle rive del fiume non gli permisero più d'inoltrarsi con la vela, egli s'imbarcò con una parte della sua gente nelle sue scialuppe e nei suoi canotti. Il 10 agosto la rapidità della corrente, le enormi rocce di cui era coperto il letto del fiume, lo determinarono ad avanzarsi ora per la via di terra ed ora per acqua. Dieci giorni dopo i canotti si arrestavano definitivamente davanti ad una cascata insormontabile. Fu dunque mestiere progredire per la via di terra. Ma le difficoltà divenivano di giorno in giorno più grandi, i negri rifiutavano di portare i carichi e più della metà degli europei s'erano ammalati. Infine, allorché trovavasi già a duecentottanta miglia dal mare, Tuckey si vide costretto a ritornare sui suoi passi. La stagione delle piogge era incominciata. Il numero dei malati non fece che aumentare. Il comandante, afflitto dai deplorevoli risultati di questa spedizione, fu a sua volta preso dalla febbre e non ritornò alla spiaggia che per morirvi, il 4 ottobre 1816.

Il solo risultato di questo sfortunato tentativo fu adunque una ricognizione esatta della foce del Zaira ed una correzione del giacimento della costa, che fino allora era stata involta in un considerevole errore.

Non lontano dai luoghi ove Clapperton doveva sbarcare un po' più tardi, sopra la Costa d'Oro, un popolo ardito, ma d'istinti feroci, era apparso nel 1807.

Gli Ascianti, venuti non si sa bene da qual parte, si erano

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gettati sui Fanti, e dopo averne fatto, nel 1811 e nel 1816, orribili carneficine, avevano stabilito il loro domicilio sopra tutto il territorio che si stende fra i monti Kong ed il mare.

In conseguenza di ciò, una grande perturbazione era insorta nei rapporti fra i Fanti e gli Inglesi, che possedevano sulla costa alcuni stabilimenti commerciali, banche o fattorie.

Nel 1816, specialmente, il re degli Ascianti aveva portato la fame nei forti britannici, saccheggiando il territorio dei Fanti, sopra il quale essi sono elevati. Anche il governatore della Costa del Capo si era indirizzato al suo governo per pregarlo d'inviare un'ambasciata a quel vincitore barbaro e feroce. Il latore di questo dispaccio fu Tomaso Edoardo Bowdich, un giovane che, tormentato dalla passione dei viaggi, aveva scosso il giogo paterno, rinunciato al commercio e, dopo essersi sposato, contro il volere della sua famiglia, era venuto ad occupare un modesto impiego alla Costa del Capo, il cui sotto governatore era suo zio.

Senza esitare, il ministro, aderendo alla proposta del governatore del Capo, aveva rinviato Bowdich, incaricandolo di quell'ambasciata. Ma il governatore, col pretesto della giovinezza di Bowdich, nominò capo della missione un uomo che per la lunga esperienza, per la conoscenza del paese e dei costumi degli abitanti, gli sembrava più adatto a sostenere questa carica importante. Gli avvenimenti dovevano però ben presto provare il contrario. Bowdich, aggiunto alla spedizione, era incaricato della parte scientifica e sopratutto delle osservazioni di longitudine e di latitudine.

Federico James e Bowdich lasciarono lo stabilimento inglese il 22 agosto 1818, ed arrivarono a Cumassi, la capitale degli Ascianti, senza avere incontrato altro ostacolo che la cattiva volontà delle guide. I negoziati, che avevano per scopo la conclusione d'un trattato di commercio e l'apertura d'una via fra Cumassi e la costa, furono condotti con un certo successo

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da Bowdich, mancando totalmente James di iniziativa e di energia. La condotta di Bowdich ebbe una così completa approvazione, che James fu richiamato.

Sarebbe parso che la geografia non avesse gran che ad aspettarsi da una missione diplomatica nei paesi visitati altre volte da Bosman, Loyer, Des Marchais e da tanti altri, e dei quali si avevano le monografie di Meredthi e di Dalzel. Ma i cinque mesi di soggiorno a Cumassi, cioè a dieci giornate di cammino dall'Atlantico, erano stati messi a profitto da Bowdich per osservare il paese, i costumi, gli usi e le istituzioni d'uno dei popoli più interessanti dell'Africa. Riassumeremo qui brevemente la narrazione della pomposa entrata dell'ambasceria a Cumassi. Tutta la popolazione era radunata facendo ala ai lati della via, e delle truppe, che Bowdich valutò in numero di circa trentamila uomini, erano sotto le armi.

Prima d'essere ammessi alla presenza del re, gli Inglesi furono testimoni di uno spettacolo molto adatto per dar loro un'idea della crudeltà e della barbarie degli Ascianti. Un uomo, colle mani legate dietro il dorso, le guance trapassate da una lama, un orecchio tagliato, l'altro appena attaccato da un lembo, il dorso tagliuzzato, con un coltello passato nella pelle al di sopra di ogni scapola, trascinato da una corda che gli attraversava il naso, era condotto a traverso la città al suono dei tamburi, prima di essere sacrificato in onore agli Inglesi!

«Tutto quello che avevamo veduto, disse Bowdich, ci aveva preparati ad uno spettacolo straordinario, ma non ci ripromettevamo ancora la magnificenza che colpì i nostri occhi. Uno spiazzo, dell'ampiezza di circa un miglio quadrato, era stato preparato per riceverci. Il re, i suoi tributari e i suoi capitani erano sull'ultimo rialzo circondati dal loro rispettivo seguito. Si vedevano davanti ad essi dei corpi militari così numerosi che pareva non ci sarebbe stato possibile appressarci.

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I raggi del sole si riflettevano con uno splendore quasi insopportabile, come il loro calore, sugli ornamenti d'oro massiccio che brillavano da tutte le parti. Più di cento bande suonavano nel medesimo tempo al nostro arrivo, ciascuna facendo echeggiare le arie particolari del capo a cui essa apparteneva. Talora si era storditi dal rumore di una moltitudine innumerevole di corni e di tamburi; tal altra dagli accenti di lunghi flauti non privi di certa armonia e da un istrumento, del genere delle cornamuse, che vi si accordava gradevolmente. Un centinaio di grandi parasoli o baldacchini, di cui ciascuno poteva tenere al coperto almeno trenta persone, venivano agitati continuamente da coloro che li portavano. Quei parasoli erano di seta scarlatta, gialla e d'altri colori smaglianti, e sormontati da mezzelune, da pellicani, da elefanti, da sciabole e da altre armi; il tutto in oro massiccio. I messaggieri del re, che portavano sul petto delle grandi placche d'oro, avendoci fatto far largo, ci avanzammo preceduti dalle mazze 1 e dalle bandiere inglesi. Ci fermammo per prendere la mano di ciascuno dei «cabocir». Tutti questi portavano costumi magnifici, con delle collane d'oro massiccio, dei cerchi d'oro al ginocchio, delle piastre in oro al disopra della caviglia del piede, dei braccialetti o dei pezzi d'oro al polso della mano sinistra, e così pesanti ch'essi erano obbligati d'appoggiare il braccio sulla testa d'un ragazzo. Infine delle teste di lupo o di castrato, in oro, di grandezza naturale, erano sospese ai pomi delle loro sciabole, la cui impugnatura era del medesimo metallo, e la cui lama era imbrattata di sangue. Grossi tamburi venivano portati sulla testa d'un uomo, seguiti da due altri che battevano l'istrumento. I loro polsi erano ornati da sonagli e da pezzi di ferro che facevano l'accompagnamento, battendo il tamburo; alla cintura portavano, a guisa di ornamento, crani ed ossa di cosce dei nemici che avevano uccisi nei combattimenti. 1 Bastoni a pomi d'oro, che sono il distintivo degli interpreti.

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Al di sopra dei grandi dignitari seduti sopra seggiole di legno nero incrostato d'oro e d'avorio, si agitavano grandi ventagli di piume di struzzo, e dietro ad essi stavano i giovani più ben fatti, recanti sul dorso una cassetta in pelle d'elefante, ripiena di cartucce, e tenendo in mano i lunghi fucili danesi incrostati d'oro; appese alla cintura avevano delle code di cavallo, per la maggior parte bianche, oppure delle sciarpe di seta. Le fanfare prolungate dei corni, lo strepito assordante dei tamburi, e, negli intervalli, il suono degli altri istrumenti, annunciavano che si avvicinava il re. Già eravamo vicini ai principali ufficiali della sua casa; il ciambellano, il capo carnefice, il capitano del mercato, il guardiano della sepoltura reale e il capo dei musicanti, erano seduti in mezzo al loro seguito, brillanti in tanta magnificenza che annunciava l'importanza della dignità di cui erano rivestiti. I cuochi erano circondati da una immensa quantità di vasellame d'argento, disposto davanti ad essi, di piatti, di scodelle, di caffettiere, di coppe e di vasi d'ogni forma. Il capo delle esecuzioni o carnefice, uomo d'una statura quasi gigantesca, portava sul petto un'ascia d'oro massiccio; davanti a lui si vedeva il ceppo sul quale dovevano essere spiccate le teste dei condannati. Era tinto di sangue e coperto in parte da grandi macchie di grasso. I quattro interpreti erano circondati da uno splendore che gareggiava con la magnificenza degli altri grandi ufficiali; il loro particolare distintivo, i bastoni coi pomi d'oro, venivan portati davanti ad essi legati in fasci. Il guardiano del tesoro aggiungeva al lusso personale quello della carica ch'egli occupava: a lui dinanzi stavano forzieri, bilance e pesi in oro massiccio. Il breve lasso di tempo trascorso mentre che ci avvicinavamo al re per prendergli la mano l'un dopo l'altro, ci permise di vederlo bene. Il suo contegno svegliò dapprima la mia attenzione. È una cosa curiosa il trovare un'aria naturalmente dignitosa in questi principi che a noi piace di chiamar barbari. I suoi modi

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avevano della maestà e insieme del garbo, e la sorpresa non gli fece perdere un istante quella calma e quel sangue freddo che si addicono ad un monarca. Egli dimostrava press'a poco trentott'anni e pareva disposto alla pinguedine; la sua persona aveva il carattere della benevolenza.»

Qui segue una descrizione, che dura molte pagine, della toeletta del re, della sfilata dei capi, delle truppe, della folla e del ricevimento che si prolungò fino a notte.

Allorché si legge questa meravigliosa descrizione di Bowdich, ci si domanda se essa non è il prodotto dell'immaginazione esaltata del viaggiatore, se il lusso meraviglioso di questa barbara corte, se i sacrifici di migliaia di persone, in certe epoche dell'anno, se i costumi strani di questa popolazione bellicosa e crudele, se questo miscuglio di civiltà e di barbarie, fino allora sconosciuta in Africa, sia vero.

Si sarebbe tentati di credere che Bowdich abbia singolarmente esagerate le cose, se i viaggiatori che l'hanno seguito e gli esploratori contemporanei non avessero confermato il suo racconto. Si rimane dunque meravigliati che un simile governo, fondato solamente sul terrore, abbia potuto avere una sì lunga durata!

Fra tanti viaggiatori stranieri che danno la loro vita per contribuire all'avanzamento della scienza geografica, il francese è felice allorché incontra il nome d'un compatriota.

Senza cessare d'essere imparziale nell'apprezzare questi lavori, egli si sente più commosso alla lettura del racconto dei suoi pericoli e delle sue fatiche. E ciò lo confermeremo ora, parlando di Mollien, di Caillié, di Cailliaud e di Letorzee.

Gasparo Mollien era il nipote del ministro del Tesoro di Napoleone I. Imbarcatosi sulla Medusa, ebbe la fortuna di sfuggire al naufragio di questo naviglio in uno dei canotti che raggiunsero la costa del Sahara e pervennero in seguito fino al Senegal.

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Il disastro che Mollien evitò, avrebbe estinto in qualsiasi spirito d'una tempra più debole il gusto delle avventure e la passione dei viaggi. Per lui ciò non avvenne.

Dacché il governatore della colonia, comandante Fleuriau, ebbe accettata l'offerta che il giovane viaggiatore gli faceva di ricercare le sorgenti dei grandi fiumi della Senegambia, e più particolarmente quelle del Djoliba, Mollien lasciò San Luigi.

Partito da Diedde il 29 gennaio 1818, Mollien si diresse verso l'est fra il 15° e il 16° parallelo, attraversò il regno di Domel e penetrò presso i Joloft. Non volendo seguire la strada di Woulli, egli prese quella di Futa-Toro, e malgrado il fanatismo degli abitanti e la loro sete di rapina riuscì a giungere al Bondu senza sinistri accidenti. Gli abbisognarono tre giorni per attraversare il deserto che separa il Bondu dai paesi al di là del Gambia; poi penetrò nel Nokolo, contrada montuosa, abitata da Peuli e da Djalloni, genti quasi selvaggie.

Uscendo da Bandeja, Mollen entrò nel Futa-Djallon e arrivò alle sorgenti del Gambia e del Rio-Grande, situate l'una vicino all'altra. Qualche giorno dopo egli vedeva quelle del Falchine. Malgrado la ripugnanza e il terrore della sua guida, Mollien raggiunse Timbu, capitale di Futa. L'assenza del re e della maggior parte degli abitanti, gli risparmiò, senza dubbio, gli orrori d'una prigionia che poteva essere lunga, a meno di venire abbreviata da orribili torture. Futa è una città fortificata, ma il re possiede delle case, le cui muraglie di terra hanno da tre a quattro piedi di spessore sopra quindici di altezza.

A poca distanza da Timbu, Mollien arrivò alle sorgenti del Senegal — almeno da ciò che dissero i negri che lo accompagnavano — ma non gli fu possibile di fare delle osservazioni astronomiche.

Frattanto l'esploratore non considera la sua missione come terminata. La soluzione dell'importante problema sulla sorgente del Niger, si imponeva alla sua mente. Ma il miserando stato

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della sua salute, la stagione delle piogge, l'ingrossamento dei fiumi, il terrore delle sue guide, che, malgrado l'offerta di fucili, di grani d'ambra, del suo stesso cavallo, si rifiutavano di

accompagnarlo nel Kuranko e nel Soliman, l'obbligarono a rinunciare ad attraversare la catena dei monti Kong e a ritornare a San Luigi.

Insomma, Mollien aveva tracciato parecchie nuove linee in

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una parte della Senegambia non ancora visitata dagli Europei. «È a rammaricarsi, disse il signor di La Renaudière, che,

estenuato dalle fatiche, trascinandosi penosamente in mezzo a privazioni assolute, e privo di mezzi d'osservazione, Mollien si sia trovato impossibilitato di superare le alte montagne che separano il bacino del Senegal da quello del Djoliba, e costretto ad attenersi alle indicazioni dei naturalisti sugli oggetti più importanti della sua missione. È dietro le attestazioni dei negri che egli credette aver visitata la sorgente del Rio-Grande, del Falehme, del Gambia e del Senegal. Se gli fosse stato possibile seguire il corso di questi fiumi al di là del loro punto di partenza, avrebbe dato a queste scoperte un grado di certezza ch'esse, sfortunatamente, non hanno. Tuttavia, la posizione ch'egli assegna alla sorgente del Ba-Fing, o Senegal, non può applicarsi, in questa parte, a nessun'altra grande corrente; e, del resto, paragonandola colle notizie ottenute da altri viaggiatori, ci sarà facile convincerci della realtà di questa scoperta. Sembra egualmente constatato che queste due ultime sorgenti siano più alte che non si supponga, e che il Djoliba esca da un terreno superiore. Il paese si eleva gradatamente a sud e a sud-est in terrazzi paralleli. Queste catene di monti aumentano in altezza a misura ch'esse si avanzano a mezzogiorno; esse raggiungono il loro punto più elevato fra l'8° e il 10° di latitudine nord.»

Tali sono i dati che risultano dall'interessante viaggio di Mollien nella nostra colonia del Senegal. Questo paese doveva essere anche il punto di partenza d'un altro esploratore, Renato Caillié.

Nato nel 1800, nel dipartimento delle Deux-Sèvres, Caillié non ricevette altra istruzione che quella delle scuole primarie; ma la lettura di Robinson Crusoé avendo sviluppato nella sua giovine immaginazione il gusto delle avventure, Caillié non ebbe pace fino a che con quel po' di danaro che possedeva, gli

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venne fatto di procurarsi delle carte e dei racconti di viaggi. Nel 1816, benché non avesse che sedici anni, s'imbarcò per il Senegal sulla gabarra La Loira.

A quell'epoca il governo inglese organizzava una spedizione per l'interno sotto il comando del maggiore Gray. Affine di evitare il terribile «almamy» di Timbu, che era stato così funesto a Peddie, gli Inglesi si erano diretti, per mare, verso la Gambia. Il Woulli, il Gabon, furono attraversati e la spedizione penetrò nel Bondu, che Mollien doveva visitare qualche anno dopo; paese abitato da un popolo fanatico e feroce come quello di Futa-Djallon.

Le esigenze dell'almamy furono tali, che il maggiore Gray, sotto pretesto d'un antico debito del governo inglese, non ancora stato pagato, si vide spogliato di quasi tutte le mercanzie, e fu obbligato di inviare al Senegal un ufficiale coll' incarico di riunirne un nuovo assortimento.

Caillié, ignorando questo primo sfortunato incontro, e comprendendo che il maggiore Gray accoglierebbe con piacere qualsiasi nuova recluta, partì da San Luigi con due negri, e raggiunse Gorée. Ma costì, diverse persone che s'interessavano a lui, lo dissuasero di aggiungersi a questa spedizione, e gli procurarono un impiego alla Guadalupa. Caillié non rimase che sei mesi in quest'isola; ritornò a Bordeaux, poi di nuovo al Senegal.

Un ufficiale del maggiore Gray, di nome Partarieu, era sul punto di andare a raggiungere il suo capo, colle mercanzie che si era procurate. Caillié gli offerse d'accompagnarlo senza paga e senza impegno fisso. L'offerta fu tosto accettata.

La carovana si componeva di settanta individui, bianchi e neri, e di trentadue camelli caricati riccamente. Essa lasciò Goudiolle, nel Cayor, il 5 febbraio 1819, e, prima d'entrare nel Yoloff, traversò un deserto, ove ebbe a soffrire crudelmente la sete, perchè, per trasportare molte mercanzie, si era trascurato

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di prendere una provvista d'acqua sufficiente. A Bulibaba, villaggio abitato da pastori fulah, la carovana

poté ristorarsi e riempire i suoi otri per la traversata d'un secondo deserto.

Evitando Futa-Toro, i cui abitanti sono fanatici e ladri, Partarieu penetrò nel Bondu. Avrebbe voluto bensì evitare d'entrare a Bulinane, capitale del paese e residenza dell'almamy; ma la resistenza degli abitanti, che si rifiutarono a dare del grano e dell'acqua alla carovana, gli ordini precisi del maggiore Gray, il quale credeva che l'almamy lasciasse passare la carovana dopo averne riscosse le contribuzioni, lo costrinsero a sostare in questa città.

Il terribile almamy cominciò col farsi rilasciare una quantità considerevole di doni; ma rifiutò agli Inglesi l'autorizzazione di raggiungere Bakel sul Senegal. Essi potevano, diceva egli, andare a Clego traversando i suoi stati e quelli di Kaarta, o prendere il cammino di Futa-Toro. Di queste due strade la prima non valeva più della seconda, perchè bisognava attraversare dei paesi abitati da fanatici. L'intenzione dell'almamy era dunque — così l'intendevano gli Inglesi — di farli derubare e massacrare, senza averne la responsabilità. La spedizione risolse d'aprirsi un passaggio a forza. I preparativi erano appena cominciati, ch'essa si trovò circondata da una moltitudine di soldati, che occupando i pozzi, la posero nell'impossibilità materiale di passare all'esecuzione di questo progetto. Nel medesimo tempo i tamburi di guerra risuonarono da ogni parte. La lotta era impossibile. Bisognò venire ad un aggiustamento, cioè riconoscere la propria impotenza. L'almamy dettò le condizioni di pace, ottenne dagli Inglesi nuovi regali, ed esigette ch'essi si ritirassero pel Futa-Toro.

Più ancora — oltraggioso affronto all'orgoglio britannico — gli Inglesi si videro scortati da una guardia incaricata d'impedir loro di cambiar strada. Inoltre, quando cadde la notte,

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in presenza degli stessi Fulah che volevano opporvisi, gettarono al fuoco tutte le loro mercanzie delle quali questi volevano impadronirsi. La traversata di Futa-Toro, in mezzo a popolazioni ostili, fu ancora più penosa. Sotto il più facile pretesto, scoppiavano delle discussioni e si era sempre sul punto di venire alle mani. I viveri e l'acqua sopratutto non erano dati che a prezzo d'oro.

Infine, una notte, il signor Partarieu, per ingannare la vigilanza degli indigeni, dopo aver dichiarato ch'egli non poteva portar via tutto in una volta quanto gli restava, fece riempire di pietre i suoi bagagli; poi, lasciando rizzate le tende e i fuochi accesi, fuggì con tutti i suoi, dirigendosi verso il Senegal. Ben presto, quella che doveva sembrare una ritirata, divenne una vera fuga. Effetti, bagagli, animali, armi, tutto fu abbandonato e seminato lungo la strada. Grazie a questo sotterfugio ed alla rapidità della corsa, si poté raggiungere lo stabilimento di Bakel, ove i Francesi raccolsero con sollecitudine gli avanzi della spedizione.

In quanto a Caillié, colto da una febbre che assunse ben presto un carattere allarmante, riguadagnò San Luigi; ma non riuscendo a ristabilirsi, dovette ritornare in Francia. Fu soltanto nel 1824 che egli poté far ritorno al Senegal. Questa colonia era allora governata dal barone Roger, uomo amico del progresso e desideroso nello stesso tempo di estendere le nostre relazioni commerciali e le nostre cognizioni geografiche. Il barone Roger procurò dunque a Caillié i mezzi per andare a vivere presso i Brackna, a fine d'impararvi l'arabo e la pratica del culto musulmano.

La vita, presso questi pastori mori, diffidenti e fanatici, fu tutt'altro che comoda. Il viaggiatore, che incontrava molte difficoltà per tenere il suo giornale sempre al corrente, fu obbligato a ricorrere a varie astuzie per ottenere la libertà di percorrere i dintorni della sua residenza. Egli riferì qualche

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curiosa osservazione sul modo di vivere dei Brackna, sul loro nutrimento che si compone quasi interamente di latte; sulle loro abitazioni consistenti in tende, punto atte a resistere alle intemperie del clima; sui loro cantori ambulanti o «ghéhué»; sui mezzi di condurre le loro donne ad un certo stadio di pinguedine che loro sembrava l'ideale della bellezza; sulla natura del paese, sulla fertilità e le produzioni del suolo.

Le più curiose di tutte le informazioni raccolte da Caillié sono quelle relative alle cinque classi distinte, nelle quali è diviso il paese dei Mori Brackna.

E cioè, gli «hassani» o guerrieri d'una pigrizia, d'un sudiciume e d'un orgoglio incredibile; i «marabutti» o sacerdoti; gli «zenagi» tributari degli hassani; i «laratini» e gli schiavi.

Gli «zenagi» formano una classe miserabile, disprezzata da tutte le altre, ma sopratutto dagli hassani, ai quali pagano una contribuzione che, quantunque determinata regolarmente, non è mai trovata abbastanza considerevole. Essi sono i veri lavoratori che si danno all'industria, all'agricoltura o all'allevamento del bestiame.

«Malgrado tutti i miei sforzi, dice Caillié, io non ho potuto scoprire alcun che sull'origine di questa razza, né sapere come essa sia stata ridotta a pagare tributi ad altri mori. Quando io facevo delle domande su questo oggetto mi si rispondeva che così era la volontà di Dio. Sarebbero essi gli avanzi di tribù vinte, e come avviene che non ne conservino alcuna tradizione? Io non lo posso credere, perchè i mori, fieri della loro origine, non obliano mai i nomi di coloro che hanno rese illustri le loro famiglie, e gli zenagi, formando la maggior parte della popolazione, ed essendo esercitati alla guerra, si solleverebbero sotto la guida d'un discendente dei loro antichi capi e scuoterebbero il giogo del servaggio.»

I «laratini» sono i ragazzi nati da un moro e da una schiava

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negra. Benché schiavi, non sono mai venduti; racchiusi in un campo particolare, sono trattati presso a poco come gli zenagi. Coloro che sono figli di un hassano, divengono guerrieri; coloro che sono nati da un marabutto, vengono istruiti, e abbracciano la professione del loro padre.

Quanto agli schiavi, sono tutti negri. Maltrattati, mal nutriti e sferzati al menomo capriccio del loro padrone, non vi è sorta di vessazione che non si faccia loro soffrire.

Nel mese di maggio 1825, Caillié era di ritorno a San Luigi. Il barone di Roger essendo assente, colui che lo rimpiazzava non sembrava animato da intenzioni benevole. Il viaggiatore dovette attendere, con la sola razione del soldato, il ritorno del suo protettore, al quale rimise le note che aveva raccolto presso i Brackna, ma si vide respinte tutte le sue offerte di servizio. Gli si prometteva una certa somma al suo ritorno da Timbuctù! E come potrebbe egli partire, non avendo nessuna risorsa personale?

Però nulla poteva scoraggiare l'intrepido Caillié, Non trovando presso il governo coloniale né incoraggiamenti né soccorsi, egli passò a Sierra Leone, il cui governatore, non volendo strappare al maggiore Laing la gloria d'arrivare il primo a Timbuctù, rigettò le sue proposte.

Grazie alle economie fatte nell'amministrazione d'una fabbrica di indaco, Caillié possedette ben presto duemila franchi, somma che gli parve sufficiente per andare in capo al mondo. Egli si affrettò dunque a procurarsi le mercanzie necessarie e si associò ad alcuni «mandingi» e «seracoleti», mercanti viaggiatori che percorrono l'Africa.

Egli raccontò loro, sotto suggello del segreto, che nato in Egitto da parenti arabi, era stato condotto in Francia all'età più tenera, poi condotto al Senegal per sbrigare gli affari commerciali del suo padrone, il quale, soddisfatto dei suoi servizi, gli aveva reso la libertà. Aggiunse che il suo più vivo

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desiderio era di riguadagnare l'Egitto e di riprendere la religione musulmana.

Il 22 marzo 1827, lasciando Freetown per Kakondy, villaggio sul Rio Nunez, Caillié profittò del suo soggiorno in questa località per raccogliere qualche notizia sui Landoma e i Nalu, popoli sottomessi ai Fulah del Futa-Djallon, non maomettani, e per ciò dati molto allo spiritismo. Essi abitano i dintorni di questo fiume, come i Bago, popolo idolatra della foce di Rio Nunez. Giocondi, industriosi, abili coltivatori, i Bago ricavano grande utile dai loro raccolti di riso e di sale. Essi non hanno re, e non hanno altra religione che una barbara idolatria; sono governati dai più vecchi del loro villaggio, e non se ne trovano male.

Il 19 aprile 1827, Caillié, con un solo portatore e una sola guida, partì finalmente per Timbuctù. Non ebbe che a lodarsi dei Fulah e dei Djallonki, dei quali attraversò il paese ricco e fertile; egli passò il Ba-Fing, principale affluente del Senegal, vicinissimo alla sua sorgente, in un luogo che poteva avere un centinaio di passi di larghezza e soltanto un piede e mezzo di profondità, ma la violenza della corrente e le enormi rocce di granito nero che ingombrano il suo letto, rendevano la sua traversata difficile e pericolosa. Dopo una sosta di diciannove giorni al villaggio di Combaya, ove abitava la guida che l'aveva accompagnato fino allora, Caillié si recò nel Kankan, attraverso un paese solcato da fiumi e da grossi ruscelli che cominciavano allora a inondare tutta la regione.

Il 30 maggio, Caillié traversò il Tankisso, grande fiume dal letto inclinato, appartenente al bacino del Djoliba, fiume che il viaggiatore raggiunse l'11 giugno, a Courussa.

«Esso aveva di già, dice Caillié, quantunque così vicino alla sua sorgente, una larghezza di novecento piedi e una velocità di due miglia e mezzo.»

Ma, prima d'entrare coll'esploratore francese nel paese di

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Kankan, è bene riassumere i suoi apprezzamenti sui Fulah del Futa. Questi sono generalmente uomini alti e ben fatti, dalla tinta bruno-chiara, capigliatura increspata, fronte alta, naso aquilino, i cui tratti si avvicinano a quelli degli Europei. Maomettani fanatici, essi odiano i cristiani. Non viaggiatori come i Mandingi, essi amano il loro abituro, e sono o abili coltivatori o destri commercianti. Bellicosi e patrioti, essi non lasciano che i vecchi e le donne nei villaggi in tempo di guerra.

La città di Kankan è posta in mezzo ad una pianura, circondata da alte montagne. Quivi s'incontrano a profusione il bombace, il baobab e l'albero del burro chiamato anche «cé», che è il «shea» di Mungo-Park. Caillié si fermò in questa città ventotto giorni prima di poter trovare un'occasione per raggiungere Sambatikila; egli vi fu odiosamente derubato dal suo ospite e non poté ottenere dal capo della città la restituzione delle mercanzie che gli erano state sottratte.

«Kankan, dice il viaggiatore, capoluogo d'un cantone dello stesso nome, è una piccola città posta a due tiri di schioppo dalla riva sinistra del Milo, ridente fiume che viene dal sud e bagna il paese di Rissi, ove ha la sua sorgente; esso scorre al nord-est e si perde nel Djoliba, a due o tre giorni da Kankan. Circondata da una bella siepe, molto folta, questa città, che non contiene più di seimila abitanti, è posta in un bel piano di arena grigia della più grande fertilità. Si vedono in tutte le direzioni de'graziosi piccoli villaggi che si chiamano anche Urondés; è là ch'essi mettono i loro schiavi. Le loro abitazioni abbelliscono la campagna e sono circondate dalle più belle coltivazioni; vi crescono in abbondanza la dioscorea, il mais, il riso, la cipolla, il pistacchio e il gombo».

Da Kankan a Uassulo, la via traversava delle terre assai fertili, coperte di vegetazione in questa stagione e quasi tutte inondate. Gli abitanti di questa provincia parvero a Caillié d'un'estrema dolcezza; allegri e curiosi, essi gli fecero

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un'eccellente accoglienza. Parecchi affluenti del Djoliba e specialmente il Sarano,

furono passati, prima di fermarsi a Sigala, ove risiedeva il capo Alassulo, chiamato Baramisa. Sudicio come i suoi sudditi, egli usava come essi del tabacco in polvere e da fumare. Si crede che questo capo abbia moltissimo oro e molti schiavi; i suoi sudditi gli fanno spesso dei doni di bestiame; egli ha molte donne, ciascuna delle quali possiede una casa particolare, ciò che forma un piccolo villaggio, i cui dintorni sono molto ben coltivati. È là che, per la prima volta, Caillié vide il «rhamnus lotus» di cui parla Mungo-Park.

Uscendo da Uassulo, Caillié penetrò nel Fulu, i cui abitanti, come gli Uassulo, parlano mandingo, sono idolatri, o piuttosto non hanno nessun culto e sono del pari sudici. A Sambatikila il viaggiatore andò a far visita all'almamy.

«Noi entrammo, dice Caillié, in una stanza che serviva insieme da camera da letto per lui, e di scuderia per il suo cavallo. Il letto del principe era nel fondo; consisteva in un piccolo strato alto sei pollici, sul quale era stesa una pelle di bue, con una cortina sporca per preservarsi dagli insetti. Punti mobili in questo alloggio reale. Vi si vedono due selle per i cavalli; esse pendono dal muro, appese a piuoli; un grande cappello di paglia, un tamburo che serve solo in tempo di guerra, qualche lancia, un arco, un turcasso e alcune freccie formano tutto l'arredo, assieme ad un lampada fatta con un pezzo di ferro piatto, sostenuta da un altro pezzo del medesimo metallo, piantata in terra, e nella quale arde del burro vegetale, che non è abbastanza consistente per poter fabbricare delle candele.»

Questo almamy prevenne ben presto il viaggiatore che si presentava, un'occasione di andare a Timé, città donde partiva una carovana per Djenné. Caillié penetrò allora nel paese dei Bambara e arrivò in poco tempo al piccolo e grazioso villaggio

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di Timé, abitato da Mandingi maomettani, e dominato all'est da una catena di monti che può avere trecentocinquanta braccia d'altezza.

Entrando in questo villaggio alla fine di luglio, Caillié noni dubitava punto del lungo soggiorno che sarebbe stato forzato di farvi. Egli aveva al piede una piaga che il cammino a traverso le erbe bagnate aveva considerevolmente infiammata. Però

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risolvette di lasciar partire la carovana da Djenné e di restare a Timé fino a compiuta guarigione. Sarebbe stato troppo pericoloso per lui, nella sua situazione, di attraversare il paese dei Bambara, popolo idolatra che lo avrebbe derubato senza dubbio.

«Questi Bambara, dice il viaggiatore, hanno pochi schiavi, sono quasi nudi e camminano sempre armati d'archi e di freccie. Sono governati da una quantità di piccoli capi indipendenti, che sovente fanno guerra fra di loro. Infine sono esseri bruti e selvaggi, se si confrontano coi popoli sottomessi alla religione del Profeta.»

Fino al 10 novembre, Caillié, la cui piaga non era ancora rimarginata, fu trattenuto a Timé. Tuttavia intravide in quell'epoca il momento in cui avrebbe potuto mettersi in via per Djenné.

«Ma violenti dolori alla mascella, racconta il viaggiatore, mi fecero comprendere che ero preso dallo scorbuto, spaventosa malattia, che io provai in tutto il suo orrore. Il mio palato fu interamente spelato, una parte degli ossi si staccarono e caddero; pareva che i miei denti non si tenessero più saldi nel loro alveo; le mie sofferenze erano spaventevoli; temetti che il mio cervello fosse pure attaccato, dalla forza dei dolori che io risentivo nel cranio. Passai quindici giorni senza trovare un istante di sonno.»

Per complicare la situazione, la piaga di Caillié si riaperse e non cedette, come lo scorbuto, che ai medicamenti energici che vi applicò una vecchia negra, abituata a curare questa malattia, comune nel suo paese.

Infine, il 9 gennaio 1828, Caillié lasciò Timé e raggiunse Kimba, piccolo villaggio ove si era riunita la carovana che doveva partire per Djenné. Vicino a questo villaggio s'inalza la catena impropriamente chiamata Kong, poiché questa parola significa «montagna» presso tutti i Mandingi.

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Il nome dei villaggi che il viaggiatore attraversò, gli incidenti sempre ripetuti lungo il cammino non offrono molto interesse in questo paese dei Bambara, che passano presso i Mandingi per un popolo di ladri, ma che tuttavia non lo sono più dei loro accusatori.

Le donne bambara hanno tutte un pezzo di legno sottilissimo incrostato nel labbro inferiore, moda singolare, del tutto analoga a quella che Cook osservò sulla costa occidentale dell'America del Nord. Tanto è vero che l'umanità, quale che sia la latitudine nella quale essa vive, è dappertutto la stessa. Questi Bambara parlano mandingo, essi hanno tuttavia un idioma particolare chiamato «kissur», sul quale il viaggiatore non poté riunire dei documenti completi e positivi.

Djenné era altre volte chiamato il «paese dell'oro». Per verità i dintorni non ne producono, ma i mercanti di Buré e i Mandingi del paese di Kong ve ne portano frequentemente.

Djenné per due miglia e mezzo all'ingiro è circondata da un muro di terra di dieci piedi d'altezza. Le case, costrutte in mattoni cotti al sole, sono ampie come quelle dei contadini d'Europa. Sono tutte coperte da una terrazza e non hanno finestre all'esterno. È una città rumorosa, animata, ove tutti i giorni arriva qualche carovana di mercanti. E però vi si vedono molti stranieri. Il numero degli abitanti può calcolarsi ad otto o diecimila. Molto industriosi, intelligenti, fanno lavorare i loro schiavi per speculazione ed esercitano tutti i mestieri.

Tuttavia sono i mori che hanno accaparrato l'alto commercio. Non vi è giorno che essi non spediscano grandi imbarcazioni piene di riso, di miglio, di cotone, di stoffe, di miele, di burro vegetale e di altre derrate indigene.

Malgrado questo grande movimento commerciale, Djenné si vide minacciata la sua prosperità. Il capo del paese, Sego Ahmadu, animato da un fanatismo esagerato, faceva, a quell'epoca, una guerra accanita ai Bambara di Sego, che

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voleva schierare sotto lo stendardo del Profeta. Questa lotta cagionò grandi danni al traffico di Djenné, perchè intercettava le comunicazioni con Yamina, Sansanding, Bamakou, Buré e per una immensa estensione di paese. Questa città non era dunque più, al momento in cui Caillié la visitò, il punto centrale del commercio; e si furono Yamina, Sansanding e Bamakou che ne divennero i principali depositi.

Le donne di Djenné avrebbero creduto mancare al loro sesso se non avessero date prove di civetteria. Le più eleganti si fanno passare nel naso un anello od altri gingilli, e quelle che sono meno ricche vi sospendono un pezzo di seta rossa.

Durante il lungo soggiorno che Caillié fece a Djenné, fu colmato di cure e d'attenzioni dai mori, ai quali egli raccontò la favola relativa alla sua nascita ed al suo rapimento dall'esercito egiziano.

Il 23 marzo il viaggiatore s'imbarcò sul Niger per Timbuctù, in una grande imbarcazione sopra la quale lo sceriffo, comprato col dono di un parapioggia, gli aveva procurato il passaggio. Egli portava lettere di raccomandazione per le persone eminenti di quella città.

Caillié passò davanti al bel villaggio di Kera, a Taguetia, a Sankha-Ghibila, a Diebé e a Isaca, presso cui il fiume è riunito da un gran braccio, che partito da Sego forma un immenso gomito; egli vide Uandacora, Uanga, Corocoila, Cona, e scorse, il 2 aprile, la foce del grande lago Debo.

«Si vede la terra da tutte le parti del lago, dice Caillié, eccetto all'ovest, ove si stende come un mare interno. Seguendo la sua costa nord, che ha presso a poco la direzione O.N.O, per una lunghezza di quindici miglia, si lascia a sinistra una lingua di terra che si avanza nel sud per parecchie miglia; essa sembra chiudere il passaggio del lago e forma una specie di stretto. Al di là di quella barriera il lago si prolunga nell'ovest a perdita d'occhio. La barriera testé descritta, divide così il lago di Debo

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in due, l'uno superiore, l'altro inferiore. Quello per cui passano le imbarcazioni ed in cui si trovano tre isole è assai grande; esso si prolunga un po' all'est ed è circondato da un'infinità di grandi paludi.»

Poi, sfilarono davanti agli occhi del viaggiatore Gabibi, villaggio di pescatori, Didhiover, Tongom, nel paese dei Dirimani, contrada che si estende molto lungi nell'est, Co-Do-Sa, porto assai commerciale, Barconga, Leleb, Garfolo, Baracondié, Tircy, Talbocoila, Salocoila, Cora, Coratu, ove i Tuareg esigono un pedaggio dai battelli che passano sul fiume, e infine Cabra edificata sopra un'eminenza al riparo dalle invasioni del Djoliba e che serve di porto a Timbuctù.

Il 20 aprile, Caillié sbarcò e si mise in cammino per questa città, nella quale entrò al tramontare del sole.

«Io vedevo dunque questa capitale del Sudan, esclama il nostro viaggiatore, che da tanto tempo era lo scopo di tutti i miei desideri! Entrando in questa città misteriosa, oggetto delle ricerche di tutte le nazioni civili d'Europa, io fui preso da un sentimento inesprimibile di soddisfazione, Non avevo mai provato una simile sensazione, e la mia gioia era estrema. Ma bisognò comprimere gli slanci; fu a Dio che io confidai i miei trasporti. Con quale ardore io lo ringraziai del felice successo con cui egli aveva coronata la mia intrapresa! Quali grazie non dovevo io rendergli per la grande protezione ch'egli mi aveva accordata in mezzo a tanti ostacoli e perigli che sembravano insormontabili! Rinvenuto dal mio entusiasmo, trovai che lo spettacolo che avevo sotto gli occhi non rispondeva alla mia aspettativa. M'ero formata tutt'altra idea della grandezza e della ricchezza di questa città; essa non offre, a primo aspetto, che un ammasso di case in terra, mal costrutte; in tutte le direzioni non si vedono che immensi piani di sabbia moventesi, d'un bianco che tende al giallo, ed aridissimi. Il cielo all'orizzonte è d'un rosso pallido; tutto è triste nella natura; il più profondo

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silenzio vi regna; non vi si sente il canto d'un solo uccello. Eppure vi è qualche cosa d'imponente nello spettacolo di una grande città ergentesi in mezzo alle sabbie, e si ammirano gli sforzi che hanno dovuto fare i suoi fondatori. Per ciò che riguarda Timbuctù, congetturai che anteriormente il fiume doveva passare vicino alla città; esso ora ne è lontano otto miglia al nord, e cinque miglia da Cabra, nella medesima direzione.»

Né così grande, né così popolata come credeva di ritrovarla, Timbuctù manca assolutamente di vita. Non vi si vedono entrare continuamente carovane come a Djenné. E nemmeno c'è quell'affluenza di stranieri che s'incontra in quest'ultima città, ed il mercato che si tiene alle ore tre sembra deserto per l'eccessivo calore.

Timbuctù è abitata da negri Kissuri che sembrano assai dolci e si dedicano al commercio. L'amministrazione non esiste; non vi ha, propriamente parlando, alcun potere; ogni città, ogni villaggio ha il suo capo. Sono i costumi degli antichi patriarchi. Molti mori, stabiliti in questa città, si danno a negoziare e vi fanno presto fortuna, perchè ricevono delle mercanzie in consegna d'Adrar, di Eafilet, di Tua, d'Adramas, d'Algeria, di Tunisi e di Tripoli.

Tutto il sale delle miniere di Tudeyni viene portato a Timbuctù a dorso di camello. È in lastre legate insieme da cattive corde fatte con un'erba che cresce nei dintorni di Tandaye.

Il recinto di Timbuctù, che rappresenta la forma d'un triangolo, può avere tre miglia di circuito. Le case della città sono grandi, poco elevate, e costrutte di mattoni rotondi. Le vie sono larghe e pulite. Infine, si contano sette moschee, sormontate da una torre in mattoni, donde il muezzin chiama i fedeli alla preghiera. Comprendendovi anche la popolazione fluttuante, non si trovano in questa capitale del Sudan, che da

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dieci a dodicimila abitanti. Situata in mezzo ad una immensa pianura di sabbia bianca

mobile, Timbuctù non ha altre risorse che l'esportazione del sale, perchè la terra non è atta a nessuna sorta di coltivazione. Ond'è che, se i Tuaregi intercettassero completamente le numerose imbarcazioni che vengono dal Djoliba inferiore, gli abitanti si troverebbero nella più spaventosa carestia.

La vicinanza di queste tribù erranti, le loro esigenze rinnovate di continuo, sono un ostacolo perpetuo al commercio. Timbuctù è continuamente piena dì gente che viene ad estorcere ciò che essi chiamano col nome di doni, ma che si potrebbero, con più giusta ragione, chiamare contribuzioni forzate. Quando il capo dei Tuaregi arriva a Timbuctù, è una pubblica calamità. Resta nella città per due mesi, e vi è nutrito insieme al numeroso suo seguito, a spese degli abitanti, e non se ne va che dopo aver ricevuto dei ricchi doni.

Il terrore ha esteso la dominazione di queste tribù erranti su tutti i popoli vicini, ch'essi saccheggiano e spogliano senza misericordia.

Il costume dei Tuaregi non differisce che per l'acconciatura del capo da quello degli Arabi. Giorno e notte essi portano una benda di tela di cotone, che orba loro gli occhi, e che, discendendo sul naso, li obbliga ad alzare la testa per vedere. La stessa benda, dopo aver fatto una o due volte il giro della testa, viene a nascondere la bocca e discende fino al disotto del mento. Non si vede dunque loro che la punta del naso.

Perfetti cavalieri, montati su eccellenti cavalli o veloci camelli, i Tuaregi vanno armati di una lancia, di uno scudo e di un pugnale. Essi sono i corsari del deserto, e la quantità di carovane che hanno saccheggiato o messo a contribuzione è incalcolabile.

Erano quattro giorni che Caillié trovavasi a Timbuctù, allorché seppe della partenza della carovana per Tafilé.

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Sapendo che non ne uscirebbero altre prima di tre mesi, e temendo sempre di vedersi scoperto, il viaggiatore si unì a questa comitiva di mercanti, che conduceva seco non meno di seicento camelli. Partito il 4 maggio 1828, dopo aver sofferto atrocemente il caldo ed un vento d'est che sollevava le sabbie del deserto, Caillié raggiunse, cinque giorni più tardi, El-Aruan, città senza risorse per sé stessa, che serve di deposito ai sali di Tudeyni, esportati a Sansanding, sulle coste del Djoliba.

È a El-Aruan che arrivano le carovane di Tafilé, di Mogador, del Diali, di Tua e di Tripoli, con carichi di mercanzie europee che vengono a scambiare con avorio, oro, schiavi, cera, miele e stoffe del Sudan.

Il 19 maggio 1828, la carovana lasciava El-Aruan per raggiungere il Marocco, attraverso il Sahara.

Il calore opprimente, i tormenti della sete, le privazioni d'ogni genere, le fatiche e una ferita che il viaggiatore si fece cadendo dal camello, gli furono meno sensibili delle vessazioni, delle derisioni, degli insulti continui ch'egli ebbe a soffrire tanto dai mori che dagli schiavi. Questa gente sapeva trovar sempre nuovi pretesti per beffarsi delle abitudini e della imperizia di Caillié; giunsero perfino a batterlo e a gettargli delle pietre, non appena volgesse il dorso.

«I mori mi dicevano spesso con disprezzo» racconta Caillié: «Tu vedi questo schiavo? Ebbene, io lo preferisco a te; giudica come io ti stimi. — Questa insolente derisione era accompagnata da risa sgangherate.»

Fu in queste miserabili condizioni che Caillié passò per i pozzi di Trarzas, presso ai quali si trova del sale in quantità, poi per Amul Gagim, Amul-Taf, El-Ekrei, ombreggiati da un bel boschetto di datteri, di rosai e di giunchi, infine per Marabuty e El-Harib, i cui abitanti sono di una sporcizia assolutamente ributtante.

Il territorio di El-Harib è compreso fra due catene di

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piccoli monti, che lo separano dal Marocco, di cui è tributario. I suoi abitanti, divisi in diverse tribù nomadi, fanno dell' allevamento dei camelli la loro principale occupazione. Essi sarebbero felici e ricchi se non pagassero grossi tributi ai Berberi, che trovano ancora il mezzo di tartassarli di continuo.

Il 12 luglio la carovana lasciò El-Harib e dopo undici giorni penetrò nel paese di Tafilé, dalle palme maestose. A Ghurland, Caillié fu abbastanza bene accolto dai mori, ma non poté essere ricevuto nelle loro case, perchè le donne, che non devono vedere altri uomini che quelli della loro famiglia, potrebbero essere esposte agli sguardi indiscreti d'uno straniero.

Caillié visitò il mercato, che si tiene tre volte alla settimana, presso un piccolo villaggio chiamato Boheim, a tre miglia da Ghurland, e fu stupito per la varietà degli oggetti che vi stavano raccolti; legumi, frutti indigeni, erba medica, volatili, montoni, tutto vi era a profusione. Alcuni mercanti d'acqua recanti otri pieni, giravano pel mercato, con un campanello in mano per avvertire coloro che volevano bere, giacché faceva un caldo soffocante. Le monete del Marocco e della Spagna erano le sole ricevute.

Il distretto di Tafilé conta un certo numero di grossi villaggi e di piccole città. Ghurland, 'L-Ekseba, Sosso, Boheim e Ressant, che furono vedute dal viaggiatore, potevano contenere, ciascuna, 1200 abitanti all'incirca, tutti proprietari e mercanti.

Il suolo è molto produttivo. Si coltiva molto il frumento, i legumi, i datteri, i frutti d'Europa e il tabacco, Bellissimi montoni, la cui lana, assai bianca, serve per fare delle belle coperte, buoi, eccellenti cavalli, asini, e una quantità di muli; tali sono le ricchezze naturali di Tafilé.

Come a El-Drah, molti ebrei abitano gli stessi villaggi dei maomettani; vi passano esistenza infelice, vanno quasi nudi e

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sono continuamente insultati e molestati. Barattieri, calzolai, fabbri, portatori, qualunque sia il mestiere ch'essi esercitano apparentemente, tutti prestano denaro ai mori.

Il 2 agosto la carovana riprese il suo cammino, e, dopo aver passato per Afiié, Tanneyara, Marea, 'M-Dayara, Rahaba, 'L-Eyarac, Tá-maroe, Ain-Zeland, El-Guim, Guigo, Soforo, Caillié arrivò a Fez, ove non fece che un breve soggiorno, e raggiunse Rabat, l'antica Sale. Spossato da questa lunga marcia, non avendo per sostentarsi che qualche dattero, obbligato a ricorrere alla carità dei musulmani, che il più delle volte lo rimandavano senza nulla donargli, non trovando in questa città, come agente consolare di Francia, che un ebreo di nome Ismayl, il quale, per paura di compromettersi, rifiutò d'imbarcare Caillié sopra un brick portoghese che andava a Gibilterra, il viaggiatore colse con sollecitudine un'occasione inaspettata che si presentò per recarsi a Tangeri. Quivi fu ben ricevuto dal viceconsole, signor Delaporte, che lo trattò come figlio, scrisse subito al comandante della stazione francese di Cadice, e lo fece imbarcare travestito da marinaio sopra un corvetta venuta per cercarlo.

Fu nel mondo scientifico una notizia inaspettata, quella dello sbarco a Tolone d'un giovane francese che ritornava da Timbuctù. Col solo appoggio del proprio coraggio, a forza di pazienza, egli aveva condotto a buon fine una esplorazione per la quale le Società di Geografia di Londra e Parigi avevano promesso forti ricompense. Solo, quasi senza risorse, senza l'aiuto del Governo, indipendentemente da qualsiasi società scientifica, per la sola forza della sua volontà, egli era riuscito a rischiarare di nuova luce un'immensa parte dell'Africa!

Caillié non era certo il primo europeo che avesse veduto Timbuctù. L'anno prima, il maggiore inglese Laing aveva potuto penetrare in quella città misteriosa, ma aveva pagato colla vita questa esplorazione dalle commoventi peripezie.

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Caillié, invece, ritornava in Europa e riportava il curioso giornale di viaggio che noi abbiamo or ora analizzato. Se la sua professione di fede musulmana gli aveva impedito di fare delle osservazioni astronomiche, se non aveva potuto liberamente disegnare e prendere le sue note, nondimeno non era stato che a prezzo di quest'apparente apostasia ch'egli aveva potuto percorrere quei paesi fanatici, dove il nome cristiano era

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esecrato. Quante osservazioni curiose, quanti dettagli nuovi, precisi!

Quale immensa contribuzione alla conoscenza dei paesi africani! Se, in due viaggi successivi, Clapperton era riuscito ad attraversare l'Africa, da Tripoli a Benin, in un solo viaggio Caillié aveva fatto la traversata dal Senegal al Marocco, ma a prezzo di quali fatiche, di quali sofferenze, di quali miserie! Timbuctù era finalmente conosciuto, come pure questa nuova strada delle carovane, attraverso il Sahara, per le oasi di Tafilé e d'El-Harib.

I soccorsi che la Società di Geografia mandò tosto al viaggiatore, il premio di diecimila lire ch'essa gli destinò, la croce della legion d'onore di cui egli fu insignito, l'accoglienza premurosa delle società scientifiche, la notorietà e la gloria che si congiunsero al nome di Caillié, tutto ciò fu sufficiente per ricompensare le torture fisiche e morali del viaggiatore? Dobbiamo crederlo. Lui stesso, in molti punti della sua narrazione, proclama che il desiderio d'aumentare colle sue scoperte la fama della Francia, sua patria, poté solo, in molte circostanze, aiutarlo a sopportare gli affronti dai quali era stato roso, le sofferenze che lo assalirono continuamente. Onore dunque al paziente viaggiatore, al patriota sincero, al grande scopritore!

Ci rimane a parlare della spedizione nella quale Alessandro Gordon-Laig doveva trovare la morte. Ma prima d'incominciare il racconto di questo viaggia drammatico, forzatamente succinto, perchè ci manca il giornale del viaggiatore, conviene dare alcune spiegazioni e sopra l'ufficiale che ne fu la vittima, e sopra un'escursione assai curiosa nel Timanni, il Kuranko e il Sulimana, escursione durante la quale Laing scoprì le sorgenti del Djoliba.

Nato a Edimburgo nel 1794, Laing era entrato nell'esercito inglese all'età di sedici anni e non aveva tardato a distinguer

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visi. Nel 1820 egli si trovava a Sierra-Leone come luogotenente, facendo le veci di aiutante di campo presso sir Charles Maccarthy, governatore generale dell'Africa occidentale. A quell'epoca infieriva la guerra fra Amara, l'almamy dei Mandingi e uno dei suoi principali capi, chiamato dannassi. Il commercio di Sierra-Leone non era già molto florido. Questo stato di cose gli aveva portato un colpo fatale. Maccarthy, desideroso di porvi rimedio, risolvette d'intervenire e di tentare una riconciliazione fra i due capi. Giudicò dunque opportuno di mandare un'ambasciata a Kanbia, sopra le rive dello Scarcies, e di là a Malacury e al campo dei Mandingi. Il carattere intraprendente di Gordon-Laig, la sua abilità, il suo coraggio a tutta prova lo designavano alla scelta del governatore, che gli rimise, il 7 gennaio 1822, delle istruzioni, colle quali gli raccomandava d'informarsi dello stato d'industria del paese, della sua topografia, e d'indagare il modo di pensare degli abitanti sopra l'abolizione della schiavitù.

Un primo abboccamento con Yareddi, generale delle truppe sulimane che accompagnavano l'almamy, provò che i negri di queste contrade non avevano ancora che cognizioni molto vaghe sulla civilizzazione europea e che le loro relazioni coi bianchi non erano state frequenti.

«Ogni parte del nostro vestito, dice il viaggiatore, era per lui soggetto di stupore. Vedendomi togliere i guanti, restò stupefatto; si coprì colle mani la bocca aperta dalla sorpresa, e finì per esclamare: «Allah Akbar! (Dio misericordioso), egli si è tolta la pelle delle mani!» Essendosi a poco a poco famigliarizzato col nostro aspetto, accarezzava alternativamente i capelli del signor Mackie, un chirurgo che accompagnava Laing e i miei, poi, scoppiando in risa, disse: «No, questi non sono uomini!» Anzi domandò a più riprese al mio interprete se noi avevamo delle ossa.»

Queste escursioni preliminari, durante le quali Laing aveva

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constatato che molti Sulima possedevano oro e avorio in quantità, lo determinarono a proporre al governatore d'intraprendere l'esplorazione dei paesi situati all'est della colonia, paese le cui produzioni e le cui risorse, meglio conosciute, potrebbero alimentare il commercio di Sierra-Leone.

Maocarthy approvò le idee di Laing e le sottomise a consiglio. Fu deciso che Laing sarebbe autorizzato a penetrare nel paese dei Sulima, prendendo la via che gli sembrerebbe la più comoda per le future comunicazioni.

Partito da Sierra-Leone il 16 aprile, Laing s'imbarcò sulla Rockelle e arrivò ben presto a Rokon, città principale del Timanni. Il suo abboccamento col capo di questa città fu singolarmente dilettevole. Per fargli onore, Laing, che l'aveva veduto entrare nella corte in cui doveva aver luogo il ricevimento, fece sparare una salva di dieci colpi di fucile. Al rumore di questa scarica il re si arrestò, retrocesse e alzò i tacchi, dopo aver lanciato al viaggiatore un'occhiata furibonda. Si durò molta fatica a far ritornare questo sovrano pusillanime. Infine egli entrò, e sedendosi sul suo scanno d'etichetta con solennità, interrogò il maggiore:

— Perchè avete tirato dei colpi di fucile? — Per farvi onore; è sempre al rumore delle artiglierie che

sono accolti i sovrani europei. — Perchè questi fucili erano volti verso terra? — Affinchè non aveste nulla a sospettare sulle nostre

intenzioni. — Del terriccio mi è passato sul viso. Perchè non avete

sparato in aria? — Per non appiccare fuoco ai tetti di paglia delle vostre

case. — Alla buon'ora. Dammi del rhum. Inutile aggiungere che il dialogo, dacché il maggiore ebbe

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corrisposto ai desideri del re, divenne arcicordiale. Il ritratto di questo sovrano di una parte del Timanni

merita, per più titoli, di figurare nella nostra galleria, ed è il caso di ricordare l'antico detto: Ab uno disce omnes.

Ba-Simera era in età di novant'anni: aveva la pelle chiazzata e tutta grinzosa, dimodoché essa rassomigliava più a quella di un alligatore che a quella d'un uomo; occhi d'un verde cupo e molto infossati; una barba bianca, intrecciata, che discendeva due piedi al disotto del mento. Come il re della riva opposta, portava una collana di grani di corallo e di denti di leopardo; portava un mantello bruno e sporco come la sua pelle; le gambe gonfie, come quelle di un elefante, erano a mala pena coperte da un pantalone di tela di cotone che in origine era forse bianca, ma essendo stata portata da molti anni, aveva preso un colore verdastro. Come distintivo della sua dignità, questo capo teneva in mano un bastone, al quale erano sospesi dei sonagli di diverse grandezze.

Come i suoi predecessori in Africa, l'esploratore dovette lungamente discutere i diritti di passaggio e il salario dei portatori; ma mercè la sua fermezza, Gordon Laing seppe sottrarsi alle esigenze dei re negri. Toma, ove nessuno aveva mai veduto un uomo bianco, Balandeco, Roketchnick, di cui il viaggiatore determina la posizione a 12° 11' di longitudine all'ovest di Greenwich ed a 8° 30' di latitudine nord, Mabung, al di là d'un fiume molto largo che scorre al nord della Roekelle, Ma-Yosso, città principale della frontiera dei Timanni, formano le diverse tappe della strada seguita dal maggiore Laing.

Il viaggiatore aveva osservato in questo paese un'istituzione singolare, una specie di frammassoneria, portante il nome di «pourrah» di cui Caillié aveva già constatata l'esistenza sulle sponde del Rio Nunez.

«La sua potenza, dice Laing, si estende su quella dei capi

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dei diversi territori. Tutto ciò ch'essa fa è involto nelle tenebre e coperto del mistero il più profondo. Giammai i suoi atti danno motivo alla minima inchiesta da parte dell'autorità, e neppure la stessa loro giustizia è messa in questione. Ho provato inutilmente a risalire all'origine e alle cause della formazione di questa straordinaria associazione; ho motivi per credere che oggi sono sconosciute dalla generalità dei Timanniani e che forse lo sono dagli stessi membri del «pourrah», in un paese ove non esiste nessun monumento tradizionale, sia negli scritti che nei canti…»

Il Timanni, secondo le notizie che Laing ha potuto procurarsi, sarebbe! diviso in quattro territori, i di cui capi sì. arrogano il titolo di re. Il terreno è abbastanza fertile, e produrrebbe in abbondanza del riso, della dioscorrea, della cassava, delle arachidee e dei banani, se non fosse il carattere pigro indolente, dissoluto, spilorcio degli abitanti, che si danno con una spiacevole emulazione all'ubriachezza.

«Io credo, dice Laing, che una certa quantità di zappe, di falci, di rastrelli, di pale e d'altri utensili comuni, sarebbero ben ricevuti da questo popolo se si avesse la cura d'insegnargliene l'uso. Queste cose gli converrebbero meglio nel suo interesse e nel nostro, che non i fucili, i cappelli rabberciati e gli abiti da ciarlatani che si ha l'abitudine di fornirgli.»

Malgrado questo voto filantropico del viaggiatore, le cose non hanno cambiato da quell'epoca. Si incontra sempre nei negri la stessa passione per i liquori forti, e si vedono ancora i loro piccoli re camuffati con cappelli che imitano il soffietto d'una fisarmonica, indossare, senza camicia, un abito di color turchino con bottoni di rame. Dobbiamo però dire, in omaggio alla verità, che questi sono i loro costumi di cerimonia.

Il sentimento materno non sembrò al viaggiatore essere molto sviluppato nelle donne timanniane, perchè, ben due volte, talune di esse gli proposero di comperare i loro fanciulli

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e lo colmarono di ingiurie, perchè non volle acconsentirvi. Alcuni giorni dopo, un grande tumulto si alzò contro Laing, uno di quei bianchi che, impedendo la tratta degli schiavi, avevano sensibilmente nuociuto alla prosperità del paese.

La prima città che si trova entrando nel Kuranko, è Ma-Bum. Ne piace notare, di passaggio, i sentimenti che la vista dell'attività degli abitanti inspirò al maggiore Laing.

«Entrai nella città, egli racconta, al tramontar del sole, e provai dapprima un'impressione assai favorevole per gli abitanti. Essi ritornavano dai loro lavori, si riconosceva che tutti erano stati occupati durante la giornata. Gli uni avevano preparato i campi per la messe che le pioggie molto prossime dovevano favorire; altri chiudevano nel loro recinto il bestiame, i cui fianchi lisci e rotondi ed il cui aspetto annunciavano ch'era stato nutrito in grasse pasture. L'ultimo colpo di martello del fabbro-ferraio rimbombava alle orecchie; il tessitore misurava la quantità di tela ch'egli aveva fabbricato dalla mattina; il conciatore rinchiudeva in un sacco i suoi astucci pei coltelli, le sue borse ed altri oggetti artisticamente lavorati e colorati. Il muezzin, appollaiato all'entrata della moschea, ripeteva con voce grave e ad intervalli misurati il grido di Allah Akbar, per chiamare i devoti musulmani alla preghiera della sera.»

Questo quadro, riprodotto da un Marihlat o da un Enrico Regnault, in un paesaggio ove la sfavillante luce del sole incomincia a fendersi in tinte verdi e rosa, non potrebbe portare il titolo tanto spesso adoperato per dipingere simili episodi nei nostri climi nebbiosi: il ritorno dai campi?

«Questa scena, continua il viaggiatore, per la natura sua e per il sentimento che inspirava, formava un contrasto piacevole col rumore, con la confusione che regnano insieme in una città timanniana; ma non bisogna fidarsi delle apparenze, ed aggiungo con molto rincrescimento che la condotta dei

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Kurankoniani non contribuì affatto a giustificare la buona opinione che di essi m'ero fatta dapprima.»

Il viaggiatore passò successivamente a Kufula, dove ricevette una benevola accoglienza, attraversò un paese dall'aspetto piacevolmente vario, del quale i monti Kuranko formavano il fondo, si fermò a Simera, dove il capo incaricò il suo «guiriot» di festeggiare col suo canto la venuta dello straniero; ma le case mal costruite e mal coperte lasciavano filtrare la pioggia, così che, dopo un temporale, siccome il fumo non poteva sfuggire che per gl'interstizi del tetto, Laing rassomigliava più, secondo le sue parole, ad uno spazzacamino mal strigliato, che allo straniero bianco del re di Simera.

Laing visitò, poscia la sorgente del Tongolellé, affluente della Rockelle, e lasciò il Kuranko per entrare nel Sulimana.

Il Kuranko, di cui il viaggiatore non aveva visitato che il confine, e d'un'estensione considerevole, e si divide in un gran numero di piccoli stati.

Gli abitanti rassomigliano ai Mandingi per la lingua ed i costumi, ma non sono né così ben fatti né così intelligenti.

Essi non professano l'islamismo, ed hanno una fiducia illimitata nei loro grigris.

Abbastanza industriosi, sanno cucire e tessere. Il principale oggetto del loro commercio è il legno di rosa o «cam» ch'essi esportano verso la costa. Le produzioni del paese sono presso a poco quelle dei Timanni.

Komia, a 9° 22' di latitudine nord, è la prima città del Sulimana. Laing vide in seguito Semba, città ricca) e popolosa, dove fu ricevuto da una banda di musicanti che raccolsero colle loro fanfare le più assordanti, se non le più armoniose, e giunse infine a Falaba, capitale del paese.

Testimonianze di stima affatto particolari gli furono rese dal re.

Questi aveva riunito numerosi corpi di truppe, che passò in

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rivista e alle quali fece eseguire diverse manovre di peculiare e fantastico carattere, mentre il chiasso dei tamburi, i suoni del violino e d'altri strumenti particolari al paese, straziavano le orecchie del viaggiatore. Poi, numerosi «gurioti» si succedettero per cantare le lodi del re, l'arrivo del maggiore, le felici conseguenze che dal suo arrivo avverrebbero per la prosperità del paese e lo sviluppo del commercio.

Laing approfittò di così buone disposizioni per domandare al re il permesso di visitare le sorgenti del Niger. Questi gli fece a più riprese delle osservazioni sul pericolo di quella spedizione; ma dietro le istanze del viaggiatore e considerando che «il loro cuore sospirava dietro l'acqua» gli accordò alla fine il permesso sollecitato con tanta insistenza.

Laing non era a due ore da Falaba, che l'autorizzazione era revocata e doveva rinunciare ad una gita ch'egli considerava a buon diritto come assai importante.

Egli ottenne, qualche giorno dopo, il permesso di visitare la sorgente della Roekelle, o Sale Congo, fiume del quale, prima di lui, non si conosceva quasi il corso al di là di Rokon.

Dall'alto di una roccia, Laing scorse il monte di Lorna, il più alto di tutta la catena di cui esso fa parte.

«Mi si mostrò, dice egli, il punto donde esce il Niger; esso mi sembrò all'istessa altezza del luogo ove io mi trovavo, ossia, presso a poco, a milleseicento piedi al disopra del livello del mare, perchè la sorgente della Rockelle, che io avevo misurato, è a 1400 piedi. Avendo esattamente determinato la posizione di Konkodongori e l'altezza sulla quale io mi trovavo, la prima per osservazione, la seconda per approssimazione, mi fu facile di fissare la posizione di Lorna. Non posso ingannarmi di molto dando alla sorgente del Niger 9° 25' di latitudine nord e 9° 45' di longitudine occidentale.

Il maggiore Laing aveva passato tre mesi nel Sulimana e vi aveva fatto delle numerose escursioni. È una regione assai

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pittoresca, interrotta da colline, da ampie vallate e da fertili praterie, circondate da boschi, ornati di grossi alberi frondosi.

Il terreno è fertile, e richiede poco lavoro per prepararlo; i raccolti sono abbondanti, e il riso vi cresce benissimo. I buoi, i montoni, le capre, un uccellame di piccola specie, qualche cavallo, sono gli animali domestici dei Sulima. Le bestie, selvaggie abbastanza numerose, sono l'elefante, il bufalo, una specie d'antilope, delle scimmie e dei leopardi.

Falaba, il cui nome deriva da Fala-Ba, fiume sul quale esso è posto, può avere un miglio e mezzo di lunghezza per un miglio di larghezza. Le case vi sono molto raggruppate in confronto alle altre città dell'Africa e possiede una popolazione di seimila abitanti.

Come piazza forte, la posizione di questa città è molto ben scelta. Posta sopra un'eminenza, in mezzo ad un piano inondato durante la stagione delle piogge, essa è circondata da una palizzata in legno durissimo, capace di resistere a tutte le macchine da guerra meno potenti dell'artiglieria.

Singolare osservazione: in questo paese gli uomini e le donne sembrano aver fatto lo scambio delle occupazioni. Queste hanno la parte di tutti i lavori della coltura ad eccezione della semina e della messe; esse costruiscono le case e fanno l'ufficio di muratore, di barbiere e di chirurgo; gli uomini si occupano della latteria, mungono le vacche, cuciono e lavano la biancheria.

Il 17 settembre, Laing riprese il cammino di Sierra-Leone, carico dei presenti del re, e dopo essere stato accompagnato per più miglia da una folla considerevole, raggiunse la colonia inglese senza accidenti.

Riassumendo, questa corsa di Laing, a traverso il Timanni, il Ku-ranko e il Sulimana, non era senza importanza. Per esso furono rivelati dei paesi nei quali nessun europeo era ancora penetrato. Esso ci iniziò ai costumi, all'industria, al commercio

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degli abitanti, come alle produzioni della contrada. Inoltre si conobbero il corso e la sorgente del Djoliba. Se il viaggiatore non l'aveva potuto vedere coi propri occhi, egli aveva però

potuto avvicinarvisi abbastanza per fissarne la posizione in un modo approssimativo.

I risultati che Laing aveva ottenuti in questo viaggio non fecero che esaltare la sua passione per le scoperte. Epperò

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risolvette di tutto tentare per giungere fino a Timbuctù. Il 17 giugno 1825, il viaggiatore s'imbarcò a Malta per

Tripoli e lasciò questa città con una carovana, della quale faceva parte Hatita, principe targhi o tuareg, amico del capitano Lyon, che doveva accompagnarlo fino a Tuat. Dopo essere stato due mesi interi a Ghadamé, Laing abbandonò questa oasi al mese di ottobre e raggiunse Incalah, la cui posizione egli segnò ben più all'occidente che non si supponesse. Dopo un soggiorno in questa oasi, che durò dal mese di novembre 1825 fino al gennaio 1826, il maggiore raggiunse l'Uadi Tuat, proponendosi d'andare inseguito a Timbuctù, di fare il giro del lago Djenné o Dibbie, di visitare il paese di Melli e di seguire il corso del Djoliba fino alla sua foce. Sarebbe poscia ritornato sui suoi passi fino a Sockatu, avrebbe visitato il lago Tchad e avrebbe procurato di raggiungere il Nilo. Era, come si vede, un progetto grandioso, ma terribilmente arrischiato.

All'uscire da Tuat, la carovana, di cui Laing faceva parte, fu assalita da Tuaregi, dicono gli uni, da Beraichi, tribù vicina del Djoliba, al dire di altri.

«Laing, riconosciuto per un cristiano», racconta Caillié, che raccolse queste notizie a Timbuctù, «fu orribilmente maltrattato; non si cessò di batterlo con un bastone finché non fu creduto morto. Io credo che un altro cristiano che, mi si disse, era perito sotto i colpi, fosse qualche domestico del maggiore. I mori della carovana di Laing lo raccolsero e riuscirono a forza di cure a richiamarlo alla vita. Quando ebbe ripresi i sensi, lo si collocò sul suo camello, ove bisognò legarlo, tanto era debole e incapace di sostenersi. Gli scellerati non gli avevan lasciato nulla; la maggior parte delle sue mercanzie era stata saccheggiata.»

Arrivato a Timbuctù il 18 agosto 1826, Laing guarì delle sue ferite. La convalescenza fu lenta, ma almeno non fu tormentato dalle vessazioni degli abitanti, mercè le lettere di

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raccomandazione ch'egli aveva portato da Tripoli, e mercè le affettuose cure del suo ospite che era tripolitano.

Laing, da ciò che un vecchio riportò a Caillié, — il che sembra ben straordinario — non aveva lasciato il suo costume europeo, e si diceva inviato dal re d'Inghilterra, suo signore, per visitare Timbuctù, e descrivere le meraviglie che questa città racchiude.

«Parrebbe, aggiunge il viaggiatore francese, che Laing ne avesse tracciato il piano davanti a tutti, perchè questo stesso moro mi racconta, nel linguaggio ingenuo ed espressivo, ch'egli aveva «scritto» la città e tutto ciò ch'essa conteneva.»

Dacché ebbe visitato Timbuctù minutamente, Laing, che aveva delle ragioni particolari per diffidare dei Tuaregi, andò di notte a visitare Cabra, e contemplare il Djoliba. Il maggiore, invece di ritornare in Europa per il Gran Deserto, desiderava vivamente di passare per Djenné e lego, onde raggiungere gli stabilimenti francesi del Senegal; ma, appena ebbe detto qualche parola in proposito ai Foulah, accorsi per vederlo, essi dichiararono che non avrebbero tollerato che un «nazzareno» mettesse piede sul loro territorio, e che d'altronde, se l'osasse, essi saprebbero farlo pentire.

Laing dovette dunque seguire la via d'El-Aruan, ove egli sperava congiungersi ad una carovana di mercanti mori che portavano del sale a Sansanding. Ma non aveva lasciato Timbuctù da cinque giorni, che la carovana, di cui egli faceva parte, fu raggiunta da un fanatico, lo sceicco Hamed-uld-Habib, capo della tribù dei Zauat. Laing fu tosto arrestato sotto pretesto ch'egli era entrato senza permesso nel territorio della tribù. Sollecitato ad abbracciare l'islamismo, il maggiore resistette e dichiarò preferire la morte all'apostasia. Tosto lo sceicco e i suoi sicari discussero il genere di supplizio che dovevano infliggere alla loro vittima, la qual fu tosto strangolata da due schiavi, ed il corpo abbandonato nel deserto.

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Tali sono le notizie che Caillié poté raccogliere sui luoghi ch'egli visitava un anno solo dopo la morte del maggior Laing, Noi le abbiamo completate con alcuni dettagli tolti dal Bollettino della Società di Geografia, perchè insieme al viaggiatore scomparvero per sempre il suo giornale di viaggi e le osservazioni ch'egli aveva potuto raccogliere. Si è raccontato precedentemente come il maggior Laing aveva potuto determinare, approssimativamente, la sorgente del Djoliba. Noi abbiamo descritto inoltre i tentativi fatti da Mungo-Park e Clapperton per l'esplorazione del corso medio di questo fiume. Ci restano a narrare i viaggi che ebbero per iscopo la ricognizione della sua foce e del suo corso inferiore. La prima, in linea cronologica e la più concludente, è quella di Riccardo Lander, l'antico domestico di Clapperton.

Riccardo Lander e suo fratello Giovanni avevano proposto al governo inglese di andare in Africa, per esplorare il corso del Niger sino alla sua foce. La loro offerta fu tosto accettata, ed essi s'imbarcarono sopra un bastimento dello Stato per Badagry, ove arrivarono il 19 marzo 1830.

Il sovrano del paese, Adouly, del quale Riccardo Lander aveva conservato i migliori ricordi, era triste. La sua città era stata bruciata; i suoi generali ed i suoi migliori soldati erano periti in un combattimento contro i Lagos; egli stesso non era sfuggito che a fatica all'incendio che aveva divorato la sua casa e le sue ricchezze.

Gli abbisognò ricostituire il suo tesoro, e risolse di farlo a spese dei viaggiatori. Questi non ottennero il permesso di penetrare nell'interno del paese, che dopo essere stati spogliati delle loro più preziose mercanzie. Essi dovettero anche sottoscrivere un contratto per la compera di un battello a cannoni con cento uomini, per due botticelle di rhum, per venti barili di polvere, infine per una quantità di mercanzie ch'essi ben sapevano non dover essere giammai consegnate a questo

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sovrano tanto insaziabile quanto ubriacone. Del resto se il capo fece prova di egoismo e di avidità;

s'egli non mostrò alcun sentimento generoso, i suoi sudditi non esitarono a mettersi all'unisono e, considerando gli Inglesi come una preda, cercarono tutte le occasioni per spogliarli.

Finalmente il 31 marzo, Riccardo e Giovanni Lander poterono lasciare Badagry. Essi passarono per Wow, città considerevole, Bidjie, ove Pearce e Morrison erano caduti ammalati nella precedente spedizione, Jenna, Ghow, Egga, tutte città che aveva visitate Clapperton, Eugua, ove morì Pearce, Asinara, la prima città cinta da muraglie, che essi abbiano incontrato, Bohu, l'antica capitale dell'Yarriba, Jaguta, Leoguadda, Itcho, il cui mercato è rinomato, e arrivarono, il 12 maggio, a Katunga, preceduti da una scorta che il re aveva mandato innanzi a loro.

Secondo l'usanza, i due viaggiatori sostarono ai piedi d'un albero, prima d'essere ricevuti dal re. Ma, stanchi d'attendere, si recarono alla residenza d'Ebo, capo degli eunuchi, e il personaggio più influente dopo il sovrano, Mausolah, che li ricevette poco dopo, al rumore diabolico dei cembali, delle trombe e della grancassa, l'accolse sì bene, che egli ordinò ad Ebo di far decapitare chicchessia si fosse permesso di importunare i viaggiatori.

Tuttavia, temendo che Mausolah non si trattenesse sino alla stagione delle piogge, Giovanni e Riccardo Lander, dietro il consiglio di Ebo, non parlarono al re dei loro desideri di raggiungere il Niger. Si accontentarono di dire che uno dei loro compatrioti essendo morto a Boussa da una ventina d'anni, il re d'Inghilterra li aveva inviati verso il sultano di Yaurie, alla ricerca delle sue carte.

Benché Mausolah non avesse trattato i fratelli Lander così gentilmente come aveva fatto con Clapperton, tuttavia li lasciò partire otto giorni dopo il loro arrivo.

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Dei numerosi dettagli che dà la relazione originale sopra la città di Katunga e sull'Yarriba, non riterremo che il seguente:

«Rapporto alla ricchezza e al numero della popolazione, Katunga non ha in nessun modo risposto all'idea che ce ne eravamo fatta, Il vasto piano, in mezzo al quale è situata questa città, quantunque assai bello, è inferiore per vigore di vegetazione, di fertilità, per bell'aspetto al delizioso paese di Bohu ch'è assai meno rinomato. Il mercato è abbastanza ben provvisto, ma tutto vi è eccessivamente caro. Le basse classi sono ridotte a privarsi quasi interamente del nutrimento animale, o a contentarsi della carne disgustosa degl'insetti, dei rettili e dei vermi.»

L'incuria di Mausolah, l'imbecille pusillanimità dei suoi sudditi, aveva permesso ai Fellani o Filatah di stabilirsi nell'Yarriba, di trincerarsi nelle città forti e di far riconoscere la loro indipendenza fino al giorno in cui si troverebbero abbastanza forti per stabilire una dominazione assoluta su tutto l'intiero paese.

I fratelli Lander passarono in seguito per Atupa, Bumbum, luogo molto frequentato dai mercanti di Haussa, di Borgu e d'aitò paesi che trafficano con Gongia per Kishi, sulle frontiere di Yarriba, e, per Mussa, sul fiume dello stesso nome. Al di là di questa città, essi furono raggiunti da una scorta che il sultano di Borgu inviò al loro incontro.

Il sultano Yarro ricevette i viaggiatori con testimonianze di soddisfazione e di benevolenza; sembrò mostrare particolare piacere di rivedere Riccardo Lander.

Benché questo sovrano fosse, maomettano, egli aveva più fede nelle pratiche superstiziose dei suoi padri, che nella sua nuova credenza; dei fetichi erano sospesi alla sua porta, e in una delle sue capanne si vedeva una sgabello quadrato, di cui i due lati principali erano sostenuti da quattro piccole figure d'uomini, scolpite in legno.

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Quanto al popolo di Borgu, la sua natura, le sue abitudini, i suoi costumi differiscono essenzialmente da quelli degli Yarribani.

«Questi ultimi, dice la relazione, sono sempre occupati a trafficare da una città all'altra; i primi non lasciano mai le loro dimore che in caso di guerra o per qualche spedizione di saccheggio. Gli uni, pusillanimi e poltroni, gli altri arditi, coraggiosi, intraprendenti, pieni di energia, non sembrano mai così a loro agio che in mezzo ad esercizi guerreschi. Gli Yarribani, generalmente dolci, tranquilli, umili, onesti, ma freddi ed apati; i Borguni, altieri, orgogliosi, troppo vani per essere civili, troppo astuti per essere probi, tuttoché comprendano la passione dell'amore, le affezioni sociali, caldi nei loro affetti e vivi nei loro odi.»

Il 17 giugno, i nostri viaggiatori scorsero finalmente la città di Bussa. La loro sorpresa fu grande nel vedere che questa città era situata in terra ferma, e non sopra un'isola del Niger, come dice Clapperton. Entrati in Bussa per la porta dell'ovest, essi furono quasi subito introdotti dal re e dalla «midiki», o regina, che loro dissero, aver versate, tutti e due, la mattina stessa, delle lagrime abbondanti sulla sorte di Clapperton.

La prima visita dei fratelli Lander fu per il Niger, o Quorra, che scorre ai piedi della città.

«L'aspetto di questo celebre fiume, racconta il viaggiatore, ci ha grandemente disillusi. Delle rocce nere ed aspre si innalzavano al centro, dando luogo, alla superficie, a forti ribollimenti e a correnti che si incrociano. Ci si disse che al disotto di Bussa il fiume era diviso in tre rami da due piccole e fertili isole, e che al di là esso scorre unito e senza interruzione sino a Funda. Qui il Niger, nella sua parte più vasta, non ha che un trar di sasso di lunghezza. La roccia sulla quale eravamo assisi, domina il luogo ove perirono Park e i suoi compagni.» Dapprima fu con una certa circospezione che Riccardo Lander

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prese delle informazioni sui libri e sulle carte che rimanessero del viaggio di Mungo-Park. Tuttavia, incoraggiato dalla benevolenza del sovrano, si decise a fargli delle interrogazioni sulla triste fine dell'esploratore. Ma il sultano era troppo giovane a quell'epoca per sapere ciò che era avvenuto, perchè quella catastrofe si era compiuta sotto il penultimo re; tutt'al più egli avrebbe fatto ricercare quanto ancor rimanesse delle spoglie dell'illustre viaggiatore.

«Dopo mezzogiorno, dice Riccardo Lander, il re è venuto a vederci, seguito da un uomo che portava sotto il braccio un libro, trovato galleggiante sul Niger, dopo il naufragio del nostro compatriota. Era involto in un pezzo di stoffa di cotone, e i nostri cuori battevano, pieni di speranza, mentre l'uomo lo svolgeva lentamente, perchè, dal suo formato, avevamo creduto che doveva essere il giornale di M. Park. Ma fu un gran disinganno il nostro allorché, aprendo il libro, scoprimmo che altro non era se non una vecchia opera del secolo scorso.» Non rimaneva più speranza di ritrovare il giornale del viaggiatore. Il 23 giugno, i fratelli Lander lasciavano Bussa, pieni di riconoscenza per il re, che aveva loro fatto importanti doni e li aveva indotti a non accettare viveri, per paura fossero avvelenati, se non dai governatori delle città ch'essi attraverserebbero. Rimontarono il corso del Niger per terra fino a Kagogì, ove si imbarcarono sopra uno dei cattivi canotti del paese, intanto che i loro cavalli se ne andavano per terra verso Yaourì.

«Non avevamo quasi percorso che qualche centinaio di tese, dice Riccardo Lander, quando il fiume cominciò gradatamente ad allargarsi; e sin dove poteva giungere il nostro occhio c'eran più di due miglia di distanza da una riva all'altra. Era precisamente come un vasto canale artificiale; le rive a picco incassanti le acque come fra piccole muraglie; al di là delle quali si mostrava la vegetazione. L'acqua, bassissima in

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qualche luogo, in altri era abbastanza profonda per portare una fregata. Non si può immaginare nulla di più pittoresco dei luoghi che noi abbiamo percorso durante le due prime ore; le rive erano letteralmente coperte da capanne e da villaggi. Alberi immensi piegavansi sotto il peso del denso fogliame, il cui bruno colore, facendo riposare gli occhi dallo splendore del sole, contrastava singolarmente con la verzura variopinta dei colli e dei piani. Ma, tutto ad un tratto, fu un cambiamento di scena completo. A questa riva, composta di terriccio, d'argilla e di sabbia, succedettero delle rocce nere, aspre; e questo grande specchio, che rifletteva il cielo, fu diviso in mille piccoli canali da larghi banchi di sabbia.»

Un po' più lungi, la corrente era arrestata da un muro di rocce brune, non lasciando che una stretta apertura attraverso la quale le acque si precipitavano con furore. Vi ha costì una specie di portale, al disopra del quale il Niger riprende il suo corso, largo, tranquillo e maestoso.

Dopo tre giorni di navigazione, i fratelli Lander arrivarono ad un villaggio ove uomini e cavalli li attendevano. Essi non tardarono a raggiungere, a traverso un paese che si eleva gradatamente, la città di Yaourì.

I viaggiatori furono ricevuti in una specie di corte di cascinale, tenuta con pulizia dal sultano, uomo grasso, sudicio e ripugnante, ma che aveva la ciera d'un buon diavolo.

Spiacentissimo che Clapperton non l'avesse visitato e che Riccardo Lander, nel suo viaggio di ritorno, si fosse dispensato dal rendergli omaggio, questo sultano si mostrò d'una rapacità ributtante. Non volle fornire ai viaggiatori le provvigioni di cui avevano bisogno, e mise in opera tutte le sue astuzie per trattenerli il maggior tempo possibile.

Aggiungiamo che i viveri, a Yaourì, erano assai cari, e che Riccardo Lander non aveva più, come mercanzia, che degli aghi «garantiti sopraffini per non rompere il filo», senza

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dubbio, perchè essi mancavano della cruna necessaria per infilarli. Così i viaggiatori furono obbligati a disfarsene.

Perciò trassero partito di parecchie scatole di latta, che avevano contenuto delle tavolette di brodo, le cui etichette, benché annerite e scolorate, eccitavano il desiderio degli indigeni. Uno di questi, in un giorno di mercato, ottenne un gran successo portando sulla sua testa, affisso in quattro punti

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differenti, questo avviso: «Eccellente succo di carne concentrata.»

Non volendo lasciare penetrare gli Inglesi né nel Nyffé, né nel Bornu, il sultano di Yaourì dichiarò che non restava loro che riguadagnare Bussa. Riccardo Lander tosto domandò per lettera al re di questa ultima città l'autorizzazione di comperare un canotto per raggiungere Funda, essendo la via di terra infestata di Fellani, che si davano al saccheggio.

Infine, il 26 luglio, un messaggiero del re di Bussa venne ad informarsi dell'inqualificabile condotta del sultano di Yaourì e delle cause del ritardo ch'egli metteva a rinviare gli Inglesi a Bussa. Dopo una prigionìa di cinque settimane, i fratelli Lander poterono dunque lasciare questa città, allora quasi interamente inondata.

Essi rimontarono il Niger fino al confluente del fiume Cubbi, poi ridiscesero a Bussa, il cui re, lieto di rivederli, li accolse con la più schietta cordialità. Essi furono tuttavia, trattenuti più a lungo che essi non avrebbero voluto, prima di tutto per la necessità di fare una visita al re Wowu, poi per la difficoltà di procurarsi una barca. Inoltre vi fu il ritardo dei messaggeri che il re di Bussa aveva inviati ai vari capi degli Stati che circondavano il fiume, e infine il consulto di «Beken ruah» (l'acqua nera), che promise di condurre i viaggiatori sani e salvi fino al mare. Lasciando il re, i due fratelli non poterono che esprimergli i sentimenti di riconoscenza che loro avevano ispirato la sua benevolenza, la sua ospitalità, le sue attenzioni, il suo zelo a difendere i loro interessi, la protezione di cui egli non aveva cessato di dar loro delle prove durante un soggiorno di circa due mesi ch'essi avevano fatto nella sua capitale. Questo sentimento di rincrescimento era pur diviso dagli indigeni che, ginocchioni sul passaggio dei fratelli Lander, le mani levate al cielo, chiamavano sopra di essi la protezione della loro divinità.

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Allora cominciò la discesa del Niger. A tutta prima bisognò arrestarsi nell'isoletta di Melalie, il cui capo pregò i viaggiatori di accettare un bellissimo capretto; essi erano certamente troppo educati per rifiutarlo. I due Lander attraversarono in seguito la grande città di Congi, la Songa di Clapperton, poi Inguazilligi, passaggio generale dei mercanti che vanno e vengono dal Nyffé ai paesi posti al nord-est di Borgu, e si arrestarono a Pataschi, grande isola, ricca, d'una bellezza inesprimibile, seminata da boschetti di palme e da grandi e magnifici alberi.

Siccome questo luogo non era lontano da Wowu, Riccardo Lander inviò un messaggiero al re di questa città, che si rifiutava di dare il canotto acquistato per suo conto. L'inviato non avendo ottenuto favorevoli risultati, i viaggiatori furono dunque obbligati d'andare a trovare questo monarca, ma non ottennero, come era d'aspettarsi, che delle proteste equivalenti ad un rifiuto. Ond'essi non ebbero altra risorsa per continuare il loro viaggio, che di rubare i canotti che si erano loro prestati a Patashi. Il 4 ottobre, dopo nuovi ritardi, essi ripresero la loro corsa, e, portati dalla corrente, perdettero bentosto di vista Lever o Layaba, e i suoi miserabili abitanti.

In quei pressi le sponde del fiume si elevano di circa quaranta piedi al disopra dell'acqua e sono press'a poco perpendicolari. Il fiume, libero da ogni scogliera, si dirige direttamente al sud.

La prima città che incontrarono i due fratelli, è Bajiebo, grande e spaziosa, che non ha una seconda per il modo sporco con cui è tenuta e per il chiasso e il disordine. Poi venne Litchi, abitata da Nyffeni e Madgi, presso cui il Niger si divide in tre canali. Dopo alcuni minuti, al momento in cui oltrepassavano una nuova isola, i viaggiatori si trovarono ad un tratto in vista d'una rupe di duecentottantun piedi di altezza, chiamata Resa, o Kesy, che s'inalza perpendicolarmente in mezzo al fiume. Essa

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è grandemente venerata dagli indigeni, persuasi come sono che un genio benefico ne abbia fatto il suo soggiorno favorito.

Un poco prima di Rabba, all'isola di Bili, i fratelli Lander ricevettero la visita del re delle «Acque nere», sovrano dell'isola di Zangoshi, sopra un canotto d'una lunghezza straordinaria, d'una pulizia insolita, ornato di panno scarlatto e di galloni d'oro. Il giorno stesso giungevano alla città di Zangoshi, posta dirimpetto a Rabba, la seconda dei Fellani, dopo Sokatu.

Il re di questa città, Mallam-Dendo, era un cugino di Bello. Vecchio, cieco, assai indebolito, con la salute rovinata, persuaso di non avere più che pochi anni da vivere, non aveva più altre preoccupazioni che di assicurare il trono a suo figlio.

Benché egli avesse ricevuto doni d'un valore rilevante, Mallam-Dendo si mostrò molto malcontento, dichiarando che se i viaggiatori non gli facevano dei regali più utili e di un altro prezzo, egli esigerebbe i loro fucili, le loro pistole, la loro polvere, prima di lasciarli partire da Zangoshi.

Riccardo Lander, disperato, non sapeva cosa fare, quando il dono della toh è (vestito) di Mungo-Park, che il re di Bussa gli aveva reso, gettò Mallam in tali trasporti di gioia, ch'egli si dichiarò il protettore degli Europei, promise di fare di tutto per aiutarli a raggiungere il mare, e fece loro dono di stuoie intrecciate dei più ricchi colori, di due sacchi di riso e di banane. Queste provvigioni arrivarono a proposito perchè tutta la provvista di panno, di specchi, di rasoi di pipe era esaurita, e non rimanevano più agli Inglesi che degli aghi e alcuni braccialetti d'argento da distribuire ai capi che incontrerebbero sul Niger.

«Veduta da Zangoshi, dice Lander, Rabba dà l'idea d'una città assai vasta, pulita, ben fabbricata. Senza difesa, senza fortificazioni, non è cinta da muri. Essa è costruita irregolarmente sul pendìo di una collina, al piede della quale

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scorre il Niger. In grandezza, popolazione e ricchezza, è la seconda città dei Fellani. La popolazione è un miscuglio di Fellani, di Nyffeni, di emigrati e di schiavi di diversi paesi. Essa riconosce l'autorità d'un (governatore al quale si dà il titolo di sultano1 o re. Rabba è celebre per il frumento, l'olio e il miele. Il mercato, quando vi andarono i nostri uomini, era ben fornito di buoi, di cavalli di muli, di asini, di montoni, di capre e di pollami. Si offriva da ogni parte del riso, del frumento, del cotone, del panno dell'indaco, delle selle, delle briglie di cuoio giallo e rosso, delle scarpe, degli stivali e dei sandalli. I duecento schiavi che erano stati visti alla mattina erano ancora esposti in vendita la sera. Rabba non ha nessuna fama nell'industria; però la sua fabbricazione di stuoie e sandali è senza rivali, mentre che in tutti gli altri mestieri questa città cede il passo a Zangoshi.»

L'attività, l'amore al lavoro degli abitanti di quest'ultima città, fanno una gradevole sorpresa in questo paese di poltroni. Ospitalieri, obbliganti, essi sono protetti contro i Fellani dalla situazione della loro isola. Indipendenti, non riconoscono altra autorità che quella del re delle «Acque nere», anche perchè è nel loro interesse di obbedirgli.

Il 16 ottobre, Riccardo Lander e suo fratello partirono finalmente sopra una cattiva piroga, che il re aveva loro venduto a caro prezzo, e dopo aver rubato dei remi che nessuno voleva vendere loro. Era la prima volta ch'erano in istato di navigare sul Niger senza l'aiuto di stranieri.

Discesero il fiume, la cui larghezza era molto varia, evitando possibilmente le grandi città perchè sarebbero stati nell'impossibilità di soddisfare alle esigenze dei governatori.

Sino a Egga, nessun incidente venne a turbare questa pacifica navigazione. Soltanto una notte, i viaggiatori, nell'impossibilità di sbarcare in mezzo alle paludi che costeggiano il fiume, furono obbligati di lasciarsi trasportare

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dalla corrente allorché scoppiò un temporale spaventevole, durante il quale poco mancò non venissero sommersi da una frotta di ippopotami che si trastullavano alla superficie delle acque.

Il Niger scorreva, durante quel tempo, quasi sempre all'est ed al sud-est, largo ora otto miglia, ora due soltanto. La sua corrente era tanto rapida che l'imbarcazione filava con una velocità di quattro o cinque miglia all'ora.

Il 19 ottobre, Riccardo Lander passò davanti alla foce della Cudunia, fiume ch'egli aveva già attraversato presso Cuttup, nella sua prima missione, e, qualche tempo dopo, scorse Egga. Raggiunse tosto il luogo di sbarco, rimontando una baia, ingombra d'un numero infinito di grandi e massicci canotti, carichi di mercanzie, colle prore tinte di sangue e coperte di piume — ornamento e preservativo contro i ladri.

Il capo, in presenza del quale i viaggiatori furono subito condotti, era adorno di una lunga barba bianca, ed avrebbe avuto l'aspetto il più venerabile e l'aria d'un patriarca, se non avesse riso e giuocato, come un vero fanciullo. I nativi del paese accorsero ben tosto a centinaia per vedere questi stranieri dal volto tanto singolare; e questi ultimi dovettero mettere tre uomini in sentinella alla loro porta per tenere in distanza i curiosi.

«Parecchi degli abitanti di Egga, dice Riccardo Lander, vendono delle tele e dei panni di Benin e di Portogallo, ciò che rende probabile l'esistenza di una comunicazione di siffatto luogo con la costa. I nativi sono speculatori, intraprendenti, e molti occupano tutto il loro tempo in traffici, discendendo e rimontando il Niger. Essi vivono sempre nei loro canotti, e il piccolo tetto, o rimessa che hanno a bordo, serve loro di abitazione; vi si vive come in capanne… La persuasione dei nativi che noi non abbiamo che a volere per compiere le cose le più difficili, ci ha dapprima divertiti; ma sono tanto importuni

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che divengono noiosi. Essi ci domandano degli incantesimi per scongiurare le guerre e altre calamità nazionali, dei talismani per arricchirsi, per impedire ai coccodrilli di portar via le persone, per pescare tutti i giorni un canotto pieno di pesci. Questa ultima richiesta ci fu indirizzata dal capo dei pescatori, con un regalo conveniente sempre offerto in appoggio della preghiera, e d'un valore proporzionato alla sua importanza… La curiosità del popolo per vederci è così forte, che noi non osiamo fare un passo al di fuori; e, per aver dell'aria, siamo obbligati, tutto il giorno, di tenere la porta aperta, camminando e girando intorno al nostro tugurio, il solo esercizio che ci sia permesso di fare, come belve feroci in gabbia. Quella gente ci guarda fissamente, con un senso di terrore e di sorpresa, presso a poco come si guardano in Europa le tigri tenute in un serraglio. Se ci facciamo alla porta, essi indietreggiano col più grande spavento e tutti tremanti; ma, appena ci vedono all'altra parte della capanna, si avvicinano quel tanto che lo permetta la loro paura, in silenzio e colle più grandi precauzioni.»

Egga è una città d'un'estensione prodigiosa, e la sua popolazione deve essere immensa. Come quasi tutte le città fabbricate sulle rive del Niger, essa è inondata ogni anno. Bisogna credere che i nativi abbiano le loro buone ragioni per fabbricare delle case in mezzo a luoghi che sembrano tanto incomodi e malsani.

Non sarebbe forse perchè il suolo dei dintorni non è altro che un terriccio grasso e nero, e straordinariamente fertile, che fornisce loro tutte le produzioni necessarie all'esistenza senza grande lavoro?

Il capo d'Egga benché paresse avere più di cento anni, era tutto gioia ed allegrezza. I personaggi più importanti della città si riunivano nella sua casa e passavano delle intere giornate a cicalare.

«Questa società di barbe grigie, racconta il viaggiatore,

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ride così di cuore, e gioisce dei suoi motti con tanta espansione, che si vedono invariabilmente i passanti soffermarsi davanti alla capanna, ascoltare ed unirsi alle rumorose manifestazioni di gioia che risuonano nell'interno; tanto, che, dalla mattina alla sera, noi non udiamo da quella parte che un continuo uragano di applausi.»

Un giorno il vecchio capo volle far mostra dei suoi talenti, davanti agli stranieri, come cantante e ballerino, a fine di colpirli di sorpresa e di ammirazione.

«Sgambettando sotto il peso dei suoi anni e scuotendo i ricci dei capelli bianchi, dice il viaggiatore, fece una quantità di salti e capriole, con gran piacere degli spettatori, le cui risa, solo modo di applaudire fra gli Africani, stuzzicarono così fortemente la vanità e l'immaginazione del vegliardo, ch'egli fu obbligato ad aiutarsi con una gruccia per continuare. Seguitò ancora un poco, zoppicando; ma, le sue forze esauste, dovette fermarsi e mettersi a sedere vicino a noi sulla soglia della capanna. Per tutto l'oro del mondo, non avrebbe voluto mostrarci la sua debolezza. Tutto ansante com'era, procurava di respirare adagio e trattenere il fiato sibilante ed affannoso. Fece un secondo tentativo di ballo e canto; ma la natura non secondò i suoi sforzi, e la sua voce debole e tremante si sentiva appena. Pure i cantatori e le cantatrici, i ballerini e i musicanti continuarono il loro concerto rumoroso, sino a che, stanchi di guardarli e di ascoltarli e sopraggiungendo la notte, li pregammo di ritirarsi con grande rincrescimento del frivolo vecchio.»

Però, Mallam-Dendo sconsigliò gli Inglesi a continuare a discendere il corso del fiume. Egga era, diceva egli, l'ultima città del Nyffé; il potere dei Fellani non si estendeva al di là, e non si incontravano più, sino al mare, che piccole popolazioni barbare e selvagge, sempre in guerra le une contro le altre.

Questi racconti e le storielle che gli abitanti avevano

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narrate ai compagni dei due Lander sul pericolo ch'essi andavano ad incontrare di essere sgozzati o presi e venduti come schiavi, li avevano tanto impauriti, ch'essi ricusarono d'imbarcarsi, volendo ritornare al Caipo-Coast-Castle per la strada ch'essi avevano di già percorsa.

Grazie però alla fermezza dei due fratelli, questa specie di rivolta non ebbe luogo, e il 22 ottobre gli esploratori lasciarono Egga, salutandola con tre colpi di moschetto.

Percorse alcune miglia, un gabbiano passava al di sopra delle loro teste, indizio della vicinanza del mare, certezza quasi assoluta che toccavano finalmente il termine del loro faticoso viaggio.

Parecchi villaggi, piccoli e poveri, a mezzo sepolti sotto l'acqua, una città considerevole, al piede di un'alta montagna che sembra schiacciata, della! quale i viaggiatori non poterono sapere il nome, vengono passati volta a volta. Si incontra un numero immenso di canotti, costruiti come quelli dei fiumi Bonny e Calabar. I loro equipaggi guardano, non senza meraviglia, questi uomini bianchi, coi quali non osano parlare.

Le rive del Niger, basse e pantanose, divengono ben presto più alte, più ricche, più fertili.

Kacunda, ove gli abitanti d'Egga avevano raccomandato a Riccardo Lander di fermarsi, è situata sopra la sponda occidentale del fiume. Vista un po' di lontano, essa presenta un aspetto singolarmente pittoresco.

Gli indigeni furono dapprima allarmati all'apparire dei viaggiatori. Un vecchio Mallam, prete e istitutore musulmano, li prese sotto la sua) protezione. Mercè sua, i due fratelli ricevettero una benevola accoglienza in questa capitale di un regno indipendente del Nyffé.

Le notizie che i viaggiatori raccolsero in questa città, o piuttosto in questa riunione di quattro villaggi, concordavano con quelle raccolte ad Egga. Perciò Riccardo Lander prese il

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partito di non più viaggiare che la notte e di caricare di palle e di pallini i quattro fucili e le due pistole che loro restavano. Checché ne fosse, i nostri esploratori, con grande meraviglia degli indigeni, che non sapevano credere a un tal disprezzo della vita, lasciarono Kacunda, dando in tre acclamazioni rumorose e «rimettendo la loro sorte nelle mani di Dio.»

Passarono così davanti a diverse città importanti, che evitarono con cura. Il corso del fiume, durante questo tempo, cambiò diverse volte, girando dal sud al sud-est, poi al sud-ovest fra alte colline.

Il 25 ottobre, gli Inglesi si trovarono davanti la foce di un gran fiume. Era la Tchadda o Bénué. Al suo confluente si stendeva una città importante di faccia al Niger e la Bénué. Era Cutumcuraffi.

Infine, dopo essersi quasi perduto in un golfo e schiacciato contro le rocce, Riccardo Lander, scoprendo un luogo adatto e inabitato sulla riva destra, si determinò a sbarcare.

Questo luogo era stato visitato poco tempo prima, come ne facevano testimonianza i fuochi estinti, gli alberi di zucche infanti, i rottami di vasi di terra sparsi al suolo, i gusci di noci di cocco e barili di polvere, che furono raccolti non senza emozione, perchè in quegli avanzi era la prova che gli indigeni mantenevano delle relazioni cogli Europei.

Però, alcune donne erano fuggite, spaventate da tre uomini del seguito di Lander, che si erano introdotti in un villaggio per cercarvi del fuoco. I viaggiatori, spossati, si riposavano sopra stuoie, quando si videro subito circondati da un manipolo di uomini quasi nudi, armati di fucili, di archi, di treccie, di coltellacci, di ramponi di ferro e di lande.

Il sangue freddo e la presenza di spirito dei due fratelli, impedirono soli una lotta che sembrava inevitabile e di cui il risultato non poteva essere dubbio. Gettando le loro armi a terra, si avvicinarono verso il capo di quei forsennati.

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«Intanto che noi ci avvicinavamo, racconta Lander, facemmo colle braccia un gran numero di segni, per indurlo, lui ed il suo popolo, a non tirare su di noi. Il suo turcasso dondolava appeso al suo fianco; l'arco era teso ed una freccia,

diretta al nostro petto, tremava, pronta a partire, quando fossimo stati a pochi passi da lui. La Provvidenza sviò il colpo, poiché, mentre il capo si disponeva a lasciare la corda fatale,

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l'uomo il più vicino a lui si gettò innanzi fermandogli il braccio. Eravamo allora faccia a faccia, e subito gli stendemmo la mano. Tutti tremavano come foglie. Il capo ci guardò fissamente, si gettò ginocchioni. La sua fisionomia assunse un'espressione indefinibile, mista a timidezza e spavento, e dove tutte le passioni, buone e cattive, parevano in lotta; alla fine, lasciò cadere il capo sul petto, afferrò le mani che gli tendevamo e proruppe in dirotto pianto. Da quel momento l'armonia fu ristabilita; i pensieri di guerra e di sangue diedero luogo ai migliori e più cordiali rapporti.

«Ho creduto che voi foste i figli del cielo caduti dalle nubi», disse il capo per spiegare il suo cambiamento subitaneo.

«Fu una fortuna per noi, aggiunge Lander, che i nostri visi bianchi e la nostra condotta così calma, abbiano imposto così fortemente a questo popolo. Un momento ancora e i nostri corpi sarebbero stati trafitti da tante freccie quanti dardi ha un porco spino.»

Quel luogo era il famoso mercato di Bocqua, di cui i viaggiatori avevano tanto spesso udito parlare, dove si viene in folla dalla costa per scambiare le mercanzie dei bianchi con degli schiavi, menati in gran numero dal Funda che si trova sulla riva opposta.

Le notizie raccolte in quel sito, erano delle più favorevoli. Il mare non era più che a dieci giornate di cammino. La navigazione, aggiungeva il capo di Bocqua, non offriva nessun pericolo; solo gli abitanti delle coste erano «cattivissima gente».

Seguendo i consigli di questo capo, i due fratelli passarono davanti alla bella e grandissima città di Atta, senza però sbarcarvi e si riposarono ad Abbazaca, ove il Niger si divide in parecchi rami, ed il cui capo fece prova d'una avidità insaziabile. Poi i viaggiatori rifiutarono di scendere a due o tre villaggi, ove li si pregava con insistenza di fermarsi per

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soddisfare la curiosità dei nativi, e furono obbligati di sbarcare al villaggio di Damuggo, dove un omiciattolo, portante una veste d'uniforme, li aveva chiamati in inglese al grido di: «Olà! oh! Inglesi, venite qui.» Quest'uomo era un messaggero del re di Bonny, venuto per comperare degli schiavi per conto del suo padrone.

Il capo di questa città, che non aveva mai veduto uomini bianchi, ricevette assai bene gli esploratori. Ordinò delle feste pubbliche in loro onore, e li trattenne sino al 4 novembre. Benché il feticcio ch'egli aveva consultato, presagisse che sarebbero assaliti da mille pericoli prima di giungere al mare, questo sovrano fornì loro un altro canotto, dei rematori ed una guida.

Le sinistre predizioni dei feticci non tardarono ad avverarsi. Giovanni e Riccardo Lander erano saliti su due imbarcazioni differenti. Passando davanti ad una bella città, che seppero essere Kirri, furono arrestati da lunghi canotti di guerra, montati, ciascuno, da una quarantina d'uomini, coperti di vestiti d'europei, salvo i pantaloni.

Questi canotti portavano, all'estremità, lunghe tranne di bambù, grandi padiglioni colle armi della Gran Bretagna, erano decorati di sedie, di tavole, di ampolle e di altri emblemi. Ciascuno dei loro neri marinai aveva un fucile, ed ogni imbarcazione mostrava, ormeggiata alla prora, un lungo pezzo di artiglieria da quattro o da sei.

I due fratelli furono condotti a Kirri. Si tenne subito un conciliabolo sulla loro sorte. Fortunatamente alcuni sacerdoti maomettani o «mallam», parlarono in loro favore e fecero restituire loro una parte degli oggetti di cui erano stati derubati; ma la più gran parte se n'era colata a fondo col canotto di Giovanni Lander.

«Con mia grande soddisfazione, dice Riccardo Lander, riconobbi subito la cassa che conteneva i nostri libri e uno dei

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giornali di mio fratello; la scatola di farmacia era lì presso, ma entrambe piene d'acqua. Un gran sacco da notte di drappo che aveva contenuto le nostre vestimenta, era aperto e quasi vuoto; non vi restava più che una sola camicia, un paio di pantaloni e un vestito; diversi oggetti di valore erano spariti. I miei giornali, ad eccezione d'un libro di note, ove io avevo scritto le mie osservazioni da Rabba fino a qui, erano scomparsi. Mancavano quattro fucili, uno dei quali aveva appartenuto a Mungo-Park, quattro coltellacci e due pistole. Nove zanne d'elefanti, le più belle che io avessi mai veduto in paese, doni dei re di Wowu e di Bussa, una quantità di penne di struzzo, alcune belle pelli di leopardi, una grande varietà di minuterie, tutti i nostri bottoni, i nostri aghi, tanto necessari per fungere da moneta per l'acquisto delle provvigioni, tutto era sparito e stava, secondo ciò che assicuravasi, in fondo al fiume.»

Era davvero un naufragare in porto! Avere attraversata tutta l'Africa da Badagry fino a Bussa, essere scampati ai pericoli della navigazione sul Niger, essere felicemente sfuggiti a tanti sovrani rapaci, per far naufragio a sei giornate dal mare, per essere ridotti in ischiavitù o condannati a morte, proprio al momento di far conoscere all'Europa maravigliata il prezioso risultato di tanti mali sofferti, di tanti pericoli evitati, di tanti ostacoli felicemente superati; aver determinato il corso del Niger da Bussa, essere sul punto di fissare definitivamente la sua foce, e vedersi arrestati da miserabili pirati, era di troppo, e ben amare furono le riflessioni dei due fratelli, durante tutto il tempo che durò quell'interminabile conciliabolo.

Se la loro roba rubata, era stata resa in parte, se il negro che aveva incominciato le ostilità era stato condannato ad aver mozza la testa in espiazione della sua colpa, i due fratelli non per questo avrebbero cessato d'essere considerati come prigionieri; essi dovevano essere condotti ad Obie, re del paese d'Eboe, che avrebbe deliberato sulla loro sorte.

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Era evidente che questi predatori non erano originari del paese, e che non vi erano venuti se non allo scopo d'esercitare la loro pirateria. Contavano senza dubbio, di commerciare su due o tre mercati come Kirri, se non incontrassero delle flottiglie troppo forti per lasciarsi saccheggiare senza combattimento. D'altronde, tutte le popolazioni di questa parte del Niger, mostravano un'eccessiva diffidenza le une per le altre, e la compra delle provvigioni non si faceva che armati.

Dopo due giorni di navigazione i canotti arrivarono in vista di Eboe, in un luogo ove il fiume si divide in tre rami d'una prodigiosa grandezza, dalle sponde basse, pantanose e ricoperte di palmizi.

Un'ora più tardi, l'8 di novembre, uno degli uomini dell'equipaggio, nativo d'Eboe, esclamò: «ecco il mio paese!»

Colà, nuove complicazioni aspettavano gli esploratori. Obie, il re d'Eboe, era un giovinotto dalla fisionomia sveglia ed intelligente, il quale ricevette i viaggiatori con affabilità. Il suo costume, che ricordava quello del re di Yarriba, era adorno d'una tale profusione di coralli, che si sarebbe potuto chiamarlo il «Re-Corallo».

Decisamente, parve tocco dal racconto dell'attacco, nel quale gli Inglesi avevano perduto tutte le loro mercanzie, ma i soccorsi che egli distribuì loro, non furono all'altezza dei suoi sentimenti, e li lasciò quasi morir di fame.

«Gli abitanti d'Éboe, come la maggior parte degli Africani, sono estremamente indolenti, dice la relazione, e non coltivano che la dioscorea, il mais ed il plantanier (banano). Essi hanno molte capre e molti volatili, ma pochi montoni, punto bestiame grosso. La città assai vasta, è situata in una pianura scoperta e contiene una popolazione numerosa: come capitale del regno, non porta altro nome che quello di «paese d'Éboe». Il suo olio di palma è assai rinomato. Da molti anni è il principale mercato di schiavi, a cui vengono a provvedersi gl'indigeni che fanno

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questo commercio sulle coste, tra il fiume Bonny e quello del vecchio Calabar. Centinaia di naturali risalgono questi fiumi per venire qui a trafficare, e in questo stesso momento ve n'è un gran numero nei loro canotti, allineati in faccia alla città. Quasi tutto l'olio comperato dagl'Inglesi a Bonny e nei luoghi circostanti, proviene di qui, come pure, tutti gli schiavi che le navi negriere francesi, spagnuole e portoghesi, vengono a caricare alla costa. Parecchie persone ci hanno detto che il popolo di Eboe è antropofago; e questa opinione è più accreditata fra le tribù vicine, che fra quelle dell'interno.»

Da tutto quello che i viaggiatori apprendevano, diventava certo per essi che Obie non li rilascierebbe che al prezzo d'un ingente riscatto. Questo sovrano poteva, senza dubbio, esservi spinto ad! istigazione dei suoi favoriti; ma ciò che lo confermò nella sua determinazione, furono, principalmente, l'avidità e le sollecitazioni degli abitanti dì Bonny e di Brass, che si disputavano a chi avrebbe toccato condurre gli Inglesi nel loro paese.

Un figlio dell'ultimo capo di Bonny, il re Peper (Pepe), un nominato Gun (Fucile), fratello del re Boy (Ragazzo) e il loro padre, il re Forday, che col re Jacket (Giacchetta) governa tutto il paese di Brass, erano i più accaniti. Essi in testimonianza della loro onorabilità, produssero i certificati dati a loro dai capitani europei, coi quali erano stati in relazione d'affari.

Uno di quei documenti, firmato James Dow capitano del brick La Susanna, di Liverpool, e datato dal primo fiume di Brass, settembre 1830, era così concepito:

«Il capitano Dow dichiara non aver mai incontrato una frotta di più grandi miserabili come gl'indigeni in generale e i piloti in particolare.»

Poi, continuando sullo stesso tono, li copriva di contumelie, trattandoli come birbanti, che avevano cercato di far perdere la sua nave contro le roccie, alla foce del fiume,

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affine di dividerne le spoglie. Il re Jacket eravi trattato come un briccone e un ladro matricolato". Boy era il solo pressoché onesto e degno di fiducia.

Alla fine d'un interminabile conciliabolo, Obie dichiarò che secondo le leggi e i costumi del paese, egli aveva diritto di riguardare i fratelli Lander e il loro seguito come sua proprietà ma che, non volendo abusare de' suoi vantaggi, si contenterebbe di cambiarli contro il valsente di venti schiavi in tante mercanzie inglesi.

Siffatta decisione, sulla quale Riccardo Lander tentò indarno di stornare il re Obie, gettò i due fratelli in una violenta disperazione, che fu tosto seguita da un'apatia e da un'indifferenza tale, che sarebbero stati incapaci del benché minimo sforzo per ricuperare la loro libertà. Aggiungasi a queste pene morali, l'indebolimento fisico cagionato dalla mancanza di cibo, e si capirà la spossatezza nella quale erano caduti i due viaggiatori.

Senza risorse d'alcuna sorta, spogliati dei loro aghi e degli oggetti di scambio, furono ridotti alla triste necessità di mendicare il loro cibo.

«Altrettanto avrebbe valso, dice Lander, indirizzare le nostre preghiere alle pietre ed agli alberi; ci fossimo almeno risparmiata l'umiliazione di un rifiuto. Nella maggior parte delle città dell'Africa, eravamo stati presi per semidei, e trattati in conseguenza con una venerazione, un rispetto universale. Ma qui, ohimè! quale contrasto! Siamo in mezzo ad esseri i più degradati e fra i più miserabili schiavi, in questa terra d'ignoranza, oggetto allo scherno e al disprezzo di orde di barbari.»

Infine fu Boy che la vinse, perchè acconsentì a pagare a Obie tutto quello che domandava per il riscatto dei due fratelli e del loro seguito. In quanto a lui, si mostrò assai moderato, non esigendo pel suo disturbo e pei rischi ai quali andava

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incontro, trasportandoli a Brass, che il valore di quindici barre o quindici schiavi, e un barile di rhum. Benché questa domanda fosse esorbitante, Riccardo Lander non esitò a fare un buono di trentasei barre sopra il capitano inglese Lake che comandava un bastimento all'ancora nel fiume di Brass.

Il canotto del re, sul quale s'imbarcarono i due fratelli, il 12 novembre, portava sessanta persone, di cui quaranta rematori. Munito d'un cannone da quattro a prora, d'un arsenale di coltellacci e di mitraglie e di mercanzie di ogni genere, esso era scavato in un solo tronco d'albero e misurava più di cinquanta piedi di lunghezza.

Le immense coltivazioni che si vedevano sulle sponde del fiume, indicavano che la popolazione era molto più considerevole che non lo sembrasse. Il paese era in pianura, aperto, variato, e il suolo di un ricco terriccio nero, portava degli alberi e degli arbusti d'una infinita ricchezza di rami.

Il 14 novembre, alle sette di sera, il canotto abbandonò il braccio principale ed entrò nel fiume di Brass. Un'ora più tardi, con una gioia inesprimibile, Riccardo Lander sentì l'effetto della marea.

Un poco più lontano, il canotto di Boy raggiunse quelli di Gun e di Forday. Quest'ultimo vecchio dall'aspetto venerabile, benché miseramente vestito, metà all'europea, metà alla moda del paese, aveva una predilezione notevole per il rhum, di cui bevve un'immensa quantità, senza che i suoi modi o la sua conversazione ne risentissero.

Era uno strano corteo quello che accompagnò i due Inglesi sino alla città di Brass.

«I canotti, dice Lander, si seguivano in fila abbastanza regolarmente, spiegando ciascuno tre bandiere. Alla prora del primo, il re Boy stava in piedi, la testa coronata da lunghe piume che ondulavano ad ogni movimento del suo corpo, coperto di figure le più fantastiche, bianche su fondo nero. Si

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appoggiava su due enormi lancie a dentatura, che lanciava con forza di quando in quando in fondo al canotto come se avesse ucciso qualche animale selvaggio e spaventevole, giacente a'suoi piedi. Alla prora degli altri canotti, alcuni preti eseguivano delle danze e facevano mille contorsioni bizzarre. La loro persona, come quelle della gente del seguito, era tinta nell'istesso modo di quella del re Boy, e, per completare il tutto, il signor Gun si affannava correndo dalla testa alla coda della fila, ora il primo, ora l'ultimo, aumentando l'effetto imponente al corteo colle scariche ripetute dei suo unico cannone.»

Brass si compone di due città, l'una appartenente a Forday, l'altra al re Jacket. Prima di sbarcare, i preti procedettero a delle cerimonie delle quali i bianchi erano l'oggetto evidente. Il risultato di questo consulto del feticcio della città fu esso favorevole agli stranieri? É ciò che la condotta degli indigeni a loro riguardo doveva rivelare.

Prima ancora di aver toccato terra, Riccardo Lander scorse, con una viva emozione di gioia, un uomo bianco sulla sponda. Era il capitano d'uno schooner spagnuolo all'ancora nel fiume.

«Fra tutti gli angoli sudici schifosi, dice la relazione, non ve n'è uno al mondo che possa vincere questo, né offrire all' occhio d' uno straniero, più miserabile aspetto. In questa abominevole città di Brass, tutto è fango e porcheria. I cani, le capre ed altri animali, ingombrano le strade fangose; hanno l'aspetto d'affamati e gareggiano in miseria con disgraziate creature umane, macilente e scarne, dalla fisionomia orribile, il cui corpo è coperto di larghe pustole e i cui tuguri cadono in ruina a cagione della negligenza e dell'improprietà,»

Un'altra località, chiamata dagli Europei la città dei Piloti, a motivo di un gran numero di piloti che l'abitano, è situata alla» foce del fiume Noun o Nun, a settanta miglia da Brassi.

Il re Forday intendeva opporsi a che i due fratelli Lander

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non lasciassero la città senza pagargli quattro barre. Era l'uso, diceva egli, che ogni uomo bianco che veniva a

Brass nel fiume, fosse sottomesso a questo tributo. Non era possibile resistere, e Riccardo Lander staccò un altro buono sul capitano Lake.

A questa condizione, Riccardo Lander ebbe il permesso di raggiungere nel canotto reale di Boy il brick inglese di stazione alla foce del fiume. Suo fratello e la gente del suo seguito non dovevano essere rilasciati che al ritorno del re.

Ma arrivando su questo brick, quale non fu lo stupore e la vergogna di Lander al vedere il capitano Lake rifiutargli qualunque soccorso! Allora, gli fece leggere le istruzioni che aveva ricevute dal Ministero per provargli che non era un impostore.

«Se credete, rispose il capitano, avere a fare con un imbecille o con un pazzo, vi sbagliate. Io non terrò conto alcuno ne della vostra parola, né del vostro biglietto. Il diavolo mi porti, se avrete da me un sol centesimo!»

Poi bestemmiando e spergiurando, Lake lasciò sfuggirsi le parole più offensive per gli Inglesi.

Affranto dal dolore per questa disgrazia impreveduta da parte di un compatriota, Riccardo Lander ritornò al canotto di Boy, non sapendo a che partito appigliarsi, e domandò a quest'ultimo di condurlo a Bonny, dove si trovava una quantità di navi inglesi. Il re non volle consentirvi; Riccardo Lander si vide dunque obbligato d'intenerire il capitano, domandandogli di dargli soltanto 10 fucili, dei quali forse il re si contenterebbe.

— Vi ho già detto ch'io non vi darò nemmeno una pietra da fucile, rispose Lake. Non mi seccate più!

— Ma io ho lasciato mio fratello e otto persone a Brass, riprese Lander, e se non volete assolutamente pagare il re, persuadetelo almeno a condurveli a bordo; senza di ciò mio fratello morrà di fame o avvelenato e tutta la mia gente sarà

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venduta, prima ch'io possa avere soccorso da una nave da guerra!

— Se trovate il mezzo di farli venire a bordo, rispose il capitano, io li riceverò; ma ve lo ripeto, non avrete da me un grano di polvere.

Alla fine Riccardo Lander ottenne da Boy ch'egli ritornasse a cercare suo fratello e il suo seguito. Il re non voleva acconsentire che dopo aver ricevuto un acconto, e non fu senza fatica ch'egli fu indotto a desistere da questa pretesa.

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Quando il capitano Lake apprese che il seguito di Riccardo Lander si componeva d'uomini robusti e gagliardi, in istato di sostituire i suoi marinai, morti o spossati dalle febbri, si rabbonì un poco. Però ciò non fu per lungo tempo, perchè dichiarò che, se fra tre giorni, Giovanni e il suo seguito non erano a bordo, egli partirebbe senza di loro.

Benché Riccardo Lander gli provasse sino all'evidenza che questi disgraziati sarebbero venduti come schiavi, il capitano non volle nulla intendere.

«Tanto peggio per loro, rispose, io non vi posso far nulla, e non aspetterò più lungo tempo.»

Per fortuna, tanta inumanità è molto rara, ed è perciò che bisogna inchiodare alla berlina un tale miserabile, che non fa più caso, non soltanto dei suoi simili, ma di uomini che gli sono infinitamente superiori.

Infine, il 24 novembre, dopo che una forte brezza, soffiando dal mare e spingendo le acque sopra la sbarra ebbe reso il passaggio quasi impossibile, Giovanni Lander, arrivò a bordo.

Egli aveva dovuto subire i rimproveri e le invettive di Boy. Avere coi propri denari riscattati dal servaggio i due fratelli e il loro seguito, averli ricondotti nel suo canotto e nutriti — molto male è vero — essersi veduti promettere una quantità di buoi e di rhum ch'egli non potrebbe né mangiare né bere, per essere in seguito male accolto, vedersi rifiutare la restituzione del fatto suo ed essere trattato come un ladro, confessate che vi era di che essere malcontento, e che, tutt'altri, avrebbe fatto pagare caro ai prigionieri che gli restavano, tante speranze deluse, tanto denaro speso in puri danni!

Malgrado ciò, Boy si era deciso a ricondurre Giovanni Lander a bordo del brick. Il capitano Lake ricevette il viaggiatore con sufficiente cordialità, ma espresse subito la sua determinazione ben risoluta, di congedare il re senza dare un

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obolo. Il re era pieno di tristi presentimenti, i suoi modi alteri

avevano fatto posto ad un'aria umile e strisciante. Gli fu servito un pasto abbondante, ch'egli toccò appena. Riccardo Lander, desolato della furfantaggine e della cattiva fede di Lake, nell'impossibilità di tenere le sue promesse, mise sossopra tutta la sua roba e trovò cinque braccialetti d'argento e una sciabola di fabbrica indigena ch'egli aveva portato da Yarriba che offerse a Boy, il quale la accettò.

Alla fine, il re si decise di esporre il suo reclamo al capitano. Questi, con una voce tonante che non si sarebbe mai supposta in un corpo tanto debole, gli rispose seccamente:

«Non voglio!» E accompagnò questo rifiuto con un diluvio di 'bestemmie

e di minaccie tali, che il povero Boy batté in ritirata, e, vedendo la nave, pronta a far vela, raggiunse precipitosamente il suo canotto.

Così terminarono le peripezie del viaggio dei due fratelli Lander. Corsero ancora rischio di affondare varcando la barra. Ma questa era la loro ultima prova. Guadagnarono Fernando-Po, poi il fiume Galabar; là, s'imbarcarono sopra il Carnavon per Rio Janeiro, dove l'ammiraglio Baker, comandante della stazione, procurò loro un passaggio sopra un trasporto.

Il 9 giugno, sbarcarono a Portsmouth. Loro prima cura, dopo avere rimesso il rapporto del loro viaggio a lord Goderich, segretario di stato al dipartimento delle colonie, fu d'informarlo della condotta del capitano Lake — condotta di natura tale da compromettere e a far revocare in dubbio la buona fede del governo inglese. Furono tosto dati degli ordini da questo ministro per saldare le somme convenute, la cui domanda era giusta e motivata.

«Così dunque — e non possiamo far meglio che riportare l'apprezzamento di questo eccellente giudice, Desborough

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Coley — così dunque, il problema geografico che per tanti secoli aveva vivamente preoccupato l'attenzione del mondo dotto e dato luogo a tante differenti congetture, si trovava definitivamente e completamente risolto. Il Niger, o, come lo chiamano i naturali, il Djoliba o Korra, non si riunisce al Nilo, non si perde nelle sabbie del deserto né nelle acque del lago Tchad; si getta nell'Oceano, per una grande quantità di braccia, sulla costa del golfo di Guinea, nel luogo stesso di questa costa conosciuta sotto il nome di capo Formoso. La gloria di questa scoperta preveduta, è vero, dalla scienza, appartiene tutta intiera ai fratelli Lander. La vasta estensione di paese che avevano attraversato da Yaurie fino al mare, era completamente sconosciuta prima del loro viaggio.»

Appena la scoperta di Lander fu nota in tutte le sue particolarità in Inghilterra, diversi negozianti si associarono per trar partito delle ricchezze naturali del paese. Essi equipaggiarono, nel luglio 1832, due bastimenti a vapore, il Korra e l'Alburka, che sotto la condotta dei signori Laird, Oldfield e Riccardo Lander, risalirono il Niger sino a Bocqua. I risultati di questa spedizione commerciale furono deplorevoli. Non solamente il traffico coi nativi fu assolutamente nullo, ma anche gli equipaggi si videro decimati dalla febbre. Alla fine Riccardo Lander, che parecchie volte aveva risalito il fiume, fu ferito mortalmente dai nativi il 27 gennaio 1834, e morì il 5 febbraio successivo a Fernando-Po.

Per terminare tutto ciò che È relativo all'Africa, ci resta a parlare delle numerose ricognizioni compiute nella vallata del Nilo e, delle quali, le più importanti sono quelle di Cailiaud, di Russegger e di Rüppel.

Federico Cailliaud, nato a Nantes nel 1787, dopo aver visitato l'Olanda, l'Italia, la Sicilia, una parte della Grecia, della Turchia Europea 0 Asiatica, allorché faceva il commercio di pietre preziose, era arrivato in Egitto nel mese di maggio 1815.

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Le sue conoscenza zoologiche e mineralogiche gli procurarono un'eccellente accoglienza da parte di Mehemet-Alì, che lo incaricò subito d'un viaggio di esplorazione lungo il Nilo e nel deserto.

Questa prima escursione fu segnalata dalla scoperta, a Labarah, dà miniere di smeraldo, menzionate da autori arabi ed abbandonate da lunghi secoli. Cailliaud ritrovò, negli scavi della montagna, le lampade, le leve, i cordami e gli strumenti che avevano servito agli operai di Ptolemeo nei lavori di queste miniere. Vicino a questi scavi, il viaggiatore scoprì le ruine d'una città, che con tutta probabilità, aveva dovuto essere abitata da antichi minatori. Per sanzionare la sua preziosa scoperta, Cailliaud si caricò di dieci libbre di smeraldi che portò a Mehemet-Alì.

Un altro risultato di questo viaggio fu la scoperta dell'esploratore francese dell'antica strada da Coptos a Berenice per il commercio dell'India.

Dal mese di settembre 1819 alla fine del 1822, Cailliaud, accompagnato dall'antico aspirante di marina Letorzec, percorse tutte le case conosciute all'est dell'Egitto, e seguì il Nilo sino al decimo grado. Pervenuto nel suo primo viaggio, a Uadi-Ulfa, Cailliaud, scelse per secondo, questa località come punto di partenza.

Una circostanza felice, facilitò singolarmente le sue indagini. Ismail-Pascià, figlio di Mehemet-Alì, aveva ricevuto il comando di una spedizione in Nubia, e l'accompagnò.

Partito da Daraù il novembre 1820, Cailliaud, arrivava il 5 gennaio seguente a Dongola e raggiungeva il monte Bartea nel paese di Chagny, dove si trova una quantità di rovine, di tempi, di piramidi ed altri monumenti.

Il nome di Merawe, che porta questo luogo, aveva fatto supporre che là si trovasse l'antica capitale dell'Etiopia; Cailliaud doveva dissipare questo errore.

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Accompagnando Ismail Pascià come mineralogista, al di là di Ber-ber, per la ricerca delle miniere d'oro, l'esploratore francese pervenne a Sherdy. Di poi andò con Letorzec, a fissare la posizione geografica del confluente dell'Atbara, e Assour, non lontano dal 17° grado di latitudine, scoperse le rovine considerevoli d'una città antica. Era Meroe.

Continuando la strada al sud, fra il 15° e il 16° grado, Cailliaud riconobbe la foce del Bahr-el-Abiad o Nilo Bianco, visitò le rovine di Saba, il confluente del Rahad, l'antico Astosaba, vide Sennaar, il corso di Gologò, il paese del Fazoele e il Tumat, affluente del Nilo; alla fine raggiunse, con Ismail, il paese di Singbé, fra i due rami del fiume.

Nessun viaggiatore era pervenuto da questo lato, così presso all'equatore; Browne si era fermato al 16° 10', Brace all'11°.

Si devono a Cailliaud e a Letorzec numerosi rilievi di longitudine e di latitudine, dei preziosi studi sopra il clima, la temperatura e la natura del suolo, nell'istesso tempo una collezione molto interessante di animali e di produzioni vegetali. Finalmente, gli esploratori rilevarono la pianta di tutti i monumenti situati al di là della seconda cateratta.

I due francesi avevano preludiato a questa scoperta, con una escursione all'oasi di Siuah. Alla fine del 1819 erano partiti da Fayum, con un piccolo numero di compagni ed erano entrati nel deserto di Libia. In quindici giorni di cammino, dopo un combattimento contro gli Arabi, erano pervenuti a Siuah, avevano preso tutte le misure del tempio di Giove Ammone e avevano determinato, come Browne, la sua posizione astronomica. Quest'oasi doveva essere qualche tempo dopo, l'oggetto d'una spedizione militare, durante le quale Drovetti doveva raccogliere nuovi documenti molto preziosi per completare quelli raccolti da Caillaud e Letorzec.

Essi avevano in seguito visitato successivamente l'oasi di

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Falafrè, che nessun viaggiatore europeo aveva ancora esplorato, quella di Dakel e Khargh, capoluogo dell'oasi di Tebe. I documenti raccolti in questa corsa, furono spediti in Francia, al signor Jomard che li mise a profitto per la relazione dell'opera intitolata: Viaggio all'oasi di Siuah.

Alcuni anni più tardi, Edoardo Rüppel consacrava sette od otto anni all'esplorazione della Nubia, del Sennaar, del Kordofan e dell' Abissinia, e risaliva il Nilo bianco, nel 1824, sino a più di sessanta leghe al di sopra della sua foce.

Infine, un naturalista tedesco, consigliere delle miniere d'Austria, Giuseppe Russegger, visitando egualmente, dal 1836 al 1838, la parte inferiore del corso di Bahr-el-Abiad, preludiava con questo viaggio ufficiale alle grandi e feconde ricognizioni che Mehemet-Alì doveva inviare nelle stesse regioni.

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III.

Il movimento scientifico orientale e le esplorazioni americane. Interpretazioni delle iscrizioni cuneiformi e studi assiriologici fino al 1840. — L'antico Iran e l'Avesta. — La triangolazione dell'India e gli studi indostani. — L'esplorazione e la misura dell'Himalaia. — La penisola Arabica. — La Siria e la Palestina. — L'Asia centrale e Alessandro di Humboldt. — Pike alle sorgenti del Mississippi, dell'Arkansas e del fiume Rosso. — Le due spedizioni del maggior Long. — Il generale Cass. — Schoolcraft alle sorgenti del Mississippi. — L'esplorazione del Nuovo Messico. — Viaggi archeologici nell'America centrale. — Ricerche di storia naturale al Brasile. — Suix e Martine, il principe Massimiliano di Wied-Neuwied. — D'Orbigny e l'uomo americano.

Benché le scoperte, delle quali andremo dicendo, non

siano più, propriamente parlando, geografiche, hanno però irradiato d'una luce così nuova parecchie civilizzazioni antiche, hanno tanto esteso il dominio della storia delle idee, che non possiamo dispensarci dal dirne qualche parola.

La lettura delle iscrizioni cuneiformi e la spiegazione dei geroglifici sono avvenimenti tanto importanti pei loro risultati, ci rivelano una tale moltitudine di fatti sino allora ignorati o travisati nei racconti più o meno meravigliosi degli antichi storici Diodoro, Ctesias e Erodoto, che è impossibile di passar sotto silenzio scoperte scientifiche così importanti.

Per esse noi penetriamo nell'intimità d'un mondo, d' una civiltà estremamente avanzata, dai costumi, dalle abitudini assolutamente differenti delle nostre. Quanto è curioso il tenere fra le mani i resoconti dell'intendente di un gran signore o di un governatore di provincia, il leggere dei romanzi come quelli di Setna e dei Due Fratelli, delle storielle come quella del Principe predestinato!

Se gli edifizi dalle vaste proporzioni, i templi superbi, i

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sotterranei magnifici, gli obelischi scolpiti, non erano, fino allora, per noi, che monumenti sontuosi, adesso sappiamo, dalla lettura delle iscrizioni, che li coprono, la vita dei sovrani che li hanno fabbricati e le circostanze della loro elezione.

Quanti nomi di popoli di cui gli storici greci non facevano menzione, quante città sparite, quante particolarità relative al culto, all'arte, all'industria, alla vita di ogni giorno, quanti avvenimenti politici o militari ci rivelano ora nelle loro minuziose particolarità i geroglifici e le iscrizioni cuneiformi!

E di questi popoli che non conoscevano che imperfettamente, e per così dire, superficialmente, noi penetrammo resistenza quotidiana; abbiamo adesso un'idea della loro letteratura. Non è forse lontano il giorno in cui conosceremo la vita degli Egiziani del XVIII secolo avanti l'era nostra, tanto bene quanto quella dei nostri padri del XVII e del XVIII secolo dopo Gesù Cristo.

Carsten Niebuhr aveva riportato da Persepoli delle iscrizioni in caratteri sconosciuti, delle quali, pel primo, egli aveva fatta una copia esatta e completa. Molti tentativi erano stati fatti per spiegarle; ma tutto invano, allorché, per una inspirazione di genio, con un'intuizione luminosa, il dotto filologo Grotefend d'Arinover pervenne, nel 1802, a penetrare il mistero che le ricopriva.

Gli è che erano davvero singolari e difficili a interpretarsi queste iscrizioni cuneiformi! S'immagini una serie di chiodi (cuneus), disposti in diversi modi, formanti dei gruppi allineati orizzontalmente. Che cosa esprimevano questi gruppi? Rappresentavano dei suoni e delle articolazioni, o delle parole intiere, come le lettere dei nostri alfabeti? Avevano essi quel valore ideografico che possiedono i caratteri della scrittura chinese? Quale era la lingua che vi si trovava nascosta? Ecco tutti i problemi che si trattava di risolvere. C'era da pensare che le iscrizioni portate da Persepoli, dovessero essere scritte nella

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lingua degli antichi Persi; ma Rask, Bopp e Lassen non avevano ancora studiato gli idiomi iraniani e dimostrato la loro affinità col sanscrito.

Raccontare dietro quali deduzioni ingegnose, quali supposizioni, quali ipotesi, Grotefend arrivò a riconoscere una scrittura alfabetica, a isolare da certi gruppi, dei nomi ch'egli suppose essere quelli di Dario e di Xerxe — ciò che lo rese padrone della conoscenza di diverse letture ch'egli applicò alla lettura di nuove parole — sarebbe uscire dal nostro compito. Il metodo era ormai trovato. Ad altri incombeva la cura di completarlo e di perfezionarlo.

Più di trent'anni scorsero però prima che questi studi avessero compiuti dei notevoli progressi. È il nostro dotto compatriota Eugenio Burnouf, che fece fare loro un passo considerevole. Mettendo a profitto la sua conoscenza del sanscrito e del zend, provò che la lingua delle iscrizioni persepolitane non era che un dialetto zend, adoperato nella Bactriana, che si parlava ancora al VI secolo, prima della nostra era, nel quale erano stati scritti i libri di Zoroastro. La sua memoria è del 1836. All'istessa epoca, un dotto tedesco, Lassen, di Bonn, che si era dato, per suo conto, alle stesse ricerche, arrivava a conclusioni identiche.

Ben presto le iscrizioni che si possedevano erano tutte lette, l'alfabeto veniva spiegato, salvo un piccolo numero di segni sopra i quali non si era assolutamente d'accordo.

Però non si possedeva ancora che una base e l'edificio era ben lungi dall'essere terminato. Infatti si era osservato che le iscrizioni persepolitane sembravano ripetute in tre colonne parallele. Non vi era in esse una triplice versione delle stesse iscrizioni nelle tre lingue principali dell'impero akemenida, il persiano, il medo e l'assiro o babilonese? L'ipotesi era esatta, ma grazie alla decifrazione d'una di queste iscrizioni, si aveva un punto di paragone, e si poté procedere come Champollion

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aveva fatto, per la pietra di Rosette, che, riguardo ad una traduzione greca, portava due versioni in scrittura demotica e geroglifica.

In queste due altre iscrizioni, si riconobbe l'assiro-caldeano che appartiene come l'ebraico himyarito e l'arabo, alla famiglia semitica e un terzo idioma, che ricevette il nome di medico, e che si è ravvicinato al turco ed al tartaro. Ma l'estenderci su

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queste ricerche, sarebbe un invadere il campo altrui. Questo doveva essere il compito dei dotti danesi Westergaard, dei francesi di Saulcy e Oppert, degli inglesi Norris e Rowlinson, per non citare che i più celebri. Più tardi avremo a ritornarvi sopra.

La conoscenza del sanscrito, le ricerche sulla letteratura bramina, della quale parleremo più in là, avevano inaugurato un movimento scientifico che doveva andare aumentando, mercè studi più profondi e più comprensivi. Un'immensa contrada designata dagli orientalisti sotto il nome di Iran, che comprende la Persia, l'Afganistan e il Belutchistan, era stata, molto prima che Ninive e Babilonia apparissero nella storia, la sede d'una civilizzazione avanzata, alla quale si rannoda il nome di Zoroastro, ad un tempo conquistatore, legislatore e fondatore d'una religione. I suoi discepoli, perseguitati all'epoca della conquista musulmana, cacciati dalla loro antica patria, ove il loro culto si era conservato, si rifugiarono, sotto il nome di Parsi, nel nord-ovest dell'India.

Alla fine dell' ultimo secolo, il francese Anquetil-Duperron aveva portato in Europa una copia esatta dei libri religiosi dei Parsi scritti nella lingua stessa di Zoroastro. Li aveva tradotti e, durante sessanta anni, tutti i dotti vi avevano trovato la sorgente delle nozioni religiose e filosofiche ch'essi possedevano sopra l'Iran. Questi libri sono conosciuti sotto il nome di Zend-Avesta, parola che racchiude il nome della lingua Zend, e il titolo dell'opera Avesta.

Ma questo nome della scienza, dopo i progressi degli studi sanscriti, aveva bisogno di essere rinnovato e trattato col rigore dei metodi nuovi. Il filologo danese Rask, nel 1826, poi Eugenio Burnouf, con la sua conoscenza profonda del sanscrito e coll'aiuto d'una traduzione sanscrita, recentemente scoperta nell'India, avevano ripreso lo studio del Zend. Burnouf aveva benanche pubblicato, nel 1834, uno studio magistrale sul

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Yaena, che fece epoca. Da questo ravvicinamento del sanscrito arcaico, e del Zend, nacque l'ammissione della stessa origine per queste due lingue e la prova della parentela, per meglio dire, dell'unità dei popoli che le parlavano. In origine, avevano gli stessi nomi di divinità, le stesse tradizioni, senza contare la somiglianza dei costumi, la stessa denominazione generica per questi due popoli che, nei loro scritti più antichi, vengono chiamati Aryas. Crediamo inutile di insistere sull'importanza di questa scoperta, che è venuta a rischiarare d'una luce tutta nuova i principi per tanto tempo ignorati della nostra storia.

Dopo la fine del secolo XVIII, vale a dire dopo l'epoca in cui gli Inglesi si erano saldamente stabiliti nell'India, lo studio fisico del paese, con tutte le notizie che vi si annettono, era stato spinto attivamente. Esso naturalmente aveva preceduto l'etnologia e le scienze affini che per fiorire richiedono un terreno più sicuro e tempi più tranquilli. Bisogna confessare nello stesso tempo, che questa cognizione è necessaria al governo ed all'amministrazione parimenti che alle imprese commerciali. Epperò il marchese di Wellesley, allora governatore per la Compagnia, comprendendo di quale importanza fosse l'esecuzione di una carta dei possedimenti inglesi, aveva incaricato nel 1801 il brigadiere di fanteria Guglielmo Lambton di rilevare con una rete trigonometrica le due rive orientale ed occidentale dell'India all'osservatorio di Madras. Ma Lambton non si accontentò di questo compito. Egli determinò con precisione un arco del meridiano del capo Comorino fino al villaggio di Takoor-Kera, a quindici miglia al sud-est d'Ellichpoor. L'ampiezza di questo arco superava dunque i dodici gradi. Per mezzo di ufficiali istruiti, fra i quali va citato il colonnello Everest, il governo dell'India avrebbe visto compiuto l'incarico dei suoi ingegneri molto prima del 1840, se le annessioni successive di nuovi territori non fossero venute continuamente ad allontanare il termine.

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Quasi nello stesso tempo nasceva un movimento considerevole per la conoscenza della letteratura dell'India.

A Londra nel 1776 apparve tradotto per la prima volta un sunto dei codici indigeni più importanti, sotto il nome di Codice del Gentoux.

Nove anni più tardi veniva fondata a Calcutta la Società asiatica da sir William Jones, il primo che sapesse veramente il sanscrito, Società, la cui pubblicazione, Asiatic Researches, raccolse tutte le informazioni scientifiche relative all'India.

Poco dopo, nel 1789, Jones pubblicava la sua traduzione del dramma di Sakuntala, grazioso esemplare della letteratura indiana, così pieno di sentimento e di delicatezza. Le pubblicazioni di dizionari e di grammatiche si succedevano incessantemente. Nell'India britannica nasceva una vera emulazione. Essa non avrebbe tardato ad espandersi nell'Europa, se il blocco continentale non avesse impedita la introduzione dei libri pubblicati all'estero. A quell'epoca un inglese, Hamilton, prigioniero a Parigi, studiava i manoscritti orientali della nostra Biblioteca e iniziava Federico Schlegel alla conoscenza del sanscrito, che da allora in poi non era più necessario andar a studiare sul luogo.

Schlegel ebbe per allievo Lassen; e con lui si diede allo studio della letteratura e delle antichità dell'India, alla discussione, alla pubblicazione ed alla traduzione dei testi. Durante questo tempo Franz Bopp si dedicava con vera rabbia allo studio della lingua, rendeva le sue grammatiche accessibili a tutti, ed arrivava a questa conclusione, allora sorprendente, oggigiorno unanimemente accettata, della parentela delle lingue indo-europee.

Si constatò ben tosto che i Vedas — questa collezione circondata da un rispetto generale che ne aveva impedito le alterazioni — erano per ciò stesso scritti in un idioma antichissimo, molto puro, che non aveva più rifiorito e la cui

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stretta rassomiglianza collo zend faceva risalire la composizione di questi libri sacri più in là della divisione in due rami della famiglia ariana. Poi si studiarono le due epopee dell'epoca braminica, che succede ai tempi vedici, il Mahabharata ed il Ramayana, del pari che i Paranas. I dotti, grazie ad una conoscenza più profonda delle lingue e ad una iniziazione più intima dei miti, riuscirono a fissare approssimativamente l'epoca della composizione di questi poemi e a rilevarne le innumerevoli alterazioni, a sceverare quanto spetta alla storia ed alla geografia in quelle allegorie meravigliose.

Con queste pazienti e minute investigazioni si giungeva a questa conclusione, che le lingue celtica, greca, latina, germanica, slava e persiana, hanno tutte una stessa origine e che la lingua madre non è altro che il sanscrito. Se la lingua è la stessa, bisogna dunque che il popolo sia stato lo stesso. Le differenze che esistono oggi fra questi diversi idiomi si spiegano con dei frazionamenti successivi del popolo primitivo, dati approssimativi che permettono la maggiore o minore affinità di queste lingue col sanscrito, e la natura delle parole di esso hanno tolto, da quest'ultimo parole corrispondenti per la loro natura ai diversi gradi di progresso della civiltà.

In pari tempo si faceva un'idea netta e precisa dell'esistenza che avevano condotta i padri della razza indo-europea e delle trasformazioni che la civiltà le ha fatto subire. I Vedas ce la fanno conoscere quando essa non ha ancora invaso l'India ed occupa il Pendgiab e il Cabulistan. Questi poemi ci fanno assistere alle lotte contro le popolazioni primitive dell'Indostan, la cui resistenza fu altrettanto più accanita in quanto che i vincitori nella divisione in caste non lasciavano ad essi, che la più infima e la più disonorata. Mercè i Vedas si entra in tutti i particolari della vita pastorale e patriarcale degli

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Aryas, ci iniziamo a questa esistenza quasi priva di movimento della famiglia e si domanda se la tetta accanita dei moderni vale le pacifiche gioie che la mancanza di bisogni riserbava ai loro padri.

Si comprende che noi non possiamo fermarci più a lungo su questo argomento: ma il lettore avrà potuto capire, dal poco che noi ne abbiamo detto, l'importanza di questi studi dal punto di vista della storia, dell'etnografia, della linguistica. Per maggiori particolari rimandiamo i lettori alle opere speciali degli orientalisti ed agli eccellenti manuali di storia antica dei signori Robiou, Lenormant e Maspero. Tutti i risultati ottenuti fino al 1820 nei diversi ordini di ricerche scientifiche erano stati registrati con competenza; ed imparzialità nel grande lavoro di Walter Hamilton, che ha per titolo: Descrizione geografica, statistica e storica dell'Indostan e dei paesi vicini. É una di quelle opere che, segnando il cammino della scienza, determinano con precisione il suo grado di progresso ad una data epoca.

Dopo questo rapido sguardo ai lavori relativi alla vita intellettuale e sociale degli Indiani, conviene registrarne gli studi che hanno per scopo la conoscenza fisica della contrada.

Uno dei risultati che avevano maggiormente sorpreso nei viaggi di Webb e di Moorcroft, era l'altezza straordinaria che questi esploratori assegnavano alle montagne dell'Himalaya. La loro elevatezza, secondo il giudizio di questi viaggiatori, doveva essere per lo meno uguale alle più alte cime delle Ande. Le osservazioni del colonnello Colebrook davano a questa catena ventiduemila piedi e questi calcoli sembravano ancora al disotto della realtà. Dal canto suo, Webb aveva misurato uno dei picchi più notevoli della catena, il Jamunavatari, e gli attribuì ventimila piedi al disopra del piano sul quale poggiava, che alla sua volta si trova all'altezza di cinquemila piedi circa al disopra della pianura. Poco soddisfatto d'una misura che gli

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sembrava troppo approssimativa, Webb aveva allora misurato con tutto il rigore matematico possibile il Dewalagiri o «montagna bianca,» ed aveva riconosciuto che la vetta di questo monte giungeva a ventisettemila e cinquecento piedi.

Nella catena dell'Himalaya, ciò che colpisce più di tutto è la successione di queste montagne, questo allineamento di proiezioni, che si arrampicano le une sulle altre. Ciò dà un'impressione molto più viva della loro altezza di quanto non lo farebbe lo spettacolo di un picco isolato ergentesi dalla pianura per perdere la sua alta cima nelle nubi.

I calcoli di Webb e di Colebrook furono ben tosto verificati dalle osservazioni matematiche del colonnello Crawford, che aveva misurato otto delle più alte cime dell'Himalaya. La più alta di tutte, era secondo l'osservatore, il Chumulari, situato vicino alle frontiere del Buthan e del Thibet, la cui vetta doveva essere di trentamila piedi al disopra dell' Oceano.

Questi risultati, benché concordassero fra loro e fosse difficile ammettere che questi osservatori si fossero tutti sbagliati uniformemente, avevano grandemente sorpreso il mondo dotto. L'obiezione principale, era che in queste contrade il limite delle nevi doveva essere presso a poco a tredicimila piedi al disopra del mare. Sembrava dunque impossibile che le montagne dell'Himalaya fossero coperte di foreste di pini giganteschi, come lo asseriva ciascun esploratore.

Epperò, l'osservazione dava torto alla teoria. In un secondo viaggio Webb montò sino al Niti-Gôt, il colle più elevato della terra, del quale fissò la latitudine a sedicimilaottocentoquattordici piedi. Non solamente Webb non vi trovò neve, ma nemmeno le rocce, che lo dominano di trecento piedi, non ne conservano durante l'estate. Epperò, là sopra quei rapidi pendii, ove la respirazione diviene tanto difficile, si trovavano delle magnifiche foreste di pini, di

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cipressi e di abeti. «lì signor Webb, dice Desborugh, attribuisce l'altezza dei

limiti della neve perpetua nelle montagne dell'Himalaya alla grande altezza del piano donde esse lanciano verso il cielo le ultime loro cime. Come il calore della nostra atmosfera ha per cagione principale l'irradiazione della superficie della terra, ne segue che la prossimità e l'estensione delle pianure che circondano debbano far subire delle modificazioni importanti alla temperatura d'un luogo elevato. Queste osservazioni ci sembrano confutare in un modo soddisfacente le obiezioni sollevate da alcuni dotti intorno al soggetto della grande altezza delle montagne dell'Himalaya, che possono in conseguenza essere riguardate con certezza come la più alta catena di tutto il mondo.»

Bisogna dire ora alcune parole d'una escursione intrapresa nei paraggi già visitati da Webb e da Moorcroft. Il viaggiatore Fraser non aveva né gl'istrumenti, né l'istruzione necessaria per misurare le alte cime attraverso le quali stava per spingersi; ma egli sentiva vivamente, e la sua relazione, piena d'interesse, è talvolta assai divertente. Visitò la sorgente della Jumma e, benché fosse a più di venticinquemila piedi, incontrava ad ogni momento dei villaggi situati pittorescamente sopra i pendii coperti di neve. Fraser visitò poscia Gangutri, malgrado l'opposizione delle guide che gli facevano capire come la strada fosse estremamente pericolosa, perchè un vento pestilenziale privava di sensi ogni viaggiatore che osava arrischiar visi. L'esploratore fu meravigliato dalla grandezza e dalla magnificenza dei paesaggi ch'egli scoprì e si vide compensato da questi piaceri d'artista delle fatiche sofferte.

«La catena dell'Himalaya, dice Fraser, offre un carattere tutto particolare. I viaggiatori che l'hanno veduta saranno costretti di convenirne. Essa non rassomiglia infatti a nessuna altra catena di monti perchè, veduti da un punto elevato, le loro

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sommità, dalle forme fantastiche, le loro guglie d'un'altezza tanto prodigiosa, cagionano una tale meraviglia allo straniero, del quale attirano l'ammirazione, che egli si crede alcune volte vittima e giuoco d'un miraggio ingannatore.»

Dobbiamo ora lasciare la penisola gangetica per quella araba, dove avremo da registrare il risultato di alcune corse interessanti. Dobbiamo, prima di tutto, parlare del viaggio del capitano Sadlier, dell'armata dell'India. Incaricato, al mese d'agosto 1819, d'una missione dal governatore di Bombay presso Ibrahim-Pascià in lotta contro i Wahabiti, questo ufficiale attraversò la penisola intera dal porto di El-Kadif, sopra il golfo Persico, sino a Yamba, sopra il mar Rosso.

Questa relazione, assai curiosa, d'una traversata dell'Arabia, che fino allora nessun europeo non aveva ancora compita, non fu mai per disgrazia pubblicata separatamente e rimase seppellita in un libro quasi irreperibile: Transactions of the Literary Society of Bombay.

Presso a poco nello stesso tempo, dal 1821 al 1826, il governo inglese fece procedere dai capitani di navi Moresby e Haines a lavori idrografici, che avevano per iscopo il rilievo completo delle coste dell'Arabia. Essi dovevano servire alla formazione della prima pianta, ben fatta, che si possedesse di questa penisola.

Avremo detto tutto, quando avremo citato le due escursioni dei naturalisti francesi, Aucher Eloy sul paese d'Oman, e Emilio Botta nel Yemen, allorché noi avremo parlato dei lavori di un console di Francia a Djedda, Fulgenzio Fresnel, a proposito degli idiomi e delle antichità dell'Arabia. Quest'ultimo nelle sue lettere sopra l'istoria degli Arabi prima dell'islamismo, pubblicate il 1836, fu uno dei primi a studiare la lingua himyarita od homerita, a riconoscere che essa si avvicina più agli antichi dialetti ebraico e siriaco, che all'arabo attuale.

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Sul principio di questo volume si è parlato delle esplorazioni e delle ricerche archeologiche e storiche di Seetzen e dì Burckhardt nella Siria e nella Palestina. Ci rimane a dire poche parole sopra una escursione i cui risultati interessano più particolarmente la geografia fisica. Si tratta del viaggio di un naturalista bavarese, Enrico Sehubert.

Cattolico ardente, dotto entusiasta, Sehubert si sentiva attratto dai paesaggi melanconici della Terra Santa, dalle leggende meravigliose, dalle memorie storiche. Epperò nelle sue relazioni si trovano le impressioni profonde del credente e le preoccupazioni scientifiche del naturalista.

Nel 1837 Sehubert, dopo d'aver percorso l'Egitto inferiore e la penisola del Sinai, penetrò nella Terra Santa. Due dei suoi amici, un medico, il dottor Erdl, un pittore, Martin Bernatz, accompagnarono il dotto pellegrino bavarese,

I viaggiatori, sbarcati a El-Akabah sul mar Rosso, si recarono con una carovana araba ad El-Khalil, l'antica Hebron. La via che essi seguirono non era stata ancora battuta dal piede di un europeo. Era una larga e piana vallata, che finiva al mar Morto e sembrava avergli un tempo servito di scaricatore verso il mar Rosso, Burckhardt e molti altri che non avevano fatto che vederla, avevano provata la stessa impressione, ed essi attribuivano ad un sollevamento del suolo l'interruzione di questo scaricamento. Le altezze, rilevate dai viaggiatori, dovevano dimostrare la falsità di questa ipotesi.

Infatti, a cominciare dal fondo del golfo Elanitico, la strada sale per due o tre giorni di cammino, fino al punto che gli Arabi chiamano la Sella, poi ridiscende e s'affonda verso il mar Morto. Questo punto di divisione è a settecento metri al disopra del mare. Ciò almeno è quanto constatò l'anno seguente un viaggiatore francese, il conte di Bertu, che esplorò le stesse località.

Discendendo verso il lago Asfaltide, Schubert e i suoi

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compagni si diedero ad altre osservazioni barometriche, e furono assai sorpresi di vedere il loro strumento segnare novantun piedi «al disotto» del mar Rosso e dei livelli sempre meno elevati.

A tutta prima, avevano creduto vi fosse qualche errore, ma dovettero arrendersi all'evidenza e riconoscere che il lago Asfaltide non aveva mai potuto versarsi nel mar Rosso per questa eccellente ragione, che il suo livello gli è di molto inferiore.

Ora, questo infossamento del mar Morto è ancora molto più sensibile quando, venendo da Gerusalemme, si vada a Gerico. Allora si percorre una lunga vallata a pendìo rapidissimo, e che lo sembra ancora di più, perchè i piani montuosi della Giudea, della. Perca e dell'Hauran sono altissimi, questi ultimi innalzandosi a circa tremila piedi sul livello del mare.

Tuttavia, l'aspetto dei luoghi e la testimonianza degli strumenti erano in tale contraddizione con le idee fino allora avute, che i signori Erdl e Schubert non ritennero che con riserbo questi risultati, ch'essi attribuirono ad una deviazione del loro barometro o ad un perturbamento subitaneo dell'atmosfera. Ma, durante il loro ritorno a Gerusalemme, il barometro ritornò all'altezza media ch'esso aveva segnato prima della loro partenza per Gerico. Bisognò dunque, di buona o mala voglia, ammettere che il mar Morto è di seicento piedi almeno al disotto del Mediterraneo, cifra che le esplorazioni posteriori dovevano dimostrare di una metà ancora inferiore al vero.

Era quella, bisogna convenirne, una fortunata rettifica che dovea avere una notevole influenza, richiamando l'attenzione degli scienziati sopra un fenomeno che altri esploratori dovevano ben presto verificare.

Nello stesso tempo, si completava e rettificava lo studio

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fisico del bacino del mar Morto. Due missionari americani, Edward Robinson ed Di Smith, nel 1838 davano un impulso tutto nuovo alla geografia biblica. Erano i precursori di quella

falange di viaggiatori naturalisti, di storici, d'archeologi, d'ingegneri, che ben presto sotto gli auspici dell'Associazione inglese od insieme a questa società, dovevano esplorare in tutti

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i sensi la terra dei patriarchi, compierne la carta in tutti i suoi particolari, e infine procedere a molte scoperte che dovevano gettare una nuova luce sui popoli antichi, possessori a volta a volta di questa parte del bacino mediterraneo.

Ma non è soltanto questa regione, così interessante per le memorie che essa evoca in ogni animo cristiano, che fu l'oggetto degli studi degli eruditi e dei viaggiatori. L'Asia Minore tutta quanta doveva in poco tempo dare alla curiosità del mondo scientifico i tesori ch'essa contiene nel suo suolo. I viaggiatori la attraversavano in tutti i sensi. Parrot visitava l'Armenia; Dubois di Montepereux percorreva il Caucaso nel 1839; Eichwald nel 1825 e 1826 esplorò le rive del mar Caspio; infine Alessandro Humboldt, grazie alla generosità dell'imperatore di Russia, Nicola, completava nella parte asiatica dell'Asia e nell'Ural, le osservazioni di fisica generale e di geografia ch'egli aveva così coraggiosamente raccolte nel Nuovo Mondo. Humboldt col mineralogista Gustavo Rose, col naturalista Ehrenberg, molto noto per i suoi viaggi nell'Alto Egitto e nella Nubia, col barone di Helmersen, ufficiale del genio, percorreva la Siberia, visitava le miniero d'oro e di platino dell'Ural, esplorava le steppe del Caspio e la catena dell'Aitai fino alla frontiera della China. Questi scienziati si erano suddiviso il lavoro; Humboldt si era incaricato delle osservazioni astronomiche, magnetiche, fisiche e di storia naturale, Rose teneva il giornale del viaggio, ch'egli ha pubblicato in tedesco dal 1837 al 1842.

I risultati scientifici di questa esplorazione, per quanto rapida — in nove mesi soltanto i viaggiatori non avevano percorso meno di 11.500 miglia — furono considerevoli.

In una prima pubblicazione, apparsa a Parigi nel 1838, Humboldt non si occupava che della climatologia e della geologia dell'Asia; ma, a questo frammenta di lavoro succedeva nel 1843 un'opera magistrale, l'Asia centrale.

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«Egli vi ha registrati e ordinati, dice la Roquette, i principali risultati scientifici della sua escursione in Asia, e s'è dato a considerazioni ingegnose sulla forma dei continenti, sulla configurazione delle montagne della Tartaria; egli vi studia specialmente l'ampia depressione che si estende dall'Europa boreale fino al centro dell'Asia».

Dobbiamo ora lasciare l'Asia e passare in rivista le diverse spedizioni che si erano successe sul Nuovo Mondo, dopo il principio del secolo. All'epoca in cui Lewis e Clarke attraversavano l'America del Nord, fino all'Oceano Pacifico, un giovine ufficiale, il luogotenente Zabulon Montgomery Pike era stato incaricato dal governo, nel 1807, di riconoscere le sorgenti del Mississippi. Egli doveva cercare nello stesso tempo di conciliarsi l'amicizia degli Indiani che incontrerebbe.

Ben accolto dal capo della potente confederazione dei Siux, regalato di una pipa sacra — talismano che gli avrebbe assicurato la protezione delle tribù alleate — Pike risalì il Mississippi, oltrepassò il Ghippeway ed il fiume Saint-Pierre, grandi affluenti di questo immenso corso d'acqua. Ma al di là del confluente di questo fiume fino alle cateratte di Sant'Antonio, il corso del Mississippi è sbarrato da una serie non interrotta di salti e di rapidi pendii. Giunto sotto il 45° grado di latitudine, Pike e i suoi compagni dovettero lasciare i loro canotti per continuare il loro viaggio in slitta. Ai rigori d'un inverno spaventoso, si aggiunsero ben presto le torture della fame. Nulla però arrestò gli intrepidi esploratori, che continuando a seguire il Mississippi, ridotto a trecento verghe di larghezza, arrivarono nel mese di febbraio al lago delle Sanguisughe ove furono accolti premurosamente in un accantonamento di cacciatori di pellicce di Monreale.

Dopo d'aver visitato il lago del Cedro-Rosso, Pike ritornò a Port-Louis. Questo viaggio faticoso e pieno di pericoli non aveva durato meno di nove mesi, e benché il suo scopo non

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fosse stato raggiunto, non era stato del tutto infruttuoso per la scienza.

L'abilità, la freddezza d'animo ed il coraggio di Pike non passarono inosservati, ed il governo elevandolo poco tempo dopo al grado di maggiore, gli affidò il comando di una nuova spedizione.

Si trattava questa volta di esplorare l'ampia distesa di paese compreso fra il Mississippi e le Montagne Rocciose, di seguire le sorgenti dell'Arkansas e del fiume Rosso. Con ventitré persone, Pike risalì l'Arkansas, bel fiume, che è navigabile fino ai monti, ove esso trae le sue sorgenti, fuorché nell'estate, in cui alcuni banchi di sabbia ne ostruiscono il corso.

Ma, durante questa lunga navigazione, era venuto l'inverno: le sofferenze che avevano così duramente provato Pike nella sua prima spedizione, si ripeterono con doppio rigore. La cacciagione era così scarsa, che, per quattro giorni, il distaccamento dovette privarsi di cibo. Parecchi uomini ebbero i piedi gelati, e questa disgrazia venne ad aumentare le fatiche di quelli che erano rimasti sani. Dopo d'aver raggiunta la sorgente dell'Arkansas, il maggiore discendendo al sud, non tardò ad incontrare un bel corso d'acqua che egli credette il fiume Rosso.

Era invece il Rio-del-Norte, fiume che ha la sua origine nel Colorado, provincia allora spagnuola, e sbocca nel Messico.

Da quanto si è detto delle difficoltà che Humboldt dovette superare per ottenere il permesso di visitare i possedimenti spagnuoli, si è potuto giudicare se questo popolo era geloso di veder penetrare degli stranieri sul suo territorio. Subito circondato da un distaccamento di soldati spagnuoli, il maggior Pike fu fatto prigioniero con tutti i suoi uomini e condotto a Santa-Fè. La vista dei loro abiti a brandelli e delle loro facce emaciate, il loro aspetto miserando, non testimoniavano in favore degli Americani che gli Spagnuoli presero a tutta prima

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per selvaggi. Nondimeno, appena riconosciuto l'errore, Pike e il suo distaccamento furono condotti attraverso le province interne fino alla Luigiana, e giunsero il 1° luglio 1807 a Nachitoches.

La disgraziata fine di questa spedizione rallentò per qualche tempo lo zelo del governo, ma non quello dei semplici privati, negozianti o cacciatori, ogni giorno più numerosi nel paese. Molti anzi attraversarono l'America dal Canada al Pacifico. Fra questi viaggiatori, bisogna citare più particolarmente Daniel Williams Harmon, socio delle Compagnie del Nord-Ovest, che viaggiando fra il 47° e il 58° grado di latitudine nord, vide i laghi Huron, Superiore, delle Pioggie, dei Legni, Manitoba, Winnipeg, Athabasca, del Grand'Orso, e giunse fino all'Oceano Pacifico.

La Compagnia delle Pellicce d'Astoria, stabilimento situato alla foce della Columbia, fece molto anche per l'esplorazione e la traversata delle montagne Rocciose.

Quattro soci di questa Compagnia, partiti d'Astoria nel mese di giugno 1812, avevano risalita la Columbia, attraversate le montagne Rocciose, e dirigendosi all'est-sud-est, dopo d'aver raggiunto una delle sorgenti della Plata, sulla quale erano discesi fino al Missuri che nessuno aveva esplorato prima di essi, erano arrivati a San Luigi il 30 maggio 1813.

Nel 1811, un'altra spedizione composta di sessanta uomini, lasciando San Luigi, risalì il Missuri fino ai villaggi dei Ricaras; dopo d'aver provate delle grandi privazioni, e perduto parecchi uomini per la mancanza di nutrimento e per le fatiche, essa era giunta ad Astoria sul principio del 1812.

Questi viaggi non avevano soltanto per risultato la ricognizione topografica del terreno, ma avevano anche apportate delle scoperte ben singolari e affatto impreviste. É così che, nella vallata dell'Ohio, dal paese degli Illinois fino al Messico, si erano incontrate delle rovine e delle fortificazioni o

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trincee munite di fossati e di specie di bastioni, molti dei quali coprivano cinque o sei acri di terreno. A quale nazione attribuire questi lavori che denotavano una civilizzazione ben superiore a quella degli Indiani? Problema difficile la cui soluzione non è ancora stata trovata.

Già alcuni filologi e storici si inquietavano della scomparsa delle tribù indiane, che fino allora non erano state osservate che superficialmente, e lamentavano che si fossero spente senza che se ne fossero studiate le lingue ch'essi parlavano. Le conoscenze di queste lingue, comparate con quelle del vecchio mondo, avrebbero forse fornito qualche indizio inaspettato sull'origine di queste tribù nomadi.

Contemporaneamente si cominciava a studiare la flora e la geologia del paese, scienza che riservava ai futuri esploratori così meravigliose sorprese.

Era troppo importante per il governo degli Stati Uniti di procedere rapidamente alla ricognizione dei vasti territori che lo separavano dal Pacifico, perchè esso si astenesse a lungo dall'organizzare una nuova spedizione.

Il segretario di Stato della guerra incaricò nel 1809 il maggiore Long di esplorare la contrada situata fra il Mississippi e le montagne Rocciose, di riconoscere il corso del Missuri e dei suoi principali affluenti, di determinare per mezzo di osservazioni astronomiche i punti più notevoli, di studiare le tribù indiane, di descrivere infine tutto ciò che l'aspetto del paese e le produzioni dei tre regni vi presenterebbero di interessante.

Partito da Pittsburg il 5 maggio 1819 sul battello a vapore l'Ingenieur Occidental, la spedizione giunse, il 30 maggio successivo, al confluente dell'Ohio col Mississippi, ch'essa rimontò fino a San Luigi.

Il 29 giugno era riconosciuta la foce del Missuri. Nel mese di luglio, il signor Say, incaricato delle osservazioni

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zoologiche, percorse il paese fino al forte Osage, dove fu raggiunto dal battello. Il maggiore Long approfittò del suo soggiorno in questo luogo per mandare a riconoscere la contrada fra il Kansas e la Plata; ma questo distaccamento, assalito e spogliato, dovette tornare indietro, dopo d'essersi visto togliere i cavalli.

Quando esso ebbe ricevuto, all'isola delle Vacche, un rinforzo di quindici uomini di truppa, la spedizione guadagnò il 19 settembre il forte Lisa, presso Council-Bluff, dove prese il suo quartiere d'inverno. Violentemente attaccati dallo scorbuto, gli Americani, che non avevano nessun rimedio contro questa terribile malattia, perdettero cento uomini, vale a dire quasi il terzo del loro effettivo.

Il maggiore Long, che, in questo frattempo, aveva raggiunto Washington con un canotto, recava l'ordine di non continuare il viaggio lungo il Missuri e di passare alle sorgenti della Plata, per recarsi di là al Mississippi, attraverso l'Arkansas ed il fiume Rosso.

Il 6 giugno, gli esploratori lasciarono dunque l'accantonamento degli Ingegneri, come essi avevano chiamati i loro quartieri d'inverno, e risalirono per più di cento miglia la valle della Plata, dalle erbose praterie, popolate di frotte immense di bisonti e di daini che fornirono loro viveri in abbondanza.

A queste praterie senza limiti, di cui neppure un colle venne a rompere la monotonia, successe un deserto di sabbia che si eleva a dolce pendìo, per uno spazio di quasi quattrocento miglia, fino alle montagne Rocciose. Tagliato da barrancas a picco, da gole, in fondo alle quali, sotto una vegetazione intristita e rara, mormora qualche meschino rigagnolo, questo deserto non ha altri vegetali che i cactus dai dardi pungenti e pericolosi.

Il 6 luglio, la spedizione aveva toccato il piede delle

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montagne Rocciose. Il dottor James ne salì uno dei picchi, al quale diede il suo nome, e che si eleva a 11.500 piedi al disopra del mare.

«Dalla cima di questo picco, dice il botanico, lo sguardo abbraccia al nord-ovest ed al sud-ovest innumerevoli montagne tutte bianche di neve; le più lontane ne sono coperte fino alla base. Immediatamente sotto i nostri piedi, all'ovest, giace la stretta vallata dell'Arkansas, di cui noi possiamo seguire il corso verso il nord-ovest a più di sessanta miglia. Sul versante nord della montagna, vi era una massa enorme di neve e di ghiaccio, all'est si stendeva la grande pianura, elevantesi man mano che si allontanava, fino a che, all'estremità dell'orizzonte, essa sembrava confondersi col cielo.»

In questo luogo, la spedizione si divise in due parti. Una, sotto gli ordini del maggior Long, doveva dirigersi

verso le sorgenti del fiume Rosso; l'altra, comandata dai capitano Bell, doveva discendere l'Arkansas fino al porto Smith. I due distaccamenti si separarono il 24 luglio. Il primo, ingannato dalle informazioni che gli diedero gli Indiani Kaskaias e dall'inesattezza delle carte, prese la Canadina per il fiume Rosso, e non si accorse dell'errore che quando giunse al confluente di questo fiume coll'Arkansas. Questi Kaskaias erano proprio i più miserabili dei selvaggi; ma, intrepidi cavalieri, essi erano abilissimi nel pigliar col laccio i «mustang» selvatici, discendenti dai cavalli importati al Messico dai conquistatori spagnuoli.

Il secondo distaccamento si era visto abbandonato da quattro soldati, che avevano rubato, insieme ad una quantità di oggetti preziosi, i giornali di viaggio di Say e del luogotenente Swift.

I due drappelli avevano inoltre dovuto soffrire per la mancanza di provvigioni in questi deserti ricoperti d'uno strato di sabbia, i cui fiumi non avevano che un'acqua salmastra e

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fangosa. La spedizione riportava a Washington una sessantina di

pelli di animali selvatici, parecchie migliaia d'insetti, di cui cento nuovi, un erbario di quattro o cinquecento piante sconosciute, numerose vedute di paesi, e i materiali per una carta delle contrade percorse.

Nel 1828 fu dato il comando di una nuova spedizione alto stesso maggiore Long, i cui servigi erano stati grandemente apprezzati.

Lasciando Filadelfia, nel mese di aprile, egli si recò all'Ohio, attraversò lo Stato che porta questo nome, gli Stati d'Indiana e degli Illinois. Dopo d'aver raggiunto il Mississippi, egli lo risalì fino alla foce del fiume Saint-Pierre giù visitato da Carver e poi dal barone La Hontan. Long lo seguì fino alla sua sorgente, incontrò il lago Travers, giunse al lago Winnipeg, esplorò il fiume dello stesso nome, vide il lago dei Legni, quello delle Pioggie, ed arrivò al piano che separa il bacino della baia di Hudson da quello del San Lorenzo. Egli infine per il lago d'Acqua fredda, e per il fiume del Cane, si spinse fino al lago Superiore.

Benché tutte quelle località fossero già da molti anni percorse dagli esploratori dei boschi canadesi e dai cacciatori, era la prima volta che una spedizione ufficiale li visitava con la missione di determinare il tracciato. I viaggiatori furono meravigliati dalla bellezza delle contrade bagnate dal Winnipeg. Il corso di questo fiume, frequentemente interrotto da rapidi pendii e da cascate del più pittoresco effetto, scorre fra due muraglie a picco di rocce di granito, coperte di verdura.

La bellezza di questi paesaggi succedendo alla monotonia delle pianure e delle savane che avevano attraversato sino allora, colmò di ammirazione i viaggiatori.

L'esplorazione del Mississippi, abbandonata dopo l'esplorazione di Montgomery Pike, fu ripresa nel 1828 dal

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generale Cass, governatore del Michigan. Partito da Detroit, alla fine di maggio, con un seguito di venti uomini rotti al mestiere di esploratori di boschi, si portò all'alto Mississippi dopo d'aver visitato i laghi Huron, Superiore e Sandy, La sua scorta, spossata, dovette accamparsi in questo luogo, mentre egli riprendeva in canotto l'esplorazione del fiume. Per centocinquanta miglia il Mississippi scorreva con rapidità e senza ostacoli, ma a questa distanza il suo letto era interrotto da rapidi pendii per una dozzina di miglia, fino alla cascata di Peckgama.

Al di sopra di questa cascata la corrente, molto meno rapida, serpeggiava attraverso immense savane fino al lago delle Sanguisughe.

Dopo d'aver raggiunto il lago Winnipeg, Cass arrivò, il 21 luglio, ad un nuovo lago, che ricevette il suo nome; ma non volle spingersi più avanti coi deboli mezzi ch'egli possedeva in munizioni, in viveri ed in uomini.

Si era andati vicino alla, sorgente del Mississippi, ma non la si era ancora raggiunta. L'opinione generale era che il fiume uscisse da un piccolo lago, situato a sessanta miglia da quello di Cass, che portava il nome di lago della Biche. Pure fu soltanto nel 1832, mentre il generale Cass era segretario di Stato della guerra, che si pensò a risolvere questo importante problema.

Il comando d'una spedizione di trenta persone, di cui dieci soldati, un ufficiale incaricato dei lavori idrografici, un chirurgo, un geologo, un interprete ed un missionario, fu dato ad un viaggiatore, di nome Schoolcraft, che l'anno precedente aveva esplorato il paese dei Chippeways al nord-ovest del lago Superiore.

Schoolcraft, partito da Santa-Maria il 7 giugno 1832, visitò le tribù del lago Superiore, ed entrò ben presto nel fiume Saint-Louis. Centocinquanta miglia separavano allora Schoolcraft dal

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Mississippi. Non gli occorsero meno di dieci giorni per fare questo tragitto, a motivo dei rapidi pendii e dei pantani. Il 3 luglio la spedizione arrivava alla fattoria di un commerciante

chiamato Aitkin, sulle rive del fiume, e si celebrava, l'indomani, l'anniversario dell'indipendenza degli Stati Uniti.

Due giorni dopo, Schoolcraft si trovava in faccia alla

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cascata, di Peckgama, e si accampava alla punta delle Quercie. In questo luogo, il fiume faceva molti zig-zag in mezzo alle savane; ma le guide condussero la spedizione per sentieri che abbreviarono considerevolmente la distanza. Si passarono poi il lago alla Crasse ed il lago Winnipeg, e Schoolcraft arrivò il 10 luglio al capo Cass, punto che non era ancora stato passato dagli esploratori precedenti.

Un drappello di Chippeways condusse i viaggiatori al campo che essi occupavano in un'isola del lago. Il comandante, sicuro delle disposizioni amichevoli di quei selvaggi, lasciò in questo luogo una parte della sua scorta, e accompagnato dal luogotenente Alien, dal chirurgo Hugton, da un missionario e da parecchi selvaggi, partì in piroga.

Furono successivamente visitati i laghi Tascodiac e Travers. Un po' al di là di quest'ultimo, il Mississippi si divide in due rami. La guida condusse Schoolcraft per quello dell'est, e facendogli valicare i laghi Marquette, Lasalle e Kubbakunna, lo condusse al confluente della Naiwa, principale tributario di questo ramo, che esce da un lago infettato da serpenti con la testa dal color rame. Infine dopo di esser passato per il piccolo lago di Usawa, la spedizione giunse ai lago Itasca, donde esce il ramo itascano od occidentale del Mississippi.

Il lago Itasca o della Biche, come lo chiamavano i Francesi, non ha più di sette od otto miglia di estensione, ed è circondato da colline, ombreggiate dal cupo fogliame dei pini. Esso sarebbe a 1500 piedi al di sopra dell'Oceano, secondo Schoolcraft, ma non si deve dare grande importanza a queste misure, giacché il comandante non aveva strumenti a sua disposizione.

La spedizione, per guadagnare il lago di Cass, seguì il ramo occidentale, e ne riconobbe i principali affluenti. Schoolcraft esplorò in seguito gli Indiani che frequentavano queste contrade e concluse dei trattati con essi.

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Insomma lo scopo che il governo si proponeva era raggiunto, ed il Mississippi, era da allora esplorato dalia sua foce alla sua sorgente. La spedizione riportava una grande quantità di particolari interessanti sui costumi, siigli usi, la storia e la lingua degli indigeni; infine la storia universale aveva fornito un ampio contingente di specie nuove e poco conosciute.

Ma l'attività dei popoli degli Stati Uniti non si limitava a queste esplorazioni ufficiali. Molti cacciatori si lanciavano attraverso nuove contrade. La maggior parte assolutamente illetterati, non poterono dare delle scoperte alla scienza. Lo stesso non è di Jacques Pattie, che ha pubblicato il racconto delle sue avventure romanzesche e delle sue corse pericolose sulla regione che si estende tra il Nuovo Messico e la Nuova California.

Discendendo il rio Gila fino alla sua foce, Pattie visitò dei popoli quasi ignorati, i Jotans, i Mohawas, i Nabahos, ecc., coi quali le relazioni erano sempre state rarissime. Egli scoperse sulle rive del rio Eiotario, delle rovine di antichi monumenti, delle mura di pietra, dei fossati e delle stoviglie, e nelle montagne vicine, delle miniere di rame, di piombo e d'argento:

Dobbiamo anche un curioso giornale di viaggio al dott Willard, che, in un soggiorno di tre anni nel Nuovo Messico, visitò il rio del Nord dalla sua sorgente alla sua foce.

Infine nel 1831; il capitano Wyeth e suo fratello esplorarono l'Oregon e la parte vicina delle montagne Rocciose.

Dopo il viaggio di Humboldt al Messico gli esploratori si succedono nell'America centrale. Bernasconi nel 1787 aveva scoperto le rovine di Palenqué ora famose; Antonio Del-Rio nel 1822 ne aveva data una descrizione particolareggiata, ch'egli aveva corredata anche di alcuni disegni, dovuti alla matita di Federico Waldeck, futuro esploratole di quella città

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morta. Il capitano Guglielmo Dupaix e i disegnatori Castaneda dal

1805 al 1807 avevano fatto tre viaggi successivi nello Staio di Chiana ed a Palenqué ed il risultato delle loro, ricerche comparve nel 1830 in una magnifica opera, i cui disegni, dovuti ad Agostino Aglio, sono stati eseguiti a spese di lord Kingsborugh.

Infine nel 1832 e 1833, Waldeck soggiornava due anni interi a Palenqué, vi faceva degli scavi, ne levava i piani, gli spaccati e le elevazioni dei monumenti, s'applicava, a riprodurre i geroglifici ancora inesplicati che li ricoprono, e riuniva tanto per la storia naturale, quanto sui costumi degli abitatiti una quantità di notizie assolutamente nuove.

Bisogna citare anche il colonnello Don Juan Galindo, l'esploratore di Ralenqué, di Etatlan, di Copan, e d'altre città nascoste in fondo a foreste tropicali.

Dopo il lungo soggiorno che Humboldt aveva fatto nell'America equinoziale, l'indirizzo che le sue esplorazioni sembravano dover dare agli studi geografici, si trovò singolarmente incalzato dalle lotte delle colonie spagnuole contro le loro metropoli. Pure, appena i governi indigeni parvero stabiliti, intrepidi esploratori si lanciarono attraverso questo mondo che allora era veramente nuovo, giacché la gelosia sospettosa degli Spagnuoli l'aveva chiuso fin d'allora alle investigazioni degli scienziati.

Naturalisti ed ingegneri percorrono l'America meridionale o vanno a stabilirvisi. Presto anzi, nel 1817-1820, i governi d'Austria e di Baviera si accordano per mandare al Brasile una spedizione scientifica, alla testa della quale mettono i dottori Spix e De Martius, che raccolgono numerose informazioni sulla botanica, l'etnografia, la statistica, e la geografia di queste contrade così poco conosciute, e Martius scrive un'opera monumentale sulla flora, del paese. Questa pubblicazione, fatta

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a spese dei governi d'Austria e di Baviera, è giudicata uno dei modelli del genere.

Alla stessa epoca, le collezioni speciali: gli Annali dei viaggi di Malte-Brun ed il Bollettino della Società di Geografia, per non citare che opere francesi, raccolgono con cura, e pubblicano tutte le comunicazioni che si mandano loro, principalmente sul Brasile e sulla provincia di Minas Geraës.

Nello stesso tempo un generale prussiano, il maggiore generale principe di Wied-Neuwied, a cui la pace del 1815 aveva creato degli ozi, si dava allo studio delle scienze naturali, della geografia e della storia. Di più, insieme ai naturalisti Freirciss e Sellow, faceva un viaggio di esplorazione nelle provincie interne del Brasile, e si occupava più specialmente di storia naturale e di zoologia.

Alcuni anni dopo, nel 1836, il naturalista francese Alcide d'Orbigny, già celebre quantunque ancora molto giovane, riceveva dalla amministrazione del Museo una missione relativa alla storia naturale dell'America del sud. Per otto anni consecutivi d'Orbigny percorse il Brasile, l'Uruguay, la Repubblica Argentina, la Patagonia, il Chili, la Bolivia ed il Perù.

«Un tal viaggio, dice Damur nel discorso ch'egli pronunciò ai funerali di d'Orbigny, un tal viaggio fatto in contrade tanto diverse per le loro produzioni, per il loro clima, per la natura del loro suolo e per gli usi dei loro abitanti, presenta ad ogni passo nuovi pericoli. D'Orbigny, dotato di una forte costituzione e di un ardore infaticabile, sormontò ostacoli che avrebbero arrestato molti viaggiatori.

«Arrivato nelle fredde regioni della Patagonia, in mezzo a popoli selvaggi, continuamente in guerra, egli si vide costretto ad abbracciare un partito e a combattere nelle file di una delle tribù che lo avevano ospitato. Fortunatamente per l'intrepido scienziato, la vittoria si era schierata dalla sua parte, e gli rese

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l'opportunità di continuare la sua via.» I risultati di così lunghe ricerche esigettero tredici anni di

un lavoro accanito per essere messi in opera. Quest'opera che tocca quasi tutta la scienza, lascia molto addietro quella che era stata pubblicata sull'America meridionale. La storia, l'archeologia, la zoologia e la botanica, vi tengono il posto principale; ma la parte più importante di questo lavoro enciclopedico è quella consacrata all'Uomo americano. In essa l'autore ha riuniti tutti i documenti da lui stesso raccolti, ha analizzato e criticato quelli che gli venivano di seconda mano sui caratteri fisiologici, sui costumi, le lingue e le religioni dell'America del Sud. Un'opera di quésto valore basterebbe per immortalare il nome del dotto francese, e fa grandissimo onore alla nazione che lo annovera fra i suoi figli.

FINE DELLA PARTE PRIMA.

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PARTE SECONDA

CAPITOLO I.

I CIRCUMNAVIGATORI STRANIERI.

Il commercio delle pelliccie in Russia. — Krusenstern riceve il comando d'una spedizione. — Nuka-Hiva.—Nangasaki. — Ricognizione della costa del Giappone. — Jeso. — Gli Ainos. — Saglialien. — Ritorno in Europa — Otto di Kotzebue — Riposo all'isola di Pasqua. — Penrlryn. — L'arcipelago Radak. — Ritorno in Russia. — Secondo viaggio. — Cambiamenti sopraggiunti a Taiti ed alle Sandwich. — Viaggio di Beechey. — L'isola di Pasqua. — Pitcairn ed i rivoltosi della Bounty. — I Pomotù. — Taiti e le Sandwich. — Le isole Bonin-Sima. — Lütke. — I Quebradas di Valparaiso. — La settimana santa al Chili. — La nuova Arcangelo. — I Kalosci. — Ouna-Lachka. — L'arcipelago delle Caroline. — Le piroghe dei Carolini. — Guaham, isola deserta. — Bellezza ed utilità delle isole Bonii-Sima. — I Thcuktci, loro abitudini e ciarlataneria. — Ritorno in Russia.

Col secolo XIX, i Russi cominciano a partecipare ai viaggi

che si compiono intorno al mondo. Fino allora il campo delle loro esplorazioni si era quasi interamente concentrato nell'Asia, e fra i loro marinai non si contano che Behring, Tchirikoff, Spangberg, Laxman, Krenitzin e Sarytcheff. Quest'ultimo prese una parte notevole al viaggio dell'inglese Billings, viaggio che fu lungi dal produrre i risultati che si era in diritto d'aspettarsi dai dieci anni che vi furono consacrati e dalle spese notevoli di cui era stato l'oggetto.

Ad Adamo Giovanni di Krusenstern spetta l'onore d'avere,

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il primo fra tutti i russi, fatto il giro del mondo per uno scopo scientifico o con una missione del governo.

Nato nel 1770, Krusenstern entrava nel 1793, nella marina inglese. Sottoposto per sei anni a questa dura scuola che contava allora i più provetti marinai del globo, ritornava in patria con una perfetta conoscenza del mestiere e con delle idee singolarmente sviluppate sulla parte che la Russia poteva avere nell'Asia orientale.

Durante un soggiorno di due anni a Cantori, nel 1798 e 1799, Krusenstern era stato testimonio dei meravigliosi risultati che avevano ottenuto alcuni negozianti inglesi con la vendita delle pellicce che andavano a cercare sulle coste nord-ovest dell'America russa.

Questo commercio non ebbe origine che dopo il terzo viaggio di Cook, e gl'inglesi avevano già realizzati immensi benefici a detrimento dei russi, che fino allora avevano alimentato per terra i mercati della China.

Però un russo, chiamato Chelikoff, aveva formato, nel 1785, una compagnia che, stabilendosi sull'isola Kocliak, ad eguale distanza dall'America, dal Kamtchatka e dalle isole Aléoutiennes, non tardò a prendere uno sviluppo notevole. Il governo comprese allora tutto il vantaggio che poteva trarre da contrade fino a quel tempo considerate come diseredate, e diresse verso il Kamtchatka, attraverso la Siberia, rinforzi, provvigioni e materiali.

Krusenstern non istette molto a comprendere l'insufficienza di questi soccorsi, l'incapacità dei piloti, l'inesattezza delle carte i cui errori cagionavano tutti gli anni la perdita di parecchie navi, senza parlare del pregiudizio che un viaggio di due anni recava al trasporto delle pelliccie fino a Okotsk e, di là, a Kiakhta.

Siccome le idee migliori sono sempre le più semplici, così ad esse si pensa in ultimo. Krusenstern fu dunque il primo a

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dimostrare la imperiosa necessità d'andare, direttamente e per via di mare, dalle isole Aléoutiennes, luogo di produzione, a Canton, mercato più frequentato.

Al suo ritorno in Russia, egli aveva tentato di far dividere le sue idee dal conte Koucheleff, ministro della marina; ma la risposta che ricevette gli tolse ogni speranza. Non fu che

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all'assunzione al trono di Alessandro I, quando l'ammiraglio Mordoinoff prese il portafoglio della marina, ch'egli si vide incoraggiato.

Anzi, subito dopo, in seguito ai consigli del conte Romanoff, Krusenstern fu dall'imperatore incaricato d'eseguire egli stesso i piani che aveva proposti. Il 7 agosto 1802 egli ricevette il comando di due vascelli destinati ad esplorare la costa nord-ovest dell'America.

Ma, se il capo della spedizione era nominato, gli ufficiali ed i marinai che dovevano seguirlo non erano stati ancora scelti, e quanto ai vascelli bisognava rinunciare a trovarli nell'impero russo. Non se ne trovò neppure ad Amburgo. Solo a Londra il capitano Lisianskoi, futuro secondo di Krusenstern, e il costruttore Kasumoff, riuscirono a procurarsi due bastimenti che parvero loro quasi propri allo scopo che si proponevano. Si chiamarono Nadiejeda e Nova.

In seguito a ciò, il governo risolse di approfittare di questa spedizione per inviare al Giappone un ambasciatore, Besanoff, con un seguito numeroso e con due magnifici regali destinati al sovrano del paese.

Il 4 agosto 1803, due bastimenti, completamente armati e portanti 134 persone, lasciarono la rada di Cronstadt. A Copenaghen ed a Falmouth fecero brevi stazioni per sostituire una parte dei salumi comperati ad Amburgo e per calafatare la Nadiejeda, le cui connessile si erano aperte durante un uragano che infuriò sulla spedizione nel mare del Nord.

Dopo un breve riposo alle Canarie, Krusenstern cercò invano, come aveva fatto La Pérouse, l'isola Ascençao (dell'Ascensione), sull'esistenza della quale le opinioni erano divise da trecento anni. Poi, rasentò il capo Frio, di cui non poté fissare esattamente la posizione, nonostante il vivo desiderio che ne aveva, giacché le relazioni e le carte più recenti variavano fra 23° 08' e 22° 34'. Dopo aver avuto

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conoscenza della costa del Brasile, si spinse fra le isole di Gal e di Alvarado, passaggio a torto segnalato come pericoloso da La Pérouse, ed entrò a Santa Caterina il 21 dicembre 1803.

La necessità di sostituire l'albero maestro e l'albero di trinchetto della Neva arrestò, per cinque settimane, Krusenstern in quest'isola, dove ricevette dalle autorità portoghesi l'accoglienza più premurosa.

Il 4 febbraio, i due bastimenti poterono riprendere il loro viaggio. Erano preparati ad affrontare i pericoli del mare del Sud ed a doppiare il capo Horn, questo spavento dei navigatori.

Se il tempo fu costantemente bello fino all'altezza della Terra degli Stati, al contrario, ai venti impetuosi, alle raffiche di grandine e di neve succedettero le fitte nebbie con onde altissime ed una grossa marea che affaticava i bastimenti. Il 24 marzo, durante una brina opaca, un po' al disopra della imboccatura occidentale dello stretto di Magellano, i due navigli si perdettero di vista. Non dovevano più ritrovarsi che a Nuka-Hiva.

Krusenstern, dopo aver rinunciato di toccare l'isola di Pasqua, guadagnò l'arcipelago delle Marchesi o Mendocines, e determinò la posizione delle isole Fatugu e Uhuga, chiamate Washington da Ingranane capitano americano, e scoperte nel 1792, poche settimane prima del capitano Marchand, che le chiamò isole della Rivoluzione.

Egli vide Hiva-Hoa, la Dominica da Mendana, e incontrò a Nuka-Hiva un inglese per nome Roberts ed un francese chiamato Cabri, i quali per la loro conoscenza della lingua gli resero importanti servigi.

Gli avvenimenti che riguardano questo riposo non offrono grande interesse. Il racconto di quelli che riguardano i viaggi di Cook può applicarsi a quello di Krusenstern. I medesimi particolari sulla incontinenza tanto assoluta quanto incosciente delle donne, sulla estensione delle cognizioni agricole degli

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indigeni, sulla loro avidità per gli istrumenti di ferro. Non vi si riscontra alcuna osservazione che già non sia

stata fatta dai viaggiatori precedenti, se non l'esistenza di parecchie società di cui il re o i suoi parenti, dei preti o guerrieri distinti sono i capi, a condizione dì nutrire i loro sudditi in caso di carestia. A nostro avviso, questa istituzione ricorderebbe quella dei clans della Scozia, o delle tribù indiane dell'America. Tale non è l'opinione di Krusenstern, che si esprime così:

«I membri di questo club si riconoscono dalle differenti marche tatuate sul loro corpo. Quelli del club del re, per esempio, in numero di ventisei, hanno sul petto un quadrato lungo sei pollici e largo quattro. Roberts ne faceva parte. Questi m'assicurò che non sarebbe mai entrato in questa società se la fame non lo avesse costretto. La sua l'ipugnanza, però, mi sembrava implicare contraddizione, poiché non solamente tutti quelli che compongono una tale società sono liberi d'ogni inquietudine per il loro nutrimento, ma, per quanto ebbe a confessare egli medesimo, gli isolani considerano come un onore l'esservi ammessi. Ho dunque sospettato che questa distinzione porti seco la perdita di una parte della libertà.»

Una ricognizione dei dintorni di Anna-Maria fece scoprire il porto di Tehitchagoff, la cui entrata è difficile, è vero, ma il bacino suo è chiuso tanto bene nelle terre, che la tempesta più violenta non potrebbe agitare le sue acque.

L'antropofagia era ancora fiorente a Nuka-Hiva, al momento della visita di Krusenstern. Però questo esploratore non narra di essere stato testimonio di scene di questo genere.

Insomma, Krusenstern fu accolto con cortesia da un re che non sembrava avere grande autorità su quel popolo di cannibali, dediti ai vizi più ributtanti.

Egli confessa che avrebbe riportato di questi isolani l'opinione più favorevole se non avesse incontrato i due europei

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in questione, le cui testimonianze illuminate e disinteressate furono in perfetto accordo.

«Noi non abbiamo provato da parte dei Nukahivi — dice il navigatore russo — se non eccellenti trattamenti; essi si sono sempre condotti con la massima onestà nel loro commercio di scambio con noi; cominciavano sempre col darci i loro cocchi prima di ricevere il nostro ferro. Se noi avevamo bisogno della legna o dell'acqua, essi erano sempre pronti ad aiutarci. Rarissimamente abbiamo dovuto lamentarci per furto, vizio assai comune ed esteso in tutte le isole di questo oceano… Sempre allegri e contenti, la bontà sembrava dipinta sulla loro faccia… I due europei che abbiamo trovati a Nuka-Hiva, e che avevano vissuto parecchi anni in quest'isola, erano d'accordo nel dire che gli abitanti sono depravati, barbari e senza eccettuare nemmeno le donne, cannibali in tutta l'estensione del termine; che la loro aria di allegrezza e di bontà che ci ha così vivamente colpiti, non è loro naturale; che il timore delle nostre armi e la speranza del guadagno soltanto aveva loro impedito di dare libero sfogo alle loro feroci passioni. Questi europei descrissero, come testimoni oculari, coi più minuti particolari, scene spaventevoli che succedevano quasi ogni giorno presso questo popolo, segnatamente in tempo di guerra. Essi ci narrarono con quale rabbia questi barbari si gettano sulla loro preda, tagliandole la testa, succhiando con orribile avidità il sangue da un'apertura che praticano nel cranio e terminando poi il loro detestabile pasto.

«Io, a tutta prima, ho rifiutato di credere a questi orrori ed ho considerato queste informazioni come alquanto esagerate. Ma tali narrazioni si basano sulla deposizione di due uomini che sono stati, per parecchi anni, non solo testimoni, ma anche attori in queste scene abbominevoli. Questi due uomini erano nemici giurati, e cercavano, calunniandosi reciprocamente, di mettersi più in credito nella nostra mente. Però su questo punto

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non si sono mai contraddetti. Del resto, i racconti di questi due europei s'accordano perfettamente coi vari indizi che ci hanno colpiti durante il nostro breve soggiorno. Ogni giorno, i Nukahivi ci portavano una quantità di crani da vendere; le loro armi erano tutte ornate di capelli; delle ossa umane decoravano, alla loro maniera, gran parte dei loro mobili; ci facevano anche conoscere, colle pantomine, il loro gusto per la carne umana,

Vi ha motivo di ritenere il quadro alquanto caricato. Fra l'ottimismo di Cook e di Forster e le dichiarazioni dei due europei, uno dei quali era pochissimo stimabile, poiché aveva disertato, deve trovarsi la verità.

E noi stessi, prima d'aver raggiunta la civilizzazione assai raffinata di cui godiamo oggi, non abbiamo percorso tutti i gradini della scala? Al tempo dell'età del sasso, i nostri costumi erano forse superiori a quelli dei selvaggi dell'Oceania?

Non rimproveriamo dunque a questi rappresentanti dell'umanità di non aver potuto elevarla più di quello che hanno fatto. Essi non hanno mai costituito un corpo di nazione. Sparsi sull'immenso Oceano, divisi in piccole popolazioni, senza risorse agricole o minerali, senza relazioni, senza bisogni, in ragione del clima sotto cui vivono, sono stati costretti a rimanere stazionari od a non sviluppare che certe piccole parti delle arti o delle industrie. Eppure, quante volte le loro stoffe, i loro strumenti, i loro canotti, le loro reti formano l'ammirazione dei viaggiatori!

Il 18 maggio 1804, la Nadiejeda e la Neva lasciarono Nuka-Hiva e fecero vela per le isole Sandwich, dove Krustenstern aveva risolto di fermarsi per approvvigionarsi di viveri freschi, ciò che non aveva potuto fare a Nuka-Hiva, dove non aveva trovato che sette maiali.

Ma i suoi progetti fallirono. Gli indigeni di Owyhee o Havai non portarono alle navi in panna dinanzi alla costa sud-ovest che pochissime provvigioni, ed anzi non volevano

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cederle che verso del panno, che Krusenstern si vide nell'impossibilità di fornir loro. Fece subito vela per il Kamtchakta e per il Giappone, lasciando la Nepa davanti al villaggio di Karakakua, dove il capitano Lisianskoi contava di vettovagliarsi.

Il 14 luglio, la Nadiejeda entrò a San Pietro-San Paulo, capitale del Kamtchakta, dove l'equipaggio trovò insieme ai viveri freschi un riposo che si era ben guadagnato. Il 30 agosto i russi riprendevano il mare.

Colto da fitte nebbie e da uragani, Krusenstern cercò, senza incontrarle, alcune isole tracciate sopra una carta rinvenuta a bordo del galeone spagnuolo catturato da Anson, e la cui esistenza era stata a volte ammessa, a volte respinta dai diversi cartografi, ma che figurano sulla costa dell'atlante del viaggio di La Biliardière.

Il navigatore passò poscia per lo stretto di Van-Diemen, fra la grande isola Riusin e Tanega-Sima, stretto fino allora male indicato, e, rettificando la posizione dell'arcipelago Liu-Kieu, che gli Inglesi mettevano al nord dello stretto di Van-Diemen ed i Francesi troppo al sud, assestò, rilevò e diede nome al litorale della provincia di Satsuma.

«Il colpo d'occhio di questa parte di Satsuma è grazioso, dice Krusenstern. Siccome ne proseguivamo la costa ad una piccola distanza, potevamo vedere distintamente tutti i luoghi pittoreschi che ci offriva. Essi variavano e si succedevano rapidamente man mano che il vascello avanzava. L'isola non è che un adornamento di vette appuntite. Alcune terminate a piramidi, altre a cupola od a cono, tutte riparate dalle alte montagne che le circondano. Se la natura è stata prodiga d'ornamenti per quest'isola, l'industria dei Giapponesi ha saputo aggiungervene altri. Nulla uguaglia la ricchezza di coltivazione che vi si ammira dappertutto. Questa non ci avrebbe forse colpiti, se si fosse, limitata alle vallate vicine alle coste —

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questi terreni non sono neppure trascurati in Europa; — ma qui non solamente le montagne sono coltivate fino alle loro sommità, ma anche quelle rupi che orlano la ripa sono coperte di campi e di piantagioni che col colore bruno e cupo della loro base formano un contrasto singolare e nuovo per gli occhi. Fummo parimenti assai meravigliati alla vista di un viale di grandi alberi che si prolungava lungh'esso la costa a perdita d'occhio attraverso monti e valli. Vi si distinguevano, a certe distanze, dei boschetti destinati senza dubbio al riposo dei viaggiatori pedestri, per i quali questa strada probabilmente è stata fatta. É difficile portare l'attenzione per i viaggiatori così lontano come al Giappone, giacché noi vedemmo un viale simile presso Nangasaki ed un altro ancora nell'isola di Meac-Sima.»

Appena la Nadiejeda ebbe toccata l'entrata del porto di Nangasaki, Krusenstern si vide salire a bordo parecchi «daimios» che gli recavano la proibizione di penetrare oltre.

Sebbene i Russi fossero al corrente della politica d'isolamento che praticava il governo giapponese, speravano che, avendo a bordo un ambasciatore della Russia, nazione vicina e potente, riceverebbero un'accoglienza meno offensiva. Essi contavano anche di godere di una libertà relativa, di cui avrebbero approfittato per raccogliere delle informazioni su questo paese allora così poco conosciuto, e sul quale il solo popolo che vi ebbe accesso si era fatto legge di tacersi.

Ma furono tolti alle loro speranze. Lungi dal godere della medesima larghezza degli Olandesi, furono durante tutto il loro soggiorno circondati da una sorveglianza tanto minuziosa quanto offensiva, ed anche ritenuti prigionieri.

Se l'ambasciatore ottenne di discendere a terra con la sua guardia «in armi» — favore inaudito di cui non vi era esempio — i marinai non poterono allontanarsi in canotto. Quando fu loro permesso di sbarcare, si circondò di alte palizzate e si

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munì di due corni di guardia quello stretto luogo di passeggio. Proibizione di scrivere in Europa per la via di Balavia,

proibizione di intrattenersi coi capitani olandesi, proibizione all'ambasciatore di assentarsi da casa sua, proibizione… Questa parola riassume laconicamente l'accoglienza poco cordiale dei Giapponesi.

Krusenstern approfittò del lungo soggiorno in questo luogo per disarmare interamente e rattoppare la sua nave. Questa operazione volgeva al termine, quando fu annunciata la venuta di un inviato dell'imperatore, di una dignità tanto alta, che, secondo l'espressione degli interpreti, «osava guardare i piedi di Sua Maestà imperiale».

Questo personaggio cominciò dal rifiutare i doni dello czar, col pretesto che l'imperatore sarebbe obbligato di rimandarne degli altri con un'ambasciata, il che era contrario ai costumi del paese; poi significò il divieto espresso a tutti i vascelli di presentarsi nei porti del Giappone, e la proibizione assoluta ai Russi di fare acquisti; ma in pari tempo dichiarava che le provvigioni fornite per il rattoppamento della nave ed i viveri rilasciati fino a quel giorno sarebbero pagati a spese dell'imperatore del Giappone. Intanto s'informò se le riparazioni della Nadiejeda sarebbero presto compiute. Krusenstern comprese al volo e fece affrettare i preparativi della partenza.

Davvero che non vi era da rallegrarsi di avere atteso dal mese di ottobre fino all'aprile una simile risposta! Uno dei risultati che si era proposto il governo era così poco raggiunto, che alcuna nave russa non poteva più avvicinarsi al un porto giapponese. Politica del Giappone!

Il 17 aprile la Naäiejeda levava l'ancora e cominciava una campagna idrografica assai fruttuosa. Solo, La Pérouse aveva preceduto Krusenstern nei mari che si stendono fra il Giappone e il continente. Epperò il navigatore russo desiderava di

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collegare le sue ricerche a quelle dei suo predecessore e colmare le lacune che questi era stato costretto a lasciare, per difetto di tempo , nella geografia di questi mari.

«Il mio piano, dice Krusenstern, era d'esplorare le coste sud-ovest e nord-ovest del Giappone, di determinare la posizione dello stretto di Sangar, al quale le carte di Arron Smith, nel Pilota del mare del Sud, e quelle dell'atlante del viaggio di La Pérouse attribuiscono cento miglia di larghezza, mentre i Giapponesi non gli danno che un miglio olandese; di rivelare la costa occidentale di Ieso, di cercare di scoprire l'isola Karafuto, indicata, secondo una carta giapponese, sopra alcune carte moderne fra Ieso e Saghaiien e la cui esistenza mi sembrava assai probabile; d'esaminare questo nuovo stretto e di rivelare intieramente l'isola Saghaiien dal capo Crillon fino alla costa nordovest, donde, se vi trovassi un buon porto, invierei la mia scialuppa per verificare il passaggio ancora problematico che separa la Tartaria da Saghaiien; finalmente, di cercare di passare da un altro canale al nord dello stretto delle Bussole, fra i Kurili».

Questo piano così particolareggiato Krusenstern stava per realizzarlo in parte. Solamente le ricognizioni della costa occidentale del Giappone e dello stretto di Sangar, come pure quello dello stretto che ferma al nord la Manica di Tarakai, non poterono essere fatte dal navigatore russo, che lasciò, suo malgrado, ai suoi successori la cura di terminare questa importante operazione.

Krusenstern imboccò dunque lo stretto di Corea, constatò per la longitudine dell'isola di Tsus una differenza di trentasei minuti fra la sua stima e quella di La Pérouse — differenza che si trova rettificata presso quest'ultimo, con le tavole di correzione di Dagelet, che bisogna assolutamente consultare.

L'esploratore russo si trovò parimente d'accordo col marinaio francese per notare che la declinazione dell'ago

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calamitato è pochissimo sensibile in quei paraggi. La posizione dello stretto di Sangar fra leso e Nippon,

essendo molto incerta, Krusenstern voleva precisarla. La bocca

situata fra il capo Sangar. con 41° 16' 30" di latitudine e 219° 46' di longitudine, e il capo della Nadiejeda al nord, con 41° 25' 10" di latitudine e 219° 50' 30" di longitudine, non ha più di nove miglia di larghezza. Ora, La Pérouse, che, non avendola

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riconosciuta, si fidava della carta del viaggiatore olandese Vries, le dava centodieci miglia. Era un'importante rettifica.

Krusenstern non imboccò questo stretto. Egli voleva verificare la esistenza d'una cert'isola Karafuto, Tchoka o Chicha, posta fra Ieso e Saghalien sopra una carta apparsa a Pietroburgo nel 1802, e basata su quella che aveva portato in Russia il giapponese Kaday. Egli risalì dunque a piccola distanza la costa di leso, e si fermò alquanto alla punta settentrionale di quest'isola, all'entrata dello stretto di La Pérouse.

Là seppe dei Giapponesi che Saghalien e Karafuto non sono che una sola e medesima isola.

Il 10 maggio 1805, sbarcando a leso, Krusenstern fu stupito di trovare la stagione così poco avanzata. Gli alberi non avevano le foglie, vi era ancora un fitto strato di neve, l'impressione del viaggiatore fu che bisognerebbe risalire fino ad Arkangel per trovare a quest'epoca una temperatura così rigida. La spiegazione dì questo fenomeno doveva essere data più tardi, quando si sarebbe meglio conosciuta la direzione della corrente ghiacciata che, uscendo dallo stretto dì Behring corre lungo il Kamtchatka, le Kurilì e Ieso.

Durante questo breve riposo e quello che Krusenstern fece a Saghalien, egli poté osservare gli Àinos, popolo che non somigliava per nulla ai Giapponesi — almeno a quelli che le relazioni con la China avevano modificati — e che dovevano possedere leso interamente prima che questi ultimi vi sì stabilissero.

«La loro statura, la loro fisionomia, la loro lingua, la loro foggia di vestirsi, narra il viaggiatore, tutto prova che essi hanno una origine comune (con quelli di Saghalien) e non formano che una sola nazione. Il che spiega come il capitano del vascello il Castricum, avendo fallito lo stretto di La Pérooise, poté credere, ad Anìva e ad Atkis, di essere sempre

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sulla medesima isola.. Gli Àinos hanno quasi generalmente la stessa statura, che è da cinque piedi e due pollici, a cinque piedi e quattro pollici al più. Essi hanno la tinta bruno carico e quasi nera, la barba fitta e folta, i capelli neri ed irsuti, piatti e pendenti all'indietro. Le donne sono brutte, la loro tinta scura al par dì quella degli uomini, i loro capelli neri pettinati sulla faccia, le loro labbra dipinte in turchino e le loro mani tatuate; tutto ciò, unito ad un abbigliamento sudicio, non contribuisce a renderle piacevoli. Devo tuttavia render loro la giustizia d'aggiungere ch'esse sono molto saggie e modestissime. Il punto principale del carattere d'un Aìno è la bontà; essa splende in tutti i suoi tratti e sì manifesta in tutte le sue azioni. Il vestito di un uomo consiste per lo più in pelli di cane e di foca. Però ne ho visti parecchi che portavano un'altra sorta d'abito, affatto simile al parkis dei Kamtchadaíi; che non è propriamente che una camicia larga, messa sopra agli altri vestimenti. Gli abitanti di Aniva portavano tutti delle pelliccie; anche le loro scarpe erano di pelle di foca. Le donne erano vestite della medesima specie di pelle.»

Dopo aver passato lo stretto di La Pérouse, Krusenstern si fermò alla baia di Aniva, nell'isola Saghalien, Il pesce vi era tanto comune, che due comptoirs giapponesi occupavano oltre quattrocento Ainos per pulirlo e farlo seccare. Non lo si pescava già colle reti, ma lo si estraeva con le secchie durante il riflusso.

Dopo aver rivelato il golfo Pazienza, che non era stato esaminato che in parte dall'olandese Vries, e in fondo al quale si getta un corso d'acqua, che ricevette il nome di Neva, Krusenstern interruppe la ricognizione di Saghalien per rilevare le Kurili, la cui posizione non era stata che incompletamente determinata; poi, il 5 giugno 1805, entrò a Petropaulowsky, dove sbarcò l'ambasciatore ed il suo seguito.

Nel mese di luglio, dopo aver passato lo stretto della

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Nadiejeda, fra Matua e Rachua, due delle Kurili, Krusenstern riprese il rilievo della costa orientale di Saghalien, nei dintorni del capo Pazienza. I dintorni erano abbastanza pittoreschi con le loro colline tappezzate di verdura e d'alberi poco elevati, e la loro riva orlata di cespugli. L'interno offriva alla vista una linea uniforme e monotona di alte montagne.

Il navigatore seguì questa costa deserta e senza porti in tutta la sua lunghezza, fino ai capi Maria ed Elisabetta. Fra essi trovasi una gran baia, in fondo a cui giace un piccolo villaggio di trentasette case, l'unico che i Russi abbiano scorto dopo la loro partenza dalla baia Provvidenza. Esso non era abitato da Ainos, ma bensì da Tartari, come se ne ebbe la prova alcuni giorni dopo.

Krusenstern penetrò poscia nel canale che separa Saghalien dalla Tartaria; ma appena fu a cinque miglia dal mezzo dell'apertura, la sonda segnalò sei braccia solamente. Non bisognava pensare ad avanzarsi oltre. Fu dato ordine di mettere in traverse, mentre un'imbarcazione si allontanava con la missione di seguire mano mano le due rive e d'esplorare in mezzo del canale finché non avesse trovato più che tre braccia. Essa dovette lottare contro una corrente violentissima che rese questa navigazione assai penosa, corrente che si attribuì, non senza ragione, al fiume Amore, la cui imboccatura non è lontana.

Ma la raccomandazione che era stata fatta a Krusenstern dal governatore del Kamtchatka, di non avvicinarsi alla costa della Tarlarla soggetta alla China, affine di non destare la sospettosa diffidenza di questa potenza, lo impedì di spingere più oltre il suo lavoro di rilievo. Passando ancora una volta attraverso la catena delle Kurili, la Nadiejeda entrò a Petropaulowsky.

Il comandante approfittò del suo soggiorno in questo porto per fare alcune riparazioni indispensabili al suo bastimento e

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per ristabilire i monumenti del capitano Clerke, che era succeduto a Cook nel comando della sua ultima spedizione, e di Delisle de La-Groyère, l'astronomo francese, compagno di Behring nel 1741.

Krusenstern ricevette, durante quest'ultima stazione, una lettera autografa dell'imperatore di Russia, che, in testimonianza di soddisfazione pei suoi lavori, gli inviava la decorazione di Sant'Anna.

Il 4 ottobre 1805, la Nadiejeda riprese finalmente la via dell'Europa, esplorando i paraggi dov'erano indicate, sulle carte, le isole dubbiose di Rica-de-Plata, Guadalupa, Malabrigos, San Sebastiano di Lobos e San Giovanni.

Krusenstern riconobbe le isole Farellon della carta d'Anson, che oggi portano i nomi di Sant'Alessandro, Sant'Agostino e Volcanos, gruppo che si trova al sud di Bonin-Sima. Poi, dopo aver varcato il canale di Formosa, entrò, il 22 novembre, a Macao.

Fu assai stupito di non trovarvi la Neva, che, secondo le sue istruzioni, doveva portare da Kodiak un carico di pelliccie, il cui prodotto sarebbe adoperato per l'acquisto di mercanzie chinesi. Krusenstern risolvette dunque d'aspettarla.

Macao offrì agli esploratori l'emblema della grandezza decaduta.

«Vi si vedono — dice la relazione — grandi piazze contornate da superbe case, che sono circondate da cortili e da bellissimi giardini, e la maggior parte vuote, essendo assai diminuito il numero degli abitanti portoghesi. I principali edifizi sono occupati dai membri delle Loggie olandesi ed inglesi… Macao contiene presso a poco quindicimila abitanti. I Chinesi ne formano il maggior numero, giacché è raro di vedere un europeo nelle strade, eccetto i preti e le religiose. «Abbiamo più preti che soldati!» mi diceva un borghese di Macao. Questa celia era letteralmente vera. Il numero dei

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soldati non è che di centocinquanta, fra i quali non si conta un solo europeo; sono tutti meticci di Macao e di Goa; tutti gli ufficiali non sono neppure essi europei. Sarebbe molto difficile difendere quattro grossi forti con una guarnigione così esigua. La sua debolezza dà appiglio ai Chinesi, naturalmente insolenti, di accumulare insulti sopra insulti».

Al momento in cui la Nadiejeda stava per levare l'ancora, la Neva finalmente apparve. Si era al 3 novembre. Krusenstern risalì con essa fino a Whampoa, dove vendette vantaggiosamente il suo carico di pelliccierie, dopo lunghi e numerosi ostacoli che la sua attitudine ferma, ma conciliante, nonché l'intromissione dei negozianti inglesi, contribuirono ad evitare.

Il 9 febbraio 1806 i due bastimenti riuniti levarono l'ancora e fecero rotta insieme per lo stretto della Sonda. Al di là dell'isola di Natale, causa il cattivo tempo, furono ancora separati, e non dovevano più riunirsi fino alla fine della spedizione. Il 4 maggio la Nadiejeda era nella baia di Sant'Elena, dopo cinquantasei giorni di navigazione dallo stretto della Sonda e settantanove da Macao. «Non conosco riposo più conveniente di Sant'Elena, dice Krusenstern, per rinfrescarsi dopo un lungo viaggio. La rada è sicurissima e molto più comoda in ogni tempo delle baie della Tavola e di Simone, al Capo.

«L'entrata ne è facile, purché si tenga vicino a terra; per uscirne basta levar l'ancora, e subito si è al largo. Vi si trova ogni sorta di viveri, sovratutto della eccellente verdura. In meno di tre giorni si è abbondantemente forniti di tutto.»

Partito il 21 aprile, Krusenstern passò fra le Shetland e le Orcadi, affine di evitare la Manica, dove avrebbe potuto incontrare qualche corsaro francese e, dopo una felice navigazione, entrò a Cronstadt il 7 agosto 1806.

Senz'essere un viaggio di prim'ordine, come quelli di Cook

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e di La Pérouse, quello di Krusenstern non mancò d'interesse. Non si deve a questo esploratore nessuna, grande scoperta, ma ha verificato e rettificato quelle dei suoi predecessori. Del resto questa deve essere il più delle volte la parte dei viaggiatori del secolo XIX che si applicarono, mercè i progressi delle scienze, a completare i lavori dei loro antecessori.

Krusenstern aveva condotto, nel suo viaggio intorno al mondo, il figlio dell'autore drammatico conosciutissimo, Kotzebue. Il giovane Ottone Kotzebue, che era guardia marina a questo tempo, non tardò ad essere promosso. Era luogotenente di vascello, quando gli venne affidato, nel 1815, il comando di un brik nuovissimo, il Rurik, fornito di ventisette uomini d'equipaggio solamente, ed armato di due cannoni, equipaggiato a spese del conte Romantzoff. Aveva per missione di esplorare le parti meno conosciute dell'Oceania e d'aprirsi un passaggio attraverso l'Oceano Glaciale.

Kotzebue lasciò il porto di Cronstadt il 15 luglio 1815, fece sosta a Copenaghen, poi a Plymouth, e, dopo una navigazione penosissima, entrò, il 22 gennaio 1816, nell'oceano Pacifico, doppiando il capo Horn. Dopo una sosta a Talcahuano sulla costa chilena, riprese la sua rotta; vide, il 26 marzo, l'isola deserta di Salas-y-Gomez, e si diresse verso l'isola di Pasqua, dove contava ricevere la medesima accoglienza amichevole de' suoi predecessori Cook e La Pérouse.

Ma appena i russi furono sbarcati in mezzo ad una folla che si faceva premura di offrir loro frutta e radici, si videro circondati e derubati con una tale impudenza che dovettero, per difendersi, fare uso delle armi ed imbarcarsi al più presto onde sfuggire alla grandine di sassi di cui gli indigeni li opprimevano.

La sola osservazione che si ebbe tempo di fare, durante questa breve visita, fu che gran numero delle statue di pietra

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gigantesche, che Cook e La Pérouse avevano vedute, disegnate e misurate, erano state atterrate.

Il 16 aprile il capitano russo giunse all'isola dei Cani, di Schuten, che chiamò isola Dubbiosa, affine di notar bene la differenza che egli constatava fra la latitudine che le era stata attribuita dagli antichi navigatori e quella che risultava dalle sue proprie osservazioni. Secondo Kotzebue, essa sarebbe situata a 14° 50' di latitudine australe e 138° 47' di longitudine ovest.

Nei giorni seguenti furono scoperte le isole deserte di Romantzoff — così chiamate in onore del promotore della spedizione; — quella di Spirodoff, con un gran lago in mezzo, che è l'isola di Ura dei Pomotù; poi, la catena degli isolotti Vliegen e quella non meno lunga delle isole Krusenstern.

Il 28 aprile il Rurik si trovava attraverso alla posizione assegnata alle isole Buman. Si cercarono invano. Verosimilmente, questo gruppo era uno di quelli già visitati.

Appena uscito dall'arcipelago pericoloso dei Pomotù, Kotzebue si diresse verso il gruppo d'isole scorto, nel 1788, da Sever, che senza accostarle aveva dato loro il nome di Penrhyn. Il navigatore determinò con 9° 1' 35" di latitudine sud e con 157° 44' 32' la posizione centrale di gruppi d'isolotti simili ai Pomotù, bassissimi e tuttavia abitati.

Alla vista del bastimento, una flottiglia notevole s'era staccata dalla riva, e gl'indigeni, con un ramo di palma in mano, s'avanzavano ai rumore cadenzato dei remi, che accompagnavano con modo grave e malinconico, numerosi cantori. Per evitare ogni sorpresa, Kotzebue fece allineare tutte le sue piroghe da un sol lato del bastimento, e subito cominciarono gli scambi mediante una fune. Questi indigeni non barattarono che dei pezzi di ferro contro ami di madreperla. Essi erano interamente nudi, eccetto un grembiule, ma ben fatti ed avevano l'aria marziale.

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Dapprima chiassosi ed animatissimi, i selvaggi si fecero tosto minacciosi. Non celarono più i loro furti, e risposero ai reclami con le provocazioni meno dissimulate. Agitando le loro lancie al disopra del capo, mandavano terribili clamori e sembrava che si eccitassero reciprocamente all'attacco.

Quando Kotzebue stimò giunto il momento di por fine a queste ostili dimostrazioni, fece sparare un colpo di fucile a polvere. In un batter d'occhio i canotti furono vuoti. Al rumore della detonazione, i loro equipaggi, spaventati, si erano lanciati nell'acqua con un movimento unanime, sebbene non concertato. Si videro subito dopo emergere le teste dei nuotatori, che, resi più calmi da questo avvertimento, ripresero gli scambi. I chiodi ed pezzi di ferro ottennero un vivissimo successo presso questa popolazione, che Kotzebue paragona a quella di Nuka-Hiva. Questi indigeni, se non si tatuano, si tracciano tutto il corpo di larghe cicatrici.

Moda notevole, che non era ancora stata constatata nelle isole oceaniche, essi avevano per lo più delle unghie lunghissime, e quelle dei capi di piroghe sorpassavano di tre pollici l'estremità del dito.

Trentasei imbarcazioni, montate da trecentosessanta uomini, circondarono il bastimento. Kotzebue. giudicando che coi deboli mezzi di cui disponeva, con l'equipaggio così poco numeroso del Rurik, ogni tentativo di sbarco sarebbe stato imprudente, rimise alla vela, senza aver potuto riunire maggiori documenti su questi selvaggi e bellicosi isolani.

Continuando la sua rotta verso il Kamtchatka, il navigatore ebbe conoscenza, il 21 maggio, di due gruppi d'isole riunite da una catena sottomarina di scogli di corallo. Egli diede loro il nome di Kutusoff e di Suwaroff, determinò la loro posizione e si promise di ritornare a visitarle. Gli indigeni, su piroghe rapide, s'avvicinarono al Rurik e nonostante gl'inviti solleciti dei Russi, non osarono salire a bordo. Contemplavano la nave

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con stupore, s'intrattenevano non senza una singolare vivacità che dimostrava la loro intelligenza, e gettavano sul ponte dei frutti di pandanus o di cocco.

I loro capelli neri e lisci, fra cui stava appiccicato qualche fiore, gli ornamenti sospesi al collo, le vesti piene di treccie che discendevano dalla cintura a mezza gamba, e sopratutto la loro aria aperta e affabile, distinguevano dagli abitanti dei Penrhyn questi indigeni che appartenevano al distretto dei Marshall.

Il 19 giugno, il Rurik entrava alla Nuova Arcangelo, e, per ventotto giorni, il suo equipaggio s'occupava a rattopparlo.

Il 15 luglio, Kotzebue rimetteva alla vela e sbarcava cinque giorni dopo all'isola Behring, la cui estremità settentrionale fu fissata a 55° 17' 18" di latitudine nord e 194° 6' 37" di longitudine ovest.

Gli indigeni che Kotzebue incontrò in quest'isola portavano, come quelli della costa americana, vestimenti di pelli di foca e d'intestini di morsa. Le lande di cui si servivano erano armate di denti di questi anfibi. Le loro provvigioni consistevano in carne di balena e di foca chiusa entro buche scavate nella terra. Le loro capanne di cuoio, indecentissime, esalavano un odore d'olio rancido. I loro battelli erano pure di cuoio, e possedevano delle slitte tirate da cani.

Il loro modo di salutare è assai singolare: si fregano reciprocamente il naso, e poi ciascuno si mette la mano al ventre, come si rallegrasse d'aver inghiottito un buon boccone; finalmente, quando si vuol dare una gran prova d'affezione ad alcuno, si sputa nelle mani e ne frega il volto dell'amico.

Il capitano, continuando a seguire la costa americana verso il nord, scoperse la baia Ghichmareff, l'isola Saritcheff e finalmente un golfo profondo, la cui esistenza non era stata riconosciuta. Alla sua estremità, Kotzebue sperava di trovare un canale che gli permettesse di guadagnare i mari polari, ma quest'aspettativa gli fallì. Il navigatore diede il nome suo a

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questo golfo, e quello di Krusenstern al capo posto all'ingresso. Scacciato dalla cattiva stagione, il Rurik dovette

raggiungere Unalachka il 6 settembre, fare una sosta di alcuni

giorni a San Francisco, e arrivare all'arcipelago Sandwich, dove furono fatti importanti rilievi e si raccolsero particolari curiosissimi.

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Lasciando questo arcipelago, Kotzebue si diresse verso le isole Suwaroff e Kutusoff, che aveva scoperte alcuni mesi prima. Il 1° gennaio 1817 scorse l'isola Miadi, alla quale diede il nome di isola Anno Nuovo. Quattro giorni dopo, scoperse una catena di isolette basse e boscose, circondate da una barriera di scogli di corallo, attraverso la quale la nave stentò ad aprirsi un passaggio.

A tutta prima, gli indigeni fuggirono alla vista del luogotenente Schischmareff, ma ritornarono subito con un ramo d'albero in mano, gridando la parola «aidara» (amico). L'ufficiale ripeté la parola e fece loro dono di chiodi, in cambio dei quali i Russi ricevettero le collane ed i fiori che ornavano il collo e la testa degli indigeni.

Questo scambio di cortesie determinò il resto degli isolani a farsi vedere. Epperò le più amichevoli dimostrazioni, i ricevimenti tanto entusiastici quanto frugali continuarono per tutto il soggiorno dei Russi in questo arcipelago. Uno degli indigeni chiamato Barik, accolse con particolare affabilità i Russi ai quali apprese che l'isola portava il nome di Otdia, e così pure tutta la catena d'isolotti che vi si annettono.

Kotzebue, per riconoscere la cordiale accoglienza degli indigeni, lasciò loro un gallo e una gallina, e piantò in un giardino, che fece preparare, una quantità di grani, sperando che giungessero a maturità; ma egli faceva i conti senza i topi, che pullulavano in quell'isola e che rovinarono le sue piantagioni.

Il 6 febbraio, dopo aver ricevuto da un capo chiamato Languediak particolareggiate informazioni che gli dimostrarono che quel gruppo, dalla rada popolazione, era di recente formazione, Kotzebue riprese il mare, lasciando a quell'arcipelago il nome di Romantzoff.

L'indomani, un gruppo di quindici isolotti, sul quale non s'incontrarono che tre persone, dovette cambiare il suo nome di

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Eregup in quello di Tchitsehakoff. Poi, alla catena delle isole Kawen, Kotzebue si ebbe dal «támon» o capo un'accoglienza entusiastica. Ognuno festeggiava i nuovi arrivati, gli uni col silenzio — come quella regina a cui l'etichetta vietava di rispondere ai discorsi che le si dirigevano — gli altri con danze, grida e canti nei quali il nome di «Totafù» (Kotzebue) era spesso ripetuto. Lo stesso capo, venendo a prendere Kotzebue in un canotto, se lo portava in ispalla fino a terra, dove la imbarcazione non poteva accostare.

Al gruppo di Aur, il navigatore notò, fra la folla degli indigeni che erano saliti sul bastimento, due indigeni il cui tatuaggio e la cui fisionomia sembravano designarli come stranieri. Uno d'essi, che si chiamava Kadù, piacque particolarmente al comandante, che gli diede qualche pezzo d'i ferro. Kotzebue fu sorpreso di non vedere attestargli la medesima gioia che gli avevano attestato i suoi compagni. Il che gli fu spiegato la stessa sera.

Quando tutti gli indigeni lasciarono la nave, Kadù gli chiese con insistenza il permesso di rimanere sul Rurik e di non più lasciarlo. Il comandante non si arrese che a stento alle sue istanze.

«Kadù — dice Kotzebue — ritornò verso i suoi camerati che lo aspettavano nelle loro piroghe, e dichiarò loro la sua intenzione di rimanere a bordo del vascello. Gli indigeni, stupiti di questa risoluzione, si sforzarono invano di combatterla. Finalmente, il suo compatriota Edok venne a lui, gli parlò lungamente in tono serio, e, non potendo convincerlo, tento di condurlo via per forza; ma Kadù respinse l'amico suo vigorosamente, e le piroghe s'allontanarono. Egli passò la notte accanto a me, assai onorato d'essere coricato presso il tamon della nave e si mostrò meravigliato del partito che aveva preso».

Nato a Iuli, una delle Caroline, a più di trecento leghe dal

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gruppo che abitava allora, Kadù era stato sorpreso alla pesca, insieme a Edok ed altri due compatrioti, da una violenta tempesta. Per otto mesi questi disgraziati erano stati in balìa dei venti e delle correnti, sul mare ora calmo, ora furioso. Durante questo tempo non mancarono mai di pesce, ma la sete li aveva crudelmente torturati. Quando la lor provvista d'acqua piovana, di cui erano tuttavia molto avari, fu esaurita, essi non ebbero altra risorsa che di gettarsi in mare per andare a cercarvi, in fondo, un'acqua meno salata, che portavano alla superficie entro un noce di cocco, munito di una stretta apertura. Quando furono in faccia all'isola d'Aur, la vista della terra, l'imminenza della loro liberazione non avevano potuto strapparli dalla prostrazione in cui erano caduti.

Scorgendo gl'istrumenti di ferro che conteneva la piroga di questi stranieri, gl'isolani di Aur si apprestavano già a massacrarli per impossessarsi di quei tesori, quando il tamon li prese sotto la sua protezione.

Erano trascorsi tre anni da questo avvenimento, ed i Carolini non istettero molto, in grazia delle loro cognizioni più estese, a prendere un certo ascendente sui loro nuovi ospiti.

Quando apparve il Rurik, Kadù era lungi dalla costa, nei boschi. Si mandò subito a cercarlo, giacché egli passava per un gran viaggiatore, e forse poteva dire che mostro era quello che si avvicinava all'isola. Kadù, che già aveva visto dei bastimenti europei, aveva persuaso gli amici a mostrarsi agli stranieri ed accoglierli amichevolmente. Queste erano le avventure di Kadù. Rimasto sul Rurik, aveva riconosciute le altre isole dell'arcipelago e non tardò a facilitare ai Russi le comunicazioni con gli indigeni. Involto in un mantello giallo, con un berretto rosso in testa, come un forzato, Kadù guardava ora d'alto in basso i suoi vecchi amici e pareva non li conoscesse più. Al momento della visita di un superbo vegliardo chiamato Tigedien, dalla barba fluente, Kadù

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s'incaricò di spiegare a' suoi compatrioti l'uso dalle manovre e di tutto ciò che si trovava sul bastimento. Come tanti Europei, egli sostituiva il sapere con una gravità imperturbabile e trovava una risposta a tutte le domande.

Interrogato a proposito di una piccola scatola nella quale un marinaio attingeva una polvere nera che introduceva nelle narici, Kadù spacciò le più stravaganti favole, e, per terminare con una dimostrazione irrefragabile, appressò la scatola al suo naso. La buttò via subito, e si mise a sternutare ed a gridare tanto forte, che i suoi amici, spaventati, scapparono da ogni parte; ma quando fu passata la crisi, egli seppe anche volgere l'incidente a suo vantaggio.

Kadù fornì pure a Kotzebue alcune informazioni generali sul gruppo che, per un mese intero, i Russi avevano visitato e rilevato. Tutte quelle isole eran sotto la dominazione di un sol tamon, chiamato Lamary, e il loro nome indigeno era Radak. Dumont d'Urville, alcuni anni dopo, doveva chiamarle isole Marshall. Secondo Kadù, più lungi all'ovest, s'allineava una catena d'isolotti e di roccie sottomarine (o coralline) chiamate Ralik.

Kotzebue non aveva tempo di riconoscerle, e, dirigendosi verso il nord, raggiunse il 21 aprile Unalachka, ove dovette riparare le gravissime avarie che aveva sofferto il Rurik durante due violente tempeste. Appena ebbe imbarcato dei «baidares», battelli guarniti di pelli, e quindici aleuti, abituati alla navigazione di quei mari polari, il comandante riprese l'esplorazione dello stretto di Rehring.

Kotzebue soffriva un forte dolor di petto, dacché girando il capo Horn fu rovesciato da un'ondata mostruosa e lanciato sopra bordo, il che gli sarebbe costato la vita, se non si fosse attaccato al cordame. Lo stato suo prese allora una tale gravità, che, il 10 luglio, approdando all'isola di San Lorenzo, dovette rassegnarsi e non spingere più oltre la sua ricognizione.

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Il 1° ottobre il Rurik faceva una nuova e breve sosta alle isole Sandwich, vi pigliava delle sementi e degli animali, e, alla fine del mese, sbarcava a Otdia, in mezzo alle entusiastiche dimostrazioni degli indigeni. Questi vedevano con fortuna l'arrivo di parecchi gatti, la cui presenza li aiuterebbe senza dubbio a sbarazzarsi delle innumerevoli frotte di topi che infestavano l'isola e devastavano le piantagioni. In pari tempo si festeggiava il ritorno di Kadù, al quale i Russi lasciarono un assortimento di utensili e d'armi che ne fece l'abitante più ricco dell'arcipelago.

Il 4 settembre, il Rurik lasciò le isole Radak, dopo aver riconosciuto il gruppo di Legiep, e riposò a Guaham, una delle Marianne, fino alla fine dello stesso mese. Una sosta di alcune settimane a Manilla permise al comandante di raccogliere sulle Filippine curiose informazioni, sulle quali vi sarà campo di ritornare.

Dopo d'essere sfuggito alle violente tempeste che l'assalirono quando girò il Capo di Buona Speranza, il Rurik gettò l'ancora nella Neva il 3 agosto 1818, in faccia al palazzo del conte Romantzoff.

Questi tre anni di viaggio non erano stati perduti dagli arditi navigatori. Essi non temevano, nonostante il loro piccolo numero e la debolezza della loro nave, di affrontare mari formidabili e arcipelaghi ancor poco conosciuti, i ghiacci polari e gli ardori della zona torrida.

Se le loro scoperte geografiche erano molto importanti, le loro rettifiche lo erano ancora di più. Duemilacinquecento specie di piante, di cui più di un terzo erano nuove, numerosi materiali per la conoscenza della lingua, dell'etnografia, della religione e dei costumi delle popolazioni visitate, era una ricca messe che provava lo zelo, l'abilità e la scienza del capitano, al pari dell'intrepidezza e della forza dell'equipaggio.

Epperò, quando, nel 1823, il governo russo si determinò

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d'inviare al Kamtchatka dei rinforzi per por fine al commercio di contrabbando che si faceva nei suoi possedimenti sulla costa nord-ovest dell'America, il comando di questa spedizione fu affidato a Kotzebue. Fu messa sotto gli ordini suoi la fregata La Predpriatie, e lo si lasciò libero di scegliere, tanto nell'andata che nel ritorno, la rotta che gli converrebbe per compiere la sua missione.

Se Kotzebue aveva fatto, come guardia marina, il giro del mondo con Krusenstern, questi gli dava allora come compagno suo figlio maggiore, e Möller, il ministro della Marina, faceva altrettanto. È quanto dire quale fiducia si aveva di lui.

La spedizione lasciò Gronstadt il 15 agosto 1823, toccò Rio-Janeiro, girò il capo Horn il 15 gennaio 1824, si diresse verso l'arcipelago dei Pomotù, dove fu scoperta l'isola Predpriatie, riconosciute le isole Araktschejef, Garlshoff e Palliser, gettando l'ancora il 15 marzo nella rada di Matavai, a Taiti.

Dal soggiorno di Cook in mezzo a questo arcipelago, era avvenuta una completa trasformazione nei costumi e nei modi di vivere degli abitanti.

Nel 1799, alcuni missionari si erano stabiliti a Taiti e vi avevano fatto un soggiorno di dieci anni senza fare una sola conversione, e, bisogna pur dirlo con dolore, senza cattivarsi la stima e il rispetto della popolazione. Costretti, in conseguenza delle rivoluzioni che turbarono Taiti a quell'epoca, di cercare un rifugio ad Eimeo e nelle altre isole dell'arcipelago, i loro sforzi ottennero maggior successo. Nel 1817, il re di Taiti, Pomaré, richiamò i missionari, concesse loro un terreno a Matavai, si converti, ed il suo esempio fu in breve seguito da una notevole parte degl'indigeni.

Kotzebue era al corrente di questa trasformazione, ma tuttavia non credeva trovare in piena prosperità gli usi europei.

Al colpo di cannone, che annunciava l'arrivo dei Russi, si

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staccò dalla riva una imbarcazione portante la bandiera taitiana, ed un pilota venne a condurre molto abilmente Predpriatie all'ancoraggio.

L'indomani, che era una domenica, i Russi sbarcando furono sorpresi del silenzio religioso che regnava in tutta l'isola. Questo silenzio non era interrotto se non dai cantici e dai salmi che cantavano alcuni isolani entro le loro capanne.

La chiesa, edificio semplice e pulito, di forma rettangolare, coperta di canne, che precedeva un lungo e largo viale di piante di cocco, era piena di gente attenta e raccolta, gli uomini da una parte, le donne dall'altra e tutti con un libro di preghiere in mano. La voce di questi neofiti si mischiava spesso al canto dei missionari, ahimè! con maggior buona volontà che armonia.

Se la divozione degli isolani era veramente edificante, il costume che portavano quei singolari fedeli era fatto a proposito per dare qualche distrazione ai visitatori. Un abito nero o una veste d'uniforme inglese componeva tutto l'abbigliamento degli uni, mentre altri non portavano che un panciotto, una camicia o i calzoni. I più fortunati s'avvolgevano in mantelli di panno; ma tutti, ricchi o poveri, avevano respinto come inutile l'uso delle calze e delle scarpe.

Quanto alle donne, non erano meno grottescamente acconciate: talune portavano una camicia d'uomo, bianca o rigata, altre un semplice pezzo di tela, ma tutte con cappelli europei. Se le donne degli ari portavano delle vesti di colore, lusso superfluo, la veste allora sostituiva ogni altro oggetto d'abbigliamento.

Il lunedì ebbe luogo una cerimonia imponente. Era la visita della reggente e della famiglia reale a Kotzebue. Questi alti personaggi erano preceduti da un cerimoniere. Era una specie di pazzo, vestito solamente con una veste rossa; ma le sue gambe portavano un tatuaggio figurante calzoni rigati; sotto il dorso era disegnato un quarto di circolo dalle divisioni

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minuziosamente esatte e si dava con aria comica a seguire capriole, contorsioni, smorfie e sgambetti d'ogni sorta.

Sulle braccia della reggente riposava il piccolo Pomarè III. Accanto a lei si avanzava la sorella del re, gentil fanciulla di una diecina d'anni. Se l'infante reale era vestito all'europea come i suoi compatrioti, non portava neppure esso calzatura al pari del più povero de' suoi sudditi. Sopra istanze dei ministri e dei grandi taitiani, Kotzebue gli fece fare un paio di scarpe che dovevano servirgli pel giorno della sua incoronazione.

Quante grida di gioia, quante attestazioni di piacere e quanti sguardi di desiderio per tutte quelle bagattelle distribuite alle dame della corte! Quanti pugilati per quel gallone d'oro falso di cui esse si strapparono fin le più piccole fila!

Era dunque un negozio d'importanza quello che conduceva tanti uomini sul ponte della fregata, portanti frutti e maiali in abbondanza? No, questi sollecitatori erano i mariti delle sventurate taitiane che non assistevano alla distribuzione di quel gallone, più prezioso per esse che non i diamanti per le europee.

In capo a dieci giorni, Kotzebue si decise a Lasciare questo paese singolare, dove la civilizzazione e la barbarie s'accostavano tanto fraternamente, e guadagnò l'arcipelago di Samoa, famoso pel massacro dei compagni di La Pérouse.

Qual differenza con gli indigeni di Taiti! Selvaggi e feroci, diffidenti e minacciosi, gl'indigeni dell'isola Rosa tentarono di farsi arditi fino a salire sul ponte della Predpriatie. Uno di essi, alla vista del braccio nudo di un marinaio, non poté neppure trattenere un gesto altrettanto eloquente che feroce, indicante tutto il piacere che avrebbe a divorare quella carne soda e senza dubbio saporita.

Presto, col numero delle piroghe aumentò l'insolenza di questi indigeni. Bisognò picchiarli per respingerli, e la fregata ripigliando la sua rotta lasciò dietro di sé le imbarcazioni di

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quei feroci isolani. Ojolava, l'isola Plata e Pota, che formano, come l'isola

Rosa, parte dell'arcipelago dei Navigatori, furono oltrepassate quasi appena scorte, e Kotzebue si diresse verso i Radak, dove aveva ricevuto un'accoglienza tanto amichevole nel suo primo viaggio.

Ma, alla vista di quel gran bastimento, gli abitanti n'ebber paura, si ammucchiarono nei canotti o scapparono nell'interno, mentre sulla spiaggia si formava una processione d'isolani con un ramo di palma, in mano e si avanzava verso gli stranieri implorando pace.

A quella vista, Kotzebue si mise in una imbarcazione col chirurgo Eschscholtz, fece forza di remi verso la riva, gridando: «Totabù aidara!» (Kotzebue, amico). Fu un cambiamento completo. Le suppliche che gli indigeni portavano ai Russi si mutarono in grida d'allegrezza, in dimostrazioni entusiastiche di gioia; gli uni si precipitarono dinanzi ai loro amici, gli altri corsero ad annunciare ai compatrioti l'arrivo di Kotzebue.

Il comandante apprese con piacere che Kadù viveva sempre ad Aur, sotto la protezione di Lamary, di cui si era cattivato la benevolenza a prezzo della metà delle sue ricchezze.

Di tutti gli animali che Kotzebue aveva lasciati a Otdia, i soli gatti, divenuti selvatici, erano ancor vivi, ma non avevano potuto sterminare fino allora le legioni di topi che infestavano il paese.

Il comandante rimase alcuni giorni coi suoi amici, che lo regalarono di rappresentazioni drammatiche, ed il 6 maggio fece rotta per il gruppo Legiep, incompletamente riconosciuto da lui nel suo primo viaggio. Dopo aver proceduto a questo rilievo, Kotzebue. si proponeva di continuare l'esplorazione dei Radak, ma il cattivo tempo glielo impedì, e dovette far vela per

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il Kamtchatka. Dal 7 giugno al 20 agosto l'equipaggio vi godette di un

riposo che s'era ben guadagnato. Allora ripigliò il mare, e, il 7

agosto, calò l'ancora alla Nuova Arcangelo, sulla costa d'America.

Ma la fregata che la Predpriatie veniva a sostituire in questa stazione vi si trovava ancora e doveva rimanervi fino al

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1° marzo dell'anno seguente. Kotzebue trasse dunque profitto di questo intervallo visitando l'arcipelago Sandwich, dove gettò l'ancora dinanzi a Vaihu, nel dicembre 1824.

Il porto di Rono-Ruru o Honolulu, è il più sicuro dell'arcipelago. Epperò riceveva già numerose navi, e l'isola di Waihu era avviata a diventare la più importante del gruppo e di detronizzare Hawai o Qwyhee. Già l'aspetto della città era semi-europeo; le case di sasso avevano sostituite le capanne primitive, le vie aperte regolarmente, con botteghe, caffè, liquoristi, assai frequentati dai marinai balenieri e dai cercatori di pelliccie, nonché una fortezza munita di cannoni erano i segni più apparenti della trasformazione rapida delle abitudini e dei costumi degli indigeni.

Nei cinquant'anni dalla scoperta della maggior parte delle isole oceaniche, dappertutto si erano prodotti sensibili cambiamenti: non però repentini quanto quelli delle isole Sandwich. «Il commercio delle pelliccie, dice Desborugh Cooley, commercio che si fa sulla costa N. O. d'America, ha operato una meravigliosa rivoluzione nelle isole Sandwich, la cui situazione offre un riparo vantaggioso ai bastimenti adoperati a questo commercio. I mercanti avevano l'abitudine di svernare, riparare e di vettovagliare i loro vascelli in quelle isole; giunta l'estate ritornavano sulla costa d'America per completare i loro carichi. Gli utensili di ferro, e sopratutto i fucili, erano richiesti dagli isolani in cambio delle loro provvigioni e, senza pensare alle conseguenze della loro condotta, i trafficanti mercenari s'affrettavano soddisfare a questi desideri. Le armi da fuoco e le munizioni essendo il miglior mezzo di scambio, furono trasportati in abbondanza nelle Sandwich. Epperò gli isolani diventarono in breve formidabili pei loro ospiti; s'impadronirono di parecchie piccole navi e spiegarono un'energia mista dapprima a ferocia, ma che indicava in essi una potente inclinazione verso i

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miglioramenti sociali. A quel tempo uno di quegli uomini straordinari che veramente mancano di prodursi quando si preparano grandi avvenimenti, completò la rivoluzione cominciata dagli Europei. Kamea-Mea, capo che si era già fatto notare in quelle isole durante T'ultima e fatale visita di Cook, usurpò l'autorità leale, assoggettò le isole vicine, a capo di un'armata di 16.000 uomini, e volle far servire le sue conquiste ai vasti piani di progresso che aveva concepito. Conosceva la superiorità degli Europei e poneva tutto l'orgoglio suo a imitarli. Già nel 1797, quando il capitano Broughton visitò quelle isole, l'usurpatore gli mandò a domandare se gli doveva i saluti della sua artiglieria. Fino dal 1817 si disse ch'egli possedesse un'armata di 7000 uomini armati di fucile, tra i quali si trovavano almeno 50 europei. Kamea-Mea, dopo aver cominciato la sua carriera col massacro e l'usurpazione, finì col meritarsi l'amore sincero e l'ammirazione dei suoi sudditi che lo consideravano come un essere sovrumano e che piansero la sua morte con lagrime più sincere di quelle che si versano ordinariamente sulle ceneri di un monarca.»

Tale era lo stato delle cose quando la spedizione russa si fermò a Waihu. Il giovine re Rio-Rio era in Inghilterra con la moglie, e il governo dell'arcipelago era nelle mani della regina madre Kaahu-Manu.

Kotzebue approfittò dell'assenza di quest'ultima e del primo ministro, entrambi allora in visita sopra un'isola vicina, per andare a vedere un'altra sposa di Kamea-Mea.

«L'appartamento, dice il navigatore, era ammobiliato all'europea con sedie, tavoli e specchi. Il pavimento era coperto di stuoie, sulle quali era stesa Nomo-Hana, che non dimostrava più di 40 anni: era alta 5 piedi e 8 pollici e aveva di certo più di 4 piedi di circonferenza. I suoi capelli, neri come carbone lucente, erano accuratamente rialzati sulla cima di una testa rotonda come un pallone. Il suo naso e le sue labbra sporgenti

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non avevano nulla di bello; tuttavia nella sua fisionomia regnava un'aria avvenente e piacevole.»

La «buona signora» si ricordava aver visto Kotzebue dieci anni prima. Epperò gli fece assai buona accoglienza; ma non poté parlare di suo marito, senza che le lagrime le venissero subito agli occhi, e il suo dolore non sembrava affettato. Affinchè la data della morte di questo principe le fosse sempre sott'occhio, si era fatto tatuare sul braccio questa semplice scritta: 6 maggio 1819.

Cristiana e beghina come la maggior parte della popolazione, la regina condusse Kotzebue alla chiesa, edificio semplice e vasto, ma che non conteneva una folla tanto stipata quanto a Taiti. Nomò-Hana sembrava molto intelligente; sapeva leggere e si mostrava particolarmente entusiasta della scrittura, questa scienza che avvicina gli assenti. Volendo dare al comandante, insieme a una prova del suo affetto, un attestato delle sue cognizioni, gli spedì, a mezzo di un ambasciatore, un'epistola che aveva impiegato parecchie settimane a redigere.

Le altre signore vollero subito fare altrettanto e Kotzebue si vide alla vigilia di soccombere sotto il peso delle missive che gli si dirigevano. Il solo mezzo di por fine a questa epidemia epistolare era, di levar l'ancora, ed è ciò che fece Kotzebue senza aspettare più a lungo.

Tuttavia, prima della partenza, ricevette a bordo la regina Nomo-Hana, che venne vestita col suo costume di cerimonia. S'immagini una magnifica veste di seta, color pesca, guarnita di un gran ricamo nero, veste fatta per una corporatura europea, per conseguenza troppo corta e troppo stretta; cosicché si vedevano non solo i piedi, a rispetto dei quali quelli di Carlo Magno sarebbero sembrati i piedi di una chinese, imprigionati in una rozza calzatura d'uomo, ma ben anche le gambe brune, grosse e nude, che ricordavano le balaustre d'una terrazza. Una collana di piume rosse e gialle, una ghirlanda di fiori naturali,

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un cappello di paglia d'Italia ornato di fiori artificiali completavano quell'acconciatura di lusso e ridicola, Nomo-Hana visitò il bastimento, si fece render conto, di tutto e finalmente, stanca di tante meraviglie, penetrò nell'appartamento del comandante, dove l'aspettava una copiosa colazione. La regina si lasciò cadere sopra un canapè, ma quel fragile mobile non poté resistere a tanta maestà e cedette sotto il peso di una principessa.

Dopo questa stazione, Kotzebue ritornò alla Nuova Arcangelo, dove dimorò fino al 30 luglio 1825. Poi, fece un nuovo soggiorno alle isole Sandwich, qualche tempo dopo che l'ammiraglio Byron vi ebbe portato i resti del re e della regina. L'arcipelago era tranquillo; la sua prosperità andava sempre più crescendo; l'influenza dei missionari si era consolidata e l'educazione del nuovo piccolo re era affidata al missionario Bingham. Gli abitanti erano stati profondamente impressionati degli onori che l'Inghilterra aveva reso alle spoglie dei loro sovrani, e non sembrava lontano il giorno in cui i costumi indigeni avrebbero completamente lasciato campo alle abitudini degli Europei.

A Waihu furono imbarcati dei rinfreschi, dopo di che il viaggiatore guadagnò le isole Radak, riconobbe le Pescadores che formano l'estremità settentrionale di questa catena; non lungi di là, scoperse il gruppo Eseheholtz, e toccò Guaham il 15 ottobre. Il 23 gennaio 1286, lasciava Manilla, dopo un riposo di parecchi mesi, durante i quali i frequenti rapporti con gli indigeni avevano permesso di meglio conoscere la geografia e la storia naturale delle Filippine. Un nuovo governatore spagnuolo era giunto con un rinforzo di truppe piuttosto notevole, e aveva così bene posto fine all'agitazione, che i coloni avevano intieramente rinunciato al progetto di separarsi dalla Spagna.

Il 10 luglio 1826, la Predpriatje rientrava a Cronstadt,

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dopo un viaggio di tre anni, durante i quali aveva visitato le coste nord-ovest dell'America, le isole Aleutine, il Kamtchatka e il mare d'Okhotsk, riconosciuto nei particolari una gran parte delle isole Radak, e fornito nuove informazioni sulle trasformazioni per le quali passavano parecchi popoli oceanici. Mercè le cure di Chamisso e del professore Eseheholtz, furono raccolti numerosi campioni di storia naturale, e quest'ultimo pubblicava la descrizione di oltre duemila animali; finalmente portò curiosissime osservazioni sulla formazione delle isole di corallo del mare del sud.

Il governo inglese aveva ripreso con ardore lo studio di questo problema irritante, la cui soluzione era stata cercata da lungo tempo: il passaggio nord-ovest. Mentre Parry per mare e Franklin per terra cercavano di guadagnare lo stretto di Behring, il capitano Federico Guglielmo Beechey riceveva istruzioni di penetrare quanto più innanzi gli fosse possibile, per quel medesimo stretto, lungo la costa settentrionale d'America, allo scopo di raccogliere i viaggiatori che gli arriverebbero senza dubbio estenuati dalle fatiche e dalle privazioni.

Beechey, con la nave The Blossom, che salpò da Spithead il 19 maggio 1825, si era vettovagliato a Rio-Janeiro, e, dopo aver girato il capo Horn, il 26 settembre era penetrato nell'oceano Pacifico. Dopo un breve riposo sulla costa del Chili aveva visitato l'isola di Pasqua, dove gli incidenti che avevano segnalato la sosta di Kotzebue nel suo primo viaggio si erano fedelmente rinnovati.

Dapprima, la medesima premurosa accoglienza da parte degli indigeni, che raggiungono a nuoto il Blossom, portano con piroghe i miseri prodotti della loro isola; poi, quando gl'Inglesi, sbarcano, il medesimo assalto a sassate e bastonate, che bisogna reprimere energicamente a schioppettate.

Il 4 dicembre, il capitano Beechey scorse un'isola

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intieramente coperta di vegetazione. Allora era un'isola famosa, perchè vi si erano rinvenuti i discendenti dei rivoltosi della Bounty, sbarcati in causa di un dramma, che, sullo scorcio dell'ultimo secolo, appassionò vivamente l'opinione pubblica in Inghilterra.

Nel 1781, il luogotenente Bligh, uno degli ufficiali che si erano segnalati sotto gli ordini di Cook, era stato nominato al comando della Bounty e incaricato di andare a prendere a Taiti degli alberi del pane e altre produzioni vegetali, onde trasportarli alle Antille, che gli Inglesi designavano comunemente col nome di Indie Occidentali. Dopo aver girato il capo Horn, Bligh si era fermato sulle coste della Tasmania e aveva raggiunto la baia di Matavai, ove aveva fatto un carico d'alberi del pane, come a Namuka, una delle isole Tonga. Fino allora, nessun incidente particolare aveva segnalato il corso di quel viaggio che prometteva di terminare felicemente. Ma il carattere altiero, i modi ruvidi e dispotici del comandante, gli avevano alienato l'equipaggio quasi totalmente. Fu tramata contro di lui una congiura che scoppiò nei paraggi di Tofua, il 28 aprile, prima del levar del sole.

Sorpreso a letto dai rivoltosi, legato e avvinto prima che potesse difendersi, Bligh fu condotto in camicia sul ponte e dopo un simulacro di giudizio, a cui presiedette il luogotenente Fletcher Christian, fu calato con diciotto persone che gli erano rimaste fedeli in una scialuppa in cui si misero alquante provvigioni, e che fu poi abbandonata in alto mare.

Biigh, dopo aver sofferti i tormenti della sete e della fame, dopo essere sfuggito ad orribili tempeste ed ai denti dei selvaggi indigeni di Tofua, era giunto a guadagnare l'isola di Timor, dove ricevette, calorosa accoglienza.

«Feci sbarcare la nostra gente, dice Bligh. Taluni potevano a stento mettere un piede avanti all'altro. Non avevamo più che la pelle sulle ossa, eravamo coperti di piaghe, e i nostri abiti

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erano a brandelli. In questo stato, la gioia e la riconoscenza ci strappavano lagrime, e il popolo di Timor ci osservava in silenzio con sguardi che esprimevano ad un tempo orrore, stupore e pietà. Cosicché, con l'aiuto della Provvidenza, abbiamo sorpassati gl'infortuni e le difficoltà di un viaggio tanto pericoloso!»

Pericoloso infatti, giacché non era durato meno di quaranta giorni, sopra mari imperfettamente conosciuti, in una imbarcazione aperta, fragile, con viveri insufficienti, a prezzo di sofferenze inaudite, per una percorrenza di oltre mille e cinquecento leghe, e senza aver avuto a deplorare altra perdita all'infuori di quella di un marinaio, ucciso al principio del viaggio dagli indigeni di Tofua!

Quanto ai rivoltosi, la loro storia è singolare, e si può trarne ammaestramento.

Essi avevano fatto vela per Taiti, dove li attraevano le facilità della vita e dove furono abbandonati coloro che avevano avuto parte meno attiva alla rivolta. Christian aveva allora rimesso a vela con otto marinai risoluti a seguirlo, e una ventina di isolani di Taiti e di Tubuai.

Non si era più inteso parlare di loro. Quanto a quelli che erano rimasti a Taiti, erano stati

catturati, nel 1791, dal capitano Edwards della Pandora, che il governo inglese aveva mandato in cerca degli ammutinati con missione di ricondurli in Inghilterra. Ma la Pandora avendo incagliato sopra uno scoglio, nello stretto dell'Intrapresa, quattro ammutinati e trentacinque marinai erano periti in quella catastrofe. Dei dieci che giunsero in Inghilterra coi naufragati della Pandora, tre soltanto furono condannati a morte.

Passarono vent'anni prima che si potesse ottenere il minimo schiarimento sulla sorte di Christian e di quelli ch'egli aveva condotti seco.

Nel 1808, un bastimento di commercio americano giunse a

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Pitcairn per completarvi il carico di pelli di foca. Il comandante credeva che l'isola fosse disabitata; ma con grande sua sorpresa si era visto avvicinare da una piroga montata da tre giovanetti di colore, che parlavano benissimo l'inglese. Il capitano, stupito, li aveva interrogati, ed apprese che il padre loro aveva servito sotto gli ordini del luogotenente Bligh.

L'odissea di quest'ultimo era allora nota al mondo intiero, e aveva fatto le spese delle veglie del castello di prua dei bastimenti di tutte le nazioni. Epperò il capitano americano volle ottenere maggiori particolari su questo fatto singolare, che svegliava nella mente sua il ricordo della scomparsa dei rivoltosi della Bounty.

Sceso a terra, il capitano, avendo incontrato un inglese di nome Smith che apparteneva all'antico equipaggio della Bounty, ne aveva ricevuto la seguente confessione.

Quand'ebbe lasciato Taiti, Christian fece vela direttamente per Pitcairn, la cui posizione isolata, al sud dei Pomotù all'infuori d'ogni rotta frequentata, l'aveva vivamente colpito. Dopo aver sbarcato le provvigioni che conteneva la Bounty e dopo averla spogliata degli attrezzi che potevano essere utili, si arse il bastimento, non solo per farne sparire ogni traccia, ma anche per togliere ad ogni ribelle la tentazione di fuggire.

A tutta prima si temeva che l'isola fosse popolata. Si fu in breve convinti che non lo era affatto. Si costruirono allora delle capanne e si dissodarono dei terreni. Ma gli Inglesi riservarono caritatevolmente ai selvaggi, che si erano condotti seco, o che li avevano liberamente accompagnati, le funzioni di schiavi. Comunque sia, passarono due anni senza querele troppo violente. A questo punto, gli indigeni tramarono una congiura contro i bianchi, della quale questi furono avvertiti da una taitiana, e i due capi pagarono con la vita il loro tentativo abortito.

Trascorsero altri due anni di pace e di tranquillità, poi

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nuova congiura, in seguito alla quale cinque inglesi, fra cui Christian, furono massacrati. A loro volta, le donne, che rimpiangevano gli Inglesi, immolarono i taitiani superstiti.

La scoperta d'una pianta dalla quale si poteva estrarre una specie d'acquavite, cagionò un po' più tardi la morte di uno dei quattro inglesi che rimanevano; un altro fu massacrato dai suoi compagni; un terzo morì d'una malattia, ed un certo Smith, che prese il nome di Adamo, rimase solo a capo di una popolazione di dieci donne e diciannove fanciulli, il maggiore dei quali non aveva più di sette od otto anni.

Quest'uomo, che aveva riflettuto sui disordini suoi e il cui pentimento ne trasformava l'esistenza, dovette compiere i doveri di padre, di prete, d'ufficiale di Stato Civile e di re. Con la sua giustizia e la sua fermezza seppe acquistarsi una poderosa influenza su quella bizzarra popolazione. ,

Questo singolare professore di morale, che nella sua giovinezza aveva violata ogni legge, pel quale nessun impegno era stato sacro, insegnò allora la pietà, l'amore, l'unione, istituì regolari matrimoni fra i figli delle diverse famiglie, e la piccola colonia prosperò sotto il comando dolce e fermo ad un tempo di quest'uomo diventato virtuoso sul tardi.

Tale era lo stato morale della colonia di Pitcairn, al momento in cui Beechey vi sbarcò. Il navigatore, ben accolto da una popolazione le cui virtù ricordavano l'età dell'oro, vi fece una fermata di diciotto giorni. Il villaggio era composto di capanne decenti e pulite, circondate da «pandanuse» e da alberi di cocco; i campi erano ben coltivati, e sotto la direzione di Adamo, questa popolazione si era fabbricata gli istrumenti più utili con un'abilità veramente maravigliosa. Quei meticci dalla faccia piacevole e dolce avevano delle membra ben proporzionate, che indicavano un vigore poco comune.

Dopo Pitcairn furono visitate da Beechey le isole Crescent, Gambier. Hood, Clermont-Tdnnerre, Serles, Whitsunday,

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Queen-Charlotte, Tehai, dei Lancieri, che fanno parte dei Pomotù, come pure un isolotto a cui diede il nome di Byam-Martin.

Il navigatore v'incontrò un selvaggio chiamato Tu-Wari, che vi era stato gettato dalla tempesta. Partito da Anaa insieme a centocinquanta compatrioti, in tre piroghe, per andar a

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rendere omaggio a Pomarè III che era salito al trono, Tu-Wari era stato gettato lungi dalla sua rotta dai venti dell'ovest. A questi erano succedute brezze variabili, e in breve le provvigioni furono interamente esaurite, sicché si dovettero mangiare i cadaveri di quelli che soccombettero. Finalmente Tu-Wari era giunto all'isola Barrow, in mezzo all'arcipelago Pericoloso, dove si era alquanto vettovagliato; aveva ripreso il mare, ma non per lungo tempo, giacché la sua piroga essendosi sfondata presso Byam-Martin, dovette rimanere su questo isolotto.

Beechey finì col cedere alle preghiere di Tu-Wari pigliandolo a bordo insieme a sua moglie ed i suoi figli per ricondurli a Taiti. L'indomani, per uno di quei casi che non si vedono d'ordinario che nei romanzi, Beechey essendosi fermato a Hein, Tu-Wari v'incontrò suo fratello che lo credeva morto da gran tempo. Dopo i primi slanci di effusione, i due indigeni, gravemente seduti l'uno accanto all'altro, le mani strette con tenerezza, s'erano narrate le loro reciproche avventure.

Beechey lasciò Hein il 18 febbraio, riconobbe le isole Melville e Croker, e gettò l'ancora a Taiti il 18, dove stentò a trovare rinfreschi Gl'indigeni esigevano ora dei buoni dollari chileni e delle vestimenta europee, articoli che facevano assolutamente difetto sul Blossom.

Il capitano, dopo aver ricevuto la visita della reggente, fu invitato ad una serata che doveva essere data in onor suo nella dimora, reale, a Papeiti. Ma quando gl'Inglesi si presentarono, trovarono che tutti ai palazzo dormivano. La reggente aveva dimenticato il suo invito e si era coricata più presto del solito. Ciò nonostante ricevette graziosamente gli ospiti suoi, e improvvisò quattro salti, malgrado la rigorosa proibizione dei missionari. Senonchè la festa dovette passare, per così dire, in silenzio, affinchè il chiasso non giungesse all'orecchio

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dell'agente di polizia che passeggiava; sulla spiaggia. Si giudicherà da questo solo particolare della libertà che il missionario Pritchard lasciava ai primi personaggi di Taiti. Cosa doveva essere della turba degli indigeni?

Il 3 aprile, il giovine re rese la visita a Beechey che gli fece dono, da parte dell'ammiragliato, d'un magnifico fucile da caccia. Le relazioni furono amichevolissime, e l'influenza che i missionari inglesi avevano saputo prendere si trovò ancora consolidata dalla cordialità e dalle prevenienze di cui lo stato maggiore del Blossom diede loro ripetute prove.

Partito da Taiti il 26 aprile, Beechey guadagnò le isole Sandwich, dove fece una sosta di una diecina di giorni, e spiegò le vele per lo stretto di Behring e il mare polare. Le sue istruzioni gli prescrivevano di inoltrarsi lungo la costa d'America, tanto lontano quanto lo stato dei ghiacci glielo permettesse. Il Blossom si fermò nella baia di Kotzebue, soggiorno tanto inospitale quanto ripugnante, dove gl'Inglesi ebbero parecchi abboccamenti con gli indigeni, senza poter procurarsi la minima notizia di Franklin e della sua compagnia. Poi, Beechey spedì in cerca di questo intrepido viaggiatore una scialuppa pontata, sotto il comando del luogotenente Elson. Questi non poté oltrepassare la punta Barrow, con 71° 23' di latitudine nord, e fu costretto a ritornare al Blossom che i ghiacci forzarono a ripassare lo stretto il 13 ottobre, con un tempo chiaro e una forte brinata.

Onde utilizzare la stagione invernale, Beechey visitò il porto di San Francisco, e riposò ancora una volta, il 25 gennaio 1837, a Honolulu, nelle isole Sandwich. Mercè la politica abile e liberale del suo governo questo Stato s'avanzava a gran passi nella via del progresso e della prosperità.

Il numero delle case si era aumentato; la città pigliava vieppiù un carattere civilizzato; il porto era frequentato da gran numero di navi inglesi ed americane; finalmente la marina

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nazionale era stata creata e contava cinque briks e otto schooners. L'agricoltura era in uno stato fiorente; il caffè, il tè, le droghe occupavano ampie piantagioni, e si cercava di utilizzare le foreste di canne di zucchero che prosperavano nell'arcipelago.

In aprile, dopo un riposo all'imboccatura del fiume Canton, il Blossom procedette alla ricognizione dell'arcipelago Liu-Kieu, catena d'isole che collega il Giappone a Formosa, e dei gruppo Bonin-Sima terre su cui l'esploratore non incontrò altri animali all'infuori di grosse tartarughe verdi.

In seguito a questa esplorazione il Blossom rifece la rotta del nord, ma le circostanze atmosferiche essendo men favorevoli non poté questa volta penetrare che fino a 70° 40'. Lasciava in questo punto della costa viveri, vestimenta ed istruzioni, pel caso in cui Parry o Franklin fossero riusciti ad inoltrarsi fin là.

Dopo aver incrociato fino al 5 ottobre, Beechey risolse a malincuore, di ritornare in Inghilterra. Ancorò a Monterey, a San Francisco, a San Blas, a Valparaiso, girò il capo Horn, sostò a Rio-Janeiro e calò l'ancora a Spithead il 2Ì ottobre.

Bisogna ora narrare la spedizione dei capitano russo Lütké, spedizione che produsse risultati abbastanza importanti. La relazione, assai divertente, è scritta con molto spirito. Epperò vi piglieremo a prestito qualche cosa.

La Séniavine ed il Möller erano due gabarre costrutte in Russia; entrambe tenevano assai bene il mare, ma la seconda era una cattiva camminatrice; inconveniente che per quasi tutto il viaggio tenne i due bastimenti separati. La Séniavine aveva Lütké a comandante, e il Möller Staniukowitch.

I due bastimenti salparono da Gronstadt il 1° settembre 1828, ancorarono a Copenaghen e a Portsmouth dove si acquistarono degli istrumenti di fisica e d'astronomia. Appena usciti dalla Manica furono separati. La Séniavine, che noi

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seguiremo particolarmente, sostò a Teneriffa. Quest'isola era stata devastata da un terribile uragano, dal 4

all'8 novembre, tale che non si era mai visto di simile dal tempo della conquista. Erano perite tre navi fatte a pezzi. I torrenti, ingrossati da una pioggia spaventevole, asportarono giardini, muri, edifici, devastarono parecchie piantagioni notevoli, demolirono quasi intieramente uno dei forti, distrussero una quantità di case nella città e resero impraticabili parecchie vie. Tre o quattrocento individui trovarono la morte in quel cataclisma, i cui danni si valutarono a parecchi milioni di piastre.

Nel gennaio, i due bastimenti si erano ritrovati a Rio Janeiro e fino al capo Horn avevano fatto rotta assieme. Là le tempeste ordinarie, le solite nebbie, li avevano assaliti e separati di nuovo. La Séniavine allora aveva fatto rotta per Concezione.

«Il 5 marzo, dice Lütké, non eravamo, così a stima, che a 8 miglia dalla costa più vicina, ma una fitta nebbia ce ne toglieva la vista. Nella notte la nebbia si dissipò e allo spuntar del giorno si offerse ai nostri occhi uno spettacolo di una grandezza e di una magnificenza indescrivibile. La catena dentata delle Ande, con le sue punte acute, si disegnava sovra un cielo azzurro, rischiarato dai primi raggi del sole. Non voglio aumentare il numero di quelli che si son perduti in vani sforzi per trasmettere agli altri le sensazioni che provarono al primo aspetto di simili quadri della natura. Esse sono tanto inesprimibili quanto la maestà dello spettacolo stesso. La varietà dei colori, la luce che il levar del sole spandeva gradatamente sul cielo e sulle nubi erano di una inimitabile bellezza, Con nostro gran dispiacere, questo spettacolo, come tutto ciò che è sublime nella natura, non fu di lunga durata. Man mano che la massa di luce invadeva l'atmosfera, l'enorme gigante sembrava sprofondare nell'abisso, e il sole, apparendo

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sull'orizzonte, ne cancellava perfino le traccie.» Il sentimento di Lütké sull'aspetto della Concezione non

andava d'accordo con quello di alcuni de' suoi predecessori. Egli non aveva ancora dimenticate le esuberanti ricchezze della baia di Rio Janeiro. Per cui trovò questa costa alquanto misera. Gli abitanti, per quanto poté giudicarne in una sosta assai breve, gli sembrarono dotati di un carattere affabilissimo e più civilizzato della gente della stessa classe in molti altri paesi.

Entrando in Valparaiso, Lütké scorse il Möller che faceva vela per il Kamtchatka. Gli equipaggi si diedero l'addio e ciascuno seguì allora una direzione separata. La prima corsa degli ufficiali e dei naturalisti fu alle celebri quebradas.

«Sono esse, dice il viaggiatore, dei burroni nelle montagne, colmi, per così dire, di piccole capanne che contengono la maggior parte della popolazione di Valparaiso. La più popolata di queste quebradas è quella che sorge all'angolo sud-ovest della città. Il granito che colà si mostra allo scoperto serve di solido fondamento alle costruzioni e le mette al riparo dell'effetto, distruttore dei terremoti. La comunicazione di queste abitazioni fra esse e con la città si compie per stretti sentieri, senza punti d'appoggio né giardini, che si prolungano sul pendìo delle roccie, e sulle quali i fanciulli, giocando, corrono in ogni senso come camosci, Là non vi sono che poche case, e anche queste appartengono a stranieri, e alle quali fanno capo dei sentieri in cui si sono praticati dei giardini: i Chileni ritengono questa precauzione come un lusso superfluo e affatto inutile. È uno strano spettacolo vedersi sotto i piedi una gradinata di tetti coperti di tegole e di rami di palma, e al disopra del capo un anfiteatro di porte e di giardini. Avevo dapprima seguiti i signori naturalisti; ma essi mi trassero subito in un luogo dove non potevo più fare un passo né avanti, né indietro, il che mi decise a ritornarmente con uno dei miei ufficiali, e di lasciarli là augurando loro di

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portare a casa le loro teste sane e salve: quanto a me, credetti mille volte di perdere la mia, prima d'arrivare abbasso.»

Al ritorno di una penosa escursione che i marinai avevano fatto a poche leghe da Valparaiso, furono alquanto meravigliati, ritornando in città a cavallo, d'essere arrestati da una pattuglia, che li costrinse, non ostante le loro proteste, a por piede a terra.

«Era il giovedì santo, dice Lütké; da questo giorno fino al sabato santo non è permesso, sotto pena di una grave ammenda, né di montare a cavallo, né cantare, né ballare, né suonare alcun istrumento, e neppure di portare il cappello in testa. Ogni affare, ogni lavoro, ogni divertimento è severamente proibito durante questi giorni. La collina in mezzo alla città, sulla quale trovasi il teatro, è trasformata per questo tempo in Golgota. In mezzo ad uno spazio circondato da griglie, sorge una croce con l'imagine di Cristo; vi si vede vicino una quantità di fiori e di ceri, e da ogni lato figure di donne genuflesse rappresentanti i testimoni della Passione del nostro salvatore.. Le anime pie s'avvicinavano a questo luogo per lavare i loro peccati; non un sol peccatore. La maggior parte di esse erano senza dubbio fermamente sicure d'ottenere la grazia divina, giacché strada facendo giuocavano e ridevano, ma assumevano un'aria di contrizione giungendo là, s'inginocchiavano per pochi istanti, e continuavano poscia il loro cammino, tornando a giuocare e ridere».

L'intolleranza e le superstizioni, di cui gli stranieri, incontrano prove ad ogni pié sospinto, fanno nascere nel viaggiatore giudiziose riflessioni. Egli deplora di veder perdersi in continue rivoluzioni tanta energia e tante risorse che potrebbero essere adoperate molto meglio per lo sviluppo morale e la prosperità materiale della nazione.

Per Lütké, nulla rassomigliava meno ad una vallata del paradiso di Valparaiso e suoi dintorni. Delle montagne nude,

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tagliate da profondi burroni (quebradas), una pianura arenosa in mezzo alla quale sorge la città, le alte montagne delle Ande in fondo al piano, tutto ciò non costituisce, a vero dire, un Eden.

Le traccie dello spaventoso terremoto del 1823 non erano ancora interamente cancellate, e vi si vedevano tuttavia grandi spazi coperti di reliquie.

Il 15 aprile, la Séniavine riprese il mare e fece vela per la Nuova Arcangelo, dove il 24 giugno, dopo una navigazione che non fu segnalata da alcun incidente. La necessità di procedere a riparazioni che rendevano indispensabile una campagna di 10 mesi, e lo sbarco delle provvigioni di cui la Séniavine era carica per la Compagnia, trattennero per cinque settimane il capitano Lütké nella baia di Sitkha.

Questa parte della costa nord-ovest dell'America offre un aspetto selvaggio ma pittoresco. Alte montagne, coperte fino alla cima da un fitto e cupo mantello di foreste, formano l'ultimo piano del quadro. All'entrata della baia, il monte Edgecumbe, vulcano oggi spento, si eleva a 2800 piedi al disopra del mare. Quando si penetra nella baia s'incontra un labirinto d'isole, dietro le quali sorgono, con la fortezza, le torri e la chiesa, la città della Nuova Arcangelo, composta di una fila di case con giardino, di un ospedale, di un cantiere, e fuori delle palizzate, d'un gran villaggio d'Indiani Kalosci. La popolazione era allora mista di russi, di creoli e di aleutini in numero di ottocento, di cui tre ottavi erano al servizio della Compagnia. Ma questa popolazione diminuisce sensibilmente con le stagioni: L'estate quasi tutti sono a caccia, e appena giunge l'autunno si parte per la pesca.

La Nuova Arcangelo non presenta assolutamente molte distrazioni. A dir vero, anzi, questo soggiorno è uno dei più noiosi che si possa imaginare; è una terra diseredata, triste oltre ogni espressione, dove l'intiero anno, eccetto i tre mesi di neve,

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somiglia più all'autunno che ad ogni altra stagione. Tutto ciò non è nulla ancora pel viaggiatore di passaggio; ma per quello che vi risiede fa bisogno un gran fondo di filosofia o una gran voglia di non morire di fame. Il commercio, abbastanza importante, si fa con la California, con gli indigeni e coi bastimenti stranieri.

Le pelliccie che si procurano gli Aleutini, cacciatori della Compagnia, sono la lontra, il castoro, la volpe ed il suslic. Pescano il leone-marino, la foca e la balena, senza contare, alla loro stagione, l'aringa, il merluzzo, il salmone, il rombo, il loto, il pesce persico, e delle tsuklis, conchiglie che si trovano alle isole della Regina Carlotta e di cui la Compagnia ha bisogno per i suoi scambi con gli Americani.

Quanto a questi ultimi, dal 46° al 60°, sembravano appartenere alla medesima razza; per lo meno pare debba condurre a questa conclusione la somiglianza delle loro forme esteriori, della loro vita e la conformità della loro lingua.

I Kalosci di Sitkha riconoscono come fondatore della loro razza un uomo chiamato Elkh, favorito dalla protezione del corvo, causa prima d'ogni cosa. Nota curiosa, presso i Kadiachi, che sono Esquimesi, quest'uccello ha esso pure una parte importante. Si trova presso i Kalosci, secondo Lütké, la tradizione d'un diluvio e alcune favole ch'egli collega alla mitologia greca.

La loro religione altro non è che il camanismo; un Dio supremo è loro ignoto, ma credono agli spiriti maligni ed agli stregoni che predicono l'avvenire, guariscono gli animali, e la cui professione è ereditaria.

Per essi l'anima è immortale; tuttavia le anime dei capi non si mischiano con quelle degli inferiori, quelle degli schiavi rimangono schiave anche dopo la morte. Si vede come questa conclusione sia poco consolante!

Il governo è patriarcale; gl'indigeni sono ordinati in tribù,

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che, come nel resto dell'America, hanno per emblema, e più spesso per nome, un animale: il lupo, il corvo, l'orso, l'aquila, ecc.

Gli schiavi dei Kalosci sono prigionieri di guerra. La sorte d'i costoro è assai miserabile. I loro padroni hanno su di essi diritto di vita o di morte. In certe cerimonie, in occasione della perdita dei capi, si sacrificano quelli che non sono più buoni a nulla, a meno che, al contrario, non si renda loro la libertà.

Sospettosi e astuti, crudeli e vendicativi, i Kalosci non valgono né più né meno degli altri selvaggi loro vicini. Duri alla fatica, prodi, ma pigri, lasciano tutti i lavori dell'interno alle cure delle loro mogli, giacché la poligamìa è in uso fra essi.

Lasciando Sitkha, Lütké si diresse verso Unalachka. Lo stabilimento d'Huluk è il principale di quest'isola, e tuttavia non é abitato che da dodici russi e dieci aleutini dei due sessi.

Se non vi fosse l'assoluta privazione di legna che costringe gl'indigeni a raccogliere quella che il mare getta alle rive vicine, fra le quali si trovano talvolta tronchi intieri di cipresso, di lauro-canforo e di una specie d'albero che spande un odor di rosa, quest'isola offrirebbe molte comodità e godimenti alla vita. Essa abbonda di belle pasture; epperò vi si applica con successo all'allevamento del bestiame.

Gli abitanti delle isole delle Volpi, al tempo in cui Lütké la visitò, avevano adottato in gran parte i costumi e il vestiario dei Russi. Erano tutti cristiani. Gli Aleutini sono buoni, arditi, destri, e il mare è il loro vero elemento.

Dal 1826 parecchie eruzioni di cenere avevano cagionato grandi disastri in queste isole. Nel maggio 18.27 il vulcano Chichaldinsk si aperso un nuovo cratere e vomitò fiamme.

Le istruzioni di Lütké gli prescrivevano di riconoscere l'isola San Matteo, che Cook aveva chiamato isola di Opre. Se il rilievo idrografico di questa posizione riuscì oltre ogni

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aspettativa, i Russi non ebbero l'esito medesimo quando vollero procurarsi delle nozioni sulle sue produzioni naturali, giacché non vi poterono sbarcare in nessun punto.

In seguito a questi fatti giunse l'inverno col suo corteo ordinario di nebbie e di tempeste. Non bisognava pensare a recarsi allo stretto di Behring. Lütké fece dunque rotta per il Kamtchatka, dono aver comunicato con l'isola Behring.

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Soggiornò tre settimane a Petropaulowsky, tempo che fu impiegato allo scarico degli oggetti che portava e ai preparativi della sua campagna invernale.

Le istruzioni di Lütké gli prescrivevano d'impiegare questa stagione a visitare le isole Caroline. Risolvette dunque di dirigersi addirittura all'isola di Ualan, che il navigatore francese Duperrey aveva fatto conoscere. Un porto sicuro permetterebbe di applicarsi a degli esperimenti sul pendolo.

In rotta, Lütké cercò, senza trovarla, l'isola Colunas, a 26° 9' di latid. e 128° di longit. ovest. Lo stesso avvenne delle isole Dexter a San Bartolomeo. Riconobbe il gruppo di corallo Brown, scoperto nel 1794 dall'inglese Butler, e giunse il 4 dicembre in vista di Ualan.

Fin dai primi momenti l'eccellenza delle relazioni con gli indigeni fece su tutti ottima impressione. Parecchi ualanesi che erano venuti in piroga mostrarono abbastanza fiducia per dormire a bordo del bastimento mentre era ancora alla vela.

Non fu senza stento che la Séniavine penetrò nel porto della Coquiile. Sbarcato sull'isolotto Matanial, dove Duperrey aveva eretto il suo osservatorio, Lütké fece lo stesso, mentre gli scambi cominciavano con gli indigeni. La bonomìa e il carattere pacifico di costoro non si smentirono un istante. Bastò trattenere per due giorni un capo in ostaggio e dar fuoco ad una piroga per por fine ai furti di alcuni indigeni.

«Noi possiamo dichiarare con piacere in faccia al mondo, dice Lütké, che il nostro soggiorno di tre settimane a Ualan non solo non costò una goccia di sangue umano, ma potemmo lasciare quei buoni isolani senza dar loro un'idea più completa di quella che avevano già dell'effetto delle nostre armi da fuoco, che essi credono solamente destinate a uccidere degli uccelli. Non so se si trovi un esempio simile negli annali dei primi viaggi nei mari del Sud.»

Dopo aver lasciato Ualan, Lütké cercò invano le isole

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Musgraves, segnate sulla carta di Krusenstem, e non tardò a scoprire una grande isola circondata da una scogliera sottomarina, la cui conoscenza era sfuggita a Duperrey e che porta il nome di Painipete o di Puynipete. Il bastimento fu subito circondato da grandi e belle piroghe con un equipaggio di quattordici uomini, e da altre piccole in cui non ce n'erano che due.

Questi indigeni dalla fisionomia selvaggia che esprimeva la diffidenza, dagli ocelli iniettati di sangue, turbolenti e chiassosi cantavano, ballavano, gesticolavano nelle loro imbarcazioni e non si decisero che a stento a salire sul ponte.

La Séniavine si tenne a qualche distanza da terra, in modo che non sarebbe stato possibile accostarla senza combattimento, giacche in un tentativo di sbarco gli indigeni circondarono la scialuppa e non si ritirarono che dinanzi al buon contegno dell'equipaggio e alle cannonate della Séniavine.

Lütké disponeva di troppo poco tempo per spingere a fondo la ricognizione dell'arcipelago Séniavine, come egli chiamò la sua scoperta. Epperò, le informazioni che poté raccogliere sulla popolazione dei Puynipètes mancano di precisione.

Quegli indigeni non apparterrebbero, secondo lui, alla medesima razza di quelli di Ualan, e si avvicinerebbero piuttosto ai Papus, i più vicini dei quali sono quelli della Nuova Irlanda, vale a dire a 700 miglia soltanto.

Appena Lütké ebbe cercato, senza incontrarla, l'isola Sant'Agostino, riconobbe le isole di corallo Los Valientes, chiamate anche Seveii-Lslauds (sette isole), scoperte nel 1773 dallo spagnuolo Filippo Tompson.

Il navigatore vide poscia l'arcipelago Mortlok, antico gruppo Lugullos di Torres, i cui abitanti somigliavano agli Ualanesi. Scese sulla principale di queste isole, vero giardino

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di piante di cocco e di alberi del pane. Gli indigeni godevano di una certa civilizzazione.

Sapevano tessere e tingere le fibre del banano e del cocco, come gli indigeni di. Ualan e di Puynipete.

I loro istrumenti da pesca facevano onore al loro spirito inventivo, sopratutto una specie di cassa intrecciata di verghette e di bambù, combinata in modo da lasciar entrare il pesce senza che possa uscirne. Possedevano altresì delle reti in forma di grandi saccoccie, delle lenze e degli arponi.

Le loro piroghe, sulle quali passano tre quarti della loro esistenza sembrano meravigliosamente adatte ai loro bisogni. Quelle grandi, la cui costruzione costa loro infinite pene, e sono conservate sotto speciali capanne, hanno ventisei piedi di lunghezza, due e un quarto di larghezza e quattro di profondità. Sono munite d'un bilanciere i cui traversi sono ricoperti di un palco. Dall'altra parte trovasi una piccola piattaforma di quattro piedi quadrati, munita d'un coperchio, sotto cui si riparano le provvigioni. Queste piroghe portano una vela triangolare di stuoie intrecciate di foglie, la quale è attaccata a due verghe. Per girar di bordo si lascia cader la vela, s'inclina l'albero verso l'altro capo della piroga, dove si fa passare in pari tempo la fune della vela, e la piroga fa prua con l'altra estremità.

Lütké riconobbe poscia il gruppo Namoluk, i cui abitanti non differiscono per nulla dai Longunoriens, e dimostrò l'identità dell'isola Hogole, già descritta da Duperrey, con Quirosa. Poi visitò il gruppo Namonuito, prima assise d'un numeroso gruppo d'isole ed anzi di una sola grande isola, che doveva un tempo esistere in quel luogo.

Il comandante Lütké avendo bisogno di biscotto e di diversi altri generi che sperava avere da Guaham o dalle navi che fossero ferme in porto, fece vela per le Marianne, dove intendeva ripetere in pari tempo degli esperimenti sul pendolo, a cui Freycinet aveva trovato un'importante anomalia di

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gravità. Fu grande la sorpresa di Lütké, giungendo a terra, di non

scorgervi nessun indizio di vita. I due porti non avevano bandiera. Un silenzio di morte regnava dappertutto, e se non fosse stata la presenza di una goletta ancorata nel porto interno, si sarebbe creduto di accostare qualche terra deserta. Non v'era a terra che poca gente e anche questa non era che una popolazione semi-selvaggia, dalla quale fu quasi impossibile ricavare la minima informazione. Per fortuna, un disertore inglese venne a porsi a disposizione di Lütké e trasmise al governatore una lettera del comandante, che ricevette quasi subito una risposta soddisfacente.

Il governatore era quel medesimo Medinilla di cui Kotzebue e Freycinet avevano lodato l'ospitalità. Epperò non fu difficile ottenere il permesso di stabilire a terra un osservatorio e portarvi le poche provvigioni di cui si aveva bisogno. Questa sosta fu rattristata da un accidente che toccò al comandante Lütké, il quale in una caccia si ferì alquanto gravemente una mano col fucile.

I lavori di riparazioni e rattoppamenti del bastimento, la necessità di aver acqua e legna ritardarono la partenza della Séniavine fino al 19 marzo. Durante questo lasso di tempo, Lütké ebbe campo di riconoscere l'esattezza delle informazioni che un soggiorno di due mesi nella casa stessa del governatore aveva permesso a Freycinet di raccogliere dieci anni prima. Dopo d'allora, le cose non avevano niente mutato.

Siccome per Lütké non era ancor tempo di risalire nel nord, ripigliò la ricognizione delle Caroline dalle isole del Danese. Gli abitanti gli sembrarono fatti meglio dei loro vicini occidentali, dai quali, del resto, non differiscono in alcun modo. Le Farroilep, Ullei, Ifeluk, Furipigze furono successivamente rilevate; poi Lütké prese la rotta di Bonin-Sima il 27 aprile. Ivi apprese che era stato preceduto, nella

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ricognizione di quel gruppo, dal capitano inglese Beechey. Epperò rinunciò subito a qualunque lavoro idrografico.

Due marinai appartenenti all'equipaggio d'una baleniera che era stata gettata sulla costa risiedevano tuttora a Bonin-Sima.

Dopo lo sviluppo della grande pesca, questo arcipelago era frequentato da una quantità di baleniere che vi trovavano un porto sicuro in ogni stagione, e in pari tempo acqua e legna in abbondanza, tartarughe, durante sei mesi, pesce, ed insieme a una infinità d'erbe antiscorbutiche il delizioso cavolo-palmisto.

«La maestosa altezza e il vigore degli alberi, dice Lütké, la varietà e la miscellanea delle piante tropicali con quelle dei climi temperati, attestano già la fertilità del terreno e la salubrità del clima. La maggior parte delle produzioni dei nostri giardini e delle nostre piante orticole, e forse tutte, qui riescono a meraviglia, come il frumento, il riso, il mais; non si potrebbe desiderare un clima migliore né una migliore esposizione pei vigneti. Gli animali domestici d'ogni specie, le api vi si moltiplicherebbero assai presto. In una parola, con una colonizzazione poco numerosa, ma operosa, questo piccolo gruppo potrebbe diventare in poco tempo un luogo di abbondanti risorse in ogni oggetto.»

Il 9 giugno la Sèniavine dopo essere stata ritardata dal vento una intiera settimana, entrava a Petropaulowsky, dove fu trattenuta fino al 26 per approvvigionarsi. Allora fu fatta una serie di ricognizioni lungo le rive del Kamtchatka, del paese dei Koriaks e dei Tchuktchi. Esse furono interrotte da tre soggiorni sulle coste dell'isola di Karaghinsk, nella baia di San Lorenzo e nel golfo di Santa Croce.

In una di queste soste accadde al comandante una singolare avventura. Egli era da parecchi giorni in amichevoli rapporti con dei Tchuktchi ai quali si sforzava di dare un'idea più familiare dell'essere e del modo di vivere dei Russi.

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«Questi indigeni — dice — si mostravano affabili e compiacenti e cercavano di pagare con la stessa moneta le nostre burle e le nostre moine. Io picchiavo pian pianino con la mano, in segno d'amicizia, sulla guancia d'un vigoroso tchuktchi, e di botto ricevetti, in risposta, uno schiaffo che per poco non mi gettò a terra. Rinvenuto dal mio stupore, mi vidi dinanzi il mio tchuktchi con la faccia ridente e che esprimeva la soddisfazione di un uomo che ha saputo mostrare il suo bel modo di vivere e la sua civiltà. Egli pure aveva voluto picchiarmi pian pianino, ma lo fece con mano avvezza a picchiar le renne.»

I viaggiatori furono essi pure testimoni delle prove di destrezza di un tchuktchi che faceva il chaman o mago. Egli si mise dietro una cortina, d'onde si udì in breve uscire una voce simile ad un urlo, mentre venivano picchiati dei colpetti su di un tamburino con una barba di balena. Alzata la cortina, si vide il mago dondolarsi e rinforzare la sua voce e i suoi colpi sul tamburo che teneva all'orecchio. Poco dopo, gettò via la pelliccia, si mise nudo fino alla cinta, pigliò un sasso pulito che diede a tenere a Lütkó, lo riprese, e mentre faceva passare una mano sopra l'altra, il sasso sparì. Mostrando un tumore che aveva al gomito, pretendeva che il sasso fosse là; poi fece girare il tumore da un lato, e dopo averne estratto il sasso affermò che la riuscita del viaggio dei Russi sarebbe favorevole.

Si felicitò il mago per la sua destrezza e gli si fece dono di un coltello per ringraziarlo. Pigliandolo mandò fuori la lingua e si mise a tagliarla… La bocca gli si empì di sangue… Finalmente, dopo essersi tagliato affatto la lingua, ne mostrò il pezzo nella mano. Ma qui la cortina cadde, perchè la destrezza del prestigiatore senza dubbio non andava più oltre.

Si designai sotto il nome generale; di Tchuktchi il popolo ciré abita l'estremità N.-E. dell'Asia. Esso comprende due

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razze: una, nomade come i Samojedi, è chiamata i Tchuktchi dalle renne; l'altra, a residenze fisse, si chiama i Tchuktchi sedentari. Il genere di vita, come i lineamenti del volto e la lingua medesima differiscono in queste due razze. L'idioma parlato dai sedentari ha grandi rapporti con quello degli Esquimesi, a cui i baidarkes o battelli di cuoio, gli strumenti e le forme delle capanne tendono pure ad approssimarli.

Lütké non vide gran numero di Tchuktchi dalle renne; perciò non poté quasi aggiungere nulla a quello che avevano detto i suoi predecessori. Gli sembrò tuttavia che essi fossero stati dipinti con colora troppo sfavorevoli e che la loro riputazione di turbolenza e di selvatichezza fosse singolarmente esagerata.

I sedentari, generalmente noti sotto il nome di Namollos, vivono d'inverno entro baracche e l'estate in capanne coperte di pelli. Queste servono ordinariamente di dimora a parecchie famiglie.

«I figli con le loro mogli, le figlie coi loro mariti, dice la relazione, vivono insieme coi loro genitori. Ogni famiglia occupa, sotto una tenda, una delle separazioni praticate sul lato largo della capanna. Queste tende sono fatte di pelle di renna cucite in forma di campana; sono attaccate alle barre del soffitto e scendono fino a terra. Due, tre persone, e talvolta di più, con l'aiuto del grasso che accendono quando fa freddo, riscaldano talmente l'aria sotto quelle tende quasi ermeticamente chiuse, che nei geli più forti ogni vestimento diventa superfluo; ma non è possibile che a polmoni tchuktchi il respirare in quell'atmosfera. Nella metà anteriore della capanna vi sono tutti gli utensili, vasellame, marmitte, corbe, valigie di pelle di vitello marino, ecc. Là vi ha pure il focolare, se così si può chiamare il luogo in cui fumano alcune boscaglie di vinco, raccolte a stento negli acquitrini, e in mancanza di queste, delle ossa di balena intinte nel grasso. Intorno alla

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capanna, sopra asciugatoi di legno o d'osso di balena, è distesa della carne di vitello marino, tagliata a pezzi, nera e disgustosa.»

La vita che traggono questi popoli è miserabile. Si nutrono di carne mezzo cruda di foche e di leoni marini a cui danno caccia, e di quella delle balene che il mare getta sulle loro coste. Il cane è il solo animale domestico che possiedono; lo trattano abbastanza male, sebbene questi poveri animali siano molto domestici e rendano loro grandi servigi, sia tirando le loro baidarkes con la corda, sia tirando le slitte sulla neve.

Dopo un secondo soggiorno di cinque settimane a Petropaulowsky, la Séniavine lasciò il Kamtchatka il 10 novembre per ritornare in Europa. Prima di giungere a Manilla, Lütké fece una crociera nella parte settentrionale delle Caroline, che non aveva avuto tempo di riconoscere l'inverno precedente. Vide successivamente i gruppi di Murileu, Funami, Faieu, Namonuito, Maghyr, Farroilep, Ear, Mogmog e trovò a Manilla la corvetta Möller che l'aspettava.

L'Arcipelago delle Caroline abbraccia un immenso spazio, e le Marianne, come pure le Radak, potrebbero senza inconvenienti essergli attribuite, giacche vi si trova una popolazione assolutamente identica.

Gli antichi geografi non avevano avuto per lungo tempo altre guide che le carte dei missionari, i quali, mancando d'istruzione e degli istrumenti necessari per apprezzare con esattezza l'ampiezza, la situazione e la lontananza di tutti questi arcipelaghi, avevano loro dato un'importanza notevole e avevano spesso fissato a parecchi gradi l'estensione di un gruppo che non era se non di poche miglia.

Epperò i navigatori se ne stavano prudentemente lontani. Freycinet fu il primo a mettere un po' d'ordine di questo caos, e mercè l'incontro di Kadù e di don Luigi Torres poté identificare le nuove scoperte con le antiche. Lütké portò la sua parte, e non

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una delle minori, allo stabilimento della carta reale e scientifica di un arcipelago che era stato per lungo tempo lo spavento dei navigatori. Il sapiente esploratore russo non è del parere di uno dei suoi predecessori, Lesson, che ascriveva alla razza mongola, sotto il nome di ramo mongolopelasgio, tutti gli abitanti delle Caroline. Egli vi vede piuttosto, con Chamisso e Balbi, un ramo della famiglia malese che ha popolato la Polinesia orientale.

Se Lesson avvicina le Carolina ai Chinesi e ai Giapponesi, Lütké trova, al contrario, pei loro grand'occhi sporgenti, le loro labbra grosse, il loro naso ricurvo, un'aria di famiglia con quelli degli abitanti delle Sandwich e delle Tuga. La lingua non offre neppur essa il minimo avvicinamento con la giapponese, mentre presenta una grande somiglianza con quella dei Tonga.

Lütké passò il tempo del, suo soggiorno a Manilla a vettovagliarsi, a riparare la corvetta, e lasciò il 30 gennaio questa possessione spagnuola per ritornare in Russia, dove gettò l'ancora nella rada di Cronstadt il 6 settembre 1829.

Rimane ora a dire ciò che avvenne della corvetta il Möller dalla sua separazione a Valparaiso. Da Taiti, guadagnando il Kamtchatka, aveva sbarcato a Petropaulowsky una parte del suo carico, poi aveva fatto vela, nell'Agosto 1827, per Unaiachka, dove era rimasta un mese. Dopo una ricognizione della costa occidentale d'America, abbreviata dal cattivo tempo, e dopo un soggiorno a Honolulu fino al febbraio 1828, essa aveva scoperto l'isola Möller, riconosciute le isole Necker, Gardner, Lissiasnsky, e segnalato, a 6 miglia a sud di quest'ultima, una scogliera pericolosissima.

La corvetta aveva poscia prolungato l'isola Kur, la Basse delle fregate francesi, la scogliera Maras, quella della Perla e dell'Hermes, e, dopo aver cercato certe isole, segnate sulle carte di Arrowsmith aveva riguadagnato il Kamtchatka. Alla fine d'aprile aveva salpato per Unaiachka e operato la ricognizione

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della costa settentrionale della quasi isola di Alaska. In settembre il Möller si era riunito alla Séniavine, e da quest'epoca i due bastimenti, fino al loro ritorno in Russia, non si separarono più che a brevi intervalli.

Come si è potuto giudicare dal racconto abbastanza particolareggiato che è stato fatto, questa spedizione non era stata infruttuosa di risultati importanti per la geografia. Bisogna aggiungere che diversi rami della storia naturale, della fisica e dell'astronomia n'ebbero del pari numerosi e importanti acquisti.

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CAPITOLO II.

I CIRCUMNAVIGATORI FRANCESI.

I.

Viaggio di Freycinet. — Rio-de-Janeiro e i suoi gitani. — Il Capo e i suoi vini. — La baia dei Cani Marini. — Soggiorno a Timor. — L'isola d'Ombay e sua popolazione antropofago. — Le isole Capus. — Abitazioni su pali di Alfurus. — Un pranzo presso il governatore di Guaham. — Descrizione delle Marianne e loro abitanti. — Dettagli sulle Sandwieh. — Porto Jackson e la Nuova Galles del Sud. — Naufragio alla baia Francese. — Le Maluine. — Ritorno in Francia. — Spedizione della Coquille sotto gli ordini di Duperrey. — Martino Vaz e la Trinidad. — L'isola Santa Caterina. — L'indipendbnza del Brasile. — La baia francese ed i resti dell'Uranie. — Fermata a Concepcion. — La guerra civile al Chili. — Gli Araucani. — Nuove scoperte nell'arcipelago Dangereux. — Fermata a Taiti ed alla Nuova Irlanda. — I Papus. — Stazione a Ualan. — I Carolini e le Caroline. — Risultati scientifici della spedizione.

La spedizione comandata da Luigi Claudio di Saulces di

Freycinet fu dovuta agli agi che la pace del 1815 accordava alla marina francese. Uno de' suoi ufficiali più intraprendenti, quello stesso che aveva accompagnato Baudin nella ricognizione delle coste dell'Australia, ne concepì il progetto e fu incaricato di eseguirlo. Era il primo viaggio marittimo che non dovesse avere esclusivamente l'idrografia per obiettivo. Suo scopo principale era il rilievo della forma della Terra nell'emisfero sud, e l'osservazione dei fenomeni del magnetismo terrestre; lo studio dei tre regni della natura, dei costumi, degli usi e delle lingue dei popoli indigeni non doveva

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essere dimenticato; infine le ricerche di geografia, senz'essere escluse, erano però poste in ultimo luogo. Freycinet trovò negli ufficiali del corpo di sanità marittima, i signori Quoy, Gaimard e Gaudichaud, degli utili ausiliari pei quesiti di storia naturale; in pari tempo egli si aggiunse un certo numero di ufficiali di marina distintissimi, i più noti dei quali sono Duperrey, Lamarche, Berard e Odet-Pellion, che divennero, uno membro dell'Istituto, gli altri ufficiali superiori o generali della marina. Freycinet ebbe parimenti cura di scegliere i suoi marinai fra quelli che erano in grado di esercitare un mestiere, e sopra i 120 uomini che composero l'equipaggio della corvetta Uranie non ce n'erano meno di 50 che al bisogno potevano essere falegnami, cordai, fabbri-ferrai e velieri.

Ricambi per due anni, approvvigionamenti d'ogni genere come Dolevano fornirli gli apparecchi perfezionati che incominciavano ad usarsi; casse di ferro, per conservare l'acqua dolce, lambicchi per distillare l'acqua di mare, conserve e antiscorbutici, tutto fu ammucchiato sull'Uranie. Essa lasciò il porto di Tolone il 17 settembre 1817, portando seco, travestita da marinaio, la moglie del comandante, che non temeva di affrontare i pericoli e le fatiche di quella lunga navigazione.

Con queste provvigioni, tutte materiali, Freycinet aveva un assortimento dei migliori strumenti e apparecchi. Infine, aveva ricevuto dall'Istituto particolareggiate istruzioni, destinate a guidarlo nelle sue ricerche e a suggerirgli gli esperimenti che potevano maggiormente contribuire al progresso delle scienze.

Un riposo a Gibilterra, una fermata a Santa Croce di Teneriffa, una nelle isole Canarie, che, come spiritosamente dice Freycinet, non furono per l'equipaggio le isole Fortunate — ogni comunicazione con la terra era dal governatore interdetta — precedettero l'entrata dell'Uranie a Rio-Janeiro il 6 dicembre.

Il comandante e i suoi ufficiali approfittarono di questo

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riposo per procedere a numerose osservazioni magnetiche e agli esperimenti del pendolo, mentre i naturalisti percorrevano il paese e facevano numerose collezioni di storia naturale.

La relazione originale del viaggio contiene un lunghissimo cenno storico della scoperta e della colonizzazione del Brasile, come pure i particolari più circostanziati sull'uso e i costumi

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degli abitanti, sulla temperatura e sul clima, nonché una descrizione minuziosa di Rio-Janeiro, dei suoi monumenti e de' suoi dintorni.

La parte più curiosa della descrizione si riferisce ai gitani che si incontravano a quel tempo a Rio-Janeiro.

«Degni discendenti dei Parias dell'India donde non pare dubbioso ch'essi traggano la loro origine, dice Freycinet, i ciganos di Rio-Janeiro affettano, come essi, l'abitudine di tutti i vizi, una propensione a tutti i delitti. La maggior parte, possessori di grandi ricchezze, sfoggiano un lusso notevole in abbigliamenti ed in cavalli, particolarmente al tempo delle nozze, che sono sontuosissime, e comunemente si compiacciono in mezzo alle crapule ed alla poltroneria. Furbi e mentitori, rubano più che possono in commercio; sono pure scaltri contrabbandieri. Qui, come dappertutto, dove s'incontra questa abbominevole razza d'uomini, le loro alleanze non hanno mai luogo che fra essi. Hanno un accento ed anche un gergo particolare. Per una bizzarria affatto inconcepibile, il Governo tollera questa pubblica peste: persino due strade particolari sono loro serbate in vicinanza del Campo di Sant'Anna.»

«Chi non vedesse Rio-Janeiro che di giorno, dice un po' più oltre il viaggiatore, sarebbe tentato a credere che la popolazione non è composta che di negri. La gente ammodo, a meno di un motivo straordinario o pei doveri religiosi, non esce che di sera; le donne, poi, di giorno rimangono quasi costantemente in casa e dividono il loro tempo fra il sonno e racconciatura. I teatri e le chiese sono i soli luoghi in cui un uomo possa godere della loro presenza.»

La navigazione dell'Uranie dal Brasile al capo di Buona Speranza non fu accompagnata da alcun avvenimento nautico degno di fissare l'attenzione. Il 7 marzo, l'ancora cadeva nella baia della Tavola. Dopo una quarantena di tre giorni, si lasciò

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ai navigatori facoltà di scendere a terra, dove li aspettava la più graziosa accoglienza da parte del governatore Carlo Somerset, Appena si poté procurare un locale conveniente si sbarcarono gli istrumenti. Gli esperimenti abituali del pendolo furono fatti, e furono osservati i fenomeni dell'ago magnetico. I naturalisti Quoy e Gaimard, accompagnati da parecchie persone dello stato maggiore, fecero un'escursione di storia naturale alla montagna della Tavola e ai famosi vigneti di Constance.

«Le vigne che percorremmo, dice Gaimard, sono circondate di viali di quercie e di pini, e i ceppi piantati a quattro piedi di distanza gli uni dagli altri sopra linee diritte, non sono sostenuti da pali. Tutti gli anni si tagliano e si dissoda il terreno d'intorno che è di natura arenosa. Vedemmo qua e là una quantità di alberi di pesche e d'albicocche, di mele e di pere, di limoni, e dei piccoli quadrati in cui si coltivano piante orticole, Al nostro ritorno il signor Colyn volle assolutamente farci gustare le diverse specie di vino ch'egli produce, consistenti in vino di Costanza, propriamente detto, bianco e rosso, in vino di Pontac, di Pierre e di Frontignac. Il vino delle altre località, che porta il nome particolare di vino del Capo, è fatto con un'uva moscatello di color paglia affumicata, che mi parve preferibile, per gusto, al moscato di Provenza.

«Abbiamo detto che vi sono due qualità di vino di Costanza, il bianco e il rosso; esse provengono entrambe da uve moscatelle di color differente. Generalmente si preferisce, al Capo, il Frontignac a tutti gli altri vini che si raccolgono sui colli di Costanza…»

Proprio un mese dopo aver lasciato l'estremità meridionale dell'Africa. L'Uranie giungeva all'ancoraggio di Porto Luigi, all'isola di Francia, che dopo i trattati del 1815 era nelle mani degli Inglesi.

Freycinet, costretto a far abbattere il suo bastimento in carena per visitarlo interamente e per riparare la fodera di

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rame, dovette fare in quei luogo un soggiorno molto più lungo che non contasse di fare. I nostri viaggiatori non ebbero a lagnarsene, giacché gli abitanti dell'isola di Francia non ismentirono la loro antica riputazione di cortese ospitalità. Passeggiate, ricevimenti, balli, pranzi, corse di cavalli, feste d'ogni genere fecero passare il tempo ben presto. Epperò non fu senza stringimento di cuore che i Francesi si tolsero all'eccellente accoglienza dei loro antichi compatrioti, e dei loro accaniti nemici di un tempo.

Parecchi abitanti, dei più notevoli, fornirono a Freycinet, con premura lodevolissima, interessanti note su fatti che la brevità del suo soggiorno non gli avrebbe permesso di studiare.

Cosicché egli poté riunire dei dati preziosi riguardanti la condizione dell'agricoltura, del commercio, dell'industria, delle finanze, lo stato morale degli abitanti, materie delicate e d'un sottile apprezzamento, che un viaggiatore di passaggio non può approfondire. Dacché l'isola era sotto l'amministrazione inglese, erano state aperte numerose strade, e lo spirito d'iniziativa cominciava a sostituirsi al vecchio andazzo che aveva addormentato la colonia e arrestato ogni progresso.

L'Uranie giunse poscia a Bourbon, dove doveva trovare nei magazzini dei governo i viveri che le abbisognavano. Ancorò a Saint-Denis il 19 luglio 1817, e rimase nella rada di San Paolo fino al 2 agosto, giorno in cui fece vela per la baia dei Cani Marini, alla costa occidentale della Nuova Olanda.

Prima di seguire Freycinet fino in Australia, accenniamo ad alcuni dati relativi a Bourbon.

Nel 1817, a quanto dice Le Gentil della Barbinais, quest'isola non possedeva che 900 persone libere, fra le quali 6 famiglie bianche solamente, e 1100 schiavi. Dopo l'ultima statistica (1817) vi si contavano 14.790 bianchi, 4342 neri liberi, 49.759 schiavi, cioè un totale di 68.891 abitanti. Questo rapido e notevole aumento può essere attribuito alla salubrità

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del paese, ma sopratutto alla libertà del commercio di cui ha fruito quest'isola da gran tempo.

Il 12 settembre, dopo una felice navigazione, l'Uranie calava l'ancora all'entrata della baia dei Cani Marini. Fu subito spedito un distaccamento su Dirck-Hatichs onde fissare la posizione geografica del capo Levaillant e riportare a bordo della corvetta la piastra di stagno lasciatavi dagli Olandesi in un tempo remoto., e che Freycinet aveva veduta nel 1801.

Intanto i due lambicchi erano stati messi in attività e distillavano l'acqua di mare. Durante tutto il soggiorno non si consumò altra bevanda e nessuno a bordo ebbe a lagnarsene.

Il distaccamento che era stato sbarcato ebbe qualche comunicazione con gli indigeni.

Armati di zagaglie e di clave, senza il minimo vestiario, questi si rifiutarono di entrare in rapporti diretti coi bianchi, e si tennero a qualche distanza dai marinai, non toccando che con precauzione gli oggetti che si davano loro.

Sebbene la baia dei Cani Marini fosse stata esplorata minuziosamente al tempo della spedizione di Baudin, rimaneva, dal punto di vista idrografico, una lacuna da colmare nella parte orientale del porto Bamelin. Duperrey procedette a questo rilievo.

Il naturalista Gaimard, poco soddisfatto dei rapporti che si avevano avuti fino allora con gli indigeni che il rumore delle detonazioni aveva assolutamente allontanati, e desideroso di procurarsi dei particolari sul loro genere di vita, risolse di inoltrarsi nell'interno del paese. Il suo compagno e lui si smarrirono come aveva fatto Riche nel 1792 sulla Terra di Nuyts; soffrirono orribilmente la sete, giacché nei tre giorni che passarono a terra non scorsero nessuna sorgente, nessun ruscello.

Fu senza dispiacere che si vide sparire la costa inospitale della Terra di Endracht, Il tempo bellissimo, il mare calmo

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resero facile il viaggio dell'Uranie fino a Timor, dove, il 9 ottobre, calò l'ancora nella rada di Cupang.

La colonia non godeva più di quella prosperità che aveva destato la meraviglia e l'ammirazione dei Francesi al tempo del viaggio di Baudin. Il rajah d'Amanubang, distretto in cui il legno di sandalo cresce in abbondanza, un tempo tributario, lottava per la sua indipendenza. Questo stato di guerra, che non poteva essere più nocivo alla colonia, rese in pari tempo assai difficile l'acquisto delle merci che abbisognavano a Freycinet.

Alcune persone dello stato maggiore si recarono a far visita al rajah Peters di Banacassi, la cui abitazione non era che a tre quarti di lega, da Gupang. Vegliardo di ottant'anni, Peters doveva essere stato un bellissimo uomo; era circondato da persone del suo seguito, che gli attestavano il massimo rispetto, e fra le quali si notavano dei guerrieri di una imponente statura.

Non fu senza vivo stupore che i Francesi videro in questa rozza abitazione un gran lusso di servizio e scorsero dei fucili europei assai ben fatti e di alto prezzo.

Nonostante la temperatura molto elevata che si dovette sopportare (il termometro segnava al sole e all'aria aperta 45°, ed all'ombra da 33 a 35°), il comandante ed i suoi ufficiali non si applicarono con minore zelo alle osservazioni scientifiche ed alle ricognizioni che richiedeva il compimento della loro missione.

Tuttavia, malgrado gli energici avvertimenti di Freycinet, i giovani ufficiali, ed i marinai avevano più volte commessa l'imprudenza di uscire in pieno giorno; poi nella speranza di premunirsi contro le funeste conseguenze di questo giuoco mortale, si erano avidamente dati alle bibite fredde ed ai frutti acidi. Perciò la dissenteria non aveva tardato a colpire a morte cinque dei più imprudenti. Bisognava partire e l'Uranie levò l'ancora il 23 ottobre. Si cominciò a percorrere rapidamente la costa settentrionale di Timor per farne l'idrografia: ma quando

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la corvetta giunse alla parte più stretta del canale di Ombay, incontrò correnti tanto violente, brezze così deboli, così contrarie, che a stento pervenne a riguadagnare il cammino che aveva perduto durante la calma. Questo stato di cose non durò meno di diciannove giorni.

Alcuni ufficiali approfittarono del fatto che il bastimento

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era trattenuto presso le rive d'Ombay per «fare una scorreria sulla parte più vicina di quest'isola, il cui aspetto era graziosissimo. S'avvicinarono al villaggio di Bituka e s'avanzarono verso una frotta di indigeni armati d'archi, di frecce e di kris, che portavano corazze e scudi di pelle di buffalo. Questi selvaggi avevano aspetto guerriero e non sembravano temere le armi a fuoco. Era loro facile, dicevano, tirare buon numero di frecce nel tempo necessario a caricare i fucili.

«Le punte delle freccie, dice Caimani, erano o di legno duro o d'osso, od anche di ferro. Queste freccie, disposte a ventaglio, erano collocate alla sinistra dei guerriero, alla cintura della sua sciabola o del kris. La maggior parte degli abitajili portavano applicate alla coscia destra ed alla cinta una quantità di foglie di laudano frastagliate per lasciar passare delle bende delle medesime foglie tinte di rosso o di nero. Il rumore continuo prodotto dai movimenti di coloro che erano carichi di questo singolare ornamento, aumentato dal contatto della corazza e dello scudo, il tintinnìo del sonagliuzzi che sono pure un accessorio della loro acconciatura guerresca, tutto ciò faceva un tal chiasso, che non potemmo trattenerci dal riderne. Lungi dall'offendersene, i nostri Ombayni non esitavano a seguire il nostro esempio. Il signor Arago fece dinanzi a loro alcuni giuochi di destrezza, che li stupirono assai. C'incamminammo direttamente verso il villaggio di Butika, situato sopra un'altura. Passando innanzi ad una delle loro case, avendo scorte una ventina di mascelle umane sospese alla volta, espressi il desiderio d'averne alcune, offrendo in cambio i miei oggetti più preziosi. Ma mi si rispose: Palami (ciò è prezioso). Mi sembrò allora che quelle ossa fossero trofei, destinati a perpetuare il ricordo delle vittorie riportate sui nemici!»

Questa passeggiata era tanto più interessante in quanto che

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l'isola Ombay non era stata fino allora visitata dagli Europei. Anzi i pochi bastimenti che vi si erano accostati ebbero a pentirsi delle tribù bellicose e feroci, ed alcune anche antropofaghe, che l'abitano.

Infatti nel 1802 una imbarcazione della nave La Rosa era stata condotta via e l'equipaggio ritenuto prigioniero. Dieci anni dopo, il capitano dell'Inacho, sbarcato solo a terra, era stato ferito dalle treccie. Finalmente, nel 1817, una fregata inglese, avendo mandato un canotto a far legna, tutti gli uomini di quella imbarcazione, in seguito ad una rissa, furono uccisi e mangiati dagli indigeni. L'indomani una scialuppa armata, spedita alla ricerca degli assenti, non aveva trovati che gli avanzi sanguinosi ed i frammenti del canotto che era stato fatto a pezzi.

Questi fatti erano ben noti, ed i Francesi non potevano che felicitarsi d'essere sfuggiti all'insidia che senza dubbio avrebbero loro tesa questi cannibali, se il soggiorno dell'Uranie fosse stato più lungo.

Il 17 novembre l'ancora cadeva dinanzi a Dille. Dopo i complimenti d'uso al governatore portoghese, Freycinet espose i bisogni del suo bastimento e ricevette una premurosa risposta dal governatore, che gli promise di riunire rapidamente i viveri necessari. L'accoglienza fatta a tutto l'equipaggio fu altrettanto sontuosa che cordiale, e quando Freycinet si accommiatò, il governatore volendo dargli un segno di ricordo, gli mandò due ragazzi e due fanciulle, dell'età di sei o sette anni, nati nel regno di Failacor, nell'interno di Timor. «Questa razza è sconosciuta in Europa», diceva don José Pinto Alcofarado d'Arzevedo e Souza, per far accettare il suo dono. Freycinet, per quanto adducesse buone e concludenti ragioni per motivare il suo rifiuto, fu costretto a tenersi uno dei ragazzi, che fu battezzato coi nomi di Giuseppe Antonio, e che morì a Parigi nell'età di sedici anni di una malattia scrofolosa.

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La popolazione di Timor sembra, a prima vista, tutta quanta asiatica; ma per poco che si facciano delle ricerche un po' estese, non si tarda ad apprendere che esiste, nelle montagne più centrali e meno frequentate, una razza dì negri dai capelli crespi, dai costumi feroci, che ricordano gl'indigeni della Nuova Guinea e della Nuova Irlanda, e che dev'essere la popolazione primitiva. Quest'ordine di ricerche che erano state inaugurate sullo scorcio del secolo XVIII dall'inglese Crawford, ha preso ai giorni nostri, mercè i lavori degli eruditi dottor Broca ed E. Hamy, uno sviluppo affatto particolare.

Al secondo di questi dotti si debbono, su queste popolazioni primitive, gli studi curiosissimi che la Natura e il Bollettino della Società di Geografia inseriscono ognora per diletto ed istruzione de' loro lettori.

Partita da Timor, l'Uranie s'incamminò verso lo stretto di Buru; passando fra le isole Wetter e Roma, scorse l'isola Gasses dalla forma pittoresca, rivestita del più bel verde che si possa vedere; poi fu trascinata dalle correnti sino all'isola Pisang, in vicinanza alla quale si incontrarono tre corocores montate dagli indigeni dell'isola Guébé.

Costoro hanno la tinta nera olivastra, il naso schiacciato, le labbra grosse; ve ne sono di forti e robusti e d'aspetto atletico ributtante. La maggior parte non vestivano che calzoni stretti alla vita con un fazzoletto.

Fu fatta una scorreria sulla piccola isola Pisang, di formazione vulcanica, e le cui lave trachitiche si decompongono in una terra vegetale, di cui tutto indicava la fertilità.

Poi si continuò, in vicinanza delle isole vicine fino allora poco note, a far rotta per Rawak, dove la corvetta calò l'ancora il 16 dicembre a mezzodì.

L'isola Rawak è piccola ed inabitata, e sebbene i nostri marinai ricevessero di frequente la visita degli abitanti di

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Waigiu, le occasioni di studiare la specie umana furono rarissime. Bisognava anche dire che l'ignoranza della lingua di quegli indigeni e la difficoltà di farsi comprendere col malese, di cui non conoscevamo che poche parole, non li resero assai profittevoli.

Appena si trovò una situazione favorevole si stabilirono gli istrumenti e si procedette alle osservazioni di fisica e d'astronomia, non che ai lavori geografici, ad un tempo.

Rawak, Boni, Waigiu e Monuaroa, che Freycinet chiama isole dei Papus, sono situate quasi esattamente sotto l'equatore. Waigiu, la più grande, non ha meno di settantadue miglia di diametro. Le terre basse che ne formano il litorale sono coperte di paludi; la riva scoscesa è pure coperta di madrepore e bucata di grotte scavate dalle acque.

La vegetazione che riveste tutti questi isolotti è veramente sorprendente. Vi sono alberi magnifici fra cui il barringtonia, il cui tronco voluminoso è sempre inclinato verso il mare, fino a bagnarvi l'estremità de' suoi rami; scœvola lobelia dei fichi, ed alberi dal fusto dritto e svelto, che si elevano fino a 40 piedi; il rima, il takamahaka, col suo tronco di 20 piedi di circonferenza; il cynometro, della famiglia dei leguminosi, guarnito da cima a fondo di fiori rosati e di frutti dorati; inoltre le palme, i banani ed il moscado che amano i luoghi bassi ed umidi.

Se la flora prese colà uno sviluppo eccezionale, non può dirsi altrettanto della fauna. A Rawak non s'incontra altro quadrupede che il falangiro ed il cane da pastore, che vive allo stato selvaggio. Waigiu possederebbe anche il babi-russa e una piccola specie di cignale. Quanto, ai pennuti non sono così numerosi come si potrebbe supporre, giacché le piante dei grani che servono loro di nutrimento non possono moltiplicarsi all'ombra fitta delle foreste. Vi sono i calaos, le cui ali fornite di grandi penne separate alle estremità, quando volano fanno

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un gran rumore; i pappagalli, la cui famiglia è assai numerosa; i martin-pescatorí, le tortorelle, i cassicani, gli sparvieri, e sebbene ì viaggiatori non ne abbiano visti, vi sono fors'anche degli uccelli del paradiso.

Quanto agli esseri umani, i Papuasi sono brutti, orridi, spaventevoli.

«La fronte schiacciata, dice Odet-Pellion, il cranio poco prominente, l'angolo facciale di 75°, la bocca grande, gli occhi piccoli e infossati, i pomelli sporgenti, il naso grosso, schiacciato all'estremità, che ribatte sul labbro superiore, la barba rara, particolarità già notata in altri abitanti di queste regioni, le spalle di media larghezza, il ventre grossissimo, e le membra inferiori gracili, tali sono i caratteri distintivi di questo popolo. La loro capigliatura è di natura e di forma variabilissima, più comunemente è una voluminosa criniera composta di uno strato di capelli lanuginosi o lisci che s'arricciano naturalmente e che non hanno meno di otto pollici di spessore; pettinata con cura, increspata, inalzata in tutti i sensi, descrive, mediante un grasso che la sostiene, una circonferenza quasi sferica intorno al capo. Spesso vi aggiungono, piuttosto come ornamento che per darle consistenza, un lunghissimo pettine di legno di 5 o 7 denti.»

Questi disgraziati indigeni sono in preda a un terribile flagello; la lebbra infierisce fra loro con una tale intensità, che si può dire che il decimo della popolazione ne è infetto. Bisogna attribuire questa orribile malattia all'insalubrità del clima, agli effluvi deleteri degli acquitrini nei quali penetra il mare a marea alta, all'umidità causata dai fitti boschi, alla vicinanza e alla cattiva manutenzione delle tombe, fors'anche alla consumazione prodigiosa di conchiglie, di cui questi indigeni si nutrono avidamente.

Tutte le abitazioni sono costruite sopra palafitte, sia in terra, sia in mare, presso la riva, Queste case, che si trovano per

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la massima parte in luoghi impraticabili o difficilmente avvicinabili, si compongono di piuoli conficcati nel suolo, ai quali sono fissi, con corde di corteccia, delle traverse sulle quali appoggia un'impalcatura fatta di foglie di palma tagliate e serrate le une contro le altre. Queste foglie, artisticamente embricate, formano il tetto dell'abitazione che non ha che una sola porta. Se queste case sono costrutte sull'acqua, comunicano però con la terra con una specie di ponte di cavalletti, la cui tavola mobile può essere tolta rapidamente. Una specie di balcone, munito d'una ringhiera, circonda la casa da ogni lato.

I viaggiatori non poterono procurarsi alcuna informazione sulla sociabilità di questi indigeni, se vivano riuniti in grandi popolazioni sotto l'autorità d'uno o più capi; se ogni comunità non obbedisca che al suo proprio capo, se la popolazione sia numerosa o no; sono dati questi che non possono essere raccolti. Gli indigeni si danno il nome di Alfurus. Sembrava parlassero parecchi idiomi particolari che differiscono singolarmente dal papù e dal malese.

Gli indigeni di questo gruppo sembrano molto industriosi. Fanno degli ingegnosissimi istrumenti da pesca; sanno lavorar benissimo il legno, preparare il midollo del sagou, tornire delle stoviglie e far dei forni per cuocere il sagou; tessono delle stuoie, dei tappeti, dei canestro; scolpiscono delle statue e degli idoli. I signori Quoy e Gaimard hanno osservato sulla costa di Waigiu, nel porto Boni, una statuadi argilla bianca riposta, sotto una tettoia, vicino a una tomba. Essa rappresentava un uomo ritto, di grandezza naturale, con le mani levate al cielo. La testa era di legno e aveva le gote e gli occhi incrostati di conchiglie bianche.

Il 6 gennaio 1819, l'Uranie, dopo aver salpato da Rawak, scorse ben presto le isole Ayon, basse e circondate da scogliere, che erano pochissimo conosciute e la cui geografia

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lasciava moltissimo a desiderare. I lavori di idrografia furono contrariati dalle febbri contratte a Rawak e che colpirono più di quaranta persone.

Il 12 febbraio scopersero le isole degli Anacoreti, e all'indomani quelle dall'Ammiragliato, senza che l'Uranie cercasse di rasentarle.

La corvetta fu subito in vista di San Bartolomeo, che i suoi abitanti chiamano Pulusuk, e che appartiene all'arcipelago delle Caroline. Un commercio attivo, ma sopratutto rumorosissimo, non tardò a stabilirsi con questi indigeni, che fu impossibile di decidere a salire a bordo. Gli scambi si fecero con una buona fede commovente, e non si verificò il minimo furto.

Puluhat, Alet, Tamatam, Allep, Fanadik, e molte altre isole di questo arcipelago, passarono a volta a volta davanti gli occhi meravigliati dei Francesi.

Infine il 17 marzo 1819, cioè 18 mesi dopo la sua partenza dalla Francia, Freyeinet scorse le isole Marianne e fece gettar l'ancora nella rada d'Umata, sulla costa di Guaham.

Al momento in cui i Francesi si disponevano a sbarcare, ricevettero la visita del governatore don Medinilla y Pineda, accompagnato dal maggiore don Luigi di Torres, seconda autorità della colonia. Questi ufficiali s'informarono dei bisogni degli esploratori con la più grande sollecitudine e promisero di soddisfare a tutte le loro domande nel più breve tempo.

Senza tardare, Freyeinet s'occupò di cercare un luogo adatto a stabilirvi un ospedale provvisorio, e, avendolo trovato, l'indomani vi fece mettere i suoi ammalati, in numero di venti.

Tutto lo stato maggiore era stato invitato a pranzo dal governatore. Si andò da lui all'ora convenuta. Là si trovò una tavola di pasticcerie leggiere e di frutti, in mezzo ai quali fumavano due vasi di punch. I convitati fecero subito in disparte le loro riflessioni su questa moda singolare. Era quello il pranzo? Era forse un giorno di magro? Ma siccome non v'era

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nessuno per rispondere a queste domande che sarebbero state indiscrete, essi le tennero per sé, facendo tuttavia onore alla mensa.

Nuovo soggetto di stupore: la tavola fu sbarazzata ed empita di carni preparate in diversi modi, in una parola, di un vero e sontuoso banchetto. La colazione, che si era fatta prima, che porta nel paese il nome di refresco, non era destinata ad altro che ad eccitare l'appetito ai convitati.

In quest'epoca il lusso della tavola sembrava fiorire a Guaham. Due giorni dopo gli ufficiali assistevano ad uno nuovo simposio di cinquanta convitati, nel quale non comparvero meno di quarantaquattro piatti di carne ad ogni servizio, e non ve ne furono meno di tre.

«Il medesimo osservatore, narra Freycinet, dice che questo pranzo costò la vita a due buoi e a tre grossi maiali, senza parlare dei piccoli abitanti delle foreste, del pollaio e del mare. Dopo le nozze di Gamache non si era visto, io credo, una tale carneficina. Il nostro ospite credette senza dubbio che persone le quali avevano sofferto a lungo le privazioni d'un viaggio marittimo dovessero essere trattate con profusione. Le frutta non offrirono né minor abbondanza, né minor varietà, e furono subito seguite dal thè, dal caffè, dalla crema, dai liquori d'ogni sorta; siccome il refresco non si mancò di servirlo un'ora prima, secondo l'uso, così si converrà facilmente che là il più intrepido gastronomo avrebbe dovuto solamente lamentare l'insufficiente capacità del suo stomaco.»

Ma questo pasto e queste feste non portarono alcun pregiudizio all'oggetto della missione. In pari tempo si facevano delle escursioni che avevano per iscopo ricerche di storia naturale, le osservazioni dell'ago calamitato, la geografia del litorale di Guaham, affidata a Duperrey.

Frattanto la corvetta era venuta ad ancorarsi nel porto San Luigi, e lo stato maggiore, come pure gli ammalati, si erano

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stabiliti ad Agagna, capitale dell'isola e sede del governatore. Là si diedero, in onore degli stranieri, dei combattimenti di galli, giuochi molto in voga in tutti i possedimenti spagnuoli dell'Oceania, e delle danze, nelle quali tutte le figure, si dice, alludono ad avvenimenti della storia del Messico. I ballerini, scolari del collegio d'Agagna, erano vestiti di ricchi costumi di seta, appena importati dalla Nuova Spagna dai gesuiti. Poi vennero dei passi al bastone, eseguiti dai Carolini, ed altri divertimenti che si succedevano quasi senza interruzione. Ma. ciò che ebbe il maggior prezzo agli occhi di Freycinet, furono te numerosissime informazioni relative agli usi ed ai costumi degli antichi abitanti, ch'egli raccolse dal maggiore don Luigi Torres, che, nato nel paese, aveva fatto di queste cose il soggetto dei suoi studi costanti.

Noi utilizzeremo e riassumeremo fra poco queste interessanti informazioni, ma bisogna prima parlare di una escursione alte isole Rotar e Tiniam; quest'ultima ci è già nota per le narrazioni dei viaggiatori.

Il 22 aprile una piccola squadra composta di otto vros, trasportò i signori Bérard, Gaudichaud e Giacomo Arago a Rota, dove il loro arrivo cagionò una sorpresa ed uno spavento facili a spiegarsi. Correva voce che la corvetta fosse montata da insorti dell'America.

Da Rota, i pros guadagnarono Tinian, le cui aride pianure ricordarono ai viaggiatori le desolate rive della Terra d'Endracht e che dovevano essere alquanto mutate dal tempo in cui lord Anson vi si trovava come in un paradiso terrestre.

Scoperto da Magellano il 6 marzo 1521, l'arcipelago delle Marianne ricevette dapprima i nomi di Islas de las velas latinas (delle vele latine) poi de los Ladrones (dei ladroni). Stando a Pigafetta, l'illustre ammiraglio non avrebbe veduto che Tinian, Saypan e Agoignan. Visitate cinque anni dopo dallo spagnuolo Loyosa, che, al contrario di Magellano, vi trovò assai buona

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accoglienza, queste isole furono dichiarate possessioni spagnuole da Miguel Lopez di Legaspi nel 1565. Esse non furono tuttavia colonizzate ed evangelizzate che nel 1669 dal padre Sanvitores.

Si comprende che noi non seguiamo Freycinet nelle narrazioni degli avvenimenti che segnano la storia di questo arcipelago, sebbene i manoscritti e le opere d'ogni sorta ch'egli ebbe in mano gli abbiano permesso di rinnovare interamente questo soggetto e chiarirlo coi nomi della vera scienza.

L'ammirazione che aveva lasciato in tutti la incredibile fertilità delle isole Papus e delle Moluoche dovette senza dubbio scemare la impressione prodotta dalla ricchezza di alcune delle isole Marianne. Le foreste di Guaham, sebbene alquanto fornite, non offrono quell'aspetto gigantesco delle foreste tropicali; esse coprono la maggior parte dell'isola, dove si trovano però immense pasture che non producono né alberi del pane, né cocchi.

Nell'interno delle foreste furon fatte dai conquistatori ampie praterie perchè le bestie cornute, l'introduzione delle quali è loro dovuta, potessero trovare nutrimento al riparo del sole.

Agoignan, isola dai fianchi rocciosi, da lungi sembra arida e sterile, mentre in realtà è coperta da fitti boschi che salgono fino alle più elevate cime.

Quanto a Rota, essa è un vero macchione, quasi impenetrabile, di boscaglie, ove dominano i rimas, i tamarindi, i fichi, i cocchi.

Finalmente Tinian offre un aspetto alquanto gradevole. Sebbene i Francesi non abbiano in nessun luogo incontrati i siti dipinti con tanta ricchezza di tinte dai loro predecessori, l'aspetto del suolo, la gran quantità d'alberi morti fecero loro credere che le (antiche narrazioni non fossero del tutto esagerate, tanto più che tutta la parte sud-est di quell'isola è

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resa inaccessibile da fitte foreste. Quanto alla popolazione, essa al tempo del viaggio di

Freycinet era eccessivamente mita, e la razza aborigena non era già più la metà.

I Mariannesi della classe nobile, un tempo erano tutti più alti, più grossi e più forti degli Europei; ma la razza degenera, e

non si trova più, fuorché a Rota, il tipo primitivo in tutta la sua

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purezza. Nuotatori infaticabili, tuffatori provetti, camminatori

intrepidi, tutti dovevano dar prova della loro bravura in questi diversi esercizi al tempo del matrimonio. I Mariannesi hanno in parte conservate queste qualità, sebbene la pigrizia o piuttosto la noncuranza sia il fondo del loro carattere.

Le unioni che si formano per tempo — fra i quindici e i venti anni pei giovani e fra i dodici e i quindici per le ragazze — sono generalmente feconde, e si citano esempi di famiglie di ventidue figli nati da una stessa madre.

Se a Guaham esistono parecchie malattie importate dagli europei, come le malattie di petto, il vaiuolo, ecc., ve ne sono molte altre che sembrano indigene, o che per lo meno hanno preso uno sviluppo affatto particolare e interamente anormale. Fra queste ultime si citano la elefantiasi e la lebbra, di cui s'incontrano a Guaham tre varietà tanto differenti pei loro sintomi che pei loro effetti.

Prima della conquista, i Mariannesi vivevano di pesce, di frutti d'albero del pane o rimer, di riso, di sagù e d'altre piante fecciose.

Se la loro cucina era semplice, il loro vestiario lo era ancora più; quegli indigeni andavano assolutamente nudi. Ancora oggigiorno i fanciulli vanno nudi fino alla età di dieci anni.

Un viaggiatore dello scorcio del secolo XVIII, il capitano di vascello Pagès, narra su questo proposito che, a caso, un giorno si avvicinò ad una casa «dinanzi alla quale stava seduta al sole un'indiana di circa dieci o undici anni. Era nuda e accoccolata, con la sua camicia piegata vicino a lei. Appena mi vide — aggiunge il viaggiatore — essa si alzò di botto e se la indossò. Sebbene non fosse vestita decentemente, essa si credeva acconciata per bene, giacché aveva le spalle coperte; epperò non era più imbarazzata dinanzi a me.»

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La popolazione doveva essere un tempo ragguardevole come lo attestano le mine che s'incontrano qua e là, ruine d'abitazioni sorrette da pilastri in muratura. Il primo viaggiatore che ne faccia cenno è lord Anson. Egli ne diede una veduta un po' fantasiosa, ma di cui gli esploratori dell'Uranie poterono riconoscere la verità sostanziale, come lo attesta il seguente passo:

«La descrizione che si trova nel viaggio d'Anson è esatta: ma le ruine e i rami d'alberi che oggi sono in certo qual modo incorporati con la costruzione, danno a questi monumenti un aspetto affatto contrario a quello che avevano allora; gli angoli dei pilastri si sono pure smussati e le semisfere che li coronano non hanno più la medesima rotondità.»

Quanto alle abitazioni moderne, una sesta parte soltanto è di vivo, e si notano ad Agagna dei monumenti che sono relativamente assai interessanti per la loro grandezza se non per l'eleganza, la maestosità o la finezza delle loro proporzioni; sono il collegio San Giovanni di Laterano, la chiesa, il presbiterio, il palazzo del governatore, le caserme. Prima della loro sudditanza agli Spagnuoli, i Mariannesi erano divisi in tre classi: nobili, seminobili e plebei. Questi ultimi, i parìa del paese, avevano, dice Freycinet, senza citare l'autorità sulla quale egli s'appoggia, una statura meno alta di quella degli altri abitanti. Questo sol fatto basterebbe forse a indicare una differenza di razza, oppure non si dovrebbe scorgere in questa esiguità di statura altro che il risultato dello stato d'abbassamento al quale era soggetta tutta quella casta?

Questi plebei non potevano mai elevarsi alla casta superiore e la navigazione era loro interdetta. Si trovavano anche in ciascuna di queste caste, ben definite, le maghe, le sacerdotesse o guaritrici che non si occupavano che della cura d'una sola malattia. Il che non è una ragione assoluta per meglio conoscerla.

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La professione di costruttore di piroghe apparteneva ai nobili: essi permettevano solamente ai seminobili di assecondarli in questo lavoro, che era per essi d'una grande importanza e una delle loro più care prerogative. Quanto al linguaggio, sebbene somigli al malese e al tagal che si parla alle Filippine, possiede però il suo carattere proprio. La relazione di Freycinet contiene altresì gran numero di note sugli usi singolarissimi degli antichi Mariannesi: ma sarebbe impegnarsi troppo nel riprodurre quei passi, per quanto siano curiosi pel filosofo e per lo storico.

Già da due mesi l'Uranie era ancorata. Era tempo di ripigliare il corso dei lavori e delle esplorazioni. Freycinet e il ,suo stato maggiore passarono dunque gli ultimi due giorni a far visite di ringraziamento per la cordiale accoglienza che era stata loro prodigata.

Non solo il governatore non volle saperne di ringraziamenti per le attenzioni di cui non aveva cessato di colmare i Francesi da due mesi, ma rifiutò anche di ricevere; il pagamento di tutte le forniture che erano state fatte pel vettovagliamento della corvetta. Vi ha di più: con Una lettera commovente si scusò della scarsità delle derrate, causata da una siccità che desolava Guaham da sei mesi, e che gli impediva di far le cose come avrebbe voluto.

Gli addii si fecero dinanzi a Acazua. «Non è senza una profonda tenerezza, dice Freycinet, che

ci accommiatammo dall'uomo amabile che ci aveva colmati di tanti segni di benevolenza,. Io ero troppo commosso per esprimergli tutti i sentimenti che empivano l'anima mia; ma le lagrime che apparivano agli occhi miei hanno dovuto essere per lui una prova più efficace che non le parole della mia commozione e del mio dispiacere.»

Dal 5 al 16 giugno l'Uranie procedette all'esplorazione della parte nord delle Marianne e diede campo alle diverse

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osservazioni che sono state riassunte più sopra. Poi desiderando accelerare la sua navigazione verso le

Sandwich, il comandante approfittò di una brezza che gli permise di elevarsi in latitudine e di cercare i venti favorevoli. Man mano che gli esploratori si avanzavano in questa parte dell'oceano Pacifico, incontravano fredde e fitte nebbie che penetrarono l'intiera nave di un'umidità tanto sgradevole quanto nociva alla salute. Tuttavia, eccetto dei reumi, l'equipaggio non sofferse alcun inconveniente. Al contrario, fu anzi una specie di riscossa per quelle costituzioni esposte già da lungo tempo ai calori assorbenti del tropico.

Il 6 agosto fu girata la punta meridionale di Hawai, onde guadagnare la costa occidentale, dove Freycinet sperava trovare un ancoraggio comodo e sicuro. Questa e la seguente giornata furono consacrate, essendovi perfetta calma, ad iniziare delle relazioni con gli indigeni, le cui donne, venute in gran numero, speravano di prendere il bastimento all'abbordaggio e abbandonarsi al loro consueto commercio; ma il comandante interdi loro l'accesso a bordo.

Il re Karnehameha era morto, e il suo giovine figlio Riorio gli era succeduto; questa fu la notizia che un arii s'affrettò a recare al capitano.

Quando spirò la brezza, l'Uranie s'avanzò verso la baia di Kara-kalua, e Freycinet inviava un ufficiale per scandagliare l'ancoraggio, quando una piroga si staccò dalla riva e condusse a bordo il governatore dell'isola. Questo principe Kuakini, soprannominato John Adams, promise al comandante che troverebbe dei battelli atti ad assicurare il vettovagliamento della sua nave.

Questo giovane, che poteva avere ventinove anni e la cui statura era gigantesca e ben proporzionata, sorprese il comandante per la vastità della sua istruzione. Avendo inteso dire che l'Uranie faceva un viaggio di scoperte:

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— Avete girato il capo Horn, oppure siete venuto per il sud, dal capo di Buona Speranza? — domandò egli.

Poi s'informò delle notizie di Napoleone e volle sapere se fosse vero che l'isola di Sant'Elena fosse stata ingoiata con tutta la sua popolazione. Burla di qualche baleniere faceto, la quale non aveva ottenuto credenza che per metà! Kuakini apprese pure a Freycinet che se la pace non era stata turbata alla morte di Kamehameha, tuttavia parecchi capi avendo sollevato delle pretese d'indipendenza, l'unità della monarchia era minacciata. Da ciò un certo turbamento nelle relazioni politiche ed una indecisione nel Governo che si sperava di veder presto cessare, sopratutto se il comandante consentiva a fare qualche dichiarazione d'amicizia in favore del giovane sovrano.

Freycinet scese a terra col principe per rendergli la visita, e penetrò nella sua residenza, dove la principessa, un donnone di straordinaria obesità, era stesa sovra un fusto di letto europeo coperto di stuoie. Poi entrambi andarono a vedere le sorelle di Kuakini, vedove di Kamehameha, che non trovarono, e si diressero poscia verso i cantieri ed i principali laboratori del defunto re.

Quattro capanne erano destinate alla costruzione di grandi piroghe da guerra; altre riparavano delle imbarcazioni europee; più lungi si vedeva deh legname da costruzioni, delle verghe di rame, una quantità di reti da pesca, poi una fucina, un laboratorio da bottaio, e finalmente, in alcune case del primo ministro Kraimoku, degli strumenti di navigazione, bussole, sestanti, termometri, orologi, e perfino un cronometro.

Si rifiutò agli stranieri l'ingresso in altri due magazzini in cui erano rinchiusi la polvere, le munizioni da guerra, i liquori forti, il ferro e le stoffe.

Ma questi luoghi erano allora abbandonati dal nuovo sovrano che teneva la sua corte nella baia di Koaihai.

Freycinet, invitato dal re, salpò per questo luogo e fu

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guidato da un pilota che si mostrò attento e particolarmente provetto nel prevedere i mutamenti di tempo.

«Il monarca, dice il comandante, m'aspettava sulla spiaggia, vestito d'un gran costume di capitano di vascello inglese e circondato da tutta la sua corte. Non ostante l'aridità spaventevole di questa parte dell'isola, lo spettacolo che ci offerse questa bizzarra riunione d'uomini e di donne ci parve maestoso e veramente pittoresco. Il re, collocato sul davanti, aveva i suoi principali ufficiali a qualche distanza dietro di lui. Gli uni portavano magnifici mantelli di penne rosse o gialle, oppure di panno scarlatto, altri semplici pellegrine dello stesso genere, ma in questi i due colori salienti erano talvolta sfumati di nero; alcuni portavano degli elmetti.

«Un gran numero di soldati qua e là dispersi produceva, per la bizzarrìa ed irregolarità del loro costume, una grande varietà su questo strano quadro.»

È questo medesimo sovrano che doveva più tardi venire, con la sua giovane e graziosa moglie, in Inghilterra, dove morirono e le cui spoglie furono trasportate ad Hawai dal capitano Byron sulla fregata «La Bionda».

Freycinet gli rinnovò le sue domande di vettovagliamento e il re gli promise che non sarebbero passati due giorni senza che i suoi desideri fossero soddisfatti. Ma se la buona volontà di questo giovane sovrano non poteva essere sospettata, il comandante doveva presto giudicare da se stesso che la maggior parte dei principali capi non era risoluta a mostrargli un'estrema obbedienza.

Qualche tempo dopo i principali ufficiali di stato maggiore andarono a far visita alle vedove di Kamebameha. Ecco, stando al signor Quoy, il quadro curioso di questo rallegrante ricevimento:

«Era uno spettacolo veramente strano il vedere in un appartamento rinchiuso, otto o dieci masse di carne di forma

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umana, seminude, la minore delle quali pesava per lo meno trecento libbre, coricate per terra supine. Non senza stento giungemmo a trovare un posto dove ci stendemmo noi pure per conformarci all'usanza. Alcuni servitori avevano continuamente in mano dei cacciamosche di penne, oppure una pipa accesa che facevano circolare di bocca in bocca e dalla quale ciascuno pigliava qualche sbuffo. É facile imaginare che la nostra conversazione non fu troppo sostenuta, ma gli eccellenti pasticcini che ci furono serviti valsero a dissimularne la lunghezza…»

Freycinet andò poi a visitare il famoso John Yung, che era stato per lungo tempo l'amico fedele e il saggio consigliere del re Kamehameha. Sebbene allora fosse ammalato e vecchio, diede a Freycinet preziose informazioni su questo arcipelago, dove risiedeva da trenta anni, e nella storia del quale era stato grandemente coinvolto.

Il ministro Kraimoku, in una sua visita che aveva fatto all'Uranie aveva scorto l'elemosiniere, l'abate di Quelen, il cui costume l'aveva assai impacciato. Appena seppe che era un prete, manifestò al comandante il desiderio d'essere battezzato. Sua madre, diss'egli, aveva ricevuto questo sacramento al letto di morte, e gli aveva fatto promettere d'assoggettarsi anch'esso a questa cerimonia appena se ne presentasse l'occasione.

Freycinet vi acconsentì, e volle dare a quest'atto una certa solennità, tanto più che Riorio chiedeva d'assistervi con tutta la sua corte.

Tutta questa gente si tenne con molto rispetto e deferenza durante la cerimonia; ma appena fu terminata, la corte si precipitò sulla colazione che il comandante aveva fatto preparare.

Era una meraviglia veder vuotarsi le bottiglie di vino, di rhum e d'acquavite; veder sparire le provvigioni d'ogni sorta che coprivano la tavola. Per fortuna la notte s'appressava; senza

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di ciò Riorio non sarebbe stato in grado di riguadagnare la terra, come la maggior parte de' suoi cortigiani e de' suoi ufficiali. Bisognò tuttavia dargli ancora due bottiglie d'acquavite, per bere, diceva egli, alla salute del comandante e al suo felice viaggio, e tutti gli astanti si credettero in dovere di chiedere altrettanto.

«Non è troppo arrischiato il dire, narra Freycinet, che quella reale compagnia bevette o portò via nello spazio di due ore ciò che sarebbe bastato all'approvvigionamento di una tavola di dieci persone durante tre mesi.»

Furono scambiati diversi regali fra la real coppia e il comandante.

Fra gli oggetti che erano stati offerti a quest'ultimo dalla, giovane regina era vi un mantello di penne, vestimento divenuto rarissimo alle Sandwich.

Freycinet stava per rimettere alla vela, quando apprese, da un capitano americano, la presenza all'isola Mowi di un bastimento mercantile che aveva una gran quantità di biscotto e di riso, e che acconsentirebbe senza dubbio a cedergliene. Egli risolvette dapprima di ancorare davanti a Raheina. D'altronde era là che Kraimoku doveva rilasciare il numero di maiali necessari a vettovagliare l'equipaggio. Ma il ministro diede prova di una così insigne malafede, esigendo prezzi altissimi per maiali piuttosto magri, che si dovette passare alle minaccie per concludere. Kraimoku era, in quella circostanza, attorniato da un inglese che non era altro che un deportato scappato da Port Jackson, e assai verosimilmente, se l'indigeno fosse stato lasciato libero di sé medesimo e alle impulsioni del suo cuore, si sarebbe comportato in questa occasione con la nobiltà e la buona fede che gli erano abituali.

A Waihu Freycinet ancorò a Honolulu. La cortese accoglienza che vi ricevette da parecchi europei gli fece lamentare di non esservi venuto direttamente. Si sarebbe

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immediatamente procurato tutte le risorse che aveva avuto tanta difficoltà a riunire nelle altre due isole.

Il governatore di quest'isola, Boki, si fece battezzare dall'elemosiniere dell'Uranie; non parve d'altronde ch'egli desiderasse questo sacramento se non perchè suo fratello l'aveva ricevuto. Era ben lungi dall'avere quell'aria intelligente degli indigeni Sandwich fino allora praticati. Alcune osservazioni sugli indigeni sono abbastanza interessanti, e meritano di essere sommariamente riportate.

Tutti i navigatori sono d'accordo nel riconoscere che la classe dei capi forma una razza superiore agli altri abitanti per statura ed intelligenza. Non è raro vederne di quelli che raggiungono 6 piedi di altezza. L'obesità è in essi frequente, ma sopratutto nelle donne che, giovanissime, raggiungono sovente una grossezza veramente mostruosa. Il tipo è notevole e le donne sono spesso abbastanza belle. La durata della vita non è troppo lunga, ed è raro il trovare un vecchio di 70 anni. Bisogna attribuire lai rapida decrepitezza e la fine prematura degli abitanti alle loro abitudini inveterate di libertinaggio.

Lasciando l'arcipelago delle Sandwich, Freycinet aveva da studiare in questa parte del grande Oceano le principali inflessioni dell'equatore magnetico con piccole latitudini. Epperò fece forza di vele nell'est.

Il 7 ottobre, l'Uranie entrava nell'emisfero sud, e il 19 dello stesso mese si trovava in vista delle isole del Danger. All'est dell'arcipelago dei Navigatori si scoperse un isolotto, non segnato sulle carte, che fu chiamato isola Rosa, dal nome della signora Freycinet. Questa fu, d'altronde, la sola scoperta del viaggio.

La posizione delle isole Pylstaart e Howe fu rettificata, ed infine, il 13 novembre, si scorsero i fuochi dell'ingresso di Porto Jackson o Sidney.

Freycinet s'aspettava certo di trovare ingrandita questa

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città dopo sedici anni che non l'aveva veduta; ma fu profondamente meravigliato alla vista di una città europea, prosperante in mezzo ad una natura quasi selvaggia.

Parecchie escursioni nei dintorni fecero emergere agli occhi dei Francesi tutti i progressi compiuti dalla colonia. Belle strade accuratamente mantenute, fiancheggiate da quegli eucalyptus che Peron qualifica giganti delle foreste australi; ponti ben costrutti, lastre di pietra indicanti le distanze, tutto annunciava un'edilizia ben ordinata, delle cascine, numerose mandre di buoi, campi accuratamente tenuti, attestavano l'industria e la perseveranza dei nuovi coloni.

Il governatore Macquarie e le principali autorità del paese gareggiarono di cortesie verso gli ufficiali che dovettero rifiutare più di un invito per non trascurare i loro lavori. Però andarono per mare a Paramatta, casa di campagna del governatore, coi concerti della musica militare. Parecchi ufficiali si recarono pure a visitare la piccola città di Liverpool, edificata in luogo ameno, sulle sponde del fiume George, così pure le borgate di Windsor e di Richmond che si elevano presso il fiume Hawkesbury. Nel frattempo, parte dello stato maggiore assisteva ad una caccia al kanguro, e valicando le montagne Blenes s'avanzava al di là dello stabilmente di Bathurst.

Mercè le eccellenti relazioni che si era fatte nei suoi due soggiorni, Freycinet fu in grado di raccogliere gran numero di dati interessanti sulla colonia australe. Epperò il capitolo ch'egli consacra alla Nuova Galles del Sud, notando i meravigliosi e rapidi progressi della colonizzazione, eccitò un vivo interesse in Francia, dove non si conosceva se non imperfettamente lo sviluppo e la prosperità crescente dell'Australia. Questi sono documenti nuovi, fatti apposta per interessare, e che hanno il vantaggio di offrire lo stato preciso della colonia nel 1825.

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La catena di montagne, nota col nome di Alpi Australi, separa, a poca distanza dalla costa, la Nuova Galles del Sud dall'interno del continente australe. Durante 25 anni fu un

ostacolo alle comunicazioni con l'interno, che mercè il governatore Macquarie disparve, Una strada, formata di rampe moltiplicate, era stata tagliata nella roccia e permetteva di

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colonizzare immense e fertili pianure irrigate da fiumi importanti.

Le più alte vette di questa catena, coperte di neve in pieno estate, non hanno meno di tremila metri d'altezza.

Intanto che se ne misuravano i picchi principali, i monti Exmuth, Cunningham, ecc., si scopriva che l'Australia, anziché avere un solo grande corso d'acqua, il fiume dei Cigni, ne possedeva un certo numero, fra i quali conviene citare in primo luogo il fiume Hanhesbury, formato dalle acque riunite del Nepeau e del Grose, il Brisbane e il Murray non essendo ancora conosciuti.

A quel tempo si era già cominciato a sfruttare miniere di carbon fossile, strati d'ardesia, di ferro carbonato compatto, di arenaria, di pietre calcaree, di porfido, di diaspro, ma non si era ancora constatata la presenza dell'oro, questo metallo che doveva trasformare così rapidamente la giovane colonia.

Quanto al suolo, sulle rive del mare è sterile, e non alimenta che pochi arbusti rattratti. Ma se si inoltra nell'interno si scoprono campi rivestiti di ricco ornamento, immense pasture appena dominate da alcuni grandi vegetali, o delle foreste i cui alberi giganteschi che si elevano in un cespuglio inestricabile di sarmenti formano impenetrabili boscaglie.

Una delle cose che sorprese più vivamente gli esploratori è la identità della razza sopra questo immenso continente. Infatti se si osservano gli aborigeni alla baia dei Cani Marini, alla Terra d'Endracht, al fiume dei Cigni od a Porto Jackson, il colore della pelle, i lineamenti del volto, il fisico, tutto ciò non lascia alcun dubbio sulla loro comunità d'origine.

Il pesce ed i conchigliacei formano la base dell'alimento delle popolazioni marittime o fluviatili. Quelle dell'interno vivono del prodotto della caccia e si nutrono di opossum, di kanguro, di lucertole, serpenti, vermi, formiche che mescolano con le uova in una pasta di radici di felce.

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Dappertutto è abitudine degli indigeni di andare assolutamente nudi: non isdegnano però di coprirsi con abiti europei che possono procurarsi. Nel 1829, si vedeva a Porto Jackson una vecchia negra avvolta in frammenti di una coperta di lana e con un cappellino di seta verde. Non si poteva imaginare una, caricatura più grottesca.

Vi sono però alcuni di questi indigeni che si fanno dei mantelli di pelle d'opossum o di kanguro che cuciono con nervi di casoar, ma questo genere di vestimento è raro.

I loro capelli lisci sono pettinati a trecce dopo essere stati imbrattati di grasso, Mettendovi in mezzo un ciuffo d'erba, vi si eleva un singolare e bizzarro edificio, da cui emergono alcune penne di kakatoes, a meno che non vi si applicano, con della resina, dei denti umani, pezzi di legno, code di cani od ossa di pesci.

Sebbene il tatuaggio non sia onorato alla Nuova Olanda, si trovano tuttavia frequentemente degli indigeni che, mediante conchiglie taglienti, si sono fatte incisioni abbastanza simmetriche. Un'usanza non meno generale è quella di dipingersi il corpo di raggi rossi e bianchi e di figure singolari che danno a quelle pelli nere un aspetto diabolico.

Questi selvaggi erano un tempo persuasi che dopo la loro morte venivano trasportati nelle nubi o sulla cima degli alberi altissimi, in forma di pargoletti, e che in questo paradiso aereo godevano di una grande abbondanza di nutrimento. Ma dopo l'arrivo degli Europei le loro credenze si sono modificate, ed ora credono che diventeranno bianchi ed andranno ad abitare lontani paesi. Epperò, a loro credere, tutti i bianchi sono antenati che, morti nei combattimenti, hanno pigliato questa nuova forma.

Il censimento del 1819 — uno dei più particolareggiati che siano stati fatti in quel periodo — dà una popolazione coloniale di 25.425 abitanti, non compresi, ben inteso, i militari. Siccome

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il numero delle donne era sensibilmente inferiore a quello degli uomini, ne erano derivati degli inconvenienti, ai quali la metropoli aveva cercato di rimediare inviandovi delle ragazze che avrebbero trovato prestissimo da maritarsi, formando in tal modo delle famiglie, il cui livello morale non tardò a sorpassare quello dei deportati.

Nella relazione di Freycinet è consacrato un lunghissimo capitolo a tutto ciò che concerne la economia politica. Le diverse specie di terra e le sementi che loro convengono, l'industria, l'allevamento del bestiame, l'economia rurale, le manifatture, il commercio, i mezzi di comunicazione, l'amministrazione, tutti questi rami sono trattati minuziosamente sopra documenti allora recenti e con una competenza che si è lungi dal!'aspettarsi da un uomo che non ne ha fatto l'oggetto delle sue abituali ricerche. Finalmente vi si trova uno studio assai approfondito sul regime a cui erano soggetti i condannati dal loro arrivo nella colonia, sui castighi che s'infliggevano loro, come pure sugli incoraggiamenti e le ricompense che si accordavano loro con una certa quale facilità, appena che la loro condotta diveniva regolare. In pari tempo vi si notano delle considerazioni tanto saggie quanto giudiziose sull'avvenire della colonia australe e sulla sua futura prosperità.

Il 25 dicembre 1819, dopo quella lunga e fruttuosa fermata, V Tirarne ripigliava il mare e si dirigeva in modo di passare al sud della Nuova Zelanda e dell'isola Campbell per guadagnare il capo Horn. Alcuni giorni dopo, si scoprì a bordo una dozzina di deportati fuggitivi; ma si era già troppo lungi dalla Nuova: Olanda per ricondurveli.

Furono raggiunte le coste della Terra del Fuoco, senza che alcun fatto saliente fosse notato in questa navigazione costantemente favorita dal vento d'ovest. Il 5 febbraio fu scorto il capo della Desolazione. Girato il capo Horn senza ostacolo,

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l'Uranie gettò l'ancora nella baia del Buon Successo, le cui sponde guarnite d'alberi d'alto fusto, irrigate da cascate, non offrivano quell'aridità e quella desolazione che segnano in generale quei tristi paraggi.

Del resto, la stagione non fu lunga, e la corvetta, ripigliando la sua rotta, non tardò ad imboccare lo stretto di Lemaire in mezzo ad una fitta nebbia. Là fu accolta da una grossa ondata, da un vento violentissimo e da una nebbia opaca che confondeva in una medesima tinta la terra, il mare e il cielo.

Si correva col vento in poppa; e già ci si rallegrava d'essere stati trascinati dall'uragano lungi dalle coste, quando risuonò questo grido: «Terra avanti e vicinissima!»

Una terribile angoscia strinse allora tutti i cuori. Il naufragio era inevitabile.

Soltanto Freycinet, dopo un istante d'esitazione, ridivenne padrone di sé stesso. La terra non poteva essere davanti; ordinò di continuare il cammino verso il nord, tenendo un po' all'est, e l'esperienza non tardò a provare l'esattezza de' suoi calcoli.

L'indomani, il tempo essendosi rasserenato, fu segnato il punto, e siccome si era troppo lungi dalla baia del Buon Successo, il comandante doveva scegliere di far sosta sulla costa d'America, oppure alle isole Maluine. Si decise per le ultime.

L'isola Conti, la baia Marville e il capo Duras furono a volta a volta rilevate attraverso la nebbia, mentre una brezza favorevole spingeva la nave verso la baia Francese, luogo fissato per la prossima fermata. Già tutti si felicitavano di aver compiuti tanti lavori pericolosi, d'aver fatto una sì dura campagna senza gravi incidenti. Pei marinai, come dice Byron:

The worst was over, and the rest seemed sure2.

2 Il peggio era passato; il resto sembrava sicuro.

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Ma una dura prova aspettava ancora i navigatori. Entrando nella baia Francese, ognuno era al proprio posto

per l'ancoraggio. I gabbieri vegliavano, si scandagliavano dall'alto i grandi porta-sarchie, quando a venti braccia, poi a diciotto, furono segnalati degli scogli. Si era a un mezzo miglio da terra.

Per prudenza, Freycinet lasciò portare di due quarti, ed è questa precauzione che gli fu funesta. La corvetta urtò di botto con violenza contro una roccia sottomarina. Lo scandaglio segnava in quell'istante quindici e dodici braccia da ciascun bordo. Lo scoglio contro cui la nave aveva urtato era dunque meno largo della corvetta medesima. Infatti era la punta acuta di una roccia.

I frammenti di legno che salirono a galla fecero subito temere che l'accidente fosse grave. Fu un balzo generale alle pompe. L'acqua, penetrava con violenza nella cala. Freycinet fece subito passare una vela sotto la chiglia, in modo che introducendosi nella parte avariata diminuisse l'apertura per la quale si precipitava l'acqua.

Non vi fece nulla; sebbene tutti, ufficiali e marinai, fossero alle pompe, non si pervenne che a non essere vinti dal mare. Bisognava mettere la nave alla costa.

Ma il prendere questa risoluzione, per quanto fosse penosa, non è tutto; bisognava eseguirla. Ora dappertutto la terra era cinta di rupi, e solo in fondo alla baia si poteva trovare una spiaggia sabbiosa, propizia all'arenamento. La brezza erasi fatta contraria, giungeva la notte, e la nave era piena d'acqua per metà. S'immagini le angosce del comandante! L'arenamento si fece, tuttavia; sulla costa dell'isola Pinguins.

«A questo punto, dice Freycinet, i nostri uomini erano talmente affaticati, che bisognò smettere ogni lavoro e dare all'equipaggio un riposo tanto più indispensabile in quanto che

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la nostra condizione ci costringeva a faticosissime operazioni. Ma potevo io stesso abbandonarmi al riposo? Agitato da mille e penosi pensieri, la mia esistenza mi pareva un sogno! Questo passaggio subitaneo da uno stato in cui tutto sembrava sorridermi a quello in cui mi trovavo in quel momento, mi opprimeva come un incubo spaventoso; le mie idee erano turbate, mi era difficile trovare la calma che mi abbisognava, e che doveva essere messa a una così penosa prova! Tutti i miei compagni di viaggio avevano fatto il loro dovere nello spaventoso accidente che per poco non ci rese vittime, e mi piace di rendere giustizia a loro tutti.»

Quando sorse il giorno a rischiarare il paesaggio, una cupa tristezza s'impadronì d'ognuno. Non un albero, non un filo d'erba su quelle spiagge desolate! Nulla, fuorché una silenziosa solitudine simile in tutto a quella della baia dei Cani Marini.

Ma non era il momento d'intenerirsi. D'altronde non se ne aveva il tempo. I giornali, le osservazioni e tutti quei preziosi documenti raccolti in mezzo a tante fatiche e pericoli bisognava lasciarli inghiottire dal mare?

Tutti furono salvi. Per disgrazia non fu altrettanto delle collezioni. Parecchie casse di campionari che erano in fondo alla cala furono totalmente perdute, altre avariate dall'acqua di mare. Le collezioni che ebbero a soffrire maggiormente del disastro furono quelle di storia naturale, e l'erborario che Gaudichaud s'era data tanta pena a riunire. I montoni «merinos» dovuti alla generosità del signor Mac-Arthur di Sydney e che si sperava di acclimatare in Francia furono sbarcati, come pure le altre bestie ancora viventi.

Furono erette delle tende, anzitutto pei pochi malati di bordo, poi per gli ufficiali e l'equipaggio. I viveri, le munizioni, estratte dal bastimento, furono accuratamente posti al riparo delle intemperie della stagione. Si riservarono i liquori forti pel tempo in cui si lascerebbe il luogo del naufragio, e durante i tre

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mesi che i Francesi dovettero rimanere in quel luogo, non s'ebbe a verificare un sol furto di rhum o d'acquavite, sebbene fossero tutti ridotti all'acqua pura.

Mentre si cercava, non senza stento, di riparare alle maggiori avarie dell'Uranie, alcuni marinai furono incaricati di provvedere alla sussistenza comune con la caccia e con la pesca. Leoni marini, oche, anitre, arzavole, beccaccine, trovavansi in gran numero sugli stagni; ma era difficile di procurarsene in una sola volta in quantità sufficiente a nutrire tutto l'equipaggio, e il consumo di polvere sarebbe stato assai forte. Fortunatamente si trovarono degli apteroditi abbastanza stupidi da lasciarsi ammazzare a bastonate, e in tal quantità che sarebbero bastati ad alimentare 120 uomini per quattro o cinque mesi. Si arrivò pure ad uccidere qualche cavallo di quelli ridiventati selvatici dopo la partenza della colonia fondata da Bouganville.

Il 28 febbraio si dovette riconoscere che con gli scarsi mezzi di cui si disponeva, era impossibile riparare alle avarie della corvetta, tanto più che gli urti ripetuti del bastimento sul suolo avevano notevolmente aggravato lo stato delle cose.

Che fare intanto? Dovevasi forse aspettare che un qualche bastimento venisse a sostare nella baia Francese? Era lasciar nell'ozio i marinai, e per conseguenza aprir le porte al disordine.

Non era meglio, con gli avanzi dell'Uranie, cercar di costruire un bastimento più piccolo?

Si possedeva per l'appunto una grande scialuppa. Una volta pontata e innalzata non avrebbe essa potuto guadagnare Monte video, e ricondurre un bastimento capace di salvare il materiale e il personale della spedizione?

Freycinet s'attenne a quest'ultimo partito. Una energia affatto nuova sembrava si fosse impadronita dei marinai, e i lavori furono condotti rapidamente. Fu allora che il

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comandante dovette compiacersi d'aver imbarcato a Tolone dei marinai appartenenti ai diversi rami di mestieri. Ferrai, velieri, cordai, segatori, tutti s'occuparono attivamente del compito che a ciascuno incombeva.

Quanto al viaggio da intraprendere, nessuno dubitava della riuscita. Trecentocinquanta leghe soltanto separano le Maluine da Montevideo, e i venti che dominano in quei paraggi a quel tempo dell'anno avrebbero permesso alla Speranza — così era chiamata la scialuppa trasformata — di fare questo tragitto in pochi giorni.

Bisognava però prevedere il caso in cui questa fragile imbarcazione non potesse raggiungere la Plata, epperò Freycinet era risoluto a mettere sul cantiere, immediatamente dopo la sua partenza, una goletta, di 100 tonnellate.

Sebbene si fosse molto assorti in questi lavori così svariati e molteplici, non si stette dal procedere alle ordinarie osservazioni d'astronomia, di fisica, di storia naturale e d'idrografia. Sembrava d'essere semplicemente in sosta.

Finalmente il bastimento fu condotto a fine e varato. Le istruzioni pel suo comandante, il capitano Puperrey, furono redatte, il suo equipaggio era stato scelto, s'imbarcarono le provvigioni, la partenza venne fissata al doman l'altro, quando, il 19 marzo 1820, s'udirono delle grida: «Una nave! una nave!» Uno sloop sotto vela era all'entrata della baia.

Furono tirati parecchi colpi di cannone per attrarre la sua attenzione, e il padrone s'affrettò a venire a terra.

In poche parole Freyeinet espose a quest'ultimo per quali circostanze egli si trovava su questa costa.

Il padrone rispose ch'egli era agli ordini d'un bastimento americano, il General Knox, occupato alla pesca delle foche all'isola West, la punta più occidentale delle Maluine.

Fu subito incaricato un ufficiale di andare a intendersi col capitano di questa nave sulla natura dei soccorsi che potrebbe

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dare ai Francesi. Ma costui domandò 135.750 franchi per condurre i naufraghi a Rio. Era abusare stranamente delle circostanze. L'ufficiale francese non volle quindi concludere nulla senza l'assenso del suo comandante, e pregò l'americano di andare alla baia dei Francesi.

Durante questi negoziati, una nuova nave, il Mercurio,

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capitano Galvin, era entrata nella baia. Partito da Buenos Aires per portare dei cannoni a Valparaiso, il Mercurio, al momento di girare il capo Horn aveva fatta una falla notevole che lo costringeva a rattopparsi alle Maluine. Fu un fortunato avvenimento pei Francesi, e la concorrenza che ne risultava non poteva che tornare a loro vantaggio.

Freyeinet offerse immediatamente al capitano Galvin, per riparare le sue avarie, i soccorsi d'uomini e materiali di cui disponeva, aggiungendo che se i suoi falegnami potessero rattoppare la nave gli domanderebbe di trasportarlo co' suoi compagni a Rio Janeiro.

In capo a 15 giorni le riparazioni erano terminate. Nel frattempo i negoziati col General Knox eran terminati con un assoluto rifiuto, da parte di Freyeinet, di assoggettarsi alle esigenze del capitano americano. Quanto al capitano Galvin, occorsero parecchi giorni per venire ad una soluzione col seguente trattato:

I. Il capitano Galvin s'impegnava di condurre a Rio i naufraghi, le loro carte, collezioni e istrumenti, e parimente tutto ciò che si saprebbe potuto imbarcare degli oggetti salvati dell'Uranie;

II. I naufraghi dovevano nutrirsi durante la traversata coi viveri messi in riserva per essi;

III. Giunti a destinazione, i Francesi dovevano, pagargli, entro dieci giorni, una somma di 97.740 franchi.

Si terminò quindi questa laboriosa operazione con l'accettare le condizioni veramente leonine. Prima di lasciare le Maluine, il naturalista Gaudichaud arricchì quella miserabile terra di parecchie sorta di piante, che gli parvero poter esser utili ai navigatori in fermata.

Non saranno senza interesse alcuni particolari su questo arcipelago. Composto di un gran numero di isolotti e di due isole principali, Conti e Maidenlaaiid, questo gruppo compreso

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fra 50° 37' e 52° 45' sud e 60° 4' e 63° 48' all'ovest del meridiano di Parigi. La baia Francese, situata all'estremità meridionale dell'isola Conti, è una vasta apertura, più profonda che larga, dalle coste irte e rocciose.

La temperatura è mite nonostante la latitudine elevata di quelle isole. La neve non è abbondante e non dura più di due mesi alla sommità delle alte montagne. I corsi d'acqua non gelano punto, né mai un lago o un acquitrino gelato ha potuto sorreggere un uomo più di 24 ore di seguito. Stando alle osservazioni di Weddell, che ha frequentati quei paraggi dal 1822 al 1824, la temperatura vi si sarebbe notevolmente elevata da una quarantina d'anni, in causa del cambiamento di direzione dei grandi banchi di ghiaccio che vanno a perdersi in mezzo all'Atlantico.

Stando al naturalista Quoy, parrebbe che le Maluine, per la poca, profondità del mare che le separa dall'America e la somiglianza che esiste fra le loro erbose pianure e la pampas di Buenos Aires, abbiano, un tempo, fatto parte del continente.

Quelle pianure sono basse, paludose, coperte di alte erbe, inondate, d'inverno. Vi si trovano ampi spazi di una torba nera che forma un eccellente combustibile.

Questa natura particolare del suolo ha impedito la vegetazione degli alberi che Bouganville aveva voluto acclimatare e di cui non rimaneva più traccia al tempo del soggiorno di Freycinet, La pianta più grande e più comune è una specie di iride palustre eccellente pel nutrimento del bestiame, che serve di rifugio a gran numero di foche. É questa che da lungi i primi viaggiatori avevano preso per delle macchie elevate.

Il sedano, il crescione, il macerone, il lampone, l'acetosa, la pimpinella sono le sole piante utili all'uomo, che si trovano in questo arcipelago.

Quanto agli animali, i buoi, i maiali e i cavalli importati

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dai coloni francesi e spagnuoli si erano singolarmente moltiplicati sull'isola Conti, ma la caccia che i balenieri facevano loro doveva presto diminuirne sensibilmente il numero.

Il solo quadrupede che sia veramente indigeno alle Maluine è il cane antartico, il cui muso ricorda quello della volpe. Perciò è chiamato cane-volpe o lupo-volpe da alcuni balenieri. Questi animali feroci si gettarono in mare per assalire i marinai di Byron. Ora si contentano delle lepri che non tardarono a pullulare, quando le foche, che non temono di combattere, giungono a sfuggir loro.

Il 28 aprile il Mercurio pigliava il mare portando verso Rio-Janeiro Freycinet e il suo equipaggio. Ma il capitano Galvin non aveva riflettuto a ciò, che la sua nave, armata sotto la bandiera degli indipendenti di Buenos Aires, allora in guerra coi Portoghesi, sarebbe catturata entrando a Rio, che i suoi marinai e lui medesimo sarebbero stati fatti prigionieri. Cercò allora di far ritornare Freycinet sui suoi impegni, sperando deciderlo a sbarcare a Monte video, ma questi non volle acconsentirvi sotto alcun pretesto, e un nuovo contratto fu sostituito al primo.

Con quest'ultimo atto Freycinet diventava, per conto della marina francese, proprietario del Mercurio, mediante la somma stipulata nel primo contratto.

L'8 maggio si arrivava davanti a Montevideo, dove Freycinet prese il comando della nave, alla quale diede il nome di Physicienne. Si approfittò di quella fermata per procedere all'armamento, allo stivaggio, alla revisione dell'attrezzatura, all'imbarco dell'acqua dolce e delle provvigioni necessarie per giungere a Rio-Janeiro, che la Physicienne non toccò tuttavia senza aver provate gravissime avarie.

La Physicienne aveva l'aria così poco bellicosa, che, malgrado la fiamma del bastimento da guerra, sventolante in

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cima all'albero di maestra, i doganieri s'ingannarono e vollero visitarla come una nave mercantile.

Erano indispensabili delle riparazioni importantissime; e queste costrinsero Freycinet a rimanere a Rio sino al 18 settembre. Allora prese definitivamente la rotta di Francia, e il 13 novembre 1820 ancorò all'Havre, dopo una navigazione di tre anni e due mesi, durante la quale aveva percorso 18.862 leghe marine o 25.577 leghe medie di Francia.

Alcuni giorni dopo Freycinet ritornava a Parigi gravemente ammalato, e rimetteva al segretario dell'Accademia delle Scienze i manoscritti scientifici del viaggio, i quali non formavano meno di 31 volumi in 4°. In pari tempo i naturalisti della spedizione Quoy, Gaimart e Gaudichaud, deponevano i campioni che avevano raccolto. Vi si contavano quattro specie nuove di mammiferi, quarantacinque di pesci, trenta di rettili, dei molluschi, degli anelti, dei polipi, ecc., ecc.

Tradotto davanti ad un consiglio di guerra, secondo le leggi militari, per rispondervi della perdita del suo bastimento, Freycinet fu non solo assolto all'unanimità, ma anche caldamente felicitato per la sua energia, per la sua capacità e le misure abili e vigilanti che prese in quelle tristi circostanze.

Ricevuto qualche tempo dopo dal re Luigi XVIII, questi lo congedò dicendo: «Voi siete entrato qui capitano di fregata, e ne uscirete capitano di vascello. Non ringraziatemi e ditemi solamente ciò che Jean Bart rispose a Luigi XV: «Sire, avete fatto bene!»

Da quel momento Freycinet consacrò tutto il suo tempo alla pubblicazione dei risultati della sua spedizione. Il poco che ne abbiamo detto fa comprendere ch'essi erano immensi; ma coscienzioso all'eccesso, l'esploratore nulla voleva lasciar pubblicare che non fosse perfetto, e perciò volle mettere i suoi lavori all'altezza delle cognizioni acquisite. Si può imaginare quanto tempo dovette spendere a classificare i numerosi

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materiali che aveva portato. Epperò, quando la morte venne a sorprenderlo, il 18 agosto 1842, non aveva ancora data l'ultima mano a una delle parti più curiose e più nuove del suo lavoro, quella relativa all'isole dell'Oceania, e a quelle delle Marianne in particolare.

Sullo scorcio dell'anno 1821, il ministro della Marina, marchese di Clermont-Tonnerre, riceveva un nuovo progetto di viaggio presentatogli da due giovani ufficiali, i signori Duperrey e Dumont d'Urville. Il primo era appena da un anno ritornato in Francia; secondo a bordo dell'Uranie, con Freycinet, aveva, con le sue cognizioni scientifiche e idrografiche, resi importanti servigi alla spedizione. L'altro, collaboratore del capitano Gauttier, si era segnalato durante le campagne idrografiche che quest'ultimo aveva compiute nel Mediterraneo e nel mar Nero. Amava la botanica e le arti ed era stato uno dei primi a segnalare il valore artistico della Venere di Milo, che si era allora scoperta.

Gli obiettivi che questi giovani scienziati si proponevano erano lo studio dei tre regni della natura, il magnetismo, la meteorologia e la determinazione della figura della Terra.

«Quanto alla geografia, dice Duperrey, ci proponiamo di constatare o di rettificare, sia con osservazioni dirette, sia col trasporto del tempo, la posizione d'un gran numero di punti in diverse parti del globo, segnatamente nei numerosi arcipelaghi del Grande Oceano, tanto fecondi di naufragi o tanto notevoli per la natura e la forma delle isole bajsse, dei banchi e delle scogliere sottomarine che li compongono; di tracciare nuove rotte nell'arcipelago Pericoloso e nelle isole della Società, a lato delle rotte di Quiros, di Wallis, di Bouganville o di Cook; di collegare i nostri lavori idrografici a quelli dei viaggi di Entrecasteaux e di Freyeinet nella Polinesia, alla Nuova Olanda e nelle isole Molueche, e di visitare particolarmente le Caroline, scoperte da Magellano, sulle quali, ad eccezione della

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parte esaminata ai giorni nostri dal capitano Kotzebue, non abbiamo che descrizioni alquanto vaghe, trasmesseci dai missionari sulla narrazione di alcuni selvaggi smarriti con le loro piroghe e gettati dal vento sulle isole Marianne. Il linguaggio, i caratteri, i costumi e la fisionomia degli isolani dovranno formare parimenti oggetto di particolari osservazioni non meno curiose.»

I medici di marina Garnot e Lesson furono incaricati delle osservazioni di storia naturale, mentre lo stato maggiore veniva reclutato fra gli ufficiali più istruiti. Fra questi si contavano i signori Lesage, Jacquinot, Bérard, Lottili, di Biois e di Blosseville.

L'Accademia delle Scienze, assai entusiasta del progetto di ricerche presentato dai promotori di questa campagna, mise a loro disposizione particolareggiate istruzioni, nelle quali erano esposti con cura i desiderata della scienza. In pari tempo gli istrumenti più perfezionati furono consegnati agli esploratori.

Il bastimento era un piccolo tre-alberi, da 12 a 13 piedi d'acqua, la Coquille, che era di riserva nel porto di Tolone.

Il tempo necessario all'addobbo, all'attrezzamento e all'armamento non permise alla spedizione di partire prima dell'11 agosto 1822. Essa giunse il 28 dello stesso mese a Teneriffa, dove gli ufficiali speravano anche spigolare qualche tempo dopo le ricche messi di osservazioni che i loro predecessori vi avevano raccolte, ma il Consiglio sanitario, informato dell'apparizione della febbre gialla sulle coste del Mediterraneo, assoggettò la Coquille a una quarantena di quindici giorni.

A quel tempo le opinioni politiche erano siffattamente sovreccitate, regnava un tale fermento a Teneriffa, che gli abitanti ogni giorno erano in procinto di venire alle mani. È facile comprendere se in queste circostanze il dispiacere che dovettero incontrare i Francesi sia stato lieve. Epperò gli otto

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giorni che passarono in quella sosta furono intieramente consacrati al vettovagliamento della corvetta, nonché ad osservazioni astronomiche e magnetiche.

Il 1°. settembre si levò l'ancora, e il 6 ottobre si procedette alla ricognizione degli isolotti di Martin-Vaz e della Trinità. I primi sono delle rocce di una nudità spaventosa. La Trinità è una terra alta, rocciosa, sterile, coronata di pochi alberi nella parte meridionale. Quest'isola altro non è che la famosa Ascençao (Ascensione) che per tre secoli è stata oggetto delle ricerche degli esploratori.

Il celebre Halley, nel 1700, aveva preso possesso di quest'isolotto in nome del suo governo, che dovette cederlo ai Portoghesi quando questi vi si stabilirono, nel luogo in cui La Pérouse li trovò ancora nel 1785. Questa colonia, inutile e costosa, fu abbandonata poco dopo, e l'isola non ha più altri abitanti fissi fuorché cani, maiali e capre, discendenti degli animali un tempo importativi.

Allontanandosi dalla Trinità, Duperrey aveva progettato di recarsi direttamente alle Maluine; ma un'avaria che si trattava di riparare al più presto lo risolvette di fermarsi all'isola Santa Caterina. Là solamente poteva trovare il legname necessario alla riparazione dell'alberatura, nonché le provvigioni che in ragione della loro abbondanza dovevano essere a buon mercato.

Quando ci si avvicina a quest'isola si è gradevolmente colpiti dall'aspetto imponente e pittoresco delle sue fitte foreste, in cui i lauri, i cedri e gli aranci si frammischiano ai banani ed alle palme, i cui eleganti pennacchi ondeggiano a seconda della brezza.

Al momento in cui la corvetta calava l'ancora erano appena trascorsi quattro giorni dacché il Brasile, scuotendo il giogo della metropoli, aveva dichiarata la sua indipendenza e proclamato come imperatore il principe Don Pedro d'Alcantara.

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Epperò il comandante, desiderando avere alcune informazioni su questo mutamento politico, e assicurarsi delle disposizioni delle nuove autorità, inviò a Nossa-Senhora-del-Desterro, capitale dell' isola, una missione composta dei signori D'Urville, di Blosseville, Gabert e Garciot.

Il governo della provincia era nelle mani di una giunta che autorizzò immediatamente i Francesi a tagliare gli alberi di cui avessero bisogno, e invitò il governatore del forte di Santa-Cruz a facilitare; con tutti i suoi mezzi i loro lavori scientifici.

Quanto ai viveri si stentò alquanto a procurarsene, stantechè i negozianti avevano trasmessi i loro fondi a Rio nel timore degli avvenimenti. È verosimilmente ciò che spiega le difficoltà che incontrò il comandante della Coquille in un porto che era stato caldamente raccomandato dai capitani Krusenstern e Kotzebue.

«Gli abitanti, dice la relazione, erano nella persuasione di veder presto delle truppe nemiche discendere su questa terra per ricolonizzarli, cioè, secondo essi, per renderli schiavi. Il decreto emanato il 1° agosto 1822, che chiamava tutti i Brasiliani alle armi per la difesa delle coste, e comandava loro di fare, in qualunque stato di cose, una guerra di partigiani, aveva dato luogo a questi timori. Le risoluzioni, a un tempo generose e piene di rigore, che dispiegava il principe don Pedro, avevano dato un'alta idea del suo carattere e dei suoi progetti d'emancipazione. Pieni di fiducia nei suoi disegni, i numerosi partigiani dell'indipendenza erano inspirati da un entusiasmo la cui espansione era tanto più rumorosa, in quanto che il loro spirito ardente era stato da gran tempo represso. Nell'eccesso della loro gioia avevano illuminate le città di Nossa-Senhora-del-Desterro, di Laguna e di San Francisco, di cui avevano percorso le vie cantando delle canzonette in onore di Don Pedro.»

Ma questo entusiasmo di cui tutte le città davano prova,

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non era diviso dagli abitanti della campagna, gente pacifica ed estranea alle commozioni della politica. E se il Portogallo fosse stato in grado di appoggiare i suoi decreti con l'invio di una squadra, senza dubbio questa provincia sarebbe stata facilmente riconquistata.

Il 30 ottobre la Coquille rimise alla vela. Nell'est del Rio-della-Plata, presa da uno di quei spaventosi venti noti col nome di pamperos, ebbe la fortuna di cavarsela senz'avarie.

Duperrey fece in questo luogo curiosissime osservazioni sulla corrente della Plata. Freycinet aveva già notato che il corso di questo fiume, a cento leghe all'est di Montevideo, conserva ancora una rapidità di due miglia e mezzo all'ora. Ma il comandante della Coquille riconobbe che questa corrente si fa notare molto più lontano. Egli mise in evidenza altresì che, pressate dall'Oceano, queste acque sono costrette a dividersi in due rami nella direzione prolungata delle rive alla sua imboccatura; finalmente egli attribuisce agli immensi residui terrosi, tenuti in sospensione nelle acque della Plata e che pel rallentamento della rapidità si precipitano giornalmente lungo le coste dell'America, la poca profondità del mare fino alle terre magellaniche.

Prima d'entrare nella baia Francese, la Coquille, spinta da un vento favorevole, aveva incrociate immense frotte di balene, di delfini e di apteroditi, abitanti ordinari di queste regioni tempestose.

Non fu senza un sentimento di piacere ben naturale che Duperrey ed alcuni suoi compagni rividero le Maluine, questa terra che per tre mesi aveva servito loro di rifugio dopo il naufragio dell'Uranie. Visitarono la spiaggia su cui era stato eretto il loro accampamento; gli avanzi della corvetta erano quasi interamente sepolti nella sabbia, e quello che appariva portava traccia delle mutilazioni fatte dagli avidi balenieri che si erano succeduti in quel luogo. Si vedevano avanzi di ogni

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sorta, dappertutto, cannoni dai bottoni di culatta fracassati, frammenti di manovre, brandelli di vestimenta, pezzi di vela, stracci informi irriconoscibili, ai quali si mischiavano le ossa degl'animali che avevano servito al nutrimento dei naufraghi.

«Questo teatro di un recente infortunio, dice la relazione, aveva una tinta di desolazione che offuscava agli occhi l'aridità del luogo e la condizione del cielo che era; cupo e piovoso quando lo visitammo. Tuttavia esso aveva per noi un'attrattiva indefinibile, e lasciò nell'anima nostra un'impressione di vaga malinconia che conservammo lungo tempo dopo la nostra partenza dalle Maluine.»

Il soggiorno di Duperrey alle Maluine si prolungò fino al 17 dicembre. Vi si era installato in mezzo alle mine dello stabilimento fondato da Bouganville, per eseguire le diverse riparazioni che richiedeva lo stato della corvetta. La caccia e la pesca avevano abbondantemente provveduto ai bisogni degli equipaggi; eccetto i frutti ed i legumi, tutto si trovava in quantità, e in mezzo all'abbondanza l'equipaggio si preparava ad affrontare i pericoli dei mari del capo Horn.

Si dovette dapprima lottare contro i venti del sud-ovest e le correnti fortissime; poi le raffiche e le nebbie si succedettero, finché i navigatori ebbero raggiunto, il 19 gennaio 1823, l'isola della Mocha, di cui abbiamo avuto occasione di parlare brevemente.

Duperrey la mette a 38° 20' 30" di latitudine sud e 76° 21' 55" di longitudine ovest e le dà 24 miglia di circonferenza. Formata da una catena di montagne di mediocre altezza, che discendono fino al mare, quest'isola fu il ritrovo de' primi esploratori dell'oceano Pacifico. Là, i cacciatori di buoi selvatici e le navi mercantili trovavano dei cavalli e dei maiali la cui carne era di una delicatezza proverbiale. Vi si trovava altresì un'acqua limpida e pura, nonché dei frutti europei, mele, pesche e ciliegie, prodotti dagli alberi importati dai

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conquistatori. Ma nel 1823 tutte queste risorse erano quasi scomparse, dissipate dagli imprevidenti balenieri.

Un po' più lungi apparvero le due «mammelle» che seguono l'imboccatura da Bio-Bio, l'isolotto di Quebra-Ollas e l'isola Quiriquina; poi si svolse la baia della Concepcion, dove si trovava una sola baleniera inglese che stava per girare il capo

Horn, ed alla quale si consegnò la corrispondenza e il risultato

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dei lavori fin allora compiuti. L'indomani dell'arrivo, appena il sole sorse a rischi arare la

baia, l'aspetto triste e desolante che, la vigilia, aveva sorpreso i marinai, parve loro ancora più commovente. Le case rovinate e le vie silenziose della città, sulla spiaggia, alcune misere piroghe semi-sfondate, presso le quali erravano pochi pescatori miseramente vestiti, dei casolari e delle capanne spalancate, dinanzi alle quali delle donne cenciose si pettinavano a vicenda, tale era il lamentevole quadro che offriva il borgo di Talcahuano.

Per contrastare più amaramente con la miseria degli abitanti, la natura aveva rivestito dei suoi opulenti ornamenti le colline ed i boschi, gli orti ed i giardini; dappertutto splendidi fiori e dei frutti il cui profumo piccante indicava la maturità; un sole implacabile, un cielo senza nubi, tutto ciò accresceva l'amarezza di quella scena.

Quelle ruine, quella desolazione, quella miseria erano i più evidenti risultati delle rivoluzioni che s'erano succedute.

A Santa Caterina i Francesi erano stati testimoni della dichiarazione d'indipendenza del Brasile; qui assistevano alla caduta del direttore (reggente) O' Higgins. Eludendo la convenzione d'un congresso, sacrificando gli agricoltori ai commercianti con l'aumento delle imposte dirette e la diminuzione delle dogane, accusato di concussione, al pari de' suoi ministri, O' Higgins aveva sollevato contro di sé la maggior parte della popolazione.

A capo del movimento che si preparava contro di lui era il generale don Ramon Freire y Serrano, che diede agli esploratori l'affidamento più formale che gli avvenimenti non incaglierebbero per nulla l'approvvigionamento della Coquille.

Il 26 gennaio, due corvette entravano alla Concepcion; esse portavano un francese, il colonnello Beauchef, che veniva ad unirsi al generale Freire con un reggimento organizzato a

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sua cura, e che era pel suo assetto, la sua disciplina e la sua istruzione uno dei più belli dell'esercito chileno.

Il 2 febbraio gli ufficiali della Coquille si recarono a far visita al generale Freire alla Concepcion. Più si avvicinavano alla città, più erano numerosi i campi devastati, le case arse, più rari gli abitanti, appena coperti di cenci. All'ingresso della Concepcion, sovra un albero di bastimento era infissa la testa di un famoso bandito, una vera bestia feroce, Benavidez, che aveva commesso tutti gli orrori imaginabili e il cui nome fu per gran tempo in esecrazione al Chili.

L'aspetto della città era ancor più triste. Arsa di volta in volta dai partiti vittoriosi, la Concepcion non era più che un mucchio di macerie, in mezzo alle quali errava seminudo qualche raro abitante, miserabile avanzo di una popolazione opulenta. L'erba cresceva nelle strade; il palazzo del vescovo e la cattedrale erano i soli edifizi rimasti ancora in piedi, ma spalancati e sventrati, non dovevano resistere lungo tempo alle intemperie delle stagioni.

Il generale Freire, prima di dichiararsi contro O' Higgins, aveva imposto la pace agli Araucanesi, bravi indigeni che avevano saputo conservare la loro indipendenza e che si mostravano sempre pronti ad invadere il territorio spagnuolo. Alcuni erario impegnati come ausiliari nelle truppe chilene. Duperrey — che li vide ed ebbe da loro, da parte del generale Freire e del colonnello Beauchef, informazioni veridiche — ne traccia un ritratto poco lusinghiero, che qui si riassume:

«Montati su rapidi cavalli, gli Araucanesi portano una lunga lancia, un lungo coltello a forma di sciabola, chiamato machete, ed il laccio che maneggiano assai abilmente. Essi sono di statura ordinaria, di tinta color rame, hanno gli occhi piccoli, neri e vivi, il naso un tantino schiacciato, le labbra grosse che danno loro una espressione di ferocia bestiale; sono divisi in tribù, gelose le une delle altre; sono sfrenati amatori di

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bottino, irrequieti e sempre in perpetua guerra fra loro. «Se si sono veduti talvolta ricevere sotto i loro toldos i

vinti e pigliare le loro difese — dice la relazione — son sempre stati spinti a questa generosa azione da uno spirito di vendetta particolare; gli è che nel partito opposto si trovava, come alleata, una tribù che volevano sterminare. In essi l'odio domina tutte le altre passioni, ed è essa solo la garanzia più durevole della loro fedeltà.

«Sono tutti di un ardimento straordinario, ardenti, impetuosi, spietati verso i nemici che massacrano con orribile impassibilità. Imperiosi e vendicativi, sono di una estrema diffidenza verso tutti quelli che non conoscono, ma ospitalieri e generosi verso quelli che hanno preso per amici. Veementi in tutte le loro passioni, si mostrano eccessivamente gelosi della loro libertà e dei loro diritti, sempre pronti a mantenerli con le armi alla mano. Serbano eternamente il ricordo della minima ingiuria, non perdonano mai ed hanno una sete inestinguibile del sangue dei loro nemici.»

Questo è il ritratto che Duperrey traccia di quei selvaggi figli delle Ande, che hanno avuto per lo meno il merito di resistere, dal XVI secolo, a tutti gli sforzi degli invasori e di conservare intatta la loro indipendenza.

Dopo la partenza del generale Freire e delle truppe che conduceva seco, Duperrey trasse profitto del tempo per provvedere all'approvvigionamento della sua nave. L'acqua ed il biscotto furono presto imbarcati, ma bisognò maggior tempo per il carbone di terra che si procurò senza spesa con l'andare a raccoglierlo in una miniera a fior di terra; non si dovettero pagare che i mulattieri, i cui muli lo trasportarono alla riva del mare.

Sebbene le circostanze in mezzo alle quali la Coquille sostava alla Goncepcion fossero tutt'altro che allegre, la tristezza generale non poté contro i piaceri tradizionali del

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carnevale. I pranzi, i ricevimenti ed i balli ricominciarono e non ci si

accorse della partenza dell'esercito se non per l'assenza dei cavalieri. Gli ufficiali francesi, per riconoscere l'eccellente accoglienza che era stata fatta loro, diedero due balli a Tailcahuano, e parecchie famiglie della Goncepcion fecero espressamente il viaggio per assistervi.

Per disgrazia, la relazione di Duperrey s'interrompe al momento che sta per lasciare il Chili, e noi non abbiamo più documenti ufficiali per narrare ne' suoi particolari questa interessante e fruttuosa campagna. Lungi dal poter seguire passo passo l'originale come abbiamo fatto per gli altri viaggiatori, siamo costretti di fare a nostra volta un riassunto dei riassunti che abbiamo sott'occhio. Compito ingrato, poco gradevole pel lettore, ma difficile per lo scrittore, che deve rispettare i fatti e non può sviare il suo racconto con osservazioni personali ed aneddoti talvolta interessanti dei viaggiatori.

Tuttavia, alcune lettere del navigatore al ministro della Marina sono state pubblicate, e noi possiamo estrarne i particolari che seguiranno.

Il 15 febbraio 1823 la Coquille parte dalla Goncepcion per Payta, dove s'erano imbarcati, nel 1595, Alvarez de Mendana e Fernandez de Quiros, pel viaggio di scoperte che ha illustrato i loro nomi; ma una quindicina di giorni dopo, la calma avendo sorpreso la corvetta nei dintorni dell'isola Laurengo, Duperrey risolse di sostare a Callao per prendervi dei viveri freschi.

Si sa che Callao è il porto di Lima. Epperò gli ufficiali non potevano dispensarsi di una visita alla capitale del Perù. Ma non furono favoriti dalle circostanze. Le signore erano ai bagni di mare di Mirafìores e gli uomini più eminenti del paese le avevano accompagnate. Dovettero dunque accontentarsi di visitare le abitazioni e gli edifici più importanti della città, e

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ritornarono a Callao il 4 marzo. Il 9 dello stesso mese la Coquille calava l'ancora a Payta.

La posizione di questo sito, fra l'equatore terrestre e l'equatore magnetico, permise di occuparsi di osservazioni sulla variazione diurna dell'ago magnetico. I naturalisti vi fecero pure alcune escursioni nel deserto di Piura; vi raccolsero curiosissime pietrificazioni conchigliacee in un terreno terziario affatto analogo a quello dei (dintorni di Parigi.

Appena si fu rivelato a Payta tutto ciò che poteva offrire qualche interesse per la scienza, la Coquille riprese la sua rotta e fece vela per Taiti.

La navigazione fu interrotta da un incidente che avrebbe potuto, se non recare la perdita totale della spedizione, per lo meno incagliare sensibilmente i suoi progressi. Nella notte del 22 aprile, la Coquille si trovava nei paraggi dell'arcipelago Pericoloso, quando, a un tratto, l'ufficiale di quarto intese il rumore delle onde sugli scogli. Egli fece subito mettere in panna, e, appena apparve il giorno, si vide a qual pericolo eran sfuggiti.

Appena mezzo miglio separava la corvetta da un'isola bassa, alquanto boscosa e costeggiata da rupi in tutta la sua estensione.

Essa aveva qualche abitante, e una piroga si avvicinò al bastimento; ma il suo equipaggio non volle mai salire a bordo. Duperrey dovette rinunciare a visitare questa terra, che ricevette il nome di Glermont-Tonnerre. Dappertutto le onde s'infrangevano con violenza contro le rupi, ed egli non poté che costeggiarla da un capo all'altro a piccolissima distanza.

L'indomani ed i giorni susseguenti furono riconosciuti alcuni isolotti di non grande importanza, ai quali si diedero i nomi di Augier, di Freycinet e di Lostanges.

Il 3 maggio, al levar del sole, si scopersero finalmente le spiaggie verdeggianti e le montagne boscose di Taiti. Come i

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suoi predecessori, Duperrey non poté trattenersi di notare il radicale mutamento che si era compiuto nei costumi e nelle abitudini degli indigeni.

Nessuna piroga venne innanzi alla Coquille. Quando entrò nella baia di Matavai era l'ora della predica, e i missionari avevano riunito l'intiera popolazione dell'isola, in numero di settemila persone, nella chiesa principale di Papahoa, per discutervi gli articoli di un nuovo codice di leggi. Gli oratori taitiani non la cedevano agli altri, a quanto pare. Un gran numero di loro possedeva l'apprezzato talento di parlare per parecchie ore per dir nulla e sotterrare i più bei progetti sotto i fiori della loro eloquenza.

Ecco come d'Urville dà il resoconto di una di quelle sedute:

«Il disegnatore della spedizione, signor Lejeune, assisteva solo alla seduta dell'indomani, in cui furono sottoposte all'assemblea popolare questioni politiche. Essa durò parecchie ore, durante la quale i capi presero ciascuno a loro volta la parola. Il più splendido oratore di quella folla fu il capo Tati: la principale questione agitata era un annuale testatico da stabilirsi, in ragione di cinque bambù d'olio per uomo. Poi si trattò delle imposte che dovevano essere percepite, sia per conto del re, sia per conto dei missionari. Più tardi sapemmo che la prima questione era stata risoluta nel senso affermativo, ma che la seconda, quella che concerneva i missionari, era stata aggiornata, in previsione di una sconfitta. Circa quattromila persone assistevano a questa specie di Congresso Nazionale».

Da due mesi Taiti aveva abbandonata la bandiera inglese per adottarne una che fosse personale, e questa rivoluzione pacifica non aveva per nulla alterata la fiducia che il popolo manifestava verso i missionari. Questi accolsero perfettamente i Francesi e fornirono loro, a prezzi ordinari, le provvigioni di cui avevano bisogno.

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Ciò che vi era di particolarmente curioso nelle riforme compiute da questi uomini, era l'assoluta trasformazione della condotta delle donne. D'una inaudita facilità, stando a Cook, a Bongainville e ad altri esploratori contemporanei, esse erano diventate di una modestia, di una riservatezza, di una decenza estrema, e tutta l'isola aveva preso un'aria di convento tanto rallegrante quanto inverosimile.

Da Taiti, la Coquille andò a visitare l'isola vicina, Borabora, che fa parte del medesimo gruppo e che aveva del pari adottato costumi europei.

Il 9 giugno, la corvetta, dirigendosi verso l'ovest, rilevava volta a volta le sole Salvage, Eoa, Santa-Cruz, Bouganville e Buka; poi gettò finalmente l'ancora, il 12 agosto, nel porto Praslin, famoso per la sua bella cascata, sulla costa della Nuova-Irlanda.

«Le relazioni amichevoli che si stabilirono con gli indigeni permetteranno d'aggiungere altresì alla storia dell'uomo alcuni tratti singolari che i precedenti viaggiatori non ebbero occasione di notare.»

Qui noi lamentiamo che la relazione originale del viaggio non sia stata pubblicata nella sua integrità, giacché la frase precedente che si trova nella notizia abbreviata apparsa negli Annali dei Viaggi, non fa che eccitare la curiosità senza soddisfarla.

L'allievo Poret di Blosseville — quegli stesso che doveva perdersi con la Lilloise nei ghiacci polari — sebbene i selvaggi avessero fatto di tutto per dissuadervelo, fece una corsa fino al toro villaggio. Là gli mostrarono una specie di tempio dove s'inalzavano parecchi idoli di forma bizzarra, collocati sopra una piattaforma circondata di muri.

La carta del canale San Giorgio fu rilevata con cura; poi Duperrey andò a visitare le isole già riconosciute da Sehuten al nord-est della Nuova Guinea.

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I giorni 26, 27, 28 agosto furono consacrati al rilievo di quelle isole. L'esploratore cercò poi, senza trovarle, le isole Steyhens, Di Carteret, e, paragonando la sua rotta con quella che aveva seguito d'Entrecasteaux nel 1792, giunse a questa conclusione, che quel gruppo non poteva essere che quello della Provvidenza , anticamente scoperto da Dampier.

Il 3 settembre fu riconosciuto il capo settentrionale della Nuova Guinea. Tre giorni dopo la Coquille penetrava nel porto stretto e roccioso di Offak, sulla costa N. 0. di Waigiu, una delle isole dei Papus. Forest era il solo navigatore che avesse parlato di questo porto. Duperrey si mostrò quindi particolarmente soddisfatto d'esplorare questo angolo della terra quasi vergine dei passi dell'europeo. Era in pari tempo interessantissimo per la geografia di constatare resistenza di una baia meridionale che separava da Offak un istmo strettissimo.

Due ufficiali, i signori d'Urville e di Blosseville si occuparono di questo lavoro che i signori Bérard, Lottili e di Blois della Calande collegarono a quello che Duperrey aveva avuto occasione di fare sulla costa durante la campagna dell'Uranie.

Questa terra apparve particolarmente ricca di produzioni vegetali, e d'Urville poté riunirvi gli elementi di una collezione tanto preziosa sì per la novità quanto per la bellezza dei tipi.

D'Urville e Lesson, curiosi di osservare gli abitanti che appartengono alla razza papua, si erano imbarcati, subito dopo il loro arrivo, in un canotto armato di 7 uomini.

Avevano già percorso un lungo spazio sotto una pioggia diluviale, quando a un tratto si trovarono in faccia a una casa elevata su palafitte e coperta di foglie di laudano. A poca distanza se ne stava rannicchiato nei cespugli un giovane selvaggio che sembrava spiarli. Un po' più lungi un mucchio di frutti di cocco, una dozzina circa, colti di fresco, posti bene in

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vista, sembrava invitasse i viaggiatori a rinfrescarsi. I Francesi compresero che ciò era un'offerta del giovine selvaggio che avevano scorto e fecero festa a questo dono giunto tanto a proposito. L'indigeno, rassicurato in breve dal contegno pacifico dei nostri compatrioti, si avanzò dicendo bonqus! (buono!) e indicando che quei cocchi erano stati offerti da lui. La sua delicata sollecitudine fu ricompensata col dono di una collana e di pendenti da orecchie.

Al momento in cui d'Urville raggiungeva la sua imbarcazione vi trovò una dozzina di papus che giuocavano, mangiavano e sembravano nei migliori rapporti co' suoi canottieri.

«Mi circondarono subito ripetendo: capitan hongus! e facendomi ogni sorta di segni d'amicizia. Questi uomini sono in generale di bassa statura, di una complessione gracile e debole, soggetti alla lebbra; i loro lineamenti non sono però punto disaggradevoli; il loro carattere è dolce, il loro contegno grave, civile ed anzi improntato d'una certa melanconia abituale e ben caratterizzata.»

Fra le statue antiche di cui il Louvre è tanto ricco, ve ne ha una, la Polymnie, che è celebre fra tutte per un'espressione di meditazione malinconica che non si è abituati a trovare negli antichi. È abbastanza singolare che d'Urville abbia trovato presso i Papus, allo stato abituale, questa fisionomia così ben caratterizzata nella statua antica.

A bordo un'altra frotta di indigeni si era recata con calma e riserva, contrastando in modo assai distinto con la maggior parte degli indigeni dell'Oceania.

La medesima impressione fu risentita dai Francesi nella loro visita al rajà dell'isola e in quella ch'egli rese loro a bordo della Coquille. In uno dei villaggi della baia del Sud si vide una specie di tempio in cui si notarono parecchie effigi grossolane 'dipinte a diversi colori e ornate di penne e di stuoie. Fu

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impossibile di procurarsi la minima informazione sul culto che gli indigeni rendono a quegli idoli.

Il 16 settembre la Coquille spiegò le vele, costeggiò il lato settentrionale delle isole comprese fra Een e Yang, fece una breve stazione a Cayeli, e raggiunse Amboina dove l'accoglienza particolarmente graziosa del governatore delle

Molucche, signor Merkus, sollevò lo stato maggiore delle

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numerose fatiche che aveva sopportate durante questa dura campagna.

Il 27 ottobre la corvetta riprendeva la sua rotta dirigendosi verso Timor, passando all'ovest delle isole Turtle e Lucepara. Duperrey determinò poscia la posizione dell'isola del Vulcano; riconobbe le isole Wetter, Babé, Dog, Cambing, e inoltrandosi nello stretto di Ombay, rilevò gran numero di punti di quella catena d'isole che da Panter e da Ombay si dirige verso Giava.

Dopo aver stesa la carta di Giava e cercatevi invano le Trial al posto loro assegnato, Duperrey si diresse verso la Nuova Olanda, i cui venti contrari non gli permisero di fiancheggiare la costa occidentale. Il 10 gennaio 1824 girava finalmente l'isola di Van-Diemen. Sei giorni dopo scorgeva i fuochi di Port-Jackson e lasciava calar l'ancora l'indomani dinanzi alla città di Sydney.

Il governatore, sir Thomas Brisbane, che era stato prevenuto dell'arrivo della spedizione, gli fece una cortese accoglienza, aiutò con tutte le sue forze il vettovagliamento, facilitò con la massima amabilità tutte le riparazioni di cui abbisognava lo stato rovinoso della corvetta, e procurò ai signori d'Urville e Lesson i mezzi di fare un'escursione fruttuosa al di là delle montagne Azzurre nella pianura di Bathurst, di cui gli Europei non riconoscono ancora che troppo imperfettamente tutte le risorse.

Solo il 22 marzo Duperrey lasciò l'Australia. Questa volta diresse il suo cammino verso la Nuova Zelanda che era stata lasciata un po' da parte da' suoi predecessori, e si fermò nella baia di Manawa, in fondo all'ampia Baia delle Isole. Osservazioni di fisica e di geografia e ricerche di storia naturale furon fatte dagli ufficiali. In pari tempo i rapporti frequenti dell'equipaggio con gl'indigeni spandevano nuova luce sui costumi, sulle diverse idee religiose, sulla lingua, sullo stato di ostilità d'un popolo fino allora ribelle all'insegnamento

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dei missionari. Ciò che quegli indigeni avevano apprezzato nella civilizzazione erano le armi perfezionate che permettevano loro di più facilmente soddisfare ai loro gusti sanguinari, e, a quel tempo, ne possedevano già in grande quantità.

Il 17 aprile la Coquille abbandonava quell'ancoraggio; risaliva verso l'Equatore fino a Rotuma, scoperta, ma non visitata, dal capitano Wilson nel 1797. Gli abitanti dolci e ospitalieri s'affrettarono a fornire ai navigatori tutti i viveri di cui avevano bisogno. Ma non si stette tanto ad accorgersi che questi indigeni, approfittando della fiducia che avevano saputo inspirare, rubavano una quantità d'oggetti che a gran stento furono, restituiti. Furono dati ordini severi, e i ladri, sorpresi in flagrante delitto, furono sferzati in presenza dei loro camerati che ridevano più di cuore che gli sferzatoli medesimi.

Fra quei selvaggi si trovarono quattro europei che avevano, qualche tempo prima, disertato la baleniera Rochester. Mal vestiti come gli indigeni, tatuati e coperti di polvere gialla com'essi, non erano riconoscibili se non per la loro pelle più bianca e l'aria più svegliata. Soddisfatti della loro sorte, si erano creati una famiglia a Rotuma, dove contavano finire i loro giorni senza le noie, le inquietudini e le difficoltà della vita civilizzata. Uno solo di essi chiese di rimanere sulla Coquüle, il che gli fu accordato senza difficoltà da Duperrey. Ma ciò non permise il capo dell'isola se non quando apprese che due deportati di Port-Jackson chiedevano di sbarcare.

Non ostante tutto l'interesse che offriva ai naturalisti questa popolazione poco conosciuta, bisognava partire. La Coquüle rilevò prima di tutto le isole Goral e Sant'Agostino, scoperte da Maurelle nel 1781. Poi l'isola Drummond, i cui abitanti dalla tinta assai scura, dalle membra gracili e dalla fisionomia poco intelligente vennero a scambiare qualche conchiglia tridacne, volgarmente chiamata pila dell'acqua santa, contro dei coltelli e

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degli ami; poi le isole Sydenham e Henderville dagli abitanti intieramente nudi; poi Woolde, Hupper, Hall. Knox, Charlotte, Matthews che formano l'arcipelago Gilbert, e finalmente i gruppi dei Mulgravi e di Marshall.

Il 3 giugno Duperrey riconobbe l'isola Ualan, che era stata scoperta nel 1804 dal capitano americano Croser. Siccome essa non figurava sulle carte, il comandante risolse di prendere cognizione precisa e particolareggiata.

Non appena l'ancora toccò fondo, Duperrey e alcuni suoi ufficiali si fecero condurre a terra. Vi trovarono un popolo dolce e benevolo, che, offrendo loro dei cocchi e dei frutti dell'albero del pane, li condussero, attraverso i luoghi più pittoreschi, fino all'abitazione del loro capo principale, il loro Uross-tôn, come essi lo chiamavano.

Ecco, secondo! Dumont d'Urville, la descrizione dei luoghi che dovettero attraversare prima d'arrivare alla presenza di questo alto personaggio:

«Noi si galleggiava pacificamente in mezzo a un ampio bacino recinto dalle verdeggianti foreste della riva. Dietro di noi si elevavano le alte vette dell'isola, coperte di fitti tappeti di verdura, sopra i quali si slanciavano i fusti mobili ed eleganti dei cocchi. Dinanzi a noi sorgeva, in mezzo ai flutti, l'isoletta di Ledei., circondata dalle graziose capanne degli isolani e coronata da un monticello di verdura… S'aggiunga a ciò una giornata magnifica; una temperatura deliziosa, e si potrà farsi un'idea dei sentimenti che empivano le anime nostre in questa specie di marcia trionfale in mezzo a un popolo semplice, pacifico e generoso.»

Una folla, che d'Urville stima a 800 persone, aspettava le imbarcazioni dinanzi a un villaggio pulito e leggiadro, con le vie selciate. Tutta questa gente, gli uomini da una parte, le donne dall'altra, se ne stava in un silenzio veramente imponente; due capi vennero, a prendere i viaggiatori per la

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mano e li guidarono verso l'abitazione dell'Uross-tôn. La folla, sempre silenziosa, se ne stette fuori, mentre i francesi entravano nella casa.

Apparve subito l'Uross-tôn, vegliardo sparuto e sfinito, accasciato dagli anni, che doveva averne un'ottantina. Per atto di civiltà, i Francesi si alzarono quando entrò in sala, ma un mormorio degli astanti apprese loro che avevano mancato alle usanze.

Gettarono uno sguardo intorno ad essi. Tutti erano prostrati con la fronte nella polvere. I capi medesimi non avevano potuto sottrarsi a questo segno di rispetto. Il vegliardo, per un istante interdetto dall'audacia degli stranieri, impose però silenzio ai suoi sudditi e andò a sedersi vicino a quelli. Delle picchiatine di mano sulle guancie, sulle spalle e sulle coscie, furono i segni d'amicizia che egli prodigò pei regalucci che furon fatti a lui e a sua moglie. Ma la riconoscenza di quei sovrani non si tradusse che col dono di sette tots, cinque dei quali erano di tessuto finissimo.

All'uscire da questa udienza, i Francesi visitarono il villaggio e furono alquanto meravigliati di trovarvi due muri di. corallo colossali, di cui alcuni massi pesavano enormemente.

Non ostante alcuni furti commessi dai capi, i dieci giorni di sosta si passarono pacificamente, e il buon accordo che aveva così bene inaugurato i rapporti fra i Francesi e gli Ualanesi, non fu un solo istante turbato.

«È facile convincersi, dice Duperrey, di quale importanza può diventare un giorno l'isola di Ualan. Posta in mezzo alle isole Caroline sulla rotta delle navi che vanno dalla Nuova Olanda in China, essa presenta loro a un tempo porti di carenaggio, acqua in abbondanza e provvigioni di diversa specie. I suoi popoli sono generosi e pacifici, e in breve saranno in grado di offrire ai navigatori un alimento indispensabile in mare, quello che risulterà senza dubbio da

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due troie gravide che abbiamo loro lasciato e che essi hanno ricevuto con la più viva riconoscenza.

Le riflessioni di Duperrey non sono state giustificate dagli avvenimenti, e l'isola di Ualan, sebbene sulla rotta d'Europa per la China, per il sud di Van-Diemen, passo di quei paraggi, non ha maggiore importanza oggidì di quella che aveva cinquant'anni fa. Il vapore ha talmente mutate le condizioni della navigazione, ha prodotto mutamenti tanto radicali, che i navigatori del principio di questo secolo non potevano che far previsioni difficili a verificarsi.

La Coquille non aveva lasciato Ualan che da due giorni, quando scoperse, il 17, 18 e 23 giugno, nuovi isolotti i cui nomi, Pelelap, Takai, Aura, Ugai, Mongul, le furono noti per bocca degli indigeni. Sono i gruppi Mac-Askyll e Duperrey, i cui abitanti somigliano agli Ualanesi, e che, come alle isole Radak, designavano i loro capi col nome di tamons.

Il 24 dello stesso mese la Coquille si trovava in mezzo al gruppo Hogoleu, che Kotzebue aveva cercato sotto una latitudine troppo elevata, e di cui il comandante riconobbe il sito da alcuni nomi (dati dagli indigeni) che si trovano iscritti sulla carta del padre Cantova. La ricognizione idrografica di questo gruppo, che non abbraccia meno di trenta leghe di circonferenza, fu fatta dal signor di Blois, dal 24 al 27 giugno.

Queste isole sono per lo più alte, con le cime vulcaniche. Alcune altre accennano un'origine madreporica.

Quanto agli abitanti sono piccini, mal conformati, affetti da infermità ripugnanti. Se mai il detto: mens sana in corpore sano può trovare la sua applicazione, è proprio qui, giacché questi indigeni non sembrano avere un'intelligenza sviluppata, e sono molto al disotto degli Ualanesi. Le mode straniere sembravano già essersi impiantate in queste isole. Alcuni indigeni portavano dei cappelli a punta alla chinese; altri erano vestiti di stuoie intrecciate con un buco in mezzo che

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permetteva di passarvi la testa; si sarebbe detto il poncho dell'America, del Sud; ma tutti disprezzavano gli specchi, le collane e i sonagli; chiedevano ascie e pezzi di ferro, il che annunciava frequenti rapporti con gli Europei.

Dopo avere riconosciuto le isole Tamatan, Fanendik e Ollap, le Martiri delle vecchie carte, dopo aver invano cercate le isole Namurek e Ifeluk che intorno alla posizione assegnavano Arrowsmith e Malaspina, la Coquille, il 26 luglio, in seguito a una esplorazione del nord della Nuova Guinea, si fermò al porto Borei, sulla costa sud-est, e vi rimase fino al 9 agosto.

Questa sosta non poteva, essere più fruttuosa dal punto di vista della storia naturale e della fisica. Gli indigeni di quest'isola appartengono alla razza dei Papus la più pura. Le loro abitazioni sono case elevate sopra pali e vi si sale mediante un pezzo di legno intagliato che tutte le sere si ritira nell'interno. Questi indigeni delle coste sono, pare, sempre in guerra con quelli dell'interno, i negri Harfus o Arfakis. D'Urville, con la guida di un giovane Papu, poté penetrare fino alle abitazioni di questi ultimi. Erano esseri ospitalieri, dolci e civili, che non somigliavano punto al ritratto che i loro nemici ne avevano fatto.

La Coquille, dopo questa stazione, traversò di nuovo1 le Molucche, sostò pochissimo tempo a Surabaya sulla costa di Giava, e, il 30 ottobre, giunse alle isole di Francia e di Bourbon. Finalmente, dopo una stazione a Sant'Elena, dove gli ufficiali francesi andarono a visitare la tomba di Napoleone, e all'Ascensione, dove una colonia inglese si era stabilita dal 1815, la corvetta entrava a Marsiglia il 24 aprile 1825 dopo aver fatto 31 mesi e 13 giorni di campagna, e percorso 24.894 leghe senza perdita d'uomini, senza malattie e senza avarie.

Il successo tanto notevole di questa spedizione fece onore grandissimo al suo giovane comandante e a tutti gli ufficiali

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che, con uno zelo infaticabile, avevano proceduto a tutte le osservazioni scientifiche. La messe era quindi delle più ricche.

Cinquantadue carte e vari progetti erano stati redatti, e si erano raccolte numerose e nuove collezioni dei tre regni della natura. Numerosissimi vocabolari mediante i quali si sperava ricostituire la storia delle migrazioni dei popoli oceanici, curiose informazioni sulle produzioni dei luoghi visitati, sullo stato del commercio e dell'industria degli abitanti, osservazioni relative alla figura della terra, ricerche di magnetismo, di meteorologia e di botanica, tale era il notevole bagaglio scientifico che la Coquille riportava e la cui pubblicazione era vivamente aspettata dagli scienziati.

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II.

Spedizione del barone De Bouganville. — Sosta a Pondichéry. — La città bianca e la città nera. — La mano diritta e la mano sinistra. — Malacca. — Singapore e la sua recente prosperità. — Soggiorno a Manilla. — La baia di Turane. — Le scimmie e gli abitanti. — Le rocce di marmo di Fay-Foë. — Diplomazia cocincinese. — Gli Anamba. — Il sultano di Madura. — Lo stretto di Madura e d'Alias. — Cloates e Trials, — Van-Diemen. — Bottay-Bay e la Nuova Galles del Sud. — Santiago e Valparaiso. — Ritorno per il capo Horn. — Spedizione di Dumont d'Urville sull'Astrolabe. — Il picco di Teyde. — L'Australia. — Soggiorno alla Nuova Zelanda. — Tonga. — Tabu. — Scaramucce. — Nuova Bretagna e Nuova Guinea. — Prime notizie della sorte di La Pérouse. — Vanikoro e i suoi abitanti. — Fermata a Guaham. — Amboina e Mauado. — Risultati della spedizione.

La spedizione il cui comando fu affidato al barone di

Bouganville non era propriamente né un viaggio scientifico, né una campagna di scoperte. Il suo scopo principale era di mostrare la nostra bandiera nell'estremo Oriente e di far sentire a quei governi poco scrupolosi che la Francia intendeva proteggere i suoi nazionali e i suoi interessi dappertutto e in ogni tempo. Le istruzioni date a questo capitano di vascello portavano inoltre ch'egli avesse a consegnare al sovrano della Cocincina una lettera del re, non che dei doni che dovevano essere imbarcati sulla fregata la Thétis.

Il signor di Boungainville doveva pure occuparsi di ricerche idrografiche, dappertutto ove potesse, senza esporsi però a ritardi notevoli alla sua navigazione, e raccogliere le più estese notizie sul commercio, sulle produzioni e sui mezzi di scambio dei paesi in cui si fermasse.

Due bastimenti erano posti agli ordini del signor di Bouganville. L'uno, la Thétis, era una fregata affatto nuova, che

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portava 44 cannoni e 300 marinai; — nessun bastimento di questa forza, eccetto la Bondeuse, aveva ancora fatto il giro del mondo; — l'altro era la corvetta l'Espérance, con 20 grossi cannoni e 120 uomini di equipaggio.

Il primo di questi bastimenti era sotto gli ordini diretti del

barone di Bouganville, e il suo stato maggiore si componeva di

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ufficiali scelti, fra i quali si notano i nomi di Longue ville, Lapierre e Baudin, che diventarono, l'uno capitano di vascello, l'altro vice ammiraglio e il terzo contro ammiraglio. L'Espérance era comandata dal capitano di fregata de Nourquer du Camper, che, come secondo della fregata Cleopatra, aveva già esplorato gran parte della percorrenza della spedizione. Essa contava fra i suoi ufficiali Turpin, futuro contro ammiraglio, deputato e aiutante di campo di Luigi Filippo, Eugenio Penaud, più tardi ufficiale generale, e Médéric Malavois, che doveva poi essere governatore del Senegal.

Non uno di questi speciali scienziati che si erano veduti ripartiti con tanta prodigalità sul Naturaliste e su tal altro bastimento circumnavigatore, era stato imbarcato sulle navi del barone di Boungainville, e fu per lui, durante tutta la campagna, un vivissimo dispiacere, tanto più che gli ufficiali di sanità impediti dalle cure a un numeroso equipaggio, non potevano assentarsi per lungo tempo da bordo durante le soste.

Il giornale di viaggio del signor di Bouganville si apre con questa giudiziosa nota:

«Pochi anni fa, era un'impresa arrischiata un viaggio intorno al mondo, ed è trascorso meno di mezzo secolo dal tempo in cui una spedizione di questa natura bastava per spargere una certa illustrazione sull'uomo che la dirigeva… Era allora il tempo buono, l'età dell'oro del circumnavigatore, e i pericoli e le privazioni contro cui doveva lottare erano pagate al centuplo, quando, ricco di preziose scoperte, egli salutava al ritorno le rive della patria… Oggi non è più così; il prestigio è scomparso; si fa ora il giro della terra come si faceva il giro della Francia!…»

Che direbbe oggi dunque il barone Yves-Hyacinthe Potentien de Bouganville, il figlio del vice ammiraglio, senatore e membro dell'Istituto, ora che possediamo queste ammirabili navi a vapore tanto perfezionate, e queste carte

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tanto esatte che sembrano farsi giuoco delle lontane navigazioni?

Il 2 marzo 1824, la Thétis lasciava sola la rada di Brest; essa doveva trovare a Bourbon la sua compagna, l'Espérance che, partita da qualche tempo, aveva fatto vela per Rio-Janeiro. Una breve sosta a Teneriffa, dove la Thétis non poté comperare che del vino di cattiva qualità, e pochissime provvigioni di cui aveva bisogno, la vista in distanza delle isole del capo Verde e del capo di Buona Speranza, la ricerca dell'isola favolosa di Saxemboürg e di qualche scoglio non meno fantastico, furono i soli avvenimenti della traversata fino all'isola Bourbon, dove trovò l'Espérance. Bourbon era a quel tempo un punto tanto conosciuto dai navigatori, che non c'era molto da dire quando si era parlato delle sue due rade straniere di San Dionigi e di San Paolo.

San Dionigi, la capitale, situata al nord di Bourbon e alla estremità di una piattaforma inclinata, non era, a dir vero, che una grossa borgata senza cinta, né mura, di cui ogni casa era circondata da un giardino. Nessun monumento pubblico, tranne il palazzo del governatore, posto in una posizione che domina tutta la rada, il giardino botanico e il giardino d'acclimatazione, che data dal 1817. Il primo, posto nel centro della città, possedeva belle passeggiate, sgraziatamente poco frequentate, ed era mirabilmente mantenuto. L'eucalyptus, il gigante delle foreste australi, il phormium tenax, questa canape neozelandese, il casuarina, fiore del Madagascar, il baobab dal tronco di prodigiosa grossezza, il carambolo, il sapetizio, la vaniglia, facevano l'ornamento di questo giardino irrigato da canali d'acqua corrente. Il secondo, sulla groppa d'una collina, formato di terrazze scaglionate, sulle quali i ruscelli portavano vita e fecondità, era consacrato all'acclimatazione degli alberi e delle piante delle regioni europee. I pomi, i peri, i peschi, gli albicocchi ed i ciliegi, essendo perfettamente riusciti, avevano

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già fornito alla colonia delle piante preziose. Si coltivava pure, in questo giardino, la vite, il thè ed altre essenze straniere, fra cui Bouganville ama citare il laurea-argentea dalla foglia brillante.

Il 9 giugno i due bastimenti lasciarono la rada di San Dionigi. Dopo aver girato i banchi della Fortuna e di Saya di Maina, passato al largo dei Séchelles, poi fra gli attols sud delle Maldive, isole a fior d'acqua, coperte di alberi fronzuti che coronano i cespugli di cocchi, riconobbe l'isola di Ceylan e la costa di Coromandel, e calarono l'ancora davanti a Pondichéry.

Questa parte dell'India è lungi dal rispondere all'idea incantatrice che gli Europei hanno potuto formarsene dopo le descrizioni ditirambiche degli scrittori che hanno celebrato le sue meraviglie.

Il numero degli edifici e dei monumenti a Pondichéry è poco notevole, e quando si son visitate le pagode — ciò che vi ha di più curioso — e le caldaie, la cui utilità è l'unica raccomandazione, non si ha più a interessarsi che alla novità delle scene che si rinnovano a ogni passo in questa città divisa in due quartieri ben distinti. All'una, la città bianca dagli edifici eleganti, ma tristi e solitari, non si deve forse preferire l'altra, la città nera, co' suoi bazar, co' suoi bagattellieri, le sue pagode massicce e le danze attraenti delle sue baiadere?

«La popolazione indiana alla costa di Coromandel — dice la relazione — si divide in due classi: la mano destra e la mancina. Questa divisione trae origine dal governo di un nabab, sotto il quale il popolo si rivoltò; tutti quelli che rimasero fedeli al principe furono distinti con la qualifica di mano destra, e gli altri con quella di mancina. Queste due grandi tribù, che dividono quasi in eguali proporzioni tutta la popolazione, sono costantemente in istato di ostilità per ciò che riguarda i gradi e le prerogative che gli amici del principe avevano ottenuti. Costoro però sono rimasti in possesso degli

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impieghi governativi, mentre gli altri si occupano di commercio e di mestieri. Ma per mantenere fra loro la pace, bisognò proibire le antiche processioni e cerimonie… La mano destra e la mancina si suddividono in diciotto caste o mestieri, piene di pretensioni e di pregiudizi, che la frequenza degli Europei da secoli non ha diminuite. Da ciò i sentimenti di rivalità e di disprezzo che sarebbero fomite di guerre sanguinose, se gli Hindus non avessero orrore del sangue e se il loro carattere non li allontanasse da ogni azione violenta. Questa dolcezza di costumi e questo principio sempre attivo di dissenso serve a spiegare il fenomeno politico di oltre cento milioni d'uomini che subiscono il giogo di venticinque o trentamila stranieri.»

La Thétis e l'Espérance lasciarono il 30 luglio la rada di Pondichéry, attraversarono il golfo del Bengala, riconobbero le isole Nicobar e Pulo-Penang, portofranco in cui si vedevano in una volta trecento navi; poi imboccarono lo stretto di Malacca e si fermarono in questo porto olandese, dal 24 al 26 luglio, per riparare ad alcune avarie toccate all'Espérance, in maniera che poté star in mare fino a Manilla.

I rapporti con gli abitanti furono tanto buoni in quanto che furono suggellati con pranzi dati a terra e sulla Thétis in onore dei re di Francia e dei Paesi Bassi.

Del resto, gli Olandesi si aspettavano di cedere presto questa colonia agli Inglesi, come avvenne infatti qualche tempo dopo. Eppure, dal punto di vista della fertilità del suolo, della bellezza della situazione, della facilità di procurarsi gli oggetti di prima necessità, Malacca era superiore di molto alle sue rivali.

Bouganville lasciò questa rada il 26 agosto, e fu contrariato da venti, da calme e da uragani durante tutta la traversata dello stretto. Erano i paraggi più particolarmente frequentati dai pirati malesi. Epperò, sebbene la divisione fosse

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in forza da non temere alcun nemico, il comandante fece collocare delle sentinelle e prese le precauzioni necessarie per evitare qualunque sorpresa. Non è raro di vedere alcuni di questi vascelli montati da cento uomini d'equipaggio, e più d'una nave mercantile era stata recentemente preda di questi incorretti ed incorreggibili ladri di mare.

Ma la divisione non scorse nulla di sospetto e continuò la sua rotta fino a Singapore.

Era un singolare miscuglio di razze la popolazione di questa città. Vi si trovava l'europeo occupato nei diversi rami di commercio; dei mercanti armeni ed arabi; chinesi coltivatori ed esercenti diversi mestieri pei bisogni della popolazione. Quanto ai Malesi, spostati in mezzo a questa nascente civilizzazione in cui vivono nella domesticità, si addormentano nella loro indolenza e nella loro miseria. Quanto agli Hindus, scacciati e banditi dalla loro patria per delitti, non praticano che quei mestieri non confessabili che impediscono di morir di fame alla canaglia di tutte le grandi città.

Nel 1819 soltanto gli Inglesi avevano acquistato dal sultano malese di Djohorn il diritto di stabilirsi nella città di Singapore. La piccola borgata in cui si stabilirono non contava allora che 150 abitanti; ma grazie a sir Stamfard Raffles, non tardò a sorgere una città al posto delle modeste capanne degli abitanti; con una saggia misura amministrativa era stato soppresso ogni diritto di dogana, e ciò che la nuova città doveva alla natura, cioè un porto ampio e sicuro, era stato abilmente completato dalla mano dell'uomo.

La guarnigione non contava che 300 soldati indiani e 30 cannonieri; le fortificazioni non esistevano ancora, ed il materiale d'artiglieria comprendeva solamente una batteria di 20 cannoni e altrettanti pezzi di campagna di bronzo.

A dir vero, Singapore non era che un magazzino di deposito di commercio. Da Madras gli giungevano le tele di

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cotone; da Calcutta, l'oppio; da Sumatra, il pepe; da Giava, l'arak e le droghe; da Manilla, lo zucchero e l'arak; e tutte queste merci erano poi mandate in Europa, in China, nel Siam, ecc.

Nessuna traccia di pubblici edifici. Non v'erano né magazzini pubblici, né bacini di carenaggio, né cantieri di costruzione, né caserme; ma vi si notava una chiesuola ad uso degli indigeni convertiti.

Il 2 settembre la divisione riprese la sua rotta e raggiunse senza incidenti il porto di Cavile. Il comandante dell'Espérance, signor Du Camper, che un soggiorno di parecchi anni a Lugon aveva messo in relazione coi principali abitanti, ricevette ordine di raggiungere Manilla, dove doveva prevenire il governatore generale delle Filippine dell'arrivo delle fregiate, dei motivi della loro sosta, poi scandagliare le sue disposizioni e presentire l'accoglienza che sarebbe fatta ai Francesi. L'intervento recente di questi in Ispagna li poneva infatti in una condizione assai delicata in faccia al governatore, don Juan Antonio Martinez, chiamato a quel posto dal governo delle Cortes che costoro avevano rovesciato. Le apprensioni del comandante non si confermarono e trovò presso le autorità spagnuole, col concorso più premuroso, la più attiva buona volontà.

La baia di Cavile, ove i bastimenti avevano gettato l'ancora, si ingombrava sempre più di melma. Era tuttavia il porto principale delle Filippine. Gli Spagnuoli vi possedevano un arsenale molto ben munito, nel quale lavoravano degli indiani dei dintorni, operai destri ed intelligenti, ma pigri all'eccesso.

Mentre si procedeva alla foderatura della Thétis ed agl'importanti lavori di cui abbisognava lo stato dell''Espérance, i commessi e gli ufficiali sorvegliavano a Manilla la confezione dei viveri e dei cordami. Questi ultimi,

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fatti in abaca, fibre d'un banano che volgarmente sì chiama canape di Manilla, benché noti per la loro grande elasticità, non fecero buon uso a bordo dei bastimenti.

Il tempo della sosta fu dolorosamente disturbato da terremoti e da turbini che sono periodici a Manilla. Il 24 ottobre il terremoto fu sì violento, che il governatore, le truppe e una parte degli abitanti dovettero abbandonare all'istante la città. Il danno fu elevato a tre milioni di franchi; una quantità di case crollò, otto persone furono seppellite sotto le rovine e un buon numero furono ferite.

Non appena la popolazione cominciava a rassicurarsi, uno spaventevole uragano venne ad accrescere la pubblica calamità. Non durò che parte della notte del 31 ottobre, e l'indomani, quando si levò il sole, si sarebbe potuto credere di non aver fatto che un brutto sogno, se la vista delle campagne devastate, il deplorevole aspetto della rada con sei vascelli alla costa e gli altri quasi intieramente abbandonati non avessero fatto testimonianza della realtà del fenomeno. Tutt'intorno alla città il paese era devastato, i raccolti perduti, gli alberi, anche i più grossi, violentemente sradicati, i villaggi distrutti. Era uno spettacolo straziante!

La Espérance aveva il suo albero di maestra e quello di mezzana rasi a qualche piede al disopra del ponte, le sue impagriettature portate via.

La Thétis, più fortunata, era uscita quasi salva da quella spaventevole tempesta. La pigrizia degli operai, il gran numero delle feste ch'essi osservano, decisero tosto Bouganville a separarsi momentaneamente dalla sua compagnia, e il 12 dicembre faceva vela per la Cocincina.

Ma prima di seguire i Francesi alle sponde poco frequentate di questo paese, conviene percorrere con essi Manilla ed i suoi dintorni.

La baia di Manilla è senza dubbio una delle più vaste e

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delle più belle del mondo; i suoi due passi non erano ancora difesi, e ciò permise, nel 1798, a due fregate inglesi di penetrare nel porto e di prendere parecchi bastimenti, sotto il cannone medesimo della città.

L'orizzonte è chiuso da una barriera di montagne, che finisce al sud col Taal, vulcano oggi quasi spento, ma le di cui eruzioni hanno prodotto parecchie volte delle disgrazie spaventevoli. Nella pianura, in mezzo a campi di riso, delle casupole o delle case isolate animano il paesaggio.

Dirimpetto all'entrata della baia s'inalza la città che conta centosessantamila abitanti, col suo faro ed i suoi lunghi sobborghi. È bagnata dal Passig, fiume che esce dal lago di Bay, e questa posizione eccezionale le assicura dei vantaggi che più di una capitale le invidierebbe.

La guarnigione, senza comprendervi la milizia, si componeva a quel tempo di 2200 uomini di truppa. Accanto alla marina militare, sempre rappresentata da qualche bastimento in stazione, era ordinata una marina propria alla colonia, che aveva ricevuto il nome di Sutil, sia in causa della piccolezza dei bastimenti impiegati, sia in causa della loro rapidità. Questa marina, di cui tutti i gradi sono fatti per nomina del governatore generale, si componeva di golette e di scialuppe cannoniere destinate a proteggere le coste e i bastimenti mercantili contro i pirati delle isole Sulu. Non si può dire che questo ordinamento, che costa molto, abbia prodotto grandi risultati. Bouganville ne dà un esempio singolare: i Suluani, avendo, nel 1828, portato via sulle coste di Lucon 3000 abitanti, una spedizione diretta contro di essi era costata centoquarantamila piastre per uccider loro sei uomini!

Al tempo del soggiorno della Thétis e dell'Expérance regnava alle Filippine un grande fermento, e il contraccolpo degli avvenimenti che avevan insanguinato la metropoli si faceva sentire dolorosamente. Nel 1820, il 20 dicembre,

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massacro di bianchi per parte degli Indiani; nel 1824, rivolta di un reggimento e assassinio di un antico governatore, il signor De Folgueras; tali erano state le prime sommosse che avevano scossa la dominazione spagnuola. I meticci, che formavano, coi Tagals, la classe più ricca e più industriosa, e in pari tempo la vera popolazione indigena, davano a quel tempo legittimi timori all'autorità, giacche si sapeva ch'essi volevano liberarsi di chiunque non fosse nato alle Filippine. Essi comandavano i reggimenti indigeni, essi possedevano la maggior parte delle curie; si vede ch'essi godevano d'una influenza notevole, e si poteva domandarsi se non si era alla vigilia di una di quelle rivoluzioni che hanno privato la Spagna delle sue più belle colonie.

La navigazione della Thétis fino a Macao fu contrariata da acquazzoni, da raffiche e da freddi che furono tanto più sensibili in quanto che per parecchi mesi i navigatori avevano provato una temperatura, di 27°. Appena fu calata l'ancora nel fiume Canton, molti battelli del paese vennero ad attorniare la fregata, offrendo la vendita di legumi, pesci, aranci e una quantità di inezie un tempo rare, oggi più comuni, ma sempre costose.

«La città di Macao, incassata fra aride colline, dice la relazione, si lascia scorgere da lontano per la splendida bianchezza dei suoi edifizi, La sua esposizione è a levante e le case che costeggiano la spiaggia, elegantemente costrutte e ben allineate, disegnano i contorni della riva. Questo è il bel quartiere della città, quello che abitano gli stranieri; più in là, il terreno si eleva bruscamente: altre facciate, quelle di parecchi conventi che si fanno notare per la loro mole e la loro architettura, si mostrano al secondo piano, e l'assieme è coronato dalle mura merlate dei forti sui quali sventolava la bandiera bianca con le armi del Portogallo. All'estremità nord e sud della città le batterie discendono per tre piani fino al mare,

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e vicino alla prima, un po' in dentro, si trova una chiesa il cui portico e le cui decorazioni esterne sono d'un effetto graziosissimo. Parecchie sampangs, dei giunchi e dei battelli da pesca ancorati vicini a terra, ravvivano questo quadro, la cui cornice parrebbe meno cupa se la vegetazione spiegasse un tantino delle sue ricchezze sulle alture che circondano la città.»

Per la sua posizione d'intermediaria del commercio fra la

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China e il mondo intiero, Macao, una delle più importanti colonie del Portogallo, aveva per molto tempo fruito di una splendida prosperità.

Nel 1825 non era più la stessa cosa, e questa città non si sosteneva più che col contrabbando dell'oppio.

La sosta della Thétis a Macao non aveva altro scopo che deporvi dei Missionari e mostrarvi la bandiera francese. Epperò Bouganville lasciò questa città l'8 gennaio 1825.

Nessun avvenimento degno di nota interessò la navigazione fino alla baia di Turane. Ma, giungendovi, Bouganville apprese che l'agente francese, signor Ghaigneau, aveva lasciato Huè per Saigon, con l'intenzione di noleggiare una barca con destinazione a Singapore. Il comandante non sapeva più a chi dirigersi, e privato della sola persona che potesse far riuscire i suoi progetti, ne teme risultati poco soddisfacenti. Egli spedì però subito a Huè una lettera che esponeva l'oggetto della sua missione e nella quale domandava di recarsi in persona, accompagnato da alcuni ufficiali, in questa capitale. Il tempo che trascorse fino al ricevimento della risposta fu messo a profitto dai Francesi che visitarono minuziosamente la baia ed i suoi d'intorni, nonché le famose roccie di marmo, oggetto di curiosità per tutti i viaggiatori.

Alcuni autori, e segnatamente Horsburgh, dicono essere la baia di Turane una delle più belle e delle più ampie dell'universo. Tale non è l'opinione di Bouganville, che non ne considera come sicura se non una piccolissima parte. Il villaggio di Turane è situato sulla riva del mare, all'entrata del canale di Fay-Foe, sulla cui sponda destra sorge un forte costruito dagli ingegneri francesi con ispalti, bastioni e fossati asciutti.

I Francesi, considerati come antichi alleati, erano sempre accolti con benevolenza e fiducia.

Così non poteva dirsi, pare, degli Inglesi, ai quali non si

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permetteva di scendere a terra, mentre i marinai della Thétis ottennero subito il diritto di pesca e di caccia, intiera libertà d'andare e venire ed ogni facoltà per aver viveri freschi.

Mercè la libertà che era stata loro lasciata, gli ufficiali poterono dunque percorrere il paese e fare interessanti osservazioni. Uno di essi, il signor de la Touanne, traccia il seguente ritratto degli indigeni:

«La loro statura è piuttosto al disotto della media, e a questo riguardo sono press'a poco come i Chinesi di Macao. La loro pelle è di un bruno giallastro, la faccia è piatta e rotonda; la fisionomia senza espressione e gli occhi languidi, non però obliqui come quelli dei Chinesi. Hanno il naso schiacciato, la bocca grande, le labbra rigonfie in modo alquanto sgradevole, e per l'abitudine che hanno tutti, uomini e donne, di masticare l'arec mescolato al bètel e alla calce, sono costantemente sporche o annerite. Le donne sono quasi alte come gli uomini, non hanno un esteriore più gradevole, e la ributtante indecenza comune ai due sessi finisce di privarle di ogni attrattiva.» Ciò che colpisce maggiormente è la miseria di questi abitanti, paragonata alla fertilità delle campagne, e questo evidente contrasto svela l'egoismo e l'incuria del Governo, non meno che l'insaziabile avidità dei mandarini.

Se le pianure producono del mais , patate dolci, manioca, tabacco e riso il cui bell'aspetto rivela le cure loro prodigate, il mare nutre una quantità di pesci squisiti e le foreste ricettano gran numero di uccelli, tigri, rinoceronti, bufali ed elefanti, nonché scimmie che dappertutto si vedono numerose.

Quest'ultime sono alte quattro piedi, hanno la faccia colorata, il corpo grigio perla, le coscie nere e le gambe rosse. La loro forza muscolare è prodigiosa, saltano di ramo in ramo distanze enormi. Nulla di più curioso che vedere una dozzina di questi animali su uno stesso albero a far le più strane smorfie e contorsioni.

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«Un giorno che mi trovavo solo sul limitare del bosco, dice Bouganville, ne ho ferita una che venne a mostrare il suo naso ai raggi del sole. Essa si prese la faccia con ambo le mani, e mandò gemiti tali che in un momento fu circondata da una trentina di scimmie. Mi affrettai a ricaricare il mio fucile non sapendo cosa dovessi aspettarmi, giacché vi sono di questi animali che non temono di affrontare l'uomo; ma la banda s'impadronì del ferito e si cacciò di nuovo nel folto del bosco.»

Un'altra escursione ebbe per iscopo le roccie di marmo della riva Fay-Foe. Vi sono colà delle caverne curiosissime, In una di queste si nota un'enorme colonna sospesa alla volta e la cui base è assolutamente staccata dal suolo. Non si vedevano stalattiti in questa caverna, ma in fondo si udiva il rumore di una cascata d'acqua.

Un po' più lungi, all'aria libera, i Francesi visitarono le ruine di un antico edificio, presso una grotta in cui trovavasi un idolo. In un canto esisteva un condotto laterale che Bouganville seguì e che lo condusse in una immensa rotonda rischiarata dall'alto e che terminava con una volta di 60 piedi d'elevazione per lo meno. Si figurino delle colonne di marmo di variati colori, alcune delle quali sembravano tagliate nel bronzo in causa dell'intonaco verdastro che il tempo e l'umidità vi avevano impresso; delle liane pendenti verso il suolo, le une a fasci, le altre a cordone, come per ricevere lustro; dei gruppi di stalattiti sospesi disopra delle nostre teste, simili a enormi canne d'organo; degli altari, delle statue mutilate, dei mostri orrendi tagliati nel sasso; finalmente tutta una pagoda, che non occupava però che una piccolissima parte di quell'ampio spazio! Si adunino ora questi oggetti in una medesima cornice, e si rischiarino di una luce confusa, incerta, e si avrà forse qualche idea di ciò che colpì a un tratto i miei occhi.»

Il 29 gennaio 1825 l'Espérance si univa finalmente alla fregata: due giorni dopo giunsero due inviati della corte di Huè,

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che venivano a chiedere a Bouganville la lettera di cui era portatore. Ma siccome questi aveva ordine di non consegnarla che all'imperatore in persona, queste esigenze condussero a dei negoziati tanto lunghi quanto puerili.

Le forme cerimoniose di cui si circondavano gl'inviati cocincinesi ricordarono a Bouganville l'aneddoto di quell'inviato e di quel governatore di Giava che, facendo pompa di gravità e di prudenza diplomatica, rimasero 24 ore in presenza l'un dell'altro e si lasciarono senza essersi diretti la parola. Il comandante non era uomo da dar prova di tanta longanimità, ma non poté ottenere l'autorizzazione che egli sollecitava, e la faccenda si terminò con uno scambio di regali che non impegnavano per nulla.

Insomma il risultato più chiaro di tutte queste conferenze era la certezza data dall'imperatore che vedrebbe con piacere le navi francesi visitare i suoi porti, a condizione di uniformarsi alle leggi dell'impero.

Dopo il 1817 i Francesi erano stati i primi, quasi, che avessero fatto passabili affari con la Cocincina, mercè la presenza dei loro residenti alla corte di Huè, e dipendeva da essi soltanto di conservare una situazione eccezionale, che le antiche relazioni amichevoli col governo cocincinese aveva loro procurato.

I due bastimenti lasciarono la baia Turane il 17 febbraio, col proposito di visitare il gruppo delle Anambas, isole che non erano ancor state esplorate. Il 3 marzo si ebbe cognizione di quell'arcipelago, che si trovò non somigliare in alcun modo alle Anambas indicate sulla carta inglese del mare della China. Boungainville fu gradevolmente sorpreso di vedere svolgersi sott'occhio una quantità d'isole e d'isolotti che dovevano presentare eccellenti ancoraggi durante i monsoni.

Le due navi penetrarono in mezzo a questo» arcipelago, di cui fecero i rilievi idrografici. Mentre le imbarcazioni erano

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occupate in questo lavoro, s'avvicinarono due piroghe di bella costruzione. Una di esse accostò la Thétis, e un uomo d'una cinquantina, d'anni, col petto coperto di cicatrici, con la mano destra priva di due dita, salì a bordo. Era già disceso sotto coperta, quando la vista delle rastrelliere d'armi e dei cannoni lo risolse a ritornare alla sua piroga. L'indomani due altri canotti, montati da Malesi dalla fisionomia feroce, s'accostarono. Costoro portavano dei banani, cocchi e ananas, che scambiarono con del biscotto, un fazzoletto e due piccole ascie.

Ebbero luogo alcuni altri abboccamenti con quegli isolani armati di kriss e di picche di ferro, taglienti da due parti. Si riconobbero in essi dei pirati forsennati.

Sebbene i Francesi non avessero esplorato che una parte di quelle isole, le informazioni che avevano raccolto non erano meno interessanti per la loro novità. La prima condizione che esige una numerosa popolazione è l'abbondanza dell'acqua. Ora questa sembrava assai scarsa; di più la terra vegetale è lungi dall'essere spessa, e le montagne non essendo separate che da stretti burroni e non da pianure, ne deriva che la coltura è quasi impossibile. Gli alberi stessi, ad eccezione dei cocchi, non raggiungono che un'altezza mediocre; epperò la popolazione, a dire di un indigeno, non si eleverebbe a più di 2000 abitanti, cifra che parve ancora esagerata a Bouganville.

La felice situazione di queste isole, sulle due rotte dei bastimenti che fanno il commercio della China, avrebbe dovuto designarle da tempo all'attenzione dei navigatori. Bisogna senza dubbio attribuire alla loro mancanza di risorse l'abbandono nel quale furono lasciate.

La poca cortesia e la poca fiducia che Bouganville trovò in quegli isolani, il caro prezzo delle derrate, poi i rovesci del monsone dei mari della Sonda determinarono il comandante di sospendere la ricognizione di questo arcipelago per guadagnare

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al più presto Giava, dove le sue istruzioni gli prescrivevano di ancorare.

L'8 marzo fu segnalato per la partenza dei due bastimenti, che riconobbero anzitutto le isole Victory, Barren, Saddle e Carnei; poi passarono lo stretto di Gaspar, la cui traversata non durò più di due ore, sebbene si prolunghi spesso per parecchi giorni quando i venti non sono favorevoli: e calarono l'ancora a

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Surabaya dove appresero la morte di Luigi XVIII e l'ascensione al trono di Carlo X.

Siccome infieriva ancora il colera, che aveva già fatto, nel 1822, trecento vittime a Giava, Bouganville ebbe la precauzione di tener a bordo il suo equipaggio al riparo del sole, e proibì assolutamente qualsiasi comunicazione coi battelli carichi di frutta, il cui uso era tanto pericoloso agli Europei, segnatamente al tempo delle pioggie in cui si entrava. Nonostante questi ordini così savi, la dissenteria fece numerose vittime sulla Thétis.

La città di Surabaya è situata a una lega dall'imboccatura del fiume, e non vi si può giungere che risalendo questo corso d'acqua con la fune. I suoi accessi sono animati e tutto rivela una popolazione attiva e commerciale. Una spedizione nell'isola Celebes avendo assorbito tutte le risorse del Governo ed essendo vuoti i magazzini, i Francesi, dovettero ricorrere ai negozianti chinesi, i più sfrontati ladri che si possano trovare. Non vi è astuzia che non abbiano adoperato, non furfanteria che non abbiano tentata. Epperò la sosta a Surabaya lascia in tutti un disaggradevole ricordo.

Al contrario, non fu la stessa cosa del ricevimento che i Francesi ebbero d'ai notabili della colonia, e non dovettero che lodarsi della cortesia di tutti gli addetti all'amministrazione.

Andare a Surabaya senza far visita al sultano di Madura, la cui riputazione d'ospitalità aveva passato i mari, sarebbe stato come andare a Parigi senza visitare Versailles e Trianon.

Dopo un riconfortante lunch preso a terra, lo stato maggiore dei bastimenti salì in calessi a quattro cavalli. Ma le strade erano tanto cattive, i cavalli tanto sfiniti, che si sarebbe rimasti più volte impantanati, se alcuni uomini di sentinella ne' luoghi difficili non avessero energicamente spinto le ruote. Finalmente si arrivò a Bacalan, ed i calessi si fermarono nella terza corte del palazzo, a piedi d'una gradinata, in cima alla

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quale il principe ereditario ed il primo ministro aspettavano i viaggiatori.

Il principe Adden Engrate apparteneva alla più illustre famiglia dell'arcipelago Indiano. Il suo costume era quello dei capi giavanesi in assetto civile. Una larga sottana d'indiana a fiori, che lasciava appena vedere due pantofole chinesi, un panciotto bianco con bottoni d'oro sotto una piccola veste a falde di panno bruno, con bottoni di diamanti, un fazzoletto in testa che sormonta un caschetto a visiera, avrebbe dato a questo grande personaggio l'aspetto grottesco di un'amazzone di carnevale, se la facilità delle maniere e la dignità del contegno non avessero corretto l'eccentricità del suo costume.

Il palazzo, o kraton, era costituito da una serie di edifici ornati di gallerie, nelle quali a mezzo di tettoie e tende era mantenuta una temperatura di una freschezza deliziosa. Lampadari, mobili europei di buon gusto, belle tappezzerie, specchi e cristalli contribuivano alla decorazione delle ampie sale e degli appartamenti. Un corpo di abitazione senz'aperture verso corte e prospiciente i giardini è riservato alla raion (sovrana) e alle odalische.

Il ricevimento fu dei più cordiali, e la colazione, servita all'europea, squisita.

«La conversazione, dice Bouganville, si faceva in inglese, e non furono risparmiati i toasts; il principe bavette alla nostra salute con del thè messo in bottiglia, che si versava a guisa del madera. Capo della religione ne' suoi Stati, egli segue rigorosamente i principi del Corano, non beve mai vino e passa gran parte del tempo alla moschea; ma però è buon commensale, e la sua conversazione non risente per nulla dell'austerità che si potrebbe supporre in una vita così regolata. È vero che non la passa tutta in preghiere, e le scene di cui fummo testimoni darebbero un'idea ben differente de' suoi costumi, se la religione del Profeta non concedesse su questo

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punto una grande larghezza a' suoi seguaci. «Nel pomeriggio si visitarono le rimesse che contenevano

delle bellissime vetture, alcune delle quali, costrutte nell'isola, erano così ben lavorate, che era assolutamente impossibile distinguerle da quelle importate. Poi si fecero esercizi al tiro dell'arco. Ritornando al palazzo si fu accolti al suono di una musica malinconica, che il buffone del principe interruppe presto co' suoi latrati e con le sue bizzarrie, dando prova di un'agilità e flessibilità meravigliose. Alla danza, o meglio alle pose di una baiadera, successero le emozioni del ventuno; dopo di che, ciascuno andò a cercare un riposo che si era ben guadagnato. L'indomani, nuovi giuochi e nuovi esercizi. Dapprima furono lotte fra uomini e fanciulli; poi combattimenti di quaglie: finalmente alcuni esercizi eseguiti da un camello e da un elefante. Alla colazione seguì una passeggiata in calesse, il tiro all'arco, la corsa nei sacchi, l'equilibrio del paniere, ecc., e tutte le giornate del sultano si passavano in tal modo.»

I segni di rispetto e di devozione che si danno a quel sovrano sono veramente meravigliosi. Nessuno sta in piedi dinanzi a lui, e prima di parlargli bisogna prostrarsi. Lo si serve in ginocchio: «tutti, perfino il suo figlioletto di quattro anni, congiungono le mani rivolgendosi a lui».

Bouganville approfittò del suo soggiorno a Surabaya per recarsi a visitare alle montagne di Seugger il vulcano di Brume. Questa escursione, nella quale percorse l'isola per un'estensione di circa cento miglia dall'est all'ovest, fu delle più interessanti.

Surabaya possiede curiosi monumenti, che sono per la maggior parte opera di un antico governatore, il generale Deemdels; essi sono: l'officina delle costruzioni, la zecca, il solo stabilimento di questo genere a Giava. l'ospedale, la cui situazione è ben scelta e che conta quattrocento letti.

L'isola di Madura, in faccia a Surabaya, che non ha meno di cento miglia di lunghezza su quindici o venti di larghezza,

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non produce abbastanza da nutrire la sua popolazione, sebbene questa sia sparsa. La sovranità di quest'isola si divide fra il sultano di Bacalan e quello di Sumanap, che forniscono annualmente seicento uomini di reclute agli Olandesi, senza contare le leve straordinarie. Fin dal 20 aprile apparvero dei

sintomi di dissenteria. Epperò, due giorni dopo, i due bastimenti spiegarono le vele. Non ci vollero meno di sette giorni per raggiungere lo stretto di Madura. Essi risalirono la

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costa settentrionale di Lombock, e passarono per lo stretto di Alias, fra Lombock e Sumbava.

La prima di queste isole presenta al piede delle montagne un ridente tappeto di verdura, sparso di gruppi d'alberi dal tronco elegante. Su questa costa non mancano buoni ancoraggi, e si può procurarsi facilmente l'acqua e la legna occorrenti.

Ma dall'altro lato vi sono numerose alture dall'aspetto arido, una terra elevata, con una catena d'isole dirupate ed inaccessibili che impediscono d'avvicinarvisi; questo è Lombock, di cui bisogna fuggire i fondi di corallo e le correnti ingannatrici.

Due soste ai villaggi di Baly e di Peeyow per procurarsi viveri freschi, permisero agli ufficiali di procedere ai rilievi idrografici di. questa parte della costa di Lombock.

Uscendo dallo stretto, Bouganville cercò l'isola Cloates, senza trovarla, il che è facile spiegarsi, poiché numerose navi, da ottant'anni, erano passate sulla posizione segnata dalle carte. Quanto alla Trials, queste roccie, viste nel 1777 dal Fredensberg-Castle, non sarebbero, stando al capitano King, che le isole Montebello, che corrispondono perfettamente alla descrizione dei Danesi.

Bouganville aveva istruzione di riconoscere i dintorni del fiume dei Cigni, dove il governo francése sperava trovare un luogo conveniente per deportarvi i disgraziati ammucchiati ne' suoi bagni.

Ma l'Inghilterra aveva allora inalberata la sua bandiera sulle terre di Nuyts e di Leuwin, nel porto del Rio-Giorgio, nella baia del Geografo, nel piccolo porto Lesichenaut e sul fiume dei Cigni. Questa ricognizione non aveva dunque più scopo. In ogni caso, era impossibile procedervi in causa dei ritardi che aveva subito la spedizione, la quale, invece di arrivare in quei paraggi nel mese di aprile, vi giungeva solo alla metà di maggio, vale a dire nel cuore dell'inverno in quella

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contrada. Infatti, quella costa non offre alcun riparo; appena il vento soffia, l'onda è enorme, e il ricordo delle prove sofferte dal Geografo, nella stessa stagione, era ancor vivo nella mente dei Francesi.

Il cattivo tempo accompagnò la Thétis e l'Espérance fino a Hofoart-Town, la più notevole delle colonie inglesi sulla terra di Van-Diemen. Non ostante il vivo desiderio che aveva il comandante di fermarsi in questo luogo, dovette fuggire dinanzi alla tempesta e risalire a Port-Jackson.

Un bellissimo faro ne indicava l'entrata; era una torre di granito di 76 piedi inglesi di altezza, la cui lanterna illuminata a gas poteva scorgersi col bel tempo a otto o nove leghe di distanza.

Il governatore, sir Thomas Brisbane, fece cordiale accoglienza alla spedizione, e prese subito le necessarie misure per la fornitura dei viveri. Essa si fece per aggiudicazione al ribasso, e la massima buona fede presiedette all'esecuzione del mercato.

La corvetta dovette essere arenata perchè si potesse ristabilirne la foderatura; ma questa operazione, al pari di quelle meno importanti, che furono fatte alla Thétis, non richiesero che poco tempo.

Del resto, questa sosta fu messa a profitto da tutto lo stato maggiore a cui interessavano profondamente i progressi meravigliosi di quella colonia penitenziaria. Mentre Bouganville divorava tutte le opere sino a quel giorno apparse sulla Nuova Galles del Sud, gli ufficiali percorrevano la città e si fermavano meravigliati all'aspetto degli innumerevoli edifici costruiti dal governatore Macquarie: caserme, ospedale generale, mercato, ospizi di orfanelle, di vecchi e d'infermi, prigioni, forti, chiese, palazzo del governo, fontane, porte della città e finalmente «le scuderie del governo, che si piglieranno sempre, a prima vista, pel palazzo medesimo.»

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Ma vi erano delle ombre nel quadro: le strade larghe e ben allineate non erano né selciate né illuminate; erano anzi così poco sicure di notte, che parecchie persone vi furono assassinate e svaligiate nel bel mezzo di Georges-Street, la più frequentata di Sydney. Se le vie della città erano poco sicure, i dintorni lo erano ancor meno. Deportati, vagabondi percorrevano la campagna a bande e si erano resi temibili al punto che il Governo aveva allora ordinato una compagnia di cinquanta dragoni all'unico scopo di perseguitarli.

Gli ufficiali francesi fecero tuttavia parecchie interessanti escursioni a Parramatta, sulle sponde del Nepeau, fiume alquanto incassato, dove visitarono il dominio di Regent-Ville; poi alle «pianure d'Emù» stabilimento agricolo del Governo, una specie di fattoria-modello; finalmente assistettero al teatro ad una grande rappresentazione che fu data in loro onore.

È noto il piacere che hanno tutti i marinai di montare a cavallo. In tal modo i Francesi percorsero le pianure d'Emù. I nobili animali, importati dall'Inghilterra, non avevano degenerato alla Nuova-Galles; erano sempre vivaci, come poté accorgersene un giovane ufficiale. Questi, rivolgendosi al cicerone, signor Cox, gli diceva in inglese: «Mi piace assai questo esercizio dell'equitazione», quando fu lanciato di botto dal disopra del cavallo e si trovò sull'erba, prima d'aver potuto rendersi conto di ciò che era accaduto. Si rise tanto più in quanto che l'abile cavaliere non si era fatto alcun male.

Al di là delle coltivazioni del signor Cox si stende la «foresta aperta», come dicono gl'Inglesi, che si può percorrere a cavallo, dove nulla impaccia il cammino, foresta di eucalipti e di acacie di diverse specie e di casuarinas dal cupo fogliame.

L'indomani si fece una passeggiata sul fiume Nepeau, affluente dell'Hawkesbury. Questa corsa fu fruttuosa per la storia naturale. Bouganville ne arricchì la sua collezione di anitre, di gallinelle, di una bellissima specie di martin-

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pescatori, «king's fisher», di cacatoes. Nel bosco si udiva il grido spiacevole del fagiano-lira e di altri due uccelli che imitano al punto da ingannarsi il tintinnìo d'una campanella e il rumore stridente della sega.

Questi non sono i solo uccelli rimarchevoli per la singolarità del loro canto, bisogna citare altresì il fischiatore, l'arrotino, il motteggiatore, il cocchiere che imita lo schioccare della frusta e il laughing-jackass, dai continui scoppi di riso che finiscono per dare singolarmente ai nervi.

Il signor John Cox fece pure dono al comandante di due talpe acquatiche, diversamente dette ornitorinchi. I costumi di questi curiosi animali anfibi erano ancora poco conosciuti dai naturalisti europei e molti musei non ne avevano un solo esemplare.

Un'escursione fu fatta alle montagne Azzurre ove si visitò la famosa Spianata del Re, King's tableland, donde si gode d'una magnifica vista. A grande stento si arriva su di un poggio, e d'un tratto un abisso di mille e seicento piedi di profondità s'apre sotto i piedi; è un immenso tappeto verde che si svolge sopra l'estensione di venti miglia; a destra ed a mancina sonvi i fianchi lacerati della montagna, violentemente scostati da qualche terremoto; più vicino scorre rumoroso un torrente che si precipita a cascate in fondo alla valle; è la cateratta conosciuta col nome di Aspley's water-fall. Poi una caccia al kanguroo nei Cow-Pastures col signor Mac-Arthur, uno degli uomini che avevano operato di più per la prosperità della Nuova-Galles.

Bouganville trasse ancora profitto del suo soggiorno a Sydney per porre la prima pietra di un monumento alla memoria di La Pérouse, e questo cenotano fu inalzato nella baia Botanica, al posto medesimo in cui il navigatore aveva stabilito il suo campo.

Il 21 settembre la Thétis e l'Espérance spiegarono

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finalmente le vele. Passarono al largo di Piteairn, dell'isola di Pasqua, e di Juan Fernandez, diventato luogo di deportazione pei delinquenti del Chili dopo essere stata occupata per mezzo secolo dagli Spagnuoli che vi coltivavano la vite.

Il 23 novembre la Thétis, che durante una fitta nebbia si era separata dall'Espérance, ancorava a Valparaiso dove trovava la divisione dell'ammiraglio di Rosamel.

Nella rada regnava grande ammirazione; si preparava una spedizione contro l'isola Chiloe che apparteneva ancora alla Spagna, col direttore supremo, il generale Ramon Freire y Serrano, di cui si è già parlato.

Bouganville, al pari del viaggiatore russo Lütké, è d'opinione che la posizione di Valparaiso non giustifica il suo nome. Le strade sono sudicie, strette e talmente ripide che diventa assai faticoso percorrerle. La sola parte gradevole è il sobborgo dell'Almendral, che addossato a giardini ed a orti, lo sarebbe ancor più senza i turbini di sabbia che solleva il vento quasi tutto l'anno. Nel 1811 Valparaiso non contava che quattro o cinquemila anime; questa popolazione era già triplicata nel 1825 né tale marcia ascendente era vicina ad arrestarsi.

Al momento della sosta della Thétis si trovava pure a Valparaiso la fregata inglese La Bionda, comandata da lord Byron, nipote dell'esploratore, di cui abbiamo narrato le scoperte. Per una coincidenza per lo meno singolare, egli aveva allora inalzata nell'isola Havai un monumento alla memoria di Cook, quando Bouganville, il figlio del circumnavigatore, incontrato da Byron nello stretto di Magellano, poneva alla Nuova Galles del Sud la prima pietra del monumento alla memoria di La Pérouse.

Bouganville approfittò del lungo spazio di tempo che necessitò il vettovagliamento della sua divisione per fare un'escursione fino a Santiago, capitale del Chili, a trentatré leghe nell'interno.

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I dintorni di quella città sono di una nudità scoraggiante, senza abitazioni né coltura. Non si è avvertiti dell'approssimarsi della città che dalla vista dei suoi campanili, e si crede di essere ancora nei sobborghi quando si è nel centro di Santiago. Non è però che i monumenti facciano difetto; si può citare la Zecca, l'Università, l'Arcivescovado, la cattedrale, la chiesa dei Gesuiti, il palazzo e la sala degli Spettacoli, quest'ultima così male illuminata che non si può distinguervi la faccia degli spettatori, La Canada aveva sostituito l'Alameda, passeggiata in cui la popolazione si riuniva la sera sulle sponde del rio Mapoche. Poi, esaurite le curiosità della città, si andò a quelle dei dintorni e a visitare il salto de agua, cascata di 200 tese d'altezza, alla quale è assai diffìcile accedere, e il Gerito de Santa Lucia, sul quale trovasi un fortino, sola difesa della città.

La stagione avanzava, e importava affrettarsi, se non si voleva perdere il tempo più favorevole pel passaggio del capo Horn. Epperò l'8 gennaio 1826 ripigliavano il mare. Girarono il capo senza avariare; non poterono, in causa delle nebbie e dei venti contrari, approdare alle Mainine, e il 28 marzo calarono l'ancora nella rada di Rio Janeiro.

Le circostanze di questa fermata furono abbastanza felici da permettere ai Francesi di prendere un'idea dell' assieme della città e della Corte.

«L'imperatore — dice Bouganville — era in viaggio al tempo del nostro arrivo, ed al suo ritorno si fecero feste e ricevimenti che misero la popolazione in movimento, facendo tregua per un tempo all'uniformità della vita che si trae in questa città, la più triste e la più noiosa dell'universo per gli stranieri. I dintorni sono però graziosi, la natura vi ha prodigate le sue ricchezze, e il suo immenso porto, ritrovo delle nazioni commerciali dell'Atlantico, presenta un quadro dei più animati: un innumerevole concorso di navi che entrano ed escono, d'imbarcazioni che s'incrociano; un chiasso da non si dire,

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cannonate tirate dai forti, e i bastimenti da guerra che rendono i saluti, celebrando un anniversario o la festa di qualche santo; insomma è uno scambio continuo di cortesie per gli ufficiali delle marine straniere che si visitano a vicenda, e gli agenti diplomatici di quelle potenze presso la Corte di Rio.

L'11 aprile la divisione ripigliava il mare e ritornava a Biest il 24 giugno 1826, senza aver fatto scalo dalla sua partenza da Rio-Janeiro.

Se Bouganville non aveva fatto alcuna scoperta in questo viaggio, è bene ricordare che le sue istruzioni erano formali a questo riguardo; egli non doveva che mostrare la bandiera francese nelle località in cui si faceva vedere raramente.

Si devono però a questo ufficiale generale interessantissimi particolari, talvolta nuovi, sui paesi che egli visitò. Alcuni rilievi eseguiti da questa divisione dovevano render servizio ai navigatori, e bisogna confessare che la parte idrografica, la sola delle scienze che il difetto di scienziati speciali a bordo de' suoi bastimenti gli permettesse di studiare, è accurata e composta di osservazioni tanto numerose quanto esatte. Non si può che unirsi al comandante della Thétis quando lamenta nella sua prefazione che il Governo e l'Accademia delle Scienze non abbiano stimato opportuno di utilizzare quell'ornamento per raccogliere alcuni nuovi documenti che sarebbero venuti ad aumentare le serie già tanto ricche dei predecessori del barone di Bouganville.

La spedizione di cui doveva essere incaricato il capitano Dumont d'Urville non era nell'idea del ministro che un mezzo d'aumentare e completare la mole considerevole dei documenti scientifici raccolti dal capitano Duperrey nella sua campagna dal 1822 al 1824.

Nessun ufficiale offriva tanti titoli come Dumont d'Urville, poiché era stato il secondo di Duperrey, e del resto fu lui che concepì il progetto e aveva dati tutti i particolari di questa

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nuova esplorazione. Le parti dell'Oceania che si proponeva di riconoscere, perchè gli sembrava richiedessero più imperiosamente l'attenzione del geografo e del viaggiatore, erano la Nuova Zelanda, l'Arcipelago Viti, le Loyalty, la Nuova Bretagna e la Nuova Guinea.

Si vedrà, seguendo passo passo il viaggiatore, ciò che gli fu possibile d'eseguire.

Un interesse di un'altra specie doveva collegarsi a questa spedizione, ma giova qui lasciar parlare l'istruzione che fu consegnata al navigatore:

«Un capitano americano ha detto di aver visto nelle mani degli indigeni di un'isola situata fra la Nuova Caledonia e la Luisiade, una croce di San Luigi e delle medaglie che gli parve pervenissero dal naufragio del celebre navigatore (La Pérouse), la cui perdita è causa di giusti lamenti. Senza dubbio non è questo che un debole motivo per sperare che delle vittime di questo disastro esistano ancora; tuttavia, signore, voi darete a Sua Maestà una vivissima soddisfazione se, dopo tanti anni di miseria e d'esilio, qualcuno degli infelici naufragati fosse reso, a mezzo vostro, alla patria!».

Lo scopo che doveva sforzarsi di raggiungere la spedizione era dunque multiplo, e per un caso singolarissimo essa ottenne quasi tutti i risultati che se ne aspettavano.

Dumont d'Urville ricevette, nel mese di dicembre 1825, la sua lettera di comandante, e fu autorizzato a scegliere tutte le persone che l'accompagnerebbero. Egli prese come secondo il luogotenente Jacquinot e come collaboratori scientifici Quoy e Gaimard, che avevano fatto la campagna dell' Uranie, nonché il medico Primevére Lesson.

Il bastimento scelto fu la Coquille, della quale d'Urville aveva potuto apprezzare le eccellenti qualità; se non che, in memoria di La Pérouse, le diede il nome di Astrolabe, e v'imbarcò un equipaggio di 80 uomini. L'ancora fu levata il 25

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aprile 1826 e in breve si perdettero di vista le montagne di Tolone e le coste della Francia.

Dopo una fermata a Gibilterra, l'Astrolabe ancorò a Teneriffa per prendervi dei viveri freddi prima di attraversare l'Atlantico. Il comandante mise a profitto questa fermata per salire il picco di Teide. D'Urville, coi signori Luoy, Gaimard e parecchi ufficiali, seguì dapprima un cammino abbastanza cattivo attraverso campagne coperte di scorie.

Ma, mano mano che si avvicinava alla Laguna, la scena si abbellì. Questa città abbastanza grande contiene una popolazione poco notevole, indolente e miserabile.

Da Matanza fino a Orotava la vegetazione è magnifica, e la vite, coi suoi pampini verdeggianti, aggiunge ricchezza al quadro.

Orotava è una piccola città marittima, il cui porto non offre che un cattivo riparo; ben costrutta e beh tagliata, sarebbe gradevole se non vi fossero quei ripidi pendii che vi rendono quasi impossibile la circolazione.

Dopo tre quarti d'ora d'ascensione in mezzo a campagne ben coltivate si raggiunge la regione dei castagneti. Al di là cominciano le nubi, e il viaggiatore non si inoltra di più che bagnato di una nebbia umida ed eccessivamente disaggradevole. Più lungi vi ha la regione delle lande, al di là delle quali l'atmosfera si rischiara, le piante spariscono e il suolo diventa più magro e più sterile. Vi si trovano allora delle lave decomposte, scorie e pietra pomice in quantità, mentre al di sopra si stende l'immenso mare delle nubi.

Il picco, fin qui coperto dalle nubi e dalle alte montagne che lo circondavano, finalmente si stacca. Il pendìo non è più ripido, e si penetra in quelle immense pianure di una tristezza eccessiva che gli Spagnuoli chiamano canadas, in causa della loro umidità. A far colazione conviene fermarsi alla Grotta del Pino, prima di valicare gli immensi massi di basalto, che,

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disposti circolarmente, formano la cinta del cratere, oggi pieno delle ceneri del Picco.

Bisogna allora salire il Picco medesimo, a un terzo del quale si trova una specie di spianata chiamata Estancia de los Ingleses.

Là i viaggiatori passarono la notte, non tanto bene però come nelle loro cucce, ma senza soffrire troppo violentemente il malessere e il soffocamento che avevano provato tanti altri esploratori. Le pulci diedero loro ripetuti assalti che impedirono al comandante di chiuder occhio.

Alle quattro del mattino fu ripresa la marcia e si raggiunse in breve una nuova spianata che porta il nome di Alta Vista. Più in là scompare ogni sentiero e bisogna arrampicarsi penosamente sulla nuda lava sino al Pane Zuccaro, scavalcando a ogni istante dei mucchi di neve, che la loro posizione riparata dal sole impedisce di sciogliersi. Il Piton è alquanto ripido, e la sua ascensione è resa ancor più diffìcile per le pietre pomici che, scivolando sotto il piede, impediscono d'avanzarsi.

«Alle 6,30 — dice Dumont d'Urville — giungemmo alla cima del Pan di Zuccaro. È evidentemente un cratere semiotturato, a pareti poco fitte e incavate, la cui profondità è da 60 a 80 piedi al massimo e sparso sulla sua superficie di frammenti ossidi o di pomice e massi di lava. Dagli orli esalano vapori solforosi e formano, per così dire, una corona di fumo, mentre il fondo è affatto raffreddato. Alla cima del Piton il termometro segnava 11°; ma io suppongo che risentiva ancora dell' esposizione alla fumarola, giacché giunto al fondo del cratere, da 19° che era al sole, discese in poco tempo a 9°5 all'ombra».

La discesa ebbe luogo senza accidenti da una strada diversa che permise ai viaggiatori di esplorare la Cueva de la Nieve e di visitare la foresta di Agua-Garcia, che attraversa un limpido ruscello, e dove d'Urville fece un'abbondante raccolta

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di vegetali. A Santa-Cruz il comandante poté vedere nel gabinetto del

maggiore Megliorini, in mezzo alle armi, alle conchiglie, agli

animali, pesci e disparati oggetti, una mummia completa di Guanche che gli si disse essere di donna. Avvolta in pelli cucite, sembrava avere avuto 5 piedi e 4 pollici d'altezza; le mani erano grandi e i lineamenti del volto pareva fossero stati abbastanza regolari.

Le grotte sepolcrali dei Guanches contenevano pure vasi di terra e di legno, sigilli triangolari di terracotta, e una quantità di piccoli dischi della stessa materia, i quali, infilati come i rosari, servivano forse a quella razza scomparsa agli usi medesimi dei Guipos dei Peruviani.

Il 21 giugno l'Astrolabe rimise a vela e si fermò a La

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Prava, o isole del Capo Verde, ove d'Urville contava trovare il capitano inglese King, che gli avrebbe dato preziose informazioni per la navigazione delle coste della Nuova. Guinea. Ma questi aveva lasciato La Prava da 36 ore, epperò l'indomani mattina, 30 giugno, 1'Astrolabe riprese la sua rotta.

La roccia di Martin-Vaz e l'isola della Trinità furono scorte l'ultimo di luglio. Quest'ultima sembrava assolutamente sterile; non vi si vede che una magra verdura e alcuni gruppi di boschi intristiti che formano macchie in mezzo alle rupi.

D' Urville avrebbe vivamente desiderato fare alcune ricerche di botanica su quest'isola deserta, ma il risucchio era tanto violento che stimò fuori proposito di arrischiarvi un'imbarcazione.

Il 4 agosto l'Astrolabe percorse la posizione di Saxemburg, isola che bisogna definitivamente cancellare dalle carte francesi, come avevano già fatto gl' Inglesi; poi, in causa di una serie di venti che affaticarono alquanto la nave, si passò in prossimità delle isole San Palo ed Amsterdam, e il 7 ottobre il bastimento ancorò nel porto del Re Giorgio alla costa d'Australia.

Sebbene l'andata fosse stata violentissima e il tempo quasi costantemente cattivo durante i centootto giorni che l'Astrolabe trova vasi in mare, d'Urville non tralasciò di procedere alle sue abituali ricerche sugli effetti del rullìo, sull'altezza delle onde, che stimò giungere, da ottanta a cento piedi, al banco delle Aiguilles, non che sulla temperatura del mare a diverse profondità.

Il capitano Jacquinot, avendo scoperto, sulla riva dello stretto della Principessa, un'acqua potabile fresca e limpidissima, e non lungi di là un luogo propizio all' impianto dell'osservatorio, i velieri vennero subito ad inalzarvi le tende, mentre parecchi ufficiali facevano l'intero giro della baia della Principessa e parecchi altri entravano in relazione con alcuni

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aborigeni. Uno di questi acconsentì di salire a bordo. Si durò molta

fatica ad ottenere che lasciasse da parte un tizzone di banksia, che gli serviva a mantenersi il fuoco per scaldarsi il ventre e tutta la parte anteriore del corpo. Del resto, egli passò a bordo due giorni tranquillamente, bevendo e mangiando dinanzi al fuoco della cucina. I suoi compatrioti, che erano rimasti a terra per tutto quel tempo, diedero prove di disposizioni pacifiche, e condussero ben anche al campo tre dei loro figliuoli.

Durante questa sosta si presentò una imbarcazione montata da otto inglesi. Essi chiesero di essere, presi a bordo come passeggeri. Narrarono una storia d'abbandono poco verosimile che suscitò nel comandante il sospetto ch'essi fossero deportati fuggiti, e il sospetto divenne certezza alle smorfie che fecero quando intesero proporsi di essere ricondotti a Port-Jackson. L'indomani però uno di essi si arruolò come marinaio, due altri rimasero come passeggeri; quanto agli altri cinque, risolsero di starsene su quelle spiagge e continuare l'esistenza miserabile che traevano in mezzo ai selvaggi.

Intanto le operazioni idrografiche ed astronomiche proseguivano, mentre a terra i cacciatori e i naturalisti cercavano di procurarsi degli esemplari di nuove specie. Questa sosta, che si prolungò fino al 24 ottobre, permise all'equipaggio di rimettersi dalla penosa traversata che aveva dovuto sopportare, di procedere alle riparazioni necessarie, di procurarsi acqua e legna, di redigere il piano dei dintorni tutti e di raccogliere importanti collezioni di piante e di zoologia.

Stando alle osservazioni d'ogni genere che aveva fatto, d'Urville si stupiva che gl'Inglesi non si fossero per anco stabiliti al porto del Re Giorgio, ammirabilmente situato. tanto per le navi che si recano direttamente dall'Europa alla Nuova Galles, che per quelle che vanno dal Capo alla Cina o alle isole della Sonda.

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L'esplorazione di questa costa fu continuata fino a Port-Western, sosta che d'Urville preferì al porto Dalrympe, la cui entrata e l'uscita erano difficili e spesso pericolose. D'altronde Port-Western non era ancora conosciuto se non per i rapporti di Baudin e di Flinders. Vi sarebbe dunque maggior profitto ad esplorare questa terra poco frequentata.

I lavori ch'erano stati compiuti al porto Re Giorgio furono parimente fatti a Port-Western, e trassero il comandante a questa conclusione:

«Port-Western offre un ancoraggio così facile a prendersi che a lasciarsi; la posizione è eccellente, la legna abbondante e facile a raccogliersi. In una parola, appena si sarà scoperta un'acqua comoda (e probabilmente la si troverà), sarà un punto di sosta importantissimo in uno stretto come quello di Bass, in cui i venti spesso soffiano con furore da una medesima parte per più giorni di seguito e dove le correnti possono rendere difficile la navigazione in questa specie di circostanze».

Dal 19 novembre al 2 dicembre l'Astrolabe continuò a fiancheggiare la costa senz'altra fermata che alla baia Jervis, dove si trovarono magnifiche foreste d'eucalipti.

L'accoglienza fatta ai Francesi a Port-Jackson dal governatore Darling e dalle autorità della colonia non poteva essere più cordiale, sebbene le relazioni che d'Urville aveva fatto su diversi punti della Nuova Olanda avessero assai impacciato le autorità inglesi.

Da tre anni la città si era singolarmente accresciuta e abbellita; quantunque la popolazione della colonia non fosse stimata che a cinquantamila anime, pure gl'Inglesi andavano sempre erigendo nuovi stabilimenti.

Il comandante approfittò della sua sosta a Sydney per spedire i suoi dispacci in Francia, non che parecchie casse di esemplari di storia naturale. Poi, appena ebbe imbarcato i viveri e si fu procurato tutte le cose che gli erano necessarie,

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spiegò le vele.. Fermarsi con Dumont d'Urville alla Nuova Galles sarebbe

inutile. Egli consacra un intero volume della sua relazione alla storia e allo stato di questa colonia nel 1828, e noi ne abbiamo già parlato minuziosamente. Meglio è lasciare con lui Sydney il 19 dicembre, e seguirlo alla, baia Tasman, attraverso le calme, i venti, le correnti e le tempeste, che non gli permisero di arrivare alla Nuova Zelanda che il 14 gennaio 1827.

Nessuna spedizione aveva per anco fatto conoscere la baia Tasman, che Cook soltanto aveva veduto durante il suo secondo viaggio.

Alcune piroghe, portanti una ventina d'indigeni, la metà dei quali sembravano capi, accostarono il bastimento. Essi furono abbastanza fidenti per salire a bordo; alcuni, anzi, vi restarono parecchi giorni. Altri ancora ne giunsero, i quali si stabilirono nelle vicinanze, e cominciarono gli scambi. Parecchi ufficiali si arrampicarono sulle altura che dominano la baia in mezzo alle fitte foreste.

«Non vi sono uccelli — dice d'Urville — né insetti e neppur rettili; questa assenza totale di ogni essere animato, questo silenzio assoluto ha qualche cosa di solenne e di lugubre».

Tale è la penosa impressione che produssero quei tristi deserti. Dall'alto di quei poggi, il comandante aveva scorto una nuova baia, la baia dell'Ammiragliato, che comunica per mezzo di un canale con quello in cui l'Astrolabe era ancorato. Volle esplorarla, perchè dall'alito gli era sembrata ancor più sicura della baia Tasman. Ma a più ripresa le correnti lo misero a un filo di perdersi. Se la nave fosse stata gettata su questa costa rocciosa l'equipaggio sarebbe tutto quanto perito e non sarebbe rimasta traccia del naufragio. Finalmente, dopo parecchi tentativi infruttuosi, d'Urville pervenne a valicare quel passo, perdendo solo dei frammenti della controchiglia della nave.

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«Per consacrare — dice la relazione — il ricordo del passaggio dell'Astrolabe, lasciai a quel pericoloso stretto il nome di passo dei Francesi; ma, tranne un caso urgente, non consiglierei a nessuno di tentarlo. Noi contemplammo allora

con tutta comodità il bel bacino in cui ci trovavamo. Esso merita certamente tutti gli elogi che ne ha fatti Cook, ed io raccomanderei sopratutto un bel piccolo porto, a qualche miglio al sud del luogo in cui ancorò questo capitano… La nostra navigazione pel passo dei Francesi aveva stabilito definitivamente l'esistenza come isola di tutta la parte di terra che termina al capo Stephens di Cook. Essa si trova divisa da

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Tavai-Punamu dal bacino delle Correnti. Il confronto della nostra carta con quella che fece Cook per lo stretto, mostrerà quanto i suoi lavori lascino a desiderare…».

L'Astrolabe fu in breve nello stretto di Cook, passò davanti la baia della Regina Carlotta e girò il capo Palliser, formato di montagne addossate le une alle altre.

D' Urville, con profonda sorpresa, riconobbe che molte inesattezze si erano introdotte nei lavori del.grande navigatore inglese, e, nella parte idrografica del suo viaggio, egli discute certi punti per i quali ha trovato degli errori da quindici a venti minuti.

L'intenzione del comandante era allora di riconoscere la costa orientale di Ika-Na-Mawi , l'isola nord sulla quale si trovano dei maiali e non dei «punamu» con cui gli Zelandesi fanno i loro strumenti più preziosi, mentre sull'isola meridionale si trovano «punamu» e non maiali.

Due indigeni, che avevano voluto assolutamente rimanere a bordo, erano diventati tristi e malinconici vedendo scomparire all'orizzonte le coste del distretto da loro abitato. Essi lamentavano ora, ma troppo tardi, l'audacia che li aveva spinti a viaggiare. La parola «audacia» non è veramente troppo forte, giacché a più riprese domandarono ai Francesi se non li mangiavano, e i buoni trattamenti non li rassicurarono che in capo ad alcuni giorni.

D'Urville continuò a risalire la costa. I capi Turnagain o Kidnappers di Cook furono girati, e si riconobbe l'isola sterile col suo «ipah».

Nella baia di Tolaga di Cook, alcuni indigeni portarono alla corvetta dei maiali e delle patate che scambiarono contro oggetti di poco valore. Si erano presentate altre piroghe, e i Neo-Zelandesi che erano sul bastimento insistettero presso il capitano per determinarlo a far fuoco addosso e uccidere i loro compatrioti. Ma quando costoro salirono a bordo, i primi

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arrivati si presentarono dinanzi a loro e li accolsero con le più vive dimostrazioni di amicizia. Questa singolare condotta si spiega con la diffidenza e la gelosia reciproca. «Essi vorrebbero approfittare esclusivamente dei vantaggi che si aspettano dalle visite degli europei e si disperano nel vedere i loro vicini a parteciparvi».. Questa spiegazione è così esatta, che ricevette presto conferma.

Sull'Astrolabe si trovava un certo numero di Zelandesi, e segnatamente un certo Shaki, che la sua alta statura, il tatuaggio completo, il portamente altero e l'aria di sottomissione con la quale gli parlavano i suoi compatrioti lo avevano fatto conoscere per un capo. Vedendo avvicinarsi alla corvetta una piroga portante sette od otto uomini solamente, Shaki e gli altri vennero a supplicare d'Urville di uccidere questi nuovi arrivati; si spinsero fino a chiedere dei fucili per far fuoco essi stessi. Però appena i nuovi venuti furono saliti a bordo, tutti quelli che già vi si trovavano li colmarono di segni di rispetto, e Shaki, sebbene si fosse mostrato uno dei più accaniti, mutò di tono e andò a offrir loro delle ascie che aveva appena acquistato.

Questi capi dall'atteggiamento guerresco e feroce, dal volto, completamente tatuato, non erano a bordo che da pochi istanti e d'Urville si apprestava a interrogarli mediante il vocabolario pubblicato dai missionari, quand'essi lo lasciarono bruscamente, saltarono nelle piroghe e presero il largo.

I loro compatrioti per sbarazzarsene avevano loro semplicemente insinuato che la loro esistenza non era sicura sull'Astrolabe e che i Francesi avevano formato il progetto di ucciderli.

Nella baia di Tolaga il cui vero nome è Hua-Hua, d'Urville si procurò le prime informazioni sul kivi, a proposito di una stuoia, guarnita di penne di quest'uccello, oggetto di lusso fra gli indigeni..

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Quest'uccello, grosso come un piccolo dindo, sarebbe privo, come io struzzo, della facoltà di volare. Di notte, con le torce e coi cani, gli si dà la caccia.

Questo medesimo uccello ha ricevuto il nome di «apteryx». Le informazioni che d'Urville aveva attinte dagli indigeni erano in gran parte esatte. L'apteryx della grossezza d'una gallina e le penne d'un bruno-ferro, s'avvicina allo struzzo: abita le foreste cupe e umide e non esce che alla sera per cercare il suo nutrimento. Le attive cacce che gl'indigeni gli hanno fatto, hanno notevolmente scemata questa curiosa specie, oggidì molto rara.

D' Urville continuò dunque il riconoscimento idrografico della costa orientale dell'isola settentrionale della Nuova Zelanda, avendo quotidiane comunicazioni con gl'indigeni che gli portavano maiali e patate.

Al dire degl'indigeni, le guerre sarebbero continuate da tribù a tribù, e questa sarebbe la causa più reale della diminuzione degli abitanti. Costoro domandavano sempre dei fucili e finivano per accontentarsi della polvere che si dava loro in cambio delle merci.

Il 10 febbraio, nei paraggi del capo Runaway, la corvetta dovette soffrire una tempesta che durò 36 ore, e fu più d'una volta in procinto di sommergere.

Poi s'internò nella baia dell'Abbondanza, in fondo alla quale sorge il monte Edgecumbe, continuò a seguire la costa, vide le isole Haute, Major; ma il tempo fu tanto cattivo durante questa esplorazione della baia, che la carta non merita grande fiducia.

La corvetta raggiunge poscia la baia Mercurio, riconosce l'isola della Barriera, penetra nella baia Shuraki (alias Hauraki), riconosce la Poule-et-les-Ponssins (la Gallina ed i Pulcini), I Poveri-Cavalieri, e giunge alla baia delle Isole.

Le tribù che d'Urville incontrò in quella località erano

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impegnate in una spedizione contro quelle delle baie Shuraki e Waikato. d'Urville ridiscese per esplorare la baia Shuraki, ch'era stata incompletamente riconosciuta da Cook, e scoperse che in quel luogo la Nuova Zelanda è frastagliata in una quantità di porti e i bacini più profondi, più sicuri gli uni degli altri. d'Urville avendo appreso che seguendo il corso del Vai-Magoia si arrivava in un luogo separato da un piccolissimo tratto dal gran porto di Manukau sulla riva occidentale dell'isola, fece percorrere quella rotta da parecchi suoi ufficiali, che accertarono la verità di quelle informazioni.

«Questa scoperta — dice Dumont d'Urville — può diventare di grande interesse per le colonie che s'impianteranno alla baia di Shuraki, e questo interesse aumenterà ancora se nuove ricognizioni potranno dimostrare che il porto Manukau è atto a ricevere navi di una certa dimensione, giacché una tale colonia si troverebbe allora alla portata di due mari, orientale e occidentale.»

Rangui, uno dei «rangatiras», capi di questo luogo, aveva parecchie volte domandato al comandante del piombo per far delle palle, e questi glielo aveva sempre rifiutato. Al momento della partenza, d'Urville fu avvertito che il piombo di scandaglio era stato rubato. Il comandante fece subito dei rimproveri a Rangui, dicendogli con tono severo che non era degno di gente onesta commettere tali furti. Questo rimprovero parve colpire profondamente il capo, che si scusò, asserendo che tal delitto era stato commesso a sua insaputa e da stranieri.

«Un momento dopo — dice la redazione — il rumore di colpi violenti e delle grida di pietà che partivano dalla piroga di Rangui, attrassero la mia attenzione da quella parte. Allora vidi Rangui e Tawit, che picchiavano a colpi raddoppiati, con le loro pagaje, sopra un mantello che sembrava coprire un uomo. Ma mi fu facile riconoscere che i due astuti capi non picchiavano che su di uno dei banchi della piroga. Dopo aver

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continuato per qualche tempo questo scherzo, la pagaja di Rangui gli si spezzò fra le mani. L'uomo fece sembiante di cadere a terra, e Rangui, interpellandomi, mi disse che stava bastonando il ladro e mi domandò se ero soddisfatto. Gli risposi affermativamente, ridendo in cuor mio dell'astuzia di questi selvaggi, astuzia, del resto, di cui si sono trovati di frequente degli esempi presso molti popoli più avanzati in civilizzazione».

D'Urville riconobbe la bell'isola Waihiki, e terminò così la ricognizione del canale dell'Astrolabe e della baia Hauraki. Rimontò allora verso il nord fino alla baia delle Isole, e di là fino al capo Maria-Van-Diemen, estremità settentrionale della Nuova Zelanda, «ove le anime dei morti, le Waiduas, ritornano su tutti i punti di Ika-Na-Mawi per librare l'ultimo volo verso la gloria o verso le tenebre eterne».

La baia delle Isole, al tempo della stazione della Coquille, era animata da una popolazione abbastanza numerosa, con la quale si erano avute amichevoli relazioni. Ora il silenzio del deserto aveva sostituito l'animazione degli antichi giorni. L'Ipah, o piuttosto il Pà di Kahu-Wera, che ricoverava una tribù operosa, era abbandonato; la guerra aveva in quei luoghi cagionate le sue solite devastazioni. La tribù di Songhui aveva saccheggiate le proprietà e dispersi i membri di quella di Paroa.

È alla baia delle Isole che si erano stabiliti i missionari inglesi. Non ostante tutta la loro devozione non avevano ancor fatto alcun progresso presso gl'indigeni, ed era evidente l'inutilità dei loro sforzi.

In quel luogo si terminarono le importantissime ricognizioni idrografiche della costa orientale della Nuova Zelanda. Dopo Cook nessuna esplorazione era stata fatta su quella terra con tanta cura, in mezzo a tanti pericoli e sopra un sì lungo tratto di coste. D'Urville, con quella sapiente e minuziosa osservazione, rendeva un segnalato servizio alla

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scienza geografica e alla navigazione. Egli aveva dovuto, in mezzo a repentine e terribili burrasche, spiegare qualità eccezionali; ma senza tener conto di tante fatiche e devozione, al suo ritorno in Francia, lo si lasciava in disparte o non gli si davano che delle attribuzioni per le quali era nell'impossibilità di distinguersi, mentre le avrebbe compiute benissimo come capitano di vascello qualunque.

Lasciando la Nuova Zelanda il 18 marzo 1827, d'Urville fece rotta verso Tonga-Tabu. Riconobbe dapprima le isole Curtis, Macauley, Sunday, cercò invano l'isola Vasquez de Maurelle e arrivò il 16 aprile in faccia a Namuka. Due giorni dopo distinse Eoa; ma prima di raggiungere Tonga-Tabu ebbe ancora a patire una violenta tempesta, che mise l'Astrolabe in pericolo.

Degli europei stabiliti da molti anni a Tonga-Tabu furono utilissimi al comandante per tenerlo al corrente delle disposizioni degl'indigeni. Tre capi «éguis» si dividevano il potere dacché il capo religioso «tuï-tonga» che godeva d'una immensa influenza, era stato esiliato.

Una missione wesleyana era stabilita a Tonga. Ma a tutta prima parve evidente che questi preti metodisti non avessero saputo acquistarsi alcuna influenza sugl'indigeni. Coloro stessi che avevano convertiti erano sprezzati per la loro apostasia.

Quando l'Astrolabe giunse all'ancoraggio, dopo essere felicemente sfuggito a pericoli imminenti che i venti contrari, le correnti e le raffiche gli avevano fatto correre, fu subito invaso da un'abbondanza incredibile di frutti, di radici, di maiali e di volatili che gl'indigeni cedevano quasi per niente. d'Urville acquistò parimente, per il museo, delle armi e degli oggetti diversi dell'industria dei selvaggi, come, per esempio., delle clave, per lo più di casuarina, perfettamente cesellate o arricchite d'incrostature artistiche di osso di balena o di madreperla.

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Il costume di tagliarsi una o due falangi per offrirle alla divinità in caso di grave malattia di un prossimo parente, sussisteva ancora.

Dopo il 28 aprile, gl'indigeni non avevano mostrate che disposizioni concilianti, non una querela si era sollevata, quando il 9 maggio d'Urville, con quasi tutti i suoi ufficiali, si recò a far visita a uno dei capi più importanti, chiamato Palù. Costui Io ricevette con una contrarietà affatto straordinaria e poco d'accordo con le dimostrazioni chiassose ed entusiastiche dei giorni precedenti. La differenza degli isolani svegliò quella del comandante il quale, pensando al piccolo numero di uomini lasciato sull'Astrolabe, provava vivissima inquietudine. Non era però accaduto nulla durante la sua assenza. Solamente, la timidezza di Palù aveva fatto fallire una trama che tendeva nientemeno che a rapire con un sol colpo tutto Io stato maggiore; si sarebbe poi facilmente vinto l'equipaggio già in parte desideroso della vita facile degl'indigeni. Tale fu almeno la convinzione che il comandante si formò. Gli avvenimenti dovevano confermare il suo modo di vedere.

Questi timori indussero d'Urville a lasciare il più presto possibile Tonga-Tabu, ed il 13 era pronto per far vela il domani. L'allievo Dudemaine passeggiava sulla grand'isola, mentre l'allievo Faraguet, con nove uomini, era occupato sull'isolotto Pangai-Modoz a fare acqua e ad osservare la marea. Un égui, Tahofa, era sull'Astrolabe con molti indigeni, quando a un segno del loro capo le piroghe calarono tutte in una volta e guadagnarono la terra. Si domandava la causa di questa ritirata repentina, quando si scorsero su Pangai-Modoz i marinai trascinati a forza dagl'indigeni. D' Urville fu sul punto di far tirare una cannonata, ma trovò più sicuro di spedire, a forza di remi, un'imbarcazione che raccolse due uomini e l'allievo Dudemaine. Il medesimo canotto spedito poco dopo per dar fuoco a degli abituri e cercare di catturare qualche

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ostaggio, fu ricevuto a fucilate. Un indigeno fu ucciso, parecchi altri feriti, ma un caporale di marina ricevette tanti colpi di baionetta che due ore dopo spirò.

D'Urville era assai inquieto della sorte dei suoi marinai e di Faraguet che li comandava. Non gli rimaneva altro espediente che assalire il villaggio sacro di Mafauga, che contiene le tombe di parecchie famiglie di capi. Ma l'indomani una folla d'indigeni circondava quel luogo con ridotti di terra e con palizzate così bene, che non bisognava più pensare a prenderlo.

Si avvicinò allora la corvetta a terra e si cannoneggiò il villaggio, senz'altro effetto che l'uccisione di un isolano. Tuttavia la difficoltà di procurarsi dei viveri, la pioggia, gli allarmi continui nei quali i Francesi li tenevano con le loro cannonate, li determinarono a far la pace. Resero gli uomini che erano stati tutti trattati benissimo, fecero un dono di maiali e di banane, e il 24 maggio l'Astrolabe lasciò definitivamente le isole degli Amici.

Era tempo d'altronde che ciò terminasse, giacché la posizione di d'Urville non era più sostenibile, e da una conversazione avuta col mastro d'equipaggio era emerso che non si poteva più contare che su cinque o sei marinai: tutti gli altri sarebbero passati dalla parte dei selvaggi.

Tonga-Tabu è di formazione madreporica. Vi si trova un fittissimo strato di terra vegetale, epperò le piante e gli alberi vi si sviluppano alla perfezione: i cocchi, il cui fusto è più delicato che altrove, ed; i banani crescono con una rapidità e una potenza meravigliose. Il paese è piano, monotono, e chi ha fatto un quarto di lega non ha bisogno di percorrere l'isola intiera per farsene un'idea. La popolazione può essere valutata a settemila individui dalla fisionomia strettamente polinesiana.

«Essi, dice d'Urville, riuniscono le qualità più opposte. Sono generosi, compiacenti, ospitalieri ed in pari tempo cupidi, audaci e sopratutto profondamente dissimulatori. Intanto che vi

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colmano di carezze e di segni d'amicizia, sono capaci di assalirvi e spogliarvi, per poco che la loro avidità o il loro amor proprio sia stimolato.»

Gl'indigeni di Tonga sono evidentemente superiori per intelligenza a quelli di Taiti. I Francesi non si stancavano di ammirare l'ordine meraviglioso col quale erano mantenute le piantagioni di kava, di banani o d'ignami, l'estrema pulizia delle abitazioni e l'eleganza dei recinti. L'arte della fortificazione non era loro ignota, come ebbe a provarlo d'Urville visitando il villaggio fortificato di Hifo, guarnito di solide palizzate, circondato da un fossato largo da quindici a venti piedi e per metà pieno d'acqua.

Il 25 maggio d'Urville cominciò l'esplorazione dell'arcipelago Viti o Fidji. Ebbe a tutta prima la fortuna di trovare un indigeno di Tonga, che abitava Fidji pel suo commercio e aveva visitato altre volte Taiti, la Nuova Zelanda e l'Australia.

Quest'uomo, al pari di un isolano di Guaham, fu utilissimo al comandante per avere i nomi di oltre duecento isole che compongono questo gruppo e la indicazione della loro posizione e di quella delle scogliere sottomarine che le circondano.

In pari tempo l'idrografo Gressier raccoglieva tutti i materiali necessari per redigere la carta delle Fidji.

Una scialuppa ricevette ordine di accostare l'isola di Laguemba dove si trovava un'ancora che Dumont d'Urville avrebbe voluto procurarsi avendone perdute due dinanzi a Tonga. A tutta prima, Lottin, che comandava quest'imbarcazione, non scorse sulla riva che delle donne e dei fanciulli; ma accorsero poscia i guerrieri, fecero ritirare le donne e presero le loro disposizioni per catturare i marinai ed impadronirsi della scialuppa. Le loro intenzioni erano troppo chiare per lasciar luogo a dubbio; e perciò Lottin fece subito

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levare l'ancorotto e guadagnò il largo prima che accadesse una collisione.

Per diciotto giorni consecutivi, malgrado il cattivo tempo e il mare burrascoso, l'Astrolabe percorse l'arcipelago dei Fidji, riconoscendo le isole Laguemba, Kaubadon, Viti-Levom, Umbenga, Vaton-Lele, Unong-Lebu, Mololo, ecc., e segnatamente la parte meridionale del gruppo che era allora quasi interamente ignota.

La popolazione, se si deve credere a d'Urville, forma il limite della razza color rame o polinese e della razza nera o melanese. Quegli indigeni hanno un aspetto di forza e di vigore che giustifica la loro alta statura. Sono antropofaghi e non lo nascondono.

L'11 giugno, la corvetta faceva rotta verso il porto Cartaret; riconobbe man mano le isole Erronan ed Aunetom, le Loyalty, gruppo in cui d'Urville riconobbe le isole Chabros ed Halgan, il piccolo gruppo degli isolotti Beaupré, le scogliere dell'Astrolabe, tanto più pericolose in quanto che sono lontane quasi trenta miglia dalle isole Beaupré e sessanta dalla Nuova Caledonia, l'isola Huon e la catena settentrionale delle scogliere della Nuova Caledonia.

Da questi paraggi, d'Urville guadagnò la Luisiade in sei giorni; ma il cattivo tempo che lo colse su queste coste lo risolse a non proseguire il piano di campagna che si era tracciato ed evitare lo stretto di Torres. Il comandante credette che la immediata esplorazione della costa meridionale della Nuova Bretagna e della costa settentrionale della Nuova Guinea fosse più profittevole alla scienza.

L'isola Rossel e il capo della Liberazione furono scorti, e si fece rotta per la Nuova Zelanda, per rifornirsi di legna, d'acqua e di viveri.

Vi si arrivò il 5 luglio con un tempo cupo e piovoso, e si stentò assai a distinguere l'entrata del porto Cartaret, in cui

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Entrecasteaux aveva soggiornato otto giorni. I Francesi vi ricevettero in più volte la visita d'una ventina

di indigeni che sembravano formare tutta la popolazione di quel luogo.

Erano esseri senza intelligenza e per nulla curiosi dei tanti oggetti a loro ignoti.

Il loro esteriore non perorava neppur esso in loro favore. Assolutamente nudi, di pelle nera, i capelli crespi, il naso attraversato da un osso, non si mostravano avidi che del ferro, senza però capire che non avrebbero potuto averne che in cambio di frutta e di maiali. Cupi e diffidenti, si rifiutarono di condurre chicchessia al loro villaggio.

Durante questa sosta poco fruttuosa, d'Urville fu violentemente colpito da un'enterite, che lo fece assai soffrire per parecchi giorni.

Il 19, l'Astrolabe riprese il mare e percorse la costa meridionale della Nuova Bretagna, Questa esplorazione fu avversata da un tempo piovoso e nebbioso, da acquazzoni e da turbini, che costrinsero il bastimento ad allontanarsi dalla terra appena l'ebbe avvicinata.

«Bisogna aver praticato quei paraggi come noi, dice d'Urville, e nelle medesime circostanze, per farsi un'idea esatta di quegli incredibili acquazzoni; bisogna, inoltre, aver da eseguire dei lavori come quelli che ci erano imposti, per poter giudicare a mente fredda delle cure e delle inquietudini che reca una simile navigazione. Raramente il nostro orizzonte si estendeva a cento tese di distanza, e le nostre manovre non potevano essere che molto incerte, poiché la nostra vera posizione era un problema. In generale, tutto il nostro lavoro sulla Nuova Bretagna, nonostante le inaudite pene che ci costò e i pericoli che ha fatto correre all'Astrolabe, è lungi dall'essere paragonato, per esattezza, alle altre ricognizioni della campagna.»

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Nell'impossibilità dì ripigliare la rotta del canale San Giorgio, d'Urville dovette passare per lo stretto di Dampier, la cui apertura, dalla parte sud, è quasi intieramente sbarrata da una catena di scogli sottomarini su cui l'Astrolabe incalzò due volte.

D'Urville, come Dampier e d'Entrecasteaux, fu entusiasmato dall'aspetto delizioso della riva occidentale della Nuova Bretagna. Una costa salubre, un suolo disposto ad anfiteatro, delle foreste dal fogliame cupo e delle praterie biondeggianti, i due maestosi cocuzzoli del monte Glocester, tuttociò dà a questa parte della costa una varietà che aggiunge bellezza alle linee ondeggianti dell'isola Rook.

All'uscita del canale si mostrano in tutto il loro splendore le montagne della Nuova Guinea; in breve formano una specie d'emiciclo e un'ampia baia che ricevette il nome di golfo dell'Astrolabe. Le isole Schuten, il seno dell'Attaque, in cui d'Urville ebbe a respingere un'aggressione d'indigeni, la baia Humboldt, la baia del Geelwinck, le isole dei Traditori, Tobia e Mysory, i monti Arfak sono successivamente riconosciuti ed oltrepassati, e l'Astrolabe viene finalmente ad ancorare nel porto Durei, allo scopo di collegare le sue operazioni con quelle della Coquille.

In questo luogo furono subito iniziate delle relazioni amichevoli coi Papus, che portarono a bordo una quantità di uccelli del paradiso, ma pochissimi viveri.

Dolci e timidi, quest'indigeni non si avventurarono nei boschi che di mal animo, per paura degli Arfakis, abitanti delle montagne e loro nemici giurati. Un marinaio occupato a far acqua fu ferito da una freccia di uno di questi selvaggi che fu impossibile punire della vile aggressione per nulla motivata.

Qui, la terra è dappertutto così ricca che basterebbe smuoverla ed estirparne le male erbe per farle produrre abbondanti raccolti; ma i Papus sono tanto pigri, così poco

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intelligenti in fatto di cultura, che le piante alimentari sono per lo più soffocate dalle parassite.

Quanto agli abitanti, sono d'origini alquanto miste. d'Urville li divide in tre grandi varietà: i Papus, i meticci che arieggiano dal più al meno la razza malese o polinese, e gli Harfurs o Alfurus, del tipo comune degli Australiani, dei Neo-Caledonesi e in genere degli Oceanici di razza nera. Questi

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sarebbero i veri indigeni del paese. Il 6 settembre, dopo una sosta poco interessante e nella

quale d'Urville non aveva potuto procurarsi che pochissimi oggetti di storia naturale, eccetto dei molluschi, e meno ancora informazioni precise sui costumi, la religione e la lingua delle diverse razze della Nuova Guinea, l'Astrolabe riprendeva il mare e si dirigeva verso Amboina, dove giunse senza accidenti il 24 settembre.

Sebbene il governatore, signor Merkus. fosse in giro, il comandante trovò in questo porto tutti gli oggetti che gli abbisognavano. Vi fu ricevuto nel modo più amichevole dalle autorità e dagli abitanti, che fecero del loro meglio per far dimenticare ai Francesi le fatiche di quella lunga e penosa campagna.

Da Amboina, d'Urville si diresse verso la Tasmania o Hobart-Town, che dopo Baudin non aveva più ricevuto alcuna nave francese. Vi giunse il 17 dicembre 1827.

Trentacinque anni prima, d'Entrecasteaux non aveva trovato su quelle spiaggia che qualche miserabile selvaggio, e, dieci anni dopo, Baudin non vi aveva più trovato nessuno.

La prima cosa che Dumont d'Urville apprese entrando nel fiume Dervent, prima ancora d'aver ancorato dinanzi a Hobart-Town, fu che il capitano inglese Dillon aveva avuto a Tucopia informazioni positive sul naufragio di La Pérouse a Vanikoro; aveva anzi portato seco ma impugnatura di spada che supponeva aver appartenuto a questo navigatore.

Giunto a Calcutta, Dillon aveva partecipato la sua scoperta al governatore; questi lo aveva immediatamente rimandato sui luoghi con missione di raccogliere i naufraghi che potessero esistere ancora, e tutto quanto rimanesse dei bastimenti.

S'immagini con quale interesse d'Urville apprese queste notizie, lui, che avendo ricevuto istruzione di adunare tutti i documenti atti a proiettare qualche luce sulla sorte dello

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sfortunato navigatore, aveva acquistato, a Namuka, la prova del soggiorno di La Pérouse nell'arcipelago degli Amici.

Le opinioni, nella colonia inglese, erano divise sulla fede che si doveva prestare alla narrazione del capitano Dillon; ma il rapporto che quest'ufficiale aveva diretto al governatore dell'India venne a togliere ogni dubbio a d'Urville. Epperò, rinunciando a' suoi ulteriori progetti sulla Nuova Zelanda, risolse condurre l'Astrolabe a Vanikoro, ch'egli non conosceva ancora se non col nome di Mallicolo, secondo Dillon.

Del resto, ecco i fatti, come quest'ultimo li aveva esposti. Durante una sosta alle isole Fidji, il bastimento l'Hunter

aveva avuto occasione di raccogliere un prussiano, Martin Bushart, sua moglie e un lascar, chiamato Achowlia, che gl'indigeni stavano per divorare, come avevano fatto di tutti gli altri disertori europei stabiliti nell'arcipelago. Questi tre disgraziati non domandavano che di essere sbarcati sulla prima isola abitabile che l'Hunter incontrasse. Furono «dunque deposti sopra una delle isole Carlotte, a Tucopia, a 12° 15' di latitudine sud e 169° di longitudine.

Nel mese di maggio 1826, Dillon, che aveva fatto parte dell'equipaggio dell'Hunter, desideroso di sapere che cosa ne era avvenuto dei marmai sbarcati nel 1813 su Tucopia, s'avvicinò a quest'isola.

Vi trovò infatti il Iascar ed il prussiano. Il primo gli vendette una impugnatura di spada d'argento. Naturalmente, Dillon domandò come quegl'indigeni se la fossero procurata. Il prussiano narrò che al suo arrivo a Tucopia vi avevano trovato dei catenacci, delle scuri, coltelli, oggetti di ferro, cucchiai e una quantità d'altri oggetti che gli si disse provenire da Mallicolo, gruppo d'isole situate all'ovest, distanti solamente due giornate di piroga.

Dillon, continuando ad interrogare gl'indigeni, apprese che molti anni prima due navi erano state gettate sulle coste di

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quest'isola. Una era interamente perita, corpi e beni, ma i marinai della seconda avevano costruito, con gli avanzi del loro bastimento, una piccola nave, sulla quale erano partiti, lasciando a Mallicolo alcuni de' loro. Il lascar asseriva aver veduto due di questi uomini, che, pei servigi resi ai capi, si erano acquistata una legittima influenza.

Dillon gli propose invano di condurlo a Mallicolo; fu più fortunato col prussiano, che lo accompagnò fino in vista di quell'isola — isola della Ricerca di Entrecasteaux; — ma la calma e il difetto di viveri avevano impedito a Dillon di fermarvisi.

Al suo arrivo a Pondichéry, il governatore, dopo aver preso cognizione del suo rapporto, gli affidò il comando d'una nave, specialmente destinata a nuove investigazioni. Si era nel 1827. Dillon giunse a Tucopia, si provvide d'un interprete e d'un pilota, poi guadagnò Mallicolo. Ivi apprese dagl'indigeni che gli stranieri erano rimasti cinque mesi sull'isola a costruire i loro bastimenti, che del resto essi erano considerati come esseri soprannaturali, opinione che la loro singolare condotta aveva assai contribuito ad accreditare. Infatti, si vedevano discorrere con la luna e le stelle mediante un lungo bastone; il loro naso era enorme, e alcuni di quegli uomini si tenevano costantemente ritti su di un piede, con una barra di ferro in mano.

In tal guisa erano rimasti nei ricordi popolari le osservazioni astronomiche, i cappelli a corna e le sentinelle dei Francesi.

Dillon raccolse dagl'indigeni alquante reliquie della spedizione. Scorse pure in fondo al mare, sui banchi di corallo dove la nave aveva toccato, dei cannoni di bronzo, una campana e reliquie d'ogni sorta, che raccolse pietosamente e portò a Parigi nel 1828; e il re gli accordò una pensione di quattromila franchi in ricompensa dei suoi lavori.

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Il dubbio non fu più possibile quando il conte Lesseps, questo compagno di La Pérouse che era sbarcato a Kamtchatka, ebbe riconosciuto i cannoni e la scritta: «Bussole», e quando poi si fu decifrato lo stemma di Colignon, il botanico, sopra un candeliere di argento.

Ma di questi ultimi fatti tanto interessanti e curiosi,

d'Umile non doveva essere istruito che molto più tardi, e

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intanto egli non conosceva che il primo rapporto di Dillon. Per caso, o piuttosto per timore d'essere prevenuto, questo

capitano aveva trascurato d'indicare la situazione di Vanikoro e la rotta che aveva seguito per recarvisi da Tucopia. d'Urville ritenne che quest'isola dovesse appartenere al gruppo di Banks o di Santa-Cruz, quasi sconosciute tanto l'una che l'altra.

Ma, prima di seguire il comandante, bisogna fermarsi alcun tempo con lui a Hobart-Town, che già gli parve d'una notevole importanza.

«Le sue case sono assai spaziose, dice lui, e generalmente hanno un sol piano, oltre il terreno; ma la pulitezza e la regolarità danno loro un aspetto piacevole. Le strade non sono selciate, il che le rende faticose e la polvere poi che s'innalza di continuo è assai molesta agli occhi; v'è però qualche comodità. Il palazzo del governo occupa una felice situazione in riva alla baia. Questa residenza fra pochi anni sarà più gradevole se i giovani alberi di cui la si è circondata piglieranno tutto il loro sviluppo, giacché quelli del paese sono poco atti a servire d'ornamento.»

Il tempo fu messo a profitto durante questa sosta per provvedersi di viveri, di àncore e oggetti di prima necessità, non che per rattoppare il bastimento e procedere a una quantità dì riparazioni indispensabili all'attrezzatura.

Il 6 gennaio 1828, l'Astrolabe ripigliava di nuovo il mare, il 20 rilevava l'isola Norfolk, sei giorni dopo il piccolo vulcano Mathew, Erronan il 28, l'isoletta Mitra il dì 8 febbraio, e l'indomani giunse in faccia a Tucopia. Questa è un'isoletta di tre o quattro miglia di circuito, con un picco alquanto acuto, ricoperto di vegetazione. La parte orientale di quest'isoletta sembrava inaccessibile essendo sempre battuta dai flutti.

L'impazienza di tutti cresce e non ha più limiti, quando si veggono avvicinarsi tre piroghe, in una delle quali si trova un europeo.

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È il prussiano Bushart, come lo dichiara lui stesso, che ha accompagnato Dillon a Mallicolo. Questi aveva soggiornato quasi un mese in quel luogo, in cui si era realmente procurate le reliquie della spedizione, come d'Urville ne era stato informato a Hobart-Town. Non rimaneva più un francese nell'isola, l'ultimo essendo morto l'anno precedente. Bushart aveva dapprima accettato d'accompagnare d'Urville, ma ritornò sulla promessa e rifiutò all'ultimo momento di rimanere a bordo dell'Astrolabe.

Vanikoro è circondata da scogliere sottomarine, attraverso le quali si pervenne non senza pericolo a trovare un passo che permise di ancorare l'Astrolabe nella baia d'Ocili, la stessa in cui Dillon aveva lasciato cader l'ancora. Quanto al luogo del naufragio, era situato sulla costa opposta dell'isola.

Non fu facile ottenere informazioni dagl'indigeni, gente avida, di malafede, insolente e perfida. Un vecchio finì per confessare che i bianchi sbarcati sulla spiaggia di Vanù erano stati ricevuti a frecciate; ne era seguita una lotta in cui buon numero d'indigeni avevano trovato la morte; quanto ai maras erano stati uccisi tutti ed i loro crani seppelliti a Vanù; le ossa avevano servito agli indigeni per guarnire le loro frecce.

Fu spedito un canotto al villaggio di Naina; la promessa di un pezzo di panno rosso risolvè, non senza lunghe esitazioni, gl'indigeni a condurre i Francesi sul luogo del naufragio. Ad un miglio dalla terra, vicino a Paiù, ed in faccia ad Ambi, si distinguevano, qua e là, àncore, palle da cannone e molti altri oggetti che non lasciarono nessun dubbio negli ufficiali dell'Astrolabe.

Era evidente a loro tutti che la nave aveva tentato d'introdursi entro te scogliere per una specie di passo, che aveva arenato e non aveva potuto liberarsi. Ma l'equipaggio aveva potuto salvarsi a Paiù e, secondo il racconto dei selvaggi, vi aveva costruito un piccolo edificio, mentre l'altra nave,

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arenatasi più al largo, sugli scogli, si sarebbe perduta, corpi e beni.

Il capo Moembe aveva inteso dire che gli abitanti di Vanù avevano accostato il bastimento per saccheggiarlo, ma che, respinti dai bianchi, avevano perduto 20 uomini e tre capi. Essi, a loro volta, avevano massacrati tutti i francesi scesi a terra; due solamente, risparmiati, avevano vissuto nell'isola lo spazio di tre lune.

Un altro capo, chiamato Valikko, narrava che uno dei bastimenti si era arenato fuori della scogliera, rimpetto a Tanema, dopo una notte assai ventosa, e che quasi tutti i suoi uomini erano periti senza venire a terra.

I maras della seconda nave, in gran numero, si erano stabiliti a terra, ed avevano costruito a Paiù un piccolo vascello con gli avanzi della nave arenatasi. Durante il loro soggiorno erano sorte delle lìti, e cinque indigeni di Vanù ed uno di Tanema erano stati uccisi e così pure due maras. I Francesi avevano lasciato l'isola in capo a cinque lune.

Finalmente un terzo vecchio assicurava che una trentina di marinai della prima nave si erano uniti all'equipaggio della seconda, e che non erano partiti tutti che in capo a sei o sette lune. Tutte queste deposizioni, che si dovettero, per così dire, strappare a forza, variavano nei particolari; sembrava però che le ultime versioni s'avvicinassero di più alla verità.

Fra gli oggetti raccolti dall'Astrolabe figurano un'ancora di milleottocento libbre circa, un cannone corto di ferro fuso, un trombone: di rame, un petriero in bronzo, del piombo e molti altri oggetti io cattivissimo stato e di non grande interesse.

Questi oggetti, al par di quelli raccolti da Dillon, figurano oggi nel museo della Marina, posto nelle gallerie del Louvre.

D'Urville non volle lasciare Vanikoro senza innalzare un cenotafio alla memoria de' suoi infelici compatrioti. Questo modesto monumento fu posto sopra la scogliera in mezzo ad un

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cespo di manglix. Si compone d'un prisma quadrangolare, alto sei piedi, di foglie di corallo, sormontato da una piramide pure quadrangolare della medesima altezza, di legno di «kudi», che porta sopra una piccola lastra di piombo la seguente iscrizione:

ALLA MEMORIA

DI LA PEROUSE E DE' SUOI COMPAGNI

L'«ASTROLABE» 14 MARZO 1828

Appena terminato questo lavoro, d'Urville prese le sue

disposizioni per salpare. Era tempo, giacché l'umidità prodotta dalle pioggie torrenziali aveva ingenerate delle febbri violente che avevano colpito non meno di venticinque persone. Se il comandante voleva conservare un equipaggio capace di eseguire le manovre faticose che necessitava l'uscita da un passo stretto e sparso di scogli, bisognava affrettarsi.

L'ultimo giorno che l'Astrolabe passò a Vanikoro avrebbe del resto illuminato, se ve ne fosse stato bisogno, il comandante sulle vere disposizioni degl'indigeni. Ecco come egli narra gli ultimi incidenti di questa pericolosa fermata:

«Verso le otto fui molto meravigliato di veder venire verso noi una mezza dozzina di piroghe di Tevai, tanto più che tre o quattro abitanti di Manevai che si trovavano a bordo non sembravano per nulla spaventati del loro avvicinarsi, sebbene ci avessero già detto, alcuni giorni prima, che quelli di Tevai erano i loro nemici mortali.

Io mostrai la mia sorpresa agli uomini di Manevai, che si accontentarono di ridere con aria equivoca dicendo che avevano fatta la pace con gli abitanti di Tevai e che questi mi portavano dei cocchi. Ma m'accorsi presto che i nuovi venuti non portavano altro che archi e frecce in buonissimo stato. Due

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o tre di loro salirono a bordo con aria risoluta e s'accostarono al finestrone per guardare nell'interno, e assicurarsi del numero degli uomini ammalati. In pari tempo traspariva una gioia maligna dai loro sguardi diabolici. In questo momento alcuni dell'equipaggio mi fecero osservare che due o tre uomini di Manevai, che si trovavano a bordo, facevano altrettanto da tre o quattro giorni. Il signor Gressein, che fin dal mattino osservava i loro movimenti, credette vedere i guerrieri delle due tribù riunirsi sulla spiaggia e tenere fra essi una lunga conferenza. Simili manovre rilevavano le più perfide disposizioni e io credetti che il pericolo fosse imminente. Intimai subito agl'indigeni di lasciare la corvetta e scendere nelle loro piroghe. Ebbero l'audacia di guardarmi con aria fiera e minacciosa, come per sfidarmi a far eseguire il mio ordine. Mi limitai a far aprire la sala d'armi, di solito chiusa accuratamente, e con faccia severa la mostrai col dito a quei selvaggi, mentre con altro dito indicai le loro piroghe. Il subitaneo aspetto di venti moschetti scintillanti, dei quali essi conoscevano la potenza, li fece trasalire, epperò ci liberarono della loro sinistra presenza.»

Prima, di lasciare questo gruppo di lamentevole memoria, ecco alcuni particolari tolti dalla relazione di d'Urville.

Il gruppo di Vanikoro, di Mallicolo o di La Pérouse, come lo chiama Dillon, si compone di due isole, la Ricerca e Tevai. La prima non ha meno di trenta miglia di circonferenza, la seconda non ne ha più di nove. Entrambe sono alte, coperte fin quasi alla riva del mare di foreste impenetrabili, e circondate da una barriera di scogli sottomarini di trentasei miglia di circonferenza, tagliata da passi rari e stretti.

Il numero degli abitanti non dev'essere superiore a 1200 o 1500 individui, pigri, stomachevoli, feroci, avidi e vili. Fu una vera mala sorte per La Pérouse di andare ad arenarsi in mezzo a una tale popolazione, mentre avrebbe ricevuto tutt'altra accoglienza su qualunque altra isola della Polinesia.

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Le donne sono per natura orride; ma le fatiche che sopportano e le usanze che seguono non fanno che rendere il loro aspetto ancor più spiacente.

Gli uomini sono un po' meno brutti, benché piccoli, magri,

coperti di ulceri e di macchie di lebbra. Le loro armi sono l'arco e le frecce. A detta degl'indigeni, queste ultime sono di bambù, guarnite d'una punta d'osso finissima ed acuta, saldata con una

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resina assai tenace, e recano ferite mortali. Perciò essi le tengono care, ed i viaggiatori stentarono molto a procurarsi alcune di queste armi.

Il 17 marzo l'Astrolabe era finalmente fuori delle terribili scogliere che formano la cinta di Vanikoro. L'intenzione del comandante era dì riconoscere le isole Taumako , Kennedy, Nitendi e le Salomon, dove sperava trovar le traccie del naufragio dei superstiti della Boussole e dell'Astrolabe. Ma la triste condizione dell'equipaggio, indebolito dalla febbre, la malattia della maggior parte degli ufficiali, la mancanza di ancoraggi sicuri in questa parte dell'Oceania, lo risolsero a dirigersi verso Guaham, dove sarebbe stato possibile, credeva egli,. avere un po' di riposo.

Era questa una grave deroga alle istruzioni che gli prescrivevano la ricognizione dello stretto di Torres; ma l'assenza di quaranta marinai giacenti malati bastava a provare la pazzia di un tentativo tanto pericoloso.

Il 26 aprile soltanto, fu scorto l'arcipelago Hogolez, dove d'Urville empì la lacuna lasciata da Duperrey nella sua esplorazione, e non fu che il 2 maggio che si riconobbero le coste di Guaham. La fermata ebbe luogo a Umata, dove si trovò un'acqua comoda e un clima più temperato che ad Agagna. Tuttavia, il 29 maggio, quando la spedizione rimise alla vela, tutti gli uomini erano lungi d'essere guariti, il che Dumont d'Urville attribuisce agli eccessi che questi ammalati avevano fatto negli alimenti, e all'impossibilità di costringerli ad un conveniente regime.

Il buon Medinilla, di cui Freycinet ebbe tanto a lodarsi è ancora governatore di Guaham. Se egli questa volta non mostra tante cortesie verso la spedizione, gli è che una terribile siccità aveva devastata la colonia; inoltre s'era sparsa la voce che la malattia di cui erano affetti i marinai dell'Astrolabe fosse contagiosa; del resto, Umata era molto lontana da Agagna, e

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perciò d'Urville non poté visitare il governatore nella sua residenza.

Tuttavia, Medinilla mandò alla spedizione dei viveri freschi e frutti in quantità e non si dipartì dalla sua abituale generosità.

Lasciando Guaham, d'Urville riconobbe sotto vela, nelle Caroline occidentali, i gruppi Elivi, l'Illuthii di Lütké, Güap, Gulù, Pelew; fu costretto dai venti a passare in vista di Waigiu, d'Aiù, d'Asia, di Guébé, passò nello stretto di Buru e finalmente calò l'ancora ad Amboina, dove ricevette una cordiale accoglienza dalle autorità olandesi. Il comandante vi trovò pure notizie di Francia. Il Ministero pareva non volesse tenere alcun conto dei lavori, della fatiche e dei pericoli della, spedizione, giacché nonostante le proposte di d'Urville, nessun ufficiale era stato promosso.

Quando queste notizie furono note, produssero una certa costernazione ed uno scoraggiamento che il comandante si fece premura di combattere.

Da Amboina, l'Astrolabe raggiunse Manado per lo stretto di Banka. È una residenza piacevole, dove si vede un forte ben trincerato e munito di cannoni. Il governatore Merkus poté procurare a d'Urville dei babirossa, un sapiutang, animale grosso come una vaccherella e che le somiglia nel muso e nelle zampe, con due corna rivolte all'indietro, dei serpenti, degli uccelli e delle piante che arricchirono la collezione di storia naturale.

Secondo d'Urville, l'esteriore degli abitanti di Celebes s'avvicina molto più a quello dei Polinesi che dei Malesi. Gli sembrava trovarvi i tipi di T'aiti, di Tonga-Tabù, della Nuova Zelanda, ben più dei Papus del porto Dorei, degli Harfurs di Buru, o le faccie quadrate e ossute dei Malesi.

Nelle vicinanze di Manado si trovarono delle miniere di quarzo aurifero, di cui il comandante poté procurarsi un

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campione, ed un lago situato nell'interno, la cui profondità si diceva immensa. È il lago Tondano, dal quale esce un torrente naturale, il Manado, che sbarrato da una roccia di basalto, si è scavato un'uscita, e, slanciandosi con violenza, sprofonda in un precipizio di oltre ottanta piedi d'altezza.

Insieme al governatore ed ai naturalisti della spedizione, d'Urville esplorò questo bel lago circondato da montagne vulcaniche in cui sì nota ancora qualche fumarola; quanto alla sua profondità, si riduce a dodici o tredici braccia uniformemente, di maniera che se questa, mappa prosciugasse formerebbe una pianura perfettamente unita.

Il 4 agosto fu lasciato l'ancoraggio di Manado, che non era stato favorevole alla guarigione dei malati da febbre e dissenteria della spedizione, la quale giunse il 29 dello stesso mese a Batavia, dove non rimase che tre giorni.

A datare da questo momento, l'Astrolàbe, fino al suo ritorno in Francia, non fece mai rotta che in mari conosciuti. Raggiunse l'isola di Francia dove d'Urville incontrò il comandante Le Goarant che con la corvetta la Bayonnaise aveva fatto una spedizione a Vanikoro. Egli apprese che quest'ufficiale non aveva neppur tentato di penetrare nell'interno della scogliera, e si era accontentato di inviare in ricognizione le sue imbarcazioni.

Gl'indigeni avevano rispettato il monumento eretto alla memoria di La Pérouse e non permisero che a stento ai marinai della Bayonnaise d'inchiodarvi una medaglia di rame.

Il 18 novembre, la corvetta lasciò l'isola di Francia, si fermò al Capo, a Sant'Elena, all'Ascensione, ed il 25 marzo 1829 giunse a Marsiglia, trentacinque mesi, giorno per giorno, dopo la sua partenza.

Solo per l'idrografia, i risultati della spedizione erano notevoli, e si contavano non meno di quarantacinque carte nuove dovute all'infaticabile lavoro dei signori Gressein e

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Paris. Quanto alla storia naturale, nulla, all'infuori delle seguenti

linee del rapporto di Cuvier, potrebbe dare una migliore idea della ricchezza della messe portata:

«I cataloghi le contano a migliaia (le specie dovute ai signori Quoy e Gaimard) e nulla può meglio provare 1' operosità dei nostri naturalisti dell' imbarazzo in cui si trova 1' amministrazione del Giardino del Re per collocare tutto ciò che gli recarono le ultime spedizioni e segnatamente quella di cui rendiamo conto. Bisognò scendere al pian terreno, quasi ne' sotterranei, e anche i magazzini sono oggi talmente ingombri, che si è obbligati a dividerli con delle tramezze per moltiplicarvi i posti.»

Le collezioni di geologia non erano meno numerose: centosettanta sette specie o varietà di roccie attestavano dello zelo dei signori Quoy e Gaimard; il giovane signor Lesson aveva raccolto da mille e cinquecento a mille e seicento piante. Il capitano Jacquinet aveva fatto numerose osservazioni astronomiche, il signor Lottin aveva studiato il magnetismo; finalmente il comandante, senza trascurare i suoi doveri di marinaio e capo della spedizione, si era occupato di esperimenti di temperatura sottomarina, di meteorologia, ed aveva raccolto un prodigioso ammasso d'informazioni di filologia e d'etnografia.

Perciò non possiamo meglio determinare il racconto di questa spedizione che citando il seguente passo delle memorie di Dumont d'Urville, che riproduce la biografia Didot:

«Quest'avventurosa campagna ha sorpassato tutte quelle che erano state fatte fino allora, per la frequenza e l'immensità dei pericoli che corse, come pel numero e l'estensione dei risultati ottenuti in ogni genere. Una volontà di ferro non mi ha mai permesso di indietreggiare dinanzi ad alcun ostacolo. Una volta preso il partito di perire o riuscire, mi era impossibile

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ogni esitazione, ogni incertezza. Venti volte ho visto l'Astrolabe sul punto di perdersi, senza conservare in fondo all'animo nessuna speranza di salute. Mille volte compresi l'esitanza de' miei compagni di viaggio per adempiere all'oggetto delle mie istruzioni, e per due anni consecutivi posso affermare che abbiamo corso ogni giorno più pericoli reali che non offra la più lunga campagna nella navigazione ordinaria. Bravi, pieni d'onore, gli ufficiali non si dissimulavano i pericoli ai quali io giornalmente li esponevo; ma essi serbavano il silenzio ed adempivano nobilmente il loro compito.»

Da questo ammirabile accordo di sforzi e di devozione risultò una massa prodigiosa di scoperte, di materiali e d'osservazioni per tutte le nuove cognizioni, di cui i signori Rossel, Cuvier, Geoffroy Saint-Hilaire, Desfontaines, ecc., giudici dotti e disinteressati, diedero allora un esatto resoconto.

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CAPITOLO III.

LE SPEDIZIONI POLARI.

I.

IL POLO SUD.

Ancora un circumnavigatore russo: Bellingshausen. — Scoperta delle isole Traversay, Pietro I e Alessandro I. — Il baleniere Weddell. — Le Orcani australi. — La Georgia del Sud. — Il nuovo Shetland. — Gli abitanti della Terra del Fuoco. — Gianni Biscoë e le Terre d'Enderby e di Graham. — Carlo Wilkes ed il continente antartico — Il capitano Belleny. — Spedizione di Dumont d'Urville sull'Astrolabe e la Zélée. — Coupvent-Desbois al picco di Teneriffa. — Lo stretto di Magellano. — Un nuovo ufficio postale. — Chiuso ne' banchi di ghiaccio. — La Terra Luigi Filippo. — Attraverso l'Oceania. — Le terre Adelia e Clarie. — La Nuova Guinea e lo stretto di Torres. — Ritorno in Francia. — Giacomo Clark Fosset. — La Terra Vittoria.

Abbiamo già avuto occasione di parlare delle regioni

antartiche e delle esplorazioni che vi erano state fatte nel secolo XVII e sullo scorcio del XVIII da parecchi esploratori, quasi tutti francesi, tra i quali convien citare La Roche, scopritore della Nuova Georgia nel 1675, Bouvet, Kerguelen, Marion e Crozet. Si designano col nome di Terre Antartiche tutte le isole sparse nell'Oceano, che portano í nomi dei navigatori, poi quelle del Principe Edoardo, di Sandwich, della Nuova Georgia, ecc.

È in questi paraggi che William Smith, comandante del

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brick William, andando da Montevideo a Valparaiso, aveva, nel 1818, scoperto le Shetland del Sud, terre aride e nude coperte di neve, ma sulle quali sollazzavano immensi branchi di vitelli marini, animali la cui pelle serve da pelliccia e che non se ne erano fino allora trovati se non nei mari del Sud. A questa notizia le navi baleniere si affrettarono a visitare le rive di recente scoperte, e si calcola che nel 1821 e 1822 trecento ventimila vitelli marini furono catturati su questo arcipelago, e che la quantità d'olio d'elefante marino può essere valutata, per lo stesso tempo, a novecentoquaranta tonnellate. Ma siccome si erano uccisi maschi e femmine, questi nuovi terreni da caccia furono presto esauriti. Si rilevarono dunque in poco tempo le dodici isole principali e le innumerevoli roccie, quasi interamente prive di vegetazione, che compongono quest'arcipelago.

Due anni dopo, Botwell scoperse le Orcadi meridionali; poi, sotto le medesime latitudini, Palmer ed altri balenieri intravidero o credettero riconoscere delle terre che ricevettero il nome di Palmer e della Trinità.

Ben altre scoperte più importanti dovevano compiersi in queste regioni iperboree, e le ipotesi di Dalrymple, di Buffon e di altri scienziati del secolo XVIII sull'esistenza di un continente australe facente contrappeso alle terre del polo Nord dovevano ricevere una inattesa conferma dai lavori di questi intrepidi esploratori.

La Russia si trovava da alcuni anni in un periodo notevolissimo d'incoraggiamento alla marina nazionale e alle ricerche scientifiche. Abbiamo narrato interessanti viaggi dei circumnavigatori, ma rimane a parlare di Bellingshausen e del suo viaggio intorno al mondo, per la parte importante che vi ha l'esplorazione dei mari antartici.

I due bastimenti, il Vostok, capitano Bellingshausen, e il Mimi, comandato dal luogotenente Lazarew. lasciarono

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Cronstadt il 3 luglio 1819 per i mari polari del Sud. Il 15 dicembre riconobbero la Georgia meridionale, e sette giorni dopo scoprirono, nel sud-est, un'isola vulcanica, alla quale diedero il nome di Traversay, e di cui fissarono la posizione a 52° 15' di latitudine e 27° 21' di longitudine all'ovest del meridiano di Parigi.

Continuando a camminare all'est per quattrocento miglia sotto il 60°, fino al 187° meridiano, volsero allora al sud fino al 70°; là soltanto una barriera di ghiacci tagliò loro il cammino e impedì ad essi di penetrar oltre.

Bellingshausen non si diede per vinto, volse all'est, per lo più all'interno del Circolo polare; ma al 44° fu costretto ritornare al nord. A quaranta miglia di distanza giaceva una gran terra che un baleniere trovando libera la rotta doveva scoprire dodici anni più tardi.

Ridisceso fino al 62° di latitudine, Bellingshausen fece ancora rotta verso Port-Jackson per le necessarie riparazioni.

Tutta l'estate fu consacrata dal navigatore russo a una crociera nei mari oceanici, dove scoperse non meno di sette nuove isole. Di ritorno a Port-Jackson, Bellingshausen ne ripartì il 31 ottobre per una nuova spedizione.

Anzitutto le due navi riconobbero le isole Macquarie: poi, tagliando il 60° di latitudine per 160° di longitudine est, camminarono nell'est fra il 64° e il 68° fino al 95° di longitudine ovest. Il 9 gennaio 1821, Bellingshausen raggiunse il 70° di latitudine, e l'indomani scopriva, a 69° 30' e 92° 20' di longitudine ovest un'isola che ricevette il nome di Pietro I, terra la più meridionale che si fosse conosciuta fino allora. Poi, a 15° nell'est, e quasi sotto il medesimo parallelo, ebbe cognizione d'una nuova terra che fu chiamata Terra d'Alessandro I. Distante appena 200 miglia dalla Terra di Graham, esse deve unirvisi, stando a Krusenstern, giacché fra queste due isole il mare si mostra costantemente scolorato, senza contare altri

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indizi che sembrano confermare questa opinione. Di là le due navi, facendo rotta al nord e passando al largo

della Terra di Graham, raggiunsero la Nuova Georgia in febbraio e ritornarono a Cronstadt nel luglio 1821, appunto due

anni dopo la loro partenza, non avendo sofferto altra perdita all'infuori di tre uomini sopra un equipaggio di 2000 marinai.

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Avremmo voluto dare particolari più completi su questa interessantissima spedizione, ma la relazione originale pubblicata in russo a Pietroburgo, è sfuggita alle nostre ricerche, e abbiamo perciò dovuto accontentarci del riassunto pubblicato nel Bollettino della Società di Geografia nel 1837.

In quel tempo un mastro della marina reale, James Weddell, riceveva da una casa di commercio di Edimburgo il comando di una spedizione incaricata di raccogliere pelli di vitelli marini nei mari del Sud, in cui doveva soggiornare due anni. Essa si componeva del brick Jane di 160 tonnellate, capitano Weddell; e del cutter Beaufort, di 65 tonnellate, comandato da Matteo Brisbane.

Questi due bastimenti lasciarono l'Inghilterra il 17 settembre 1822, si fermarono a Buonavista, una delle isole del capo Verde, e ancorarono, l'11 dicembre successivo, nel porto di Sant'Elena, sulla costa orientale della Patagonia, dove furono fatte utili osservazioni sulla posizione di questo porto.

Weddell riprese il mare il 27 dicembre, e facendo rotta al S.-E. giunse il 12 gennaio in vista di un arcipelago cui diede il nome di Orcadi Australi. Queste isole sono situate al 60° 45' di latitudine sud e 45° di longitudine all'ovest del meridiano di Greenwich.

Questo piccolo gruppo presenterebbe, se si ha a credere a questo navigatore, un aspetto ancor più spaventevole del Nuovo Shetland. Da qualunque parte si volga lo sguardo, non si scorgono che punte acute di rocce, assolutamente nude, che sorgono come da un mare su cui si urtano, con un rumore di tuoni, enormi ghiacci fluttuanti.

I pericoli che corrono le navi in quei paraggi sono istantanei, e gli 11 giorni che Weddell passò sotto vela a rilevare minutamente le isole, gli isolotti e le rocce di questo arcipelago, furono senza riposo per l'equipaggio, che si vide di continuo in procinto di perire. Furono raccolti dei saggi dei

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principali strati di queste isole, e al ritorno furono deposti nelle mani del professore Jameson di Edimburgo, che vi riconobbe delle rocce primitive vulcaniche.

Weddell s'inoltrò allora nel sud, traversò il Circolo Polare al 30° est di Greenwich e non tardò a incontrare numerose isole di ghiaccio. Quando ebbe oltrepassato il 70° queste divennero meno numerose, e finirono per scomparire affatto. Il tempo si fece mite, gli uccelli riapparvero a frotte innumerevoli intorno alla nave, mentre branchi di balene si sollazzavano nella scia del bastimento. Questo singolare e inatteso raddolcimento della temperatura sorprese tutti, tanto più che si accentuava mano mano ci s'internava nel sud.

Le circostanze erano tanto favorevoli che a ogni istante Weddell si aspettava di scoprire qualche nuova terra; il che però non accadde.

Il 20 gennaio il bastimento si trovava a 36° 1/4 est e 74° 15'.

«Avrei volentieri esplorato la parte S.-O., dice Weddell, ma considerando l'avanzata stagione e che per ritornarcene avremmo dovuto percorrere uno spazio di mare di 1000 miglia, sparso d'isole di ghiaccio, non potei pigliare altro partito che approfittare di questo vento favorevole per ritornarmene.»

Non avendo scorto alcun indizio di terra in questa direzione, e il vento del sud soffiando con forza, Weddell ritornò indietro fino al 58° di latitudine e s'inoltrò nell'est fino a 100 miglia dalla Terra Sandwich. Il 7 febbraio il navigatore volse di nuovo al sud, attraverso un banco di ghiaccio di 50 miglia di larghezza, e il 20 febbraio tornò a 74° 15'. Dall'alto degli alberi della nave non si scorgeva da ogni parte che il libero mare e quattro isole di ghiaccio.

Questi deviamenti verso il sud avevano dati inattesi risultati. Weddell si era inoltrato verso il polo, 214 miglia più lontano dèi suoi predecessori, compreso Cook. Diede il nome

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di Giorgio IV a quella parte del mare antartico che aveva esplorato. Cosa singolare, e sulla quale è bene insistere, i ghiacci erano diminuiti man mano che si penetrava più avanti nel sud, le nebbie e gli uragani erano continui, l'atmosfera era giornalmente carica di un'umidità compatta, il mare era profondo, aperto e la temperatura singolarmente dolce.

Altra nota preziosa: i movimenti della bussola erano tanto lenti sotto questa latitudine australe quanto quelli che Parry ebbe a notare nelle regioni artiche.

I due bastimenti di Weddell, separati dalla tempesta, si riunirono alla Nuova Georgia, dopo una pericolosa navigazione di 1200 miglia attraverso i ghiacci. Quest'isola, scoperta da La Roche nel 1675, visitata nel 1756 dal vascello il Lion, non era veramente ben nota che dopo l'esplorazione fattane da Cook; i particolari che aveva dato nella sua relazione sull'abbondanza dei vitelli marini e dei leoni marini avevano risolto gran numero di armatori a frequentarla. Erano segnatamente inglesi e americani che portavano le pelli degli animali uccisi in China, dove non le vendevano a meno di venticinque a trenta franchi al pezzo. In pochi anni il numero delle pelli dei vitelli marini uccisi ascese a 1.200.000. Perciò questa razza d'animali vi era già quasi spenta.

«La lunghezza della Georgia meridionale è di circa 30 leghe e la sua larghezza media è di tre leghe. Essa è talmente frastagliata da baie, che in alcuni luoghi le due rive di quei piccoli ancoraggi sembrano toccarsi. Le cime delle montagne sono assai erte e sempre coperte di neve. Nelle vallate, la vegetazione non manca di forza nell'estate. Vi si nota sopratutto una specie di foraggio i cui steli vigorosissimi s'innalzano comunemente a due piedi d'altezza. Non vi sono quadrupedi, ma l'isola è popolata d'uccelli e di animali anfibi.»

Vi si incontrano delle immense frotte di pinguini che passeggiano sulla riva, con la testa alta e l'aria superba. Si

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direbbero, per ricordare l'espressione di un antico navigatore, sir John Narborough, frotte di fanciulli col grembialetto bianco. Vi si vedono pure delle quantità d'albatros, uccelli di sedici o diciassette piedi d'apertura d'ali, e il cui volume, spennacchiato, è ridotto alla metà.

Weddell visitò pure le Nuove Shetland e notò che l'isola Bridgeman, che fa parte di questo arcipelago, è un vulcano tuttora in attività. Gli fu impossibile di sbarcare, stantechè tutti i porti erano bloccati dai ghiacci, e dovette recarsi alla Terra del Fuoco.

Nel soggiorno di due mesi che Weddell vi fece, riunì preziose osservazioni sui vantaggi che offre questa costa ai navigatori e poté acquistare esatte nozioni sul carattere degli abitanti.

Nell'interno vi sorgono delle montagne, sempre coperte di neve, la più alta delle quali non sembra oltrepassare tremila piedi. Weddell non poté scorgere il vulcano che vi osservarono altri viaggiatori, e segnatamente Basii Hall nel 1822, ma raccolse una quantità di lava da esso proveniente. Del resto, non vi poteva esser dubbio sulla sua esistenza, giacché Weddell, in un precedente viaggio fatto nel 1820, aveva notato che il cielo era talmente rosso al disopra della Terra del Fuoco, che non aveva potuto attribuire questa colorazione straordinaria che a una eruzione vulcanica.

Fino allora i viaggiatori che avevano visitato la Terra del Fuoco erano poco d'accordo sulla temperatura di questa regione polare. Weddell attribuisce queste divergenze alla differenza delle epoche del loro soggiorno e dei venti che dominavano. Per lui, se il vento soffia dal sud, il termometro non oltrepasserà mai due o tre gradi sopra lo zero; se al contrario viene dal nord, farà tanto caldo quanto in luglio in Inghilterra.

Gli animali di cui il navigatore notò la presenza sono i cani e le lontre, e, secondo lui, sarebbero i soli quadrupedi del

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paese. Le relazioni con gli indigeni furono sempre cordiali.

Dapprima questi fecero il giro del bastimento, senza osare di salirvi; ma non tardarono poi a familiarizzarsi. Le scene medesime che sono state descritte al tempo del passaggio della prima nave per lo stretto, si riprodussero fedelmente non ostante il tempo trascorso. Del pane, del madera e del manzo che si servì a questi indigeni, non si attennero che all'ultimo. Per essi, gli oggetti più preziosi erano il ferro e gli specchi, dinanzi a cui facevano smorfie e contorsioni stravaganti e che divertivano tutto l'equipaggio.

Del resto, il loro assetto bastava a eccitare l'ilarità. Con la loro tinta nera, le penne azzurre, la faccia tracciata di linee parallele rosse e bianche come una tela da materasso, offrivano una fisionomia tanto grottesca che si prestava alle facezie e alle risa degli Inglesi.

Poco soddisfatti dai pezzi di cerchio di barile che si davano loro e trovando meschini questi doni offerti da gente che possedeva tante ricchezze, si misero presto a pigliarsi tutto ciò che loro conveniva. Questi furti furono facilmente repressi, ma produssero parecchie scene piacevoli e permisero di ammirare la meravigliosa facoltà di imitazione di quei selvaggi.

«Un marinaio, narra Weddell, aveva dato a uno di essi una tazza di stagno piena di caffè; questi bevette il caffè e si tenne la tazza. Il marinaio, accortosi che la tazza era sparita, la domanda vivamente, e non ostante l'energia del suo gesto nessuno si presenta a restituire l'oggetto rubato. Dopo aver adoperato tutti i mezzi imaginabili, quest'uomo, furioso, pigliando un atteggiamento tragico, gridò con tono animato: «Canaglia dal color di rame, che hai fatto della mia tazza?» Il selvaggio imitando il suo atteggiamento ridisse in inglese e sul medesimo tono: «Canaglia dal color di rame, che hai fatto della mia tazza?» L'imitazione fu così esatta e così pronta che tutto

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l'equipaggio proruppe in una risata, eccetto il marinaio che si slanciò sul ladro, lo frugò e trovò la sua tazza di stagno.»

Sotto quel clima rigido, senza vesti, senza nutrimento, in mezzo a sterili montagne, senz'animali che possano fornir loro un alimento sostanzioso che li riconforti, i Fuegini si trovano in uno stato di abbrutimento assoluto. La caccia non può fornir loro mezzi seri di sussistenza, la pesca è insufficiente: son dunque costretti aspettare che la tempesta getti sulle loro coste dei grossi cetacei, ch'essi divorano a tutto pasto senza neppur darsi la pena di farne cuocere la carne.

Nel 1828, il vascello Chanticleer, comandato da Enrico Foster, era stato incaricato di fare delle osservazioni del pendolo per la determinazione della figura della terra. Questa spedizione durò tre anni e terminò con la morte del suo comandante, che annegò nel 1831 nel fiume Chagres. Noi non ne parliamo se non perchè il 5 gennaio 1829 questo bastimento riconobbe ed esplorò il gruppo delle Shetland meridionali. Il comandante anzi scese a grande stento sopra una di queste isole, ove raccolse alcuni campioni di quelle sieniti di cui il suolo è composto e una piccola quantità di neve rossa, affatto simile a quella che parecchi esploratori avevano trovato nei paraggi del polo Nord. Ma si ha una ricognizione di ben più vivo interesse: è quella che fece nel 1830 il baleniere John Biscoë.

Il brick Tuia di centoquarantotto tonnellate e il cutter Lively, lasciarono, sotto i suoi ordini, il porto di Londra il 14 luglio 1830. Questi due bastimenti, appartenenti ai signori Enderby, erano armati per la pesca delle foche e provvisti di tutti gli oggetti necessari a questa lunga e penosa navigazione. Ma le istruzioni che Biscoë aveva ricevuto gli prescrivevano altresì di cercar di fare qualche scoperta nei mari antartici.

I due bastimenti raggiunsero le Maluine, ne ripartirono il 27 novembre, cercarono invano le isole Aurora e si diressero

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verso la Terra di Sandwich, la cui punta settentrionale fu girata il 1° gennaio 1831.

Arrivati al cinquantesimo parallelo, incontrarono dei ghiacci compatti che li forzarono ad abbandonare la rotta del S.-O., direzione sulla quale si notavano i segni della vicinanza della terra. Bisognò dunque volgere a est, costeggiare il banco di ghiaccio fino a 9° 34' di longitudine occidentale. Fu solamente il 16 gennaio che Biscoë poté tagliare il 60° parallelo sud.

Cook nel 1765 aveva trovato mare libero sopra uno spazio di 250 miglia, lo stesso in cui una barriera insormontabile aveva arrestato il tentativo di Biscoë.

Continuando a camminare verso il S.-E. fino a 68° 51' di latitudine e 10° di longitudine orientale, il navigatore non poté a meno di stupirsi della scolorazione dell'acqua, della presenza di parecchi eaglets (aquilotti) e di piccioni del Capo, finalmente della direzione del vento che soffiava da S.-S.-O., indizio certo della vicinanza di una grande terra. Ma i ghiacci gli vietarono l'accesso del sud, e perciò Biscoë dovette proseguire la sua rotta all'est avvicinandosi al Circolo Polare.

«Finalmente il 27 febbraio, dice Desborough Cooley, a 65° 57' sud e 45° di longitudine orientale vide assai distintamente una terra di notevole estensione, montuosa e coperta di neve, alla quale diede il nome di Enderby. Tutti i suoi sforzi fin d'allora ebbero per iscopo di abbordarvi, ma essa era interamente circondata da ghiacci che ne impedivano ravvicinarsi. Dopo di ciò un vento inaspettato separò le due navi e le trasse verso il sud-est avendo ancora per lungo tempo in vista la medesima terra che offriva dall'est all'ovest un'estensione di oltre 200 miglia. Ma il cattivo tempo e lo stato deplorevole della salute dell'equipaggio costrinsero il capitano Biscoë a lasciarsi portare sulla terra di Van Diemen, dove fu raggiunto parecchi mesi dopo dal Lively.»

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Gli esploratori furono più volte testimoni del chiarore abbagliante delle aurore australi, spettacolo meraviglioso, impossibile a dimenticarsi.

«Per la prima volta, dice Biscoë, gli splendidi riflessi dell'aurora australe volgevano sopra di noi in forma di magnifiche colonne, poi pigliavano a un tratto l'aspetto di una frangia di tappezzeria e, un istante dopo, si agitavano nell'aria come serpenti; spesso questi sprazzi di luce sembravano essere a poche verghe al disopra delle nostre teste, e per certo si trovavano nella nostra atmosfera.»

La terra, montuosa e coperta di neve, correva seguendo la direzione E.-O., sotto il parallelo 66° 30'; per sfortuna non fu possibile avvicinarla di più di due leghe; essa era dappertutto costeggiata da ghiacci.

Lasciando la Terra di Van Diemen il 14 gennaio 1832, Biscoë si diresse con le sue due navi al S.-E. A più riprese, dei fuchi (piante marine) galleggianti alla superficie del mare, e quantità d'uccelli che si scostano di poco dalla terra, delle nubi basse e fitte fecero credere a Biscoë che stava per fare qualche scoperta; ma la tempesta lo impedì certo di spingere oltre la sua ricognizione. Finalmente il 12 febbraio a 66° 27' di latitudine e 84° 10' di longitudine, di nuovo furono scorti, in gran numero, albatri, pinguini e balene; il 15 fu scoperta una terra nel S.-E. ad una grande distanza; l'indomani si riconobbe essere un'isola cui si diede il nome di Adelaide, in onore della regina d'Inghilterra. Su quest'isola, a una lega circa dalla riva del mare, si elevano parecchi cocuzzoli di forma conica, a base larghissima.

I giorni successivi ci si poté accertare che essa non era isolata, ma faceva parte di una catena d'isolotti posti dinanzi a una terra alta.

Questa terra, che si estendeva su di uno spazio di 250 miglia in una direzione E.-N.-E. e O.-S.-O., ricevette il nome di

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Graham, mentre quello di Biscoë rimaneva unito alla catena delle isole che questo navigatore aveva scoperto. Il paese non offriva la minima traccia di piante o d'animali.

Biscoë, per dare una sanzione certa alla sua scoperta,

discese, il 21 febbraio, sulla gran terra, onde prenderne possesso e determinò con 64° 45' di latitudine sud e 66° 11' di

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longitudine ovest di Parigi la posizione d'un'alta montagna, alla quale diede il nome di monte William.

«Ci si trovava, dice il Bollettino della Società di Geografia del 1833, in una baia profonda, ove l'acqua era tanto quieta che, se vi fossero state delle foche, si sarebbe potuto facilmente caricarne le due navi, attesoché si sarebbe potuto, senza difficoltà, avvicinarsi alle scogliere per dar loro la caccia.

«L'acqua era anche profondissima, poiché quasi presso alla riva non si toccava il fondo a 20 braccia. Il sole era tanto caldo che la neve si scioglieva sopra tutte le rupi situate in riva all'acqua, circostanza che rendeva ancor più straordinaria l'assenza totale delle foche.»

Di là Biscoë raggiunse lo Shetland del Sud, cui potrebbe unirsi la Terra di Graham; poi sostò alle Maluine dove il Lively si perdette, e finalmente tornò in Inghilterra.

Il capitano Biscoë ricevette in ricompensa delle sua fatiche, e per incoraggiarlo ne' suoi sforzi, i grandi premi delle Società Geografiche di Londra e di Parigi.

In seguito a questi viaggi sorsero animatissime controversie sulla esistenza di un continente australe e sulla possibilità di navigare al di là di una prima barriera di ghiacci, appoggiata sulle isole già scoperte.

Tre potenze risolvettero a quel tempo stesso di inviarvi una spedizione. La Francia affidò il comando della sua a Dumont d'Urville, l'Inghilterra a James Ross e gli Stati Uniti al luogotenente Charles Wilkes.

Gli onori ai nuovi venuti. Quest'ultimo ricevette il comando di una piccola squadra composta del Purpoise, di due sloops, il Vincennes e il Peacock, di due schooners, Sea-Gull e Flying-Fish, e di una gabarra, il Relief. Quest'ultima, che portavate suoi fianchi un supplemento di provvigioni, fu spedita a Rio, mentre gli altri bastimenti, prima di fermarsi su quella rada, toccarono Madera e le isole del Capo Verde.

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Dal 24 novembre 1838 al 6 gennaio 1839 la squadra si fermò nella baia di Rio Janeiro, raggiunse poscia il Rio Negro, dove soggiornò sei giorni, e non arrivò che il 19 febbraio 1839 al porto Oranges alla Terra del Fuoco.

In questo luogo la spedizione si divise: il Peacock e il Flying-Fish furono inviati verso il punto in cui Cook aveva girato il 65° di latitudine; il Relief penetrò, coi naturalisti, nello stretto di Magellano, da uno dei passi situati a S.-E. della Terra del Fuoco; il Vincennes rimase al porto Orange, mentre il Sea-Gull e il Purpoise partivano il 24 febbraio pei mari australi. Wilkes riconobbe la Terra di Palmer sopra una lunghezza di 30 miglia sino al punto in cui volge verso S.-S.-E., ch'egli chiamò capo Hope; poi visitò le Shetland e praticò alcune felici rettifiche alla loro geografia.

I due bastimenti, dopo 36 giorni passati in quelle regioni inospitali, fecero rotta al nord. Dopo diversi incidenti di navigazione, oggidì di non grande interesse, avendo perduto il Sea-Gull, Wilkes sostò al Callao, visitò la Pomotù, Taiti, le isole della Società dei Navigatori, e sostò a Sydney il 28 novembre.

Il 29 dicembre 1839 la spedizione ripigliava ancora il mare e si dirigeva al sud. L'obiettivo era di raggiungere la più alta latitudine fra il 160° e il 145° a est del meridiano di Greenwich, andando da est ad ovest. I bastimenti avevano libertà di manovra, e in caso di separazione era fissato un convegno. Fino al 22 gennaio si rilevarono numerosi indizi di terra, e alcuni ufficiali credettero anzi di scorgerla; ma risulta dalle deposizioni di costoro nel processo che Wilkes ebbe a sostenere al suo ritorno, che se qualche circostanza avesse respinto al nord il Vincennes prima del 22 gennaio, la spedizione non avrebbe avuta alcuna certezza dell'esistenza di un continente australe. Soltanto a Sydney, Wilkes, udendo dire che d'Urville aveva scoperto la terra il 19 gennaio, pretese

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averla scoperta lo stesso giorno. Questi fatti sono messi in sodo da un articolo assai

concludente pubblicato dall'idrografo Daussy nel Bollettino della Società di Geografia.

Si vedrà più innanzi che fin dal 21 gennaio d'Urville aveva sbarcato su quella nuova terra, La priorità della scoperta deve dunque essere riservata a lui.

Il Peacock-Fish e il Flying-Fish avendo sofferto delle avarìe e non avendo potuto affrontare lo stato del mare né i ghiacci galleggianti, avevano fatto rotta al nord fin dal 24 gennaio e dal 5 febbraio.

Il Vincennes e il Purpoise soltanto avevano continuato quell'aspra crociera fino al 97° di longitudine est, vedendo la terra e avvicinandovisi di tempo in tempo da 10 miglia a tre quarti di miglio, secondo che i banchi di ghiaccio lo permettevano.

«Il 29 gennaio, dice Wilkes nel suo rapporto all'istituto nazionale di Washington, entrammo in quella ch'io ho chiamato baia Piners, il solo posto in cui abbiamo potuto sbarcare sulle nude rocce, ma fummo respinti da uno di quei colpi di vento repentini che sono ordinari in quei mari. Uscimmo da questa baia, scandagliando a trenta braccia. Il vento durò trentasei ore, e dopo esserci sottratti parecchie volte e molto da vicino al pericolo d'essere infranti contro i ghiacci, ci trovammo a 60 miglia sottovento dalla baia; siccome era probabile allora che la terra che avevamo scoperta fosse di una grande estensione, pensai che era più importante seguirla verso l'ovest anziché ritornare per sbarcare alla baia Piners, non dubitando del resto che avremmo trovato occasione di farlo su qualche punto più accessibile. Fui però ingannato in quest'aspettativa, e i banchi di ghiaccio ci impedirono costantemente di avvicinarci a terra. Sul limite di quei banchi trovammo grandi masse di ghiaccio coperte di fango, di rocce e

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di pietre, di cui potemmo prendere dei campioni tanto numerosi come se li avessimo staccati dalle rupi stesse. La terra coperta di neve si scorse distintamente in più luoghi, e fra questi punti, le apparenze erano tali che lasciarono pochissimo o anzi nessun dubbio nella mia mente, che là non vi fosse una linea continua di coste, la quale meritasse il nome che le abbiamo dato di continente antartico. Quando raggiungemmo il 97° est trovammo che il ghiaccio si dirigeva verso il nord; lo seguimmo in questa direzione e arrivammo a poche miglia vicini al punto in cui Cook era stato fermato dalla barriera di ghiaccio nel 1773.»

La baia Piners, dove Wilkes sbarcò, è situata a 140° est (137° 40 di Parigi) cioè il punto medesimo in cui d'Urville aveva sbarcato il 21 gennaio.

Il 30 gennaio il Purpoise aveva scorto i due bastimenti; d'Urville si era avvicinato ad essi a portata di voce, ma quelli pareva si rifiutassero ad ogni comunicazione.

Wilkes riguadagnò Sydney dove trovò il Peacock in riparazione, si recò con questo bastimento alla Nuova Zelanda, di là a Tonga-Tabu, poi alle Fidji, dove furono massacrati dagli indigeni due giovani ufficiali della spedizione.

Le isole degli Amici, dei Navigatori, le Sandwich, l'imboccatura della Colombia alla costa occidentale d'America, gli stretti dell'Ammiragliato di Pouzet, l'isola Vancouver, le isole dei Ladroni, Manilla, le Sulu, Singapore, le isole della Sonda, Sant'Elena, Rio-Janeiro furono le numerose soste di questo lungo viaggio che terminò il 9 giugno 1842 a Nuova York, dopo un'assenza di tre anni e 10 mesi. I risultati in tutti i rami della scienza furono notevoli, e, pel suo esordire nella carriera dei viaggi di circumnavigazione, la giovane repubblica degli Stati Uniti aveva fatto un colpo maestro.

Nonostante tutto l'interesse che presenta la preziosa relazione di questa spedizione, nonché i trattati speciali che

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l'accompagnano e che si devono alla penna degli scienziati Dana, Gould, Pickering, Gray, Cassin e Brackendrige, siamo costretti a trascurare tutto ciò che s'è fatto in contrade già note. L'esito di questa grande pubblicazione fu notevole, è facile comprenderlo, al di là dell'Atlantico, paese che non conta che un piccol numero di esploratori ufficiali.

Contemporaneamente a Wilkes, sul principio del 1839, Balleny, capitano dell'Elisabeth-Scott, portava il suo contributo alle ricognizioni delle terre antartiche.

Partito dall'isola Campbell, al sud della Nuova Zelanda, era pervenuto, il 7 febbraio, al 67° 7' di latitudine e 164° 25' di longitudine a ovest del meridiano di Parigi. Facendo rotta a ovest due giorni più tardi, dopo aver riconosciuto molti indizi della vicinanza della terra, aveva scoperto nel S.-O. una striscia nera che, alle sei di sera, non si poteva esitare a prenderla per terra. Erano tre isole alquanto notevoli, la più occidentale era la più lunga. Ricevettero il nome di Balleny. Come si può imaginare, il capitano manovrò per andare a terra, ma quelle isole erano difese da una barriera di ghiaccio senza alcun passo. Si dovette dunque accontentarsi di fissare la posizione dell'isola centrale a, 66° 44' e 162° 25' di longitudine.

L'11 febbraio fu vista ancora una terra alta e coperta di neve nell'O.-S.-O.; l'indomani non si era più che a una diecina di miglia da essa; vi ci si accostò, e fu staccato un canotto. Era una spiaggia di tre o quattro piedi di larghezza, ai cui piedi dirupi verticali e inaccessibili ne impedivano l'accesso e bisognò bagnarsi fino a metà del corpo per raccogliere alcuni campioni di lava, giacché quella terra è vulcanica e le sue montagne sono sormontate da un pennacchio di fumo.

Ancora una volta, il 2 marzo, a 65° di latitudine e 120° 244' di longitudine circa, si scorse, dal ponte dell'Elisabeth-Scott, una nuova parvenza di terra, si mise in panna per passare la notte, e l'indomani si tentò dirigersi verso il sud-ovest; ma fu

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impossibile di sorpassare il banco di ghiaccio attaccato alla riva. Questa nuova terra ricevette il nome di Sabrina. Balleny dovette allora riprendere la rotta del nord, ed è a queste indicazioni incomplete ma sicure che si limitano le sue scoperte.

Nel 1837, al momento in cui Wilkes partiva per la spedizione che abbiamo narrata, il capitano Dumont d'Urville propose al Ministero della Marina un nuovo progetto di viaggio intorno al mondo. I servigi da lui resi dal 1819 al 1821 durante una campagna idrografica, dal 1822 al 1825 sulla Coquille col capitano Duperrey, finalmente dal 1826 al 1829 sull'Astrolabe, i suoi studi e la sua esperienza gli davano ben diritto di sottoporre le sue vedute al Governo e di fare in maniera di completare la massa delle informazioni ch'egli stesso ed altri navigatori avevano raccolte su paraggi imperfettamente descritti, sebbene importantissimi a conoscersi sotto l'aspetto dell'idrografia, del commercio e delle scienze.

Il Ministero si affrettò ad accettare le offerte di Dumont d'Urville e fece di tutto per dargli dei collaboratori illuminati, nei quali potesse aver fiducia.

Le due corvette l'Astrolabe e la Zélée, munite di tutto ciò che i precedenti viaggi intrapresi dalla Francia avevano fatto riconoscere necessario, furono messe a sua disposizione.

Fra gli ufficiali che l'accompagnavano, parecchi dovevano giungere al grado di ufficiale generale: erano Jacquinot, comandante della Zélée, Goupvent-Desbois, Du Bouzet, Tardy de Montravel e Périgot, i cui nomi sono ben noti a tutti coloro che si sono occupati della storia della marina francese.

Le istruzioni che ricevette il comandante della spedizione dal viceammiraglio di Rosamel differivano da quelle che erano state date ai suoi predecessori, nel senso che gli era prescritto d'inoltrarsi verso il polo sud tanto lungi quanto i ghiacci glielo permettessero. Egli doveva altresì completare il gran lavoro

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che aveva eseguito nel 1827 sulle isole Viti, e, dopo una ricognizione dell'arcipelago Salomon, susseguita da una sosta al fiume dei Cigni in Australia e alla Nuova-Zelanda, doveva visitare le isole Ghatham e la parte delle Caroline riconosciuta da Lütké, per raggiungere poscia Mindanao, Borneo, Batavia, donde ritornerebbe in Francia per il capo di Buona Speranza.

Queste istruzioni terminavano con delle considerazioni di un grande interesse, che attestavano le vedute elevate dell'amministrazione.

«Sua Maestà, diceva l'ammiraglio di Rosamel, non ebbe solamente in vista i progressi dell'idrografia e delle scienze naturali; la sua regale sollecitudine per gli interessi del commercio francese e per lo sviluppo delle spedizioni dei nostri armatori, gli ha fatto considerare sotto un punto di vista più largo l'estensione della nostra missione e i vantaggi ch'essa deve realizzare. Voi visiterete gran numero di punti che importa assai di studiare sotto l'aspetto dei mezzi che possono offrire alle nostre navi baleniere. Voi dovrete raccogliere tutte le informazioni atte a guidarle nelle loro spedizioni per renderle più fruttuose. Sosterete nei porti in cui il nostro commercio mantiene già delle relazioni e in cui il passaggio di un bastimento dello Stato può produrre una salutare influenza, e in altri in cui forse i prodotti delle nostre industrie troverebbero uno smercio fino ad oggi ignorato, sui quali potrete, al vostro ritorno, fornire delle preziose indicazioni.»

Dumont d'Urville ricevette, insieme ai voti e agli incoraggiamenti personali di Luigi Filippo, i segni del più vivo interesse dell'Accademia delle scienze morali e della Società di geografia. Per sfortuna non fu lo stesso da parte dell'Accademia delle scienze, sebbene da oltre vent'anni il capitano d'Urville non avesse cessato di lavorare per l'accrescimento del Museo di storia naturale.

«Sia per spirito di corpo, sia per una sfavorevole

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prevenzione contro di me, scrive d'Urville, essi mostrarono poca premura per la spedizione che si preparava, e i termini ne' quali furono concepite le loro istruzioni furono per lo meno tanto freddi come avrebbero potuto adoperarli verso una persona a loro assolutamente estranea.»

Devesi deplorare d'aver visto fra gli avversari più accaniti di questa spedizione l'illustre Arago, nemico dichiarato delle ricerche polari.

Non fu così di buon numero di scienziati stranieri, fra i quali convien segnatamente citare Humboldt e Krusenstern, che diressero a d'Urville le loro felicitazioni per questa nuova campagna e pei servigi che le scienze potevano aspettarsi da essa.

Dopo numerosi ritardi causati dall'armamento dei due vascelli che dovevano trasportare il principe di Joinville al Brasile, le due corvette l'Astrolabe e la Zélée poterono finalmente lasciare Tolone il 7 settembre 1837. Il 30 dello stesso mese ancorarono sulla rada di Santa Croce di Teneriffa; questa sosta d'Urville la sostituiva a quella del Capo Verde , perchè sperava poter procuratisi del vino ed anche procedere a certe osservazioni d'intensità magnetica e di altezza che gli si era rimproverato di non aver eseguito nel 1826, benché si sapesse benissimo ch'egli a quel tempo non era in grado di farle.

Malgrado l'impazienza che manifestavano i giovani ufficiali di andare a sollazzarsi a terra, dovettero assoggettarsi a una quarantena di quattro giorni, recentemente stabilita in seguito alla voce corsa di qualche caso di peste avvenuto nel lazzaretto di Marsiglia.

Senza arrestarsi sui particolari dell'ascensione dei signori Du Bouzet, Coupvent e Dumoulin in cima al picco, basterà citare queste poche ma entusiastiche frasi di Coupvent-Desbois:

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«Giunti al piede del cocuzzolo, per un'ultima ora salimmo sopra ceneri e detriti di pietre, e finalmente arrivammo alla desiderata mèta, al punto più elevato di questo mostruoso vulcano. Il cratere fumante si presenta agli occhi nostri come una semisfera concava, solforosa, coperta di detriti di pomice e di pietre, larga circa 400 metri e profonda 100. Il termometro che è, all'ombra, di 5° alle 10 del mattino, posto sul suolo, in luogo da cui emanavano vapori solforosi, si è spezzato. Vi sono sugli orli e nel cratere una quantità di fumarole che distillano lo zolfo nativo che forma la base della vetta. La rapidità dei vapori è tanto grande da far udire delle detonazioni. Il calore del suolo è tale che in certi luoghi è impossibile porvi il piede per qualche istante. Ora volgete lo sguardo intorno a voi; vedete quelle tre montagne sormontate le une sulle altre? non è un'opera di giganti per dar la scalata al cielo? Considerate questi immensi corsi di lava che divergono da un punto unico e formano la costa che pochi secoli prima non avreste calpestato impunemente. Guardate da lontano quell'arcipelago delle Canarie, sparso qua e là sul mare che s'infrange sulle coste dell'isola, della quale voi pigmei, formate la cima!… Vedete come Dio deve vedere e siate paghi delle vostre fatiche, o viaggiatori che l'ammirazione dei grandi spettacoli della natura vi ha tratti a 3704 metri al disopra del livello del mare!»

Bisogna aggiungere a queste osservazioni che gli esploratori notarono alla sommità del picco il più vivo splendore delle stelle, la facilità alla propagazione del suono, finalmente l'intirizzirsi delle estremità del corpo e dei mali di capo alquanto pronunciati, sintomi ben noti di ciò che si chiama «il mal delle montagne».

Mentre una parte dello stato maggiore si occupava di questa passeggiata scientifica, parecchi ufficiali percorrevano la città in cui non si nota che un pubblico passeggio alquanto esiguo, chiamato l'Alameda, e la chiesa dei Francescani.

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I dintorni sono abbastanza interessanti, sia pei numerosi acquedotti che danno acqua alla città, sia per la foresta di Mercede, che meriterebbe piuttosto, a dire di d'Urville, il nome di bosco ceduo, giacche non vi si vedono altro che arbusti e

felci. La popolazione parve gioviale, ma dedita a una eccessiva

pigrizia, frugale, ma abbandonata alla più abominevole

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sporcizia, finalmente di una licenza di costumi senza nome. Il 12 ottobre, i due bastimenti ripigliarono il mare

disponendosi a raggiungere al più presto le regioni polari. Un sentimento d'umanità risolse d'Urville a sostare a Rio. Lo stato di un allievo, imbarcato affetto di mal di petto, andava ogni giorno peggiorando, e il soggiorno nei ghiacci avrebbe verosimilmente anticipata la sua fine; il che determinò il comandante a mutare il suo itinerario.

I due bastimenti ancorarono sulla rada di Rio, e non nella baia, il 13 novembre, ma non vi si fermarono che una giornata, vale a dire il tempo necessario per mettere a terra il giovane Dopare e far provvigione di viveri freschi; poi ripresero la rotta al sud.

Da molto tempo d'Urville desiderava esplorare lo stretto di Magellano, non solo dal punto di vista idrografico, giacché i rilievi tanto coscienziosi del capitano inglese King — cominciati nel 1826 e terminati nel 1834 da Fitz-Roy — lasciarono ben poco a fare, ma sotto l'aspetto della storia naturale, in cui tanta messe di nuove osservazioni v'era da raccogliere.

Non era interessante al più alto grado il verificare quei pericoli che risorgevano ad ogni istante, quei balzi di vento e tutti quegli infortuni segnalati dagli antichi navigatori?

E poi, quei famosi Patagoni, oggetto di tante favole e controversie, non si sarebbe soddisfatti di raccogliere intorno ad essi dei documenti precisi e circostanziati?

D'altra parte, un'altra ragione militava in favore della sosta al porto Ramine che d'Urville voleva sostituire a quella della terra degli Stati. Rileggendo le relazioni degli esploratori che si erano inoltrati nell'Oceano australe, il comandante si era persuaso che il momento migliore per avvicinare con buon esito quelle regioni era la fine di gennaio e il mese di febbraio. Allora soltanto gli effetti del disgelo sono compiuti e non si

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corre il rischio d'esporre gli equipaggi a fatiche ed a pericoli inutili in una crociera intempestiva.

Dacché ebbe presa la sua risoluzione, d'Urville comunicò le sue nuove intenzioni al capitano Jacquinot e fece subito vela pel canale. Il 12 dicembre le due corvette erano in vista del capo delle Vergini, e Dumoulin, assecondato dai giovani ufficiali, cominciava sotto vela la bella serie dei suoi lavori idrografici.

Nella spinosa navigazione dello stretto, d'Urville spiegò tant'audacia quanto sangue freddo, tant'abilità che presenza di spirito e fece assolutamente ricredere sul suo conto buon numero di marinai, che vedendolo camminare pesantemente a Tolone e sofferente della gotta, esclamavano ingenuamente: «Oh! quel buon uomo non ci condurrà molto lontano!».

Quando si uscì dallo stretto, mercè la continua vigilanza del comandante, gli spiriti erano siffattamente mutati che si ripeteva: «Quel diavolo d'uomo è arrabbiato! Ci ha fatto rasentare le roccie, gli scogli e la terra, come non avesse mai fatto altre navigazioni in vita sua!… E noi che lo credevamo morto nella schiena!».

Qui convien dire qualche parola della sosta al porto Famine.

Lo sbarco vi è facile; vi si trova una bella sorgente e legna in abbondanza; le rupi forniscono una copiosa messe di telline, di patelle, di buccine, e la terra produce del sedano e una specie di insalata simile al «piscialetto». Un altro mezzo di sussistenza abbondantissimo in questa baia è la pesca: per tutto il tempo dello sosta, la rezzuola, il tramaglio e la lenza procurarono eperlani, triglie ed altri pesci in tale abbondanza da nutrire gli equipaggi.

«Mentre stavo per rimbarcare, dice d'Urville, il mio patrone mi consegnò un bariletto che si era trovato sospeso a un albero sulla spiaggia, nel momento in cui si era letto sopra

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un vicino palo l'iscrizione Post-Office. Avendo constatato che conteneva delle carte lo trasportai a bordo e presi cognizione delle diverse pezze che conteneva. Erano note di capitani che passarono per lo stretto, circa il tempo del loro passaggio, le circostanze della loro traversata, alcuni avvisi ai loro successori, e delle lettere per l'Europa e gli Stati Uniti. Pareva che la prima idea di questo ufficio postale all'aria aperta fosse dovuta al capitano americano Gunningham, che si servì in modo semplicissimo di una bottiglia sospesa ad un albero, nell'aprile 1833; il suo compatriota Water-House vi aggiunse, nel 1835, l'utile complemento di un palo con la scritta; finalmente il capitano inglese Carrick, comandante dello schooner Mary-Ann, di Liverpool, passò per lo stretto nel marzo 1837, diretto a Saint-Blas di California, vi ripassò al suo ritorno il 29 novembre 1837, cioè 16 giorni prima di noi, e fu lui che aveva sostituito il barile alla bottiglia, con invito a' suoi successori di farne uso per le lettere che volessero far pervenire alle loro diverse destinazioni. Io mi propongo di aggiungere altresì a questa misura veramente utile e ingegnosa nella sua semplicità, creando un vero ufficio postale in cima alla penisola, giacché la sua iscrizione per la dimensione de' suoi caratteri sarà tale che costringerà l'attenzione dei navigatori che non volessero ancorare a porto Famine, e la curiosità li indurrà a inviare un canotto per visitare la cassetta che sarà applicata al palo. Secondo ogni apparenza noi saremo i primi a raccoglierne i frutti, e le nostre famiglie saranno gradevolmente sorprese di ricevere nostre notizie da quella terra selvaggia e solitaria al momento stesso in cui stiamo per slanciarci verso i ghiacci polari».

A marea bassa l'imboccatura del fiume Sedger che si versa nella baia Famine è ostruita da banchi di sabbia; a trecento metri più lungi la pianura si trasforma in un immenso acquitrino, da cui sorgono enormi tronchi d'alberi, ossami

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giganteschi imbianchiti dall'azione del tempo, trasportati colà dalle piogge straordinarie che ingrossano il corso del fiume.

Una bella foresta serve di ciglio a questo fiume, e degli arbusti armati di pungiglioni ne impediscono l'accesso. Le essenze più comuni sono il faggio dal tronco alto da 20 a 30 metri, con quasi un metro di diametro; la corteccia di Winter che ha per molta tempo sostituito la cannella e una specie di berberi.

I faggi più grossi che d'Urville vi trovò misuravano cinque metri di circonferenza e potevano avere cinquanta metri d'altezza.

Per sfortuna su questo litorale non si trovano né mammiferi, né rettili, né conchiglie terrestri o fluviali: una o due specie d'uccelli, dei licheni e dei muschi, ecco quanto il naturalista vi può solo raccogliere.

Parecchi ufficiali risalirono il Sedger fino a che la poca profondità delle acque li arrestò. Erano allora a sette miglia e mezzo dall'imboccatura, e notarono che questo fiume poteva avere, al punto in cui si scarica nel mare, trenta o quaranta metri di larghezza.

«Sarebbe difficile, dice il signor di Montravel, immaginare un quadro più pittoresco di quello che a ogni svolto appariva agli occhi nostri. Dappertutto era quell'ammirabile disordine che non si saprebbe imitare; un ammasso confuso di alberi, di rami spezzati, di tronchi coperti di muschio che s'incrociano in ogni senso».

Riassumendo, la stazione al porto Famine era stata delle più felici; l'acqua e la legna vi si trovarono assai facilmente; si procedette a una quantità di riparazioni e di migliorìe; si fecero osservazioni di fisica, di meteorologia, d'idrografia; finalmente si raccolsero numerosi oggetti di storia naturale che offrivano tanto maggiore interesse, in quanto che i diversi musei di Francia non possedevano assolutamente nulla di queste regioni

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inesplorate. «Un picciol numero di piante raccolte da Commerson e

conservate nell'erborario dal signor di Jussieu, dice la relazione, rappresentava tutto ciò che se ne sapeva».

Il 28 dicembre 1837 fu levata l'ancora senza che si fosse

potuto scorgere uno di quei Patagoni, il cui incontro eccitava assai la curiosità degli ufficiali e dell'equipaggio.

I casi della navigazione costrinsero le due corvette ad

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ancorare un po' più lungi, al porto Galante, le cui rive, costeggiate da alberi bellissimi, sono tagliate da torrenti che formano, a poca distanza, magnifiche cascate da quindici a venti metri d'altezza. Questa sosta non rimase infruttuosa, giacché si raccolse gran numero di nuove piante e si rilevò il porto e le baie vicine. Ma il comandante, trovando la stagione troppo avanzata, rinunciò a uscire dallo stretto all'ovest, e risolse di tornare sui suoi passi, onde aver un abboccamento coi Patagoni prima di guadagnare le terre artiche.

La baia di San Nicola, che Bouganville aveva chiamata baia dei Francesi, offerse uno spettacolo infinitamente più grazioso del porto Galante, in cui gli equipaggi passarono il 1° gennaio 1838. I soliti lavori idrografici vi furono condotti a termine dagli ufficiali, sotto la direzione di Dumoulin.

Fu spedito un canotto al capo Rémarquable, dove Bouganville asseriva aver visto delle conchiglie fossili; non erano che piccole morelle impastate in una materia calcarea, formanti uno strato fittissimo dal livello del mare fino a un'altezza di cinquanta metri circa.

Furono pur fatte interessanti osservazioni col termometrografo a duecentottanta braccia, senza trovare il fondo a meno di due miglia dalla terra. Se alla superficie la temperatura era di nove gradi, no rivelava due a questa profondità, e siccome verosimilmente le correnti non introducono tanto basso le acque dei due oceani, si sarebbe indotti a credere che questa è la temperatura propria di quella profondità.

I bastimenti raggiunsero poscia la Terra del Fuoco, dove Dumoulin riprese il corso de' suoi rilievi. Bassa, scoperta, sparsa di rupi che servirono di traguardo, non offre in quel luogo che pochissimi pericoli. L'isola Magdalena, la baia Gente-Grande, l'isola Elisabeth, il porto Oazy, dove si distinse con la lente un numeroso campo di Patagoni, il porto Peckett,

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dove l'Astrolabe toccò a tre braccia d'acqua, furono successivamente oltrepassati.

«Al momento in cui ci si avvide che si toccava fondo, dice Dumont d'Urville, vi fu un istante di stupore e anche d'agitazione nell'equipaggio, e già si udivano dei clamori. Con voce ferma imposi silenzio, e senza parere di inquietarmi per nulla di ciò che accadeva, esclamai: «È nulla affatto, ne vedrete ben d'altre!» In seguito queste parole tornarono spesso alla memoria dei nostri marinai. Importa assai più che non si possa immaginare, per un capitano, conservare la calma più perfetta e la massima impassibilità in mezzo ai più imminenti pericoli, anche per quelli ch'egli potrebbe giudicare inevitabili».

La stazione al porto Peckett fu rallegrata dalla vista dei Patagoni. Tutti, ufficiali e marinai, erano impazienti di scendere a terra. Una folla di indigeni a cavallo aspettava al luogo dello sbarco.

Dolci e pacifici, essi risposero con compiacenza alle domande che furono fatte loro. Consideravano con tranquillità tutto ciò che vedevano, e non rivelavano una grande bramosìa per gli oggetti che si mostravano loro. Non sembravano aver alcuna tendenza al furto, e a bordo non tentarono di sottrarre checchessia.

La loro statura media pareva essere di 1,73, sebbene se ne fossero veduti di più piccoli. Le loro membra sono grosse e pienotte senza essere muscolose; le loro estremità di una notevole piccolezza. Il loro tratto più caratteristico è la larghezza della parte inferiore della faccia, mentre la fronte è bassa e fuggente. Gli occhi allungati e stretti, gli zigomi alquanto sporgenti, il naso schiacciato danno loro abbastanza somiglianza col tipo mongolo.

In essi tutto rivela la mollezza e l'indolenza, nulla il vigore e l'agilità. Sia che si vedano accovacciati, sia che si vedano in cammino, o in piedi, coi loro capelli cadenti sulle spalle, si

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direbbero le donne di un harem anziché selvaggi abituati a soffrire le intemperie delle stagioni e a lottare contro le difficoltà dell'esistenza. Sdraiati sopra delle pelli in mezzo ai loro cani e ai loro cavalli, non hanno passatempo più gradito che di cercare, per regalarsene, i pidocchi di cui sono largamente forniti. Sono tanto nemici del cammino, che montano a cavallo per andare a raccogliere conchiglie sulla spiaggia, che non è lontana più di cinquanta o sessanta passi.

Con essi viveva un bianco dall'aspetto miserabile e scarno; si diceva originario degli Stati Uniti, ma non parlava l'inglese che imperfettamente, e non si stentò a riconoscere in lui uno svizzero-tedesco.

Niederhauser — era il suo nome — era andato a tentare d'arricchirsi negli Stati Uniti; siccome la fortuna gli si mostrava ribelle, aveva ascoltate le meravigliose proposte di un pescatore di foche, che cercava di reclutare il suo equipaggio. Fu deposto, secondo il costume, con sette camerati e delle provvigioni sopra un'isola selvaggia della Terra del Fuoco per dar la caccia alle foche e preparare le loro pelli. Quattro mesi dopo lo schooner riapparve, caricò le pelli, lasciò i pescatori con nuove provvigioni e… più non ritornò. Se il bastimento avesse fatto naufragio o se il capitano avesse abbandonato i suoi marinai, gli è ciò che fu impossibile di sapere.

Quando questi disgraziati videro passata la dilazione e si trovarono senza provvigioni, salirono nel loro canotto e imboccarono lo stretto. Non tardarono a incontrare i Patagoni. Niederhauser rimase con essi, gli altri continuarono la loro rotta. Accolto benissimo dagli indigeni, aveva vissuto della loro esistenza, empiendosi lo stomaco quando la caccia era buona, stringendosi la cintola e non vivendo che di radici in tempo di carestia.

Ma, stanco di questa miserabile esistenza, Niederhauser supplicò d'Urville di pigliarlo a bordo, giacché non avrebbe

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potuto resistere un mese di più a quelle privazioni. Il capitano vi acconsentì e lo imbarcò come passeggero.

Ne' suoi tre mesi di soggiorno coi Patagoni, Niederhauser aveva preso qualche infarinatura del loro linguaggio, e d'Urville ne approfittò per raccogliere in patagone la maggior parte delle parole di un vocabolario comparativo di tutte le lingue.

Il costume di guerra dei Fuegini comprende un caschetto di cuoio cotto, decorato di una lastra di rame e ricoperto di un bel cimiero di penne di gallo, una tunica di cuoio di bue tinta di rosso e rigata a strisce gialle, e una specie di scimitarra a doppio taglio. Il capo della popolazione del porto Peckett acconsentì a lasciarsi fare il ritratto in questo costume, il che rivelava una superiorità sui sudditi suoi, che si rifiutarono ostinatamente per timore di qualche sortilegio.

L'8 gennaio, levata definitivamente l'ancora, si infilò abbastanza lestamente la seconda imboccatura, nonostante i flutti. Dopo aver percorso per due terzi l'estensione dello stretto di Magellano, i bastimenti fecero rotta per le regioni polari, avendo rilevata tutta la parte orientale della Terra del Fuoco, lacuna importante riempita dall'idrografia, giacché fino allora non esisteva alcuna carta particolareggiata di questa costa.

La Terra degli Stati fu girata senza incidenti. Il 15 febbraio furono scorti, non senza una certa commozione, i primi ghiacci in mezzo ai quali i bastimenti dovevano presto navigare senza tregua.

Gli scogli galleggianti non sono per se stessi i più formidabili nemici di quei paraggi; la nebbia — una nebbia opaca che il più acuto sguardo non può penetrare — involge ben presto le due navi, paralizza i loro movimenti e rischia a ogni istante, benché a vela maestra, di farle urtare contro uno di quei massi formidabili. La temperatura si abbassa; alla superficie dell'acqua il termometrografo non segna più che due

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gradi, quella delle acque inferiori discende al disotto dello zero. In breve una neve semisciolta cade in quantità. Tutto rivela che si entra definitivamente nei mari antartici.

È impossibile di riconoscere l'isola Clarence e le New-

Suth-Orkney; si passa il tempo a manovrare per evitare i massi di ghiaccio.

A mezzodì del 20 gennaio si è a 62° 3' di latitudine sud e

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49° 56' di longitudine ovest. È non lungi di qui, nell'est, che Powell ha trovato degli ice-fields3 compatti.

Ben presto se ne scorge uno immenso di 2000 metri d'estensione, di 60 metri d'altezza, quasi un'isola tagliata a picco, imitante la terra al punto da trarre in inganno sotto certi riflessi di luce.

Le balene e i pinguini nuotano a frotte intorno ai bastimenti che incrociano di continuo le procellarie bianche.

Il 21, le osservazioni rivelano 62° 43' sud, e d'Urville fa conto di raggiungere presto il 65° parallelo, quando, nella notte, alle 3 del mattino, lo si previene che la rotta è sbarrata da un banco di ghiaccio, attraverso il quale non è possibile aprirsi un passaggio. Presto si vira di bordo e si fa rotta all'est a piccola velocità, giacché soffia la brezza.

«Epperò, dice la relazione, avemmo tempo di contemplare a nostro bell'agio il meraviglioso spettacolo che avevamo sott'occhio. Severo e grandioso oltre ogni espressione, pur elevando l'immaginazione, esso riempie il cuore di un senso d'involontario spavento; in niun altro sito, l'uomo prova più viva la convinzione della propria impotenza… É un nuovo mondo, la cui immagine si spiega a' suoi sguardi, ma un mondo incerto, lugubre, silenzioso, in cui tutto lo minaccia dell'annichilimento delle sue facoltà. Là, se avesse la disgrazia di rimanere abbandonato a se stesso, nessun mezzo, nessuna consolazione, nessuna scintilla di speranza potrebbe addolcire i suoi ultimi momenti. Questa idea ricorda involontariamente la famosa scritta della porta dell'Inferno di Dante:

Lasciate ogni speranza, voi ch'entrate.

D'Urville procede allora ad un lavoro curiosissimo, che,

paragonato ad altri della stessa natura, potrebbe avere una 3 Campi di ghiaccio

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estrema utilità. Fa rilevare il tracciato esatto del banco di ghiaccio. Se altri navigatori avessero fatto altrettanto in seguito, si sarebbero ottenute precise informazioni sul cammino e i movimenti dei ghiacci australi, materia tanto oscura ancora oggidì.

Il 22, dopo aver girato una punta, si riconobbe che la direzione del sbanco di ghiaccio era S.-S.-O., poi O. In quei paraggi si scorge una terra alta e accidentata. Dumoulin comincia a farne il rilievo, d'Urville crede riconoscervi la New-South-Groenland di Morrell, quando si vedono le sue forme alterarsi e sparire all'orizzonte.

Il 24, le due corvette attraversano un letto di ghiacciuoli galleggianti e penetrano in una pianura in cui i ghiacci sono in dissoluzione. Ma il passaggio si restringe ben presto, i massi diventano più numerosi e bisogna indietreggiare, se non si vuol essere bloccati.

Però tutto indica che il ciglio del banco è in decomposizione; le isole di ghiaccio si franano con formidabili detonazioni, i ghiacci stillano e lasciano colare dei rigagnoletti; è lo sgelo; la stagione non è dunque abbastanza inoltrata, e Fanning ha ragione di dire che non bisogna arrivare in quei paraggi prima del mese di febbraio.

D'Urville risolse allora di far rotta al nord per cercare di raggiungere le isole New-South-Orkney, la cui carta era incompleta e mal determinata. Il comandante desiderava procedere al rilievo di questo arcipelago e fermarvisi alcuni giorni prima di volgere di nuovo verso il sud, onde trovarvisi in quel tempo dell'anno che vi si trovò Weddell.

Per tre giorni d'Urville costeggiò la parte settentrionale di questo, arcipelago senza poterlo avvicinare, riprese la sua rotta al sud fino al 4 febbraio, e fu di nuovo in vista del banco di ghiaccio a 62° 20' di latitudine sud e 39° 28' di longitudine est.

Alcuni minuti prima di mezzodì si scoperse una specie

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d'apertura, e vi ci si slanciò alla ventura. Quest'audace manovra riuscì ai due bastimenti, che

nonostante una intensa neve poterono penetrare in una specie di piccolo bacino largo appena due miglia, ma cinto da tutti i lati da alte mura di ghiaccio.

Bisognò legarsi ai ghiacciuoli. Quando si diede l'ordine di ancorare, un giovane novizio della Zélée esclamò ingenuamente:

«Vi è un porto qui vicino? Non credevo vi fossero abitanti attraverso i ghiacci!».

D'altra parte, in quel momento, a bordo dei due bastimenti tutti erano entusiasti e allegri. Alcuni giovani ufficiali della Zélée erano venuti a vuotare una coppa di punch coi camerati dell'Astrolabe. Dal suo letto, il comandante poteva udire le chiassose espressioni del loro contento. Ma lui non considerava già la cosa in una luce tanto favorevole. Considerava la sua manovra come imprudentissima. Chiuso come in un sacco, non aveva altra uscita che quella per cui era entrato, ed era impossibile approfittarne, a meno che avesse vento sotto antenna.

Infatti, alle undici, d'Urville fu svegliato da urti violenti e da un rumore di laceramento, come se la corvetta avesse urtato contro delle rupi. Il comandante si alzò e vide che l'Astrolabe, essendo andato alla deriva, era caduto sui ghiacci, e vi rimaneva esposto agli urti di quelli che la corrente trascinava più velocemente di essa stessa.

Allo spuntar del giorno si fu circondati dai ghiacciuoli. Solamente, nel nord, una striscia di un turchino nerastro sembrava indicare un'acqua libera. Si prese subito questa direzione, ma una fitta nebbia involse quasi immediatamente le due corvette. Quando la nebbia si dissipò, si fu in presenza di una barriera di ghiacci compatti, al di la dei quali si estendeva a perdita d'occhio un'acqua assolutamente libera.

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D'Urville risolvette subito di aprirsi un passaggio, e, pigliando spazio, slanciò, con la massima rapidità possibile, l'Astrolabe contro l'ostacolo. La corvetta penetrò nel ghiaccio per due o tre volte la sua lunghezza, poi se ne stette immobile. Allora gli uomini scesero sui ghiacciuoli; armati di picche, di leve, di zappe e di seghe, lavorarono allegramente per aprirsi un varco.

Già avevano quasi attraversato questo frammento di banco, quando il vento mutò, l'onda del largo si fece sentire, e si dovette, a parere di tutti gli ufficiali, ritornare nell'interno dei ghiacci, giacché vi era ragione a temere, se il vento rinfrescava, di essere abbassati contro il banco e demoliti dalle onde e dagli scogli galleggianti.

Le corvette avevano percorso dodici o quindici miglia inutilmente, quando un ufficiale, appollaiato nel sartiame, scorse un passaggio nell'E-N.-E. Ci si diresse immediatamente da quella parte; ma anche questa volta fu impossibile aprirsi un varco, e, giunta la notte, si dovette legarsi a un grosso masso di ghiaccio. Lo spaventevole scricchiolìo che aveva tenuto sveglio il comandante la notte precedente, ricominciò con tanta violenza, che pareva che la corvetta non potesse resistere fino a giorno.

Tuttavia, dopo un abboccamento col capitano della Zélée, d'Urville fece rotta al nord; ma la giornata trascorse senza recare mutamenti nella posizione delle navi. L'indomani, in mezzo a una pioggia di neve sciolta, l'ondata diventò tanto forte da sollevare tutto il piano ghiacciato in cui i due bastimenti erano imprigionati.

Bisognava badare più che mai ai ghiacciuoli che queste ondulazioni trabalzavano da lontano, e si dovette chiudere il timone in una specie di casotto di legno che lo proteggeva contro gli urti dei ghiacci.

Tranne qualche caso d'oftalmia prodotto dal continuo

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riverberare della neve, la salute dell'equipaggio si mantenne soddisfacente, e non era questa una tenue soddisfazione pei comandanti, costretti a starsene in continuo allarme. Fu solo il 9 febbraio che le corvette, favorite da una forte brezza, poterono sprigionarsi e trovarsi finalmente in un mare assolutamente libero.

Si era costeggiato il banco per una estensione di 225 leghe. Per una fortuna che non si sperava, le navi non soffersero

alcuna avaria, tranne la perdita di buona parte della foderatura di rame ed altro lieve danno; ma non facevano più acqua di prima.

L'indomani apparve il sole, che permise di ottenere delle osservazioni che segnavano la posizione 62° 9' latitudine sud e 39° 22' longitudine ovest.

La neve non cessò di cadere, il freddo fu vivo e il vento violento nei tre giorni che susseguirono. Questo continuo cattivo tempo, nonché la più lunga durata delle notti, avvertirono d'Urville della necessità di rinunciare a questa navigazione. Epperò, appena si trovò a 62° sud e 33° 11' sulla rotta in cui Weddell aveva potuto liberamente camminare nel 1828, e dove egli non incontrò che ghiacci impenetrabili, fece rotta per le New-South-Orkney.

Del resto, un mese intero passato in mezzo ai ghiacci e alle nebbie dell'Oceano Antartico aveva scosso la salute degli equipaggi, ed era senza profitto per la scienza di continuare più a lungo questa crociera.

Il 20 si riconobbe l'arcipelago; d'Urville fu di nuovo costretto dai ghiacci a costeggiare per il nord; ma poté staccare due canotti, che, sull'isola Weddell, raccolsero un'ampia collezione geografica, alcuni campioni di licheni e una ventina di pinguini.

Il 25 febbraio fu scorta l'isola Clarence che forma l'estremità orientale dell'arcipelago New-South-Shetland, terra

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estremamente alta, scoscesa, selvaggia, coperta di neve, eccetto alla riva del mare; poi si fece rotta verso l'isola Elefante, da ogni punto simile alla prima, ma sparsa di cocuzzoli nerastri che si ergono sui piani di neve e di ghiaccio. Gli isolotti Narron, Biggs, O' Brien, Aspland sono successivamente riconosciuti; ma, coperti di neve, non offrono posto in cui l'uomo possa por piede; poi si scorse il piccolo vulcano Bridgeman, sul quale due canotti tentarono invano di sbarcare i naturalisti.

«La tinta generale del suolo, dice la relazione, è di un colore rossastro, come quella del mattone bruciato, con delle macchie grige che sembrano rivelare delle pietre pomici o della cenere indurita. In riva al mare, qua e là, si vedono dei grossi massi di un colore nerastro, che devono essere lava. Del resto, questo isolotto non ha un vero carattere, ma lascia sfuggire densi fumi che escono quasi tutti dalla sua base, nella parte occidentale; su quella del nord si vedono ancora delle fumarole a dieci o dodici metri al disopra dell'acqua. Non se ne notano, punto sulla parte dell'est, né su quella del sud, né sulla vetta, che è uniforme e tonda. La sua massa sembra avere subito di recente qualche grande modificazione, e bisogna pure che sia stato così per avere ora così poco rapporto con la 'descrizione che ne fece Powell nel 1822».

D'Urville riprese subito la rotta del sud, e il 26 febbraio riconobbe una parte notevole nel sud-est, che la nebbia e i fiocchi di una neve finissima gli impedirono di accostare. Si trovava allora sul parallelo dell'isola Hope, a 62° 57' di latitudine. Vi si avvicinò alquanto e riconobbe dapprima una terra bassa alla quale diede il nome di Terra di Joinville; più lontano, nel S.-O., una gran terra montuosa che chiamò Terra Luigi Filippo, e fra esse, in mezzo a una specie di canale ingombro di ghiacci, un'isola cui diede il nome di Rosamel.

«Per allora, dice d'Urville, l'orizzonte alquanto rischiarato

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ci permise di seguire con gli occhi tutti gli accidenti della Terra Luigi Filippo. In questo momento essa si estende dal monte Bransfield nel nord 72° est fino al S.-S.-O. dove l'occhio la segue fino ai limiti dell'orizzonte. Dal monte Bransfield fino al sud è un'alta terra abbastanza uniforme, e formante un immenso ghiacciaio senza notevoli accidenti. Ma al sud la terra si rialza in forma di un bel cocuzzolo (il monte Jacquinot) che sembra uguagliare ed anzi sorpassare Bransfield; poi, a partire di là, essa si estende in forma di una catena di montagne, che termina nel S.-O. con una vetta ancor più elevata di tutte le altre. Del resto, gli effetti della neve e del ghiaccio, nonché l'assenza d'ogni oggetto di paragone, contribuiscono a esagerare singolarmente l'altezza di tutte queste protuberanze.

«Infatti noi trovammo, per le misure prese da Dumoulin, che tutte queste montagne, che allora ci sembravano gigantesche, o per lo meno paragonabili alle Alpi e ai Pirenei, non avevano che altezze appena mediocri. Perciò il monte Bransfield non aveva che 632 metri, il monte Jacquinot 648, e finalmente l'ultimo, il monte d'Urville, il più alto di tutti, 931. Ad eccezione degli isolotti dinanzi alla grande terra e di alcune punte libere di neve, tutto il rimanente non è che un seguito di ghiacci compatti. In questo stato non è possibile tracciare la vera direzione della terra, ma solamente delle sue croste di ghiaccio».

Il 1° marzo, uno scandaglio non segna che centottanta braccia di profondità, il fondo è di rocce e di ghiaia; la temperatura è di 1° 9' alla superficie e di 0° 2' in fondo al mare.

Il 2 marzo si riconosce, al largo della Terra Luigi Filippo, un'isola che ricevette il nome d'isola dell'Astrolabe.

L'indomani una grande baia, o piuttosto un canale a cui si dà il nome di Canale d'Orléans, è rilevata fra la Terra Luigi Filippo e una parte alta e rocciosa che, secondo d'Urville, sarebbe il principio delle Terre della Trinità, fino allora assai

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scorrettamente tracciate. Perciò dunque, dal 26 febbraio fino al 5 marzo, d'Urville

rimase in vista della costa percorrendola a poca distanza, senza essere però padrone delle sue manovre in causa delle nebbie e delle piogge che si sue cedettero di continuo. Del resto tutto indicava un disgelo ben accentuato; a mezzodì la temperatura si elevava a 5° sopra zero: dappertutto i ghiacci colavano rigagnoli d'acqua, intieri massi si staccavano e cadevano nel mare con un rumore formidabile; finalmente un vento d'ovest non cessava di soffiare una forte brezza.

Fu anzi la ragione che impedì d'Urville di spingere oltre la sua esplorazione. Il mare era assai cattivo, la pioggia frequente, e la nebbia continua. Dovette dunque allontanarsi da questa costa pericolosa e risalire verso il nord, dove l'indomani rilevava le isole più occidentali del Nuovo Shetland.

D'Urville prese allora la rotta della Goncepcion. Ma questa traversata fu assai penosa perchè, nonostante tutte le precauzioni prese, ,lo scorbuto aveva affetto gli equipaggi delle due corvette, e segnatamente quello della Zélée, con una estrema violenza. Fu pure in questo momento che d'Urville misurò delle altezze di onde, che rispondevano al rimprovero d'esagerazione favolosa che gli era stato fatto quando aveva attribuito cento piedi d'elevazione a quelle che aveva subite sul banco delle Aguglie.

Con l'aiuto de' suoi ufficiali, affinchè non si potessero porre in dubbio i risultati delle sue osservazioni, d'Urville misurò delle onde, la cui altezza verticale era di 11 metri e mezzo, e non avevano meno di 60 metri dalla cima al punto inferiore, il che faceva 120 metri di lunghezza totale di una sola onda. Queste misure rispondevano alle osservazioni ironiche di Árago che, dal suo gabinetto, non permetteva a un'onda di elevarsi più di cinque o sei metri. Non bisogna esitare un solo istante ad ammettere contro l'illustre ma appassionato fisico le

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misure dei navigatori che avevano osservato sul luogo. Il 7 aprile 4838 la divisione calò l'ancora nella baia di

Talcahuano: essa doveva trovarvi un riposo di cui avevano gran bisogno i quaranta uomini affetti da scorbuto della Zélée. Di là d'Urville raggiunse Valparaiso, poi attraverso tutta l'Oceania ancorò il 1° gennaio 1839 a Guaham, s'inoltrò poscia nella Malesia, arrivò in ottobre a Batavia e di là raggiunse Hobart-Town donde salpò il 1° gennaio 1840 per una nuova corsa attraverso le regioni antartiche.

A quel tempo d'Urville non conosceva né il viaggio di Balleny, né la scoperta della Terra Sabrina. La sua intenzione era di non fare che una punta al sud della Tasmania, affine di notare sotto qual parallelo troverebbe i ghiacci. Lo spazio compreso fra 120° e 160° di longitudine orientale non era ancor stato esplorato, credeva egli. Vi era dunque qualche scoperta a tentare.

A tutta prima la navigazione si presentò sotto gli auspici più spiacevoli. L'onda era fortissima, le correnti portavano all'est; lo stato sanitario era tutt'altro che soddisfacente, eppure non si era ancora che sotto il 58° di latitudine, quando tutto indicava la vicinanza del banco di ghiaccio.

Il freddo si fece subito vivissimo; i venti cominciarono a soffiare da O.-N.-O., e il mare si calmò, indizio quasi certo della vicinanza di una terra o di un banco di ghiaccio. Si inclinò piuttosto alla prima di queste ipotesi, giacché le isole di ghiaccio che s'incontrarono erano troppo grosse per essersi formate in alto mare. Il 18 gennaio si raggiunse il 64° di latitudine e non si tardò a incontrare enormi massi di ghiaccio tagliati a picco, la cui altezza variava fra i trenta e i quaranta metri, e la cui lunghezza oltrepassava i mille metri.

L'indomani, 19 gennaio 1840, fu scorta una nuova terra che ricevette il nome di Terra Adelia. Il sole era ardente e tutti i ghiacci sembravano in decomposizione; numerosi ruscelli si

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formavano alle loro sommità e discendevano a cascatelle fino al mare. L'aspetto della terra era uniforme; coperta di neve, correva dall'est all'ovest e sembrava abbassarsi in dolce pendìo

sino al mare. Il 21, il vento permise alle due navi di avvicinarla. Non si tardò a scoprire profondi burroni scavati dalle acque provenienti dallo sgelo delle nevi.

Mano mano che si avanzava, la navigazione diventava più pericolosa; le isole di ghiaccio erano tanto numerose che a

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stento rimaneva fra esse un canale abbastanza largo per permettere alle corvette di manovrare.

«Le loro mura dritte sorpassavano di molto le nostre alberature, dice d'Urville; esse piombavano sopra le nostre navi, le cui dimensioni sembravano ridicolmente impicciolite a confronto di quei massi enormi. Lo spettacolo che si offriva ai nostri sguardi era a un tempo grandioso e spaventevole. Si sarebbe potuto credersi nelle anguste vie di una città di giganti».

Poco dopo le corvette entrarono in un ampio bacino formato dalla costa e dalle isole di ghiaccio che avevano girato. La terra si stendeva a perdita di vista al sud-est ed al nord-est; poteva avere da mille a mille e duecento metri di altezza, ma non presentava nessuna parte di sommità saliente. Finalmente, in mezzo a quest'immenso piano di neve, apparvero alcune rupi. I due capitani spedirono subito delle imbarcazioni con missione di raccogliere delle prove palpabili della loro scoperta. Ecco ciò che dice uno degli ufficiali, Du Bouzet, incaricato di quest'importante ricognizione:

«Erano quasi le nove quando con somma gioia toccammo terra sulla parte ovest dell'isolotto più occidentale e più elevato. Il canotto dell'Astrolabe era arrivato prima di noi; già gli uomini che portava si erano arrampicati sui fianchi scoscesi di quella rupe; precipitavano abbasso i pinguini, molto stupiti di vedersi spossessati così brutalmente dell'isola di cui erano i soli abitanti… Io inviai subito uno dei nostri marinai a spiegare una bandiera tricolore su quelle terre che nessuna creatura umana aveva né viste né calpestate prima di noi. Seguendo l'antica usanza che gl'Inglesi hanno conservato preziosamente, ne pigliammo possesso in nome della Francia, così pure della costa vicina che il ghiaccio ci impediva di approdare… Il regno animale non vi era rappresentato che dai pinguini. Nonostante tutte le nostre ricerche, non vi trovammo una sola conchiglia.

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La roccia era interamente nuda e non offriva la minima traccia di licheni. Bisognò rifarsi sul regno minerale. Ciascuno di noi prese un martello e si mise a scalpellare nella roccia. Ma questa, di natura granitica, era tanto dura che non ne potemmo staccare che piccolissimi pezzi. Fortunatamente, percorrendo la sommità dell'isola, i marinai scoprirono larghi frammenti di rupe staccati dai geli e li imbarcarono nei canotti. Esaminandoli da vicino, riconobbi una somiglianza perfetta tra queste rupi e dei piccoli frammenti di gneiss che avevamo trovato nello stomaco di un pinguino ucciso la vigilia. Il piccolo isolotto sul quale pigliammo terra fa parte di un gruppo di otto o dieci isolette, rotonde alla sommità, e che press'a poco presentano tutte le medesime forme. Queste isole sono separate dalla costa più vicina da uno spazio di 500 o 600 metri. Noi scorgevamo altresì sulla riva parecchie sommità interamente scoperte e un capo la cui base era pure spoglia di neve… Tutti questi isolotti, assai vicini gli uni agli altri, sembravano formare una catena continua, parallela alla costa e che si estendeva dall'est all'ovest».

Il 22 e il 23 si continuò la ricognizione di questo litorale; ma quel giorno un banco di ghiaccio, unito alla costa, costrinse i bastimenti a ritornare verso il nord; in pari tempo una raffica di neve, tanto subitanea che terribile, assalì i bastimenti e li mise in perdizione. La Zélée subì forti avarie nella sua velatura, ma l'indomani si ritrovava vicina alla sua compagna.

Frattanto la terra non era stata, per così dire, perduta di vista. Tuttavia il 29, dinanzi alla persistenza singolare dei venti d'est, d'Urville dovette abbandonare la ricognizione della Terra Adelia. Fu in quel giorno che si scorse uno dei bastimenti del luogotenente Wilkes. d'Urville si lamenta delle intenzioni malevoli che quest'ultimo gli attribuisce nel suo rapporto, e assicura che la sua manovra, che aveva per iscopo di comunicare, fu male interpretata dagli Americani.

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«Non siamo più al tempo in cui i navigatori, dice egli, spinti dall'interesse del commercio, si credevano obbligati di nascondere accuratamente la loro rotta e le loro scoperte per evitare la concorrenza delle nazioni rivali. Io, al contrario, sarei stato felice di indicare ai nostri emuli il risultato delle nostre ricerche, nella speranza che questa comunicazione avrebbe potuto essere loro utile, e allargare la cerchia delle nostre cognizioni geografiche».

Il 30 gennaio si scorse un muro enorme di ghiaccio, a proposito del quale le opinioni erano Varie; gli uni vedevano un masso di ghiaccio compatto e indipendente da ogni terra, gli altri — ed era anche l'opinione di d'Urville — credevano che queste alte montagne avessero una base solida sia di terra, sia di rupi, sia anche di alti fondi sparsi intorno a una gran terra. Si diede ad esso il nome di costa Clarie, a 128° di longitudine.

Gli ufficiali, in questi paraggi, avevano raccolto documenti sufficienti a determinare la posizione del polo magnetico australe, ma i loro risultati non dovevano concordare coi lavori di Duperrey, di Wilkes e di James Ross. Il 17 febbraio le due corvette calavano di nuovo l'ancora dinanzi a Hobart-Town.

Il 25 ripigliarono il mare, si portarono verso la Nuova Zelanda, dove completarono i lavori idrografici dell'Uranie. Poi raggiunsero la Nuova Guinea, dove si accertarono che la Luisiade non ne era separata da alcuno stretto; esplorarono con la massima cura, in mezzo alle correnti e alle scogliere di corallo sottomarine e a costo di avarie abbastanza gravi, lo stretto di Torres; arrivarono il 20 a Timor e ritornarono a Tolone dopo aver sostato a Bourbon e a Sant'Elena.

All'annuncio della spedizione di scoperte organizzata su così vasta scala dal governo degli Stati Uniti, l'Inghilterra si era commossa, e sotto la pressione di società scientifiche aveva risoluto l'invio d'una spedizione nelle regioni in cui, dopo Cook, i capitani Weddell e Biscoë si erano soli avventurati.

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Il capitano James Clarke Ross, che ne ricevette il comando, era, nipote del famoso John Ross, l'esploratore della baia di Baffìn. Nato nel 1800, James Ross navigava fin dall'età di 12 anni. Aveva accompagnato suo zio, nel 1818, nella sua prima esplorazione delle terre artiche; dal 1819 al 1827 aveva preso parte, sotto gli ordini di Parry, a quattro spedizioni nei medesimi paraggi, e dal 1829 al 1838 era stato il fedele compagno di suo zio. Incaricato di osservazioni scientifiche, aveva scoperto il polo magnetico nord. Finalmente aveva fatto lunghe corse a piedi e in islitta sui ghiacci. Era dunque uno degli ufficiali della marina britannica più abituati alle navigazioni polari.

Gli furono affidati due bastimenti, l'Erebus e il Terror, e il suo secondo fu un marinaio perfetto, il capitano Francesco Rowdon Crozier, compagno di Parry nel 1824, di James Ross nel 1835, alla baia di Baffin, lo stesso che doveva sul Terror accompagnare Franklin alla ricerca del passo di nord-ovest. Non si poteva scegliere un cuore più valente, un marinaio più sperimentato.

Le istruzioni date a James Ross dall'ammiragliato, differivano essenzialmente da quelle che erano state date a Wilkes e a Dumont d'Urville. Per costoro l'esplorazione delle regioni antartiche non era che un incidente della loro campagna intorno al mondo; al contrario, essa formava la base principale del viaggio di James Ross. Dei tre anni durante i quali sarebbe lontano dall'Europa, doveva passarne la maggior parte nelle regioni antartiche e non lasciare i ghiacci che per riparare le avarie e rifare gli equipaggi stanchi o malati.

Epperò i bastimenti erano stati scelti convenientemente; più forti, delle navi di d'Urville, erano in miglior stato di resistere agli assalti ripetuti dei ghiacci, e i loro equipaggi agguerriti erano stati reclutati fra i marinai famigliarizzati alle navigazioni polari. L'Erebus e il Terror, sotto il comando di

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Ross e di Crozier, lasciarono l'Inghilterra il 29 settembre 1830 e toccarono successivamente Madera, le isole del Capo Verde, Sant'Elena, il Capo di Buona Speranza, dove furon fatte numerose osservazioni magnetiche.

Il 12 aprile Ross raggiunse l'isola di Kerguelen e vi sbarcava subito i suoi istrumenti. La messe scientifica fu abbondante, degli alberi fossili furono estratti dalla lava di cui quest'isola è formata e vi si trovarono ricche vene di carbone che aspettano ancora la speculazione.

Il 29 era il giorno fissato per alcune osservazioni simultanee su diversi punti del globo. Per una singolare fortuna, quel giorno si produsse una di quelle tempeste magnetiche che erano già state notate in Europa. Gli istrumenti segnalarono a Kerguelen i medesimi fenomeni che a Toronto, al Canada, prova dell'immensa estensione di queste meteore e dell'incredibile rapidità con la quale si propagano.

Al suo arrivo a Hobart-Town, dove incontrò nel governatore il suo vecchio amico John Franklin, Ross apprese la scoperta della terra Adelia e della costa Clarie fatta dai Francesi, e la simultanea ricognizione delle medesime terre con la spedizione americana di Wilkes. Quest'ultimo gli aveva anzi lasciato un abbozzo de' suoi rilievi di coste.

Ma Ross si risolse ad approdare alle regioni antartiche a 170° est, perchè in questa direzione Ralleny aveva trovato, nel 1839, il mare libero di ghiacci fino al 69° di latitudine. Raggiunse dunque le isole Auckland, poi le Campbell, e dopo di avere, come i suoi predecessori, fatto innumerevoli bordate in mezzo a un mare sparso d'isole di ghiacci raggiunse, al di là del 63°, l'estremità del banco e varcò il circolo polare il 1° gennaio 1841.

Quanto ai ghiacci erranti, non somigliavano in alcun modo a quelli del polo Nord, come poté facilmente convincersene James Ross. Sono massi immensi a pareti verticali e regolari.

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Quanto agli ice-fields, meno uniti che nel nord, assumono, secondo un'espressione immaginata da Wilkes, l'apparenza di una terra lavorata.

Il banco di ghiaccio non parve a James Ross tanto formidabile come lo hanno figurato i Francesi e gli Americani. Tuttavia egli non poté dapprima arrischiarsi, e fu costretto dall'uragano a tenersi al largo. Non fu che il 5 ch'egli poté assalirlo di nuovo a 66° 45' di latitudine sud e 174° 16' di longitudine ovest. Questa volta le circostanze erano un po' più favorevoli, poiché il vento e il mare che battevano su di esso, contribuivano a dislocarlo. Mercè la possanza de' suoi bastimenti, Ross poté aprirsi un varco. D'altra parte, man mano che s'inoltravano nel sud, la nebbia diventava più fitta, e ripetute cadute di neve contribuivano a rendere questa rotta estremamente pericolosa.

Tuttavia, ciò che determinava l'esploratore a continuare i suoi sforzi, gli è ch'egli scorgeva nel cielo il riflesso di un mare libero, apparenza poco fallace, giacché il 9, dopo aver fatto più di 200 miglia attraverso il banco, entrava definitivamente in un mare sprigionato.

L'11 gennaio fu segnalata la terra a 100 miglia innanzi, a 70° 47' di latitudine sud, e 172° 36' di longitudine ovest. Non mai era stata vista terra tanto meridionale. Erano picchi alti da 9 a 12.000 piedi — se queste altezze non sono esagerate, come tenderebbero a farlo credere le osservazioni di d'Urville alla terra di Graham — picchi interamente coperti di neve, e i cui ghiacciai bagnano il loro piede da lontano nel mare. Qua e là nere rupi sorgono dalla neve, ma la costa era tanto erta di ghiacci, che fu impossibile sbarcare. Questo singolare allineamento di picchi mostruosi ricevette il nome di catena dell'Ammiragliato, e la terra quello di Vittoria.

Nel sud-est si mostravano alcune isolette; i bastimenti si diressero a quella parte, e, il 12 gennaio, i due capitani, con

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alcun ufficiali, sbarcarono su uno di quegli isolotti vulcanici e ne presero possesso in nome dell'Inghilterra. Non si trovò la minima traccia di vegetazione.

Ross non tardò a riconoscere che la costa orientale della grande terra inclinava verso il sud, mentre quella del nord si disegnava verso il nord-est. Costeggiò dunque il litorale est, sforzandosi di penetrare dal sud fino al di là del polo magnetico, che egli fissava verso il 76°, per ritornare poi dall'ovest e finire la circumnavigazione di quella terra che riteneva come una grande isola. La catena delle montagne si prolungava lungo la costa. Ross, alle sommità più notevoli, impose i nomi di Herschell, Wehwell, Wheatstone, Murchison, Melbourne; ma i ghiacci attaccati alla riva si allargavano sempre più, e perciò perdette di vista i particolari della costa. Il 23 gennaio aveva oltrepassato il 74°, la latitudine più australe che si fosse mai raggiunta.

Per qualche tempo le navi vi furono arrestate dalle nebbie, da forti venti del sud e da violente raffiche di neve. Continuarono però a fiancheggiare la costa. Il 27 gennaio, i marinai inglesi sbarcarono sopra un'isoletta vulcanica, cui diedero il nome di Franklin, situata a 76° 8' di latitudine sud e 168° 12' di longitudine est.

Il domani fu scorta una montagna gigantesca, che si elevava a pendìo regolare fino a 12.000 piedi di altezza al di sopra di una terra estesissima. La cima regolare, intieramente coperta di neve, era di ora in ora involta in un denso fumo, la cui larghezza non aveva meno di 300 piedi di diametro, e che, in forma di cono capovolto, ne misurava il doppio alla sua sommità. Quando si dissipò, si distinse un cratere nudo, rischiarato da un fuoco di un rosso vivo, il cui splendore appariva anche in pieno meriggio. La neve saliva fino al cratère, e fu impossibile distinguere il minimo scolo di lava.

Se la vista di un vulcano è sempre un grandioso spettacolo,

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l'aspetto di questo gigante che sorpassava l'Etna e il Picco di Teneriffa, la sua attività prodigiosa, la sua situazione in mezzo ai ghiacci del polo, dovevano pur vivamente colpire la mente degli esploratori. Questo monte ricevette il nome di Erebus, e si attribuì quello dell'altra nave, Terror, a un cratere spento, situato all'est del primo, nomi ben scelti, e che formano una vera immagine.

I due bastimenti continuarono a costeggiare la terra nel sud, fin che un banco di ghiaccio, le cui sommità oltrepassavano di 150 piedi gli alberi dei bastimenti, venne a sbarrare il loro cammino. Di dietro si continuava a scorgere una catena di montagne, i monti Parry, che s'internavano a perdita d'occhio nel sud-sud-est. Ross costeggiò questa barriera nell'est fino al 2 febbraio, che raggiunse al 78° 4', latitudine la più australe di questa campagna. Egli aveva seguito per oltre 300 miglia la terra che aveva scoperto, quando la lasciò a 191° 23' di longitudine est.

Secondo ogni verosimiglianza, le due navi non sarebbero uscite dal formidabile banco di ghiaccio attraverso il quale, a prezzo di inaudite fatiche e di pericoli continui, erano riuscite finalmente ad aprirsi un varco, senza le forti brezze che vennero in loro aiuto.

Il 15 febbraio fu fatto un nuovo tentativo a 76° di latitudine sud per cercare di raggiungere il polo magnetico. Ma la terra arrestò le navi a 76° 12' e 164° di longitudine est, a 65 leghe comuni dal punto in cui Ross segnava questo polo, che lo stato minaccioso del mare, l'aspetto desolante della contrada gl'impedivano di raggiungere per terra.

Dopo essersi recato a riconoscere le isole scoperte da Balleny nel 1839, Ross si trovava il 6 marzo al centro delle montagne indicate dal luogotenente Wilkes.

«Ma, dice la relazione, lungi dal trovarvi delle montagne, non vi si trovò fondo per 600 braccia. Dopo aver corso in tutte

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le direzioni, e in una cerchia di circa 80 miglia di diametro, intorno a questo centro immaginario, col tempo purissimo che permetteva dì veder tutto a grandi distanze, gli Inglesi dovettero riconoscere che, per lo meno, questa posizione di un preteso continente antartico con le sue 200 miglia continue di coste indicate, non ha esistenza reale. Il luogotenente Wilkes, senza dubbio, sarà stato indotto in errore dalle nubi, da enormi banchi di nebbia che in quelle regioni ingannano facilmente gli occhi inesperti.»

La spedizione riguadagnò la Tasmania senza aver un solo ammalato a bordo, senza aver sofferto la minima avarìa. Essa vi si rifece, vi regolò i suoi strumenti e ripartì per una seconda campagna.

Sydney e la Baia delle isole, la Nuova Zelanda, l'isola Ghatham, furono le prime stazioni in cui Ross si fermò per fare delle osservazioni magnetiche.

Il 18 dicembre, a 62° 40' di latitudine sud e 146° di longitudine est, s'incontrò il banco di ghiaccio. Questo era a 300 miglia più al nord dell'anno precedente. Le navi vi arrivavano troppo presto. Ross tentò tuttavia di rompere quella formidabile cinta. Vi penetrò per 300 miglia, ma si vide arrestato da massi tanto compatti, che gli fu impossibile di andare più oltre. Solamente il 1° gennaio 1842 giunse a varcare il circolo polare. Il 19 dello stesso mese, le due navi furono assalite da un uragano di una violenza inaudita, al momento in cui toccavano il mare libero. L'Erebus e il Terror perdettero il timone, furono urtati da scogli galleggianti, e per ventisei ore si videro sui punto d'essere ingoiati.

L'imprigionamento della spedizione nel banco di ghiaccio non durò meno di quarantasei ore. Finalmente, il 22, Ross raggiunse la gran barriera dei ghiacci fissi, che si erano sensibilmente abbassati a principiare dal monte Erebus, dove essa non aveva meno di duecento piedi. Al punto in cui Ross la

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ritrovava quest'anno, non ne aveva più di centosette. Si riconobbe questa barriera 150 miglia più all'est che non fosse l'anno precedente. Fu questo il solo risultato geografico di quella penosa campagna di 136 giorni, assai più drammatica della prima.

I bastimenti raggiunsero allora il capo Horn e risalirono fino a Rio-Janeiro, dove trovarono tuttociò che potesse tornare loro utile.

Appena ebbero ricevuto i loro complementi di viveri, ripresero il mare, e raggiunsero le Maluine, donde partirono il 17 dicembre 1842 per la loro terza campagna.

I primi ghiacci furono incontrati nei paraggi dell'isola Clarence, e il 25 dicembre Ross si trovava arrestato dai banchi di ghiaccio. Allora raggiunse le Nuove Shetland, completò lo studio delle terre Luigi-Filippo e Joinville scoperte da Dumont d'Urville, diede il nome ai monti Haddington e Penny, riconobbe che la terra Luigi-Filippo non è che una grande isola, e visitò lo stretto di Bransfield che le separa dalle Shetland.

Tali furono i meravigliosi risultati ottenuti da James Ross in queste sue tre campagne.

Ora, per giudicare la parte che spetta a ciascuno di questi tre esploratori delle regioni antartiche, si può dire che d'Urville ha per il primo riconosciuto il continente antartico, che Wilkes ne ha seguito le coste sopra il più lungo spazio, giacché non si può disconoscere la somiglianza che offre il suo tracciato con quello del navigatore francese; finalmente che James Ross ne ha visitato la parte più meridionale e più interessante.

Ma questo continente esiste in realtà? d'Urville non ne è persuaso e Ross non vi crede. Bisogna dunque lasciare la parola agli esploratori che si dirigeranno prossimamente sulle tracce dei valenti marinai di cui abbiamo narrato i viaggi e le scoperte.

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II.

IL POLO NORD.

Anjou e Wrangell. — La polynia. — Prima spedizione di Giovanni Ross. — La baia di Baffin è chiusa! — Le scoperte d'Edoardo Parry nei primi due viaggi. — La ricognizione della baia d'Hudson e la scoperta degli stretti della Fury e dell'Hecla. — Terzo viaggio di Parry. — Quarto viaggio. — In islitta sul ghiaccio, in pieno mare. — Prima scorreria di Franklin. — Incredibili sofferenze degli esploratori. — Seconda spedizione. — Giovanni Ross. — Quattro inverni fra i ghiacci. — Spedizione di Dease e Simpson.

Si è parlato a più riprese del grande movimento geografico

inaugurato da Pietro I. Uno dei risultati più rapidamente raggiunti fu la scoperta fatta da Behring dello stretto che separa l'Asia dall'America. Il più importante che ne seguì, ad una trentina d'anni di distanza, fu la ricognizione, nel mare polare, dell'arcipelago Liakow o della Nuova Siberia.

Nel 1770, un mercante chiamato Liakow aveva veduto arrivare dal nord sul ghiaccio un numeroso branco di renne. Egli pensò che questi animali non potevano venire che da un paese in cui si trovassero pascoli abbastanza abbondanti per nutrirli. Un mese dopo, egli partiva in islitta, e, dopo un viaggio di cinquanta miglia, scoperse, fra le imboccature della Lena e dell'Indighirka, tre grandi isole, le cui immense giaciture di avorio fossile sono diventate celebri in tutto il mondo.

Nel 1809, Hedenstroem era stato incaricato di rilevarne la carta. Più volte egli aveva tentato delle corse in islitta sul mare ghiacciato, e ogni volta si era visto arrestato dai ghiacci in scioglimento, che non potevano portarlo. Aveva perciò concluso per l'esistenza di un mare libero al largo, e appoggiava questa opinione sull'immenso volume di acqua calda a 10° che versano nel mare polare i grandi fiumi dell'Asia.

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Nel marzo 1821, il luogotenente (più tardi ammiraglio) Anjou si avanzò sul ghiaccio fino a quarantadue miglia al nord dell'isola Kotelnoi, e vide, a 76° 38', un vapore che l'indusse a credere alla esistenza di un mare libero. Si avventurò in una seconda spedizione e ne ritornò col convincimento che era impossibile inoltrarsi al largo in causa del poco spessore del ghiaccio e dell'esistenza di questo mare libero.

Mentre Anjou si occupava di queste esplorazioni, un altro ufficiale di marina, il luogotenente Wrangell, raccoglieva leggende e informazioni preziose sulla esistenza di una terra situata per il traverso del capo Yakan.

Dal capo di una colonia tchuktcha avrebbe egli appreso che, presso la costa e certe scogliere sottomarine poste all'imboccatura d'un fiume, si può, con un bel tempo d'estate, scoprire, ad una grandissima distanza nel nord, delle montagne coperte di neve; ma d'inverno è impossibile vederle. Altre volte, branchi di renne venivano da quella terra quando il mare era rappreso. Questo capo medesimo, una volta, aveva veduto un branco di renne che ritornavano al nord da questa via, e l'aveva egli seguito in islitta per una intiera giornata, sino a che lo stato del ghiaccio lo costrinse ad abbandonare la sua intrapresa.

Suo padre gli aveva pure narrato che un tchuktchi vi era stato una volta con alcuni compagni in una barca di pelle; ma egli non sapeva né ciò che avevano trovato, né ciò che era avvenuto di essi. Sosteneva che quel paese doveva essere abitato, e narrava a proposito che una balena morta era venuta ad arenarsi all'isola Aratana, bucata di lance a punta d'ardesia, arma di cui i Tchuktchi non si servono mai. Queste informazioni erano curiosissime e aumentavano il desiderio a Wrangell di penetrare fino a quegli ignoti paesi; ma esse non dovevano verificarsi che ai giorni nostri.

Dal 1820 al 4824, Wrangell, stabilito alla imboccatura

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della Kolyma, fece quattro viaggi in islitta sui ghiacci. Dapprima esplorò la costa, dall'imboccatura della Kolyma fino al capo Tchelagskoi, e dovette sopportare, durante questa corsa, fin 35° di freddo.

Il secondo anno volle vedere qual punto potrebbe raggiungere sul ghiaccio, e pervenne a 140 miglia dalla terra.

Il terzo anno, nel 1822, Wrangell partì nel mese di marzo, per verificare il rapporto di un indigeno che gli affermava l'esistenza di una terra libera. Egli raggiunse un campo di ghiaccio, sul quale poté inoltrare senza ostacoli.

Più lungi l'ice-fìeld sembrava meno resistente. Il ghiaccio essendo allora non abbastanza solido per portare una carovana, si dovette caricare sopra due piccole slitte una navicella, delle assi e alcuni utensili, e poi incamminarsi sopra un ghiaccio che si scioglieva e scricchiolava sotto i piedi.

«Dovetti, dice Wrangell, fare dapprima sette verste attraverso uno strato salino; più lungi apparve una superficie solcata da larghi crepacci, che non pervenivamo a varcare che col mezzo delle nostre assi. Notai in questo luogo dei piccoli monticelli di un ghiaccio così poco resistente, che il minimo contatto bastava a romperlo e trasformare il monticello in un'apertura circolare. Il ghiaccio su cui si viaggiava era senza consistenza, non aveva che un piede di spessore, e, quel che è più, era crivellato di buchi. Non posso paragonare l'aspetto del mare, in questo istante, che ad un immenso acquitrino; e infatti, l'acqua fangosa che sorgeva da quelle migliaia di crepacci, frastagliandosi in tutti i sensi, la neve mista di terra e di sabbia, quei monticelli da cui derivavano numerosi ruscelli, tutto concorreva a rendere completa l'illusione.»

Wrangell si era allontanato dalla costa per circa 228 chilometri, ed è il mare libero idi Siberia quello di cui aveva toccato le rive, immensa polynia — nome ch'egli dà a vaste estensioni d'acqua libera — già segnalata da Leontjeff nel 1764

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e da Hedenstreem nel 1810. Al quarto viaggio, Wrangell partì dal capo Yakan, il punto

più vicino alle terre settentrionali. La sua piccola compagnia, dopo aver oltrepassato il capo Tchelagskoi, fece rotta al nord; ma un violento uragano ruppe il ghiaccio, che non aveva che tre piedi di spessore, e fece correre agli esploratori il più gran pericolo. A volte trascinati su qualche grande lastra non ancor rotta, a volte semi-sommersi sopra un fondo mobile che oscillava o dispariva interamente, oppure legati su qualche masso che serviva loro di chiatta, mentre i cani tiravano e nuotavano, pervennero finalmente a riguadagnare la terra attraverso dei ghiaccioli che il mare urtava fra loro con gran rumore. Essi non dovettero la loro salvezza che alla rapidità e al vigore dei loro cani.

In questo modo terminarono i tentativi fatti per raggiungere le terre al nord della Siberia.

La calotta polare era in pari tempo assalita da un'altra parte con altrettanta energia, ma con maggiore continuità.

Si ricorda con quale entusiasmo e quale perseveranza era stato cercato il famoso passaggio del nord-ovest. Non appena i trattati del 1815 ebbero imposto la necessità del disarmo di numerosi vascelli inglesi e la riduzione a mezza paga de' loro ufficiali, l'ammiragliato, non volendo rompere la carriera di tanti stimabili marinai, s'ingegnò a procurare loro qualche impiego. Gli è in tali circostanze che fu ripresa la ricerca del passaggio del nord-est.

L'Alexandre, di 252 tonnellate, e l'Isabelle di 385, al comando di John Ross, ufficiale di esperienza, e del luogotenente William Parry, furono spediti dal Governo per esplorare la baia di Baffin. Parecchi ufficiali, James Ross, Barck, Belcher, che dovevano illustrarsi nelle spedizioni polari, facevano parte dell'equipaggio.

Questi bastimenti spiegarono le vele il 18 aprile, sostarono

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alle isole Shetland, cercarono invano la terra sommersa di Bass, che si poneva a 57° 28' nord, e, fino dal 26 maggio, ebbero cognizione dei primi ghiacci. Il 2 giugno si rilevò la costa del Groenland. Sulla parte occidentale, assai male indicata dalle carte, furon trovate grandi quantità di ghiacci, e il governatore della colonia danese di Whale-Island assicurò agli Inglesi che il rigore degli inverni aumentava sensibilmente da undici anni ch'egli abitava il paese.

Fino allora si era creduto che al di là del 75° il paese fosse inabitabile. E perciò i viaggiatori furono stupiti di veder arrivare sul ghiaccio un'intera tribù di Esquimesi. Questi selvaggi ignoravano l'esistenza di un altro popolo che non fosse il loro. Essi guardavano gli Inglesi senza osare di toccarli, e uno di essi, rivolgendosi ai bastimenti, con voce grave e solenne domandava loro: «Chi siete voi? donde venite? dal sole o dalla luna?»

Sebbene questa tribù fosse, sotto certi aspetti, molto al di sotto degli Esquimesi, che la lunga frequenza degli Europei ha cominciato a civilizzare, conosceva però l'uso del ferro, con cui alcuni di essi erano pervenuti a farsi dei coltelli. Esso proveniva, da quanto si poté comprendere, da un masso o montagna da cui lo ricavavano. Verosimilmente era ferro meteorico.

Durante tutto questo viaggio, e dacché se ne conobbero i risultati in Inghilterra, l'opinione pubblica non s'ingannò. Ross, sebbene avesse qualità nautiche di primo ordine, diede prova però di una indifferenza e di una leggerezza singolare. Sembrava curarsi poco di trovare la soluzione dei problemi geografici che avevano determinato l'armamento della spedizione.

Senza esaminarle, passò davanti alle baie Wolstenholme e delle Balene, nonché davanti allo stretto di Smith che si apre in fondo alla baia di Baffin, e a una distanza tanto grande che egli

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non lo riconobbe. Di più, quando cominciò a discendere la costa occidentale

della baia di Baffin, un magnifico braccio di mare profondamente incassato, d'una larghezza non inferiore a cinquanta miglia, s'offerse agli sguardi ansiosi degli esploratori. I due bastimenti vi penetrarono il 20 agosto, ma non si erano peranco inoltrati di trenta miglia, che Ross diede ordine di girar di bordo col pretesto che aveva distintamente veduto una catena di alte montagne, alle quali diede il nome di monti Croker e che ne sbarrava l'estremità. Quella opinione non fu divisa dagli ufficiali che non avevano scorto la minima collina, per questa eccellente ragione, che il braccio in cui si era entrati altro non era che lo stretto di Lancaster, così chiamato da Baffin, e che comunica col mare nella direzione dell'ovest.

Lo stesso avvenne press'a poco di tutte le indentazioni di questa costa, così profondamente frastagliata, e per lo più si stava a una tale distanza che era impossibile di scorgere il minimo particolare. In tal modo essendo la spedizione arrivata il 1° ottobre davanti all'entrata di Cumberland, essa non cercò di riconoscere questo punto tanto importante, e Ross ritornò in Inghilterra volgendo il dorso alla gloria che l'aspettava.

Accusato di leggerezza e di negligenza, Ross rispondeva con un sussiego superbo: «Oso lusingarmi di avere, in tutto ciò che è importante, compiuto l'oggetto del mio viaggio, poiché ho provato l'esistenza di una baia che si estende da Disco fino allo stretto di Cumberland, e terminato per sempre la questione relativa a un passaggio a nord-ovest in quella direzione.»

Era difficile di ingannarsi più completamente. Però l'insuccesso di questo tentativo fu lontano dallo scoraggiare i cercatori.

Gli uni vi trovarono la splendida conferma delle scoperte del vecchio Baffin, gli altri vollero vedere in quelle

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innumerevoli entrate, in cui il mare era tanto profondo e la corrente tanto forte, ben altra cosa che delle baie. Per essi erano degli stretti, e ogni speranza di scoprire il passaggio non era perduta.

L'Ammiragliato, colpito da queste ragioni, armò subito due piccoli bastimenti, la bombarda Hecla e il brigantino Griper. Il 5 maggio 1819 essi uscirono dal Tamigi sotto il comando del luogotenente William Parry, che non si era trovato del medesimo parere del suo capo, circa l'esistenza del passaggio del nord-ovest.

I bastimenti, senza straordinari incidenti di navigazione, penetrarono fino allo stretto di sir James Lancaster; poi, dopo essere stati imprigionati per sette giorni in mezzo ai ghiacci accumulati sovra una estensione di ottanta miglia, entrarono in quella baia che, secondo John Ross, doveva essere chiusa.

Non solamente queste montagne non esistevano che nell'imaginazione del navigatore, ma tutti gli indizi che si notavano, rivelavano, senza equivoco, che era uno stretto.

Fino a 310 braccia non si era trovato il fondo; si cominciava a sentire il movimento dell'onda; la temperatura dell'acqua si era elevata di 6° e in un sol giorno non s'incontrarono meno di ottanta balene tutte grossissíme.

Scesi a terra il 31 luglio nella baia Possessione che avevano visitato l'anno precedente; gli esploratori vi trovarono ancora le orme dei loro passi, il che indicava la piccola quantità di neve e di brina cadute nell'inverno.

Al momento in cui, a tutte vele spiegate, e aiutati da un vento favorevole, i due bastimenti penetrarono nello stretto di Lancaster, tutti ì cuori batterono rapidamente.

«È più facile imaginare che descrivere, dice Parry, l'ansia impressa in quel momento su tutte le fisionomie, mentre c'inoltravamo nello stretto con una rapidità sempre crescente, mercè la brezza che si faceva vieppiù forte; le vele di gabbia

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furono coperte di ufficiali e di marinai per tutto il pomeriggio, e un osservatore disinteressato, se ve ne poteva essere in una scena simile, si sarebbe divertito all'ardore col quale si ricevevano le notizie trasmesse dalle guardie; fino allora esse erano tutte favorevoli alle nostre speranze più ambiziose.»

Infatti le due rive continuavano parallele fra loro, tanto lontano, che l'occhio poteva seguirle a oltre 50 miglia. L'altezza delle onde, l'assenza del ghiaccio, tutto doveva persuadere gl'Inglesi d'aver raggiunto il mare libero e il passaggio tanto cercato, quando un'isola, contro la quale si era ammucchiato un masso enorme di ghiaccio, venne a sbarrar loro il passaggio.

Però un braccio di mare, largo una decina di leghe, si apriva nel sud. Si sperava trovarvi una via di comunicazione meno ingombra di ghiacci. Cosa singolare; sino a che si era avanzato nell'ovest per lo stretto di Lancaster, i movimenti della bussola si erano accentuati; ora che si discendeva verso il sud, l'istrumento sembrava aver persa ogni azione, e «si vide, per un curioso fenomeno, la potenza dirigente dell'ago calamitato indebolirsi al punto di non poter resistere all'attrazione di ciascuna nave, in modo che segnava, a dir vero, il polo nord della Hecla o del Griper».

Il braccio di mare si allargava a misura che i bastimenti s'avanzavano verso l'ovest, e la riva s'infletteva sensibilmente verso il sud-ovest; ma dopo avervi fatto 120 miglia si trovarono arrestati da una barriera che li impedì d'andare più lungi in questa direzione. Essi raggiunsero lo stretto di Barrovv, di cui quello di Lancaster non forma che il suolo, e trovarono libero di ghiacci questo mare, che avevano visto ingombro qualche giorno prima.

A 92° 15' di longitudine, fu riconosciuta un'entrata, il canale Wellington, largo circa otto leghe. Interamente sgombro di ghiacci, non sembrava chiuso da alcuna terra. Tutti questi stretti persuasero gli esploratori che essi navigavano in mezzo a

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un immenso arcipelago, e la loro fiducia crebbe sempre più. Però la navigazione diventava simile fra le nebbie; il

numero delle isolette e dei bassi fondi aumentava, i ghiacci si accumulavano, ma nulla poteva però scoraggiare Parry nel suo cammino verso l'ovest. Sopra una grande isola, cui fu dato il nome di Bathurst, i marinai trovarono gli avanzi di alcune abitazioni d'Esquimesi, nonché tracce di renne. Furon fatte in quel luogo delle osservazioni magnetiche che indussero a concludere che si era passati al nord del polo magnetico.

Un'altra grande isola, Melville, fu subito in vista, e non ostante gli ostacoli che i ghiacci e la nebbia frapponevano al progresso della spedizione, le navi giunsero ad oltrepassare il 110° ovest, guadagnando in tal modo la ricompensa di 100.000 lire sterline, promessa dal Parlamento.

Un promontorio, situato press'a poco in quel punto, ricevette il nome di capo della Munificenza; una buona rada nelle vicinanze fu chiamata baia Hecla e del Griper. In fondo a questa baia, nel Winter-Harbour, le due navi passarono l'inverno, e disarmate e circondate da coperte ovattate, erano racchiuse in un involto di neve, mentre all'interno erano disposti i caloriferi e le stufe. La caccia non diede altro risultato che di far gelare alcune membra dei cacciatori, giacché tutti gli animali, eccetto i lupi e le volpi, avevano disertata l'isola Melville alla fine di ottobre.

Come passare quella lunga notte d'inverno, senza annoiarsi troppo?

Gli ufficiali pensarono allora di allestire un teatro, sul quale la prima rappresentazione fu data il 6 novembre, il giorno medesimo in cui il sole scompariva per tre mesi. Poi, dopo aver composto un'operetta per l'occasione del Natale, in cui era fatta allusione alla situazione dei bastimenti, fondarono una gazzetta ebdomadaria che chiamarono Gazzetta delta Georgia del Nord, Cronaca d'inverno. Questo giornale, di cui Sabine era l'editore,

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ebbe ventun numeri, e al ritorno ricevette gli onori della stampa.

Nel mese di gennaio apparve lo scorbuto, e la violenza della malattia causò a tutta prima vivi allarmi; ma l'uso ben inteso degli antiscorbutici, e la quotidiana distribuzione della mostarda fresca e del crescione, che Parry giunse a far germogliare entro cassette poste intorno alla stufa, troncarono il male alla sua radice.

Il 7 febbraio riapparve il sole, e sebbene dovessero ancora trascorrere parecchi mesi prima che fosse possibile di lasciare l'isola Melville, i preparativi della partenza furono cominciati. Il 30 aprile, il termometro salì fino a zero, e i marinai, pigliando questa temperatura così bassa per l'estate, volevano lasciare i loro abiti d'inverno. Il primo «ptarmigan» apparve il 12 maggio, e il giorno seguente si videro le peste delle renne e delle capre da muschio che cominciavano a incamminarsi verso il nord. Ma ciò che cagionò ai marinai una gioia e una sorpresa affatto straordinaria, fu la pioggia che cadde il 24 maggio.

«Noi eravamo, dice Parry, tanto disabituati a veder l'acqua nel suo stato naturale, e soprattutto a vederla cadere dal cielo, che questa circostanza così semplice divenne un soggetto di curiosità. Non vi fu nessuno a bordo, a quanto parmi, che non s'affrettasse di salire sui ponte per osservare un fenomeno così nuovo e interessante.»

Nella prima quindicina di giugno, Parry, seguito da alcuni dei suoi ufficiali, fece un'escursione sull'isola Melville, di cui raggiunse l'estremità nord: Al suo ritorno la vegetazione appariva dappertutto; il ghiaccio cominciava a sciogliersi, tutto annunciava che la partenza poteva effettuarsi prossimamente. Ebbe luogo il 1° agosto; ma al largo i ghiacci non si erano ancora sciolti, e i bastimenti non poterono inoltrarsi nell'est che fino all'estremità dell'isola Melville. Il punto più lontano che abbia raggiunto Parry in questa direzione è situato a 74° 26'25"

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di latitudine e 113° 46'43" di longitudine. Il ritorno avvenne senza incidenti, e verso la metà di novembre le navi erano ritornate in Inghilterra.

I risultati di questo viaggio furono importanti; non solo era stata riconosciuta un'immensa estensione di regioni artiche, ma si erano fatte delle osservazioni di fisica e di magnetismo, e si erano raccolti documenti affatto nuovi sui fenomeni del freddo, sul clima artico, sulla vita animale e vegetale di quelle regioni.

In una sola campagna Parry aveva ottenuto maggiori risultati che non fecero in trent'anni tutti coloro che dovevano seguire le sue tracce.

L'Ammiragliato, soddisfatto dei risultati tanto importanti ottenuti da Parry, gli affidò, nel 1821, il comando di due navi, l'Hecla e la Fury, quest'ultima costruita sul modello dell'Hecla. Questa volta il navigatore esplorò le rive della baia di Hudson, e visitò con la massima cura le coste della penisola Melville, che non si deve confondere con l'isola dello stesso nome. Si svernò all'isola Winter (inverno), sulla costa orientale di quella penisola, e si ricorse ai medesimi passatempi che erano riusciti così bene nella campagna precedente.

Ma la più grande diversione alla monotonia dell'inverno fu la visita di un distaccamento d'Esquimesi che arrivò il 1° febbraio attraverso i ghiacci. Le loro capanne, che non si erano scorte, erano collocate sulla spiaggia; si visitarono, e 18 mesi di rapporti quasi costanti con l'equipaggio, contribuirono a dare di questi popoli, della loro maniera di vivere e del loro carattere, un'idea affatto diversa di quella che ci se n'era formata fino allora.

La ricognizione degli stretti della Fury e della Herta, che separano la penisola Melville dalla terra di Goekburne, costrinse i viaggiatori a passare un secondo inverno nelle regioni artiche. Se la sosta fu più agevole, il tempo, trascorse però meno allegramente, in causa del profondo disinganno che

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ufficiali e marinai avevano provato nel vedersi arrestati al momento in cui contavano di far rotta per lo stretto di Behring.

Il 12 agosto i ghiacci si apersero; Parry voleva rimandare in Europa le sue navi e continuare per terra l'esplorazione delle terre che aveva scoperto; ma dovette cedere alle istanze del capitano Lyon, che gli mostrò la temerità di questo disperato progetto. I due bastimenti ritornarono dunque in Inghilterra, dopo un'assenza di 27 mesi, con la perdita di soli 5 uomini sopra 119, sebbene avessero passato due inverni consecutivi in quelle regioni iperboree.

Certamente, i risultati di questo secondo viaggio non valevano quanto quelli del primo, ma non doveva rimanere senza guiderdone. Si sapeva oramai che la costa d'America non si estende quasi al di là del 70°, che l'Atlantico comunica col mare polare a mezzo di una quantità di stretti e di canali, per lo più chiusi, come quelli della Fury, dell'Hecla e della Fox, da barriere di ghiacci che le correnti accumulano.

Se i ghiacci trovati all'estremità sud-est della penisola Melville sembravano permanenti, non pareva che così fosse di quelli all'entrata del Principe Reggente. Per conseguenza vi erano delle probabilità di poter di là penetrare nel bacino polare. La Fury e la Hecla furono dunque armate ancora una volta e affidate a Parry.

Questo viaggio fu il meno fortunato di tutti quelli che intraprese questo provetto marinaio, non già che egli fosse inferiore a sé stesso, ma perchè fu vittima di casi disgraziati e di sfavorevoli circostanze.

Assalito infatti, nella baia di Baffin, da una insolita abbondanza di ghiacci, stentò moltissimo a raggiungere l'entrata del Principe Reggente. Forse, se la stagione gli avesse permesso d'arrivare tre settimane prima, sarebbe riuscito a percorrere la costa d'America; ma non poté che prendere le disposizioni necessarie per lo sverno.

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Non era già una formidabile eventualità per questo esperimentato ufficiale il passare un inverno sotto il circolo polare. Egli conosceva le precauzioni necessarie per conservare la salute del suo equipaggio, per creargli anzi un certo benessere, per procurargli quelle occupazioni e quelle distrazioni che contribuiscono tanto potentemente a diminuire la lunghezza di una notte di 3 mesi.

I corsi insegnati da alcuni ufficiali, le mascherate e le rappresentazioni teatrali, un calore costante di 50° Fahrenheit, mantennero gli uomini in così buona salute che, il 29 luglio 1825, quando lo sgelo permise a Parry di riprendere le sue operazioni, non aveva a bordo nessun malato.

Egli si diede a percorrere la costa orientale dell'entrata del Principe Reggente; ma i ghiacci galleggianti si avvicinarono e spinsero le navi alla riva. La Fury subì tali avarìe, che non ostante l'opera di quattro pompe sempre in attività, poteva appena galleggiare. Parry cercò di ripararla dopo averla issata sopra un enorme banco di ghiaccio; sopraggiunse una tempesta, ruppe il temporaneo riparo del bastimento e lo lanciò sulla riva, dove abbisognò abbandonarlo definitivamente. Il suo equipaggio fu raccolto dall'Hecla che, in causa di questa catastrofe dovette ritornare in Inghilterra.

L'animo ottimamente temprato di Parry non fu scosso da questo ultimo disastro. Se era quasi impossibile di raggiungere il mare polare per quella via, non ve ne erano forse altre? L'ampio spazio dei mare che si estende fra la Groenland e lo Spitzberg non offriva forse una rotta meno pericolosa, meno irta di quegli enormi icebergs che non si formano che sulle coste?

Le più antiche spedizioni che si narrano di quei paraggi, sono quelle di Scoresby, che frequentò lungo tempo quei mari alla caccia delle balene. Nel 1806 egli si avanzò alquanto nel nord, tanto avanti, che non si era mai più potuto raggiungere

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con una nave e per quella via la medesima latitudine. Egli si trovava infatti, il 24 maggio, a 81° 30' di latitudine e 16° di longitudine est di Parigi, vale a dire quasi al nord dello Spitzberg. Il ghiaccio si estendeva verso est-nord-est.. Fra questa direzione e il sud-est il mare era assolutamente libero per una estensione di trenta miglia, e non vi era terra alla distanza di cento miglia.

Devesi deplorare che il baleniere non abbia creduto di approfittare di questo stato tanto favorevole del mare per avanzarsi verso il nord; non è a dubitarsi che avrebbe fatto qualche importante scoperta, se pure non avrebbe raggiunto il polo magnetico.

Ciò che le esigenze della sua professione di baleniere avevano impedito a Scoresby di compiere, Parry risolvette di tentare.

Egli partì da Londra sull'Hecla il 25 marzo 1827, raggiunse la Lapponia norvegiana, ad Hammerfest imbarcò dei cani, delle renne e dei canotti, e continuò la sua rotta per lo Spitzberg.

Il porto Smeerenburg in cui voleva entrare, era ancora ingombro di ghiacci, e l'Hecla continuò a lottare contro di essi fino al 27 maggio. Parry abbandonò allora la sua nave nello stretto di Hinlopen, e si avanzò verso il nord con due canotti che portavano, con Ross e Crozier, ciascuno dodici uomini e viveri per 71 giorni. Dopo aver collocato un deposito di viveri alle Sept-Iles, caricò le sue provvigioni e le sue barche sopra delle slitte che erano state costrutte in modo affatto speciale. Egli sperava in tal guisa poter varcare la barriera di ghiacci solidi e trovare al di là un mare, se non interamente libero, almeno navigabile.

Ma i banchi di ghiaccio non formavano un assieme omogeneo, come operava Parry. Talora si dovevano attraversare ampie pozze d'acqua, talora le slitte dovevano

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salire sopra scoscese colline. Perciò in quattro giorni non si avanzò che di 14 km. verso il nord.

Il 2 luglio, con una fitta nebbia, il termometro segnava 1° 7' sopra lo zero all'ombra, e 8° 3' al sole.

Il cammino su questa scabrosa superficie, rotta a ogni istante da Sbracci di mare, era eccessivamente penoso, e la vista dei viaggiatori si stancava all'abbagliante riverbero della luce.

Non ostante quei numerosi ostacoli, Parry e i suoi compagni si avanzarono sempre con coraggio, quando, il 20 luglio, s'accorsero che non erano giunti che a 82° 37', vale a dire a 9 chilometri soltanto più al nord di tre giorni prima. Bisognava dunque che i banchi di ghiaccio fossero trascinati da una forte corrente verso il sud, giacché erano certi d'aver fatto in questo tempo almeno 22 chilometri sul ghiaccio.

Parry nascose a tutta prima questo scoraggiante risultato all'equipaggio; ma ben presto fu a tutti evidente che non si ascendeva verso il nord che della differenza di due opposte velocità; quella che i viaggiatori mettevano a sorpassare tutti gli ostacoli accumulati sotto i loro passi, e quella che trascinava l'ice-field in senso contrario.

La spedizione però raggiunse un punto in cui i banchi di ghiaccio, rotti per metà, non potevano più portare né gli uomini, né le slitte. Era un ammasso prodigioso di ghiacci che, sollevati dai fiotti, si urtavano con rumore spaventevole. I viveri erano esauriti, i marinai scoraggiati, Ross era ferito, Parry soffriva crudelmente di una infiammazione d'occhi; finalmente il vento che soffiava contrario spingeva gli Inglesi verso il sud. Bisognò ritornare.

Quest'ardita corsa, durante la quale il termometro non discese al disotto di 2° 2', avrebbe potuto riuscire, se fosse stata intrapresa in una stagione meno inoltrata. I viaggiatori, partiti più presto, avrebbero potuto elevarsi oltre 82° 40'; non

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sarebbero certamente stati arrestati dalla pioggia, dalla neve e dall'umidità, sintomi evidenti dello sgelo estivo.

Quando Parry raggiunse l'Hecla, apprese che questo bastimento aveva corso i più grandi pericoli. Spinti da un forte

vento, i ghiacciuoli avevano rotto le catene e gettato alla costa la nave, che si era arenata. Rialzata, era stata condotta all'entrata dello stretto Waygat.

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Parry terminò la sua rotta felicemente fino alle Orcadi, sbarcò su queste isole, e ritornò a Londra il 30 settembre.

Mentre Parry cercava un passo fra le baie Baffin o di Hudson, onde raggiungere il Pacifico, erano state ordinate parecchie spedizioni per completare le scoperte di Mackenzie e determinare la direzione della costa settentrionale dell'America.

Pareva che questi viaggi non presentassero difficoltà grandissime, mentre i loro risultati potevano essere notevoli per il geografo e molto vantaggiose al marinaio.

Ne fu affidato il comando ad un ufficiale di merito, Franklin, il cui nome è diventato giustamente celebre. Il dottore Richardson e Giorgio Back, allora midshipman nella marina, l'accompagnavano con due marinai.

Arrivati il 30 agosto 1839 alla fattoria di York sulle rive della baia di Hudson, dopo aver raccolto presso i conservatori di animali da pellicce tutte le informazioni che potessero tornar utili, gli esploratori partirono il 9 settembre, e entrarono il 22 ottobre a Cumberland-House, situata a 690 miglia. La stagione volgeva al suo termine. Franklin si recò tuttavia, con Giorgio Back, al forte Chippewayan all'estremità occidentale del lago Athabasca, allo scopo di vigilare ai preparativi della spedizione che doveva farsi l'estate seguente. Questo viaggio di 857 miglia fu compiuto nel cuore dell'inverno, con temperature da 40 a 50 gradi sotto zero.

In principio della primavera, il dottore Richardson raggiunse al forte Chippewayan il rimanente della spedizione, che partì il 18 luglio 1820 con la speranza di passare, prima della cattiva stagione, un'invernata confortevole all'imboccatura della Coppermine. Ma si dovette fare i conti, più che non lo avessero fatto Franklin e i suoi compagni, con le difficoltà della rotta, e con gli ostacoli che recò il rigore della stagione.

Le cadute d'acqua, i bassi fondi dei laghi e dei fiumi, i

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trasporti, la scarsità di selvaggina fecero tanto ritardare i viaggiatori, che il 20 agosto, quando gli stagni cominciarono a coprirsi di ghiaccio, le guide canadesi fecero udire dei lamenti, e quando videro fuggire verso il sud le frotte d'oche selvatiche, si rifiutarono di andare più lungi.

Franklin, malgrado il dispetto che gli causò tanto mal volere, dovette rinunciare a' suoi progetti e costruire al punto in cui si trovava, vale a dire cinquecentocinquanta miglia dal forte Chippewayan, sulle rive del fiume Winter, una casa in legno che ricevette il nome di forte Entreprise. Essa era situata a 64° 28' di latitudine e 118° 6' di longitudine.

Non appena installati, i viaggiatori s'occuparono a riunire il maggior numero di provvigioni che fu loro possibile, e con la carne di renna confezionarono quella pietanza che è conosciuta nell'America del nord col nome di pemmican, A tutta prima, il numero delle renne che si videro fu considerevole; se ne contarono non meno di duemila in un sol giorno, ma ciò provava che questi animali emigravano verso regioni più clementi. Eppure, appena si ebbe preparata la carne di centottanta di quei quadrupedi, sebbene si trovasse un aumento di nutrimento nei prodotti del fiume vicino, queste provvigioni, benché considerevoli, furono insufficienti.

Tribù intiere d'Indiani, alla notizia dell'arrivo dei bianchi nel paese, erano venuti a stabilirsi alle porte del forte, e passavano la loro vita a mendicare e a sfruttare i nuovi venuti. Perciò le balle di coperte, di tabacco e d'altri oggetti di cambio, non tardarono a esaurirsi. Franklin, inquieto di non veder arrivare la spedizione che doveva riapprovvigionarlo, si determinò a spedire, il 18 ottobre, Georges Back con una scorta di Canadesi, al forte Chippewayan.

Un tale viaggio, a piedi, nel cuore dell'inverno, richiede una devozione meravigliosa, di cui le poche linee seguenti possono dare un'idea.

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«Ebbi, disse Back al suo ritorno, il piacere di trovare tutti i miei amici in buona salute, dopo un'assenza di circa cinque mesi, durante i quali avevo fatto millecentoquattro miglia, con scarpe da neve, e senz'altro riparo, la notte, nei boschi, che una coperta e una pelle di daino, il termometro discendendo sovente a 40° e una volta a 57° sotto zero; mi accadeva talora di passare due o tre giorni senza prender cibo.»

Coloro i quali erano rimasti al forte ebbero pure a soffrire un freddo che discendeva di tre gradi sotto quello che Parry aveva sofferto all'isola Melville, situata però a 9° più vicina al polo. Gli effetti di questa rigida temperatura non si facevano sentire sugli uomini soltanto; gli alberi gelarono al punto che la scure si rompeva senza poter solcarvi un taglio.

Due interpreti della baia d'Hudson avevano accompagnato Back al forte di Entreprise: uno di essi aveva una figlia che passava per la più bella creatura che si fosse veduta. Epperò, benché non avesse ancora sedici anni, aveva già avuto due mariti. Uno degli ufficiali inglesi fece il suo ritratto con gran disperazione della madre che temeva che il gran capo d'Inghilterra, contemplando quella fredda immagine, diventasse innamorato dell'originale.

Il 14 giugno 1821 la Coppermine fu abbastanza sgelata da essere navigabile. Vi ci s'imbarcò subito, benché i viveri fossero quasi totalmente esauriti. Per fortuna la selvaggina era numerosa sulle verdeggianti rive del fiume, e si uccisero tanti buoi muschiati da nutrire tutti quanti.

L'imboccatura della Coppermine fu raggiunta il 18 luglio. Gli Indiani, per timore di incontrare i loro nemici, gli Esquimesi, ripresero subito la via del forte Entreprise, mentre i Canadesi osavano appena lanciare le loro fragili imbarcazioni su questo mare irritato. Franklin però li risolvette ad arrischiarsi, ma non poté andare oltre la punta del Ritorno a 68° 30' di latitudine, promontorio che formava l'apertura di un

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golfo profondo, sparso di numerose isole, al quale Franklin diede nome di golfo dell'incoronazione di Giorgio IV.

Franklin aveva cominciato a risalire il fiume Hood, quando si vide arrestato da una cascata di 250 piedi; dovette quindi fare il rimanente cammino per terra, in mezzo alle nevi di oltre due piedi di spessore, in un paese sterile e affatto ignoto. È più facile imaginare che descrivere i patimenti di questo viaggio di ritorno. Franklin ritornò al forte Entreprise l'11 ottobre in uno stato di spossatezza assoluta, non avendo mangiato nulla da cinque giorni. Il forte era abbandonato. Senza provvigioni, ammalato, pareva che Franklin non avesse a far altro che lasciarsi morire. L'indomani però si mise in cerca degl'Indiani e di quelli dei suoi compagni che l'avevano preceduto; ma la neve era tanto alta che dovette rifare il cammino e ritornare al forte. Per diciotto giorni non visse che di una specie di brodo fatto con le ossa e le pelli della selvaggina uccisa l'anno precedente. Il 29 ottobre, il dottore Richardson giunse finalmente con John Hepburn, senza gli altri compagni della spedizione. Rivedendosi, tutti furono dolorosamente impressionati della loro magrezza, dell'alterazione della loro voce e di un indebolimento che pareva il segnale meno dubbioso di una prossima fine.

«Il signor dottore Richardson, dice Cooley, recava del resto tristi notizie. Durante i due primi giorni che erano seguiti alla separazione in tre parti della colonna, il suo distaccamento non aveva trovato nulla da mangiare; il terzo giorno, Michel era ritornato con una lepre ed una pernice che furono divise. L'indomani si passò ancora in una assoluta, carestia. L'11, Michel offerse ai suoi compagni una quarta parte della carne che disse loro essere stata tagliata da un lupo; ma poi essi vennero a sapere che era la carne di uno di quei disgraziati che avevano abbandonato il capitano Franklin per ritornare col dottore Richardson. Michel diventava ogni giorno più insolente

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e più freddo. Si sospettò alquanto che avesse in qualche luogo un deposito di alimenti di cui si serviva per sé solo. Hepburn essendo occupato a tagliar legna, udì la detonazione di uno schioppo, e guardando dalla parte da cui si era udito il rumore, vide Michel precipitarsi verso la tenda; subito dopo si trovò morto il signor Hood. Da quel momento egli sì fece più diffidente che mai; e siccome la sua forza era superiore a quella degli Inglesi superstiti, e del resto egli era ben armato, essi videro che per loro non c'era più salvezza che nella sua morte.» Mi risolsi, dice Richardson, dacché fui convinto che quest'atto orribile era necessario, ad assumere su di me tutta la responsabilità, e al momento in cui Michel ritornava verso di noi, misi fine a' suoi giorni» facendogli saltare le cervella.»

Parecchi degli indiani che avevano accompagnato Franklin e Richardson erano morti di fame, e i due loro capi li seguirono poco dopo di tempo nella tomba, quando finalmente, il 7 novembre, tre indiani inviati da Back portarono i primi soccorsi. Non appena si sentirono un po' in vigore, i due inglesi raggiunsero lo stabilimento della Compagnia, dove trovarono Giorgio Back, a cui per due volte nella medesima spedizione dovevano la vita.

I risultati di questo viaggio, che abbraccia 5500 miglia, erano della medesima importanza per la geografia; gli esperimenti di magnetismo, gli studi di meteorologia, e la costa d'America, sopra una immensa estensione, erano stati eseguiti fino al capo Turnagain.

Nonostante le molte fatiche e i patimenti tanto bravamente sopportati, gli esploratori erano pronti a ricominciare il loro viaggio e a tentare ancora una volta di raggiungere le rive del mare polare.

Sulla fine del 1823, Franklin ricevette ordine di riconoscere la costa all'ovest del fiume Mackenzie. Tutti gli agenti della Compagnia dovettero preparare delle provvigioni,

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canotti e guide, e mettersi essi stessi, con i loro mezzi, a disposizione degli esploratori.

Ricevuto con benevolenza a New York, Franklin raggiunse Albany pel fiume Hudson, risalì il Niagara da Lewinston fino alla famosa cascata, raggiunse il forte San Giorgio sull'Ontario, attraversò il lago, sbarcò a York, capitale dell'alto Canada; poi, passando per i laghi Simcoe, Huron, Superiore, dove fu raggiunto da ventiquattro Canadesi, il 20 giugno 1825 incontrò le imbarcazioni sul fiume Methye.

Mentre il dottore Richardson rilevava la costa orientale del lago del Grand'Orso e Back sorvegliava i preparativi dello sverno, Franklin guadagnò l'imboccatura del Mackenzie. La navigazione fu facilissima e il viaggiatore non trovò ostacoli che al delta del fiume. L'Oceano era libero di ghiacci; delle balene nere e bianche e delle foche si sollazzavano alla superficie dei flotti. Franklin sbarcò sull'isoletta Garry, la cui posizione fu determinata a 69° 2 di latitudine e 135° 41' di longitudine, osservazione preziosa che provava qua! grado di fiducia si dovesse accordare ai rilievi del Mackenzie.

Il ritorno avvenne senza difficoltà, e il 5 settembre i viaggiatori rientravano nel forte, al quale il dottore Richardson aveva dato il nome di Franklin. L'inverno si passò in divertimenti, in allegrie, in balli, ai quali pigliavano parte Canadesi e Inglesi e Scozzesi, Esquimesi e Indiani di quattro diverse tribù.

Il 22 giugno avvenne la partenza, e il 4 luglio fu raggiunta la forca in cui i bracci del Mackenzie si separano. Là, la spedizione si divise in due distaccamenti che andarono all'est e all'ovest a esplorare le spiagge polari. Appena che Franklin fu uscito dal fiume, in una gran baia, trovò una numerosa compagnia di Esquimesi. Costoro mostrarono dapprima una gioia esuberante, ma non tardarono a farsi chiassosi e a tentare d'impadronirsi delle imbarcazioni. Gli Inglesi in questa

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circostanza diedero prova di un'estrema pazienza e pervennero ad evitare ogni versamento di sangue.

Franklin riconobbe e chiamò Clarence il fiume che separa le possessioni della Russia da quelle dell'Inghilterra. Un po' più lungi, un nuovo corso di acqua ricevette il nome di Canning. Il 16 agosto, non trovandosi ancora che a metà cammino del capo Ghiacciato, e avanzandosi rapidamente l'inverno, Franklin tornò indietro, e penetrò nel bel fiume di Peel, ch'egli prese per il Mackenzie; non riconobbe il suo errore che vedendo nell'est una catena di montagne. Il 21 settembre ritornava al forte, dopo aver percorso in tre mesi 2048 miglia e rilevato 374 miglia di costa americana.

Quanto a Richardson, egli si era inoltrato su un mare più profondo, meno ingombro di ghiacci, in mezzo a Esquimesi dolci e ospitalieri. Riconobbe le baie di Liverpool e Franklin, scoperse in faccia all'imboccatura della Coppermine una terra che non è separata dal continente che da un canale di una ventina di miglia di larghezza, alla quale diede il nome di Wollaston. Il 7 agosto, le imbarcazioni, essendo giunte nel golfo dell'Incoronazione, già esplorato in una corsa precedente, ritornarono indietro, e rientrarono, il 1° settembre, al forte Franklin, senza il minimo accidente.

Portati dall'esposizione dei viaggi di Parry, dovemmo lasciare per un istante da parte quello che faceva nel medesimo tempo John Ross, che, per la sua strana esplorazione della baia di Baffin, si era fatto un gran torto rispetto all'Ammiragliato.

John Ross desiderava vivamente di riabilitare la sua riputazione di intrepido e abile navigatore. Se il Governo non aveva più fiducia in lui, trovò egli per lo meno un fioco armatore, Felix Booth, che non temette affidargli il comando del bastimento a vapore la Vittoria, sul quale partì il 25 maggio 1830 per la baia di Baffin.

Si stette quattro anni senza notizie di questo coraggioso

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navigatore, e quando fu di ritorno, si apprese che la messe delle sue scoperte era ricca al pari di quella che aveva fatto Parry nella sua prima spedizione.

Entrato per gli stretti di Barrow e di Lancaster in quello del Principe Reggente, John Ross aveva ritrovato il punto in cui, quattro anni prima, la Fury era stata abbandonata.

Continuando la sua rotta al sud, Ross svernò al porto Felix — così chiamato in omaggio al sostenitore della spedizione — e là apprese che le terre ch'egli aveva allora scoperte formavano un'immensa penisola, unita nel sud all'America.

Nell'aprile 1830, James Ross, nipote del capo della spedizione, partì in canotto per riconoscere quelle coste, non che quelle della Terra del Re Guglielmo.

In novembre dovette svernare di nuovo, giacché non si era potuto far risalire la nave che di alcune miglia verso il nord, e si stabilì nel porto Sheriff. Il freddo fu eccessivo, e di tutti gli inverni che i marinai della Vittoria passarono nei ghiacci fu quello il più rigido».

L'estate del 1831 fu consacrato a diverse ricognizioni, che mostrarono l'assenza di comunicazione fra i due mari. Non si pervenne ancora questa volta che a far avanzare la nave di qualche miglio nel nord fino al porto della Scoperta. Ma, in causa di un nuovo inverno rigidissimo, bisognò rinunciare a trarla dalla sua prigione di ghiaccio.

Felicissimi d'aver trovato le provvigioni della Fury, senza le quali sarebbero morti di fame, gli Inglesi aspettarono il ritorno della estate con un abbattimento, privazioni, patimenti incredibili e che ogni giorno crescevano.

Nel luglio 1833 furono definitivamente abbandonati i quartieri di inverno; si guadagnò per terra lo stretto del Principe Reggente, quello di Barrow, e si sboccò sulla spiaggia della baia di Baffin, proprio al momento in cui apparve una nave. Era l'Isabella, che Ross aveva un tempo comandata e che

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raccolse i naufraghi della Vittoria. In quel frattempo l'Inghilterra non aveva abbandonato i

suoi figli, e ogni anno aveva mandato una spedizione alla loro ricerca. Nel 1833 fu Giorgio Back, il compagno di Franklin. Partito dal forte Rivoluzione, sulle rive del lago dello Schiavo, s'avanza verso il nord, e dopo aver scoperto il fiume Thloni-Tcho-Déseth, prende i suoi quartieri di inverno e si dispone a guadagnare, l'anno successivo, il mare polare, in cui si suppone che Ross sia prigioniero, quando apprende l'incredibile suo ritorno.

L'anno seguente, lo stesso esploratore riconosceva a fondo il bel fiume dei Pesci, che aveva scoperto l'anno prima, e scorge le montagne della Regina Adelaide, non che le punte Booth e James Ross.

Nel 1836 è capo di una nuova spedizione, che, questa volta, si fa per mare, e cerca invano di collegare fra loro le scoperte di Ross e di Franklin.

Questo compito era riservato a tre ufficiali della Compagnia della baia di Hudson, i signori Peter William, Dea'se e Thomas Simpson.

Essi partirono il 1° giugno 1837 dal forte Chippewayan, e, discendendo il Mackenzie, arrivarono il 9 luglio alle rive del mare, sul quale poterono inoltrarsi a 71° 3' di latitudine e 156 46' di longitudine ovest, fino al capo che ricevette il nome di Giorgio Simpson, il governatore della Compagnia.

Thomas Simpson continuò a inoltrarsi nell'ovest, per terra, con cinque uomini fino alla punta Barrow, che uno degli ufficiali di Beechey aveva già visto venendo dallo stretto di Behring.

La ricognizione della costa americana, dal capo Turnagain fino allo stretto di Behring, era dunque completa; non rimaneva più di ignoto che lo spazio compreso fra la punta Ogle e il capo Turnagain: fu il compito che si assegnarono gli esploratori per

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la campagna successiva. Partendo nel 1838 dalla Coppermine, seguirono la costa

all'est, arrivarono il 9 agosto al capo Turnagain; ma i ghiacci non permettendo ai canotti di doppiarlo, Thomas Simpson svernò, scoperse la Terra Vittoria, e il 2 agosto 1839 giunse al fiume di Back e continuò sino alla fine del mese a esplorare il Boothia.

La linea delle coste era dunque definitivamente determinata, a prezzo di quali sforzi, di quali fatiche, di quali sacrifici e di qual devozione! Ma come conta poco la vita umana, quando è bilanciata con i progressi della scienza! Quanto disinteressamento, quanta passione devono nutrire questi scienziati, questi marinai, questi esploratori, che abbandonano tutto ciò che forma la felicità dell'esistenza per contribuire, nella misura delle forze loro, ai progressi delle cognizioni umane e allo sviluppo scientifico e morale dell'umanità!

___________

Con la narrazione di questi ultimi viaggi, coi quali si

compie la Scoperta della Terra, si termina questa opera che si è aperta con la storia dei tentativi, dei primi esploratori.

La configurazione del globo è ora conosciuta, il compito degli esploratori è finito. La terra che abita l'uomo gli è d'ora innanzi famigliare. Non gli rimane altro che utilizzare gl'immensi prodotti delle contrade il cui accesso gli è diventato facile e di cui seppe impossessarsi.

Come è fertile d'ogni genere d'insegnamenti questa storia di venti secoli di scoperte!

Gettiamo uno sguardo indietro e riassumiamo a grandi tratti i progressi compiuti in questa lunga serie di anni.

Se prendiamo il mappamondo di Ecateo, che visse 500

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anni prima dell'era cristiana, che cosa vediamo? Il mondo conosciuto non abbraccia quasi che il bacino del

Mediterraneo. La terra, tanto profondamente sfigurata nei suoi contorni, non è rappresentata che da una minima parte dell'Europa meridionale, dell'Asia anteriore e dell'Africa settentrionale. Intorno a queste terre gira un fiume senza principio né fine che si chiama Oceano.

Poniamo ora accanto a questa carta, venerabile monumento della scienza antica, un planisfero che ci rappresenta il mondo del 1840. Sull'infinità del globo, ciò che conosceva Ecateo, anche assai imperfettamente, non costituisce più che una macchia quasi impercettibile,

Con questi punti di partenza e d'arrivo voi potete giudicare della immensità delle scoperte.

Immaginate ora le informazioni d'ogni genere che suppongono la cognizione del globo intiero, voi rimarrete meravigliati dinanzi al risultato degli sforzi di tanti esploratori e di tanti martiri; voi abbraccerete l'utilità di queste scoperte e i rapporti intimi che uniscono la geografia a tutte le altre scienze. Tale è il punto di vista in cui bisogna mettersi per afferrare tutta la portata filosofica di un'opera alla quale si sono votate tante generazioni.

Certamente motivi d'ordine ben diversi hanno fatto agire tutti questi scopritori.

Gli è anzitutto la curiosità naturale nel proprietario, che ama conoscere in tutta la sua estensione il dominio che possiede, a misurarne le porzioni abitabili, a delimitarne i mari; poi le esigenze di un commercio tuttora nell'infanzia che hanno però permesso di trasportare fino in Norvegia i prodotti dell'industria asiatica.

Con Erodoto, lo scopo si eleva, ed è già il desiderio di conoscere la storia, i costumi, la religione dei popoli stranieri.

Più tardi, con le crociate, il cui risultato più certo fu di

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volgarizzare lo studio dell'Oriente è, per un picciol numero, il desiderio di strappare dalle mani degli infedeli il teatro della passione di un Dio; per la maggior parte è la sete del saccheggio e l'attrazione dell' ignoto.

Se Colombo, cercando una nuova rotta per giungere al paese delle droghe, trova l'America sul suo cammino, i suoi successori non sono d'altro animati che dal desiderio di una rapida fortuna. Quanto differiscono da quei nobili Portoghesi che sacrificano i loro interessi privati alla gloria ed alla prosperità coloniale della loro patria, e muoiono più poveri che non fossero al momento in cui sono stati investiti di quelle funzioni che dovevano onorare!

Nel secolo XVI il desiderio di sfuggire alla persecuzione religiosa ed alla guerra civile getta nel Nuovo Mondo quegli ugonotti e segnatamente quei quacqueri che, ponendo le basi della prosperità coloniale dell'Inghilterra, dovevano trasformare l'America.

Il secolo seguente è per eccellenza colonizzatore. In America i Francesi, nelle Indie gli Inglesi, in Oceania gli Olandesi stabiliscono degli uffici e delle logge, mentre i missionari si sforzano di conquistare alla fede di Cristo e alle idee moderne l'immutabile impero del Centro.

Il secolo XVIII prepara la via all'epoca nostra e rettifica gli errori accreditati, rileva nei suoi particolari e minuziosamente i continenti e gli arcipelaghi, perfeziona in una parola le scoperte dei suoi predecessori. Al medesimo compito si votano gli esploratori moderni che amano non lasciar sfuggire ai loro rilievi il minimo angolo di terra, il più piccolo isolotto. A questa preoccupazione ubbidiscono del pari quegli intrepidi navigatori che vanno ad esplorare le solitudini ghiacciate dei due poli e strappano l'ultimo lembo del velo che aveva da tanto tempo nascosto il globo agli sguardi nostri.

Or dunque, tutto è noto, tutto è classificato, elencato,

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designato! Ma il risultato di tanti nobili lavori sarà forse sepolto in qualche atlante accuratamente redatto, che non andranno a cercare che gli scienziati di professione?

No! Questo globo conquistato dai nostri padri a mezzo di tante fatiche e di tanti pericoli, appartiene a noi di utilizzarlo e di farlo valere. L'eredità è troppo bella per non trarne partito!

Sta in noi, con tutti i mezzi che il progresso delle scienze mette a nostra disposizione, di studiare, di decifrare, di usufruttuare! Non più terreni di maggese, non più deserti insuperabili, non più corsi di acqua inutili, non più mari inscandagliabili, non più montagne inaccessibili!

Gli ostacoli che la natura ci oppone noi li sopprimiamo. Gl'istmi di Suez e di Panama e' imbarazzano? Noi li tagliamo. Il Sahara ci impedisce di unire 1' Algeria al Senegal? Noi vi gettiamo una ferrovia. L'Oceano ci separa dall'America? Una gomena elettrica ci unisce. Il Passo di Calais impedisce due popoli, fatti a bella posta per intendersi, per stringersi cordialmente la mano? Noi lo percorriamo in strada ferrata!

Ecco il nostro compito, per noi contemporanei. È forse meno bello di quello dei nostri predecessori, perchè non abbia ancora allettato qualche scrittore famoso?

Per noi, per quanto sia attraente, questo soggetto uscirebbe dalla cerchia che ci siamo dapprima tracciata. Noi abbiamo voluto scrivere la Storia della scoperta della Terra: l'abbiamo scritta: l'opera nostra è dunque finita.

FINE.