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Il Saint Louis è una grande realtà culturale giunta ai giorni nostriattraverso un lungo periodo storico denso di rivolgimenti artisticie mutamenti sociali. Frutto e al tempo stesso amplificatore dellaistintiva e prorompente esuberanza a dir poco rivoluzionaria degliartisti figli degli anni Settanta, il Saint Louis ha vissuto e soffertola crisi creativa degli anni Ottanta che, tra nostalgiche autocita-zioni del decennio passato ed un uso smodato di elettronica –alla ricerca di qualcosa che di nuovo aveva ben poco – è appro-data, alla fine del millennio, ad un’apparente riscoperta della tra-dizione, ad una dimensione di creatività pura e colta al tempostesso, ad un rinnovato gusto di vivere il Jazz non più in fumosiClub semi-interrati, ma in teatri e sale da concerto.

Dal 1976 il Saint Louis ha cavalcato, spesso condotto, a volte in-dirizzato il fenomeno jazz verso obiettivi e linguaggi nuovi, tal-volta errando, altre volte precorrendo avveniristiche correntiartistiche; un visionario tempio della musica che ha saputo acco-gliere con lo stesso spirito i primi veri pionieri del Jazz, musicistie pubblico, ma anche coloro che negli anni vi si sono avvicinati avolte per tendenza modaiola o per curiosità, a volte spinti da unsano interesse, fino alle moltitudini che nel nuovo millennio fannola fila – più o meno composta – ai botteghini.

Oggi il Saint Louis è Scuola di Jazz con oltre millequattrocentoallievi provenienti da tutta Italia ed alcuni Paesi europei, con tresedi nel cuore di Roma, ma è anche agenzia artistica e di mana-gement, etichetta discografica “Jazz Collection”, nonché editoredi una collana didattica e di “Italian Jazz Real Book”, la primaantologia di partiture di Jazz italiano distribuita in tutto il mondo.

In questa pubblicazione abbiamo raccolto suoni e immagini ine-dite, alcune firmate da professionisti altre da improvvisati testi-moni, inconsciamente consapevoli di vivere un fuggente attimoche nessun media sarà mai in grado di riprodurre, un momentomusicale dove la creazione estemporanea dell’artista si è alimen-tata della percettibile energia di un pubblico sincero, un momentoispirato e travolgente, un momento di Jazz.

Stefano Mastruzzi

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In copertina:

DIZZY GILLESPIEfoto Paolo Soriano

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Jazz momentOrganizzazione e coordinamento:

Francesca Gregori, Giorgia Mileto

Interviste di:

Rossella Azzone, Marta Bragantini, Ilaria Cardegna, Silvia Circelli, Marina Conti, Anna Ferrari, Rossella Gaudenzi, Valentina Giosa, Claudio Mannello, Caterina Monti, Corinna Nicolini

Foto di:

Livio Anticoli, Mario D’Agati, Marco Mancini, Andrea Muti,Napolitano e Giambaldo, Andrea Pacioni, Fabrice Parfait, Stefano Ragni, Andrea Sabatello, Paolo Soriano, Antonio Stracquacursi

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Adriano Mazzoletti TRENT’ANNI DI JAZZ A ROMA... 5

Marco Molendini ...E AL SAINT LOUIS 7

MarioCIAMPÀ 8

RobertoGATTO 18

EnricoRAVA 26

DaniloREA 36

EnricoPIERANUNZI 46

MarcelloROSA 52

GiovanniTOMMASO 68

MaurizioGIAMMARCO 78

PaoloFRESU 88

AntonelloSALIS 94

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M ai come negli anni Sessanta eSettanta, Roma è stata visitatadai grandi del jazz.Tutto era ini-

ziato a cavallo fra il 1949 e il ’50 quando,uno di seguito all’altro, erano giunti LouisArmstrong con Jack Teagarden, Earl Hines eCozy Cole, Duke Ellington con la sua orche-stra dove suonava Don Byas che aveva sosti-tuito un giovanissimo Charlie Rouse, che ar-rivò al Sistina qualche anno dopo con il quar-tetto di Thelonious Monk ed infine BennyGoodman con Zoot Sims,Toots Thielemans,Roy Eldridge e il pianista Dick Hyman, chesarebbe poi approdato alla corte di WoodyAllen come autore o meglio coordinatoredelle musiche che Allen inserisce nei suoifilm.E poi la “grande bouffe”con tutti. Jazz at thePhilarmonic, quante volte! Ricordo una seraal Sistina una jam incredibile fra ColemanHawkins, Sonny Stitt e Stan Getz che “ci da-vano dentro” a più non posso. Tanto cheNorman Granz, straordinario impresario,

ma con una mentalità un po’ teutonica, ir-ruppe sul palco facendo smettere quei tresassofonisti tenori che si stavano “sfidando”all’ultimo chorus. Granz li fece smettere per-ché avevano superato il tempo che lui, il ca-po assoluto, aveva messo a loro disposizione.Le duemila persone che affollavano il teatroinsorsero e se Garinei non avesse chiamatouna paio di pattuglie di P.S., Granz sarebbefinito molto male.Probabilmente con un bagno nella fontanadel Bernini. Granz promise di non metteremai più piede nella Città Eterna. Promessache mantenne per molti anni.Ma i grandi del jazz continuarono ad arriva-re e l’elenco sarebbe enorme. Ricordo, la pri-ma volta di Sarah Vaughan in un teatro se-mideserto.Un genio come Phineas Newborn jr. accop-piato chissà perché ai Mills Brothers, cosìcome Lucky Thompson, Oscar Pettiford,Kenny Clarke, Martial Solal e StéphaneGrappelli abbinati a Paul Anka, nello stesso

concerto al Brancaccio. Intanto Roma si po-polava di jazz club, che ospitavano musicistiitaliani e stranieri. E le jam session fiorivanoogni notte o quasi. Una sera da Bricktop, illocale che la celebre entertainer, che nel1922 aveva lanciato Ellington a New York enel 1934 il Quintetto dell’Hot Club di Fran-cia a Parigi, aveva aperto a via Veneto, futeatro di una notte indimenticabile dove al-lo stesso tavolo, per meglio dire un tavolinet-to, dato che il locale di Bricktop era piutto-sto angusto, si ritrovarono Louis Armstrongappena rimessosi da una brutta broncopol-monite che lo aveva colpito a Spoleto, EllaFitzgerald, Roy Eldridge e Dizzy Gillespie aRoma con il Jazz at the Philarmonic, primache a Granz gli girassero.Il pianista Tom Fornari, il chitarrista AngeloBaroncini e il contrabbassista Franco Pozzi,che suonavano regolarmente in quellostraordinario posto, dove ogni notte succe-deva qualcosa, si trovarono improvvisamen-te a dove accompagnare alcuni fra i più

TRENT’ANNI DI JAZZ A ROMA...Adriano Mazzoletti

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grandi musicisti del secolo. Poi arrivarono iconcerti jazz radiofonici alla Sala A di viaAsiago che poteva contenere al massimocentocinquanta persone.Facevo i salti mortali per convincere l’inten-dente di palazzo e soprattutto i Vigili delFuoco che in quella sala potevano anche en-trare trecento persone… magari un po’ sti-pate. E a via Asiago suonarono tutti, da Lio-nel Hamton ad Ornette Coleman, da DexterGordon a Hampton Hawes, Johnny Griffin,Kenny Clarke, Slide Hampton, Art Farmer,Mary Lou Williams, Don Byas, Carla Bleyche con Gato Barbieri, Aldo Romano, J.F.Jenny Clarke, Mike Mantler, all’epoca fidan-zato abbastanza geloso della bellissima pia-nista, avevo fatto scritturare per quindicigiorni in sostituzione di Earl Hines, al risto-rante Meo Patacca a Trastevere.Vennero an-

che Sergio Mendes, Max Roach e SteveLacy. I loro accompagnatori più o meno re-golari, anzi, più che meno, erano GiovanniTommaso appena tornato dagli Stati Uniti,Franco D’Andrea, Gegè Munari e Bruno Bi-riaco. Roma era veramente una della capita-li del jazz europeo. Poi nel 1976 nacque ilSaint Louis. Club di jazz certo, ma anchescuola di musica assai prestigiosa.Le interviste contenute in questo bel libroche esce, per il trentesimo anniversario delSaint Louis Music School, sono a testimo-niarlo.Il cd omaggio che in poche copie è allegatoal libro contiene alcune tracce dei concertiche fra la fine degli anni Settanta e all’iniziodel decennio successivo, Mario Ciampà, haorganizzato nel suo locale. Testimonianzeper non dimenticare.

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È in quegli anni Settanta, gli anniin cui nacque il Saint Louis, cheil jazz cominciò a diventare in

qualche modo romano. Nel senso che ilrapporto con la città cominciò a farsistretto, non più un fatto occasionale equasi carbonaro per pochi appassionatiincalliti e pronti a tutto.Certo, c’era già il Folkstudio, piccolo grandeluogo d’incontro per ogni genere di musicafin dagli anni Sessanta.C’era il Music Inn del principe batterista Pe-pito Pignatelli, epico tentativo di trovareuna prima casa per il jazz.Arrivò l’Estate romana di Renato Nicoliniche cominciò a mescolare le carte con i suoigrandi appuntamenti all’aperto, a chiamareappassionati ma anche curiosi, orecchianti,semplici presenzialisti. Perfino l’Accademia

di Santa Cecilia, allora impenetrabile, ebbeun sussulto aprendo una cattedra di jazz conGiorgio Gaslini (il sussulto fu presto doma-to e il corso soppresso). I club, così, crebbe-ro e si moltiplicarono.La cooperativa Murales a Trastevere, il Mis-sissippi dei fratelli Toth a due passi dal Vati-cano. Lo stesso Saint Louis che a differenzadegli altri (le panchine di cemento del MusicInn, l’umidità del Murales) aveva una curaestetica assolutamente insolita, perfino sor-prendente.A quei tempi il problema principale eranon pestarsi i piedi, perché la coperta delpubblico, nonostante tutto, era corta: sec’era un nome importante da una parte,regola voleva che nessuno provasse a fareconcorrenza all’altro, pena il dimezza-mento della platea, il cui zoccolo duro era

decisamente limitato. Eppure, passo pas-so, proprio in questo modo il jazz e i suoieroi (allora erano ancora vivi) hanno co-minciato a diventare di casa a Roma:Chet Baker fra i più assidui, sempre in di-sperata caccia di soldi, Charles Mingusche svernò per alcune settimane durantela registrazione della fantastica colonnasonora di Todo Modo (che poi non fu uti-lizzata), il dandy Dexter Gordon, lo spa-ziale Sun Ra, Dizzy Gillespie con la suatromba periscopica, quel genio di OrnetteColeman.Proprio così il jazz è diventato di casa, abi-tuando il pubblico ad ascoltarlo e permet-tendo a una forte generazione di musicistidi ascoltare e imparare fino a formare unavera e propria Roman Jazz Wave i cui frut-ti si vedono (e si ascoltano) oggi.

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...E AL SAINT LOUISMarco Molendini

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MarioCIAMPÀ

Come nasce l’idea di fondare il Saint Louis?

Da alcuni giovani musicisti che suonavanoin una cantina e frequentavano il Music Inn,il primo locale di jazz a Roma. Da loro nac-que l’esigenza di aprire uno spazio più gran-de con prezzi più ragionevoli, molto orienta-to verso un pubblico giovanile. Mi chiama-rono per ristrutturare un grande locale cheavevano trovato in via del Cardello. Un tea-tro di 450 mq abbandonato da più di un an-no dopo aver subito gravi danni in seguitoad un incendio. Quando andai a fare un so-pralluogo, il primo impatto fu negativo: nonc’era luce, tutto bruciato ed umido, insommasi doveva ricreare completamente.

Dopo più di un anno di lavori, fatti in econo-mia con l’apporto fisico dei singoli soci, riu-scimmo a metter su una specie di grossa canti-na con poche sedie e un banco del bar rimedia-to.Poiché non potevano pagare il mio lavoro diarchitetto, mi fecero entrare in società con loro.Non ricordo i nomi dei musicisti. All’epoca

c’erano due anime nel jazz, una che amava iljazz tradizionale alla New Orleans e l’altrarappresentata da un gruppo di giovani mu-sicisti che voleva suonare il bop, l’hard-bop.Questo creava dei forti contrasti, una parte ac-cusava l’altra di non suonare jazz e alla fine li-tigarono scindendosi in due parti contrappo-ste. Il club rimase chiuso per più di un annoperché nessuno decideva come gestire il loca-le. Allora indicarono me come “paciere” ma iltentativo fallì. Il locale restò chiuso altri quat-tro mesi e alla fine, per salvare il mio lavoro diarchitetto, acquistai tutte le quote per darecorso a quest’impresa.Sebbene conoscessi poco di jazz, nelle disputetra jazz tradizionale e bop capivo che quel ti-po di organizzazione non avrebbe funzionato.Infatti, far suonare autodidatti e vendere unabirra a pochi soldi non era impresa remunera-tiva. Occorreva una conoscenza del settore,del jazz in Italia e a Roma in particolare doveesisteva un solo jazz club, con prezzi alti macon programmi di livello internazionale. Com-presi che poteva nascere qualcosa di buono

Mario Ciampà con Dizzy Gillespie

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anche con musicisti locali ma affermati ed or-ganizzando concerti di livello internazionale.In poco tempo il Saint Louis Jazz Club diven-ne uno dei locali più importanti di Roma e poid’Italia, con musicisti come Eddie Jones, Ar-chie Scheep, Max Roach, che all’epoca riem-pivano le piazze di Umbria Jazz.

Ho scoperto un mondo nuovo, affascinante,ho scoperto la vita notturna, uno spirito di-verso. A Umbria Jazz vedevo folle di giova-ni che riempivano le piazze, che dormivanoa terra, con alle spalle un movimento poli-tico affine a quelle che erano le mie ideolo-gie dell’epoca. Venivo dal Sessantotto, hotrovato uno spirito sociale che dava forza aljazz.A differenza di altri che rimanevano chiusinei loro Club, ho iniziato a studiare, a capi-re, ad ascoltare, a prendere contatti a livellointernazionale. Per dare respiro a un localedi 450 mq dovevo uscire dal guscio protetti-vo del Club. I compensi non erano quelli dioggi, gli artisti venivano pagati in dollariquando il dollaro era una moneta forte e iprezzi dei biglietti erano politici per invo-gliare i giovani. I margini erano minimi mafu un successo, raggiungendo fasce di pub-blico che non potevano permettersi localipiù cari.

Chi ha scelto il nome Saint Louis?

Sono stato io. Mi sono riferito al movimentodi avanguardia di Saint Louis. Molti credonoche il nome sia legato a “Saint Louis Blues”un famoso pezzo jazz o a Louis Armstrong.Invece mi sono riferito all’Aacm, il movimen-to dell’avanguardia afro-americano che presepiede proprio dalla città di Saint Louis. Pochil’hanno capito ma ha funzionato perché il no-me della città si ricordava facilmente.

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Il Saint Louis presentava anche un designparticolare...

Il locale aveva inizialmente l’aspetto dellacantina. Andava bene così per un pubblicoche si accontentava, non chiedeva confortma solo buona musica. La cosa che fecescalpore all’epoca furono delle poltroncineacquistate in un vecchio teatro quando tut-ti i locali avevano sedie in legno piuttostoscomode. Finalmente si offriva al pubblicoqualcosa di nuovo, un luogo diverso doverilassarsi, ascoltare buona musica e bereuna birra.

L’atmosfera al Saint Louis era rilassante mail clima in città molto meno, quali riflessi haavuto nella gestione del locale?

Il clima in città era molto duro, siamo aglianni Settanta con le Brigate Rosse e le con-testazioni.Via Cavour era centro di manife-stazioni violente. In alcuni concerti abbia-mo subito degli sfondamenti, c’erano grup-

pi di giovani che contestavano il fatto cheper la musica si dovesse pagare. Succedevaun po’ dovunque. Cosa incomprensibile:eravamo un club privato, senza finanzia-menti pubblici, perché contestarci?La Scuola è nata dopo diverse dispute.Molti sostenevano che il jazz non si potes-se insegnare perché è una tradizione essen-zialmente orale con improvvisazione noncodificata e quindi non trasmissibile, maavvertivo l’esigenza di molti giovani musi-cisti che avrebbero voluto imparare dai piùgrandi.Così cercai di fare questa “connessione”, uti-lizzando i musicisti che venivano a suonareal club, chiedendo di fare dei corsi nello stes-so locale. I corsi di tenevano nel pomeriggio,utilizzando pannelli per separare i vari am-bienti, che poi venivano tolti a sera rimetten-do le poltrone e allestendo il bar.Si è andati avanti per un paio d’anni fin-ché, per soddisfare le molte richieste dicorsi, decisi di aprire una vera e propriascuola.

Mario Ciampà con Stephane Grappelli

Elvin Jones

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Quanto ha influito su questa scelta la chiu-sura in quel periodo del corso di jazz al Con-servatorio di Santa Cecilia?

Molto poco. Contemporaneamente a noi nac-que anche la Scuola di Testaccio. C’era unmovimento creato dai musicisti stessi, fino adallora un po’ in ombra, che mirava a diffon-dere il linguaggio jazzistico. Gaslini fu un fa-ro nella nebbia, perché grazie a lui si capì cheil jazz si poteva insegnare, ma mentre luiscelse la via accademica tanti altri musicisti,che uscivano dalle accademie, volevano esse-re liberi d’improvvisare. Quindi no, la chiu-sura del corso jazz a Santa Cecilia non ebbeinfluenza sulle nostre scelte, il movimento eragià abbastanza forte, in quel periodo la mu-sica era un fatto sociale, un motivo di aggre-gazione per ascoltare e suonare insieme.

C’è una persona che le è stata d’aiuto in que-sta avventura?

Sì, è stato Bruno Tommaso, grande didattacon ottime doti di organizzatore. Tommasoera una persona preparata, veniva da Testac-cio. In quel periodo c’era un’atmosfera di-versa rispetto ad oggi, tra le varie scuole c’e-ra collaborazione, ci si aiutava. Solo succes-sivamente il Saint Louis si è distinto dalle al-tre scuole per l’imprenditorialità e la qualitàdei corsi. La scuola di Testaccio era nata co-me una cooperativa, un collettivo di musici-sti che si autogestivano, il Saint Louis avevainvece un proprietario che organizzava i cor-si e pagava gli stipendi agli insegnanti.All’inizio ci furono contestazioni e impor-tanti dibattiti sul fatto che la musica fosseun patrimonio popolare, ma alla fine si capìche la strada giusta per una scuola duraturanel tempo era quella indicata da noi, pun-tando sulla qualità dell’insegnamento anche

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se i prezzi dei corsi erano più alti rispetto aquelli delle altre scuole.

Ha parlato di collaborazione tra le variescuole, tra i locali il rapporto era lo stesso?

Direi di no. Il Music Inn, fino ad allora in re-gime di monopolio, non vide di buon occhiola nascita del Saint Louis. Il proprietario,Pepito Pignatelli, suonatore di batteria, ave-va legami d’amicizia con i più grandi musi-cisti jazz.Tutti andavano al Music Inn, che èstato il capostipite della nascita del jazz aRoma e forse in Italia.Di conseguenza il Saint Louis, un locale mol-to più grande che poteva contenere fino a 300persone, fu visto come un forte concorrente,anche se c’erano buoni rapporti tra me e Pe-pito. Poi sono nati il Big Mama, da un idea diMarco Triemmi, un allievo del Saint Louis,appassionato di blues che aprì un locale spe-cializzato in quel tipo di musica, mentre noifacevamo jazz, e dopo l’Alexander Platz. Manon ci dispiaceva la nascita di nuovi spazi perla musica. La programmazione nei primi die-ci anni è stata intensa. Sono passati moltissi-mi musicisti da quelli che suonavano il jazztradizionale a quelli che facevano swing. Ionon volevo dare un etichetta precisa al locale,il pubblico era vario, non mi sembrava giustotenere aperto tutti i giorni proponendo un so-lo stile. Pertanto, ho sempre cercato di varia-re. I miei musicisti sono stati Dizzy Gillespie,Max Roach, Elvin Jones; con alcuni di loroc’è stata anche una grande amicizia. Poi ci so-no stati Lester Bowie, Joe Pass e tanti altriancora di questo calibro.

Ricorda tutti con lo stesso entusiasmo?

Si, perché comunque si creava un rapportoparticolare, è molto diverso organizzare con-

certi in un club, vai a prendere i musicisti al-la stazione o all’aeroporto, li porti con te,mangiano con te.Ricordo che una volta andato a prendereDizzy Gillespie all’aeroporto, al parcheggiomi chiese di fermarmi un attimo, ha tiratofuori un cannone e si è messo a fumare.Poco dopo, una signora, vedendo la mac-china piena di fumo, ha bussato al finestri-no gridando “State andando a fuoco!” Gil-lespie con tranquillità è sceso dalla mac-china e la signora è rimasta a guardarci al-libita. Insomma si creavano dei rapportidiretti con i musicisti, a volte rapporti diamicizia, ci si sentiva al telefono, ed hosempre cercato di avere contatti diretti conmusicisti e agenzie americane.

Era più facile allora?

Era molto più facile. Potevi andare a pren-dere Max Roach con la Fiat 850 e nessunoti diceva niente. Oggi i musicisti, anchequelli non molto famosi, ti chiedono la Li-mousine.Era molto più facile, non c’era ancora ungrosso business dietro questo tipo di atti-vità. Sarà per questo che ricordo tutti conmolta simpatia.

Perché poi chiuse il locale e tenne aperta lascuola?

Avvenne nel 1996, quando finì il travasodiretto tra chi frequentava il locale e chi siiscriveva a scuola per un corso. Però primadi questo momento il Saint Louis ha avutomolto successo, per anni siamo stati sullabocca di tutti.Ovunque andassi c’era un frequentatore delSaint Louis e si era creato una specie di sti-le che io chiamavo dei “Saintlouisiani”.

Sam Rivers e Dave Holland (1980) foto Andrea Muti

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Cosa caratterizzava lo stile “Saint Louis”?

Lo stile Saint Louis era giovane con targetculturale medio alto. Erano studenti univer-sitari, giovani professionisti con una certacapacità di spesa, tanto che poi il SaintLouis venne trasformato, si aprì il ristorante,due cocktail bar. Insomma, io lo chiamavo lostile del “vorrei ma non posso”. La gente vo-leva comodità, mangiare e bere bene, ascol-tare buona musica senza spendere troppo esenza lusso sfrenato, in un contesto conforte-vole e piacevole.Si era formato una specie di gruppo omoge-neo, tutti della stessa estrazione sociocultu-rale, amanti del jazz, con voglia di parlare ediscutere. Non si entrava al Saint Louis soloper mangiare o ascoltare musica, si creavanolegami d’amicizia, di conoscenza, c’era unoscambio umano e i musicisti questo lo senti-vano e sentivano il calore della gente, c’era

entusiasmo nei concerti, ma anche critichequando sbagliavo programmazione. Tuttoquesto è stata l’esperienza del Saint Luoische ho cercato poi di portare nella scuola.

Venti anni di successi?

Si, con qualche curva in ribasso legata al-l’andamento del jazz. Il problema era rinno-varsi, la gente ogni anno desiderava qualco-sa di nuovo, anche magari solo una paretedipinta. C’è stato un periodo in cui il jazznon andava molto e allora proponevo feste econcerti a tema. Questo mi ha permesso direstare sulla cresta dell’onda, adeguandomiai tempi.Anche la scuola si è adeguata ai tempi, in-troducendo corsi di musica rock. Molti mihanno criticato, accusandomi di aver tra-sformato il locale in un luogo glamour. C’èstato un periodo, dopo la ristrutturazione, in

Art Ensemble of Chicago con Lester Bowie (1979)

foto Andrea Muti

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cui venivano molti personaggi importanti, siorganizzavano mostre d’arte, sfilate di mo-da, insomma era diventato un locale moltorichiesto, anche perché si offriva un serviziodi qualità elevato per la Roma di allora e an-che la clientela nel corso del tempo era cam-biata, venivano professionisti dello spettaco-lo e persone con un maggior reddito.

Il Saint Louis era diventato chic?

Si, anche negli arredi e nel servizio. Avevamotre bar, ognuno con stile diverso, uno latinocon musica salsa, uno per la visione di videoclip e l’altro tradizionale per il jazz. Anche imenù erano particolari, era sempre tuttopersonalizzato, una vera e propria operazio-ne di “restyling” che fu effettuata e che diedei suoi frutti. Il Saint Louis divenne uno deilocali migliori di Roma fino a quando nonesaurii la mia vena creativa.

Perché ha chiuso il locale ma non la scuola?

Per la scuola sono stato fortunato perché hotrovato Stefano Mastruzzi, una persona ca-pace di portare avanti un certo tipo di stile,per il locale non ho trovato nessuno per cuiho preferito chiuderlo, sarebbe stato negati-vo per il nome del Saint Louis.Il nuovo direttore era ed è una persona com-petente, volenterosa, con idee nuove e vogliadi investire, per cui ho capito che la scuolapoteva andare avanti e crescere. Sono statocontento di averla ceduta visti i risultati ot-tenuti.

In venti anni di successi non ha mai pensa-to di chiudere?

Ogni anno dicevo basta. Troppo sacrificio.Tutte le sere si faceva tardi, con mille proble-

mi da risolvere, quattro chiusure per proble-mi di licenze, disturbo della quiete pubblica,proteste dei vicini. Gestire un locale di quelledimensioni, con i gruppi dal vivo tutte le sere,dieci persone che lavorano tra chef, aiutochef, camerieri e barman è un’impresa diffi-coltosa per una persona sola. Troppo stress,tra l’insegnante assente perché malato, lo stu-dente che protestava per la mancata lezione,e così via tutti i giorni per un compenso cheera alla fine solo un onesto stipendio.

Come vede il futuro del Saint Louis?

Il jazz sta abbastanza bene in Italia, i ragaz-zi degli anni Settanta sono cresciuti e sonodiventati famosi anche all’estero dove abbia-mo un’immagine del jazz italiano moltobuona. I nostri musicisti spesso lavorano piùall’estero che in Italia, hanno recensioni sul-le grandi riviste internazionali. Il jazz italia-no vive un periodo d’oro e questo si rifletteràsia sui club che sulle scuole. Il Saint Louis haraggiunto picchi d’affluenza che non avevamai avuto prima. E cresce di anno in anno.Ciò che paga è sempre la qualità, è necessa-rio inventarsi nuovi corsi, allargare le oppor-tunità.

Se tornasse indietro rifarebbe tutto quelloche ha fatto?

Si, perché è stata una splendida avventurache mi ha dato una grande libertà, alla qua-le non rinuncerei mai. Ho deciso, ho fatto, hocreato, ecco, creato: come architetto avevobisogno di creare, come posso creare unabarca, progettarla e vederla finita così hocreato un locale, un nome, un’attività, que-sta è stata la grande soddisfazione. Sì, nonho niente da rimpiangere, è stata veramenteuna grandissima avventura!

Anthony Braxton (1979) foto Andrea Muti

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Batterista e compositore, Roberto Gatto de-butta nel 1975 con il Trio di Roma (EnzoPietropaoli e Danilo Rea).Vanta numerose eprestigiose collaborazioni con artisti del ca-libro di Steve Lacy, Phil Woods, Tony Scott,John Scofield, Billy Cobham, Pat Metheny etanti altri. Ha all’attivo ben nove album.

Quando ha suonato per la prima volta alSaint Louis?

A metà degli anni ‘70 quando la sede era inVia del Cardello e il locale funzionava da jazz-club, ma soprattutto da scuola di musica. Ioallora facevo parte del corpo insegnanti.

C’è qualche particolare episodio che la legaa questo posto?

Non uno in particolare, ma tanti episodi le-gati ai concerti. Quello era un momento im-portante per il jazz italiano; c’era una situa-zione politicamente molto difficile, era l’epo-ca degli “anni di piombo”per cui anche l’on-data musicale di allora era molto rivoluzio-naria e il locale ha prodotto, oltre ai proget-ti più tradizionali, anche molta avanguardia.C’era, comunque, una bella programmazio-ne e, insieme al Music Inn e al Folkstudio, ilSaint Louis era il locale che proponeva le co-

se più interessanti a Roma. Per buona partedegli anni ‘80 è stato un punto di riferimen-to per la musica oltre che per la didattica.Poi le cose sono cominciate a cambiare co-me pure le esigenze delle persone; di conse-guenza anche la scena musicale ha avuto unrallentamento ed il locale è stato costretto achiudere. È rimasta però la parte didatticaed oggi il Saint Louis si distingue nel pro-durre buone cose attraverso l’ insegnamento.

Quali sono i più bei concerti che ricorda e imusicisti con cui ha suonato con maggiorpiacere?

Sono tanti, in particolare ricordo che allorala grandissima orchestra “Grand’elenco mu-sicisti” che vantava la presenza del megliodel jazz a Roma: oltre al direttore TommasoVittorini c’erano, fra gli altri, MaurizioGiammarco, Eugenio Colombo, Danilo Rea,Enzo Pietropaoli. Era un’orchestra moltodivertente che ha operato principalmente alSaint Louis.

Quanto è cambiato il pubblico di jazz datrent’anni ad oggi?

Direi molto. Negli anni ‘70 il jazz veniva vis-suto come una sorta di “carboneria”, nei lo-

RobertoGATTO

Roberto Gatto foto Livio Anticoli “Master Photo”

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cali c’erano sempre le stesse facce mentreadesso i club sono pieni di turisti. Il pubbli-co è incuriosito dal jazz italiano perché ne-gli ultimi tempi fa parlare molto di sé, spin-gendo la gente a partecipare. Si tratta di unpubblico giovane che però segue questa sce-na musicale anche un po’ per moda. Inoltre,molti locali offrono un’ampia parte legataalla ristorazione mentre una volta si facevasolo musica, senza camerieri che servono aitavoli, né rumori di bar, di bicchieri....quando cominciava la musica c’era silenzioassoluto. Di sicuro oggi il pubblico è au-mentato e noi musicisti riusciamo a riempi-re un auditorium di 1.500 persone “pagan-ti” con molta più facilità. Questo ci rendegiustizia ripagandoci del pionierismo diquegli anni difficili.

Quale la ragione fondamentale di questocambiamento?

Non è cambiato solo il pubblico, c’è moltodi più. Sono subentrati il benessere, i nuovi

mezzi di comunicazione; la gente si stancacon molta più facilità, usa meno la “fanta-sia”, perché ha tutto a portata di mano. Unavolta, quando c’era scarsezza di mezzi ci siingegnava in qualche modo, evadendo conil pensiero, c’era una sorta di “magia” sor-prendendosi ogni volta che si scoprivanocose prima non conosciute che risultavanoessere grandi novità. Ecco, questo di queglianni manca e mi manca.

Quali locali potrebbero oggi considerarsieredi degli storici Saint Louis, Music Inn,Folkstudio?

Mi viene in mente solo l’Alexanderplatz.Ora stanno nascendo nuovi piccoli posti ri-volti soprattutto ai musicisti giovani, mivengono in mente il Charity e il Gregory’sche dedicano ampia parte della loro pro-grammazione alle jam session con cui sia-mo cresciuti noi da ragazzi. Pagano moltopoco i musicisti, ma funzionano da vere eproprie palestre.

Roberto Gatto, Enrico Rava, Luca Bulgarelli, Enrico Pieranunzi

foto Andrea Pacioni

Roberto Gatto foto Andrea Pacioni

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Max Roach foto Stefano Ragni

Seminario con Dizzy Gillespie (1984)

foto Andrea Muti

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Jim Hall foto Andrea Muti

Seminario con Max Roach, Lilian Terry e Amedeo Tommasi

foto Andrea Muti

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Trent’anni di carriera, oltre sessanta incisio-ni, il torinese Enrico Rava, trombettista, fli-cornista e compositore è fra i jazzisti italianipiù conosciuti a livello internazionale. Suo-na in Italia e poi a New York, Londra, Bue-nos Aires collaborando con prestigiosi musi-cisti come Gato Barbieri, Lee Konitz, DonCherry, Carla Bley, Cecil Taylor, Michel Pe-trucciani, Joe Anderson, John Abercrombie,Roswell Rudd. Attualmente dirige il quintet-to “Electric Five”.

Quest’anno il Saint Louis festeggia trent’an-ni di attività. Lei quando vi ha suonato perla prima volta?

All’incirca negli anni ‘80 quando era ancorascuola di giorno e jazz-club la sera. Un loca-le molto bello e ricordo che si suonava bene,all’epoca se ne occupava Mario Ciampà.

Qual è il più bel ricordo che la lega al SaintLouis?

Oltre ad un bel concerto in cui ho suonatopersonalmente con il mio quartetto, ricordo

in particolare una serata in cui c’era ancheGil Evans che si trovava a Roma per lavora-re con l’Orchestra della Rai e la sera era ve-nuto al Saint Louis. C’era veramente ungran clima, sembrava di essere a New York!

Crede che oggi sia molto cambiata la scenajazz romana rispetto a quegli anni?

Mah, io non credo sia cambiato molto, l’uni-ca differenza è che il pubblico si è pratica-mente moltiplicato e, se oggi si possono faredei concerti in posti che ospitano migliaia dipersone, all’epoca ciò non era pensabile fat-ta eccezione per il Festival dell’Unità dove ilpubblico però era un pubblico casuale, di si-curo non legato alla musica. Inoltre all’epo-ca la Rai dedicava molto spazio al jazz so-prattutto alla radio.Aveva ospitato Gil Evans ma non solo: Ar-chie Shepp, Carla Bley, Albert Mangel-sdorff... una volta ci ero andato anch’io conalcuni miei arrangiamenti per orchestra.Oggi invece alla radio o in televisione nonc’è nulla, di jazz si parla davvero poco, ma incompenso c’è una scena molto più vivace e

EnricoRAVA

Seminari Roma Jazz’s Cool 2005con Enrico Ravafoto Andrea Pacioni

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Enrico Ravafoto di Andrea Pacioni

se allora si poteva contare solo su SaintLouis e Music Inn, oggi ci sono l’Audito-rium, il Conservatorio di Santa Cecilia, i fe-stival che durano mesi come “Villa Celimon-tana”, le rassegne insomma. L’attività è die-ci volte più intensa che allora.

Prima accennava al fatto che il pubblico dijazz ha avuto un forte incremento negli ultimianni. Qual è secondo lei la ragione principale?

Probabilmente ha a che vedere con il fattoche è aumentata di molto la presenza dimusicisti americani in Italia ed è migliora-ta la qualità di quelli italiani che oggi perl’appunto vantano un pubblico molto am-pio. Musicisti come Stefano Bollani, Stefa-no Di Battista, Rosario Giuliani o io stessosiamo riusciti a crearci un “nostro pubbli-co” ed è strano che ci siano dei giovani ap-passionati di jazz che conoscono noi e non

sanno invece chi siano Clifford Brown oWinton Kelly.

Nella sua carriera lei vanta esperienze musi-cali internazionali, ha vissuto otto anni aNew York, a Londra, Buenos Aires, ha colla-borato con artisti del calibro di Carla Bley,Cecil Taylor, Steve Lacy, Don Cherry... cosapensa della scena romana di oggi?

Più che di “scena romana” parlerei di unaricca “scena italiana” che ha trovato il suofulcro a Roma e questo anche grazie al sin-daco Walter Veltroni che, appassionato dijazz, ha dato un impulso pazzesco alla divul-gazione e lo sviluppo di questo genere, gra-zie ai numerosi festival e rassegne presentinella città.Per questa ragione molti giovani musicistiitaliani vivono a Roma, che dopo Parigi è lacittà europea più vicina al jazz.

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Sam Rivers e Dave Hollandfoto Andrea Muti

Rosario Giulianifoto Andrea Pacioni

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Terri L. Carringtonfoto Andrea Pacioni

Seminari Roma Jazz’s Cool 2005con Paolo Damiani

foto Andrea Pacioni

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Roberto Gatto e Rosario Giulianifoto Andrea Pacioni

Woody Shaw (1977)foto Andrea Muti

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Quali sono state le sue prime esperienze alSaint Louis?

Il mio primo ricordo risale al ’76, quando ildirettore era Mario Ciampà. Ero piccolo an-cora, suonavo come giovane pianista alfianco di Al Corvini, trombettista argentinodell’orchestra della Rai. Era straordinario.Ricordo che dietro al palco c’era un grandespecchio dove controllavo continuamentese la posizione delle mani sul piano era cor-retta.

Suonare jazz negli anni Settanta era unaesperienza avventurosa, ma non bastava pervivere. Come riuscivate a mantenervi?

Vivevamo a casa dei nostri genitori, all’ini-zio l’aiuto delle famiglie è stato fondamenta-le. Io iniziai a suonare a 16 anni.A quei tem-pi c’erano i festival delle scuole. RobertoGatto suonava al S. Leone Magno con unamico che si chiamava Paolo Marocco. Ungiorno mi chiese se potevo sostituirlo, cosìdebuttai con lui, da quel momento abbiamosuonato insieme per trent’anni. Ho suonatospesso al Saint Louis con varie formazionicome il Trio di Roma assieme a RobertoGatto e Enzo Pietropaoli e con molti altrimusicisti romani. La gestione poi è cambia-

ta, ed ho iniziato a suonare in altri ambien-ti, perdendolo un poco di vista. Mi sono riav-vicinato quando Stefano Mastruzzi ha crea-to la scuola di jazz così come è attualmente.

Ha insegnato nella scuola?

Pianoforte, ma per poco: non avendo basiteoriche facevo fatica. Già a quell’epoca erauna scuola con moltissimi iscritti. Comun-que è stata una bella esperienza umana, inogni classe ho trovato vari personaggi. Al-cuni avevano un po’ di presunzione, altrivenivano lì per imparare veramente. Il jazzsi può apprendere fino ad un certo punto,bisogna capire il punto di vista di chi inse-gna, essere interessati alla personalità dichi insegna.

Quanto ha inciso sulla vostra musica il con-testo storico-politico di quegli anni?

Lo vivevamo molto. Ad esempio alla basedel free jazz c’era l’idea di fare qualcosa fuo-ri dagli schemi, una sorta di rivolta contro ilpericolo che il jazz diventasse musica di con-sumo. Quelle sono state le ultime battute deljazz di quegli anni, un discorso che si è ripre-so solo ultimamente. Sono trascorsi una ven-tina d’anni di apatia propositiva.

DaniloREA

Danilo Reafoto Marcello Di Leonardo

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Duke Giordan (1981)foto Andrea Muti

Seminario con Paul Motian (2000)

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Quanti concerti facevate allora, rispetto ad oggi?

All’epoca molto pochi, si suonava soprattut-to nei club. Ora se ne fanno di più. Primadella nascita delle scuole i musicisti jazz era-no pochi e naif, poi si sono moltiplicati, han-no acquisito molte capacità tecniche, ma adiscapito delle personalità. Essere naif dona-va forte carisma.

C’erano differenze tra i principali locali dovesi suonava jazz?

Grandi differenze. Il Music Inn era il localeprincipe, gestito da un principe, Pepito Pi-gnatelli, batterista e grande appassionato.Organizzava splendidi concerti: quando arri-vavano gli americani (ad esempio Lee Ko-nitz) ci faceva andare con loro in tournèe. Èstato il vero passo in avanti che abbiamo fat-to. Al Mississipi sono passati Art Farmer eChet Baker, due enormi esperienze. Il Mura-les era gestito da ragazzi di sinistra, la parterivoluzionaria del jazz a Roma, la più attiva.Ma sono state utili tutte queste esperienze.Devo molto a Pepito perché da lui ho impa-rato tanto, ma mi sono divertito in ognunadi queste realtà. Il Saint Louis era un po’ ametà, concepito sia come jazz-club che comeScuola.

E il pubblico? È molto cambiato?

Sting dice che il rock è finito, Miles Davis disseche il jazz era finito. Da un certo punto di vistaè vero,ma cambiando il pubblico e le generazio-ni l’interesse si rinnova. C’è però una differenza:un tempo l’appassionato di jazz era un taleba-no, un purista, non comprendeva altro che quellinguaggio e quell’atmosfera, tutto il resto nonera accettabile. Ora il pubblico è più aperto equesta libertà abbraccia anche la critica.

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Alberto Corvini e Stephan Grappelli

Seminari Roma Jazz’s Cool 2006con Marvin Stamm,

foto Andrea Pacioni

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Seminario con Marc Johnsonfoto Andrea Pacioni

Seminaro con Dizzy Gillespie (1984)

foto Andrea Muti

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Gabriele Mirabassifoto Andrea Pacioni

Enrico Rava ritratto da Andrea Pacioni

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Enrico Pieranunzi, lei è un musicista impor-tante del jazz internazionale. Come è avve-nuta la scelta di fare il musicista?

Avere un padre musicista, chitarrista jazzed esperto di musica romana, ha fatto sìche io crescessi in una casa “nutrito” di di-schi jazz. Per certi versi, il mio percorso diavvicinamento alla musica lo definirei qua-si da autistico.

Il suo strumento è da sempre il pianoforte:quali sono stati i suoi primi passi?

Ricordo di aver cominciato a suonare inpubblico a partire dal ’67/68: le persone in-teressate al jazz erano veramente poche, nonesistevano scuole, solamente qualche musici-sta sparuto. Suonavo spesso concerti di pia-no solo in piccoli locali di Trastevere, soprat-tutto in un locale che oggi non esiste piùchiamato “Il Nocciolo”. Fu lì che venne asentirmi una sera il grande trombonistaMarcello Rosa, mentre suonavo repertoriobop di Bud Powell e Wes Montgomery e mi

chiese di far parte di un quartetto. A Marcel-lo mi lega da sempre un amore comune,quello per il blues.All’epoca ero più spettatore che attore, maquella particolare fase storica nel jazz creò ilmovimento free. Nel jazz esistevano due par-titi: uno “conservatore”, legato al Dixieland,e l’altro “progressista” rappresentato dal freejazz. Io mi trovavo al centro di esse. Suona-vo il bop.

Si poteva vivere suonando soltanto jazz?

Era impensabile. Credo che la prima scossarisalga al 1969, quando Pepito Pignatelliaprì, per soli due anni, un locale chiamatoBlue Note. Prima, e attorno, c’era solo undeserto, jazzisticamente parlando; saltuaria-mente, qualche concerto al Teatro Eliseo. Lasvolta avvenne nel ’73 con l’apertura delMusic Inn, sempre ad opera di Pignatelli. Ilmaggiore merito di quest’uomo fu di porta-re per la prima volta i grandi musicisti ame-ricani a Roma. Creò un pubblico che nonesisteva.Ascoltare dal vivo il violino di Jean-

EnricoPIERANUNZI

Seminari Roma Jazz’s Cool 2005con Enrico Pieranunzi,

foto Andrea Pacioni

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Paolo Silvestri ed Enrico Pieranunzi

foto Andrea Pacioni

Seminari Jazz’s Cool 2005 Claudio Corvini

foto Andrea Pacioni

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Luc Ponty, il sax tenore Lucky Thompson,essere lì presenti è stata per noi una scuolaincredibile. Ed io ho suonato con loro a par-tire dal 1974, Pepito Pignatelli mi dettegrande fiducia.

E dal punto di vista della didattica, c’eranoscuole per i giovani musicisti?

Di alcuni locali si può dire che abbianoaperto come club, cui hanno affiancato in se-guito le scuole: la prima è stata quella ”Po-polare” di Testaccio, nel ’75 ed io sono statotra i fondatori. È stata realmente una gran-de novità: i musicisti si sono resi conto chealtre forme di conoscenza della musica alter-native ai conservatori erano possibili e ne-cessarie. Per di più a prezzi politici (la“Scuola Popolare di Testaccio” nacque dal-l’occupazione di una banca!) e accessibili.Importantissima è stata l’idea di insegnare il

jazz. Prima eravamo tutti autodidatti che siformavano sull’ascolto e sullo studio dei di-schi. Questa novità ha implicato due conqui-ste: che il jazz potesse esser insegnato e chela scuola potesse essere un veicolo valido perlo sviluppo della musicalità. In questo flussocollocherei il Saint Louis.

Che rapporto c’è stato tra lei ed il Saint Louis?

Tra il 1981 e il 1984 ho insegnato con con-tinuità presso il Saint Louis; precedentemen-te ho tenuto concerti con una certa frequen-za al jazz club. Il Saint Louis nacque per vo-lontà di Mario Ciampà con un’impostazionedidattica, da subito. E le emozioni più belledi quel periodo le ricollego proprio agli annidi insegnamento: inventavo esercizi, improv-visavo patterns.Le lezioni talvolta le preparavo, ma spesso leimprovvisavo con gli allievi e le scoperte av-

venivano insieme. Tutto ciò era fonte di unaforte emozione: ci imbarcavamo in una sor-ta di mare infinito, e chissà dove ci avrebbeportati.

Ricorda un particolare aneddoto legato alSaint Louis?

Nel 1983 ho suonato per una settimana induo con Jim Hall: una grande appassionan-te sfida per me. Contemporaneamente avevodei turni di registrazione per musiche dafilm con Ennio Morricone. A sorpresa, unadi quelle sere, mentre suonavo, me lo sonoritrovato davanti. E neppure amava il jazz…

Cos’è il jazz per Enrico Pieranunzi?

Dissipazione. Suonando il jazz ci si deve dis-sipare. Il jazz è come il flusso della vita, nonha senso fare calcoli.

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Sam Riversfoto Andrea Muti

Roberto Gatto ritratto da Andrea Pacioni

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Al Saint Louis, l’aula in cui Marcello Rosainsegna storia del jazz è gremita di giovaniche non gli danno tregua con le loro doman-de, curiosità e timori per il proprio futuro damusicisti. D’altra parte non è cosa da tutti igiorni avere come docente un uomo che, piùche un insegnante di storia del jazz, del jazzè un pezzo di storia.Marcello Rosa è stato in tournée con LionelHampton, ha diviso il palco con Earl Hinese Peanuts Hucko, il trombone con SlideHampton e Trammy Young, per citarne soloalcuni. Per lui, trombonista, compositore,arrangiatore, autore e conduttore di pro-grammi radiofonici, non è inusuale avere da-vanti tanto pubblico.Nato ad Abbazia, oggi croata ma alloraitaliana, il 16 giugno 1935, Marcello Rosatrova nella Roma degli anni Sessanta l’am-biente più favorevole allo sviluppo dellasua straordinaria versatilità artistica.

Gli studenti di musica Jazz tendono a sce-gliere strumenti come il pianoforte, il sax ola tromba, difficilmente scelgono il trombo-ne. Lei, invece, da 55 anni vive in simbiosicon questo strumento. Come è nata questapassione?

La mia fortuna è stata di avere una madreche suonava molto bene il pianoforte. È sta-ta lei, quando avevo solo 5 anni, a regalarmile prime lezioni, naturalmente di piano. Mifece prendere lezioni dalla sua ex insegnan-te, una vecchia amica di famiglia.Malgrado avessi studiato molto seriamente,a 12 anni ebbi quella che ho chiamato “lacrisi del settimo anno”, una sorta di rifiutoper il pianoforte classico. Non volevo piùsentir parlare di musica, o, meglio, iniziai acapire che la musica che mi interessava eraaltra. La fine della guerra aveva lasciato die-tro di sé la scia delle sonorità degli america-

MarcelloROSA

Marcello Rosa

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ni e fu allora che scoprii che esisteva un’al-tra musica e che questa, il jazz, mi stimolavamolto di più rispetto a quella che mi venivaseveramente impartita dalla mia anziana in-segnante.Dopo un paio di anni iniziai a prendere le-zioni di chitarra classica, ma la vera rivela-zione avvenne a 16 anni, quando mia madremi regalò il disco di un trombonista jazz.Ascoltando quel 78 giri mi chiesi:“Ma cos’èquesto suono scuro e malinconico?”Qualun-que cosa fosse, di qualunque strumento sitrattasse, avevo capito che quello doveva es-sere il mio suono. Era il trombone di Kidoryche intonava “Savoy Blues”. Tutto è comin-ciato da lì.

E dopo tante esibizioni da giovane pianistaforzato, a 19 anni finalmente l’esordio conquello strumento dalle sonorità malinconi-che, che sarebbero diventate per sempre iltimbro della sua poetica…

Sì, infatti era il 1954 quando tenni la miaprima esibizione come trombonista. Semprein quell’anno ascoltai nel giro di pochi mesitre grandissimi trombonisti di jazz.Il primo, Bill Harris, era il più moderno del-l’epoca, il secondo era Trammy Young, trom-bonista degli All Stars, la band stabile diLouis Armstrong.Il terzo era proprio Kidory che con “SavoyBlues” già mi aveva mostrato la via. Dei treKidory era il più antico, il padre di tutti itrombonisti jazz.Si può dire, quindi, che io abbia studiato lastoria dei trombonisti jazz al contrario: dalpiù moderno al più antico.Questa è stata la mia fortuna perché in talmodo sono stato educato in maniera globa-le, senza mai privilegiare uno stile piuttostoche un altro.

Ero affascinato da tutte le possibilità deltrombone jazz, che fosse moderno, antico,d’avanguardia o tradizionale, non mi impor-tava nulla. Anche in futuro non mi sarei mailasciato limitare dalle cosiddette etichette digenere.Il jazz nei suoi 100 anni di vita ha cambiatoetichette decine di volte: ogni 10 anni c’èstato un movimento o una corrente nuova.Si tratta di una normale evoluzione, ma co-me si può pensare che l’una debba elimina-re l’altra?Ma quale avanguardia, ma quale tradizione:il jazz è uno solo!

Che ricordo ha del Saint Louis, storico loca-le di via del Cardello?

Il Saint Louis fu la creazione di Toht, untrombettista romano il cui nome di battesi-mo era Luigi, di qui la scelta del nome dellocale. Luigi Toht era davvero un grande ap-passionato, tanto che dopo il Saint Louisavrebbe fondato anche il Mississipi JazzClub e poi addirittura l’Alpheus.Toht era un sognatore ma seppe realizzaretre pilastri fondamentali, tra i quali, in fon-do, solo il Mississipi non ha resistito nel tem-po: il Saint Louis, infatti, è sopravvissutotrasformandosi in scuola di musica.Al locale Saint Louis suonai molto, manon si ascoltava solo il jazz, sul palco si al-ternavano moltissimi artisti di qualunquestile.L’avvio di tutto quel fermento artistico loaveva dato il Music Inn, locale entrato nellastoria; però il Saint Louis di via del Cardel-lo aveva la possibilità di accogliere unaquantità maggiore di pubblico, dando a tan-tissima gente l’opportunità di toccare conmano il vero jazz.Mi ricordo l’ampia sala, la più capiente e

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accogliente tra i locali di jazz romani, miricordo le pareti dipinte di nero e il fintomuretto di mattoni rossi. Rispetto agli al-tri locali di jazz, il Saint Louis era senz’al-tro il più curato a livello scenografico, in-fatti l’altro fondatore, Mario Ciampà, diprofessione architetto, ebbe cura di realiz-zare personalmente una bellissima sceno-grafia. Era una vera soddisfazione per noisuonare in quell’ambiente davanti a tantopubblico!

Ricorda qualche personaggio in particolaretra i grandissimi che hanno suonato al SaintLouis?

Il Saint Louis ha organizzato tournée dan-domi la possibilità di suonare con personag-gi che per me erano nel mito, ad esempioBud Freeman, il primo vero sax tenore deljazz.Bud Freeman allora era già in età, ma erasempre elegantissimo: vestito di bianco, confoulard e baffetti, sembrava un colonnelloinglese. Aveva fama di gran viveur e la mo-glie, che evidentemente sapeva che questafama non era senza fondamento, aveva pre-teso che io, in qualità di leader del gruppo, el’allora direttore del Saint Louis, sottoscri-vessimo un contratto in cui ci impegnavamoa tenere il marito, già settantatreenne, lonta-no dall’alcool e dalle donne!

È cambiato dall’epoca del Saint Louis e delMusic Inn il modo di ascoltare il jazz e il suopubblico?

Adesso il jazz lo fanno i ristoranti… formulaun po’ ambigua, ma funziona. Una volta alMusic Inn non c’era altro da fare che spac-carsi il sedere sulle panchette di mattoni estare a sentire la musica, poi, una volta tor-

nati a casa, i vestiti bisognava buttarli perchéavevano preso di muffa! Quello, però, era un momento in cui c’era-no ancora i più grandi in attività, dunquene valeva davvero la pena. Adesso ci sonoposti infelici in cui se non si è seduti tra iprimi dieci sotto al palco, si tende automa-ticamente a distrarsi e a parlare coi vicini,specie se davanti c’è una colonna che bloc-ca la visuale!

Ma allora i musicisti per chi stanno suo-nando?

Forse per quei quattro a portata di colpi ditrombone, che, se non si sta attenti, si finiscecol colpire loro e il cameriere con i piatti al-l’amatriciana!E che dire del pubblico? Il pubblico ha famedi amatriciana, non certo di jazz!Una sera il trombettista Art Farmer, un ne-ro grosso e robusto, stava suonando la bal-lata “Body and Soul”, ad un tratto si chinaverso un tavolo di spettatori completamen-te presi dalle loro discussioni private e di-ce con accento straniero e voce profonda:“Disturba se suono?”. C’è stato un attimodi gelo seguito dal doveroso silenzio, cheperò dopo le prime quattro battute si è dis-solto nuovamente.Negli anni Settanta, invece, si stava tutti ac-calcati a gioire soltanto dell’ascolto dellamusica. Un chiaro esempio era il Folkstudiodi via Garibaldi: lo chiamavamo “l’autobus”perché era un corridoio lungo e stretto con lesedie ai lati, la cassa all’ingresso e in fondoun palchetto.C’era Harold Bradley, ex giocatore di foot-ball americano venuto in Italia per studiareil bel canto e dipingere; le persone nell’auto-bus lo guardavano estasiate quando nelledomeniche del 1962 intonava canti di lavo-

Umberto Fiorentino e Francesco Puglisi

foto Andrea Sabatello

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ro, alternando ogni strofa ad un vero colpodi martello!

Lei è stato il primo disc-jockey radiofonicodi jazz. Come ha vissuto questa esperienza?

Ho iniziato a lavorare in radio dopo avervinto un concorso nazionale bandito dallaRai. Ho sostenuto un esame per program-matore musicale. Con quel concorso in Raientrarono assieme a me anche Arbore eBoncompagni.Nel 1968, dopo un lungo periodo di tiroci-nio, debuttai come autore di “Jazz Jockey”,la prima trasmissione radiofonica di jazz.Per più di 30 anni ho avuto una rubricaradiofonica fissa alla Rai. Si è trattato diun’esperienza eccitante ma difficile perchéè stata una lotta costante.Ho dovuto fare delle battaglie proprio con-tro coloro che si dicevano appassionati dijazz, come ad esempio Leone Piccioni, al-lora direttore generale della Rai.Piccioni era un grande appassionato di jazz,tanto da arrivare fino ad Harlem per sentireil jazz direttamente dagli afroamericani, mariteneva che i radioascoltatori non avesserogli strumenti per capire quella musica! Maallora io che ci stavo a fare? Io ero lì allo sco-po di far capire il jazz agli ascoltatori!Dopo un anno dall’inizio della trasmissionePiccioni mi chiamò nel suo ufficio e mi dis-se che il titolo “Jazz Jockey” non andava be-ne, perché la gente appena sente la parolajazz cambia immediatamente canale.Mi opposi fermamente e lo accusai di esse-re uno snob, ma lui riuscì ugualmente adimpormi un altro titolo. Da allora la tra-smissione si chiamò, parafrasando un pez-zo di Ellington, “Un certo ritmo…”.

Non c’era più traccia della parola jazz nel ti-

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tolo della trasmissione di allora, ma oggi inradio non c’è proprio più traccia del jazz!

Purtroppo è vero. Il livello dei giovani e laloro curiosità sono cresciute in manieraesponenziale, eppure non c’è più uno spaziodedicato al jazz, né in radio né tanto menoin televisione!All’epoca felice del Music Inn ho lavorato aprogrammi radiofonici come “Jazz Concer-to” di Adriano Mazzoletti.I gruppi jazzistici americani che arrivavanoin Italia venivano registrati dal vivo, poi latrasmissione veniva montata in differita e iofacevo le presentazioni.In televisione c’erano persino intere seratededicate al jazz.“Quando i jazzisti si incon-trano” fu la prima trasmissione di musicajazz a colori e gli ospiti erano musicisti delcalibro di Oscar Valdambrini, Franco Cerri,Gianni Basso, Hengel Gualdi, AmedeoTommasi.Sulla parete di un’aula del Saint Louis c’èuna foto che mi ritrae in uno studio televisi-vo durante un concerto jazz in onda su RaiUno. Ero vestito di bianco e stavo suonandoun brano di Tommy Dorsey; alle mie spalle,tra i componenti dell’Orchestra della Rai,c’era Dino Piana, uno dei più prestigiositrombonisti italiani.L’intera scenografia, il vestito bianco, le trelettere dipinte sul sipario, volevano essere unomaggio al trombonista Tommy Dorsey, cheaveva suonato in una posa identica. In que-sto caso, però, le tre iniziali sullo sfondo era-no quelle del mio nome “MRT”: “MarcelloRosa Trombone”, che era anche il titolo diquella trasmissione, trasformatosi poi in “Econtinuavano a chiamarlo trombone”.Ma, vera novità nel panorama dell’inse-gnamento della musica, il Saint Louis digiorno era una scuola di jazz. Sono stato

chiamato a insegnare sin dal primo annodi apertura, ma gli allievi che avevano scel-to di imparare a suonare il trombone era-no solo in quattro, per questo la mia colla-borazione durò un anno soltanto. Dal se-condo anno mi sostituì il compianto Dani-lo Terenzi.Nel 2004 si è fatto vivo l’attuale direttoreStefano Mastruzzi proponendomi una nuovacollaborazione, che prevede, non solo l’inse-gnamento del trombone, ma anche classi diascolto di musica jazz e laboratori di musicad’insieme, che, devo dire, mi intrigano molto.Mentre una volta ero molto critico rispettoalle scuole, adesso mi rendo conto di quantapresa abbiano sui giovani e rimpiango dinon aver avuto da ragazzo esperienze simili,dato che scuole di questo tipo, a quell’epoca,non esistevano affatto.Per un giovane che voglia impratichirsi mu-sicalmente in modo non solo culturale, maanche professionale, è una fortuna potercontare su centri di formazione di questogenere.Non c’è più, a differenza del passato, solol’insegnamento domiciliare, individuale e unpo’ noioso, qui si sta insieme e si gioca con lamusica e il gioco è fondamentale se si vuoleapprendere profondamente.Credo che la mia esperienza debba esseremessa al servizio dell’allievo per aiutarlo atrovare il proprio stile, senza ricalcare i suoimiti, altrimenti si creano dei cloni inutili.In America oggi vi è tanta gente che suonain maniera tecnicamente pazzesca, eppure,una volta, quando si sentiva il suono di unjazzista, quel suono era immediatamente ri-conoscibile.Ogni musicista aveva il suo personalissimocolore: due strumenti uguali suonavano inmaniera diversa a seconda dell’anima delmusicista che avevano dentro.

Massimo Urbani (1981)foto Andrea Muti

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Jim Hallfoto Andrea Muti

Dizzy Gillespie (1984)foto Andrea Muti

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Gianluca Petrellafoto Andrea Pacioni

Seminario con Scott Henderson e

Marco Manusso (2001)

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Saint Louis Big Band diretta da Bruno Biriaco

Seminari Jazz’s Cool 2006con Bob Stoloff

foto Andrea Pacioni

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Joe Lovano ritratto da Andrea Pacioni

Charles Tolliver

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Il suo primo gruppo si chiamava Quintettodi Lucca, siamo al jazz italiano degli anni’50. Che tempi erano?

Il gruppo, nato per iniziativa di mio fratelloVito, ruotava attorno a una cantina delizio-sa dove facevamo incontri, jam session econcerti.Ricordo con affetto l’anno in cui riuscimmoad organizzare una rassegna di sei artisti, trai quali c’erano Armando Trovaioli, FrancoCerri, Renato Sellani e il clarinettista ameri-cano Bill Smith. Fu lui che ci portò a Romaper il festival del jazz che si svolgeva al Tea-tro Quirino.Fu un successo. Andammo al festival del jazzdi Sanremo, vincemmo la Coppa del Jazz. Midedicai interamente alla musica, facendomile ossa in una nave da crociera che viaggia-va fra New York e i Caraibi.Al ritorno in Italia c’era Chet Baker che siinnamorò del nostro gruppo.

Poi si trasferì a Roma.

Era il ’67, suonavo jazz quando e come pote-vo e mantenevo la famiglia lavorando cometurnista o alla radio con Adriano Mazzoletti.

Negli anni ’70 il boom del jazz rock contagiòanche l’Italia e il Perigeo ebbe grande successo.

Il Perigeo nacque nel ‘72 ed ebbe cinque an-ni felici di vita. Era un periodo vivace, anchese era l’epoca della contestazione anche aiconcerti. Spesso capitava che eravamo noi adover pagare i danni del nostro pubblico.Ma ricevemmo molti riconoscimenti ed an-cora oggi i dischi del Perigeo continuano avendere. Ci penso ancora, tanto che sto pro-gettando un nuovo gruppo, gli Apogeo conevidente riferimento a quell’esperienza.

Lei ha suonato praticamente in tutti i localiromani. Quali ricordi conserva?

GiovanniTOMMASO

Seminari Jazz’s Cool 2006con Giovanni Tommaso,

foto Andrea Pacioni

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Il Folkstudio era eroico. Al Music Inn eromolto legato per l’amicizia verso Pepito Pi-gnatelli. Fui io a organizzare l’ultima stagio-ne di concerti, dopo la morte sia di Pepitoche della moglie Picchi. Poi decidemmo dicedere il locale ad una persona verso la qua-le, non posso dimenticarlo, nutro un certorancore. Si era infatti impegnato a continua-re la tradizione del locale e noi ci credemmo.Un anno dopo ne fece una pizzeria...

Com’è stato il suo rapporto con il Saint Louis?C’è un aneddoto che ricorda in particolare?

Lo frequentavo spesso, aveva una program-mazione più aperta verso le contaminazionidel jazz rispetto al Music Inn. Ricordo, damusicista, una rassegna straordinaria che fuorganizzata al Saint Louis con Kenny Clark,Massimo Urbani e Amedeo Tommasi. Oggi ilDirettore della Scuola, Stefano Mastruzzi,mi invita spesso a svolgere dei seminari.

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Paul Motian con Francesca Gregori e Diego Bongiorno

Stefano Mastruzzi e la B.I.M. Orchestra di Giuseppe Tortora (2006)

foto Andrea Pacioni

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Copertina “Italian Jazz Real book” (2005)

Luciano Linzi e Stefano Mastruzzi,presentazione di “Italian Jazz Real book”

alla Casa del Jazzfoto Fausto Franceschini

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Seminario di Robben Ford (2001)

David Murray Trio 1979foto Andrea Muti

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Susanna Stivali ritratta da Andrea Piacioni

Joe Passfoto Andrea Muti

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Sassofonista e compositore, Maurizio Giam-marco gode ormai di una carriera ultratren-tennale maturata al servizio del jazz. La suaformazione, cresciuta tra i club e i viaggid’oltreoceano, lo connota tuttora in una po-sizione di costante confronto tra la tradizio-ne classica jazzistica e una raffinata ricercadi sintesi formale del jazz contemporaneo.Tra i suoi progetti musicali, un quartetto colpianista americano Phil Markowitz e ilquintetto dei Megatones.

Quando è iniziato il suo rapporto con ilSaint Louis?

Credo sin dagli esordi. Ho un ricordo indele-bile dei miei concerti al Saint Louis, e dellaformazione con cui andavo a suonare dallafine degli anni Settanta, quando ho avutol’opportunità di inserirmi nel calendario deiconcerti del Jazz-Club, un importante puntodi riferimento per la crescita del jazz a Ro-ma e per la nostra crescita personale di mu-

sicisti. All’epoca, i locali erano il Music Inn,il Murales e il Saint Louis. Era soprattutto ilSaint Louis ad offrire più spazio ai musicistidella mia generazione.

Come musicista jazz come descriverebbe ilclima musicale a Roma negli anni Settanta?

Ne ho un ricordo splendido. Fu un periodoin cui il jazz era da considerarsi una musicaper un pubblico “di nicchia”.Oggi è diverso, viviamo un momento stori-co di grande riconoscimento dell’attivitàche noi stessi abbiamo portato avanti permolti anni.All’epoca il jazz era “la carboneria” più to-tale. Il nostro lavoro si basava su passioneed entusiasmo. In linea di massima allorasi suonava meno rispetto ad oggi, anche sea Roma, grazie alla presenza del SaintLouis e di altri locali, non ci potevamo la-mentare.Il Saint Louis ha passato varie fasi: una

MaurizioGIAMMARCO

Seminari Jazz’s Cool 2006con Maurizio Giammarco

foto Andrea Pacioni

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prima fase “da battaglia”, in cui il localeera un pretesto per ascoltare la musica.Negli anni Ottanta, grazie alla ristruttura-zione voluta da Mario Ciampà, ci si potevaanche mangiare. Di quel locale resta laScuola che, vedo, ha grande successo.

Negli anni Novanta il jazz ha visto nascereun nuovo pubblico di appassionati. Perso-nalmente, Lei come ha vissuto questa nuovafase di musica jazz?

Il jazz è una musica che raccoglie un pubbli-co trasversale a livello di età. Solo che manmano che si cresce, si è meno disponibili adandare ai concerti per questione di tempo edi impegni. Negli anni Novanta ho percepi-

to un po’ di crisi rispetto al decennio prece-dente Ottanta e degli anni Settanta che sonostati invece momenti felici per la musica ingenerale a livello mondiale.La musica è qualcosa di fluido che vive sulmomento, con belli e brutti concerti, a pre-scindere dalle fasi storiche nelle quali si vive;dipende dal clima, dal luogo, dai musicisti,dal pubblico.

Cosa caratterizzava nei decenni passati lamusica jazz e come viene vissuta attual-mente?

Negli anni Settanta e in gran parte degli Ot-tanta, la musica era un fatto importante sot-to l’aspetto ideologico e spirituale.

Seminario con Peter Erskine (2001)

Eddy Palermo, Lee Konitz e Jim Hall

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Seminari Jazz’s Cool 2005con Fabrizio Bosso

foto Andrea Pacioni

James Moody,foto Napolitano e Giambalvo

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Oggi invece si apprezza lo spettacolo e laprofessionalità. Io ho nostalgia della passio-ne con cui si viveva la musica allora. In uncerto senso gli anni Novanta hanno rappre-sentato un periodo di declino.Attualmente il jazz vive di buona salute an-che se appare una musica “modaiola” spessorecepita in modo superficiale ed epidermicoda parte di un pubblico che vi si accosta perla prima volta, spesso privo di basi serie pergoderne di più.

Ricorda un episodio particolare riferito allasua esperienza musicale con il Saint Louis?

Sì, ho un ricordo indelebile quando suonam-mo con il Grande elenco musicisti di Tom-maso Vittorini, tra la fine degli anni Settantae l’inizio degli Ottanta. È un aneddoto rive-latore del clima di quegli anni; durante unconcerto, nel bel mezzo tra un pezzo e l’al-tro, fummo interrotti dall’intervento di unospettatore che chiese spiegazioni sul signifi-cato della musica che stavamo suonando. Unepisodio oggi impensabile.Lo spettatore chiese l’apertura di un dibatti-to sul brano che si stava suonando. La rispo-sta di Tommaso Vittorini fu molto scherzosa,fece un’analisi musicale del pezzo che aveva-

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Massimo Pironefoto Andrea Pacioni

Rosario Giulianifoto Andrea Pacioni

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mo appena suonato, come per dire “la musi-ca si spiega da sola”.

Nel suo vissuto personale, come definirebbeil Saint Louis, come Club e come Scuola, equali impressioni ha maturato a riguardo?

Il Saint Louis ha cambiato faccia moltevolte come Club, e da qualche anno hainaugurato un nuovo stile di gestione.Mentre anticamente i locali cercavanosempre di rimanere fedeli a se stessi, ilSaint Louis invece ha sempre provato arinnovarsi, ad andare oltre.In questo senso è stato anticipatore deltrend attuale, in cui i locali vivono maga-ri solo una stagione e poi chiudono, inse-guendo anche un po’ i furori del pubblico.A me piacciono i locali che mantengonoun loro assetto specifico, tuttavia, riguar-do alla Scuola, sono molto soddisfatto deicorsi che il Saint Louis organizza in esta-te, queste master class cui partecipo comedocente.Si è rinsaldata una mia collaborazione conla Scuola, cosa che mi fa molto piacereperché, sinceramente, reputo il Saint Louisuna delle realtà didattiche più importantiche abbiamo in Italia.

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Maria Pia De Vitofoto Antonio Stracquacursi

Lee Konitz e Martial Solal foto Andrea Muti

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Paolo Fresu, considerato fra i trombettistiitaliani artisticamente più completi, ha al-le spalle un enorme bagaglio di esperienzeprofessionali.Fra le tante collaborazioni con grandi mu-sicisti del panorama jazz italiano ed inter-nazionale, da ricordare quelle con il per-cussionista Trilok Gurtu, Roberto Gatto, ilpianista-fisarmonicista Antonello Salis,Dhafer Youssef ed il contrabbassista Furiodi Castri.Le sue collaborazioni si estendono anchein ambito poetico ricordando l’album “Os-si di seppia” del 1991, in cui si fa chiaro ri-ferimento ad Eugenio Montale, e quellecon la poetessa Patrizia Vicinelli ed il ro-manziere Stefano Benni. Legato al mondodelle colonne sonore, Paolo Fresu ha com-posto quelle per i film “Il Prezzo” di Rolan-do Stefanelli, “L’Isola” di Costanza Quatri-glio, “Te lo leggo negli occhi” e “Sonos eMemoria” di Gianfranco Cabiddu e “La se-conda notte di nozze” di Pupi Avati.

Lei è uno dei trombettisti italiani più ap-prezzati, pur giovanissimo ha alle spalle no-tevoli esperienze professionali con grandimaestri del Jazz e molte esibizioni in variluoghi d’Italia e del mondo. Ricorda la suaprima volta al Saint Louis?

È stato circa 15 anni fa, insieme a BrunoTommaso e Paolo Damiani. Poi ricordo diaver suonato con Ettore Fioravanti in ungruppo riunito per l’occasione, un progettoche però non era mio. Sempre in quel perio-do ho tenuto una Master Class sull’improv-visazione e il linguaggio jazz.

L’esperienza al Saint Louis ha contribuito inqualche modo a farla conoscere nell’am-biente musicale o vi è arrivato già da artistaaffermato?

Il mio quintetto italiano è nato nel 1984, cheè l’anno in cui ho ricevuto il premio Radio1come miglior talento jazz italiano. In quegli

PaoloFRESU

Paolo Fresu e Stefano Mastruzzi

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anni mi stavo formando musicalmente. Lemie partecipazioni al Saint Louis, come ne-gli altri locali romani di allora, come il Mu-sic Inn e il Folkstudio, erano in funzione del-le mie trasferte romane, durante gli anni delmio apprendistato fra l’83 e l ‘88.

C’è molta differenza con il clima musicaledi oggi?

La qualità del pubblico in Italia è cresciutain pari misura con la qualità dei musicisti. Iljazz italiano non ha mai avuto tanto succes-so come negli ultimi dieci-quindici anni. C’èpiù maturità e determinazione. Ci siamo al-lontanati dai modelli americani da cui di-pendevamo totalmente.C’è un grande pubblico del jazz che gira neinumerosi locali e nei teatri ma non compra idischi perché preferiscono l’esibizione livedell’artista. C’è sempre più voglia di ascolta-

re i musicisti dal vivo e di condividerne l’e-sperienza.

Lei ha mostrato interesse per i più diversiterritori artistici, dalla poesia con PatriziaVicinelli al romanzo con Stefano Benni, conil cinema e le colonne sonore di vari film. C’èancora qualche territorio che ha voglia diesplorare?

Spero che ci sia. È vero che ho fatto tante co-se ma non per cavalcare il successo. È fonda-mentale fare sempre cose diverse, la nostracapacità di rinnovamento sta nella nostracapacità di guardarci intorno. Se ci chiudia-mo in noi stessi è finita, non si arriva mai danessuna parte.

Parafrasando il titolo di un suo album – co-lonna sonora del film di Gianfranco Cabid-du “Sonos e Memoria”– se dovesse abbinare

Rossana Casalefoto di Livio Anticoli “Master Photo”

Seminari Jazz’s Cool 2006con Sylvain Luc,foto Andrea Pacioni

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un pezzo ai ricordi che ha del Saint Louis,quale potrebbe essere?

Sceglierei un pezzo romano, forse più unmood in realtà, un odore di suono, perché inquegli anni arrivavo a Roma dalla Sardegnae mi sentivo un po’ spaesato. Mi chiedevo co-me mai musicisti come Bruno Tommaso ePaolo Damiani telefonassero a me che ero inSardegna per venire a suonare a Roma.Ricordo la casa all’Eur di Ettore Fioravantiche aveva ricavato una sala prove utilizzan-do un catalogo di maniglie di porte preso dalnegozio dei genitori.Ho un ricordo sordo di questa sala prove.Sceglierei, pertanto,“Roccellanea”con PaoloDamiani e Gianluigi Trovesi, che è stato qua-si il mio primo disco registrato e le collabo-razioni molto particolari insieme a BrunoTommaso, come la colonna sonora per il filmmuto di Buster Keaton “Steamboat Bill, Jr”.

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Stefano Mastrangelofoto Andrea Pacioni

Freddie Hubbardfoto Andrea Muti

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Antonello, lei è uno dei talenti più originalidel panorama jazzistico italiano, le sue origi-ni sono sarde e ai primi anni ’70 risale l’ar-rivo a Roma del trio Cadmo: Antonello Salisal piano, Riccardo Lay al basso elettrico eMario Paliano alla batteria. Come fu il suoimpatto con la scena jazzistica della Romaanni Settanta?

Col trio Cadmo arrivammo a Roma nel 1974con immenso entusiasmo e fortissima emo-zione. Ci eravamo fatti le ossa in Sardegnacon la musica da ballo.Ma volevamo suonare la musica che ci pia-ceva, avevamo trascorso anni nelle cantine astudiare e scrivere pezzi nostri che spaziava-no dal rock progressivo al free jazz.Avevamo una passione per la musica di tut-ti i tempi, soprattutto attrazione per quellacontemporanea, per la sua turbolenza.

A Roma negli anni ’70 c’era il Music Inn,poi arrivò il Saint Louis...

Abbiamo cercato di suonare ovunque, ancheaccampandoci con furgone e fornellino fuori

dai club, quasi come zingari! Del Music Innricordo l’incontro con musicisti importanti,quali Charlie Mingus, Ornette Coleman,Dexter Gordon. Quanto al Saint Louis nonricordo di aver mai visto un luogo tanto bel-lo in cui suonare jazz. Il jazz era legato allecantine (lo stesso Music Inn lo era), a spazipiccoli.

Fare il musicista jazz in quegli anni era dif-ficile, anche economicamente?

Facevamo realmente la fame, ma vivere larealtà romana rappresentava di per sé unafortuna: attorno, per i musicisti, c’era sola-mente una landa desolata.

Ricorda molti musicisti di talento, ripensan-do a quegli anni?

Massimo Urbani è stato uno dei primi grandimusicisti incontrati a Roma. Poi, man mano,abbiamo collaborato con i jazzisti stranieri ditalento: ricordo ancora l’emozione della pri-ma volta in cui ho affiancato Enrico Rava perpartecipare ad un suo lavoro. Poi Lester

AntonelloSALIS

Antonello Salisfoto Roberto Cifarelli

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Seminario con Robben Ford (2002)

Joey Baron ritratto da Andrea Pacioni

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Bowie, l’Art Ensemble of Chicago e PatMetheny, avvicinandoci ai tempi più recenti.

Lei ha esperienza di insegnamento?

Non ho mai insegnato e sinceramente nonsaprei da dove iniziare, non mi sono maisentito all’altezza. Ho partecipato esclusiva-mente ad incontri sulla musica che definirei“chiacchierate”: in tal caso mi fa molto pia-cere parlare della mia musica, soprattutto semi pongono domande intelligenti. Ma ancheparlare a ruota libera permette di capire piùa fondo chi hai di fronte.Mi viene in mente un singolare concerto alSaint Louis di Sun Ra, piano solo. Il primogiorno accanto al piano c’era una batteria sucui era seduto un ragazzo di colore.È stato imbarazzante: non suonava nulla,ogni tanto metteva mano alla batteria e SunRa lo zittiva. Mi sono sempre chiesto cosafosse successo, quella sera…Oggi si avverte la mancanza di jazz-club co-me il Saint Louis. È infatti emozionante ri-trovare in Europa quei cinque-sei locali “sto-rici” inossidabili, che nel tempo non sonocambiati.Si respira un clima che ti fa fare un salto nelpassato, quello dei club alla vecchia manie-ra, che in Italia non esistono più. Purtroppoa livello globale i costumi sono cambiati: lagente frequenta i locali dove si suona il jazzquasi esclusivamente per andarvi a mangia-re, dando l’impressione che il jazz faccia dasottofondo.Forse non è sbagliato parlare di un’epocanella quale si confezionano prodotti di pocasostanza e qualità in tutti i settori. Arte com-presa, purtroppo.Il tornaconto economico innanzitutto, quin-di soldi… per questi oggi si venderebbe l’a-nima al diavolo.

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Stefano Mastruzzi ritratto daAndrea Pacioni

Rosario Giulianifoto Andrea Pacioni

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Charles Tolliver

Seminario con Dizzy Gillespiein primo piano Massimo Nunzi (1984)

foto Andrea Muti

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Seminario Jazz’s Cool 2006con Marcus Miller, Giorgia Mileto,

Gianfranco Gullotto e Stefano Mastruzzifoto Andrea Pacioni

Saint Louis Big Band (2004) diretta da Gianni Oddi

foto Andrea Pacioni

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Saint Louis College of Music,sede di via Urbana, Roma

Peanuts Hucko e Alberto Corvini

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Stefano Di Battista,inaugurazione seconda sede

del Saint Louis (2002)

Tiziana Rivalefoto Antonio Stracquacursi

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Gegè Telesforo foto Livio Anticoli “Master Photo”

Steve Lacy Quintet con Irene Aebi (cello),

Kent Carter (contrabasso) e Steve Rotts (sax)

foto Andrea Muti

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Giampaolo Ascolese

Stefano Sabatinifoto Max Pucciariello

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Foto Andrea Pacioni

Seminario Jazz’s Cool 2005con Roberto Gatto

foto Andrea Pacioni

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Seminario con Dave Holland (2001)

David Murrayfoto Fabrice Parfait

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Salvatore Bonafede (1995)foto Mauro D’Agati

Seminario Jazz’s Cool 2006con Kenny Werner

foto Andrea Pacioni

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Seminario Jazz’s Cool 2005 con Enrico Pieranunzifoto Andrea Pacioni

Seminario Jazz’s Cool 2006 con Dedé Ceccarellifoto Andrea Pacioni

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Steve Lacy (1980)foto Andrea Muti

Joey Garrison (2001)foto Marco Mancini

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Seminario con Frank Gambale (2003) tra Marco Manusso e Stefano Mastruzzi

Lee Konitzfoto Vitaliano Napolitano

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Seminario Jazz’s Cool 2005 con Mark Murphy

foto Andrea Pacioni

Enrico Ravafoto Andrea Pacioni

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Seminario con John Taylor (2002)

Seminario Jazz’s Cool 2006con Marcus Miller

foto Andrea Pacioni

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Enrico Pieranunzi ed Enrico Ravafoto Andrea Pacioni

Andrew Cirille Quartet (1980)foto Andrea Muti

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Amedeo Tommasifoto Andrea Muti

Philip Wilson Trio (1979)foto Andrea Muti

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Tratto da “Il Messaggero” del 9 Marzo 1988

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Kenny Clarke (1978)foto Andrea Muti

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