Je jeta ime - Le Strade Bianche di Stampa Alternativa...è non tornare indietro con le tasche vuote....

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Alessandro Angeli Je jeta ime storia di un cuore errante

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Alessandro Angeli

Je jeta ime

storia di un cuore errante

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“Dimmi, mia amata, qualcosa,è tardi, devo partire”.“Dove andrai, disgraziato,ieri ci siamo sposati”.Quando sono uscito di casa,mi girava la testa;sono sceso in cortile,non avevo più la forza;ho raggiunto il cancello,mi tremava il corpo,Pampòr, che tu sia maledetto,ci hai separati dalle mogli;dove ci porti, perfido Pampòr?Ci hai strappato le speranze.

Canti del KurbetA cura di Gëzim Hajdari

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Fu uscendo di casa che la vidi, posò la bicicletta sulmarciapiede e suonò il campanello, ma non risposenessuno, allora salì di nuovo sui pedali riprendendo lastrada. Il sole splendeva sopra ogni cosa, seguendola conlo sguardo continuai a camminare e raggiunsi il centrodella città. Lungo la salita aveva inizio la festa, nell’ariarisuonava una musica allegra, trenta metri più avantialcuni ragazzi montavano un grande palco. Tra lororiconobbi anche Aliu, un mio vecchio compagno discuola, per un attimo ebbi voglia di accostarmi e parlargli,mi mossi per farlo ma poi cambiai idea, un freno a manoimprovviso si era inserito bruscamente nel cuore della miadecisione, perciò feci qualche passo lungo la strada disassi e mi fermai sui gradini a fumare. Una macchinasuonò con il clacson perché un’altra occupava la strada,poi quest’ultima si mosse per lasciarla passare. Sotto ilunghi viali prendevano vita le luci dei lampioni.

“Insomma che fai di bello, lavori?” Mi voltai e vidi Aliuche mi guardava.

“Faccio il guardiano”. Gli risposi spegnendo la cicca perterra.

“E che guardi?”

“I sogni”.

“Dai, scemo”.

“Un magazzino”.

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“E non ti stufi?”

“Sempre”.

Fissai i grossi grattacieli marroni. Sotto, lungo la strada, lavidi di nuovo che correva in bicicletta.

“Vado a trovare una tizia, è il suo compleanno, vuoivenire?”

“No, è meglio di no, sono stanco”. Gli dissi senzaentusiasmo.

“Stanco di guardare i sogni?”.

“Già, proprio così”. Stava per allontanarsi poi si fermò.

“Sai chi sei tu …?”.

“No, dimmelo”.

“Una larva d’uomo”.

Risi.

“Sei sicuro che non vuoi venire?”

“No, davvero, la prossima volta magari”.

“Va bene, ciao allora”.

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“Ciao”. Si allontanò, mentre lei si chinava a chiudere labici. Subito dopo prese a camminare lungo la salita.Durante il concerto la vidi ancora: era appoggiata a unmuro, un’altra ragazza le stava accanto. Provai a farmicoraggio per parlarle e mi mossi in mezzo alla folla. Leirimase a osservarmi, se ripenso al suo viso mi ci tuffereidentro, era come la luna. Mentre mi stavo avvicinando,insieme alla sua amica si mosse. Dopo una mezzora lavidi ancora, era seduta e stava parlando con un ragazzo.Stetti ad aspettare che finisse. Era concentrata nellaconversazione, non mi guardava nemmeno. Qualcheminuto dopo scomparve tra la folla. La cercai in lungo ein largo, i visi delle persone non avevano colore, le loroparole si spegnevano, la musica era muta. Tutto quelloche succedeva era nebbia, non vedevo più niente. Vistoche non riuscivo a trovarla provai a scendere giù pervedere se se ne fosse andata e la trovai che apriva labicicletta. Quando mi vide cominciò a parlare all’orecchiodell’amica e mi fece un sorriso talmente grande che perpoco non inciampavo. Il groppo mi galleggiava in gola.Stai attento a non rovinare tutto mi dicevo mentre aintermittenza continuavo a guardarla. Quella fu la primavolta che parlai a mia moglie e anche quando rimasi solome ne stetti seduto col suo viso stampato negli occhi e ilnome nella mente. Vicino al bar un gatto usciva da uncassonetto di rifiuti, alcune macchine incuranti passavanocoi loro fari lungo la strada.

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Quella notte sognai che camminavamo in silenzio. Il cielosembrava spiarci. Avevamo solo il nostro camminodavanti, nient’altro. E adesso che ci penso le immaginisono ancora più nitide. La vita è sogno Tenhia e insiemesogniamo, lo vedi in ogni piccola cosa. Nel sognoabitavamo una casa sulle onde del mare. Attraversavamola pineta dopo la pioggia, tra la terra umida e l’odore delsale. Fino alla spiaggia, dove la sabbia accoglieva i detritidel mare e tu mi parlavi, ma io già non ti ascoltavo più,impiastricciavo le mani a una colla che mi faceva tuoprigioniero. In un’ora indefinita come la nostra ilcammino è eterno e non torna più indietro. Ma adessoascolto, ascolto ogni cosa, sento le anime dei gabbiani chesi scaldano al sole, sento farfugliare il vento e le case.Vedo l’occhietto che Dio fa alla luna quando il mareriposa e i pesci dormono. Porto con me queste cose e te ledono in uno sguardo, le reco al tuo cospetto per farscintillare questa luce che mi lega a te togliendo l’aria aipolmoni. Ma la sabbia che stringo tra le mani non hacolore adesso e il sole scompare nel mare in un tappeto diluce.

“Devo andare”. Mi dici e torna l’ombra su quello chevedo, su questo orizzonte. La pineta è fredda e deserta,l’acqua del mare cancella le orme. Ecco che ritrovo la miastrada solitaria dove l’ho lasciata, tra l’argilla bagnata chesi appiccica ai piedi e rende faticoso il cammino. E miperdo, perché mi è sempre piaciuto farlo, arrivo fino almio massimo senza di te, fino alle sbarre. Adesso le sbarreci sono davvero però, ci posso poggiare le mani e toccarle,mentre ti vedo spiccare il volo verso la nostra isola, chenon sarà mai reale perché è troppo piccola.

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Una corazza di suoni si estende di qua dal mare oltre ilmio passato e le città di Pristina e Tirana, incastonarsiprogressivo di vite senza interruzione. Tirana quandopiove non si accorge di niente, goccia su goccia si lasciabagnare. Chiudo gli occhi e vedo i suoi prati, i tronchiabbandonati, i fiori cresciuti in faccia all'asfalto. Lapioggia bagna la notte della città, tra il trillo dei primiuccelli e i percorsi silenziosi degli autobus notturni. Dalpiccolo bar che lentamente si libera dell’oscurità vengonoi rumori di sempre, progressivo sfuocarsi di cose epersone, a qualche centinaio di metri da lì i gamberi e learagoste danzano nella vetrina del ristorante chiuso, inmezzo alle luci del centro commerciale. Dal lato oppostodi questo balcone un uomo guarda fisso verso me e Amede ancora più in basso verso la piccola folla di pezzenti cheaffluisce. Aspettiamo tutti quanti gli autobus che ciportino nella foschia cruda dei campi, lontana da qui,dove la terra inghiotte l’asfalto e tutte le illusioni di questobaraccone ambulante. Aspettiamo che dagli autobusscenda qualcuno, che salgano le scale e vengano verso dinoi a dirci di seguirli. Amed tiene la gamba in bilico sullaringhiera e fuma senza smettere. Ha i capelli bruciati, lemani come scheletri di zanzara e occhiaie per ognioccasione. Una sola idea fissa, come tutti noi: tirar suqualche soldo. Non importa come o con chi, l’importanteè non tornare indietro con le tasche vuote. Ammettere chenon servi a niente, che nemmeno a fare lo schiavo tiprendono più, questa è la vera tragedia, la cosa più durada dire a te stesso. Tutti gli italiani credono che siamobestie, che non pensiamo a queste cose, che siamo capacidi morire di lavoro senza accorgercene e senza protestare.Ma voi non sapete che peso ha il nostro silenzio, nonavete nemmeno idea di quanto ci costi sopportare ciò chesopportiamo. Il mulo stanco si prende le botte e sta zitto, è

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vero, ma non saremo muli per sempre. Lo sguardo delpadrone è un morso, ci stanno mangiando i suoi occhi,come fossimo cotolette di pollo. Qualcuno accanto a noichina la testa e mangia davvero. Intanto Amed ha ordinatoun caffè … questa città dove siamo arrivati da quasi unanno ormai, non sembra aver più bisogno di noi, o forsenon ne ha mai avuto e adesso che sprofonda nei vapori delmattino mi si ridesta la bile e sento di odiarla come nonmai. Quando stiamo zitti io e Amed ci capiamo senzaparlarci, una parte del nostro cuore quando stiamo zittiascolta i rimasugli delle nostre notti buie, piombate, lenotti di Pristina, il rumore degli spari, i cingoli dei carriarmati serbi, dei bulldozer che buttavano giù le nostrecase, i nostri sogni. Sono notti che soltanto noiconosciamo e portiamo dentro come cicatrici bollenti.Sotto, lungo la strada, la miriade di negozietti sfinterici,che stanno aprendo i battenti, sistemando le lorochincaglierie da poco prezzo. Gli occhi minacciosi dellecommesse sprizzano rancore, il rancore delle eternerinunce, nella luce al neon sempre uguale. Uomini ingiacche di pelle riuniti in gruppo parlano rapidamenteintimando alle giovani donne di fare presto, e loro, ledonne, abbassano il capo. E dalla radio arrivano lecanzoni di un mondo ancora più lontano. Amed si alza,cammina vicino al bar e accende un’altra sigaretta, ilpadrone ci scruta da lontano ma non si avvicina. Fuori iparcheggiatori attendono le macchine. L’ultimo pullmanci passa davanti, la smorfia di scherno dell’autista ciammutolisce: ‘Oggi niente lavoro, vi attaccate al cazzo’,sembra dire. Amed ha la stessa faccia del polpo che nuotanella vetrina del ristorante, i suoi enormi occhi grigi nonsanno più dove guardare, poi butta la cicca per terra e miviene incontro.

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La vecchia carcassa sobbalzava in mezzo alle onde,mentre senza avvisare nessuno eravamo partiti dalquartiere di Skele a Valona, per ricercare un pezzo di vita.

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Perché non avevamo più un paese dove stare, prima ciavevano cacciato i fucili e adesso la fame mi avevastrappato alla mia famiglia. A mia moglie Tenhia, ai mieifigli Krina e Ibrahim. Perché anche se ho solo ventiseianni ho già una famiglia sulle spalle. Naufragavamo inmezzo agli abbagli del sole e al gorgogliare continuo deinostri stomaci vuoti. Le bagnarole che ci portavano viaerano come taxi che partivano anche tre volte al giorno seil tempo era buono. Rachid allora era poco più di unragazzo, un orfano come tanti, a cui mi affezionai e a cuibadai come a un fratello minore, perché anche lui comeme non aveva più un posto dove stare, troppo grande perle attenzioni dei grandi e troppo piccolo per cambiare lecose. Rincantucciato sul bordo della barca mi guardavamentre io guardavo l’oscurità nell’oscurità, come unicarisposta. Sentivamo il silenzio di tutti come un implacabilepresagio, come l’approssimarsi di qualcosa diinspiegabilmente vicino. Le bocche che balbettavano sottogli abbozzi di nubi e ancora mare, di un colore indicibile.E in quei momenti di tetra agonia, in cui il tempo eraimmoto, Rachid mi raccontò dei suoi ultimi giorni aValona. Dormiva dove capitava, sulle panchine, dentro itreni, sui binari morti, in riva al mare, insieme al suoamico Dursal. Una mattina presto Dursal emerse dallacoperta che aveva con sé: “Oggi è brutto tempo” disse equella fu l’unica frase che avrebbe ripetuto per tutta lavita. Aveva gli occhi fuori dalle orbite, la notte gli avevamangiato qualcosa, era stata una notte fredda, troppofredda. “Oggi è brutto tempo”. I dottori lo visitaronoperché spaventava la gente. “Buongiorno siediti, con noipuoi parlare, dicci da dove vieni”.“Oggi è brutto tempo”, alla fine lo avevano internato, unmedico aveva preso a cuore il suo caso, voleva studiarlo,aprirgli la zucca e vedere dov’era il verme. “Sei contento Dursal?” “Oggi è brutto tempo”.Rachid pensava che in fondo il suo amico l’aveva studiatagiusta, così poteva mangiare tutti i giorni senza perdere unpasto. Pensava che li stava prendendo in giro tutti, dottorecompreso, che era più furbo di loro e pensava pure che

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quello era un modo per non piegarsi alla loro volontà.Rachid, rimasto solo, per un po’ si accampò nei pressi diun supermercato, vicino ai carrelli, passava i giorni adaspettare gli spiccioli della cauzione. Se qualcuno glichiedeva: “Come butta oggi Rachid?” Lui rispondevasempre allo stesso modo, girava la mano nell’ aria comeavvitasse una lampadina. Quando arrivava la sera sispostava dal supermercato per raggiungere il centro.Aveva fatto amicizia col gestore di un bar e a notteinoltrata, quando cominciava la chiusura, Rachid loaiutava a radunare le sedie ei bicchieri vuoti che i ragazzilasciavano in giro. Lo vedevi parlare coi cani cheabbaiavano troppo e ogni tanto avvicinarsi a qualcuno perdomandare una sigaretta. Il padrone per tenerselo buonogli lasciava una manciata di spiccioli e se ne andava.Rachid era rispettato da tutti, perché era povero e questoal tipo del bar bastava per sentirsi tranquillo. Era un tacitoaccordo il loro. I ragazzi che giravano per là erano artistidi strada, sbandati e studenti che andavano a fumare, abere e a svagarsi. La notte si vedevano le grandi naviraggiungere il porto, sotto le mille luci del ponte e le caseschiacciate una addosso all’altra percorse da una scialuminosa di porpora e arancio. Rachid appoggiato albancone parlava col tizio del bar, mentre quello faceva icaffè. Ma un giorno le cose andarono storte. Avevapassato la notte su una panchina, per tutto il tempo lezanzare gli avevano impedito di chiudere occhio. Unavolta alzatosi poi aveva camminato lungo le strade dellacittà, sotto il suo sole cocente, come uno dentro la pelle diun altro, intruppando contro i pali e i semafori. Quandoarrivò, il padrone del bar era di cattivo umore, scostante,lo salutò a malapena. Un ragazzo gli offrì una birra eRachid rimase a guardare i cani rincorrersi e i vetri dellecase che splendevano agli ultimi bagliori del sole. Unuomo alto e magro gonfiava palloncini e li regalava aibambini che strillavano senza smettere. Dopo un po’cominciarono a rincorrersi calpestando l’erba morbida.Rachid accasciato sopra una sedia chiudeva gli occhi peril gran sonno, la sigaretta gli cadeva dalle mani incontinuazione, mentre i ragazzi lo prendevano in giro.

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Continuò a sonnecchiare con il cappellone di lana calatosulla testa, nonostante il caldo. Il padrone del barvedendolo lì sdraiato a quel modo, con le braccia dietro lanuca, scuoteva la testa, vedeva i bicchieri ammucchiarsisui tavoli e si chiedeva per quale motivo Rachid sicomportasse a quel modo. Ormai nella sua testa a torto o aragione era un suo dipendente. Pensava che quei pochispiccioli che la sera gli dava erano pur sempre una spesa,si perse in calcoli mentre asciugava i bicchieri. Il sole cominciava lentamente la sua ritirata e dal miradorsi vedeva l'erba arrampicarsi sulle case a strapiombo, conil cielo attaccato come una stoffa suadente. Venne l'ora dimettere a posto. Rachid si alzò da dove era seduto con lavista annebbiata e, barcollante sulle grosse scarpeallacciate da spaghi, mise a posto le sedie senza parlare.Poi fece per agguantare un bicchiere, ma la morsa dellamano non resse e quello cadde frantumandosi al suolo.Spossato e sorpreso rimase a guardare i cocci come unoche riemerga da una superficie spaziale. Il capo loraggiunse:“Che cazzo combini stasera, dormi?” Lui non rispose,quello continuò: “È tutto il giorno che ti osservo, che haioggi?” “Che te ne frega” gli disse e l’altro andò su tutte le furie.Gli urlò in faccia che non voleva più saperne di lui, chel'aveva trattato come un figlio e invece di essergliriconoscente se ne era approfittato. Rachid voltò le spallee sparì. Camminò dando la schiena al chioschetto, coltizio che lo malediva, fino a che giunse sulla via delMunicipio. Passò accanto al ristorante da Tito e dai vetrivide il locale nella sua fase di quiete prima della baldoria.Per un attimo fu tentato di entrare anche se non avevasoldi, ma non lo fece. Tirò dritto evitando i passanti checamminavano svelti sul marciapiede troppo stretto.Rimase a testa bassa sui seggiolini, quasi a volersi punire,mentre l’autobus passava da una fermata all’altra. Fino ache arrivò il capolinea. Rachid scese mesto con le spalleincavate e nulla con sé, nulla nello stomaco. Lecostruzioni tutte intorno erano divorate dall’umidità e dalsilenzio. Riemerse sulle strade immense dove le macchine

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schizzavano via sotto la notte, una notte straripante esenza colore. Arrivò nei pressi del porto, dai locali distantiuscivano gli ultimi nottambuli per tornarsene a casa, sentìgli echi delle loro risate giù in fondo al cuore. Camminò sulla banchina dove attraccano le navi, coi loroodori d'altri mondi intravisti nei sogni. Un gabbiano siposò sul lampione, Rachid piantato per terra lo vide e sisentì ancora più solo. Camminò vicino ai negozi chiusi,per le strade deserte, sotto i raggi melliflui della luna. Poila vide, abbandonata sopra una di quelle panchine, conuna busta di plastica vicina ai piedi scalzi. Si avvicinòancora di più, ma lei non lo scorse, perché dormiva con lebraccia serrate al petto. Dai suoi occhi colavano perle ondeggianti checarezzavano le curve morbide delle labbra. Lì in mezzonavigava il suo respiro. Vide le sue gambe nude sporgerein fuori e i capelli scomposti carezzarle le braccia. Siguardò attorno e capì che erano soli, nessun altro liavrebbe raggiunti. Per un lungo attimo rimase immobile aguardarla dormire.

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La mattina arrivò presto. Un sole pallido si stagliava suiquartieri popolari della città. Un palazzo alto e grigio conle antenne televisive che si addossavano contro il cielocopriva la vista verso il mare. Tutt’intorno la vita già sisnodava veloce, accelerando i suoi sornioni ritmi. Quandoi rumori delle barche svegliarono Linda i suoi occhiancora assonnati incontrarono quelli di Rachid: “Che vuoi?” “Niente”.Rimasero a studiarsi nei primi colori del mattino. Rachidera basso e tarchiato, dai lineamenti grossolani, Linda siallontanò di qualche metro per urinare e prima di tirar giùle mutande gli intimò di voltarsi. Quando si avvicinò dinuovo alla panchina Rachid tentò di sorriderle, i dentigiallognoli si affacciarono dalla fessura delle labbra.Linda, senza fare caso a lui, si stiracchiò allungando lebraccia nell' aria, poi si diresse verso la fontanella persciacquarsi il viso. Quando le andò incontro lei passava icapelli sotto l’acqua e con la mano teneva premuto il tastoper non farla smettere. Le spostò la mano tenendolopremuto al posto suo. Linda lo vide: “Passami loshampoo”.“E dov'è?” “È nella busta di plastica, fai presto che sto morendo difreddo”. Corse a prenderlo e glielo consegnò, lei glichiese invece di versarglielo sulla testa. Vedeva le suemani perdersi nella schiuma mentre l'odore lo stordiva.Era buffo vederla così indaffarata, pensare che anche leiavesse bisogno di lavarsi. Linda si asciugò i capellimentre Rachid continuava a guardarla. “Che hai da fissarmi in quel modo, sei scemo?” “Ti va di fare colazione?” Le chiese. Il giorno cominciavaa illuminare le cose con la sua luce. “Magari”, disse Linda e si avviarono.Attraversarono il grande viale grigio dai semafori stizzosi,con le macchine che ronzavano come insetti. Passo dopopasso raggiunsero il bar fuori dal porto. Linda mangiòsenza nemmeno guardarlo, mentre Rachid si limitò aprendere un caffellatte, quando lei gli chiese perché nonmangiasse, le rispose che non aveva fame.

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“Non mi hai detto come ti chiami …”. “Mi chiamo Rachid” “ E tu come?” “Linda”. Finito di bere si avvicinò a un uomo dallo sguardo assentee facendo un mezzo inchino gli chiese da fumare. Quelloestrasse la sigaretta dal pacchetto sul tavolo e gliela porsefissandolo.

Più tardi erano sul treno, Rachid cercava qualcosa da dire,ma non sapeva da dove iniziare, Linda col gomito sulmento osservava le nuvole. Fu lui a dirle di scendere e leilo seguì. Attraversarono il piccolo paese bianco con lecase abbandonate e i cani che dietro i cancelli abbaiavano.Giunsero dove era soltanto terra. Lavatrici, vecchiventilatori, bottiglie di plastica, oggetti arrugginiti, privi divita, erano disseminati lungo tutto il cammino, dando aquel posto un'aurea da fine del mondo. Un auto col cofanoaperto giaceva arenata in mezzo alle zolle, invasa da unmilione di insetti. In una baracca diroccata abitavanoalcune famiglie rom, i bambini si precipitarono correndosull' uscio e fecero le boccacce a entrambi. Rachid e Lindacamminarono ancora lungo un fiumiciattolo assediato daun' erba ispida e secca, lui allungava il passo, eraimpaziente di arrivare. Poi si fermava ad aspettarla,mentre lei procedeva con passo malcerto, stringendo ilsuo sacchetto di plastica. Finalmente arrampicandosisopra un montarozzo di terra tra i barattoli di latta e lebottiglie di vetro lo videro, videro il mare. La sua scia luminosa strizzava l'occhio al sole in undialogo incandescente. Rachid allungò l'indice. “Io andrò là …”. Disse. “Là dove?” Chiese lei parandosi gli occhi.“Oltre il mare, dove vanno tutti”.Lo ripeté una seconda volta a bassa voce, gli occhi diLinda ridevano. “Vieni con me” Le disse e la prese per mano. Sceseroinsieme verso la spiaggia e correndo caddero sulla sabbia,Rachid si trovò a un palmo dal suo viso, chiuse gli occhi,Linda si scansò, raccolse una manciata di sabbia e gliela

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spiaccicò in faccia. Si tolse i vestiti e correndo si precipitòin acqua, urlava battendo le mani. Rachid non sapevanuotare, si avvicinò alla riva osservandola tuffarsi eriemergere in continuazione. Quando uscì, asciugandosicon i vestiti come meglio poteva, le andò incontro, lei loguardò: “È bellissimo”.“Sì”. Poi le disse di seguirlo attraverso le dune e quandogiunsero le chiese di chiudere gli occhi. Con cura tolsetutti i teli di plastica che la coprivano, e Linda la vide, unapiccola scialuppa di legno, rattoppata e scolorita. “Ti piace?” Lei fece una smorfia. Tirando la fune Rachid riuscì a metterla in acqua. Lei eragià sopra. Linda reclinò la testa all'estremità dell’imbarcazione.Dalla linea di orizzonte sagome viola facevano capolino,Rachid impugnò i remi e cominciò a remare.

***

Il viaggio di ritorno lo fecero chiusi in bagno. Appenaentrarono una puzza di piscio fulminea impedì a entrambidi pensare a ogni minima cosa. Le scritte attraversavanotutta la parete. La luce flebile pareva spegnersi da unmomento all’altro. Tutt’intorno si sentiva il rumore deltreno in corsa infrangersi sui muri di plastica. In un attimo

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che rimasero a guardarsi senza dir niente Rachid prese latesta di Linda tra le mani e la avvicinò alla sua. Linda glimollò un morso sul collo e lui sbatté la testa contro lamensola di ferro. Lei rise baciandogli la fronte. Rachid sifermò a guardare i denti di Linda lucidi come coltelli e laluce opaca della lampadina spenzolata. Un attimo dopobussarono. Entrambi rimasero immobili, mentre i pugnipicchiavano selvaggiamente contro la porta e sembravanoin grado di tirarla giù. Subito dopo il treno si arrestò. Ci fuun lungo attimo di silenzio poi sentirono una chiave girarenella serratura. Linda fuggì via come un lampo,strattonando l’uomo in divisa e Rachid si sentì afferrareper il collo. Appena lo lasciarono andare superò iboschetti gelidi della stazione guardandosi intorno, poicominciò a camminare respirando forte e passo dopopasso finì per lasciarsi la stazione alle spalle. Entrò nel barche dava sulla piazza dove troneggiava una statua diverderame scalfito. Le donne della notte passarono di lìcoi loro denti radi e i baveri dei colletti tirati su. Sullapredella degli autobus un ciccione stava stravaccato aguardare nel vuoto, i baffi appiccicati alla bocca. Lungo lastrada passarono i ferrovieri dell’ultima corsa e gli operaidel turno serale, ma di Linda non c’era più traccia.

Svegliati, mio fiore,basta dormire,lontano me ne andrò,andrò lontano,sai cosa ti manderò:

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un canestro di cotogne:quando le odorerai,ti ricorderai di me,quanto le taglierai,non ti scordare di me,quando le mangerai,in silenzio piangerai.Alzati mio fiore,basta sognare.

Questa poesia fu quanto gli restò di lei e quando Rachidme la lesse rimase immobile sul bordo della barcaaspettando che il vento gli asciugasse gli occhi.

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Arrivammo di notte. Vicino alla città da cui partivano icaccia che andavano a bombardare le nostre case. Ma noinon potevamo vederli, né udirli, vedevamo solo le loroluci squarciare il buio, un buio immenso, sconfinato. Eccosì quel posto si chiamava Buio e niente più. Il viaggio eradurato tre ore, anche se a noi era sembrato un secolo. Citrovavamo sulla costa di Bari. Eravamo una quindicina etutti abbastanza silenziosi ormai, dato che i nostriaccompagnatori ci avevano riempito la testa di frottole pertutta la durata del viaggio. Uno di loro aveva detto diessere italiano e ci aveva rassicurato dicendoci che sarebbestato lui a portarci e che nessuno ci avrebbe fermati perchécollaborava con la guardia di finanza. Anche se poi quellostesso uomo si era messo al timone della carretta. Avevanotutto l’interesse di metterci a nostro agio, perché se ilviaggio fosse andato bene altri disgraziati come noi sisarebbero r ivol t i a l le loro cure . Dei quat t roaccompagnatori due tornarono indietro e gli altri duerimasero con noi. Li conoscevano in tutti i portidell’Albania da come erano famosi, eppure continuavano afare il loro lavoro senza che nessuno glielo impedisse.Avevano dei regolari permessi di soggiorno, anche se nonci dissero mai i loro nomi. Una volta sbarcati ciaccompagnarono facendo luce con una torcia per uncentinaio di metri nel buio. Appena raggiunta la stradatrovammo i 'tassisti’ italiani ad attenderci. Molti di noiavevano paura della polizia, temevamo che ci avrebberoscoperti e rimbarcati, ma gli italiani ci dissero di staretranquilli, che se fosse arrivata la polizia lo avremmosaputo in anticipo. I più fortunati avevano i parenti daraggiungere, mentre io e Rachid non avevamo nessuno,come non avevamo la minima idea di dove stessimoandando. Ci tennero nascosti per qualche giorno in unacasa diroccata a qualche chilometro dalla costa. Una diquelle sere uno dei due accompagnatori ci raccontò che infondo il loro era un lavoro tranquillo, perché dentro albusiness ci stava pure la polizia. L'organizzazione illegale

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dell'immigrazione clandestina era sostenuta dai politici chein cambio di denaro aiutavano gli scafisti. Tutto il sistemadelle forze dell'ordine era compromesso: i poliziottiinformavano gli scafisti quando c'era in corsoun'operazione, venivano date loro le radioricetrasmittentidella polizia per poter ascoltare tutto lo svolgimento deicontrolli. Spesso e volentieri i ragazzi che si occupavanodel primo intervento davano una mano per mettere igommoni in mare e venivano pagati con 100 mila leke. Iveri problemi si potevano incontrare con la guardia difinanza italiana. In questa circostanza un vero scafistadimostrava tutta la sua bravura. Frequenti erano i casi incui si poteva sfuggire agli inseguimenti in mare: gliscafisti erano agevolati dalle piccole dimensioni e dallavelocità dei mezzi che utilizzavano rendendo possibiledelle manovre più svelte di quelle della guardia di finanza.Quando reputarono che il tempo passato fosse sufficiente inostri accompagnatori ci sparpagliarono affidandoci aitassisti italiani che avevano il compito di portarci in città.Ma prima di lasciarci andar via ci ordinarono di nonparlare tra noi e con nessun altro del viaggio che avevamofatto, altrimenti ci avrebbero trovati e sgozzati comecapretti. I più giovani, come me e Rachid, se volevanopotevano essere messi in contatto con datori di lavoro checercavano operai per bassa manovalanza, soprattutto incampagna. Così ci dissero gli italiani. Sia io che Rachidaccettammo. Ma lui dopo le prime settimane lasciò laPuglia per spingersi più a nord, mi disse che ne avevaabbastanza del mare e voleva raggiungere la Germania.

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Attaccata al vetro, in mezzo alla pioggia, ci sta unamosca, provo ad allungare la mano, ma nemmeno miguarda, rimane con le zampe avvinghiate allapiattaforma che ci divide. Il nostro paese non è l’Africae nemmeno l’Europa, non è arabo o russo o ebreo, ilnostro paese non si sa cos’è, forse neppure esiste, manoi senza di lui non sappiamo vivere. Così quando sonopartito non mi sentivo bene. Tutto era colorato di giallo,perché era ancora giorno, anche gli occhi di Tenhiaerano gialli e anche la mano aperta di mio fratelloRamon, issata lungo la strada della stazione era gialla esembrava una bandiera. Quando sono arrivato qui non succedeva niente, a parteil lavoro intendo. Questa città mi sembra una vecchiatinozza che ha buchi da tutte le parti. Durante lasettimana non succede niente, allora io penso, pensoappoggiato in un angolo di questa baracca, mentreaspetto di preparare la cena. Penso al mare senza fine, alcolore della notte che mi mangiava il cuore, mentre mirincantucciavo a pregare per rendermi conto che nonero niente. Nemmeno una merda di cane ero. Cosìpiccolo e sperduto da sembrarmi tutto assurdo, col cielospalancato e l’acqua di un colore indefinibile, spessa,come la pietra. Ecco io ero un bambino che avevaancora paura del mondo, nonostante la guerra,nonostante tutto quello che nella mia vita avevo fatto, ioavevo ancora paura e non c’era niente che potessetogliermela, nessuna certezza, nessuna consolazione. Ogni tre settimane nei campi ci danno un giorno di festaper non avere casini se ci sentiamo male. Quando sonodi festa cammino lungo la strada, fuori dalla baracca,più avanti ci sono un asilo nido abbandonato e un saccodi edifici in costruzione, fermi da chissà quanto. Perquesta strada passa pochissima gente, qualcheagricoltore che tiene un orto nella campagna grigia, o lavecchia signora invalida, che abita nell’isolato accanto,sospinta da Camilla, la giovane straniera che la tiene

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d’occhio. Camilla è bionda e ha la carnagionechiarissima, qualche volta abbiamo provato a salutarci,ma non siamo mai andati oltre. Poi nel pomeriggio vadoin centro a telefonare a casa per sentire come vanno lecose. Ma Tenhia parla sempre poco, perché è triste edisperata e perché in fondo parlare al telefono non lebasta. Le chiedo se mangiano, se i bambini vanno ascuola, se stanno bene e lei risponde sempre sì, anche sesento che vorrebbe aggiungere altro. Poi alle sei tutti sirinchiudono nuovamente nelle case e ognuno diventaestraneo e straniero come noi. Io mi metto ad aspettareil giorno che arriva. Aspettare il giorno vuol diretornare a essere niente, il ricordo della fatica trascorsami provoca ansia e la paura di rimanerci, di essereucciso da un attacco di cuore, quando il respiros’ingrossa, ritorna a impensierirmi e a tormentarmi.Tutto questo io lo combatto col vino. Amed ha trovatoun supermercato dove un cartone costa un euro eventicinque centesimi e lo beviamo in silenzio, anchequando non mangiamo, guardando la polvere dellafinestra. Amed è l’unico con cui parlo, anche se lui nonlavora con me e non gli piace tanto parlare. Amed è piùvecchio di quarant’anni e per lui la fatica è unaminaccia ancora più grossa, quasi senza scampo. Ognitanto quando rimaniamo seduti sulle mattonelle delpavimento a bere vino, mentre gli altri pregano,racconto ad Amed una barzelletta. Allora i dentonigialli e ammaccati che ha e che tiene nascosti, glispuntano fuori all’improvviso e ride, poi torniamo atacere e a guardarci intorno. Sembra che aspettiamoqualcosa che non arriva mai e che non può arrivare,ognuno ha provato a dargli un nome a questa cosa, masecondo me ciò che ci manca e che desideriamo contutte le forze più che esserci davanti è dietro di noi, cisegue da sempre è per questo che non possiamo vederlae non riusciamo a darle un nome.

Se dovessi dire dove stanno i campi di lavoro nonsaprei, la mattina io e Amed ci svegliamo col buio eabbiamo sempre il terrore di non sentire la sveglia,

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perché se per un giorno non ci presentiamo, ci buttanofuori. C’è sempre qualcuno pronto a sostituirci,qualcuno che aspetta la nostra fine. In macchinaandiamo verso la piazza del paese dove ci vengono aprendere coi pulmini. Lungo la strada leggo i cartellipubblicitari alla luce dei fanali, mentre Amed mette ilriscaldamento e lo stereo al massimo. Ma prima che ilriscaldamento funzioni c’è sempre un sacco di freddo,che ti viene voglia di bestemmiare. Ci fermiamo perstrada in un bar di cacciatori e camionisti che sbuca afatica dietro un grosso pioppo, per bere un caffè. Bastavedere come ti guarda la gente che ti passa subito lavoglia di uscire di casa e non è solo perché siamostranieri, io e Amed siamo qui da più di un anno ormaie non credo che diamo molto nell’occhio, è proprioperché questa gente odia la vita in ogni sua forma, forseperché sentono che quella che vivono non è la vita verae hanno ragione, anche per me è così, la vita che vorreivivere è scritta nel mio cuore, è lì, ben impressa. Amedfuma molto e ha sempre bisogno di una scusa buona perfarlo, anch’io fumo molto. Quando entriamo nel bar,ancora prima che Amed ordini i caffè, gli sguardi torvidegli altri si spostano su di noi, così inizia la nostragiornata. Dopo il caffè Amed accende subito la sigarettae io faccio lo stesso, rimaniamo sotto la verandina delbar a fumare, ignorati da tutti, mentre il cielolentamente schiarisce. Poi ci ributtiamo di nuovo neltraffico grigio di macchine e camion, che viaggianoverso la periferia della città. La campagna circostantecomincia a spogliarsi della foschia che l’avvolge eallora ci prende il terrore del lavoro e della schiavitù.Quando arriviamo nella piazza del paese, non sonoancora le sei, scendiamo dalla macchina e cisgranchiamo le ossa e le gambe. Poco dopo i fariilluminano la piazza Garibaldi a giorno, sono i pulminiarrivati a portarci nei campi. Il mio è l’ultimo, quellobianco, il più malconcio di tutti, il conducente, con ungesto rapido del braccio mi fa segno di salire e partesenza indugio. Il vento sferza i campi e sembrastracciare i rami degli alberi da un momento all’altro. Il

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vento soprattutto quando è così forte e implacabile mifa diventare nervoso. In questo periodo stiamoraccogliendo le olive, il lavoro non è troppo faticoso,sono i ritmi a esserlo. È stato quando siamo arrivati alcampo che ho rivisto Rachid, non volevo crederci einvece era vero. Mi ha guardato sorpreso con gli occhispalancati e poi ha sorriso. “Questo è Rachid”, fa ilpadrone indicandolo con la mano tozza, mentre luiabbassa la testa, “insegnagli come funziona il lavoro, inmodo che impari il più in fretta possibile”. Io taccio e loguardo, lui guarda me, ci scambiamo un lungo sguardovuoto, poi il padrone parla ancora: “Iniziate a mettere iteli, io intanto prendo il trattore, ampresso guagliò checominciamo”. Con Rachid ci incamminiamo verso glialberi col vento che ci fa sbandare, mentre il padrone vaa prendere il trattore. Lungo il cammino impervioRachid mi guarda spaurito: “Ci sono molte zanzare?”“Non ti preoccupare”, gli rispondo, “quando arriva sera,non te ne accorgi più”. In fretta disponiamo i teliattorno ai fusti degli alberi scalciando e strappando amani nude tutta l’erbaccia irta che vi cresce attorno,prima che arrivi il padrone, perché se quando torna nonl’abbiamo fatto, s’incazza e ci fa correre per tutto ilgiorno come gatti. Appena arrivato, il vecchio, col culosul sedile e la pancia traboccante, scuote gli alberi con ilsuo trattore nuovo di zecca, che costa un occhio dellatesta. Io collego i fili a pressione dal motore agli attrezzie cominciamo a buttar giù le olive che rimangono.Quest'attrezzo che usiamo poi, dopo che lo tieni inmano per undici o dodici ore diventa un macigno, in piùogni tanto s’inceppa e quando succede il padrone se laprende con noi come fosse colpa nostra. Versomezzogiorno la fame ti squassa le budella, ti senti fino esmorto come un filo d’erba e ti sembra di svenire da unmomento all’altro, ma se rallentiamo il ritmo, ilpadrone ci istiga a fare più presto e bestemmia mentreaddenta il panino. Alla fine saranno le preghiere, saràche il tempo scorre davvero, la pausa pranzo arriva,guardo Rachid mentre cammina dinoccolato lasciandosigli alberi alle spalle. Ma non abbiano voglia di parlare.

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Lo guardo affettare la pagnotta premuta contro il pettocon le braccia tese allo spasimo, mi verrebbe da dirgliqualcosa ma poi sto zitto e continuo a mangiare.

Stanotte quando sono andato a dormire, ho sentito dellemacchine sgommare e partire a gran velocità. Tirandosu la serranda mi sono affacciato alla finestra e ho vistoche stavano facendo una corsa, proprio vicino allanostra baracca. Un uomo con un giubbino nero contavai soldi, si è voltato verso di me e io ho subito chiuso esono tornato a dormire. Avevo già troppi problemi di

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mio per dirgli qualcosa. Ho cercato di addormentarmiprovando a non sentire i rumori assordanti che venivanodalla strada, ma non ce l’ho fatta. Così ho fumato e misono messo a ragionare su come me lo immaginavoquesto paese prima di arrivarci. Niente, zero completo.Un sacco di fumo e dopo ancora altro fumo e basta.

Ho provato a chiedere ad Amed se una sera veniva fuoricon me a fare due passi: “E dove?”, ha detto lui, e aveva uno sguardo cosìspaurito che mi sono pentito di averglielo chiesto.

Poi, qualche giorno dopo, in un paese a qualchechilometro da qui hanno organizzato una festa, così hochiesto la macchina ad Amed e insieme a qualche altrodisgraziato che lavora con noi siamo andati, mentre luiè rimasto a casa a pregare in silenzio. Abbiamo messotre euro per uno per pagare la benzina. La strada perarrivare in paese era stretta e tortuosa e la nottefittissima e scura, così abbiamo sbagliato tre volteprima di riuscire a trovarla. Quando siamo arrivatimancava poco alle undici, le case della gente se nestavano tutte su un poggio, mentre l’unica strada eraaffollata di macchine. I ragazzi erano eccitati e contentie io invece non riuscivo a trovare un parcheggio, in piùin quella strada stretta con le macchine che arrivavanoda tutte le parti, avevo paura di rovinare la macchina diAmed. Me lo vedevo a casa che pregava con la testariversa al pavimento e portargli la macchina ammaccatanon mi sembrava una bella idea. Alla fine hoparcheggiato in una viuzza in salita, ho chiesto airagazzi se la macchina poteva restare dov’era e lorohanno risposto che ci poteva stare benissimo, perciò hosmesso di preoccuparmi e mi sono avviato.Lungo il paese c’erano delle piccole grotte illuminatedove vendevano vino a buon prezzo. Nella piazzaun’orchestrina di paese suonava musica da ballo.Abbiamo preso qualche bicchiere e siamo andati adascoltare la musica in mezzo a quella piccola folla. Lagente non faceva caso a noi e nessuno si ricordava che

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eravamo stranieri. Dopo un po’ ho deciso diallontanarmi, di andare a camminare per i fatti miei.Lungo la piazza c’erano alcune bancarelle, hoproseguito oltre per raggiungere il borgo. Mentrecamminavo, su una panchina due ragazzi si baciavano,mi hanno guardato un attimo poi sono tornati ai loroaffari. Si sono avvicinati dei giovani e uno di loro: “Cistanno altre grotte qua?”, mi ha chiesto, io ho scosso latesta e la ragazza lì accanto è intervenuta prendendo ilsuo amico per il braccio, “ma lascialo stare”, ha detto,non lo vedi che è ubriaco”, e insieme si sonoallontanati. Quando sono tornato in piazza la genteballava, sono andato a prendermi un altro bicchiere divino, infischiandomene del fatto che la mattina dopoavrei dovuto lavorare. Mentre bevevo qualcuno mi hatoccato un braccio, mi sono voltato e ho visto Camilla:“Ciao”, mi ha detto, “ciao”, le ho risposto, anche se nonsapevo cosa aggiungere. I parenti della donna cheaccudisce l’avevano portata lì per farle fare un giro. Hadetto che si divertiva e io ho finto di fare altrettanto,sorrideva ed era molto bella. È finita che ci siamoscambiati i numeri di telefono come fanno i ragazzini. Mentre guidavo con gli altri ubriachi che cantavanolungo la strada, ha squillato il telefono, era lei. Michiedeva se volevamo vederci vicino casa mia, prima diandare a dormire. Sono rimasto ad attenderla sull’unicapanchina che dà sulla strada. Con la sigaretta in manoguardavo i calcinacci dei palazzi in costruzione chesotto la luna sembravano dei mostri mutilati. Sonorimasto ancora dieci minuti buoni a fumare e a pensare,ho guardato l’orologio, erano da poco le tre. Poi hovisto il giubbino viola di Camilla muoversi lungo lastrada e il suo braccio che mi salutava. Qualche oradopo non mi sembrava vero che dovevo andare alavorare, avevo dormito appena due ore. Mi sentivo unostupido, ridurmi in quel modo con la giornata che avevodavanti. Per un attimo ho deciso che non sarei andato,sono rimasto con quest’idea in testa per qualchesecondo, poi ho pensato alla mia famiglia e facendomicoraggio mi sono alzato.

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I campi erano pieni di bacche e l’azzurro sotto il mantonotturno faceva pensare a una bella giornata. Rachid era

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già lì che sistemava i teli, gli ho sorriso e mi sonomesso ad aiutarlo. Sapevo benissimo che dovevocalcolare bene le forze, se avessi speso subito quel pocodi energia che mi rimaneva non sarei arrivato a sera.Mentre con l’attrezzo tra le braccia cercavo le olive ditraverso gli alberi, continuavo a pensare a Camilla. Colpassare delle ore più lavoravo e più mi accorgevo che ilmio corpo diventava una macchina, solo la testaresisteva e i pensieri nebulosi dovuti al vino miaiutavano a distrarmi. Così pensando mi muovevo conl’attrezzo, cercando di calcolare ogni sforzo. Il padroneconvinto che non lo vedessi si fermava a spiarmi, ma ionon avevo bisogno di guardarlo, sapevo benissimodov’era. Conoscevo il modo in cui spariva e riapparivaper controllarci in ogni istante. Ormai riuscivo a capireil momento in cui potevo permettermi di rallentare ilritmo o quando al contrario dovevo andare avanti a testabassa. Rachid dall’altra parte degli alberi teneva ilberretto in fronte e guardava la pianta con unaconcentrazione completa, il suo andamento non avevastrappi, anche Rachid stava divenendo una buonamacchina. Ogni tanto invece di guardare i rami davantia me, guardavo il cielo. Seguivo il movimento dellenubi e all’improvviso ho visto un aereo passarci inmezzo. Dalle basi aeree di Brindisi aerei italiani stavanodecollando per andare a bombardare casa mia. Avreivoluti tirarli giù quegli aerei e per non pensarci mi sonomesso a cantare:

Ku je nisur dhe do veç,imzot me kë më le mua?– Jam nisur për në kurbet,hesht Vito mos qaj për mua!– Të vij edhe un’ me ti,imzot me kë më le mua?– Është lark e bie shi,hesht Vito mos qaj për mua!– A do sillesh shumë vjet,imzot me kë më le mua?– Jo më shum’ shum’ se dy tre vjet,hesht Vito mos qaj për mua!– Të vij dhe unë me ti,imzot me kë më lë mua?

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– Është lark e bie shi,hesht o Vito mos qaj për mua!– Bënem moll’ e të hij në gji,imzot me kë më le mua!

Parto amici mieiper il kurbèt,parto di buon ora,con la nave nera.È lungo il viaggio,infinito il mare,nella mia mentepadre e madre.Maledetto il kurbète l’amara povertà,separati per sempredalle nostre case!Partiamo amici,ma dove andremo?Nel paese ignotostranieri saremo!Ahimè, miseri noi,dove andremochissà, amici miei,che fine faremo!

Con Camilla ci siamo visti altre volte, una sera nelpiccolo bar vicino casa, ricordo di averle osservato lemani, mentre lei le teneva aperte davanti a me, come

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fossero un quadro. Aveva mani grandi e bianchissimecon le unghie curate alla perfezione. Poi qualcuno eraentrato distraendomi. Attorno a noi la gente parlava avoce alta, sembravano tutti molto agitati, parlavano diqualcosa che era successo in città ma io non liascoltavo, perché guardavo Camilla. “Adesso stiamozitti una mezz’oretta, ti va?” ha detto lei ed io ho fattosegno di sì con la testa. Nel suo paese ha studiato daostetrica, così quando le ho chiesto cosa le piacerebbefare a parte tenere d’occhio l’anziana: “Far nascere ibambini”, mi ha detto, e lo ha fatto con una naturalezzatale che mi ha divertito. Finita la birra abbiamoattraversato la strada e per poco una macchina dellapolizia sopraggiunta a tutta velocità non c’investiva. Unpo’ mi vergognavo di farle vedere casa mia, ma erasempre meglio di restarcene al freddo, così siamoandati. In cucina Amed e gli altri ancora mangiavano, cisiamo affacciati un attimo sulla porta per salutare esubito dopo abbiamo raggiunto la mia camera. Hoacceso una candela e l’ho messa sul comodino, sonorimasto a osservarla per tutto il tempo che si spogliava,era tanto che non vedevo una donna nuda. In silenzioabbiamo fatto l’amore, con i motorini chestrombazzavano per strada, e in silenzio, con la candelaormai spenta, siamo rimasti nel letto ad aspettare che civenisse sonno.

A ogni fine del mese vado alle poste per mandare i soldia casa. L’ultima volta c’era molta gente. Quando èarrivato il mio turno, ho detto all’impiegata che dovevofare un vaglia. Aveva due borse cavernose sotto gliocchi e lo sguardo puntuto. Quando ho finito le ho datoil foglio col mio versamento, ma lei mi ha rimbrottatodicendo che dovevo fare la fila. Ho borbottato qualcosaa bassa voce ed è saltata su pronta ad azzannarmi. Dalserpentello di gente qualcuno alzava la testa per

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guardarmi. Mi sono allontanato da lì mettendomi indisparte e sono andato a chiedere aiuto a un'altraimpiegata. Quando sono tornato di là, una macchina siera inceppata e la fila non si muoveva di un passo.L’impiegata di prima teneva la testa bassa, spostandoogni tanto lo sguardo verso di me. Fuori dalla finestrauna gazza planava sopra le teste delle persone cheattraversavano i marciapiedi. Mi hanno sempreinsegnato che un bambino per crescere deve smettere disentirsi al centro del mondo, di aspettarsi che gli altri siadeguino a lui, ma io non voglio adeguarmi a questomondo, preferisco restare bambino.

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Nella notte c’è stato uno stupro, una ragazza in vicoloAniello, che è una piccola traversa vicino al canale discolo è stata raggiunta da tre uomini che l’hannoderubata e violentata. Uno per volta si sono dati ilcambio coprendole la bocca con le mani, poi perconvincerla a non raccontare niente l’hanno colpita finoa farla svenire. In città pensavano che fosse una donnadi strada, poi è venuto fuori che la ragazza è la figlia diSalvo, il pescivendolo di via Pisacane, ed è scoppiatoun casino. La polizia ha finto d’interessarsene, appenaabbiamo messo piede nel campo una gazzella è arrivataa interrogarci. Tutti sono convinti che a compiere lostupro siamo stati noi stranieri. Quando sono arrivati ipoliziotti ci siamo fermati subito. Gli altri si guardavanointorno come tanti topi in trappola, sembrava che nonvedessero vie di fuga, io ho guardato il padrone invece.L’ho visto scendere dal trattore e avviarsi a braccialarghe verso i poliziotti. Hanno fatto capannello a uncentinaio di metri da noi, con lui che gesticolava e sipassava la mano sulla fronte, ma non potevo sentirli,poi i poliziotti sono rimontati in macchina e se ne sonoandati. Quando il padrone è tornato, ci ha visti fermibloccati dalla paura e ha subito sbraitato: “Che state lìimpalati iamme”, e ha acceso il trattore. Il trattore inmovimento fa un frastuono assordante e tutta la quiete eil silenzio della campagna d’un tratto spariscono. Ilvecchio lo tiene acceso per più di dieci ore al giorno,tanto che più di lavorare all’aria aperta sembra di starein una fabbrica. Oggi nel campo mentre mettevo il telosotto gli alberi, ho trovato un uccello morto, ancoratutto intero. Mentre Rachid tirava il telo dall’altra parte,con le mani nude nella terra ho scavato una buca e cel’ho messo dentro. Anche Rachid allora si è fermato eper poco il padrone non se ne è accorto. Gli basta pocoa lui per cambiare idea su di noi, anche su Rachid chefinora si è dimostrato un ragazzo che lavora sodo. Nelpomeriggio invece ho visto il guscio di una tartaruga,era spaccato di lato e non ho potuto farci niente. Nonerano segni di buon auspicio quelli, ma non avevo il

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tempo per pensarci, perché il lavoro non permettepause. Sotto l’albero mentre raccoglievamo le olive io eRachid guardavamo i grossi nuvoloni spostarsi nelcielo. Come animali bastonati annusavamo l’odore dellapioggia, mentre il padrone bestemmiava. Per tutto ilpomeriggio siamo rimasti ad aspettare che piovesse perfermarci, ma più il cielo scuriva più la pioggia noncadeva. Le nuvole trasportate dal vento se ne sonoandate chissà dove a far contento qualcun altro.

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A buio carichiamo le cassette che abbiamo fatto sulfurgone e andiamo al frantoio a venti chilometri didistanza per la frangitura. Io non parlo mai col padrone,mentre Rachid sì, e quando quello fa qualche battuta,lui ridendo gli risponde. Ha un gran coraggio Rachidper essere così giovane. Il padrone ha detto a Rachidche se continua così lo farà guidare a lui il furgone.“Ma io non ho patente”, ha risposto un po’ preoccupato,“per la patente non ti devi preoccupare”, ha detto ilpadrone, “quella non è importante”. Superando unastrada completamente dissestata, dove nemmeno lepecore ci vengono a pascolare, arriviamo in uncapannone cadente, il frantoio è lì. Ormai è buio fatto.Ci fanno scaricare tutte le cassette poi il padrone dopoche ha fumato ci dice di aspettarlo in macchina. La lunasembra una fetta di mozzarella sotto i contorni scuridella campagna, sarà che a quest’ora l’unica cosa chevoglio è mangiare e tutto mi sembra cibo.

Mentre ero nella vasca da bagno, per qualche minutodevo essermi addormentato e ho sognato il viso di unadonna, aveva labbra grandi, la carnagione chiara comeil latte e tenui lentiggini intorno al naso. Ho sognatoancora che mi avvicinavo a lei per toccarla, teneva nellamano chiusa qualcosa che ha passato nella mia, quandol’ho aperta ho visto in mezzo al palmo il gusciopiccolissimo di una tartaruga.

Camilla non immagina nemmeno che sono sposato, leinon fa troppe domande e questo mi piace, da quando cisiamo incontrati abbiamo parlato veramente poco. Leuniche cose che mi ha chiesto sono come mi chiamo, dadove vengo e cosa faccio qua. Credo che Camilla abbiapaura di stancarmi ancora di più con le domande e forsesi aspetta che a poco a poco io le parli un po’ della miavita. Ma non penso che lo farò, in fondo meno cose sadi me e meglio è. Dopo cena, nonostante la stanchezza,siamo andati lo stesso a prenderci una birra in pizzeria,era l’unico negozio aperto. Quando è arrivato ilcameriere a chiederci l’ordine, gli ho detto che

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volevamo due birre: “Solo due birre”, ha ripetuto luicon un’ espressione ostile, “sì solo due birre” gli hodetto, poi ho guardato Camilla e per la prima volta daquando ci conosciamo abbiamo riso. Attraversandol’arco di roccia in mezzo alla luce dei lampioni siamoandati a riprendere la macchina di Amed. Io avevodeciso di non portarla a casa, perché quel posto mimette addosso una grande tristezza, così siamo andativerso i campi. C’era un buio talmente scuro che quasi ifari della macchina non funzionavano. Quando siamoarrivati in uno spiazzo ben nascosto, mi sono fermato.Per un po’ sono rimasto con il finestrino abbassato adascoltare il silenzio dell’aria, poi Camilla ha cominciatoa spogliarsi. Ho lasciato lo stereo sintonizzato su unastazione radio e mi sono spogliato anch’io. È stato belloil modo in cui mi è venuta incontro. Quando abbiamofinito siamo stati una buona mezz’ora in silenzio con leteste sui sedili. Poi sono uscito per pisciare, accanto ame c’era un rumore di grilli, Camilla dai vetri opachidella macchina di Amed sorrideva.

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Il giorno dopo mi sono svegliato aggrovigliato su mestesso, attorcigliato come una salamandra, con la golaraschiata dal tabacco e la testa inchiodata ai minuti.Eccomi qua. Sembro un aeroplano precipitato sullelenzuola, con la coperta caduta per terra e la sveglia chesegna le cinque e venticinque. La stanza è buia e lasciatrasparire una piccola scheggia di cielo cupo dalletapparelle. Sono sveglio ormai, sprofondato in questoottobre nero, senza nome e allora visto che sonosveglio, mi alzo dal letto e mi vesto.Io e Rachid soprattutto nelle prime ore del mattinoprendiamo il ritmo al lavoro. Siamo talmente allenati eabituati l’uno all’altro che riusciamo a scegliere imovimenti migliori per evitare che la fatica ci sovrasti.Spesso il padrone per il nostro andamento rimaneindietro con il trattore e allora per sbrigarsi, nella frettaaggancia male un albero e lo sradica dal suolo. Ioguardo le grosse pinze del trattore alzare l’albero inaria, con il sole che lo sfiora e poi lo vedo cadere aterra, come un sacco vuoto, con i rami pieni di foglieche si piegano. Quando andiamo veloci e lavoriamobene, io continuo a pensare lo stesso. E più lavoriamosodo, più mi sento inutile, mi viene un grande dolore inpetto a pensare che stiamo lavorando così per la paga dafame che prendiamo. Capisco che sono vittima di unricatto e allora dentro di me diventa tutto buio e miviene voglia di fermarmi. Rachid che è più giovanequando vede che rallento il ritmo ci mette ancora piùforza, così non si vede la differenza, ma la tristezzarimane e più passa il tempo più diventa insormontabile.Poi ogni giorno puntuale arriva la rassegnazione. Ognitanto mi fermo a guardare le persone che camminanoper strada, sembrano uguali a me in tutto e per tutto, main fondo non è così, non so bene chi l’abbia deciso equale sia il motivo, ma io non sono come loro, non sopiù nemmeno cosa sono diventato.

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Se dalla piccola terrazza della baracca guardo il cielo,mi sembra di entrarci con la testa, le nuvole scure sispostano sui tetti delle case e si sentono le voci dellemadri che chiamano i figli, è così stretta la distanza tracielo e terra vista da qui che i gabbiani sembrano usciredalle finestre delle case. Ora che fa buio prima possoguardarlo a lungo il cielo, senza preoccuparmidell’assillo del lavoro. Stamattina mentre fumavo sulterrazzo, ho visto un traghetto tutto illuminatoormeggiato al porto, pronto ad avviarsi in mare, ungiovane muratore si arrampicava su un'impalcatura,ancora intontito dal sonno. Amed è arrivato con lacaffettiera ancora fumante e abbiamo preso il caffè. Inquesta zona della città al mattino i rumori del traffico siattutiscono, lasciano spazio allo sferragliare dellecarrucole e delle gru che sovrastano l’orizzonte e algrido dei gabbiani. Da qui la campagna gibbosa sembralontana, ma basta chiudere gli occhi un istante, cheAmed è già pronto con le chiavi della macchina inmano. Con quel traghetto io sarei arrivato dritto da teTenhia, amore mio, così avresti smesso di essereinfelice, ma come vedi non sono stato capace diprenderlo. La vita è più forte di noi e ancora a lungodovremo rimanere preoccupati perché non ci sfugga dimano.

Oggi abbiamo caricato le cassette sul trattore fino abuio inoltrato, Rachid ha cominciato a dare i primisegni di cedimento. Il trattore girava per i campi con ifari accesi nel buio e noi due dietro, come due zombie,a raccattare cassette. Lo sforzo era massacrante eripetuto. Dopo un paio d’ore di quella solfa Rachid èsbottato: “A me non frega un cazzo, io vado a casa”, hadetto, eppure continuava a lavorare. “Sopporta”, gli hodetto a bassa voce, praticamente nell’orecchio,“abbiamo quasi finito”. “Se continuiamo così, cifacciamo amazzare!”. Ha aggiunto e non ho saputo cosarispondergli. “Lo so”, ho ammesso alla fine, visto chenon trovavo altro da dire. Poi abbiamo caricato leultime due cassette e ci siamo fermati un istante a

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prendere fiato, ma il padrone ci ha subito arringati:“Nascondete i teli dietro gli alberi, che dalla strada sivedono e ce li rubano”, Rachid mi ha guardato e io hosorriso, poi ha fissato il padrone per un minuto interosenza dir niente.

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Con ancora i vestiti del lavoro addosso sono passato daCamilla e ci siamo incamminati dentro Bari. Lei hafatto finta di seminarmi e io sono stato allo scherzo. Cisiamo seduti dentro un bar nella città vecchia e abbiamopreso da bere. Camilla aveva poco più di mezz’ora e poidoveva tornare al lavoro, allora ho cercato di occupareogni minuto nel modo migliore. Poi ha chiesto unacannuccia al barista che l’ha guardata male dicendoleche le aveva finite, io stavo per litigarci, ma èintervenuta lei a tranquillizzarmi. Mi ha sussurratoall’orecchio che era lo stesso, che non faceva niente.Dopo è andata in bagno mentre io ho continuato aguardare il barista senza smettere un attimo. Quando ètornata mi ha chiesto com’era andata la giornata e io leho risposto a monosillabi. Mi era passata la voglia diridere. Ci siamo rimessi in strada e abbiamo attraversatoil corso, davanti alla chiesa il campanile immobile cifissava. “Adesso cade giù”. Ha detto lei e mi ha sorriso.In serata sono andato al supermercato a comprarequalcosa, perché in casa non era rimasto più niente.Lungo via Fanelli una mamma attraversava la stradacon il bambino in braccio, la testa nascosta dalcappuccio, cercava di proteggerlo dal vento. Dentro alrondò, nell’isola pedonale, c’era un monumento aicaduti, le lastre di marmo alte nelle quali erano scolpitefacce assonnate e rapite che sembravano assorte inqualcosa. Il lavoro le aveva strappate al sonno per tuttala vita. Da una macchina un padre con la mano coprivalo sguardo della figlia con una carezza.Dentro al super mercato camminavo lungo i corridoicome un sonnambulo. Mentre mi aggiravo tra gliscaffali, distrutto dalla stanchezza, la gente mi guardavacon sospetto. Forse si aspettavano che non potessipagare la merce che prendevo, ma io ho fatto finta diniente, perché ormai ci sono abituato. Mi sono messo infila e senza aprir bocca ho pagato quello che avevopreso, poi sono uscito senza salutare nessuno pertornarmene a casa. Lungo la strada l’umidità della seralasciava le tracce dei miei passi per terra, unanebbiolina fitta saliva dai piedi dei palazzi densa e

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corposa. Un ciclista mi è passato accanto, ho intravistoil profilo arcigno dei suoi lineamenti nell’orbita del suopercorso. Qualcuno portava a passeggio il cane, tenendoil bavero della giacca alzato, per ripararsi dal freddo,più avanti solo il borbottio elettrico dei lampioni e losguardo a testa in giù dei gerani sulle terrazze.

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Oggi sdraiato nella vasca da bagno, ho fatto un altrosogno. Ho visto le mani di Camilla dentro due guanti dilattice, restavano ferme nella posizione dei chirurghi. Ilvolto era coperto da una mascherina turchese, si trovavain una sala operatoria e dopo un po’ nella luceaccecante ho sentito il vagito di un bimbo. Camillateneva in braccio il bambino appena nato che piangevae si dibatteva, poi con gli occhi ha guardato verso dime, anche se non poteva vedermi. Quando ho fatto perandare al letto mi sono reso conto che l’indomani nonmi sarei svegliato, ero distrutto. Troppe notti che giravoa vuoto. Ho spento la luce chiudendo la finestra e hoprovato a dormire.Camilla l’ho incontrata la domenica dopo, camminavalungo la strada con tutta la gente che seduta fuori dalbar mangiava le paste, ma non mi ha nemmeno salutato.Siamo tornati a esserci estranei, anche noi, stranieri,perché non ci può essere un vero legame e nemmeno unsentimento in una terra crudele e di passaggio comequesta. Teneva il braccio di un uomo biondo, che dovevaessere del suo stesso Paese, ho il sospetto che sia ilfidanzato. Sarà venuto quaggiù anche lui a farsimassacrare come tutti noi.

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Il piazzale della stazione è quasi vuoto, questa è l’ora incui vado a prendermi il caffè, uno dei pochi lussi dellagiornata. Non mi piace andare sempre nei soliti posti,perché se no la gente a forza di vederti si abitua e aspettache tu cominci a parlare. Si aspetta che tu facciaconfidenza con loro, ma io non ce la faccio. Vorrei esserein grado di prendere il caffè senza provocare alcunareazione, ma so che è impossibile. Mentre cammino mi siaccostano due che deambulano nella zona dei prati, unoha la barba bianca e gli occhiali, l’altro è magro e senzacapelli:

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“Scusi sa dov’è la pretura?” Mi chiedono appena mi sonovicini, ma io non so nemmeno cosa sia la pretura, perciò“Mi dispiace, non lo so”, rispondo e loro mi ringraziano ese ne vanno. Le macchine mi corrono accanto tra le pozzed’acqua e gli alberi che si riparano dentro di loro. Nellaparte più abitata, attorno al rondò, c’è un benzinaio e lìaccanto un bar. Mi avvicino alla porta: è pieno di gente, laapro per prendermi un caffè, un tipo alto mi squadramentre sorseggia una birra. Sono tutti insieme e li sentoparlare, si stringono l’uno addosso all’altro per darsiforza, come fa un branco. Fra qualche minuto uscirannoper andare a lavorare. Appena sono usciti, sono rimasto asorseggiare il caffè, guardando fuori dei vetri del bar. Ilbenzinaio era chiuso, le pompe di benzina abbandonate inun recinto di catene, le gocce d’acqua insistevano sullepozze. Con il cucchiaio ho raccolto la crema che è rimastain fondo alla tazzina insieme allo zucchero e l’ho portataalla bocca.

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“Senza femmine voi pezzenti diventate tristi e lavoratemale, dovrei darvi mezza paga, guardate che facce chetenete”, il padrone ha ragione, tornare dal campo senzauna donna che ti aspetta ti svuota ancora più del lavoroe a lungo andare diventa impossibile. Oggi il padrone èdi buon umore, perché dopo un’intera settimana dinuvolo e pioggia è spuntato di nuovo il sole. Per lui ilsole vuol dire lavoro, mentre per noi è solo un altroaccidente. Quando stai in campagna a giornata, impari amaledire il sole ogni volta che spunta. Mentre ero sottoun albero con l’attrezzo, un ragno mi è caduto in testa,l’ho sentito camminare sopra i capelli e con un gestodella mano l’ho scacciato. Ma deve essere stato unmovimento troppo brusco, perché un attimo dopo l’hovisto abbandonato per terra senza più vita e mi ha presoil rimorso. Sono rimasto a guardarlo, disinteressandomidel lavoro, volevo spiegargli che non l’avevo fattoapposta, volevo capisse che non sono un assassino. Ilpadrone vedendomi in quella posizione, mi è venutosubito incontro: “Che ti è successo, ti è morto il gatto?”,ma io non gli ho risposto e mi sono rimesso al lavoro.Poi il tempo improvvisamente si è annuvolato e ilvecchio ha ripreso di nuovo a bestemmiare, con lasigaretta stretta tra i denti. Ma noi possiamo guardarlosoltanto quando è di spalle, perché se ci vede ed ènervoso, comincia subito a insultarci e per tutta lagiornata non ci dà più tregua. Dai rami stanchidell’albero ho visto la prima goccia di pioggia cadereperpendicolarmente sulla mia fronte, ma era solo laprima, perché poi ne sono venute molte altre. Il padroneè subito ammattito: “Togliete le olive raccolte dai teli!”,

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urlava, “presto che marciscono tutte”. Io e Rachid cisiamo chinati con la cassetta, pronti a fare come diceva,ma Rachid non era affatto contento. “Ora ce ne andiamoa casa vero?”, ha continuato a ripetermi. “Non lo so ragazzo se andiamo a casa”, gli ho risposto,ma lui insisteva: “Quando piove in campagna niente lavoro”. “Hai ragione … ma che vuoi farci”. “Un cazzo che vuoi farci, ora ti faccio vedere io”. Ed è andato verso il capo. Lui l'ha guardato come fosseun marziano mentre si avvicinava, poi non ho sentitopiù niente, ho visto solo il braccio di quel bastardolevarsi sul ragazzo e mi sono messo a correre. Una voltaarrivato lì ho portato via Rachid, giusto in tempo persentire il vecchio urlare: “Domani non ci mettete piede qua, non vi voglionemmeno vedere, brutti morti di fame e adesso andate afinire quello che vi ho detto di fare”. Così ha detto e con un rantolo è montato di nuovo sultrattore per allontanarsi. Rachid era zuppo di pioggia escurissimo in viso, non aveva la forza di dire niente. Daquel giorno al lavoro per me e Rachid è andata semprepeggio. Per una settimana ci hanno lasciato a casa,quando la mattina ci facevamo trovare in piazzaGaribaldi, facevano finta di non vederci, come fossimodue fantasmi e se provavamo ad accennare qualcosaricevevamo in cambio occhiatacce d’avvertimento.Anche quando a giornate alterne, lentamente siamoritornati, le cose non sono andate meglio, non potevamodistogliere lo sguardo dal lavoro per un solo istante e ilpadrone ci scrutava come un lupo pronto a saltarci allagola. A pranzo ce ne stavamo dentro il furgone, inmezzo alle cassette d’olive a fissare il cielo senza direniente, come due deportati. Così andavano avanti le miegiornate e quelle di Rachid.

Al tramonto me ne ritornavo a casa con Amed, lamacchina procedeva lungo le strade, tagliava le nuvolegrigie, sembrava andare incontro a tutto quel rosso,allora nel silenzio finalmente mi riscaldavo. In senso

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inverso al nostro, il traffico insistente della cittàcontinuava imperterrito, un camion dei pompieriprocedeva a sirene spiegate, sul ponte passava ancoraun altro treno. Dopo mangiato mi sono affacciato alla finestra e hovisto le luci delle case là sulla montagna, brillare.Sembravano tante lucciole. A guardarle fisse parevadovessero staccarsi per volarsene nel cielo, da cometitillavano, un elicottero all’improvviso si è levato sullamia testa e non ci ho pensato più. Ho pensato alla donnache lavora al centro dei telefoni in compenso, perché èdolce e bella, ho continuato a pensare a lei, fino aquando Amed è venuto a dirmi di uscire dal bagno, chedoveva lavarsi.

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Per tutta la sera ho ascoltato la pioggia e ho cercato didimenticare il resto. Anche Amed è stufo del lavoro,non ce la fa più e vorrebbe andarsene. Vorrebbetornarsene a casa, come tutti noi. Sotto la doccia guardoi miei piedi e conto i giorni dietro e quelli avanti, igiorni trascorsi a lavorare sono solo io che continuo acontarli. Aspetto che l’acqua divenga calda, poi tiepida,cerco di ascoltare il rumore delle gocce per poiimmergere di nuovo la testa in mezzo al getto. Miasciugo le braccia, il torace, i capelli, i piedi sonosempre i più scomodi da asciugare. La notte non vuolepassare perché da qualche tempo ormai invece didormire aspetto che arrivi mattino. Ci sono ore chesembrano niente, come macchine senza targa, barchettefantasma che galleggiano nella testa. Esco dal letto e mimetto a fumare. Mork, il vecchio cane, sta sempredietro la porta a dormire e per uscire devo premerglielasui fianchi, ma lui non s’arrabbia, mi guarda torvo perun istante e poi si ributta giù. La luna è bianca e alta difronte a me, sotto di lei il mondo notturno dellacampagna. In queste ore della notte osservodistrattamente le cose, gli insetti: c’è una civetta chevolando di ramo in ramo strilla ammonimenti. Poi miverso un po’ d’acqua e provo di nuovo a dormire.Il giorno fa presto ad arrivare e allora cambiano anche ipensieri. Stamattina mentre preparavo il caffè, perprendere il barattolo con la testa ho urtato contro lamensola di legno e mi è scappata un’imprecazione,Amed mi ha preso in giro, perché mi vede sempremolto calmo e si è sorpreso trovandomi così arrabbiatodi prima mattina. Dai finestrini delle macchine la gentesembrava inoltrarsi verso un lungo viaggio. Specie una

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signora era assorta e timorosa, lo sguardo fisso alparabrezza. Poi Amed ha fatto scaldare il motore allamacchina e siamo partiti. Nel bar, la ragazza bionda chelavora lì, inaspettatamente è stata gentile, mi ha chiestoaddirittura se volevo il cacao nel cappuccino, che è unacosa riservata a pochi. In macchina quando Amed mi havisto pensieroso, mi ha chiesto subito se per caso stessipensando alla ragazza del bar, ma gli ho risposto di no,perché pensavo ai miei figli. Me li immaginavo chefacevano colazione accanto alla madre, mentre lei con l’espressione seria sorseggiava il caffè. Intanto dallestrade si è sprigionato un vento caldo, come sequalcuno avesse aperto improvvisamente i bocchettonidel riscaldamento. La città sin dalle prime ore delmattino appare sporca e abbandonata e con il caldo sirisveglia il suo fetore. L’immondizia che è ovunquericomincia a prendere vita. Vicino all’edicola chiusa,alcuni cani randagi guardavano tristemente la stradaprincipale. Quando sono arrivato al lavoro Rachid nonc’era, il padrone era già pronto con il trattore sotto ilsedere, per inoltrarsi verso gli alberi. Non mi ha chiestoniente di Rachid, perché io e lui non parliamo. Quandodopo qualche altro minuto finalmente è arrivato,abbiamo preso gli attrezzi, faceva caldo. Le olivesembrava non volessero saperne di cadere, così Rachidsi è acceso una sigaretta e ha interrotto il lavoro, il capoè andato su di matto. L'ha raggiunto col trattoreaffrontandolo a muso duro: “Mica ti pago per fumareio”, gli ha detto, ma Rachid non gli ha risposto. Ilpadrone cercava lo scontro, lui si è rimesso a lavorare ela cosa è finita lì. Rachid è cambiato, non è più ilragazzo servizievole di prima, adesso lascia che sia io atirare la carretta è svogliato e triste e appena il padronedistoglie gli occhi o si allontana, si ferma a riposarsi.Così anche quando il vecchio si è assentato una ventinadi minuti per raggiungere il frantoio, non ha volutosaperne di mettersi a lavorare. Ho cercato diconvincerlo, ma Rachid ha preso una cassetta vuota, ciha appoggiato la testa e si è sdraiato: “Fumiamo ti va?”

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“Va bene”, gli ho detto e mi sono seduto accanto a lui.“Non è giusto che ci fanno lavorare così, che abbiamofatto di male?” “Hai ragione”, ho detto e non ho aggiunto altro, siamorimasti in silenzio a fumare. “Rimaniamo fermi finché non torna lui!” Io ho storto ilnaso: “Ho una famiglia, lo sai”. Rachid insisteva e io per tranquillizzarlo gli ho dettoche intanto avremo fumato con calma. Ma lui non havoluto saperne di alzarsi e quando quello è arrivato loha trovato così, con la testa appoggiata alle braccia. Il padrone era fuori di sé, ha minacciato che ci avrebbefatto staccare alle dieci di sera, poi ha detto a Rachidche se continua così torna a casa in una cassa da morto.Non abbiamo risposto niente e ci siamo rimessi allavoro, Rachid aveva gli occhi rigati di lacrime.Abbiamo lavorato senza sosta fino a quando il buio eratalmente fondo che non riuscivamo nemmeno a vedercitra noi, solo allora il padrone ci ha dato il permesso dicaricare le cassette. Ma non appena Rachid si èavvicinato col primo carico, lui è sceso dal trattore le hascaricate di nuovo nel campo ed è partito a marciaingranata. Rachid voleva rincorrerlo e ho dovutofermarlo. Aveva le convulsioni: “Questa dobbiamo fargliela pagare”, ripeteva incontinuazione. “È vero”, gli ho detto mentre col corpo gli facevo dascudo. “Promettimelo?” ed è scoppiato a piangere. “Sì te lo prometto”, gli ho detto e lui ha continuato asinghiozzare.

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Rachid ha detto che conosceva un modo, che dovevosolo accompagnarlo a fare una telefonata, così mi sonofatto lasciare la macchina da Amed e siamo partiti.Appena ho visto una cabina lui è sceso e sono rimastoad aspettarlo fumando. Dopo qualche minuto èritornato: “Allora?” gli ho chiesto. “Allora è tutto fatto”. “Tutto fatto cosa?” “Non ti preoccupare è tutto a posto, dobbiamo soloandarcene a casa”. Sulla strada ho spinto l’acceleratore più del solito, hoprovato a chiedere ancora a Rachid di quella telefonatae lui ha continuato a ripetermi che non dovevopreoccuparmi, mi faceva innervosire, con il volante inmano guardavo ora lui, ora la strada, era il ritratto dellaserenità. Gli zingari che hanno fatto il lavoro li abbiamoincontrati la sera stessa in un bar, a un’ora dalla città,non avevamo molto tempo. Quando sono entrati stavoancora zuccherando il caffè, erano eleganti, avevanodenti d’oro e la carnagione scura e ruvida. Uno si èseduto al tavolo con noi l’altro è rimasto in piedi sulla

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porta della saletta, attento che non entrasse nessuno.“Allora come va ragazzi?” ha detto quello seduto, iocominciavo ad agitarmi, ma non ho detto niente, perchévolevo capire. Poi l’altro ha detto che era meglio farpresto e ha cominciato a parlare di parti. Ho guardatoRachid e lui mi ha sorriso. Mentre uno dei duecontrollava l’uscita, lo zingaro vicino a noi ha messoventimila euro sul tavolo e ha detto di contarli fuori dilì. Io non ci credevo, non avevo mai visto tanti solditutti insieme, appena Rachid li ha presi in mano i duesono spariti. È così che ho comprato il mio biglietto diritorno con il trattore del padrone.

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Quando sono uscito dalla baracca ancora pioveva, lapioggia mi piace, mi fa stare più calmo e appena èarrivato il mio turno sono andato. Devo fare le cose concalma, devo avvertire mia moglie per dirle che stotornando, che ho i soldi con me, tanti soldi che cibasteranno per molto tempo. Ormai non riesco più aconvincerla a non vedere nero, perché anche d’invernoche è tutto bianco Tenhia vede nero. Dopo averattraversato via Verdi, sbuco in via 4 novembre, iltabacchino è lì dietro l’angolo, giusto il tempo discendere, il tempo di evitare le pozze e salire sulmarciapiede. Senza voltarmi. Se mi volto qualcuno sipuò insospettire. La ragazza/donna mette subito unamano sulla cassa per chiuderla, il suo sguardo è gelido.Fuori dal tabacchino qualcuno aveva messo la macchinaaddosso alla mia e non potevo uscire, ho aspettato chearrivassero a spostarla e sono rimasto a guardare legocce cadermi addosso. In quel momento è passato untreno, proprio davanti ai miei occhi, sui binari chesbucavano dal ponte. Sulla macchina che m’impedisced’andarmene c’è la foto di padre Pio che alza le mani,con lo sguardo fisso davanti a sé. Devo mantenere lacalma, non corro pericoli, prima o poi il proprietario diquesta macchina arriverà e io me ne andrò. Prenderò ilviale Mazzini e uscirò per sempre da qui, è questione diminuti lo so, non posso rovinare tutto adesso. Comesono venuto così me ne andrò. Non posso suonare ilclacson, anche se voglio andarmene, perciò accendo ilriscaldamento e aspetto. Adesso la macchina che mi ostruiva il passaggio èripartita e davanti a me la strada è libera, seguo le

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indicazioni per l’aeroporto, ho dato un po’ di soldi adAmed perché mi permettesse di lasciare la suamacchina nel parcheggio. Con me ho i pochi stracci chemi ero portato, i soldi e un biglietto aereo per Pristina.Per la strada provinciale c’è poco traffico e la macchinascivola via leggera, lungo i bordi spunta un cartellopubblicitario vuoto, ci sono solo gli assi che lo tengonoin piedi e attraverso si può vedere il cielo.

Sto arrivando amore mio. Je jeta ime.