Jack Vance - Ciclo della Terra Morente 2 - Cugel L'Astuto

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Jack Vance CUGEL L'ASTUTO (The Eyes of the Overworld 1966)

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Jack Vance

CUGEL L'ASTUTO (The Eyes of the Overworld 1966)

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I IL SOPRAMONDO

Sulle alture affacciate sopra al fiume Xzan, nel luogo in cui sorgevano antiche misteriose rovine, Iucounu, il Mago Riden-te, si era edificato una dimora secondo il suo gusto personale: una struttura eccentrica, tutta balconate, tetti appuntiti, balla-toi aerei, cupole, e tre torri a spirale di vetro verde, attraverso le quali la luce purpurea del Sole filtrava splendendo di scintil-lii guizzanti e di colori bizzarri.

Dietro a quella dimora e al di là della vallata, le colline basse si allontanavano, fino a perdita d'occhio, ondulanti come dune. Il Sole proiettava mezzelune mutevoli d'ombra nera: ma per il resto, le colline rimanevano prive di caratteristiche salienti, deserte, solitarie. Lo Xzan, che nasceva nella Foresta Vecchia a oriente di Almeria, scorreva più sotto; e poi, tre leghe ancora verso occidente, si univa allo Scaum. Lì sorgeva Azenomei, una città antichissima, che risaliva a tempi immemorabili, ormai rinomata esclusivamente per la sua fiera, che attirava la gente da ogni parte della regione. Alla Fiera di Azenomei, Cugel ave-va eretto un chiosco, per vendervi i suoi talismani.

Cugel era un uomo dalle molte qualità, con un'indole nello stesso tempo flessibile e ostinata. Aveva lunghe gambe, mani molto svelte, dita leggere, e lingua mielata. I suoi capelli erano simili nel colore alla più nera delle pellicce, e gli scendevano sulla fronte, per poi arricciarsi nettamente proprio al di sopra delle sopracciglia. I suoi occhi saettanti, il lungo naso curioso e la bocca socchiusa davano al suo volto, piuttosto 'magro ed os-suto, un'espressione mista di vivacità, di candore e di affabili-tà. Aveva conosciuto parecchie vicissitudini, e da esse aveva appreso una elasticità, una discrezione finissima, una perfetta padronanza tanto della spavalderia che della furtività. Era ve-nuto in possesso di una vecchia bara di piombo e, dopo averne buttato via il contenuto, ne aveva ricavato tutta una serie di losanghe di quel metallo. Dopo avervi impresso i sigilli e le ru-ne più appropriati, ora le offriva in vendita come talismani alla Fiera di Azenomei.

Sfortunatamente per Cugel, a neppure venti passi di distanza

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dal suo chioschetto, un certo Fianosther aveva eretto un chio-sco più grande, e vendeva articoli molto più assortiti e di effi-cacia molto più evidente: perciò, ogni volta che Cugel fermava un passante per diffondersi sui meriti della sua mercanzia, il passante preferiva non fargli vedere l'oggetto che aveva appe-na acquistato da Fianosther e continuava per la sua strada.

Era ormai il terzo giorno della fiera, e Cugel era riuscito a vendere soltanto quattro periapti, a prezzi a malapena supe-riori del costo del piombo stesso, mentre Fianosther faticava a servire tutti i suoi clienti. Con la voce resa rauca dagli inutili imbonimenti, Cugel chiuse il suo chioschetto e si avvicinò a quello di Fianosther, per studiare i dettagli della costruzione e le serrature che chiudevano la porta.

Fianosther, che lo stava osservando, gli fece allora cenno di avvicinarsi.

«Entra, amico mio, entra. Come vanno gli affari?» «Non troppo bene, per essere assolutamente sincero,» disse

Cugel. «Sono perplesso e deluso, perché a quanto pare i miei ta-lismani sono inutili.»

«Posso risolverla io, la tua perplessità,» rispose Fianosther. «Il tuo chiosco sta proprio dove una volta sorgeva la vecchia for-ca, e ha assorbito influssi funesti. Ma mi è parso di notare che tu stessi esaminando in che modo sono fissate le tavole di le-gno del mio chiosco. Potrai vederlo meglio dall'interno, ma prima dovrò accorciare la catena dell'erebo prigioniero, che durante la notte gira attorno alla mia botteguccia.»

«Non è necessario,» disse Cugel. «La mia era solo una semplice curiosità.»

«In quanto alla tua delusione,» proseguì Fianosther, «non è detto che debba continuare. Osserva un po' quegli scaffali, e vedrai che le mie scorte sono quasi esaurite.»

Cugel lo ammise. «Ma che c'entra questo con me?» Fianosther indicò un uomo, che si trovava dall'altra parte

della strada e che indossava abiti neri. Era di bassa statura, giallo di pelle e calvo come un ciottolo. I suoi occhi sembravano nodi del legno, e la sua bocca larga era incurvata in un sogghi-gno di cronica allegria.

«Ecco là Iucounu, il Mago Ridente,» disse Fianosther. «Fra po-

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co verrà nel mio chiosco e cercherà di acquistare un particola-re palinsesto rosso, i quaderni d'appunti di Dibarcas Maggiore, che studiò con il Grande Phandaal. Io richiedo un prezzo supe-riore a quello che lui è disposto a pagare, ma è un uomo molto paziente, e continuerà a far rimostranze per tre ore almeno. Nel frattempo, la sua dimora rimarrà incustodita. C'è una rac-colta di oggetti taumaturgici, di strumenti e di attivanti, e in più curiosità, talismani, amuleti e pergamene. Ci terrei moltis-simo ad acquistare quegli oggetti. È necessario che io aggiunga altro?»

«Tutto questo è molto interessante,» rispose Cugel. «Ma è pos-sibile che Iucounu lasci la sua dimora senza guardie e senza assistenti?»

Fianosther allargò le braccia. «E perché no? Chi mai oserebbe andare a derubare Iucounu, il

Mago Ridente?» «È appunto questo pensiero che mi trattiene,» ribatté Cugel.

«Io sono un uomo dotato di molte risorse, ma non di una teme-rarietà insensata.»

«Considera tuttavia che c'è parecchio da guadagnare,» rispose Fianosther. «Cose preziosissime, meraviglie inestimabili, oltre ad incantesimi, talismani ed elisir. Ricordati, comunque, che io non insisto, che non ti do suggerimenti; se ti prendono, tu mi hai soltanto sentito magnificare le ricchezze di Iucounu, il Ma-go Ridente. Ma eccolo che arriva. Presto, voltagli le spalle, in modo che non ti possa vedere in faccia. Resterà qui tre ore, questo posso garantirtelo!»

Iucounu entrò nel chiosco, e Cugel si chinò per esaminare una bottiglia che conteneva un homunculus raggrinzito.

«Salute a te, Iucounu!» esclamò Fianosther. «Perché hai tar-dato tanto? Ho rifiutato offerte veramente munifiche per un certo palinsesto rosso, e tutto per amor tuo! E qui... osserva questo sarcofago. È stato ritrovato in una cripta, non lontano dal punto in cui sorgeva la vecchia Karkod. È ancora sigillato, e chi sa quali meraviglie può contenere? Il mio prezzo è molto modesto: soltanto dodicimila terci.»

«Interessante,» mormorò Iucounu. «L'iscrizione... lasciami ve-dere... Uhm. Sì, è autentico. Il sarcofago contiene ossa di pesce calcinate, che venivano usate come purgante durante tutto il

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periodo del Grande Motholam. Vale al massimo dieci o dodici terci, come curiosità. Io possiedo sarcofaghi infinitamente più antichi, che risalgono all'Età del Bagliore.»

Cugel si avviò verso la porta, arrivò sulla strada, e cominciò a camminare avanti e indietro, riflettendo su tutti i particolari della proposta che gli era stata fatta da Fianosther. In appa-renza, la cosa appariva del tutto ragionevole; Iucounu era lì; e lassù c'era la sua dimora, che traboccava di ricchezze. Certa-mente non sarebbe successo niente di male, se lui avesse effet-tuato una semplice ricognizione. Cugel si avviò verso est, lungo le rive dello Xzan.

Le torri attorcigliate di vetro verde si levavano spiccando contro il cielo azzurroscuro, e la luce scarlatta del Sole indu-giava sulle volute. Cugel fece una breve sosta, per studiare con grande attenzione la campagna. Lo Xzan scorreva lì vicino, senza far rumore. Nei pressi, seminascosto tra i pioppi neri, i larici verdepallidi e i salici piangenti, c'era un villaggio: una dozzina di baracche di pietra abitate dai barcaioli e dai conta-dini che coltivavano le terrazze del fiume: tutta gente che ba-dava solo alle proprie faccende.

Cugel studiò la strada che conduceva alla dimora del mago: una via tortuosa, pavimentata di piastrelle marrone scuro. Al-la fine decise che se si fosse avvicinato scopertamente avrebbe dovuto dare spiegazioni meno complicate, se qualcuno gliele avesse chieste. Cominciò a salire su per la collina; la dimora di Iucounu torreggiava sopra di lui. Quando arrivò nel cortile, si soffermò per studiare il paesaggio. Al di là del fiume le colline si allontanavano, ondulando, nella luce incerta, a perdita d'oc-chio.

Cugel si diresse con passo deciso verso la porta, bussò, ma senza ottenere risposta. Prese a riflettere. Se Iucounu, come Fianosther, aveva un animale da guardia, senza dubbio si sa-rebbe fatto sentire, se lui l'avesse provocato. Cugel chiamò, in vari toni: ringhiando, miagolando, strillando.

Silenzio. Un po' impacciato, si avviò verso una finestra e sbirciò in un

corridoio tappezzato di drappi grigiopallidi, dove c'era soltanto un tavolino: sul tavolino, sotto ad una campana di vetro, c'era un roditore morto, Cugel fece il giro della dimora, studiando

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ogni finestra alla quale giungeva, e finalmente arrivò alla grande sala dell'antico castello. Si arrampicò agilmente su per le pietre grezze, scavalcò uno dei fantasiosi parapetti e in un attimo entrò nella dimora.

Si trovava in una camera da letto. Su di una pedana, sei mo-stri grotteschi che sorreggevano un giaciglio girarono la testa per scrutare indignati l'intruso. Con due balzi furtivi, Cugel raggiunse l'arcata che portava alla camera esterna. Qui le pa-reti erano verdi, i mobili neri e rosa carico. Lasciò quella stan-za, passando in una balconata che cingeva una camera centra-le: la luce scendeva dai bovindi alle pareti. Sotto c'erano scaffa-li, casse, ripiani e rastrelliere, carichi di oggetti di ogni genere: quella era la meravigliosa collezione di Iucounu.

Cugel restò immobile, teso come un uccello da preda, ma il si-lenzio lo rassicurò: era il silenzio di un luogo deserto. Comun-que, era entrato indebitamente nella proprietà di Iucounu, il Mago Ridente, ed era opportuno stare in guardia.

Scese a passi rapidi la scala circolare che portava nella gran-de sala. Si fermò, affascinato, rendendo a Iucounu l'omaggio di una meraviglia sincera. Ma aveva poco tempo a disposizione: doveva rubare e andarsene. Tirò fuori il sacco: rovistò la sala, scegliendo scrupolosamente gli oggetti che erano di minor in-gombro e di maggior valore: un vasetto ornato di corna, che emetteva nuvole di gas straordinari quando si torcevano le molle; un corno d'avorio dal quale risuonavano cavernose voci del passato; un minuscolo teatrino in cui folletti in costume erano pronti a esibirsi in comiche capriole; un oggetto simile a un grappolo d'uva di cristallo, ogni acino del quale offriva una visione confusa di uno dei mondi dei dèmoni; un bastone dal quale uscivano dolciumi di sapori diversi; un anello antico sul quale erano incise delle rune; una pietra nera circondata da nove zone di colori impalpabili. Passò davanti a centinaia di barattoli pieni di polveri e di liquidi, a vasi che contenevano te-ste conservate, organi indecifrabili. Poi arrivò agli scaffali ca-richi di volumi, in-folio, pergamene e palinsesti; scelse con cu-ra, dando la preferenza a quelli rilegati in velluto rosso, il colo-re caratteristico di Phandaal. Scelse anche in-folio di disegni e di carte antiche, e il cuoio, smosso, trasudò un odore di muffa.

Fece il giro completo e ritornò verso l'ingresso della sala, pas-

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sando davanti a una bacheca in cui stava una dozzina di piccoli cofani di metallo, chiusi da bande antichissime e corrose. Cugel ne scelse tre a casaccio: erano stranamente pesanti. Passò da-vanti a parecchie macchine massicce delle quali gli sarebbe piaciuto scoprire la funzione, ma il tempo passava, e lui avreb-be fatto meglio a ritornare ad Azenomei, al chiosco di Fiano-sther...

Cugel aggrottò la fronte. Da molti punti di vista, quella pro-spettiva gli sembrava poco conveniente. Era molto difficile che Fianosther fosse disposto a pagare un giusto prezzo per i suoi tesori, o meglio per i tesori di Iucounu. Forse era più opportuno seppellire in un posto isolato una buona parte del suo bottino... Ma lì c'era un'alcova che in precedenza Cugel non aveva nota-to. Una luce dolce scivolava come acqua lungo il pannello di cristallo che separava l'alcova dalla sala. In una nicchia, sul fondo, c'era un oggetto complicato e affascinante. A quanto po-teva distinguere Cugel, era una giostra in miniatura, su cui stava una dozzina di bellissime bambole che sembravano vive. Era chiaramente un oggetto di gran valore, e Cugel fu felicis-simo quando trovò un'apertura nella lastra di cristallo.

Passò, ma dopo due passi una seconda lastra gli bloccò la strada, imponendogli un percorso obbligato per raggiungere la giostra magica. Cugel proseguì, sicuro, ma venne subito ferma-to da un'altra lastra, che vide soltanto quando vi sbatté contro. Allora ritornò indietro e, con soddisfazione, trovò dopo pochi passi quella che doveva essere, senza dubbio, l'entrata giusta. Ma questo nuovo percorso lo portò, dopo parecchie svolte ad angolo retto, contro un'altra lastra. Allora Cugel decise di ri-nunciare a prendere la giostra e di andarsene dal castello. Si girò, ma si accorse di essere piuttosto confuso: era venuto dal-la destra... oppure dalla sinistra?... Cugel stava ancora cercan-do una via d'uscita quando, a tempo debito, Iucounu fece ritor-no alla sua dimora.

Iucounu si fermò davanti all'alcova e lanciò a Cugel un'oc-chiata di divertita sorpresa.

«Chi abbiamo, qui? Un visitatore? E io sono stato tanto scor-tese da farti aspettare... Comunque, vedo che ti sei divertito, e quindi non devo sentirmi mortificato.» Iucounu si lasciò sfuggi-re dalle labbra una risatina. Poi finse di notare solo in quel

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momento il sacco di Cugel. «E quello che cos'è? Hai portato qualche oggetto da farmi esaminare? Magnifico! Ci tengo mol-tissimo ad arricchire la mia collezione, per rimediare all'usura degli anni. Sapessi quanti bricconi cercano di derubarmi! Quel rigattiere in quel chioschetto malandato, per esempio... non riusciresti mai a immaginare quante volte ha tentato freneti-camente di imbrogliarmi! Io lo sopporto solo perché fino ad og-gi non ha ancora avuto la sfacciataggine di avventurarsi in ca-sa mia. Su, vieni, adesso, esci di lì, ed esamineremo il contenu-to del tuo sacco.»

Cugel si inchinò cortesemente. «Ne sarò lietissimo. Come hai giustamente immaginato,

aspettavo il tuo ritorno. Se non ricordo male, si esce da questa parte...» Fece un passo avanti, ma venne nuovamente bloccato. Ebbe un gesto di malinconico divertimento. «A quanto pare, ho svoltato dalla parte sbagliata.»

«A quanto pare,» disse Iucounu. «Se alzi gli occhi, vedrai un motivo ornamentale, sul soffitto. Se segui la flessione delle lu-nette, ti 'guideranno fuori di lì.»

«Ma naturale!» E Cugel si mosse, vivacemente, nella direzione indicata.

«Un momento!» esclamò Iucounu. «Hai dimenticato il tuo sac-co!»

Cugel, riluttante, ritornò a prendere il sacco, poi ripercorse la stessa strada e uscì nella sala.

Iucounu fece un gesto cerimonioso. «Se vuoi venire da questa parte, sarò lieto di esaminare la tua

mercanzia.» Cugel lanciò un'occhiata meditabonda verso il corridoio che

portava all'ingresso principale. «Sarebbe una presunzione da parte mia, e abuserei della tua

pazienza. Le mie piccole cianfrusaglie non meritano attenzio-ne. Con il tuo permesso, me ne vorrei andare.»

«Ma neppure per idea!» dichiarò cordialmente Iucounu. «Ho pochissimi visitatori, io, e sono quasi tutti bricconi e ladri. Li tratto con molta severità, te lo assicuro! Insisto, perché tu ac-cetti almeno qualche rinfresco. Posa il sacco sul pavimento.»

Cugel posò delicatamente il sacco. «In questi ultimi tempi, ho imparato un piccolo trucco da una

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strega marina della Scogliera Bianca. Credo che ti interesserà. Ho bisogno di diverse braccia di corda robusta.»

«Tu susciti la mia curiosità!» Iucounu tese il braccio: un pan-nello di rivestimento della parete si aprì; un rotolo di corda gli balzò in mano. Massaggiandosi il volto per nascondere un sor-riso, Iucounu porse la fune a Cugel, che la scosse, sciogliendola con grande cura.

«Devo chiedere la tua collaborazione,» disse Cugel. «Si tratta solo di stendere un braccio e una gamba.»

«Sì, certamente.» Iucounu tese la mano e sollevò un dito. La corda si arrotolò attorno alle gambe e alle braccia di Cugel, le-gandolo così strettamente da impedirgli qualsiasi movimento. Il sogghigno di Iucounu sembrò quasi tagliargli in due la gran-de testa molle. «Ecco uno sviluppo sorprendente! Per sbaglio ho chiamato l'Acchiappaladri! Per il tuo bene, non cercare di liberarti, perché l'Acchiappaladri è intessuto di zampe di ve-spa. E adesso esaminerò il contenuto del tuo sacco.» Sbirciò nel sacco di Cugel ed emise un sommesso grido di sbigottimento. «Ma hai saccheggiato la mia collezione! Vedo alcuni dei miei pezzi più preziosi!»

Cugel fece una smorfia. «Naturalmente! Ma non sono un ladro. Fianosther mi ha

mandato qui a prendere certi oggetti, e quindi...» Iucounu alzò una mano. «È una colpa troppo grave per negarla. Ho già espresso la mia

antipatia per i ladri e i saccheggiatori, e adesso dovrò punirti secondo l'inflessibile rigore della giustizia... a meno che, natu-ralmente, tu non possa proporre un adeguato riscatto.»

«Sono certo che esiste un modo per riscattarmi,» dichiarò Cugel. «Però questa corda mi raschia la pelle, e quindi mi è im-possibile concentrarmi per riflettere.»

«Non importa. Ho deciso di ricorrere all'Incantesimo dell'Inci-stamento Desolato, che relega il soggetto in una cavità porosa, quarantacinque leghe al di sotto della superficie della Terra.»

Cugel batté le palpebre, sbigottito. «Ma in condizioni del genere, io non avrò mai la possibilità di

riscattarmi!» «È vero,» fece Iucounu, meditabondo. «E mi chiedo se, tutto

sommato, non c'è qualche piccolo servizio che tu possa ren-

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dermi.» «Il tuo nemico è già morto, praticamente!» dichiarò Cugel. «E

adesso sciogli questi abominevoli legami!» «Non avevo in mente di commissionarti un assassinio,» disse

Iucounu. «Vieni!» La corda si allentò un poco, permettendo a Cugel di seguire

Iucounu in una stanza laterale, tappezzata di arazzi dai dise-gni molto complicati. Iucounu prese da un armadietto un mi-nuscolo scrigno e lo posò su di un disco di vetro galleggiante a mezz'aria. Poi aprì lo scrigno e fece un cenno a Cugel, il quale notò che vi erano due incavi foderati di pelliccia scarlatta, in uno dei quali riposava un piccolo emisfero di vetro viola, opa-co.

«Poiché sei un uomo esperto e hai viaggiato molto,» disse Iu-counu, «senza dubbio avrai già riconosciuto questo oggetto. No? Tu conosci, naturalmente, le Guerre Cutz del Diciottesimo Eone? No?» Iucounu alzò le spalle, in una mimica di sbalordi-mento. «Durante quei terribili avvenimenti, il dèmone Unda-Hrada, che viene catalogato oggi come 16-04 Verde nell'Alma-nacco di Thrump, pensò di recare aiuto ai suoi superiori, ed a questo scopo fece uscire certi esseri dal sottomondo La-Er. Perché fossero in grado di captare le percezioni, vennero dota-ti di emisferi simili a quello che vedi davanti a te. Quando gli eventi precipitarono il dèmone si affrettò a trasportarsi di nuovo a La-Er. Gli emisferi si distaccarono e si dispersero su Cutz. Come vedi, io ne posseggo uno. Tu devi procurarti il suo compagno e portarmelo: in questo caso, perdonerò la tua in-trusione in casa mia.»

Cugel rifletté. «Non è una grande scelta, quella che mi offri, tra una sortita

nel mondo dei dèmoni di La-Er e l'Incantesimo dell'Incistamen-to Desolato. Francamente, non so cosa decidere.»

La risata di Iucounu fu così ampia che sembrò spaccare in due la grossa vescica gialla della sua testa.

«Non sarà necessario scendere a La-Er. Puoi procurarti quell'oggetto nella terra che un tempo era conosciuta come Cutz.»

«Se devo farlo, devo farlo e basta,» ringhiò Cugel, irritatissimo per il modo in cui era finita l'attività di quel giorno. «Chi custo-

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disce l'emisfero viola? Qual è la sua funzione? Come faccio per andare e per ritornare? Quali armi, talismani e oggetti magici hai intenzione di fornirmi?»

«Tutto a suo tempo,» disse Iucounu. «Innanzi tutto devo assi-curarmi che, una volta rimesso in libertà, ti comporterai con incrollabile lealtà, con zelo e decisione.»

«Non temere,» dichiarò Cugel. «La mia parola è vincolante.» «Magnifico!» esclamò Iucounu. «Questo rappresenta una sicu-

rezza fondamentale, che non intendo affatto prendere alla leg-gera. L'atto che dovrà venire compiuto ora, quindi, ha senza dubbio un'importanza puramente simbolica.»

Uscì dalla stanza e dopo un attimo ritornò con una ciotola co-perta di vetro, in cui si trovava un minuscolo essere bianco, tutto chele, artigli, spine e aculei, che si agitava rabbiosamen-te.

«Questo,» disse Iucounu, «è il mio amico Firx, che viene dalla stella Achernar: è molto più saggio e furbo di quanto sembra. Gli dispiace molto di essere separato dal suo compagno, con il quale divide una vasca nel mio laboratorio. Ti aiuterà a svolge-re rapidamente i tuoi doveri.» Iucounu si avvicinò, e con un ge-sto abile spinse l'essere contro l'addome di Cugel; l'essere si fu-se nelle sue viscere, e si piazzò di guardia, stretto attorno al fegato di Cugel.

Iucounu indietreggiò, ridendo con quella gaiezza smodata che gli era valsa il suo soprannome. Gli occhi di Cugel quasi schiz-zarono dalle orbite. Aprì la bocca per proferire un'imprecazio-ne, ma strinse i denti e alzò gli occhi al cielo.

La fune si sciolse. Cugel rimase ritto, tremante, con tutti i muscoli annodati.

L'allegria di Iucounu si smorzò in un sogghigno pensieroso. «Hai parlato di oggetti magici. E i talismani di cui proclamavi

l'efficacia nel tuo chiosco alla Fiera di Azenomei? Non sono forse in grado di immobilizzare i nemici, di accendere d'amore le vergini, di dissolvere il ferro e di conferire l'immortalità?»

«Non si può contare molto su quei talismani,» disse Cugel. «Avrò bisogno di ben altro aiuto.»

«Lo hai già,» disse Iucounu, «nella tua spada, nella tua abilità persuasiva e nell'agilità dei tuoi piedi. Tuttavia, hai suscitato la mia preoccupazione, e ti darò un aiuto.» Appese al collo di

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Cugel una minuscola tavoletta quadrata. «Ora puoi dimenticare ogni timore di morire di fame. Un tocco di questo talismano po-tentissimo trasformerà in nutrimento il legno, la corteccia, l'erba, e persino gli abiti vecchi. Inoltre, farà suonare una cam-panella in presenza del veleno. Perciò... non c'è più nulla che ci trattenga. Avanti, andiamo. Corda? Dov'è la Corda?»

Obbediente, la Corda si strinse attorno al collo di Cugel, che fu costretto a seguire Iucounu.

Uscirono sul tetto dell'antico castello. L'oscurità era ormai scesa da parecchio tempo. Qua e là, nella valle dello Xzan, scin-tillavano fievoli luci, e il fiume stesso era una striscia irregola-re più scura delle tenebre.

Iucounu indicò una gabbia. «Quello sarà il tuo veicolo. Entra.» Cugel esitò. «Sarebbe preferibile fare un buon pranzo, dormire e riposare,

per partire domattina, in buone condizioni.» «Cosa?» La voce di Iucounu sembrava il suono di un corno.

«Osi stare davanti a me e formulare preferenze! Tu, che sei en-trato furtivamente in casa mia, hai saccheggiato le mie cose più preziose e hai lasciato tutto in disordine? Non ti rendi con-to di essere stato anche troppo fortunato? O magari preferisci l'Incistamento Desolato?»

«No, no!» protestò innervosito Cugel. «Mi preoccupo soltanto del successo dell'impresa!»

«Allora entra nella gabbia.» Cugel girò uno sguardo disperato sul tetto del castello, poi si

accostò lentamente alla gabbia e vi entrò. «Mi auguro che tu non soffra di perdite di memoria,» disse Iu-

counu. «Ma se anche succedesse, e se dimenticassi il tuo primo dovere, che è di procurarti l'emisfero viola, c'è sempre Firx che te lo rammenterà.»

Cugel disse: «Poiché ormai sono votato a questa impresa, ed è molto improbabile che io torni, tanto vale che tu sappia quello che penso di te. Innanzi tutto...»

«Non ci tengo ad ascoltarti. Gli insulti offendono il mio amor proprio, e sono molto scettico nei confronti degli elogi. Perciò... vai!» Si trasse indietro, guardò nelle tenebre, poi gridò l'invo-cazione conosciuta come il Trasferimento Laganetico di

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Thasdrubal. Dall'alto venne un tonfo e uno sbatter d'ali, un gri-do di sommesso furore.

Iucounu indietreggiò di qualche passo, gridando altre parole in una lingua arcaica; e la gabbia dentro la quale stava rannic-chiato Cugel venne sollevata violentemente e trascinata nell'a-ria.

Un vento gelido mordeva il viso di Cugel. Dall'alto scendeva lo sbattere e lo scricchiolare di ali rapide, e un lamento angoscia-to; la gabbia dondolava avanti e indietro. Sotto, tutto era tene-bra: una oscurità d'abisso. Dalla disposizione delle stelle, Cugel calcolò che si stava dirigendo verso il nord e poi sentì, sotto di sé, la spinta delle Montagne di Maurenon; poi sorvolarono l'immenso deserto conosciuto come Terra delle Mura che Crol-lano. Un paio di volte, Cugel scorse le luci di un castello isolato, e una volta avvistò un grande falò. Per un certo tempo, uno spiritello alato venne a volare accanto alla gabbia, sbirciando all'interno. Sembrava giudicare divertente la situazione in cui si trovava Cugel, e quando questi cercò di ottenere qualche in-formazione sul territorio sottostante, si limitò a lanciare rau-che grida di allegria. Poi si stancò e cercò di aggrapparsi alla gabbia, ma Cugel lo allontanò a calci, e quello ricadde nel vento con un urlo di rabbia.

L'oriente si colorò del rosso del sangue vecchio, e finalmente apparve il Sole, che tremava come un vecchio in preda ai bri-vidi. Il suolo era avvolto in un sudario di nebbia; Cugel riusciva a malapena a capire che stava attraversando un territorio di montagne nere e di abissi scuri. Poi la nebbia tornò ad aprirsi e rivelò un mare plumbeo. Un paio di volte Cugel alzò lo sguardo, ma il tetto della gabbia nascondeva il dèmone completamente, eccettuate le punte delle ali coriacee.

Finalmente, il dèmone raggiunse la riva settentrionale dell'o-ceano. Scese verso la spiaggia, lanciò un suono gracchiante e vendicativo, e poi lasciò cadere la gabbia da un'altezza di cin-que metri.

Cugel uscì strisciando dalla gabbia spezzata. Controllò le livi-dure, scagliò un'imprecazione contro il dèmone che si allonta-nava, poi ritornò indietro, pesantemente, tra la sabbia e le spi-nifelci gialle e umide, e salì il pendio della spiaggia. Verso nord

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c'erano barene paludose, e un mucchietto lontano di basse col-line; a oriente e a occidente c'erano soltanto l'oceano e la spiaggia squallida. Cugel agitò il pugno verso il sud. In qualche modo, prima o poi, si sarebbe vendicato del Mago Ridente! Lo promise a se stesso.

Un centinaio di metri più in là, verso occidente, c'erano i resti di un'antica diga. Cugel pensò di andare a ispezionarla, ma non aveva fatto più di tre passi quando Firx gli affondò gli artigli nel fegato. Alzando gli occhi al cielo per la sofferenza, Cugel cambiò direzione e si avviò verso oriente, costeggiando la spiaggia.

Dopo un po' sentì fame, e pensò al talismano fornitogli da Iu-counu. Raccolse un pezzo di legno buttato a riva dalle onde e lo strofinò contro la tavoletta, nella speranza di vederlo trasfor-marsi in un vassoio di dolci o in un pollo arrosto. Ma il legno si limitò ad ammorbidirsi fino a raggiungere la consistenza del formaggio, e conservò il sapore del legno marcio. Cugel man-giò, deglutendo a fatica. Un altro scherzo di cui Iucounu dove-va rendergli conto. Oh, il Mago Ridente gliel'avrebbe pagata cara!

Il globo scarlatto del Sole scivolava nel cielo meridionale. La notte si avvicinò, e finalmente Cugel giunse in vista di un inse-diamento umano: un rozzo villaggio accanto ad un fiumicello. Le capanne sembravano nidi d'uccello, fatte di fango e di fu-scelli, e puzzavano sgradevolmente di sudiciume e di rifiuti. Le persone che vi si aggiravano erano sgraziate e sgradevoli quanto le baracche. Erano tozze, obese, animalesche; i loro ca-pelli erano ruvidi grovigli gialli, i lineamenti informi. L'unico attributo degno di nota, che Cugel notò immediatamente con vivo interesse, erano i loro occhi: emisferi viola, in apparenza ciechi, simili sotto tutti i punti di vista all'oggetto che Iucounu desiderava.

Cugel si avvicinò cautamente al villaggio, ma gli abitanti non gli badarono molto. Se l'emisfero bramato da Iucounu era iden-tico agli occhi viola di quella gente, allora una delle incertezze fondamentali della missione era già risolta, e procurarsi quell'oggetto diventava esclusivamente un problema di tattica.

Cugel si soffermò a osservare gli abitanti del villaggio, e sco-prì molte cose che lo sorpresero. Innanzi tutto, il loro porta-

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mento non corrispondeva a quello che avrebbe dovuto essere tipico di straccioni puzzolenti; era maestoso e severo, al punto di sfumare, talvolta, nell'alterigia. Cugel li osservò, perplesso: erano una tribù di rimbambiti? Comunque, non sembravano costituire una minaccia. Avanzò per la strada principale del villaggio, camminando impacciato per evitare i mucchi più fe-tidi di immondizie. Uno degli abitanti del villaggio si degnò di notarlo, e gli rivolse la parola con una voce gutturale, piena di grugniti.

«Dunque, signor mio, che cosa vuoi? Perché ti aggiri nella no-stra città, Smolod?»

«Sono un viandante,» rispose Cugel. «Vorrei soltanto che mi venisse indicata una locanda, dove mi sia possibile trovare al-loggio e cibo.»

«Non abbiamo locande, qui; viandanti e viaggiatori ci sono sconosciuti. Tuttavia, sii il benvenuto e dividi con noi ciò che abbiamo. Laggiù c'è una casa con tutto il necessario per le tue comodità.» L'uomo indicò una baracca malconcia. «Puoi man-giare quanto vorrai; basta che entri nel refettorio laggiù e scel-ga ciò che preferisci; a Smolod l'avarizia è sconosciuta.»

«Ti ringrazio dal profondo del cuore,» disse Cugel. E avrebbe continuato a parlare, ma l'uomo si era già allontanato.

Cugel guardò impacciato dentro alla baracca, e con una certa fatica riuscì a portar fuori le immondizie più ingombranti e a mettere insieme una specie di giaciglio. Il Sole era ormai basso all'orizzonte e Cugel si recò al magazzino che gli era stato indi-cato come refettorio. Come aveva sospettato, la vantata ab-bondanza era un'iperbole. In un angolo del refettorio c'era un mucchio di pesce affumicato, e in un altro c'era un bidone che conteneva lenticchie mescolate a semi e cereali di vario gene-re. Cugel prese una porzione e se la portò nella sua baracca, dove consumò un pasto molto tetro.

Il Sole era tramontato; Cugel uscì, per vedere quali svaghi of-friva il villaggio, ma scoprì che le strade erano deserte. In cer-te capanne ardevano le lampade, e sbirciando dalle fessure, poté vedere che gli abitanti consumavano cene a base di pesce affumicato o conversavano tra loro. Tornò alla sua baracca, accese uno stento fuocherello per difendersi dal freddo e si sdraiò per dormire.

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Il giorno seguente, Cugel riprese ad osservare il villaggio di Smolod ed i suoi abitanti dagli occhi viola. Nessuno, notò, an-dava a lavorare, e a quanto pareva non c'erano campi nelle vi-cinanze. Quella scoperta irritò Cugel. Per procurarsi uno di quegli occhi viola, sarebbe stato obbligato a ucciderne il legit-timo proprietario, e per far questo era necessario assicurarsi che nessuno potesse intromettersi.

Cercò di attaccare discorso con gli abitanti del villaggio, ma quelli lo guardavano in un modo che ben presto incominciò a scuotere la sua equanimità: si sarebbe detto che loro fossero signori raffinati ed eleganti, e lui invece lo straccione puzzo-lente!

Quel pomeriggio si diresse verso il sud, e circa una lega più in là, lungo la spiaggia, incontrò un altro villaggio. I suoi occupan-ti erano molto simili agli abitanti di Smolod, ma avevano gli oc-chi normali. Inoltre, erano operosi: Cugel li vide coltivare i campi e pescare nell'oceano.

Si avvicinò a un paio di pescatori che stavano ritornando verso il villaggio, con le prede appese sulle spalle. I due si fer-marono, e sbirciarono Cugel con espressione scarsamente amichevole. Cugel si presentò come un viaggiatore, e chiese notizie delle terre a oriente, ma i pescatori dissero di non sa-perne nulla, a parte il fatto che quel territorio era deserto, squallido e pericoloso.

«Attualmente sono ospite del villaggio di Smolod,» disse Cugel. «I suoi abitanti sono abbastanza simpatici, però sono piuttosto strani. Per esempio, perché hanno quegli occhi? Di che malat-tia soffrono? Perché si comportano con tanta sicurezza aristo-cratica e con modi tanto soavi?»

«Quegli occhi sono lenti magiche,» dichiarò il più vecchio dei pescatori, in tono riluttante. «Permettono di vedere il Sopra-mondo; perché mai i loro proprietari, allora, non dovrebbero comportarsi come signori? Lo farò anch'io, quando morirà Radkuth Vomin, perché erediterò i suoi occhi.»

«Davvero!» esclamò Cugel, meravigliato. «Quelle lenti magiche possono venire staccate a volontà e trasferite come ritiene più opportuno il loro proprietario?»

«Sicuro: ma chi vorrebbe mai scambiare il Sopramondo con tutto questo?» Il pescatore agitò il braccio per indicare lo squal-

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lido panorama. «Ho lavorato per tanto tempo, e finalmente toc-ca a me assaporare le delizie del Sopramondo. Nulla c'è che valga il paragone, e l'unico pericolo è quello di morire per la troppa felicità.»

«È immensamente interessante!» esclamò Cugel. «E come po-trei meritarmi anch'io un paio di quelle lenti magiche?»

«Lavora come facciamo tutti noi a Crodz; metti il tuo nome nell'elenco, e poi datti da fare per fornire il necessario ai signo-ri di Smolod. Per trentun anni ho seminato e raccolto lentic-chie e orzo e ho preso i pesci con le reti e li ho affumicati al fuoco, e adesso il nome di Bubach Angh è il primo della lista. E anche tu, naturalmente, potrai fare lo stesso.»

«Trentun anni,» meditò Cugel. «È un periodo di lunghezza non trascurabile.» E Firx, dello stesso parere, si agitò irrequieto, provocando non poca sofferenza al fegato di Cugel.

I pescatori proseguirono verso il loro villaggio, Grodz; Cugel ritornò a Smolod. Appena arrivato, andò alla ricerca dell'uomo con il quale aveva parlato il primo giorno.

«Mio signore,» disse Cugel, «come tu sai, io sono un viaggiato-re, venuto da una terra lontanissima; sono stato attirato dalla magnificenza della città di Smolod.»

«È comprensibile,» brontolò l'altro. «Il nostro splendore non può non ispirare l'emulazione.»

«E qual è l'origine delle lenti magiche?» Il vecchio girò su Cugel gli emisferi viola, come se lo vedesse

per la prima volta. Poi parlò con voce un po' acida. «Preferiamo non parlarne troppo, ma non vi è nulla di male,

ora che l'argomento è stato affrontato. In un tempo molto lon-tano, il dèmone Underherd mandò dei tentacoli a scrutare la Terra, e ognuno di essi terminava in una lente. Simbilis Sedi-cesimo sconfisse il mostro, che ritornò nel suo sottomondo, e le lenti si staccarono. Quattrocentododici lenti vennero raccolte e portate a Smolod, che allora era splendida quanto oggi appare al mio sguardo. Sì, mi rendo conto di vedere soltanto un'appa-renza, ma questo vale anche per te, e chi può dire quale è la realtà?»

«Io non guardo certo attraverso lenti magiche,» disse Cugel. «È vero.» Il vecchio alzò le spalle. «È un particolare che prefe-

risco ignorare. Ricordo vagamente che abito in una baracca e

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che divoro il cibo più rozzo... ma la realtà soggettiva è diversa: abito in uno splendido palazzo e pranzo con cibi deliziosi, in-sieme ai principi e alle principesse che sono i miei pari. La spiegazione che viene data è questa: il demone Underherd guardò questo mondo dal suo sottomondo; e noi, da questo mondo, guardiamo nel Sopramondo, che è la quintessenza del-la speranza umana, del desiderio più visionario e dei sogni più beati. Noi che abitiamo tale mondo... come possiamo conside-rarci, se non come splendidi principi? Infatti lo siamo.»

«È meraviglioso!» esclamò Cugel. «Come posso ottenere un paio di lenti magiche?»

«Esistono due metodi. Underherd perdette quattrocento e quattordici lenti: noi ne possediamo quattrocentododici. Due non vennero mai trovate, ed evidentemente giacciono a grande profondità, in fondo all'oceano. Sei libero di tentare di recupe-rarle. Il secondo metodo consiste nel diventare cittadino di Grodz, e fornire il necessario ai signori di Smolod, fino a quan-do uno di noi muore, come accade molto di rado.»

«Ho saputo che un certo nobile signore, Radkuth Vomin, è gravemente malato.»

«Sì, è malato.» Il vecchio indicò un altro vecchio dal ventre gonfio, dalla bocca aperta sgocciolante saliva, che sedeva tra il sudiciume, davanti alla sua baracca. «Eccolo là, davanti al suo palazzo. Il nobile Radkuth ha ecceduto nella libidine, perché le nostre principesse sono le creature più incantevoli che uomo possa contemplare, così come io sono il più nobile dei principi. Ma il nobile signore Radkuth ha ecceduto, e perciò ha subito una mortificazione: e questa è una lezione per tutti noi.»

«Potrei prendere qualche accordo speciale per assicurarmi le sue lenti?» azzardò Cugel.

«Temo di no. Devi andare a Grodz e lavorare come tutti gli al-tri, come ho fatto io stesso, in un'esistenza precedente che adesso mi appare vaga e assurda... Pensare che ho sofferto per tanto tempo! Ma tu sei giovane. Trenta o quaranta o cin-quant'anni non sono poi un'attesa molto lunga.»

Cugel si portò una mano all'addome per acquietare l'agitarsi frenetico di Firx.

«In tanto tempo, il Sole potrebbe anche scomparire. Guarda!» Indicò un baluginare nero sulla faccia dell'astro, che parve la-

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sciarvi, per un attimo, una crosta. «Guarda!» «Tu sei troppo apprensivo,» dichiarò il vecchio. «Per noi che

siamo i signori di Smolod, il Sole irradia uno splendore dai co-lori più squisiti.»

«Può darsi benissimo che sia così, per il momento,» disse Cugel. «Ma quando il Sole diventerà tutto scuro, che accadrà? Vi compiacerete egualmente nel buio e nel gelo?»

Ma il vecchio non gli badava più. Radkuth Vomiti era caduto di traverso nel fango, e sembrava morto.

Giocherellando indeciso con il suo coltello, Cugel andò a dare un'occhiata al cadavere. Un paio di rapidi tagli, questione di un momento, e avrebbe raggiunto il suo scopo. Avanzò, esitante, ma il momento fuggitivo era già passato. Altri signori del vil-laggio si erano avvicinati, spingendolo da parte; il corpo di Radkuth Vomin venne sollevato e trasportato con grande so-lennità nella sua baracca puzzolente.

Cugel sbirciò tristemente attraverso la porta, calcolando le possibilità di riuscita dei vari possibili tentativi.

«Siano portate le lampade!» intonò il vecchio. «Che l'ultimo fulgore circondi il nobile signore Radkuth sulla sua bara orna-ta di semme! Suonino dalle torri le trombe d'oro, e le princi-pesse indossino abiti di sciamilo, ed i loro capelli celino i visi deliziosi che il nobile signore Radkuth tanto amava! Ora, dob-biamo vegliarlo! Chi custodirà la bara?»

Cugel si fece avanti. «Lo considererei un grande onore.» Il vecchio scosse il capo. «Questo è un privilegio riservato ai suoi pari. Nobile Maulfag,

nobile Glus: forse vorrete occuparvene voi.» Due degli abitanti del villaggio si avvicinarono alla panca sulla quale era disteso il Nobile Radkuth Vomin.

«Poi,» dichiarò il vecchio, «dovranno venire annunciate le ese-quie, e le lenti magiche dovranno venire trasferite a Bubach Angh, il più degno di Grodz. Chi si recherà ad informarlo?»

«Offro ancora i miei servigi,» disse Cugel, «non fosse altro che per sdebitarmi in qualche modo dell'ospitalità che mi è stata accordata a Smolod.»

«Ben detto!» esclamò il vecchio. «Quindi, recati in fretta a Grodz; ritorna con quello scudiero che, per la sua fede e per il

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suo diligente lavoro, merita la gloriosa elevazione.» Cugel si inchinò e si allontanò, in mezzo alle barene, correndo

verso Grodz. Quando fu giunto nei pressi dei campi più lontani dal villaggio avanzò cautamente, passando furtivo da un grup-po d'alberi all'altro, e finalmente trovò quello che cercava: un contadino che stava lavorando la terra umida.

Cugel si avvicinò, senza far rumore, e abbatté l'uomo con una grossa radice nodosa. Gli tolse gli indumenti miserabili, il cap-pello di pelle, le calze e le calzature; con il coltello gli recise la barba color paglia. Raccolse ogni cosa, lasciò il contadino diste-so nudo e stordito nel fango, e fuggì a grandi balzi, dirigendosi di nuovo verso Smolod. Trovò un cantuccio isolato e si vestì degli indumenti rubati. Esaminò piuttosto perplesso la barba recisa, e finalmente, legando ciuffi del rozzo pelo giallo l'uno all'altro, riuscì a ricavarne una specie di barba finta. Poi infilò i ciuffi di pelo che ancora restavano sotto l'orlo dell'ampio cap-pello di pelle.

Il Sole era tramontato: un'oscurità color prugna stava scen-dendo ad avvolgere la Terra. Cugel ritornò a Smolod. Lampade a olio ardevano davanti alla baracca di Radkuth Vomin, dove le donne obese e deformi del villaggio gemevano e piangevano.

Cugel avanzò cautamente, chiedendosi che cosa si aspetta-vano da lui. Per quanto riguardava il suo travestimento, pote-va essere efficace e poteva non esserlo. Non sapeva fino a che punto quelle lenti viola confondevano la percezione: doveva ri-schiare.

Cugel si diresse arditamente verso la porta della baracca. Abbassando la voce il più possibile, disse: «Eccomi, principi di Smolod: sono lo scudiero Bubach Angh di Grodz, che per tren-tun anni ha accumulato le più scelte e squisite cibarie nelle di-spense di Smolod. Ora mi presento, supplicando di essere in-nalzato al rango di nobile.»

«Come è tuo diritto,» disse il Capo degli Anziani. «Ma mi sem-bri un uomo diverso dal Bubach Angh che per tanto tempo ha servito i principi di Smolod.»

«Sono trasfigurato... dal dolore per la morte del principe Radkuth Vomin, e dalla felicità dell'elevazione che mi attende.»

«Ciò è evidente e comprensibile. Vieni, dunque... e preparati per i riti.»

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«Son pronto,» disse Cugel. «In verità, basta che mi consegnate le lenti magiche; me le porterò tranquillamente da parte per rallegrarmene.»

Il Capo degli Anziani scosse il capo, indulgente. «Non è così che stabiliscono i riti. Innanzi tutto tu devi pre-

sentarti nudo, qui, nel padiglione di questo possente castello, e le più belle tra le belle ti ungeranno di aromi. Poi viene l'invo-cazione a Eddith Bran Maur. Poi...»

«O venerato signore,» esclamò Cugel, «concedimi una grazia. Prima che incomincino le cerimonie, mettimi le lenti magiche, affinché io possa vedere e comprendere tutta la portentosa meraviglia della cerimonia.»

Il Capo degli Anziani meditò. «È una richiesta insolita, ma comprensibile e ragionevole.

Portate le lenti!» Vi fu una breve attesa, durante la quale Cugel si dondolò, in-

nervosito, sull'uno e sull'altro piede. I minuti trascorsero. Gli indumenti luridi e la barba falsa gli davano un prurito terribi-le. Poi, dal limitare del villaggio, egli vide apparire altre perso-ne, che venivano dalla direzione di Grodz. Una di esse era cer-tamente Bubach Angh, mentre un'altra era priva di barba.

Apparve il Capo degli anziani, reggendo in ciascuna mano una lente viola.

«Avanzati!» «Eccomi, signore!» esclamò Cugel a voce alta. «Ora applicherò la pozione che santifica l'applicazione della

lente magica all'occhio destro.» In fondo alla folla, Bubach Angh alzò la voce. «Fermo! Che cosa succede?» Cugel si voltò e tese il braccio. «Chi è lo sciacallo che interrompe questo rito solenne? Allon-

tanatelo subito!» «Sicuro!» esclamò in tono perentorio il Capo degli Anziani. «Tu

ti comporti indecorosamente e dissacri la solennità della ceri-monia.»

Bubach Angh indietreggiò, momentaneamente intimorito. «Data la blasfema interruzione,» disse Cugel, «ritengo giusto

prendere semplicemente in custodia le lenti magiche, in attesa che questi bricconi si acquietino.»

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«No,» disse il Capo degli Anziani. «Si tratta di una procedura impossibile.» Gettò alcune gocce di grasso rancido nell'occhio destro di Cugel. Ma in quel momento il contadino privo di bar-ba lanciò un grido.

«Il mio cappello! La mia giacca! La mia barba! Non c'è più giustizia, dunque?»

«Silenzio!» sibilò la folla. «È una cerimonia solenne!» «Ma io sono Bu...» «Inserisci la lente magica, signore,» invocò Cugel. «Ignoriamo

quei bricconi.» «Tu dai del briccone a me?» ruggì Bubach Angh. «Adesso ti ri-

conosco, mascalzone! Interrompete la cerimonia!» Inesorabile, il Capo degli Anziani proseguì. «Ora io ti affido la lente destra. Dovrai tenere temporanea-

mente chiuso quest'occhio per evitare una discordanza che af-faticherebbe il cervello e causerebbe stordimento. Ora l'occhio sinistro.» Si fece avanti con l'unguento, ma Bubach Angh e il contadino senza barba non si trattennero più.

«Interrompete la cerimonia! State per fare nobile un impo-store! Io sono Bubach Angh, il degno scudiero! Colui che ti sta davanti è un vagabondo!»

Il Capo degli Anziani scrutò perplesso Bubach Angh. «Per la verità, tu sembri proprio il contadino che per trentun

anni ha portato le vettovaglie a Smolod. Ma se Bubach Angh sei tu, allora chi è costui?»

Il contadino senza barba si fece avanti, personalmente. «È il mostro senz'anima che mi ha rubato gli abiti che indos-

savo e mi ha tagliato la barba.» «È un criminale, un bandito, un vagabondo...» «Basta!» esclamò il Capo degli Anziani. «Sono parole scelte

male. Ricordatevi che è stato elevato al rango di principe di Smolod.»

«Non completamente!» gridò Bubach Angh. «Ha uno dei miei occhi! Reclamo l'altro.»

«È una situazione imbarazzante,» mormorò il Capo degli An-ziani. E si rivolse a Cugel. «Per quanto tu sia stato in preceden-za un vagabondo e un tagliagole, ora sei un principe, e un uomo responsabile. Qual è la tua opinione?»

«Consiglio di allontanare senza indugio questi bricconi chias-

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sosi. Poi...» Bubach Angh e il contadino senza barba, lanciando urla di

rabbia, si buttarono in avanti. Cugel balzò via, ma non riuscì a controllare l'occhio destro. La palpebra si aprì: nel suo cervello irruppe un tale bagliore di esaltazione che il respiro gli si bloc-cò nella gola e il cuore quasi gli si fermò per lo sbalordimento. Ma nello stesso tempo il suo occhio sinistro gli mostrava la realtà di Smolod. Era una dissonanza troppo enorme perché potesse tollerarla: inciampò e cadde contro una delle baracche. Bubach Angh gli piombò addosso, con la zappa levata, ma in quel momento il Capo degli Anziani si mise in mezzo.

«Hai perduto il senno? Quest'uomo è un principe di Smolod!» «È un uomo che io ucciderò, perché ha uno dei miei occhi! Ho

forse faticato trentun anni perché ne beneficiasse un vagabon-do?»

«Calmati, Bubach Angh, se questo è il tuo nome, e ricordati che la questione non è ancora completamente chiarita. È pos-sibile che sia stato commesso un errore... senza dubbio un er-rore in buona fede, perché ora quest'uomo è un principe di Smolod, e cioè la giustizia e l'intelligenza personificate.»

«Non lo era per nulla, prima di ricevere la lente,» ribatté Bu-bach Angh. «Ed è stato allora che ha commesso la sua colpa.»

«Non posso occuparmi di sottigliezze semantiche,» rispose l'anziano. «Comunque, il tuo nome figura sull'elenco, ed è il primo, ed alla prossima fatalità...»

«Fra dieci o dodici anni?» gridò esasperato Bubach Angh. «De-vo lavorare ancora per tanto tempo, e ricevere la mia ricom-pensa quando il Sole si oscurerà? No, non può essere!»

Il contadino senza barba avanzò una proposta. «Prendi l'altra lente. In questo modo almeno avrai metà dei

diritti che ti spettano, e impedirai all'impostore di defraudarti completamente.»

Bubach Angh annuì. «Comincerò con una lente magica: poi ucciderò quel delin-

quente e prenderò anche l'altra, e tutto sarà a posto.» «Suvvia,» fece altezzoso il Capo degli Anziani. «Non è questo il

tono in cui si deve parlare di un principe di Smolod!» «Beh!» sbuffò Bubach Angh. «Ricordate da dove provengono le

vostre vettovaglie! Noi di Grodz non siamo certamente dispo-

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sti a faticare per nulla.» «Benissimo,» disse il Capo degli Anziani. «Deploro la tua scor-

retta interferenza, ma non posso negare che tu abbia in parte ragione. Ecco la lente sinistra di Radkuth Vomin. Rinuncerò all'invocazione, all'unzione sacra e al peana di rallegramento. Se vuoi avere la bontà di farti avanti e di aprire l'occhio sini-stro... così.»

Come aveva fatto poco prima Cugel, Bubach Angh guardò con tutti e due gli occhi e indietreggiò, vacillando stordito. Poi, pe-rò, posandosi la mano sull'occhio sinistro, si riprese, e avanzò verso Cugel.

«Ora ti sarai reso conto dell'inutilità del tuo trucco. Conse-gnami quella lente e vattene per la tua strada, perché non po-trai mai averle tutte e due.»

«Non m'importa niente,» disse Cugel. «Il mio amico Firx mi sol-lecita con urgenza ad accontentarmi di una sola.»

Bubach Angh digrignò i denti. «Credi di potermi giocare qualche altro scherzo? La tua vita

sta per finire: te lo garantisce tutta Grodz, non io soltanto!» «Mai entro i confini di Smolod!» Ammonì il Capo degli Anzia-

ni. «Non devono esservi dissidi tra i principi: ordino che vi sia pace. Voi che vi siete divisi le lenti di Radkuth Vomin, dovete dividervi anche il suo palazzo, le sue vesti, le sue proprietà, i suoi gioielli e il suo seguito, fino a quando, il più tardi possibile, o l'uno o l'altro di voi morirà, e allora il superstite potrà pren-dersi tutto. Questo è il mio giudizio: non vi è altro da dire.»

«Il momento della morte di questo intruso è per fortuna molto vicino,» ringhiò Bubach Angh. «L'istante in cui metterà piede fuori da Smolod sarà anche l'ultimo della sua vita! I cittadini di Grodz monteranno la guardia anche per cento anni, se sarà necessario!»

A questo annuncio, Firx si agitò, e Cugel rabbrividì per la sof-ferenza. Si rivolse a Bubach Angh, in tono conciliante.

«Potremmo arrivare a un compromesso: ti lascerò l'intero pa-trimonio di Radkuth Vomin: il suo palazzo, i suoi averi e il suo seguito. A me bastano le lenti magiche.»

Ma Bubach Angh non ne volle sapere. «Se ci tieni alla vita, consegnami immediatamente quella len-

te!»

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«Non è possibile,» disse Cugel. Bubach Angh gli voltò le spalle e parlò al contadino senza

barba, che annuì in segno d'intesa e si allontanò. Bubach Angh guardò minacciosamente Cugel, poi si avvicinò alla baracca di Radkuth Vomin e sedette sul mucchio di immondizie davanti alla porta. Poi provò la lente nuova, chiudendo per prudenza l'occhio destro, e aprì il sinistro per contemplare le meraviglie del Sopramondo. Cugel pensò di approfittare della sua estasi e si diresse verso i confini del villaggio. Bubach Angh non mo-strò di essersene accorto. Ah, pensò Cugel. Allora sarebbe sta-to facile. Altri due balzi e si sarebbe perduto nell'oscurità.

Tese le lunghe gambe per spiccare quei due balzi. Un suono lieve — un grugnito, un fruscio di vestiti, uno scricchiolio — lo fece schizzare da parte, mentre un badile si avventava, ta-gliando l'aria nel punto in cui fino a un attimo prima si trovava la sua testa. Nel debole chiarore irradiato dalle lampade di Smolod, Cugel scorse la faccia vendicativa del contadino senza barba. Dietro di lui veniva Bubach Angh, con la testa pesante spinta in avanti, come un toro. Cugel li schivò e corse, agilmen-te, verso il centro di Smolod.

Lentamente, enormemente deluso, ritornò anche Bubach Angh, e andò di nuovo a sedersi.

«Non riuscirai mai a fuggire,» disse a Cugel. «Consegnami l'al-tra lente e avrai salva la vita.»

«Neanche per idea,» rispose Cugel, in tono vivace. «Sei tu, piuttosto che devi temere per la sua vita, che corre un pericolo ancora più grave!»

Dalla baracca del Capo degli Anziani giunse una voce ammo-nitrice.

«Smettete questa contesa! Mi sto abbandonando ai capricci erotici di una bellissima principessa, e non voglio essere di-stratto.»

Cugel, ricordando quelle masse di carne untuosa, quei volti informi e stravolti, quei capelli sporchi e verminosi, il fetore indescrivibile che caratterizzava le donne di Smolod, si mera-vigliò ancora una volta del potere delle lenti. Bubach Angh stava provando la visione del suo occhio sinistro. Cugel si si-stemò su di una panca e provò ad usare l'occhio destro, co-prendosi il sinistro con una mano...

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Cugel indossava una camicia di morbide scaglie d'argento, calzoni scarlatti aderenti, e un manto azzurro cupo. Sedeva su una panchina di marmo davanti ad una fila di colonne marmo-ree a spirale, cariche di. fronde verdi e di fiori candidi. Da ogni parte, i palazzi di Smolod torreggiavano nella notte, in una lunga fuga, e luci dolcissime accentuavano la linea delle arcate e delle finestre. Il cielo era di un blu soave, pieno di grandi stel-le fulgidissime; tra i palazzi vi erano giardini pieni di cipressi, di mirti, di gelsomini, di piante aromatiche: l'aria era pervasa dal profumo dei fiori e dal mormorio argentino dell'acqua cor-rente. Da lontano, giungeva l'eco di una musica: un vibrare de-licato di accordi sommessi, un sospiro di melodia. Cugel trasse un profondo respiro e si alzò in piedi. Si mosse, attraversando il terrazzo. I palazzi e i giardini cambiarono prospettiva; in un prato fiocamente illuminato, tre fanciulle che indossavano abi-ti di leggerissimo velo bianco si voltarono a guardarlo.

Cugel, involontariamente, mosse un passo in quella direzio-ne, ma poi, ricordando la malignità di Bubach Angh, si fermò per controllare meglio il luogo in cui si trovava. Al di là della piazza sorgeva un palazzo di sette piani, ognuno dei quali era abbellito da un giardino pensile: tralci e fiori ricadevano sulle mura. Attraverso le finestre, Cugel scorse mobili ricchissimi, candelieri splendenti, il movimento silenzioso di ciambellani in livrea. Nel padiglione davanti al palazzo stava in piedi un uo-mo dal volto aquilino, dalla barba dorata ben tagliata, che in-dossava abiti neri ed ocra, con le spalline d'oro e stivali neri. Stava con un piede posato su di un grifone di pietra, le braccia sul ginocchio piegato, e guardava in direzione di Cugel, con un'espressione di antipatia meditabonda. Cugel si meravigliò: possibile che quello fosse Bubach Angh, dalla faccia porcina? E quel magnifico palazzo a sette piani era la miserabile baracca di Radkuth Vomin?

Cugel attraversò lentamente la piazza, e si trovò di fronte ad un padiglione illuminato da candelabri. C'erano tavoli carichi di carni, gelatine e dolci di ogni genere; e lo stomaco di Cugel, alimentato esclusivamente di legno marcio gettato a riva e di pesce affumicato, lo spinse a farsi avanti. Passò da un tavolo all'altro, assaggiando qualche boccone da ogni piatto, e riscon-trò che tutti erano della qualità più raffinata.

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«Può darsi che io stia ancora divorando soltanto pesce affu-micato e lenticchie,» si disse allora. «Ma bisogna riconoscere che è una gran cosa, davvero, l'incantesimo che li trasforma in leccornie tanto squisite. Certo, un uomo potrebbe fare di peggio che trascorrere il resto della vita qui a Smolod.»

Come se avesse anticipato quel pensiero, Firx inflisse al fega-to di Cugel una serie di fitte ammonitrici e torturanti, e Cugel maledisse rabbiosamente Iucounu, il Mago Ridente, e rinnovò i suoi propositi di vendetta.

Poi, recuperando il controllo di sé, si diresse verso il punto in cui i giardini geometrici che circondavano i palazzi lasciavano il posto a un grande parco. Girò la testa, e scorse il principe dal viso aquilino, vestito di nero e d'ocra, che si stava avvicinando con intenzioni manifestamente ostili. Nella semioscurità del parco, Cugel notò un altro movimento, ed ebbe l'impressione di scorgere un gran numero di guerrieri in armatura.

Cugel ritornò sulla piazza e Bubach Angh lo seguì, tornò a piantarsi davanti al palazzo di Radkuth Vomin ed a guardarlo indignato e minaccioso.

«È evidente,» disse Cugel a voce alta, per edificazione di Firx, «che questa notte sarà impossibile andarsene da Smolod. Natu-ralmente, sono ansiosissimo di consegnare questa lente a Iu-counu, ma se vengo ucciso, né io né l'ammirevole Firx potremo mai fare ritorno ad Almeria.»

Firx non diede più segno di vita. E adesso, si chiese Cugel, dove poteva passare la notte? Il palazzo a sette piani di Radkuth Vomin offriva manifestamente la possibilità di una ricca e comoda sistemazione tanto per lui quanto per Bubach Angh. Tuttavia, in pratica, i due si sarebbero trovati in una ba-racca con un'unica stanza, e con un unico mucchio di canne umide per giaciglio. Pensosamente, con un certo rimpianto, Cugel chiuse l'occhio destro e aprì quello sinistro.

Smolod era come prima. Bubach Angh stava accosciato, con aria incattivita, davanti alla porta della baracca di Radkuth Vomin. Cugel si fece avanti e gli affibbiò un calcio. Sbalordito e sconvolto, Bubach Angh spalancò entrambi gli occhi, e gli im-pulsi contrastanti si scontrarono nel suo cervello, determi-nando una paralisi. Nascosto nelle tenebre, il contadino senza barba lanciò un ruggito, poi si gettò alla carica, allo scoperto,

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con il badile levato, e Cugel dovette rinunciare al suo progetto di tagliare la gola di Bubach Angh. Si infilò nella capanna, chiuse la porta e la sbarrò.

A questo punto chiuse l'occhio sinistro e aprì quello destro. Si trovò nel magnifico atrio del palazzo di Radkuth Vomin, il cui portico era difeso da una saracinesca di ferro battuto. All'e-sterno, il principe dai capelli d'oro, vestito d'ocra e di nero, co-prendosi un occhio con la mano, si stava rialzando con fredda dignità dal selciato della piazza. Alzando un braccio in atto di nobile sfida, Bubach Angh si gettò il manto sulle spalle e si al-lontanò a passo di marcia per raggiungere i suoi guerrieri.

Cugel si aggirò nel palazzo, ispezionandolo con piacere. Se non fosse stato per le importune manifestazioni d'impazienza di Firx, non ci sarebbe stata nessuna fretta di intraprendere il pericoloso viaggio di ritorno verso la Valle dello Xzan.

Cugel scelse una lussuosa stanza che dava verso il sud, si spogliò dei ricchi indumenti per infilare abiti da notte di raso, si distese sul letto tra lenzuola di seta celeste e cadde immedia-tamente addormentato.

Il mattino dopo, faticò abbastanza a ricordare quale occhio doveva aprire, e pensò che sarebbe stato opportuno preparare una pezza per coprire l'occhio che non doveva usare.

Di giorno, i palazzi di Smolod erano più grandiosi e magnifici che mai, e adesso la piazza era affollata di principi e di princi-pesse, tutti di bellezza sorprendente.

Cugel indossò eleganti abiti neri, con un vistoso berretto ver-de e sandali verdi. Scese nell'atrio, fece sollevare la saracine-sca con un gesto di comando, e poi si avventurò sulla piazza.

Non c'era la minima traccia di Bubach Angh. Gli altri abitanti di Smolod lo accolsero con grande cortesia, e le principesse gli dimostrarono un notevole calore, come se lo trovassero di loro gusto. Cugel rispose educatamente, ma senza fervore; neppure la lente magica poteva convincerlo, al ricordo del vero aspetto delle donne di Smolod: fetidi ammassi di grasso, carne, sudi-ciume e capelli.

Fece colazione nel padiglione, servendosi cibi deliziosi, poi ri-tornò sulla piazza, per decidere quale sarebbe stata la sua li-nea di azione. Una rapida ispezione nel parco gli rivelò la pre-senza di guerrieri di Grodz che stavano in agguato. Non vi era

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alcuna prospettiva immediata di fuga. I nobili di Smolod si dedicavano ai loro svaghi. Alcuni vaga-

bondavano fra i prati, altri andavano in barca sui fiumi delizio-si che portavano al nord. Il Capo degli Anziani, un principe dal volto nobile e sagace, sedeva solitario su di una banchina d'o-nice, immerso in una profonda fantasticheria.

Cugel si avvicinò; il Capo degli Anziani si riscosse e gli rivolse un saluto di misurata cordialità.

«Non mi sento del tutto sereno,» dichiarò. «Nonostante il no-stro giudizio, e anche tenendo conto del fatto che tu ignoravi, necessariamente, le nostre consuetudini, mi rendo conto che è stato compiuto un atto non del tutto equo, e non riesco a im-maginare come si possa porvi riparo.»

«Mi sembra,» disse Cugel, «che lo scudiero Bubach Angh, ben-ché sia senza dubbio un uomo degnissimo, mostri una man-canza di disciplina che non è adeguata alla dignità di Smolod. Secondo me, sarebbe senza dubbio molto meglio rimandarlo a Grodz per qualche anno, affinché abbia il tempo di maturare convenientemente.»

«C'è qualcosa di vero in ciò che hai detto,» rispose il Capo degli Anziani. «Qualche volta, certi piccoli sacrifici personali sono essenziali per il bene della comunità. Sono sicuro che tu, se si presentasse la necessità, saresti felice di rinunciare alla tua lente magica e di ritornare nuovamente a Grodz. Che cosa so-no, in fondo, pochi anni? Trascorrono in volo come farfalle.»

«Oppure si potrebbe organizzare una specie di lotteria, alla quale dovrebbero partecipare tutti coloro che possiedono due lenti: e il perdente dovrebbe donare una delle sue lenti a Bu-bach Angh. Io mi accontenterò di quella che ho.»

Il Capo degli Anziani aggrottò la fronte. «Ecco, si tratta di una possibilità molto remota. Intanto anche

tu devi partecipare ai nostri svaghi. Se posso esprimermi così, tu hai un aspetto gradevole, e alcune delle principesse ti guar-dano con occhi sognanti. Ecco là, per esempio, l'incantevole Udela Narshag... e là, Zokoxa dai Petali di Rosa, e più in là la vivace Ilviu Lasmal. Non devi esitare: qui a Smolod, noi vivia-mo un'esistenza scevra da restrizioni.»

«Non mi è certamente sfuggito il fascino di quelle bellissime dame,» rispose Cugel. «Ma, per mia sfortuna, sono vincolato da

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un rigido voto di castità.» «O sventurato!» esclamò il Capo degli Anziani. «Le principesse

di Smolod sono incomparabili! E guarda... eccone una altra che sollecita la tua attenzione!»

«Sicuramente è te, che quella dama sta chiamando,» disse Cugel, e l'anziano andò a conferire con la giovane donna in questione, che era giunta sulla piazza a bordo di un magnifico veicolo a forma di barca che camminava su sei zampe di cigno. La principessa era semisdraiata su cuscini color rosa, ed era abbastanza bella da indurre Cugel a rammaricarsi dell'acutez-za della sua memoria, che proiettava i capelli arruffati, le ver-ruche, le labbra flaccide, le rughe sudaticce delle donne di Smolod in primissimo piano nel suo ricordo. Quella principessa era veramente la quintessenza di un sogno: snella e flessuosa, con una pelle candida come il latte, il nasino delicato, occhi lu-centi, una bocca di deliziosa flessibilità. La sua espressione in-quietava un po' Cugel, perché era assai più complessa di quella delle altre principesse: pensierosa e insieme volitiva, ardente e insieme insoddisfatta.

Sulla piazza comparve Bubach Angh, abbigliato in foggia mi-litaresca, con corazza, morione e spada. Il Capo degli Anziani si recò a parlare con lui; e, con grande irritazione di Cugel, la principessa nella barca gli fece un cenno di richiamo.

Cugel si fece avanti. «Sì, principessa? Tu mi hai salutato, mi pare.» La principessa annuì. «Mi sto chiedendo le ragioni della tua presenza qui, in queste

terre del nord.» La sua voce era sommessa e chiara come una musica.

«Sono qui in missione,» disse Cugel. «Potrò rimanere a Smolod soltanto per breve tempo, e poi dovrò continuare il mio viag-gio, verso oriente e verso sud.»

«Davvero,» disse la principessa. «E posso sapere qual è la na-tura della tua missione?»

«Per essere sincero, sono stato condotto qui dalla malvagità di un mago. Io non lo desideravo affatto.»

La principessa rise sommessamente. «Vedo così pochi forestieri, e desidero nuovi volti e nuove

conversazioni. Forse non ti dispiacerebbe venire nel mio pa-

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lazzo: parleremo di magia, e delle strane circostanze che af-fliggono la Terra morente.»

Cugel si inchinò, impettito. «La tua offerta è molto contese. Ma dovrai cercare altrove: io

sono legato ad un voto di castità. Frena il tuo rincrescimento, poiché il voto vale non soltanto per te, ma anche per Udela Narshag, laggiù, per Zokoxa e per Ilviu Lasmal.»

La principessa inarcò le sopracciglia, poi si lasciò ricadere sui cuscini. Sorrise, lievemente.

«Davvero, davvero. Tu sei un uomo duro, severo e implacabi-le, se ti rifiuti a tante dame imploranti.»

«È proprio così, e così deve essere.» Cugel si volse, per affron-tare il Capo degli Anziani, che si stava avvicinando, seguito da Bubach Angh.

«Notizie spiacevoli,» annunciò il Capo degli Anziani, con voce turbata. «Bubach Angh parla a nome del villaggio di Grodz. Di-chiara che non ci verranno più fornite vettovaglie fino a quan-do non sarà fatta giustizia, e per giustizia gli abitanti di Grodz intendono la consegna della tua lente a Bubach Angh, e della tua persona a un comitato punitivo che sta aspettando nel par-co laggiù.»

Cugel rise, imbarazzato. «Quale idea contorta! Naturalmente, tu gli hai garantito che

noi di Smolod siamo disposti a mangiare erba e a spezzare tut-te le lenti piuttosto che accettare condizioni tanto sgradevoli!»

«Purtroppo ho temporeggiato,» dichiarò il Capo degli Anziani. «Ho l'impressione che gli altri principi di Smolod preferiscano una decisione più flessibile.»

Il sottinteso era chiarissimo, e Firx incominciò ad agitarsi esasperato. Per poter valutare la situazione nel modo più chia-ro possibile, Cugel spostò la toppa per guardare con l'occhio si-nistro.

Alcuni abitanti di Grodz, armati di falci, badili e bastoni, aspettavano a una distanza d'una cinquantina di metri; evi-dentemente era quello il comitato punitivo di cui aveva parlato Bubach Angh. Da una parte c'erano le baracche di Smolod; dall'altra la barca dalle zampe palmate e la principessa... Cugel spalancò l'occhio, sbalordito. La barca era rimasta identica, ritta su sei zampe di cigno, e sui cuscini rosa era distesa la

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principessa... se possibile, ancora più bella di prima. Ma adesso la sua espressione, anziché sorridente, era fredda e lontana.

Cugel trasse un profondo respiro e si mise a correre. Bubach Angh gli urlò l'ordine di fermarsi, ma Cugel non gli badò. Corse attraverso le barene, inseguito dal comitato punitivo.

Cugel rise allegramente: lui aveva le gambe lunghe e molto fiato; i contadini erano tozzi e bassi, flemmatici. Avrebbe potu-to facilmente percorrere due leghe mentre quelli ne percorre-vano una soltanto. Si soffermò, e si voltò per agitare un braccio in un gesto di addio. Con suo grande sbigottimento, due delle zampe della barca si staccarono e balzarono per inseguirlo. Cugel corse, disperatamente: invano. Le gambe lo superarono, una per parte, poi si girarono e lo arrestarono con un calcio.

Cugel ritornò indietro, di malumore, mentre le due zampe lo seguivano saltellando. Prima di arrivare a Smolod, infilò la mano sotto alla toppa e staccò la lente magica. Mentre il comi-tato punitivo gli si stringeva intorno, Cugel la sollevò.

«State indietro... o farò a pezzi la lente!» «Fermo, fermo!» gridò Bubach Angh. «Non è possibile! Suvvia,

consegnami la lente, e accetta la punizione meritata.» «Non è ancora detta l'ultima parola,» gli ricordò Cugel. «Il Ca-

po degli Anziani non si è ancora pronunciato.» La principessa si sollevò dai cuscini della barca. «Deciderò io. Io sono Derwe Coreme, della Casa di Domber.

Dammi quel vetro viola, qualunque cosa sia.» «Neanche per sogno,» disse Cugel. «Prendi invece la lente di

Bubach Angh.» «Mai!» esclamò l'uomo di Grodz. «Cosa? Tutti e due avete una lente e ne volete due? Che cosa

sono questi oggetti preziosi? Li portate come occhi? Dateli a me.»

Cugel sguainò la spada. «Preferisco fuggire, ma se è necessario combatterò.» «Io non posso correre,» disse Bubach Angh. «Preferisco com-

battere.» Si levò la lente dall'occhio. «E adesso, vagabondo, pre-parati a morire.»

«Un momento,» disse Derwe Coreme. Da una delle zampe della barca uscirono braccia sottili che scattarono a stringere i polsi di Cugel e di Bubach Angh. Le lenti caddero al suolo; quella di

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Bubach Angh colpì un sasso e andò in pezzi. Bubach Angh lan-ciò un ululato di disperazione e saltò addosso a Cugel, che in-dietreggiò sotto quell'assalto.

Bubach Angh non era un esperto in fatto di scherma: colpiva con fendenti rudi, come se stesse tranciando il pesce. Tuttavia, la furia del suo attacco era sconvolgente, e Cugel si trovò in dif-ficoltà nel difendersi. Oltre all'assalto furibondo di Bubach Angh, poi, c'era anche Firx che deplorava la perdita della len-te.

Derwe Coreme aveva smesso di interessarsi alla faccenda. La barca si avviò attraverso le barene, muovendosi ad una veloci-tà sempre crescente. Cugel avventò la spada, balzò indietro, balzò di nuovo indietro, e per la seconda volta si lanciò a corsa attraverso le barene, mentre la gente di Smolod e di Grodz gli scagliava contro maledizioni.

Il veicolo-barca procedeva, adesso, con un ritmo tranquillo. Con i polmoni doloranti, Cugel guadagnò terreno, e poi lo rag-giunse, e con un balzo saltò su, si afferrò al bordo e vi si issò a cavalcioni.

Le cose erano andate esattamente come aveva previsto. Derwe Coreme aveva guardato attraverso la lente ed era rica-duta sui cuscini, stordita. La lente violetta le giaceva in grem-bo.

Cugel se ne impadronì, poi per un attimo abbassò lo sguardo su quel volto squisito, e si chiese se doveva osare di più. Ma Firx riteneva che non era il caso. Derwe Coreme stava già so-spirando e muoveva debolmente il capo.

Cugel balzò giù dalla barca, appena in tempo. Lei lo aveva vi-sto? Corse verso un gruppo di canne che crescevano in riva ad uno stagno, e si gettò nell'acqua. Da lì, vide la barca fermarsi, mentre Derwe Coreme si alzava in piedi. Frugò tra i guanciali rosa per cercare la lente, poi guardò la campagna circostante. Ma la luce rossosangue del Sole basso l'abbagliò, quando guar-dò in direzione di Cugel, e scorse soltanto le canne e il riflesso del Sole sull'acqua.

Sdegnata e imbronciata più che mai, rimise in moto la barca, che si avviò, poi indugiò, e quindi si diresse verso il sud.

Cugel uscì dall'acqua, studiò la lente magica, se la ripose in tasca e si voltò a guardare in direzione di Smolod. Incominciò a

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camminare in direzione del meridione. Poi si fermò. Si tolse dalla tasca la lente, chiuse l'occhio sinistro e se l'accostò al de-stro. Laggiù sorgevano i palazzi, balconata su balconata, torre su torre, i giardini pensili sulle terrazze... Cugel avrebbe conti-nuato a guardare a lungo quello spettacolo, ma Firx divenne irrequieto.

Cugel rimise nuovamente in tasca la lente, e ancora una volta si avviò verso sud, per intraprendere il suo lungo viaggio di ri-torno ad Almeria.

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II

C I L

Il tramonto, stille desolate terre del nord, era luttuoso, langui-do come il sanguinare d'un animale morto; il crepuscolo venne e trovò Cugel che procedeva a fatica attraverso una palude salmastra. La luce rossocupa del meriggio lo aveva ingannato; avviandosi attraverso le barene basse, aveva trovato dappri-ma l'umidità, sotto ai suoi piedi, poi il suolo era divenuto molle e viscido, e adesso c'era fango tutto intorno a lui, erbe palustri, qualche larice e qualche salice, e pozzanghere che riflettevano il porpora plumbeo del cielo.

Ad oriente si distinguevano colline poco elevate: Cugel si av-viò in quella direzione, balzando di ciuffo d'erba in ciuffo d'er-ba, correndo delicatamente sul fango indurito a crosta. Qual-che volta sbagliava a posare il piede, e finiva per cadere lungo disteso tra la melma e le canne imputridite, e allora le sue mi-nacce e le sue imprecazioni contro Iucounu, il Mago Ridente, raggiungevano la massima intensità del rancore.

Il crepuscolo durò fino a quando, con enorme fatica, Cugel raggiunse il pendio delle colline orientali, dove la sua situazio-ne peggiorò anziché migliorare. Certi banditi semiumani ave-vano notato il suo arrivo, e adesso stavano in agguato. Un feto-re terribile raggiunse Cugel, prima ancora che egli avesse la possibilità di udire il rumore dei loro passi; dimenticando la stanchezza, balzò via, e venne inseguito su per il pendio.

Contro il cielo si levava una torre sventrata. Cugel si arram-picò sulle pietre coperte di muffa, sguainò la spada e varcò l'a-pertura dove un tempo vi era stata la porta. All'interno c'era silenzio, odore di polvere e di pietre umide; Cugel si lasciò ca-dere in ginocchio e, contro il cielo, scorse le tre figure grotte-sche che si arrestavano davanti alle rovine.

Era strano, pensò Cugel, anche se per lui era una fortuna:

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tutto sommato, non prometteva nulla di buono. A quanto pare-va, quegli esseri avevano paura della torre.

Gli ultimi bagliori del crepuscolo scomparvero; da molti por-tenti, Cugel scoprì che la torre era infestata. Verso la metà del-la notte apparve uno spettro, che indossava vesti pallide, e portava un cerchio d'argento con incastonate venti pietre-di-luna su lunghi supporti argentei. Si avvicinò vorticando a Cugel, guardandolo con le occhiaie vuote in cui un uomo poteva perdere i propri pensieri. Cugel si addossò al muro con tanta forza che le ossa gli scricchiolarono, e restò lì, incapace di muovere un muscolo.

Lo spettro parlò. «Demolisci questo fortino. Finché resta pietra su pietra, io

devo rimanere, mentre la Terra si raffredda e oscilla nelle te-nebre.»

«Volentieri,» gracchiò Cugel. «Ma ci sono quegli individui, là fuori, che vogliono la mia vita.»

«In fondo al corridoio c'è un passaggio. Usa la sorpresa e la forza, e poi fai ciò che ti ho detto.»

«Considera pure il fortino già raso al suolo,» dichiarò con fer-vore Cugel. «Ma quali circostanze ti hanno legato a un luogo tanto inospitale?»

«Sono dimenticate, ma io rimango. Fai ciò che ti ho ordinato, oppure ti scaglierò contro una maledizione, augurandoti eter-no tedio come il mio!»

Cugel si svegliò nel buio, dolorante per il freddo e per i cram-pi. Lo spettro era scomparso. Per quanto tempo aveva dormi-to? Guardò oltre la porta e vide che, a Oriente, il cielo si stava colorando nell'imminenza dell'alba.

Dopo un'attesa interminabile apparve il Sole, che mandò un raggio fiammeggiante attraverso la porta, verso il fondo del corridoio. Lì, Cugel scoprì una scala dì pietra che scendeva in un passaggio polveroso, il quale dopo cinque minuti di lento procedere a tentoni, lo ricondusse alla superficie. Dal suo na-scondiglio esplorò il terreno, e vide i tre banditi, piazzati l'uno lontano dall'altro: ognuno era nascosto dietro una colonna ab-battuta.

Cugel sguainò la spada e avanzò furtivamente, con grande cautela. Raggiunse la prima delle figure prone nell'agguato, e

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infilò l'acciaio nel collo nodoso. L'essere allargò le braccia, si aggrappò al suolo e morì.

Cugel strappò via la lama e l'asciugò sulla pelle coriacea del cadavere. Con abile furtività, senza fatica, si portò alle spalle del secondo bandito, che morendo lanciò un gemito di dolore. Il terzo bandito sopraggiunse, per vedere che cos'era successo.

Balzando fuori dal suo nascondiglio, Cugel lo trafisse. Il ban-dito gridò, sguainò la propria daga e gli si lanciò contro, ma Cugel balzò indietro e gli scagliò addosso una grossa pietra che lo fece cadere al suolo, dove giacque, con smorfie di odio.

Cugel si avanzò, cautamente. «Poiché stai per morire, dimmi che cosa ne sai del tesoro na-

scosto.» «Non so di nessun tesoro nascosto,» disse il bandito. «E se ci

fosse, tu saresti l'ultimo al quale lo direi, poiché mi hai ucciso.» «Non è colpa mia,» rispose Cugel. «Eravate voi a inseguire me,

non io a inseguire voi. Perché lo avete fatto?» «Per mangiare, per sopravvivere, anche se la vita e la morte

sono egualmente disperate e io le disprezzo in modo eguale.» Cugel rifletté. «In questo caso, non devi rimproverarmi la parte che ho avu-

to nella transizione che ti attende. E ridiventa importante la questione del tesoro nascosto. Hai qualcosa da dire, in proposi-to?»

«Ho qualcosa da dire, ti mostrerò il mio unico tesoro.» L'essere si frugò faticosamente in tasca e ne trasse un ciottolo bianco e rotondo. «Questa è una pietra che si trova nel cranio degli orri, e in questo momento freme di forza. Mi servo di questa forza per maledirti, per portare su di te l'insorgenza immediata di una morte cancerosa.»

Cugel si affrettò a uccidere il bandito, poi emise un sospiro di rammarico. Quella notte aveva portato soltanto difficoltà.

«Iucounu, se riuscirò a sopravvivere, ci sarà una resa dei con-ti terribile!»

Cugel si voltò per esaminare il fortino. Alcune pietre sarebbe-ro cadute solo a toccarle; altre, invece, avrebbero richiesto uno sforzo assai maggiore. Forse non sarebbe riuscito a vivere ab-bastanza a lungo da adempiere quel compito. Quale era stata la formula della maledizione del bandito? «... l'insorgenza imme-

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diata di una morte cancerosa». Una autentica cattiveria. Ma la maledizione del re-spettro non era meno opprimente: «... tedio eterno».

Cugel si massaggiò il mento e annuì, con aria grave, poi, al-zando la voce, esclamò: «Nobile spettro, non posso rimanere per obbedire al tuo comando; ho ucciso i banditi e dunque me ne vado. Addio, e possano gli eoni trascorrere rapidamente.»

Dalle profondità del fortino si levò un gemito, e Cugel sentì su di sé l'oppressione dell'ignoto.

«Do corso alla mia maledizione!» risuonò un bisbiglio nel cer-vello di Cugel.

Cugel si avviò a passo rapido verso sud-est. «Magnifico. Tutto per il meglio. Il 'tedio eterno' controbilancia

esattamente l'insorgenza immediata della morte', e mi resta soltanto il cancro, che già mi affligge sotto forma di Firx. Biso-gna usare il cervello, quando si ha a che fare con le maledizio-ni.»

Procedette sul terreno desolato fino a quando il fortino scom-parve alla sua vista, e finalmente ritornò di nuovo in vista del mare. Dalle alture, guardò in direzione della spiaggia, e scorse un promontorio scuro a oriente, un altro a occidente. Scese sulla riva, e si diresse verso oriente. Il mare, pigro e grigio, mandava contro la sabbia le sue piccole onde indifferenti; la rena era liscia, non segnata da impronte.

In distanza, Cugel scorse una macchia nera, che pochi minuti dopo si rivelò per un uomo anziano che, inginocchiato, faceva passare attraverso un crivello la sabbia.

Cugel si fermò a osservarlo. Il vecchio gli rivolse un dignitoso cenno di saluto, poi proseguì il suo lavoro.

Finalmente la curiosità spinse Cugel a parlare. «Che cosa stai cercando con tanto impegno?» Il vecchio posò il crivello e si massaggiò le braccia. «Da qualche parte, lungo questa spiaggia, un amuleto venne

perduto dal padre del mio trisavolo. Per tutta la sua vita egli setacciò la sabbia, sperando di trovare ciò che aveva perduto. Suo figlio, e mio nonno dopo di lui, e poi mio padre ed ora an-ch'io, ultimo della casata, abbiamo fatto lo stesso. Per tutta la spiaggia che si estende da qui a Cil abbiamo setacciato la sab-

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bia, ma mancano ancora sei leghe per arrivare a Benbadge Stull.»

«Questi nomi mi giungono nuovi,» disse Cugel. «Che posto è Benbadge Stull?»

Il vecchio indicò il promontorio a occidente. «Un antico porto, anche se ora vi troverai soltanto un frangi-

flutti semidistrutto, un vecchio molo ed un paio di baracche. Eppure, un tempo, le navi provenienti da Benbadge Stull per-correvano il mare fino a Falgunto ed a Mell.»

«Anche questi sono territori che non conosco,» disse Cugel. «Che cosa c'è, al di là di Benbadge Stull?»

«Il territorio si assottiglia, in direzione nord. Il Sole è molto basso, sulle paludi e sui boschi: e là non s'incontra nessuno, ec-cetto pochi fuorilegge.»

Cugel si rivolse verso oriente. «E dov'è Cil?» «Tutto questo regno è Cil, che il mio antenato dovette cedere

alla Casa di Domber. Tutta la sua grandezza è scomparsa: ri-mangono soltanto l'antico palazzo e un villaggio. Più oltre, si estende una foresta scura e pericolosa, tanto il nostro regno è decaduto.» Il vecchio scosse il capo e ricominciò a setacciare la sabbia.

Cugel rimase per un attimo a osservarlo e poi, sferrando qualche calcio ozioso alla sabbia, scoprì uno scintillio metallico. Si chinò e raccolse un braccialetto di metallo nero, che brillava di luccichii purpurei. Attorno alla sua circonferenza vi erano trenta borchie di gemme simili a carbonchi, ognuna delle quali era cinta da un serie di rune incise.

«Ah!» esclamò Cugel, mostrando il braccialetto. «Guarda che oggetto splendido: vale davvero un tesoro.»

Il vecchio depose paletta e setaccio, si sollevò lentamente sul-le ginocchia, poi si alzò in piedi. Si lanciò in avanti, spalancan-do gli occhi azzurri, e tese la mano.

«Tu hai scoperto l'amuleto dei miei antenati, l'amuleto della Casa di Slaye! Dammelo!»

Cugel indietreggiò. «Andiamo, andiamo, tu mi stai rivolgendo una richiesta chia-

ramente irragionevole!» «No, no! L'amuleto è mio: tu sbagli a non consegnarmelo. Vuoi

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rovinare l'opera di tutta la mia vita, e di quattro esistenze pri-ma della mia?»

«Perché non ti compiaci del ritrovamento dell'amuleto?» do-mandò piccato Cugel. «Adesso non dovrai più proseguire le tue ricerche. Spiegami, se non ti dispiace, quale è la potenza di questo oggetto: irradia una pesante magia. In che modo può trarne profitto il suo proprietario?»

«Il proprietario sono io,» gemette il vecchio. «Ti supplico, sii generoso!»

«Tu mi metti in una situazione molto difficile,» disse Cugel. «La mia ricchezza è troppo misera perché possa concedermi di fare elargizioni, ma non posso considerarla un'assenza di ge-nerosità. Se l'amuleto lo avessi trovato tu, me lo avresti dato?»

«No, poiché è mio!» «Su questo non siamo d'accordo. Prova a pensare, se non ti

dispiace, che la tua convinzione sia inesatta. I tuoi occhi ti at-testeranno che l'amuleto è nelle mie mani, in mio potere; in-somma, è una mia proprietà. Perciò, sarei lieto di avere qual-che informazione sulle sue qualità e sul modo di impiegarlo.»

Il vecchio levò le braccia al cielo, e sferrò un calcio al crivello con una rabbia così intensa che ne strappò la rete, e il crivello rimbalzò e rotolò sulla spiaggia, fino alla battigia. Arrivò un'onda che sollevò il secchiello; il vecchio fece un gesto invo-lontario come per recuperarlo, poi alzò di nuovo le mani al cie-lo e si allontanò verso l'entroterra. Cugel scosse il capo con aria di seria disapprovazione, e si voltò per continuare a co-steggiare la riva, verso oriente.

A questo punto ebbe luogo uno spiacevole alterco con Firx, il quale era convinto che la strada più breve per ritornare ad Almeria fosse quella che portava a occidente, attraverso il por-to di Benbadge Stull. Cugel, angosciato, si strinse le mani sul ventre.

«C'è una sola strada possibile! Bisogna passare per le terre che si estendono a sud e ad est. Che importa anche se l'oceano offre una strada più diretta? Non vi sono imbarcazioni dispo-nibili, e non è possibile coprire a nuoto una distanza tanto grande!»

Firx gli inflisse un paio di fitte dubbiose, ma alla fine permise a Cugel di dirigersi verso oriente, seguendo la costa. Dietro di

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loro, sulle alture della spiaggia, stava seduto il vecchio, con la paletta penzolante tra le gambe, e guardava il mare.

Cugel proseguì lungo la spiaggia, soddisfatto degli avveni-menti di quella mattina. Esaminò a lungo l'amuleto, attenta-mente: trasudava un'intensa aura di magia, e per giunta era un oggetto di bellezza non trascurabile. Le rune, incise con grande abilità e delicatezza, erano purtroppo indecifrabili per lui. S'in-filò il braccialetto al polso, con un gesto impacciato, e nell'infi-larlo premette una delle borchie di carbonchio. Da qualche luo-go venne un gemito abissale, un suono di angoscia profonda. Cugel si fermò di colpo, guardò intorno a sé, lungo la spiaggia. Il mare era grigio, la sabbia pallida, la riva irta di cespugli di spinifelci. Benbadge Stull era a occidente, Cil a oriente, e sopra c'era il cielo grigio. Era solo. Da dove era venuto quel gemito?

Cautamente, Cugel toccò di nuovo il carbonchio, ed evocò an-cora una volta quella protesta angosciata.

Affascinato, Cugel premette un altro carbonchio, e questa volta suscitò un ululato di disperazione penosa in una voce di-versa. La cosa lo stupì: chi mai, lungo quella spiaggia desolata, manifestava un'indole così frivola? Premette uno dopo l'altro tutti i carbonchi, e produsse un concerto completo di grida che percorrevano l'intera gamma dell'angoscia e del dolore. Cugel esaminò l'amuleto con aria critica. Oltre ad evocare gemiti e singhiozzi, non pareva possedere altri poteri evidenti, e poco dopo Cugel si stancò di quel gioco.

Il Sole arrivò allo zenith. Cugel placò la fame con un po' di al-ghe, dopo averle rese commestibili per mezzo del talismano che Iucounu gli aveva fornito per quello scopo. Mentre man-giava, gli parve di udire voci e risate spensierate, così indistin-te che potevano anche essere il suono della risacca. Lì vicino, c'era una lingua di roccia che si protendeva nell'oceano; ascol-tando attentamente, Cugel scoprì che le voci provenivano da quella direzione. Erano chiare e infantili, e squillavano di una gaiezza innocente.

Si avvicinò cautamente alla roccia e si affacciò per guardare. All'altra estremità, dove l'oceano si gonfiava sollevando masse d'acqua scura, si erano fissate quattro enormi conchiglie. Adesso erano aperte, e vi si affacciavano delle teste, fissate a spalle ed a braccia nude. Le teste erano rotonde e chiare, con le

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guance morbide, gli occhi grigiazzurri, e ciuffi di capelli biondi. Quegli esseri tuffavano le dita nell'acqua, e dalle gocce ricava-vano fili sottili che intessevano destramente in un morbido tessuto. L'ombra di Cugel cadde sull'acqua, e immediatamente le creature si richiusero nei loro gusci.

«Come mai?» esclamò scherzosamente Cugel. «Vi rinserrate sempre in questo modo, alla vista di un estraneo? Siete così timorosi? O soltanto scorbutici?»

I gusci restarono chiusi; l'acqua scura vorticava sopra le su-perfici a costola.

Cugel si avvicinò di un passo, si accosciò e inclinò la testa da una parte.

«O forse siete orgogliosi? E vi ritirate per disdegno? Oppure mancate di cortesia?»

Anche questa volta, non ottenne risposta. Cugel restò dov'era e incominciò a fischiettare una melodia che aveva ascoltato al-la Fiera di Azenomei.

Finalmente la conchiglia più lontana si socchiuse, appena ap-pena, e un paio d'occhi lo sbirciò. Cugel fischiettò qualche altra battuta, poi riprese a parlare.

«Aprite i gusci! Qui c'è in attesa uno straniero, ansioso di co-noscere la strada per Cil ed altre cose importanti!»

Un altro guscio si schiuse, un altro paio d'occhi scintillò nell'oscurità.

«Forse siete ignoranti,» fece Cugel, beffardo. «Forse non sapete niente, e conoscete soltanto il colore dei pesci e l'umidità dell'acqua!»

La conchiglia più lontana si aprì ancora di più, quanto basta-va per mostrare, all'interno, un volto indignato.

«Noi non siamo affatto ignoranti!» «Né indolenti, né privi di educazione, né sdegnosi,» gridò il se-

condo. «E neppure timorosi!» aggiunse un terzo. Cugel annuì, saggiamente. «È possibile. Ma allora perché vi siete ritirati così bruscamen-

te appena mi sono avvicinato?» «Siamo così per natura,» disse il primo essere. «Certe creature

del mare sarebbero ben felici di coglierci di sorpresa, ed è più saggio ritirarci, per prima cosa, e poi indagare.»

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Tutte e quattro le conchiglie, adesso, erano socchiuse, benché nessuna fosse aperta come quando Cugel si era avvicinato.

«Benissimo, allora,» disse lui. «Che sapete dirmi di Cil? Gli stranieri vi sono accolti con cordialità, oppure vengono scac-ciati? Vi si trovano locande, o i viaggiatori sono costretti a dormire nei fossi?»

«Tutte queste cose non rientrano nella nostra conoscenza specifica,» disse il primo essere. Aprì completamente il guscio, e ne fece emergere le braccia e le spalle pallide. «Il popolo di Cil, se le voci che corrono nel mare sono esatte, è chiuso e sospet-toso, persino nei confronti del sovrano, che è una fanciulla, nientemeno, dell'antica Casa di Domber.»

«Ecco là il vecchio Slaye,» disse un altro. «Oggi ritorna molto presto alla sua capanna.»

Un altro ridacchiò. «Slaye è vecchio: non troverà mai il suo amuleto, e così la Ca-

sa di Domber continuerà a regnare su Cil fino a quando il Sole si spegnerà.»

«E perché mai?» chiese Cugel, con aria ingenua. «Di quale amuleto parlate?»

«A quanto si ricorda,» disse una delle creature-conchiglie, «il vecchio Slaye ha sempre setacciato la sabbia, e suo padre l'a-veva fatto prima di lui, e altri Slaye ancora prima, negli anni precedenti. Cercano un braccialetto metallico, grazie al quale sperano di riconquistare i loro antichi privilegi.»

«Una leggenda affascinante!» esclamò Cugel, in tono d'entu-siasmo. «E quali sono i poteri dell'amuleto, e in che modo pos-sono venire attivati?»

«Questo, probabilmente, può dirlo Slaye,» disse uno, dubbio-samente.

«No, perché è scontroso e acido,» dichiarò un altro di quegli esseri. «Pensa un po' alla sua aria petulante, quando setaccia una paletta di sabbia senza risultato!»

«E non si può sapere qualcosa altrove?» domandò ansiosa-mente Cugel. «Non corrono voci, nel mare? Non vi sono tavo-lette antiche o glifi decifrabili?»

Le creature-conchiglie risero, divertite. «Lo chiedi con tanta ansia che sembri addirittura Slaye! Ma

si tratta di tradizioni che ci sono sconosciute.»

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Nascondendo l'insoddisfazione, Cugel fece altre domande, ma quegli esseri erano incapaci di concentrare a lungo la loro at-tenzione su di un argomento. Mentre Cugel li ascoltava, quelli discussero il flusso dell'oceano, il sapore delle perle, il caratte-re elusivo di una certa creatura marina che avevano osservato il giorno precedente. Dopo qualche minuto, Cugel riportò la conversazione su Slaye e sull'amuleto, ma quegli esseri parla-vano in modo incoerente e vago, quasi puerile. Sembrarono dimenticarsi di Cugel, e immergendo le dita nell'acqua, trasse-ro dalle gocce fili pallidi. C'erano certe buccine e certe conchi-glie che avevano suscitato la loro disapprovazione per l'ecces-siva impudenza; poi parlarono di una grande urna che giaceva al largo sul fondo del mare.

Alla fine, Cugel si stancò di quella conversazione e si alzò in piedi: a quel gesto, gli esseri-conchiglia tornarono a conceder-gli la loro attenzione.

«Devi andartene così presto? Proprio quando stavamo per chiederti la ragione della tua presenza qui? Passa così poca gente, lungo la Grande Spiaggia Sabbiosa, e tu ci sembri un uomo che ha compiuto viaggi in terre molto lontane.»

«Questo è esatto,» rispose Cugel. «E devo recarmi ancora più lontano. Osservate il Sole: sta incominciando a discendere lun-go la curva occidentale, e questa notte vorrei trovarmi un al-loggio a Cil.»

Una delle creature-conchiglie sollevò le braccia e mostrò un elegante indumento che avevano intessuto con i fili d'acqua.

«Ti offriamo questa veste in dono. Ci sembri un uomo sensibi-le, e perciò avrai forse bisogno di protezione contro il vento e il freddo.» Lanciò l'indumento a Cugel, che lo esaminò, meravi-gliandosi della morbidezza del tessuto, della sua lucentezza.

«Vi ringrazio moltissimo,» disse Cugel. «La vostra generosità supera la mia aspettativa.» Si avvolse nella veste, ma subito quella ritornò acqua, e Cugel si bagnò tutto. I quattro esseri dentro alle conchiglie lanciarono grida di malizioso diverti-mento, e quando Cugel avanzò incollerito verso di loro richiu-sero di scatto le conchiglie.

Cugel prese a calci il guscio dell'essere che gli aveva lanciato l'indumento, facendosi male al piede: e questo esacerbò la sua rabbia. Afferrò una grossa pietra e la batté con forza sulla con-

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chiglia, frantumandola. Poi ne strappò la creatura che squitti-va, e la scaraventò lontano, sulla spiaggia, dove quella giacque, fissandolo ad occhi spalancati, con la testa e le braccia minu-scole congiunte alle viscere pallide.

«Perché mi hai trattato così?» chiese quella, con voce fievole. «Per un piccolo scherzo tu mi hai tolto la vita, e io non ne ho al-tre.»

«E in questo modo tu non potrai fare altri scherzi,» dichiarò Cugel. «Guarda, mi hai infradiciato fino alle ossa!»

«Era soltanto un piccolo dispetto... sicuramente una cosa sen-za importanza.» La creatura parlava con voce sempre più de-bole. «Noi delle rocce conosciamo poco la magia, tuttavia io ho il potere di maledire, e questa è la maledizione che pronuncio: possa tu perdere ciò che più desideri dal profondo del cuore, qualunque cosa essa sia: e lo perderai prima che sia trascorso un giorno.»

«Un'altra maledizione?» Cugel scrollò il capo, dispiaciuto. «Og-gi ho già sventato due maledizioni: e adesso me ne viene inflit-ta una nuova?»

«Non potrai sventare questa maledizione,» bisbigliò la creatu-ra-conchiglia. «Ne faccio l'atto finale della mia vita.»

«La malizia è una qualità deplorevole,» dichiarò Cugel, agita-to. «Dubito dell'efficacia della tua maledizione: tuttavia, sareb-be consigliabile per te sbarazzare l'atmosfera di questo odio, e riconquistare così la mia buona opinione.»

Ma la creatura non disse altro. Subito dopo, si afflosciò in una poltiglia nebulosa che venne assorbita dalla sabbia.

Cugel s'incamminò lungo la spiaggia, pensando in che modo avrebbe potuto sventare le conseguenze della maledizione del-la creatura.

«Bisogna servirsi dell'astuzia, quando si ha a che fare con le maledizioni,» disse per la seconda volta. «O mi chiamo forse per nulla Cugel l'Astuto?» Però nessun stratagemma gli si presentò alla mente, e continuò a camminare lungo la spiaggia, esami-nando il difficile problema in tutti i suoi aspetti.

Il promontorio, a oriente, si fece più nitido. Cugel vide che era ammantato di altri alberi, in mezzo ai quali s'intravvedevano alcuni edifici bianchi.

Slaye tornò a farsi vedere: correva avanti e indietro sulla

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spiaggia, come se avesse perduto il senno. Si avvicinò a Cugel e si gettò in ginocchio davanti a lui.

«L'amuleto, ti supplico! Appartiene alla Casa di Slaye: e ci as-sicurava il dominio di Cil! Dammelo, ed io realizzerò ciò che più desideri con tutto 'il tuo cuore!»

Cugel si fermò di colpo. Era un paradosso interessante. Se avesse consegnato l'amuleto, evidentemente Slaye lo avrebbe tradito, o almeno non avrebbe mantenuto la promessa... data la potenza della maledizione. D'altra parte, se Cugel avesse te-nuto l'amuleto per sé, avrebbe egualmente perduto ciò che de-siderava con tutto il cuore, data sempre la potenza della male-dizione: ma l'amuleto, comunque, sarebbe rimasto in mano sua.

Slaye interpretò erroneamente quell'esitazione come un se-gno di cedimento.

«Ti farò diventare un grande del regno!» gridò con voce fervi-da. «Avrai una imbarcazione d'avorio scolpito, e duecento fan-ciulle saranno pronte ai tuoi desideri: i tuoi nemici verranno inchiodati in un calderone rotolante... ma dammi l'amuleto!»

«L'amuleto assicura dunque tanto potere?» domandò Cugel. «Può realizzare tutto questo?»

«Sì, è vero, è vero!» gridò Slaye. «Basta che uno sappia leggere le rune!»

«Bene, allora,» disse Cugel. «Che cosa dicono?» Slaye lo fissò, addolorato e offeso. «Non posso dirlo. Devo avere l'amuleto!» Cugel levò la mano in un gesto sprezzante. «Tu ti rifiuti di soddisfare la mia curiosità. A mia volta, de-

nuncio le tue prepotenti ambizioni!» Slaye si girò a guardare il promontorio, dove le mura bianche

scintillavano in mezzo agli alberi. «Ho capito tutto! Tu vuoi diventare sovrano di Cil al mio po-

sto!» Era una prospettiva molto allettante, pensò Cugel; e Firx,

rendendosene veramente conto, gli affibbiò una piccola fitta ammonitrice. Cugel accantonò quel piano: tuttavia, poteva of-frire un mezzo per annullare la maledizione della creatura-conchiglia.

«Se devo essere privato di ciò che desidero con tutto il mio

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cuore,» si disse Cugel, «allora sarebbe saggio, da parte mia, fis-sarmi una nuova meta, un nuovo, fervido entusiasmo, almeno per la durata di un giorno. Perciò aspiro alla sovranità su Cil, che da questo momento diviene il desiderio più caro al mio cuore.» E, per non destare l'attenzione di Firx, disse a voce al-ta: «Intendo servirmi di questo amuleto per realizzare progetti della più grande importanza. Tra questi può esservi la sovrani-tà su Cil, alla quale ritengo di avere diritto in virtù del mio amuleto.»

Slaye fece udire una frenetica risata sardonica. «Per prima cosa, dovrai convincere Derwe Coreme della tua

autorità. Lei appartiene alla Casa di Domber, ed è cupa e ner-vosa; sembra poco più di una bambina, ma manifesta la spen-sierata crudeltà degli orri della foresta. Guardati da Derwe Co-reme; ordinerà di scaraventare te ed il mio amuleto nel più profondo dell'oceano!»

«Se hai tanta paura,» disse Cugel, in tono aspro, «insegnami ad usare l'amuleto, e io impedirò che questa calamità si realizzi.»

Ma Slaye scosse ostinatamente il capo. «I difetti di Derwe Coreme sono ben conosciuti: perché scam-

biarli con gli eccessi stravaganti di un vagabondo?» Per quella sua franchezza, Slaye ricevette un ceffone che lo

fece vacillare; poi Cugel riprese a camminare lungo la spiaggia. Il Sole era ormai basso sul mare; affrettò i suoi passi, ansioso di trovare un riparo prima che scendesse la notte.

Finalmente arrivò al termine della spiaggia. Sopra di lui tor-reggiava il promontorio, e gli alti alberi scuri sembravano an-cora più alti. Una balaustrata che circondava i giardini appari-va, qua e là, attraverso il fogliame; un poco più sotto, una ro-tonda ornata di colonne si affacciava sull'oceano, verso sud. Era veramente grandioso, pensò Cugel, ed esaminò l'amuleto con un'attenzione rinnovata. Il desiderio temporaneo più caro al suo cuore, la sovranità su Cil, non era più tanto fittizio. E Cugel si chiese se non poteva concentrarsi su di un nuovo de-siderio... l'aspirazione di apprendere le tradizioni dell'alleva-mento del bestiame, per esempio, o un impulso impellente ad eccellere nelle acrobazie... Con una certa riluttanza, Cugel ab-bandonò quel progetto. Comunque, la validità della maledizio-ne della creatura-conchiglia non era ancora certa.

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C'era un sentiero che lasciava la spiaggia, e procedeva tor-tuoso fra cespugli e arbusti odorosi: dunphian, eliotropio, coto-gno nero, olus, aiuole di gocce-di-stelle dai lunghi gambi, ver-verica ombrosa, amanite fiorenti. La spiaggia diventò un na-stro che sbiadiva nella foschia bruna del tramonto, e il pro-montorio di Benbadge Stull non si scorgeva più. Il sentiero di-venne pianeggiante, attraversò un denso boschetto di alberi d'alloro, sfociò in un ovale invaso dalle erbacce, che un tempo doveva essere stato una piazza d'armi o un campo per parate.

Sulla sinistra sorgeva un alto muro di pietra, interrotto da un solenne portico sovrastato da uno stemma araldico di estrema antichità. I cancelli erano spalancati su di un viale pavimenta-to di marmo, lungo una lega, che portava al palazzo: e il palaz-zo era una costruzione ricca, a molti piani, dal tetto di bronzo verde. Lungo l'intera facciata del palazzo si estendeva una ter-razza: e il viale si congiungeva a quella terrazza mediante un'ampia scalinata. Il Sole, ormai, era scomparso; dal cielo stava scendendo l'oscurità. Poiché non c'era in vista un riparo migliore, Cugel si avviò verso il palazzo.

Il viale, un tempo, doveva essere stato monumentale ed ele-gante, ma ormai tutto era in uno stato di abbandono e di rovi-na, cui il crepuscolo conferiva una bellezza malinconica. A de-stra ed a sinistra vi erano giardini complicati, ormai abbando-nati e invasi dalle erbacce. Urne di marmo ornate da festoni di ghirlande di corniole e di giade fiancheggiavano il viale: al cen-tro si estendeva una fila di piedistalli un poco più alti di un uomo. Ognuno dei piedistalli sorreggeva un busto, identificato da iscrizioni runiche che Cugel riconobbe molto simili a quelle incise sull'amuleto. I piedistalli distavano cinque passi l'uno dall'altro, per tutta la lunghezza del viale, fino alla terrazza. I primi erano stati erosi dal vento e dalla pioggia, tanto che i vol-ti dei busti non si distinguevano più; ma via via che Cugel pro-cedeva, i lineamenti apparvero più distinti. Un piedistallo dopo l'altro, un busto dopo l'altro: ogni volto fissava per un attimo Cugel, mentre avanzava verso il palazzo. L'ultimo della serie, oscuro nella luce morente, rappresentava una giovane donna. Cugel si fermò di colpo. Quella era la fanciulla della barca dalle zampe palmate, che aveva incontrato nella terra più a nord: Derwe Coreme, della Casa di Domber, sovrana di Cil!

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Oppresso da spiacevoli presentimenti, Cugel si fermò a stu-diare il massiccio portale. Non si era separato da Derwe Core-me in buoni rapporti. Anzi, poteva bene immaginare che lei nutrisse rancore nei suoi confronti, D'altra parte, nel corso del loro primo incontro, lo aveva invitato nel suo palazzo, usando un linguaggio di inconfondibile calore: forse il suo risentimento si era dileguato, lasciando soltanto quel calore. E Cugel ricor-dando la straordinaria bellezza della giovane donna, trovò molto stimolante la prospettiva di un secondo incontro con lei.

Ma se lei era ancora risentita? Sarebbe rimasta colpita dall'amuleto, purché non pretendesse che Cugel gliene mo-strasse l'uso. Se lui avesse saputo leggere le rune, tutto sareb-be stato estremamente semplice. Ma poiché Slaye non glielo aveva insegnato, doveva cercare altrove: il che, in pratica, si-gnificava che doveva cercare nel palazzo.

Si fermò davanti ai bassi gradini che conducevano alla ter-razza. Il marmo era screpolato; la balaustrata che cingeva la terrazza era chiazzata da muschi e licheni: e l'oscurità del cre-puscolo conferiva a quello spettacolo una grandiosità luttuosa. Il palazzo, invece, sembrava in condizioni migliori. Dalla ter-razza si levava un'arcata altissima, dalle snelle colonne scana-late, e dall'intelaiatura minuziosamente scolpita, di cui Cugel, nell'oscurità, non riuscì a distinguere i particolari. Dietro all'arcata c'erano alte finestre, da cui filtravano luci fioche, ed il grande portale.

Cugel salì la scalinata, assediato da nuovi dubbi. E se Derwe Coreme avesse riso delle sue pretese, e lo avesse sfidato a fare del suo peggio? Che sarebbe accaduto, allora? I gemiti e le gri-da dell'amuleto non potevano bastare. Attraversò la terrazza con passi esitanti, mentre il suo ottimismo svaniva; sotto l'ar-cata si fermò. Forse, tutto sommato sarebbe stato più prudente cercare ricovero altrove. Ma quando si voltò indietro a guar-dare, gli sembrò di scorgere un'alta figura, immobile e ritta tra i piedistalli. Cugel non pensò più a cercare ricovero altrove, e si affrettò a dirigersi verso la porta: se si fosse presentato umilmente, forse sarebbe sfuggito all'attenzione di Derwe Co-reme. Si udì un suono furtivo di passi. In fretta, Cugel alzò il battaglio, e il rumore riverberò all'interno del palazzo.

Trascorse un minuto, e Cugel ebbe l'impressione di udire altri

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rumori dietro di lui. Bussò ancora, e ancora una volta quel suono riverberò nell'interno. Si aprì uno spioncino e un occhio lo ispezionò attentamente. Poi l'occhio sparì, e apparve una bocca.

«Chi sei?» domandò la bocca. «Che cosa vuoi?» La bocca scivo-lò via, lasciando il posto a un orecchio.

«Sono un viaggiatore, e vorrei ospitalità per questa notte, e in fretta, perché si sta avvicinando un essere spaventoso.»

Riapparve l'occhio, che guardò attentamente in direzione del-la terrazza, poi ritornò a concentrarsi su Cugel.

«Quali sono le tue qualità? Dove sono i tuoi certificati?» «Non ne ho,» disse Cugel. E si volse per sbirciare alle sue spal-

le. «Preferirei di gran lunga discutere la cosa nel palazzo, per-ché l'essere sta salendo sulla terrazza, a passo a passo.»

Lo spioncino si richiuse di colpo. Cugel fissò la porta sbarrata. Bussò di nuovo con il battaglio, volgendosi a sbirciare nell'o-scurità. Con uno scricchiolio, la porta si aprì. Un ometto robu-sto che indossava una livrea color porpora gli fece un cenno.

«Entra, presto.» Cugel s'infilò nell'apertura, e subito il valletto si affrettò a ri-

chiudere la porta bloccandola con chiavistelli di ferro. E, men-tre la bloccava, si udì lo scricchiolio di una pressione esercitata dall'esterno.

Il valletto colpì energicamente la porta con il pugno. «Ho battuto ancora una volta sul tempo quell'essere,» disse,

soddisfatto. «Se fossi stato meno svelto, ti sarebbe piombato addosso, con tristi conseguenze per me come per te. Ormai, questo è il mio divertimento principale: privare quell'essere dei suoi piaceri.»

«Davvero,» fece Cugel, ansimando pesantemente. «E che spe-cie di essere è?»

Il valletto fece un cenno, per confessare la propria ignoranza. «Non se ne sa niente di preciso. È comparso da poco tempo, e

la notte sta in agguato tra le statue. Si comporta come un vampiro innaturalmente avido, e parecchi dei miei conoscenti hanno avuto motivo di lagnarsene; anzi, sono morti tutti per le sue azioni odiose. Quindi, adesso, per divertirmi, punzecchio quell'essere e gli causo grosse insoddisfazioni.» Il valletto indie-treggiò di un passo, per scrutare attentamente Cugel. «E tu? I

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tuoi modi, il portamento della tua testa, quel tuo girare gli oc-chi di qua e di là, denotano spietatezza e imprevedibilità. Spero che vorrai tenere a freno queste qualità, se esistono veramen-te.»

«In questo momento,» disse Cugel. «i miei desideri sono molto semplici: una stanza, un giaciglio e un po' di cibo per cena. Se mi verranno forniti, vedrai che io sarò la benevolenza personi-ficata; anzi ti assisterò nei tuoi piaceri: insieme escogiteremo nuovi stratagemmi per adescare il vampiro.»

Il valletto s'inchinò. «I tuoi desideri sono realizzabili. Poiché sei un viaggiatore e

vieni da molto lontano, la nostra signora vorrà parlare con te, e potrà concederti un trattamento assai più splendido di quello che mostri di desiderare.»

Cugel si affrettò a dichiarare che non nutriva ambizioni di quel genere.

«Io sono di bassa qualità: i miei indumenti sono sporchi, il mio corpo esala cattivo odore; la mia conversazione consiste di in-sipidi luoghi comuni. È meglio che tu non disturbi la sovrana di Cil.»

«Metteremo riparo al maggior numero possibile di tali defi-cienze,» disse il valletto. «Seguimi, se non ti dispiace.»

Condusse Cugel lungo corridoi illuminati da torce, e alla fine svoltò in un'ala piena di appartamenti.

«Qui potrai lavarti; io spazzolerò i tuoi abiti, e ti troverò bian-cheria pulita.»

Cugel, riluttante, si spogliò. Fece il bagno, mise a posto la sof-fice massa nera dei suoi capelli, si fece la barba, si massaggiò il corpo con un olio pungente. Il valletto gli portò indumenti puli-ti e Cugel rinfrescato, si rivestì. Mentre indossava la giacca, toccò per caso l'amuleto che portava al polso, e premette uno dei carbonchi. Dal basso, sotto al pavimento, salì un gemito del-la più profonda angoscia.

Il valletto spiccò un balzo per il terrore, e il suo sguardo si posò sull'amuleto: lo fissò a bocca aperta, sbalordito, poi diven-tò addirittura ossequioso.

«Mio caro signore, se avessi conosciuto la tua identità, ti avrei condotto negli appartamenti reali, e ti avrei portato le vesti più splendide.»

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«Non mi lamento.» disse Cugel, «anche se per la verità la bian-cheria era un po' sciupata.» Con enfasi scherzosa, batté su uno dei carbonchi del braccialetto, e il gemito che si levò in risposta a quel gesto fece tremare le ginocchia del servitore.

«Invoco la tua compassione,» fece quello, rabbrividendo. «Non dire altro,» fece Cugel. «In realtà, speravo di visitare il

palazzo nel più stretto incognito, per così dire, per vedere co-me andavano le cose.»

«Molto giusto,» convenne il servitore. «Senza dubbio vorrai li-cenziare tanto Sarman, il ciambellano quanto Bilbab, il sotto-cuoco, quando le loro colpe verranno alla luce In quanto a me, quando la tua signoria riporterà Cil alla sua antica grandezza, forse ci sarà una modesta sinecura per Yodo, il più fedele e servizievole dei tuoi servi.»

Cugel fece un gesto magnanimo. «Se tale evento si realizzerà, e questo è il desiderio più caro al

mio cuore, tu non verrai dimenticato. Per ora me ne starò tranquillo in questo appartamento. Potrai portarmi qui un pa-sto adeguato, con una quantità di vini scelti.»

Yodo si inchinò profondamente. «Come desidera la tua signoria.» E se ne andò. Cugel si rilassò

sul divano più comodo della sala e incominciò a studiare l'amu-leto che aveva suscitato tanto prontamente la fedeltà di Yodo. Come prima, le rune erano imperscrutabili; i carbonchi produ-cevano soltanto gemiti che, sebbene divertenti, non avevano la minima utilità pratica. Cugel tentò ogni esortazione, ogni in-giunzione, ogni minaccia ed ogni supplica consentitagli dalla sua infarinatura di stregoneria, ma inutilmente.

Yodo ritornò nell'appartamento, ma non portava il pasto or-dinato da Cugel.

«Ho l'onore,» disse Yodo, «di trasmettere alla tua signoria un invito di Derwe Coreme, già sovrana di Cil, a presenziare al banchetto della sera.»

«Come è possibile?» domandò Cugel. «Derwe Coreme non è al corrente della mia presenza; a quanto ricordo, ti avevo impar-tito istruzioni precise a questo proposito.»

Yodo tornò a inchinarsi profondamente. «E naturalmente io ho obbedito, tua signoria. Ma le astuzie di

Derwe Coreme superano la mia comprensione. Non so con qua-

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le mezzo, ha appreso della tua presenza, e ha formulato l'invito che hai appena ascoltato.»

«Benissimo,» fece cupamente Cugel. «Abbi la gentilezza di farmi strada. Le hai parlato dell'amuleto?»

«Derwe Coreme sa tutto,» fu l'ambigua risposta di Yodo. «Da questa parte, se non ti dispiace, tua signoria.»

Condusse Cugel lungo i vecchi corridoi, e finalmente attra-verso ad un'arcata alta e stretta che portava in una grande sa-la. Sui due lati stavano file di uomini armati, in armature d'ot-tone, con elmi a scacchi, d'osso e di giaietto; erano in tutto qua-ranta, ma soltanto sei di quelle armature erano indossate da veri uomini: le altre erano appese su sostegni. Telamoni esage-ratamente allungati e dai visi grottescamente distorti sorreg-gevano le travi fumose; un ricco tappeto a disegni di cerchi verdi concentrici su sfondo nero copriva il pavimento.

Derwe Coreme sedeva dietro a un tavolo rotondo, così mas-siccio che le dava per contrasto l'aspetto di una bambina, una bambina imbronciata dalla bellezza delicatissima. Cugel si av-vicinò con aria sicura, si fermò e s'inchinò seccamente. Derwe Coreme lo studiò con tetra rassegnazione, poi il suo sguardo indugiò sull'amuleto. Trasse un profondo respiro.

«Con chi ho il privilegio di parlare?» «Il mio nome non ha importanza,» disse Cugel. «Puoi chia-

marmi 'Supremo'.» Derwe Coreme scrollò le spalle, indifferente. «Come vuoi. Mi sembra di ricordare la tua faccia. Somigli a un

vagabondo che poco tempo fa ho fatto frustare.» «Quel vagabondo sono io,» disse Cugel. «Non posso affermare

che la tua condotta non abbia lasciato in me un certo risenti-mento, ed ora sono qui per esigere una spiegazione.» E Cugel toccò un carbonchio, evocando un gemito così desolato e pro-fondo che la cristalleria sulla tavola vibrò.

Derwe Coreme sbatté le palpebre e la sua bocca tremò. Poi parlò, di malagrazia.

«Sembra che le mie azioni siano state sconsiderate. Non sono riuscita a percepire la tua nobile condizione, e ho ritenuto che fossi ciò che mostrava il tuo aspetto.»

Cugel si fece avanti, pose la mano sotto il mento un po' ap-puntito di lei, e sollevò quel volto squisito.

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«Tuttavia mi avevi pregato di farti visita nel tuo palazzo. Questo lo ricordi?»

Derwe Coreme annuì, controvoglia. «Benissimo,» fece Cugel. «Eccomi qui.» Derwe Coreme sorrise, e per un attimo apparve amabile e se-

ducente. «Benissimo. E briccone, vagabondo o qualunque cosa tu sia,

porti l'amuleto grazie al quale la Casa di Slaye regnò per due-cento generazioni. Appartieni a quella casa?»

«A tempo debito mi conoscerai bene,» disse Cugel. «Sono un uomo generoso, sebbene dedito al capriccio, e se non fosse per un certo Firx... Comunque sia, ho fame, e ora ti invito a divide-re con me il banchetto che ho ordinato all'eccellente Yodo di preparare. Sii così gentile da spostarti, in modo che io possa sedermi.»

Derwe Coreme esitò, e la mano di Cugel si levò, significativa-mente, verso l'amuleto. La giovane donna si affrettò a spostar-si e Cugel sedette nel posto che lei aveva lasciato libero. Poi batté la mano sulla tavola.

«Yodo! Dov'è Yodo?» «Son qui, Supremo!» «Servi il pranzo: quanto di meglio offre il palazzo!» Yodo s'inchinò, corse via, e poco dopo una fila di valletti com-

parve, portando vassoi e bottiglie, e un banchetto più ricco di quanto fosse previsto negli ordini di Cugel venne servito a ta-vola.

Cugel prese il periapto fornitogli da Iucounu, il Mago Ridente, che non soltanto convertiva in cibo nutriente le sostanze orga-niche, ma risuonava per avvertire della presenza di cibi peri-colosi. Le prime portate non lo erano, e Cugel mangiò di gusto. Anche i vecchi vini di Cil erano a posto, e Cugel bevve abbon-dantemente in coppe di vetro nero, di cinabro scolpito e di avo-rio intarsiato di turchesi e di madreperla.

Derwe Coreme giocherellava con i cibi e sorseggiava appena il vino, scrutando attentamente Cugel. Vennero portate altre squisitezze e a questo punto Derwe Coreme si protese.

«Hai veramente intenzione di regnare su Cil?» «Questo è il desiderio più caro al mio cuore!» dichiarò Cugel

con fervore.

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Derwe Coreme gli si fece più vicina. «Allora mi prendi per consorte? Dimmi di sì: ne sarai più che

soddisfatto.» «Vedremo, vedremo,» disse Cugel, in tono espansivo. «Stanot-

te è stanotte, domani è domani. Vi saranno molti cambiamenti, questo è sicuro.»

Derwe Coreme sorrise debolmente, e fece un cenno a Yodo. «Porta il nostro vino più antico. Berremo alla salute del nuovo

Signore di Cil.» Yodo s'inchinò, e portò una fiasca opaca, coperta di polvere e

di ragnatele, che decantò con la massima sollecitudine, e ne versò il contenuto in coppe di cristallo. Cugel alzò la coppa, e il talismano emise un ronzio di avvertimento. Cugel posò bru-scamente il bicchiere e rimase a guardare, mentre Derwe Co-reme portava alle labbra il suo. Tese la mano, prese la coppa, e anche questa volta il talismano fece udire il suo ronzio. Veleno in tutte e due le coppe? Strano! Forse lei non aveva avuto in-tenzione di bere. Forse aveva già ingerito un antidoto.

Cugel fece un cenno a Yodo. «Un'altra coppa, ti prego... e la caraffa.» Cugel versò una terza

dose, e per la terza volta il talismano diede il segnale di perico-lo. Cugel disse: «Benché io conosca solo da pochissimo tempo l'eccellente Yodo, lo elevo seduta stante al ruolo di Maggior-domo del palazzo!»

«Supremo,» balbettò Yodo, «questo è realmente un onore grandissimo!»

«Allora bevi questo vino antico, per solennizzare la tua nuova dignità.»

Yodo s'inchinò profondamente. «Con la più sentita gratitudine, Supremo.» Alzò la coppa e

bevve. Derwe Coreme lo guardò, indifferente. Yodo posò la coppa, aggrottò la fronte, sussultò convulsamente, rivolse su Cugel uno sguardo di sbalordimento, cadde sul tappeto, gridò, si contorse e giacque immobile.

Cugel scrutò Derwe Coreme, intento. Sembrava sbalordita non meno di quanto fosse apparso Yodo. Poi si voltò a guardar-lo.

«Perché hai avvelenato Yodo?» «Sei stata tu,» disse Cugel. «Non sei stata tu a ordinare di av-

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velenare il vino?» «No.» «Devi dire: 'No, Supremo'.» «No, Supremo.» «Se non sei stata tu... chi è stato?» «Sono perplessa. Forse quel veleno era destinato a me» «O a tutti e due.» Cugel chiamò con un cenno uno dei valletti.

«Portate via il cadavere di Yodo.» Il valletto fece un cenno a due viceservitori incappucciati,

che portarono via lo sventurato maggiordomo. Cugel prese le coppe di cristallo e fissò il liquido ambrato, ma

non esternò i suoi pensieri. Derwe Coreme si appoggiò alla spalliera della sua sedia e lo scrutò, a lungo.

«Sono perplessa,» disse finalmente. «Sei un uomo che sfugge all'insegnamento della mia esperienza. Non riesco a decidere qual è il colore della tua anima.»

Cugel fu sorpreso da quella frase strana. «Dunque tu vedi le anime a colori?» «Davvero. È stato un dono di una incantatrice in occasione

della mia nascita: mi ha donato anche la barca che cammina. Ora è morta e io sono sola, senza amici, senza nessuno che pensi a me con amore. E perciò ho regnato su Cil con poca gioia. E ora tu sei qui, con un'anima che brilla di molti colori, come mai nessun altro uomo comparso alla mia presenza.»

Cugel non parlò di Firx, la cui esalazione spirituale, mesco-landosi alla sua, era senza dubbio la causa della colorazione variegata che Derwe Coreme aveva notato.

«Vi è una ragione per questo effetto,» disse Cugel, «che a tem-po debito sarà eliminata, o almeno così spero. Fino a quel mo-mento, puoi considerare la mia anima risplendente del raggio più puro che si possa immaginare.»

«Cercherò di ricordarlo, Supremo.» Cugel aggrottò la fronte. Nelle parole di Derwe Coreme e nel

portamento del capo notava un'insolenza appena mascherata, che gli appariva esasperante. Comunque, avrebbe avuto tutto il tempo di sistemare la faccenda dopo avere appreso il modo di servirsi dell'amuleto: quella era la cosa più urgente. Si ap-poggiò comodamente sui cuscini e parlò, con il tono di chi si abbandona a riflessioni oziose.

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«Dovunque, in questo tempo della Terra morente, si notano circostanze eccezionali. Recentemente, nella dimora di Iu-counu, il Mago Ridente, ho visto un grande palinsesto che con-teneva l'indice di tutti gli scritti di magia, ed ogni genere di ru-ne taumaturgiche. Forse anche tu hai volumi simili, nella tua biblioteca?»

«È possibile,» disse Derwe Coreme. «Garth Haxt quattordice-simo di Slaye era un collezionista appassionato, e compilò una voluminosa pandetta su quell'argomento.»

Cugel batté le mani. «Voglio vedere subito quell'opera importantissima!» Derwe Coreme lo scrutò, meravigliata. «Sei un bibliofilo, allora? È un vero peccato, perché Rubel Zaff

ottavo ordinò di gettare in mare quel compendio, al largo di Capo Orizzonte.»

Cugel assunse un'espressione acida. «Non vi sono altri trattati?» «Senza dubbio vi sono,» rispose Derwe Coreme. «La biblioteca

occupa tutta l'ala nord. Ma non puoi occuparti domani delle tue ricerche?» E stiracchiandosi con languido calore, atteggiò il corpo prima in una posa voluttuosa, poi in un'altra.

Cugel bevve una gran sorsata da una coppa di vetro nero. «Sì, non c'è molta fretta. E adesso...» Venne interrotto da una

donna di mezza età; portava ingombranti abiti marrone ed era evidentemente una delle vice-serve: si precipitò nella sala. Stava gridando istericamente e parecchi valletti si fecero avanti per sorreggerla. Tra singhiozzi strazianti la dorma spiegò la causa della sua angoscia: il vampiro aveva appena commesso un atto abominevole contro sua figlia.

Derwe Coreme indicò graziosamente Cugel. «Ecco il nuovo sovrano di Cil. Ha grandi poteri magici e cau-

serà la distruzione del vampiro. Non è vero, Supremo?» Cugel si massaggiò pensosamente il mento. Era veramente

un grave dilemma. La donna e i servitori si gettarono imme-diatamente ai suoi piedi.

«Supremo! Se sei in grado di dominare questa magia corrosi-va, usala immediatamente per distruggere quel vile vampiro!»

Cugel rabbrividì, e girando il capo incontrò lo sguardo pen-sieroso di Derwe Coreme. Balzò in piedi.

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«A che serve la magia, quando so impugnare una spada? Farò a pezzi quell'essere, organo per organo!» Fece un cenno ai sei guerrieri che stavano lì accanto, chiusi nelle armature di otto-ne. «Venite! Portate delle torce! Andiamo a fare a pezzi il vam-piro!»

I guerrieri obbedirono senza eccessivo entusiasmo. Cugel li spinse verso il grande portale.

«Quando spalancherò i battenti, precipitatevi avanti con le torce, in modo da illuminare quell'essere maligno! Tenete le spade sguainate, in modo che quando ve lo manderò contro, voi potrete inferirgli il colpo di grazia!»

I guerrieri, armati ciascuno di una torcia e della spada sguai-nata, si fermarono davanti alla porta. Cugel tolse i chiavistelli e spalancò i battenti.

«Fuori! Illuminate il vampiro con l'ultima luce della sua im-monda esistenza!»

I guerrieri corsero fuori, disperatamente, seguiti da Cugel che agitava la spada. Gli uomini si fermarono all'inizio della scalinata, guardando incerti verso il viale dal quale proveniva un suono orrendo.

Cugel girò la testa e scorse Derwe Coreme che osservava at-tentamente la scena dalla soglia.

«Avanti!» gridò allora. «Circondate quella creatura maledetta, la cui ora sta per scoccare!»

Gli armati scesero impacciati le scale, seguiti da Cugel. «Colpite con forza!» gridò lui. «C'è gloria per tutti! L'uomo che

fallirà un colpo sarà punito dalla mia magia!» Le luci oscillanti delle torce splendevano sui piedistalli,

schierati in una lunga fila che svaniva lontano, nell'oscurità. «Avanti!» gridò Cugel «Dov'è quell'essere bestiale? Perché non

si presenta per ricevere la punizione che merita?» E sbirciò fra le ombre ondeggianti, sperando che nel frattempo il vampiro si fosse spaventato e fosse fuggito.

Al suo fianco si udì un lieve rumore. Cugel si girò e vide una figura alta e pallida, ritta in silenzio. I guerrieri ansimarono, sconvolti, e fuggirono senza ritegno su per i gradini di pietra.

«Uccidi quella belva con la magia, Supremo!» gridò il sergente della guardia. «Il metodo più rapido è spesso il migliore!»

Il vampiro si fece avanti, e Cugel indietreggiò, incespicando.

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Il vampiro mosse un altro rapido passo; Cugel schizzò dietro a un piedestallo. Il vampiro protese di scatto il braccio; Cugel avventò un colpo di spada, poi balzò al riparo di un altro piede-stallo, quindi, con grande destrezza, corse di nuovo sulla ter-razza. La porta si stava già richiudendo. Cugel si infilò nell'a-pertura poi chiuse i battenti, rimise a posto i chiavistelli. Il pe-so del vampiro urtò contro le tavole di legno e i chiavistelli fe-cero udire uno scricchiolio di protesta.

Cugel si voltò e incontrò lo sguardo intento di Derwe Coreme. «Che cosa è successo?» domandò lei. «Perché non hai ucciso il

vampiro?» «I guerrieri sono fuggiti portandosi via le torce,» disse Cugel.

«Non potevo vedere dove dovevo colpire.» «È strano,» fece Derwe Coreme, in tono meditabondo. «Sem-

brava che ci fosse abbastanza luce, per un esercizio così tra-scurabile. Perché non ti sei servito del potere dell'amuleto, e non hai fatto a pezzi il vampiro?»

«Una morte tanto semplice e rapida non sarebbe sufficiente,» dichiarò dignitosamente Cugel. «Devo riflettere a lungo, e deci-dere in quale modo è giusto fargli espiare i suoi delitti.»

«Davvero,» disse Derwe Coreme. «Davvero.» Cugel ritornò nella grande sala. «Ritorniamo al banchetto! Scorra il vino! Tutti devono brin-

dare all'ascesa al trono del nuovo Signore di Cil!» Derwe Coreme, disse, con voce flautata: «Se non ti dispiace,

Supremo, mostraci il potete dell'amuleto, per soddisfare la no-stra curiosità.»

«Certamente!» E Cugel toccò un carbonchio dopo l'altro, fa-cendo scaturire brontolii e gemiti e grida dolorose, inframmez-zate da urla e strilli.

«Sai fare di più?» chiese Derwe Coreme, con il sorriso dolce di una bambina capricciosa.

«Sì, se lo volessi. Ma basta così. Bevano tutti!» Derwe Coreme fece un cenno al sergente della guardia. «Prendi la spada e taglia il braccio di questo sciocco: portami

l'amuleto.» «Con piacere, Nobile Signora.» Il sergente avanzò, con la lama

nuda. «Fermo!» gridò Cugel. «Un altro passo, e la magia ti sovvertirà

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tutte le ossa!» Il sergente guardò Derwe Coreme, e quella rise. «Fai come ti ho ordinato, o dovrai affrontare la mia vendetta,

che ben conosci.» Il sergente rabbrividì e si rimise in marcia. Ma in quel mo-

mento un viceservo corse verso Cugel, e sotto al cappuccio, questi scorse il volto rugoso del vecchio Slaye.

«Io ti salverò. Mostrami l'amuleto!» Cugel lasciò che le dita ansiose toccassero i carbonchi. Slaye

premette uno di questi, e gridò qualcosa con una voce così stri-dula ed esultante che le sillabe risultarono incomprensibili. Vi fu un grande sbatter d'ali, e una enorme figura nera apparve in fondo alla sala.

«Chi mi tormenta?» gemette. «Chi mi darà pace?» «Io!» gridò Slaye. «Avanza nella sala, e uccidi tutti, all'infuori

di me.» «No!» gridò Cugel. «Sono io che possiedo l'amuleto! È a me che

devi obbedire! Uccidi tutti tranne me!» Derwe Coreme strinse il braccio di Cugel, cercando di vedere

bene l'amuleto. «Non serve a nulla, se non lo chiami per nome! Siamo tutti

perduti!» «Qual è il suo nome?» gridò Cugel. «Aiutami!» «Indietro!» dichiarò Slaye. «Ho riflettuto...» Cugel gli sferrò un colpo e balzò dietro la tavola. Il dèmone si

avvicinava, soffermandosi per afferrare i guerrieri e per ma-ciullarli scagliandoli contro il muro. Derwe Coreme corse ac-canto a Cugel.

«Lasciami vedere l'amuleto! Non ne sai proprio niente? Io gli darò gli ordini.»

«No!» esclamò Cugel. «Non per niente io sono Cugel l'Astuto! Mostrami qual è il carbonchio, e dimmi il nome.»

Derwe Coreme chinò il capo, lesse la runa, allungò la mano per premere il carbonchio, ma Cugel le scostò violentemente il braccio.

«Il nome! O moriremo tutti!» «Chiama Vanille! Premi qui, e chiama Vanille!» Cugel premette il carbonchio. «Vanille! Fermati!»

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Il dèmone nero lo ascoltò. Vi fu un altro rumore terribile, e apparve un secondo dèmone. Derwe Coreme lanciò un grido di terrore.

«Non era Vanille. Mostrami ancora l'amuleto!» Ma non c'era tempo; il dèmone nero stava già per piombare

loro addosso. «Vanille!» urlò Cugel. «Distruggi quel mostro nero!» Vanille era basso e largo, di un color verde cangiante, con oc-

chi che sembravano lampade scarlatte. Si scagliò contro il primo dèmone, e l'urlo terribile dello scontro fece rintronare le orecchie di Cugel, i suoi occhi non riuscirono a seguire quella lotta frenetica. Le pareti tremavano mentre quelle forze tre-mende urtavano e rimbalzavano. La tavola andò in schegge sotto i grandi piedi; Derwe Coreme venne scaraventata in un angolo. Cugel la seguì, strisciando, la trovò afflosciata e con gli occhi sbarrati, semicosciente ma priva di volontà. Cugel le cac-ciò l'amuleto sotto gli occhi.

«Leggi le rune! Chiama i nomi. Li proverò tutti, uno dopo l'al-tro! Presto, dobbiamo salvarci!»

Ma Derwe Coreme si limitò a muovere le labbra. Dietro di lo-ro, il dèmone nero era balzato a cavalcioni di Vanille, e stava strappando metodicamente brandelli della sua carne, gettan-doli di qua e di là, mentre Vanille urlava e gridava e girava la testa feroce da una parte e dall'altra, ringhiando e cercando di azzannare, sferrando colpi con le grandi braccia verdi. Il dèmone nero affondò il braccio, afferrò qualche ganglio vitale, e Vanille diventò una scintillante fanghiglia verde fatta di mille pezzi, mentre ogni scintillio ed ogni lucentezza si spegneva tremando, dissolvendosi nella pietra.

Slaye si fermò sogghignando davanti a Cugel. «Vuoi salva la vita? Dammi l'amuleto e ti risparmierò. Indu-

gia un solo istante, e sei morto!» Cugel si tolse dal braccio l'amuleto, ma non se la sentiva di

cederlo. Disse, con improvvisa astuzia: «Posso dare l'amuleto al dèmone.»

Slaye lo fissò, furioso. «Allora sarà la fine per tutti noi. Per me non importa. Fallo

pure. Ti sfido a farlo. Se vuoi vivere... dammi l'amuleto.» Cugel abbassò lo sguardo su Derwe Coreme.

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«E lei?» «Sarete banditi insieme. L'amuleto, perché sta arrivando il

dèmone.» Il dèmone nero torreggiava altissimo su di loro. Cugel si af-

frettò a consegnare l'amuleto a Slaye, che lanciò un grido acuto e toccò un carbonchio. Il dèmone uggiolò, si raggomitolò e scomparve.

Slaye indietreggiò, con un sogghigno di trionfo. «E adesso andatevene, tu e la ragazza. Mantengo la promessa

che ti ho fatto, nient'altro. Avete salvato le vostre miserabili vite. Andatevene.»

«Realizza un mio desiderio!» supplicò Cugel. «Trasportaci ad Almeria, alla Valle dello Xzan, dove potrò sbarazzarmi di un cancro chiamato Firx!»

«No,» disse Slaye, «rifiuto di accontentare il desiderio più caro al tuo cuore. Andatevene immediatamente.»

Cugel sollevò Derwe Coreme. Ancora stordita, lei guardò la sala devastata. Cugel si rivolse a Slaye.

«Il vampiro è in agguato sul viale.» Slaye annuì. «Può essere vero. Domani lo punirò. Questa notte chiamerò gli

artigiani del Mondo-di-Sotto per riparare la sala e per restau-rare gli splendori di Cil. Presto, andate! Credete che mi importi qualcosa se anche dovrete affrontare il vampiro?» II suo volto s'illuminò, e la sua mano si tese verso i carbonchi dell'amuleto. «Andatevene, presto!»

Cugel prese Derwe Coreme per un braccio e la condusse fuori dalla sala, verso la grande porta d'ingresso. Slaye stava ritto, a gambe larghe, le spalle aggobbite, la testa china, seguendo con gli occhi ogni mossa di Cugel. Cugel tirò indietro i chiavistelli, aprì i battenti e uscì sulla terrazza.

Nel viale regnava il silenzio. Cugel condusse Derwe giù per la scalinata, poi su di un lato, tra le erbacce fitte del vecchio giar-dino. Si fermò per ascoltare. Dal palazzo venivano rumori che denunciavano una frenetica attività: tonfi e scricchiolii, grida rauche e urla, lampi di luci multicolori. Al centro del viale si muoveva un'alta figura bianca, che passava dall'ombra di un piedistallo all'altra. Si fermò per ascoltare, quasi con meravi-glia, quei rumori insoliti, a guardare quelle luci sgargianti.

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Mentre il vampiro era così assorto, Cugel trascinò via Derwe Coreme dietro le fronde scure e sì dileguò nella notte.

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III

LE MONTAGNE DI MAGNATZ

Poco dopo il levar del Sole, Cugel e Derwe Coreme uscirono dal-la stalla, sul fianco della collina, dove avevano trascorso la not-te. L'aria era fredda e il Sole, una sfera color vino tra la nebbia alta, non dava calore. Cugel si batté le mani sulle braccia e sal-tellò avanti e indietro, mentre Derwe Coreme stava ritta, iner-te e con il volto contratto, davanti alla vecchia costruzione.

Cugel si irritò di quella posa, che sottintendeva un sottile di-sprezzo verso di lui.

«Prendi della legna,» le disse, seccamente. «Accenderò un fuo-co. Faremo colazione con tutte le comodità.»

Senza dire una parola, l'ex sovrana di Cil andò a raccogliere legna. Cugel si voltò ad osservare la tetra distesa ad oriente, scagliando automaticamente una maledizione contro Iucounu, il Mago Ridente, il cui rancore l'aveva scaraventato in quei de-solati territori del nord.

Derwe Coreme ritornò con una bracciata di fuscelli; Cugel annuì in segno di approvazione. Per qualche tempo, dopo che erano stati espulsi da Cil, la giovane donna si era comportata con estrema alterigia, e Cugel l'aveva sopportata con un tran-quillo sorriso. La prima notte era stata faticosa e ricca di av-venimenti: poi Derwe Coreme aveva modificato il proprio com-portamento. Il suo volto delicato, dai lineamenti nitidi, aveva perduto ben poco della sua malinconia imbronciata, ma l'arro-ganza era cambiata, come il latte diventa formaggio, in una nuova, vigile valutazione della realtà.

Il fuoco crepitava allegramente: fecero colazione con rape e polpose ghiande nere, mentre Cugel faceva domande sulle ter-re che si estendevano a est e a sud. Derwe Coreme era in grado di dargli ben poche informazioni, nessuna delle quali incorag-giante.

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«Dicono che la foresta non finisca mai. L'ho sentita chiamare con molti nomi: la Grande Erm, la Foresta d'Oriente, la Lig Thig. A sud puoi vedere le Montagne di Magnate, che sono con-siderate terribili.»

«Da quale punto di vista?» domandò Cugel. «È molto impor-tante saperlo: dobbiamo attraversare quelle montagne, per po-ter arrivare ad Almeria.»

Derwe Coreme scosse il capo. «Ho sentito soltanto poche allusioni, e non vi ho fatto gran ca-

so, perché non prevedevo certo di dover visitare questa regio-ne.»

«Neppure io,» brontolò Cugel. «Se non fosse stato per Iucounu, sarei altrove.»

Una scintilla di interesse illuminò il volto apatico. «Chi è questo Iucounu?» «Un odioso stregone di Almeria. Ha una palla al posto della

testa e ostenta un sogghigno idiota. È odioso in tutti i sensi ed è dispettoso quanto un eunuco scottato.»

La bocca di Derwe Coreme si schiuse in un piccolo sorriso freddo.

«E tu ti sei inimicato quello stregone.» «Bah. Una questione da nulla. Per una cosuccia di poco conto

mi ha scaraventato a nord, con l'incarico di compiere una mis-sione impossibile. Ma non per nulla sono Cugel l'Astuto! La missione è compiuta, e adesso ritorno ad Almeria.»

«E Almeria... È un bel posto?» «Abbastanza bello, in confronto alla desolazione di questa fo-

resta e di questa nebbia. Tuttavia, ha le sue imperfezioni. La stregoneria impera, e la giustizia non è equa, come ho scoper-to.»

«Parlami ancora di Almeria. Ci sono città? C'è gente, oltre ai bricconi e agli stregoni?»

Cugel aggrottò la fronte. «Esistono alcune città, tristi ombre di una gloria passata. C'è

Azenomei, dove lo Xzan si unisce con il fiume Scaum, e Kaiin ad Ascolais, e altre che sorgono sulla riva di fronte a Kauchi-que, dove abita gente di grande sottigliezza.»

Derwe Coreme annuì, pensierosa. «Andrò ad Almeria. In tua compagnia, della quale potrò pre-

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sto liberarmi.» Cugel le lanciò un'occhiata in tralice, poiché non gli piaceva

quell'affermazione enigmatica: ma prima che potesse discute-re, lei gli chiese: «Quali terre si stendono fra noi e Almeria?»

«Terre ampie e pericolose, popolate da gid, erebi e Morti Vivi, da vampiri e leucomorfi, da ghoul e da orri. Per il resto, non so. Sarà veramente un miracolo, se riusciremo a sopravvivere al viaggio.»

Derwe Coreme guardò malinconicamente in direzione di Cil, poi alzò le spalle e tacque.

Il pasto frugale era ormai giunto alla fine. Cugel si appoggiò contro il muro della stalla, a godersi il calore del fuoco, ma Firx non tollerava indugi, e Cugel, con una smorfia, balzò in piedi.

«Vieni. Dobbiamo metterci in cammino. La malvagità di Iu-counu non mi concede riposo.»

Scesero lungo il pendio, seguendo quella che sembrava una antica strada. Il paesaggio cambiò. L'erica lasciò il posto a una brughiera umida; poi giunsero a una foresta. Cugel ne sbirciò con diffidenza le ombre cupe.

«Dobbiamo camminare senza far rumore, nella speranza di non stuzzicare qualche essere pericoloso. Io guarderò avanti, e tu indietro, in modo da assicurarci che niente ci sorprenda alle spalle.»

«Perderemo la strada.» «Il Sole è a sud: sarà quella la nostra guida.» Derwe Coreme alzò di nuovo le spalle. Avanzarono nell'ombra

della foresta. Gli alberi erano altissimi, e la luce del Sole, fil-trando tra il fogliame, accentuava per contrasto l'oscurità. In-contrarono un ruscello, lo seguirono e alla fine giunsero ad una radura attraversata da un fiume in piena.

Sulla riva, vicino ad una zattera ormeggiata, stavano seduti quattro uomini vestiti di stracci. Cugel scrutò con aria critica Derwe Coreme, e tolse dagli abiti di lei i bottoni ingioiellati.

«Con ogni probabilità, quelli sono banditi e non dobbiamo de-stare la loro cupidigia, anche se non sembrano troppo perico-losi.»

«Allora è meglio evitarli,» disse Derwe Coreme. «Sono animali, niente di più.»

Cugel insistette.

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«Abbiamo bisogno della loro zattera e della loro guida; se sup-plichiamo, crederanno che siamo deboli, e diventeranno insi-diosi.» Avanzò a grandi passi e Derwe Coreme, volente o nolen-te, fu costretta a seguirlo.

Visti da vicino, i quattro non apparivano migliori. Avevano i capelli lunghi, incolti e sporchi, le facce segnate, gli occhi simili a scarafaggi e le bocche che mostravano espressioni abbastan-za miti, e osservarono l'avvicinarsi di Cugel e di Derwe Coreme con sospetto, più che con aria bellicosa. Uno dei quattro, sem-brava, era una donna, anche se gli indumenti, la faccia e i modi non lo dimostravano. Cugel li salutò con signorile condiscen-denza, e quelli batterono le palpebre, perplessi.

«Chi siete?» domandò Cugel. «Ci chiamiamo Busiaco,» rispose il più vecchio degli uomini. «È

il nome della nostra razza e della nostra famiglia: non facciamo distinzioni, poiché tra le nostre consuetudini vige la polian-dria, ed ogni donna può prendere più mariti.»

«Siete cittadini della foresta, e ne conoscete le strade ed i sen-tieri?»

«La descrizione è esatta,» ammise l'uomo, «anche se la nostra conoscenza è limitata. Ricordate che questa è la Grande Erm, che si estende senza fine per leghe e leghe.»

«Non importa,» disse Cugel. «Abbiamo solo bisogno di traghet-tare il fiume, e poi di una guida su di una strada sicura che ci conduca alle terre del sud.»

L'uomo consultò gli altri, e tutti scossero il capo. «Una strada del genere non esiste: in mezzo ci sono le Monta-

gne di Magnatz.» «Davvero...» fece Cugel. «Se vi traghettassimo al di là del fiume, sareste praticamente

morti,» continuò il vecchio Busiaco, «perché quella zona è infe-stata da erebi e da orri. La tua spada non servirebbe a nulla, e porti con te solo una magia molto debole... lo so, perché noi Bu-siaco fiutiamo l'odore della magia come gli erebi fiutano l'odore della carne.»

«E allora, come possiamo raggiungere la nostra destinazio-ne?» domandò Cugel.

I Busiaco si dimostrarono scarsamente interessati a quella domanda. Ma uno degli uomini, sbirciando Derwe Coreme, eb-

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be all'improvviso un'idea e guardò al di là del fiume, come se stesse riflettendo. Poi quello sforzo lo vinse, e scosse il capo, sconfitto.

Cugel, che lo aveva osservato attentamente, gli domandò: «Che cosa ti preoccupa?»

«Un problema non molto complicato,» rispose il Busiaco. «Ab-biamo poca pratica in fatto di logica, e la minima difficoltà ci sconvolge. Mi stavo solo chiedendo quale delle tue proprietà saresti disposto a dare, in cambio di una guida attraverso la foresta.»

Cugel rise cordialmente. «Una domanda giustissima. Ma io posseggo soltanto ciò che

voi potete vedere: cioè abiti, scarpe, mantello e spada, tutte co-se che mi sono necessarie. Tuttavia, in verità, conosco un in-cantesimo che può fare apparire un paio di bottoni ingioiellati.»

«Non avrebbe molta importanza. C'è una cripta, qui vicino, dove ci sono mucchi di gioielli più alti di me.»

Cugel si massaggiò la mascella, con l'aria di chi riflette. «La generosità dei Busiaco è conosciuta ovunque. Forse siete

disposti a portarci in quella cripta.» Il Busiaco fece un gesto d'indifferenza. «Se ci tieni. Però è vicina al covo di una grande gid, che ades-

so è in calore.» «Procederemo direttamente verso il sud,» disse Cugel. «Bene,

partiamo subito.» Il Busiaco rimase ostinatamente accovacciato. «Non hai nulla da offrire?» «Soltanto la mia gratitudine, che tuttavia non è cosa da poco.» «E la donna? È un po' magrolina, ma non brutta. Poiché tu

devi morire tra le Montagne di Magnatz, perché sprecare la donna?»

«È vero.» Cugel si voltò a guardare Derwe Coreme. «Forse pos-siamo metterci d'accordo.»

«Che?» Derwe Coreme ansimò, indignata. «Come osi proporre una cosa simile? Preferisco annegarmi nel fiume!»

Cugel la trasse in disparte. «Non per niente mi chiamano Cugel l'Astuto!» le sibilò all'o-

recchio. «Fidati di me, raggirerò quell'idiota!» «Derwe Coreme lo scrutò diffidente poi gli volse le spalle, il vi-

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so rigato di lacrime di rabbia. Cugel si rivolse al Busiaco. «La tua proposta è chiaramente dalla parte della saggezza:

perciò, andiamo.» «La donna può rimanere qui,» disse il Busiaco, alzandosi in

piedi. «Percorreremo un sentiero incantato, e sarà necessaria una disciplina rigorosa.»

Derwe Coreme mosse un passo, con aria decisa, in direzione del fiume.

«No!» si affrettò a gridare Cugel. «Ha un temperamento molto sentimentale, e vuole vedermi al sicuro verso le Montagne di Magnate, anche se questo significa per me la morte certa.»

Il Busiaco alzò le spalle. «È lo stesso.» Li condusse a bordo della zattera, staccò gli or-

meggi e, servendosi di un palo, la spinse attraverso il fiume. L'acqua sembrava poco profonda, giacché il palo non affondava mai più di un piede o due. Cugel ebbe l'impressione che sarebbe stato facilissimo passarlo a guado.

Il Busiaco, che lo stava osservando, disse: «Il fiume brulica di rettili di vetro, e un uomo incauto che lo guadasse verrebbe at-taccato immediatamente.»

«Davvero!» esclamò Cugel, guardando dubbioso il fiume. «Davvero. E adesso devo avvertirti, per quanto riguarda il

sentiero. Incontreremo allettamenti di ogni genere, ma se ci tieni alla tua vita, non scostarti mai da me.»

La zattera raggiunse la riva opposta. Il Busiaco scese a terra e l'assicurò a un albero.

«Avanti, seguitemi.» E si addentrò con sicurezza fra gli alberi. Derwe Coreme lo seguì, e Cugel procedette alla retroguardia. Il sentiero era una pista così impercettibile che Cugel non riusci-va a distinguerlo, ma il Busiaco non esitava mai. Il Sole, basso dietro gli alberi, si scorgeva di rado, e Cugel non sapeva mai con certezza in quale direzione procedessero. Avanzarono at-traverso quella solitudine silvestre, nella quale non si udiva neppure il richiamo di un uccello.

Il Sole, superato lo zenith, incominciò a discendere, e la pista divenne del tutto indistinta. Finalmente, Cugel gridò: «Sei sicu-ro della pista? Mi sembra che giriamo a destra e a sinistra a caso!»

Il Busiaco si fermò per fornire spiegazioni.

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«Noi della foresta siamo un popolo ingenuo, ma abbiamo que-sta dote particolare.» E si batté un dito sul naso schiacciato, in un gesto significativo. «Sappiamo fiutare la magia. La pista che seguiamo è stata approntata in un tempo troppo lontano per-ché qualcuno lo rammenti, e si rivela a noi soltanto.»

«È possibile,» fece Cugel in tono petulante. «Mi sembra però eccessivamente ricca di giri viziosi, e dove sono le creature terribili di cui hai parlato? Ho visto soltanto un topo di campa-gna, e non ho sentito neppure l'odore di un erebo.»

Il Busiaco scosse il capo, perplesso. «È inspiegabile: si sono recati altrove. Non te ne lamenterai,

senza dubbio. Procediamo, prima che tornino.» E si rimisero in cammino, seguendo una traccia non meno indistinguibile che in precedenza.

Il Sole continuò a scendere. La foresta si diradò leggermente; raggi scarlatti si insinuarono tra gli alberi, brunendo le radici contorte, indorando le foglie cadute. Il Busiaco entrò in una radura, e si voltò con un'aria di trionfo.

«Vi ho felicemente condotti alla meta!» «E come mai?» domandò Cugel. «Siamo ancora in mezzo al fol-

to della foresta.» Il Busiaco tese un braccio, indicando qualcosa dall'altra parte

della radura. «Vedi quei quattro sentieri ben marcati?» «Mi sembra di sì,» ammise controvoglia Cugel. «Uno di essi conduce verso il sud, al limitare della foresta, gli

altri tre, invece, si addentrano nella foresta e si biforcano pa-recchie volte.»

Derwe Coreme, che stava sbirciando tra i rami degli alberi, lanciò un'esclamazione brusca.

«Ecco là! A cinquanta passi di distanza vi sono il fiume e la zattera!»

Cugel rivolse al Busiaco uno sguardo feroce. «Cos'è questa storia?» Il Busiaco annuì solennemente. «Quei cinquanta passi non sono protetti dalla magia. Sarebbe

stato pericolosissimo condurvi qui per la via diretta. E ades-so...» Si avvicinò a Derwe Coreme, la prese per un braccio, poi tornò a voltarsi verso Cugel. «Tu puoi attraversare la radura, e

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allora ti insegnerò quale dei quattro sentieri porta al confine meridionale della foresta.» Poi legò una corda attorno alla vita di Derwe Coreme. Lei oppose un'accanita resistenza, e solo una percossa e una maledizione l'indussero a desistere. «Questa corda serve ad impedire che faccia balzi ed escursioni improv-vise,» spiegò il Busiaco a Cugel, ammiccando con aria d'intesa. «Non sono troppo svelto nella corsa, e quando voglio la dorma non mi va di doverla rincorrere di qua e di là. Ma tu non hai fretta di andartene? Il Sole sta tramontando, e quando si fa buio compaiono i leucomorfi.»

«Bene, allora: quale dei quattro sentieri porta al limite meri-dionale della foresta?» chiese Cugel, in tono franco.

«Attraversa la radura, e io te lo dirò. Naturalmente, se diffidi delle mie indicazioni, puoi fare la scelta che preferisci. Ma ri-cordati che mi sono già stancato anche troppo per una donna viperina, magra e anemica. Quindi deciditi.»

Cugel guardò dubbiosamente verso l'estremità opposta della radura, poi fissò Derwe Coreme, che stava a guardare, nausea-ta e sconvolta. Cugel parlò in tono allegro.

«Bene, sembra che tutto vada per il meglio. Le Montagne di Magnate sono notoriamente pericolose. Se non altro, tu sarai al sicuro qui, con questo briccone.»

«No!» gridò Derwe Coreme. «Liberami da questa corda! È un truffatore! Ti ha imbrogliato! Cugel l'Astuto? Ma tu sei Cugel lo Sciocco!»

«Che linguaggio volgare,» esclamò Cugel. «Ho fatto un patto con il Busiaco, cioè un accordo sacro, che deve essere mante-nuto a tutti i costi.»

«Uccidi quel mostro!» gridò Derwe Coreme. «Adopera la spa-da! Il limite della foresta non può essere molto lontano!»

«Un sentiero sbagliato potrebbe portare nel cuore della Gran-de Erm,» ribatté Cugel. Alzò il braccio in un gesto di addio. «È molto meglio faticare per questo irsuto ruffiano che rischiare la morte tra le Montagne di Magnate!»

Il Busiaco sogghignò per dimostrare la sua approvazione, e diede alla corda uno strattone autoritario. Cugel attraversò di corsa la radura, mentre nelle orecchie gli risuonavano le im-precazioni di Derwe Coreme, fino a quando la giovane donna venne zittita dal Busiaco con qualche sistema che Cugel non

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ebbe modo di osservare. Poi il Busiaco gridò: «Per puro caso, ti stai avvicinando al sentiero giusto. Seguilo, e finirai per arri-vare a un luogo abitato.»

Cugel gli rivolse un ultimo saluto e si avviò. Derwe Coreme lanciò uno strillo di gaiezza isterica.

«Dice di essere Cugel l'Astuto! Che bello scherzo!» Cugel procedette a passo rapido lungo il sentiero, un po' tur-

bato. «Quella donna è monomaniaca,» si disse. «Manca di chiarezza

e di percezione. Come avrei potuto fare altrimenti, per il suo bene e per il mio? Io sono la razionalità personificata: è com-pletamente assurdo pensarla diversamente!»

Meno di cento passi più avanti, partendo dalla radura, il sen-tiero uscì dalla foresta. Cugel si fermò di colpo. Soltanto cento passi? Strinse le labbra. Per qualche curiosa coincidenza, altri tre sentieri uscivano dalla foresta, poco lontano da lui, e con-vergevano tutti verso quello sul quale si trovava lui stesso.

«Interessante,» disse Cugel. «Provo quasi la tentazione di tor-nare indietro, di cercare il Busiaco e di pretendere da lui una specie di spiegazione...»

Strinse la spada, pensierosamente, e mosse persino un paio di passi in direzione della foresta. Ma il Sole era molto basso sull'orizzonte, e le ombre riempivano i varchi tra i tronchi no-dosi. Mentre esitava, Firx agitò impaziente chele e artigli nel fegato di Cugel, il quale abbandonò il progetto di ritornare nella foresta.

Il sentiero si snodava sul terreno aperto; le montagne occu-pavano l'orizzonte, a sud. Cugel procedette a passo spedito, conscio dell'ombra nera della foresta alle sue spalle, e non del tutto tranquillo. Di tanto in tanto, scosso da qualche pensiero particolarmente inquietante, si batteva bruscamente la mano sulla coscia. Ma era una follia! Senza dubbio aveva risolto le cose per il meglio! Il Busiaco era grossolano e stupido: come poteva aver sperato di imbrogliare Cugel? Era una concezione insostenibile. In quanto a Derwe Coreme, indubbiamente si sa-rebbe abituata alla sua nuova vita...

Mentre il Sole scendeva dietro le Montagne di Magnatz, Cugel arrivò ad un rozzo villaggio e a una taverna che sorgeva ac-canto a un crocevia. Era un solido edificio di pietra e di travi,

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con finestre rotonde, ognuna delle quali era formata da cento occhi di bue azzurri. Cugel si fermò davanti alla porta e fece l'inventario delle sue risorse, che erano piuttosto misere. Poi ricordò i bottoni ingioiellati che aveva tolto a Derwe Coreme, e si congratulò con se stesso per la sua previdenza.

Spinse la porta ed entrò in un lungo locale, illuminato da vec-chie lampade di bronzo. L'oste stava dietro a un corto banco, e versava grog e punch ai tre uomini che erano in quel momento i suoi unici avventori. Tutti si voltarono a guardare quando Cugel entrò nel locale.

L'oste parlò abbastanza educatamente. «Benvenuto, viandante. Che cosa desideri?» «Prima una coppa di vino, poi la cena e l'alloggio per la notte,

e infine qualche notizia della strada che conduce a sud, se sei in grado di fornirmene.»

L'oste versò una coppa di vino. «Cena e alloggio a tempo debito,» disse. «Per quanto riguarda

la strada che conduce a sud, porta nel regno di Magnatz, e sa-pere questo mi sembra sufficiente.»

«Dunque Magnatz è un essere temibile?» L'oste scosse il capo. «Gli uomini che si sono diretti a sud non sono mai tornati.

Nessuno, a quanto si ricordi, è mai venuto verso nord. Questo è tutto ciò che sono in grado di dirti.»

I tre uomini che stavano bevendo annuirono solennemente. Due erano contadini della zona, mentre il terzo portava gli alti stivali neri da cacciatore di streghe. Il primo contadino fece un cenno all'oste.

«Versa una coppa di vino a questo sventurato. Offro io.» Cugel accettò la coppa, diviso fra sentimenti contrastanti. «Bevo e ti ringrazio, anche se respingo specificamente l'appel-

lativo di sventurato, perché l'influsso della parola non si proietti sul mio destino.»

«Come vuoi,» rispose indifferente l'altro. «Ma in questi tempi malinconici, chi non è sventurato?» Poi, per diversi minuti, i contadini discussero tra loro la riparazione di un muro che se-parava i loro appezzamenti di terra.

«È un lavoro arduo, ma i vantaggi sono grandi,» dichiarò uno. «D'accordo,» confermò l'altro. «Ma io sono così fortunato che

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non appena avremo finito il lavoro il Sole diventerà nero, e avremo faticato per niente.»

Il primo agitò le braccia in un gesto di sarcastico rifiuto. «È un rischio che dobbiamo correre comunque. Guarda: io be-

vo vino, anche se forse non vivrò abbastanza da ubriacarmi. Questo mi distoglie forse dal farlo? No! Io respingo il futuro. Bevo, e mi ubriaco come impongono le circostanze.»

L'oste rise e picchiò il pugno sul banco. «Tu sei astuto come un Busiaco... a proposito, ho sentito dire

che si sono accampati qui vicino. Forse il viandante li ha incon-trati?» Guardò con aria interrogativa Cugel, che annuì contro-voglia.

«Ho incontrato un gruppo di quella gente: stupida più che furba, secondo me. E a proposito della strada che porta a sud, qualcuno può darmi un consiglio preciso?»

Il cacciatore di streghe borbottò: «Posso dartelo io. Evitala. Incontrerai per prima cosa i Morti Vivi, avidi della tua carne. Più oltre c'è il regno di Magnatz, in confronto al quale i Morti Vivi sembrano angeli di misericordia, se è vero soltanto la de-cima parte di quello che si sente dire.»

«Ecco notizie veramente scoraggianti,» disse Cugel. «E non c'è altra strada che porti alle terre del sud?»

«Per la verità c'è» disse il cacciatore di streghe. «E te la consi-glio. Ritorna a nord, per il sentiero fino alla Grande Erm, e poi prosegui verso oriente, per tutta l'estensione della foresta, che diventa sempre più fitta e più temibile. È superfluo dirti che dovrai avere braccio fermo e piedi alati per sfuggire ai vampi-ri, agli orri agli erebi e ai leucomorfi. Dopo essere giunto al li-mitare della foresta, devi svoltare a sud, fino alla Valle di Da-rad, dove a quanto si dice un esercito di basilischi assedia l'an-tica città di Mar. Se riuscirai a superare indenne quel luogo in cui infuria la battaglia, arriverai alla Grande Steppa Centrale, dove non si trova né cibo né acqua, e dove vivono i Succhia-crani. Poi, attraversata la steppa, torna a volgerti verso occi-dente, e guada tutta una serie di paludi velenose. Più oltre c'è una zona di cui non so niente, a parte il fatto che viene chiama-ta Terra del Mal Ricordo. Dopo avere attraversato quella re-gione, ti troverai a sud delle Montagne di Magnatz.»

Cugel rifletté per qualche istante.

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«La strada che mi hai descritto può essere più sicura e meno faticosa di quella diretta che porta a sud, ma mi sembra esage-ratamente lunga. Sono disposto a rischiare di attraversare le Montagne di Magnatz.»

Il primo contadino lo fissò, rispettoso. «Immagino che tu sia un famoso stregone, ricco di migliaia di

incantesimi.» Cugel scrollò il capo, sorridendo. «Io sono Cugel l'Astuto, né più, né meno. E adesso... vino!» L'oste, poco dopo, portò in tavola la cena: uno stufato di len-

ticchie e di granchi di terra, guarnito di rape e di mirtilli. Dopo il pasto, i due contadini bevvero un'ultima coppa di vino

e se ne andarono, mentre Cugel, l'oste e il cacciatore di streghe rimasero seduti davanti al fuoco, discutendo vari aspetti dell'esistenza. Finalmente il cacciatore di streghe si alzò per ri-tirarsi in camera sua. Prima di appartarsi si accostò a Cugel, e gli parlò in tono molto franco.

«Ho notato il tuo mantello, che è di una qualità piuttosto rara in questa regione arretrata. Poiché tu sei ormai spacciato, per-ché non mi regali il tuo mantello, che mi farebbe comodo?»

Cugel respinse laconicamente la proposta e salì in camera sua.

Durante la notte venne destato da un fruscio vicino ai piedi del letto. Balzò in piedi e catturò una persona di piccola statu-ra. Trascinato alla luce, l'intruso si rivelò per lo sguattero, che stringeva ancora in mano le scarpe di Cugel.

«Che significa questa mascalzonata?» domandò Cugel, per-cuotendo il ragazzo. «Parla! Come hai osato tentare una simile azione?»

Lo sguattero supplicò Cugel di smetterla. «Che differenza fa? Un uomo destinato a morire non ha biso-

gno di calzature così eleganti!» «Spetta a me giudicare,» disse Cugel. «Pretendi che vada a

piedi nudi a morire tra le Montagne di Magnatz? Vattene, vat-tene!» E scaraventò il ragazzo lungo disteso nel corridoio.

La mattina dopo, a colazione, parlò dell'incidente all'oste, il quale non si mostrò molto interessato. Quando venne il mo-mento di pagare il conto, Cugel gettò sul banco un bottone in-gioiellato.

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«Stabilisci un giusto valore per questo gioiello, sottrai quanto ti devo e dammi il resto in monete d'oro.»

L'oste esaminò il bottone, strinse le labbra e inclinò la testa da una parte.

«Il tuo conto corrisponde esattamente al valore di questo gin-gillo... non posso darti resto.»

«Cosa?» tempestò Cugel. «Questa splendida acquamarina cir-condata da quattro smeraldi? Per una coppa o due di vino me-diocre, uno stufato e un sonno disturbato da quel delinquente del tuo sguattero? Ma questa è una taverna o un covo di bandi-ti?»

L'oste alzò le spalle. «Il conto è un po' più salato del solito, lo ammetto, ma il dena-

ro che marcisce nelle tasche di un cadavere non serve a nes-suno.»

Cugel riuscì finalmente a farsi dare parecchie monete d'oro dall'oste, più un pacco contenente pane, formaggio e vino. L'o-ste si avvicinò alla porta e gli indicò un sentiero.

«C'è solo quella strada, che porta a sud. Le Montagne di Ma-gnate stanno davanti a te. Addio.»

Cugel si avviò verso sud, non senza qualche presentimento. Per un lungo tratto il sentiero si snodò fra le terre coltivate dei contadini locali; poi, quando le colline incominciarono a innal-zarsi ai due lati, il sentiero diventò dapprima una pista, poi una traccia che procedeva tortuosamente lungo il letto asciut-to di un fiume, tra ciuffi di cespugli spinosi, dafne, millefoglie e narcisi. Lungo la cresta della collina parallela alla pista cre-sceva un groviglio di querce stente, e Cugel, pensando che in quel modo sarebbe passato più facilmente inosservato, salì sull'altura e continuò a camminare sotto la protezione del fo-gliame.

L'aria era limpida, il cielo di un fulgido azzurrocupo. Il Sole salì allo zenith, e Cugel pensò al cibo che portava nella sacca. Sedette, ma proprio in quel momento colse, con la coda dell'oc-chio, il movimento di una furtiva ombra nera. Il sangue gli si gelò. Senza dubbio quell'essere aveva intenzione di aggredirlo alle spalle.

Cugel finse di non essersene accorto, e poco dopo l'ombra tornò a muoversi, avanzando: era un Morto Vivo, più alto e più

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massiccio di lui, e nero come la mezzanotte, a parte gli occhi bianchi, i denti e gli artigli anch'essi bianchi: portava una ca-micia di velluto verde sostenuta da cinghie di cuoio.

Cugel pensò al da farsi. Se lo avesse affrontato a faccia a fac-cia, il mostro l'avrebbe fatto a pezzi. Se avesse tenuta pronta la spada, avrebbe potuto sferrare affondi e fendenti tenendo a bada quell'essere fino a quando il desiderio frenetico di cibo avrebbe vinto la paura del dolore; allora si sarebbe scagliato all'attacco senza badare neppure alle ferite. Probabilmente Cugel era più veloce, e avrebbe potuto distanziarlo, ma solo dopo un inseguimento lungo e ostinato... Il Morto Vivo scivolò di nuovo più avanti, e andò a nascondersi dietro a una spor-genza di roccia, venti passi più in basso rispetto al punto in cui sedeva Cugel. Non appena fu scomparso, Cugel corse verso la sporgenza e balzò sulla cima. Sollevò una grossa pietra e, men-tre il mostro si muoveva furtivamente, gliela scagliò sulla schiena. Il Morto Vivo cadde e rimase disteso, scalciando, e Cugel balzò giù per sferrargli il colpo di grazia.

Il Morto Vivo si era rannicchiato contro la roccia: sibilò di or-rore alla vista della lama sguainata di Cugel.

«Non colpirmi,» disse. «Non hai niente da guadagnare, ucci-dendomi.»

«Solo la soddisfazione di uccidere uno che aveva intenzione di divorarmi.»

«Un piacere sterile!» «Pochi piaceri non sono sterili,» ribatté Cugel. «Ma, finché sei

in vita, dammi notizie delle Montagne di Magnatz.» «Le vedi: sono montagne aspre di antiche rocce nere.» «E Magnatz?» «Non conosco nessuna entità di questo nome.» «Come? Ma se gli uomini, a nord, rabbrividiscono solo a sen-

tirne parlare!» Il mostro si raddrizzò un poco di più. «Può essere. Ho sentito quel nome, ma lo considero soltanto

un'antica leggenda.» «Perché i viaggiatori vanno a sud e nessuno va a nord?» «Perché mai qualcuno dovrebbe desiderare di recarsi al

nord? In quanto a quelli che vanno al sud, sono serviti di cibo per me e per i miei simili.» E il Morto Vivo continuò a raddriz-

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zarsi, impercettibilmente. Cugel raccolse una grossa pietra e la scagliò contro il mostro nero, che ricadde all'indietro, scal-ciando debolmente. Cugel prese un'altra pietra.

«Fermo!» invocò l'essere con voce fievole. «Risparmiami, e ti aiuterò a salvarti.»

«E come?» chiese Cugel. «Tu cerchi di dirigerti a sud; altri come me abitano le caverne

lungo la via. Come potrai sfuggire loro se io non ti guido lungo percorsi che quelli non frequentano?»

«Puoi farlo?» «Se mi risparmi la vita.» «Benissimo. Ma devo prendere qualche precauzione: nella tua

bramosia di sangue potresti anche dimenticare il patto.» «Mi hai storpiato: di quale altra garanzia hai bisogno?» gridò

il Morto Vivo. Ma Cugel legò le braccia dell'essere e gli strinse una cinghia attorno al grosso collo nero.

Proseguirono così; il mostro zoppicava e balzellava, guidando Cugel luogo un percorso tortuoso, al di sopra di certe grotte.

Le montagne si fecero più alte: nelle gole di pietra i venti tuo-navano ed echeggiavano. Cugel continuò a interrogare il Morto Vivo sul conto di Magnate, ma quella continuò a sostenere che secondo lui Magnate era una creatura di favola.

Giunsero finalmente ad un pianoro sassoso, e la sua guida di-chiarò che ormai si trovavano al di fuori del territorio della sua setta.

«E più in là cosa c'è?» domandò Cugel. «Non lo so. Non mi spingo mai più oltre, nei miei vagabondag-

gi. E adesso liberami e vattene per la tua strada, ed io ritornerò tra la mia gente.»

Cugel scosse il capo. «La notte non è molto lontana. Che cosa può impedirti di se-

guirmi per aggredirmi di nuovo? È meglio che ti uccida.» Il Morto Vivo rise, tristemente. «Ce ne sono altri tre che ci seguano. Si sono tenuti a distanza

solo perché ho fatto loro segno di stare alla larga. Uccidimi, e non vedrai il Sole di domani.»

«Allora proseguiremo insieme,» disse Cugel. «Come vuoi.» Cugel si avviò verso il sud, e il Morto Vivo lo seguì zoppicando

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sui macigni; voltandosi indietro, Cugel scorse alcune sagome nere che si muovevano nell'ombra. Il mostro sogghignò con aria significativa.

«Faresti meglio a fermarti subito: perché aspettare che scen-da d'oscurità? La Morte è meno orribile, quando splende la lu-ce.»

Cugel non rispose, ma proseguì a tutta velocità. Il sentiero uscì dalla valle, salì verso un pascolo alto, dove l'aria soffiava gelida. Larici, kaobab e cedri balsamici crescevano all'intorno, ed un ruscello scorreva fra l'erba. Il Morto Vivo incominciò a mostrarsi a disagio, a tirare il guinzaglio ed a zoppicare osten-tando una debolezza esagerata. Cugel non riusciva a rendersi conto del motivo di quella messa in scena: la campagna, a par-te la presenza dei suoi simili, non sembrava presentare perico-li. Cugel si spazientì.

«Perché rallenti? Spero di trovare un ricovero tra le monta-gne, prima che scenda l'oscurità. E tu mi fai perdere tempo, zoppicando e indugiando.»

«Avresti dovuto pensarci quando mi hai storpiato con una pietra,» rispose il Morto Vivo. «Dopotutto, non ti sto certo ac-compagnando per mia libera scelta.»

Cugel si voltò. I tre mostri che prima si tenevano furtivamen-te nascosti tra le rocce adesso li seguivano con molta disinvol-tura.

«Non sei in grado di controllare i macabri appetiti dei tuoi si-mili?» domandò Cugel.

«Non sono in grado di controllare neppure il mio,» rispose l'essere. «Solo il fatto che ho le zampe rotte mi impedisce di sal-tarti alla gola.»

«Vuoi vivere?» chiese Cugel, portando la mano, in un gesto si-gnificativo, all'impugnatura della spada.

«Abbastanza, anche se non con il desiderio fervido che pro-vano gli uomini veri.»

«Se ci tieni anche pochissimo alla tua vita, ordina ai tuoi simi-li di andarsene e di rinunciare al loro sinistro inseguimento.»

«Sarebbe completamente inutile. E comunque, che cos'è la vi-ta, per te? Guarda: davanti a te torreggiano le Montagne di Magnate!»

«Ah!» mormorò Cugel. «Ma non sostenevi che la triste fama di

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questa regione è puramente di favola?» «Esattamente: ma non ho precisato qual è il carattere della

favola.» Mentre stavano parlando, un rapido sibilo tagliò l'aria: guar-

dandosi intorno, Cugel vide che i tre Morti Vivi erano caduti, trafitti da frecce. Da un boschetto vicino uscirono quattro gio-vani in abito marrone da cacciatore. Avevano una carnagione chiara e fresca, i capelli castani, alta statura, e sembravano ben disposti.

Quello che stava più avanti gridò: «Come mai vieni dal nord disabitato? E perché ti porti dietro questa malvagia creatura della notte?»

«Posso rispondere senza misteri alle tue due domande», disse Cugel. «innanzi tutto, il nord non è disabitato: vi vivono ancora alcune centinaia di persone. In quanto a questo nero ibrido di dèmone e di cannibale, me ne sono servito perché mi guidasse senza pericoli attraverso le montagne, ma non sono soddisfat-to dei suoi servigi.»

«Ho fatto quello che volevi,» dichiarò il Morto Vivo. «Lasciami libero, secondo il nostro patto.»

«Come vuoi,» rispose Cugel, e slacciò il collare che stringeva la gola dell'essere, il quale si allontanò zoppicando e voltandosi indietro a guardare con aria furiosa. Cugel fece un cenno al ca-po dei cacciatori, il quale disse qualcosa ai compagni. Alzarono gli archi, e trafissero il mostro con le frecce.

Cugel rivolse loro un secco cenno di approvazione. «E voi chi siete? E chi è Magnatz, che a quanto si dice rende

intransitabili queste montagne?» I cacciatori risero. «È soltanto una leggenda. Un tempo è esistito veramente un

essere terribile di nome Magnatz, e per rispetto alla tradizione noi del villaggio di Vull nominiamo ancora uno dei nostri alla carica di Guardiano. Ma non c'è altro di vero, in questa storia.»

«È strano,» disse Cugel, «che una tradizione conservi ancora un'influenza così grande.»

I cacciatori alzarono le spalle, con indifferenza. «La notte si avvicina; è tempo di ritornare indietro. Se vuoi

accompagnarci, sarai il benvenuto, ed a Vull c'è una taverna dove potrai riposare questa notte.»

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«Sono ben felice di approfittare della vostra compagnia.» Si avviarono lungo il sentiero. Mentre camminavano, Cugel

chiese notizie della strada che portava a sud, ma i cacciatori non furono in grado di aiutarlo.

«Il villaggio di Vull sorge sulle rive del Lago Vull, che non è navigabile perché è pieno di gorghi, e pochi, tra noi, hanno esplorato le montagne a sud. Si dice che siano spoglie, e che scendano verso un inospitale deserto grigio.»

«Può darsi che Magnatz vaghi tra le montagne al di là del la-go?» chiese delicatamente Cugel.

«La tradizione non ne parla,» rispose il cacciatore. Dopo un'ora di marcia, il gruppo arrivò a Vull, un villaggio la

cui ricchezza sbalordì Cugel. Le abitazioni erano solide costru-zioni di pietra e di legno, le strade diritte e ben tenute; c'era un mercato pubblico, un granaio, un palazzo comunale, un deposi-to, parecchie taverne, un certo numero di ville discretamente lussuose. Mentre i cacciatori percorrevano la strada principa-le, un uomo gridò loro: «Una notizia importante! Il Guardiano è morto!»

«Davvero?» chiese il capo dei cacciatori, con vivo interesse. «E chi svolge le sue funzioni, nel frattempo?»

«Lafel, il figlio dell'atamano... e chi, se no?» «Già, chi, se no?» osservò il cacciatore, e il gruppo passò oltre. «La carica di Guardiano è dunque tenuta in tanta considera-

zione?» domandò Cugel. Il cacciatore alzò le spalle. «È più esatto dire che si tratta di una sinecura cerimoniale.

Domani, senza dubbio, verrà scelto un funzionario permanen-te. Ma guarda là, sulla porta del palazzo comunale!» E indicò un uomo massiccio, dalle spalle larghe, che indossava vesti marroni orlate di pelliccia e un cappello nero a due falde. «Quel-lo è Hylam Wiskode, l'atamano in persona. Salute a te, Wi-skode! Abbiamo incontrato un viaggiatore proveniente dal nord!»

Hylam Wiskode si avvicinò, e salutò Cugel cortesemente. «Benvenuto! Gli stranieri sono una novità, qui: ti offriamo la

nostra ospitalità.» «Ti ringrazio con tutto il cuore,» disse Cugel. «Non mi aspetta-

vo tanta affabilità tra le Montagne di Magnatz, che tutto il

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mondo teme terribilmente.» L'atamano ridacchiò. «I timori esagerati sono molto diffusi dovunque: forse giudi-

cherai strane e antiquate alcune delle nostre tradizioni, come il Guardiano di Magnatz. Ma vieni! Ecco la nostra taverna mi-gliore. Quando avrai preso alloggio, ceneremo.»

Cugel venne condotto in una comoda stanza, provvisto del necessario, e finalmente, ripulito e rinfrescato, raggiunse Hy-lam Wiskode nella sala comune. Venne portata in tavola una cena appetitosa ed una fiasca di vino.

Dopo il pasto, l'atamano condusse Cugel a fare il giro del vil-laggio, che godeva di una bella vista sul lago.

Sembrava che quella sera si festeggiasse un'occasione specia-le: dovunque splendevano torce che levavano al cielo lingue di fiamma, mentre gli abitanti di Vull passeggiavano per le stra-de, soffermandosi a discutere in gruppi e capannelli. Cugel chiese la ragione di quell'eccitazione.

«È forse per la morte del vostro Guardiano?» «Proprio così,» disse l'atamano. «Noi prendiamo molto sul se-

rio le nostre tradizioni, e la scelta del nuovo Guardiano è og-getto di un pubblico dibattito. Ma guarda: ecco là la tesoreria pubblica, dove è raccolta la ricchezza comune. Vuoi entrare a dare un'occhiata?»

«A tuo piacere,» disse Cugel. «Se desideri ispezionare l'oro co-mune, sarò lieto di accompagnarti.»

L'atamano spalancò la porta. «Qui c'è ben altro che oro! In questo bidone sono contenuti i

gioielli: quello scaffale è pieno di monete antiche. Quelle balle contengono sete splendide e damaschi ricamati: sui lati ci sono casse di spezie preziose, e liquori ancora più preziosi, e un-guenti di valore inestimabile. Ma non dovrei parlare così con te, che sei un viaggiatore ricco di esperienza, e hai potuto ve-dere le vere ricchezze.»

Cugel affermò che le ricchezze di Vull erano tutt'altro che di-sprezzabili. L'atamano s'inchinò riconoscente; insieme, si reca-rono su di una spianata in riva al lago, che adesso era una grande distesa buia illuminata dalla luce fievole delle stelle.

L'atamano indicò una cupola, sorretta nell'aria da una colon-na sottile all'altezza di centocinquanta metri.

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«Indovini la funzione di questo edificio?» «Si direbbe la Torre di Guardia del Guardiano,» disse Cugel. «Esattamente! Sei un uomo molto acuto. È un vero peccato

che tu abbia tanta fretta e non possa trattenerti a Vull!» Cugel, pensando al proprio borsellino vuoto e alle ricchezze

della tesoreria, fece un gesto soave. «Non sarei contrario a trattenermi qui, ma in tutta sincerità,

viaggio senza molto denaro, e sarei costretto a cercarmi un impiego che mi consentisse di guadagnare. Sto pensando alla carica di Guardiano, che a quanto ho saputo è un posto di grande prestigio.»

«Lo è veramente,» disse l'atamano. «Questa notte è mio figlio che monta di guardia. Tuttavia, non vi è motivo perché tu non debba essere un candidato adatto. I doveri non sono ardui: in pratica, la carica è una sinecura.»

Cugel sentì Firx che si agitava irrequieto. «E gli emolumenti?» «Sono ottimi. Il Guardiano gode di grande prestigio, qui a Vull,

perché, in un senso puramente formale, ci protegge tutti dal pericolo.»

«E quali sono, precisamente?» L'atamano si soffermò per riflettere, poi contò sulla punta

delle dita. «Innanzi tutto, ha a disposizione una comoda Torre di Guar-

dia, completa di cuscini, un apparecchio ottico che fa apparire vicinissimi gli oggetti lontani, un braciere per riscaldarsi e un ingegnoso sistema di comunicazione. In secondo luogo, il suo vitto e le sue bevande sono di primissima qualità, fornite gra-tuitamente, a suo piacere e secondo i suoi ordini. Poi, di solito gli viene accordato anche il titolo sussidiario di Guardiano del-la Tesoreria Pubblica, e per semplificare le cose, ha il pieno di-ritto di disporre di tutte le ricchezze di Vull. Poi, può scegliersi come sposa la fanciulla che gli sembra più attraente. Quindi, ha diritto al titolo di barone, e deve essere trattato da tutti con il più profondo rispetto.»

«Davvero, davvero,» disse Cugel. «È una carica che sembra degna di considerazione. E quali responsabilità comporta?»

«Le responsabilità cui allude il titolo. Il Guardiano deve stare di guardia, perché questa è una delle antiche tradizioni che noi

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seguiamo. Non sono doveri onerosi, ma non possono venire elusi, perché questo sarebbe ridicolo, e noi siamo persone se-rie, anche per quanto si riferisce alle nostre tradizioni più strane.»

Cugel annuì, con aria critica. «Le condizioni mi sembrano chiare. Il Guardiano fa la guar-

dia: sarebbe impossibile esprimersi in modo più chiaro. Ma chi è Magnatz, in quale direzione può comparire, e come lo si può riconoscere?»

«Sono questioni che non hanno grande importanza,» disse l'a-tamano, «poiché, in teoria, quell'essere non esiste neppure.»

Cugel alzò lo sguardo verso la torre, poi guardò il lago, quindi tornò a sbirciare la tesoreria pubblica.

«Mi offro candidato per la carica, purché tutto sia come tu mi hai detto.»

Firx sferrò immediatamente una serie di sforbiciate strazian-ti alle viscere di Cugel. Cugel si piegò in due, si strinse l'addo-me, si raddrizzò, si scusò con lo sbalordito atamano, e si trasse in disparte.

«Pazienza!» implorò, rivolto a Firx. «Temperanza! Non ti ren-di conto della realtà! La mia borsa è vuota! E mi attende un lungo cammino. Per viaggiare con una certa rapidità e sicurez-za, devo recuperare le forze e riempirmi il borsellino. Ho in-tenzione di conservare la carica solo per il tempo necessario per realizzare questi due fini, e poi via di corsa ad Almeria!»

Firx, riluttante, diminuì l'intensità delle sue rimostranze, e Cugel ritornò dall'atamano che lo stava aspettando.

«Tutto a posto,» disse. «Ho riflettuto, e credo di potere svolge-re in modo adeguato le funzioni della carica.»

L'atamano annuì. «Sono felice di saperlo. Potrai accertare che ho esposto i fatti

esattamente, in ogni particolare essenziale. Anch'io ho riflettu-to, e posso affermare con sicurezza che nessun altro, nel vil-laggio, aspira a una carica tanto augusta: perciò ti proclamo Guardiano della Città!» Cerimoniosamente, l'atamano si trasse dalla tasca una catena d'oro, e la mise al collo di Cugel.

Ritornarono verso la taverna e, mentre passavano, gli abi-tanti di Vull, notando la catena d'oro, si fecero vicini all'atama-no, tempestandolo di domande.

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«Sì,» fu la risposta. «Questo gentiluomo ha dato prova delle sue capacità, e io l'ho proclamato Guardiano della Città!»

A quella notizia, gli abitanti di Vull divennero espansivi, e si congratularono con Cugel come se avesse vissuto tra loro per tutta la vita.

Tutti si recarono nella taverna: furono serviti vini e carni alle spezie; apparvero i pifferai ed ebbero inizio danze e svaghi de-corosi.

Durante la serata, Cugel adocchiò una ragazza bellissima: ballava con uno dei giovani che avevano fatto parte della spe-dizione di caccia. Cugel urtò con il gomito l'atamano, e gli indi-cò la ragazza.

«Ah, sì! La deliziosa Marlinka. Sta ballando con il giovane che credo abbia intenzione di sposare.»

«È possibile cambiare i suoi progetti?» domandò Cugel, in tono significativo.

L'atamano strizzò l'occhio con aria d'intesa. «La trovi attraente?» «Moltissimo; e poiché è un privilegio della mia carica, dichia-

ro che quella deliziosa creatura è la mia sposa prescelta. Si compiano subito le cerimonie!»

«Così presto?» chiese l'atamano. «Ah, bene, il sangue ardente della giovinezza non tollera indugi.» Fece un cenno di richiamo alla ragazza, che si accostò alla tavola danzando allegramente. Cugel si alzò e s'inchinò.

«Marlinka,» disse l'atamano, «il Guardiano della Città ti trova desiderabile e ti vuole in moglie.»

Marlinka sembrò dapprima sorpresa, poi divertita. Guardò maliziosamente Cugel, ed eseguì una riverenza.

«Il Guardiano mi fa un grande onore.» «Inoltre,» proseguì l'atamano, «egli chiede che le cerimonie

nuziali vengano celebrate subito.» Marlinka guardò dubbiosamente Cugel, poi si voltò a sbircia-

re il giovane con il quale aveva ballato. «Benissimo,» disse. «Come vuoi.» La cerimonia venne celebrata, e Cugel si trovò sposato a Mar-

linka che, vista da vicino, era una creatura deliziosamente vi-vace, dai modi affascinanti e dall'aspetto squisito. Le cinse la vita con un braccio.

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«Andiamo,» le bisbigliò. «Allontaniamoci per un po', per solen-nizzare le nostre nozze.»

«Non così presto,» mormorò Marlinka. «Devo avere il tempo di ricompormi. Sono così agitata!» Si liberò e si allontanò a passo di danza.

Vi furono altre feste e altri svaghi e, con suo grande dispiace-re, Cugel notò che Marlinka continuava a ballare con il giovane al quale era stata promessa in precedenza. Quando la vide ab-bracciare il giovanotto con manifesto ardore, Cugel si fece avanti, fermò le danze, e prese in disparte la sposa.

«Questo non è un comportamento appropriato: sei sposata da un'ora soltanto!»

Marlinka, sorpresa e imbarazzata, rise, poi aggrottò la fron-te, poi rise di nuovo, e promise di comportarsi con maggior de-coro. Cugel cercò di condurla in camera sua, ma lei, ancora una volta, dichiarò che non era il momento adatto.

Cugel emise un profondo sospiro d'irritazione, ma poi si con-solò al ricordo degli altri privilegi che gli spettavano: il libero uso delle ricchezze della tesoreria, per esempio. Si piegò verso l'atamano.

«Poiché adesso sono il guardiano titolare della tesoreria pub-blica, è opportuno che mi familiarizzi convenientemente con il tesoro affidato alla mia custodia. Se vuoi avere la cortesia di consegnarmene le chiavi, andrò a farne un rapido inventario.»

«Io ho una proposta migliore,» disse l'atamano. «Ti accompa-gnerò, e farò tutto il possibile per aiutarti.»

Si recarono alla tesoreria: l'atamano aprì la porta e sorresse una lampada. Cugel entrò ed esaminò tutti gli oggetti preziosi.

«Vedo che è tutto 'in ordine, e forse è meglio attendere che mi si schiariscano le idee, prima di incominciare un inventario particolareggiato. Nel frattempo...» Cugel si accostò al bidone dei gioielli, scelse parecchie gemme, e incominciò a riporle nel-la sua borsa.

«Un momento,» disse l'atamano. «Temo che tu stia sbagliando. Fra poco verrai rivestito di abiti di ricco tessuto, come si con-viene al tuo rango. Le ricchezze stanno certo meglio qui, nella tesoreria: perché disturbarti a portare questo peso, e magari correre il rischio di smarrire qualche gemma?»

«C'è qualcosa di vero in ciò che dici,» osservò Cugel. «Tuttavia,

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vorrei ordinare la costruzione di una villa affacciata sul lago, e ho bisogno di oggetti preziosi per pagare le spese.»

«Tutto a suo tempo, tutto a suo tempo. I lavori non potranno avere inizio prima che tu abbia osservato a tuo agio la campa-gna e abbia prescelto il luogo più ameno.»

«È vero,» ammise Cugel. «Mi rendo conto che avrò molto da fare, in avvenire. Ma adesso... ritorniamo alla taverna! La mia sposa è straordinariamente pudica, ma ora non ammetto altri indugi!»

Quando ritornarono alla taverna, però, Marlinka era irrepe-ribile.

«Senza dubbio è andata a indossare i suoi abiti più seducenti,» suggerì l'atamano. «Abbi pazienza!»

Cugel strinse le labbra, irritato, e si irritò ancora di più quan-do si accorse che anche il giovane cacciatore era scomparso.

I festeggiamenti continuarono, e dopo parecchi brindisi, Cugel incominciò a sentirsi un po' stordito, e venne condotto di sopra, nella sua camera.

La mattina dopo, di buon'ora, l'atamano bussò alla porta, ed entrò quando Cugel l'invitò ad accomodarsi.

«Ora dobbiamo andare a visitare la Torre di Guardia,» disse l'atamano. «Mio figlio ha vegliato su Vull, questa notte, poiché la nostra tradizione impone che la vigilanza sia incessante.»

Di malavoglia, Cugel si vestì e seguì l'atamano nell'aria fresca del mattino. Si diressero alla Torre di Guardia, e Cugel rimase sorpreso dalla sua altezza e dall'elegante semplicità della struttura: il sottile stelo si innalzava fino ad un'altezza di cen-tocinquanta metri, e recava in cima la cupola.

L'unico mezzo per salire era una scala di corda. L'atamano cominciò ad arrampicarsi, e Cugel lo seguì: la scala dondolava e sussultava, procurandogli le vertigini.

Arrivarono sani e salvi alla cupola e il figlio dell'atamano, che aveva l'aria stanca e annoiata, scese. La cupola era ammobilia-ta in modo assai meno lussuoso di quanto si aspettava Cugel: anzi, sembrava quasi austera. Fece notare il fatto all'atamano, il quale promise che si sarebbe posto subito riparo a quegli in-convenienti.

«Basta che tu chieda ciò che desideri: sarai accontentato.» «Benissimo, allora. Voglio un fitto tappeto per il pavimento, in

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toni di verde e d'oro; mi sembrano i più soddisfacenti. Ho biso-gno di un giaciglio più elegante, e più ampio del misero paglie-riccio che vedo contro il muro, poiché la mia sposa Marlinka dovrà trascorrere qui gran parte del suo tempo. Là voglio uno stipetto per le gemme e gli oggetti preziosi, qui un armadietto per i dolciumi, e lì un vassoio per le essenze profumate. Qui, invece, ho bisogno di un tavolinetto con il necessario per tene-re in fresco i vini.»

L'atamano assentì prontamente ad ogni richiesta. «Sarà fatto come tu vuoi. Ma adesso dobbiamo parlare dei

tuoi doveri. Sono così semplici che quasi non c'è bisogno di spiegarli: devi stare di guardia contro Magnatz.»

«Me ne rendo perfettamente conto, ma mi torna in mente un pensiero di qualche importanza. Per lavorare con la massima efficienza, devo sapere contro chi o che cosa devo stare in guardia. Magnatz potrebbe arrivare furtivamente lungo la spianata, senza che io fossi in grado di riconoscerlo. Che aspet-to ha?»

«Non saprei dirtelo: questa informazione è andata perduta nella nebbia dei tempi. La leggenda narra soltanto che venne beffato da uno stregone, e che fu portato via.» L'atamano si av-vicinò all'oblò. «Guarda. È un apparecchio ottico. Funziona in base ad un principio molto ingegnoso, e ingrandisce le scene verso le quali lo punti. Di tanto in tanto, puoi controllare i pun-ti più interessanti della zona. Laggiù c'è il Monte Temus, sotto c'è il Lago Vull, che nessuno può navigare a causa dei gorghi. In quella direzione c'è il Passo Padagar. che porta a oriente, verso la Terra di Merce. Puoi scorgere a malapena il tumulo commemorativo che Guzpah il Grande ordinò di erigere quan-do guidò otto armate per combattere Magnatz. Magnatz eresse un altro tumulo... Vedi quel grande mucchio di terra, più a nord? Lo eresse per coprire i cadaveri straziati. E quello è il varco che Magnatz aprì tra le montagne, perché l'aria fresca potesse circolare nella valle. Al di là del lago vi sono ancora ro-vine titaniche, dove sorgeva il palazzo di Magnatz.»

Cugel osservò tutto attraverso l'apparecchio ottico. «Magnatz doveva essere veramente una creatura dotata di

una potenza enorme.» «Così afferma la leggenda. E adesso, un'ultima cosa. Se Ma-

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gnatz apparisse, il che è soltanto un'ipotesi ridicola, natural-mente, tu devi tirare questa sbarra, che fa suonare il grande gong. Le nostre leggi vietano severamente di suonare il gong, se non quando si avvista Magnatz. La punizione per questo de-litto è molto dura; in verità, l'ultimo Guardiano tradì la sua alta carica suonando indebitamente il gong. È superfluo aggiungere che è stato giudicato severamente, e dopo essere stato fatto a pezzi stritolandolo fra ruote dentate, i suoi resti sono stati get-tati in un gorgo.»

«Che individuo sciocco!» osservò Cugel. «Perché rinunciare a tante ricchezze, ad una bella vita e a tanti onori, solo per uno stupido divertimento?»

«Siamo tutti della stessa opinione,» dichiarò l'atamano. Cugel aggrottò la fronte. «La sua azione mi stupisce molto. Era forse un giovanotto,

per cedere tanto prontamente ad un capriccio così frivolo?» «Non si può neppure addurre questo a sua discolpa. Era un

saggio di quattro ventine di anni, e ne aveva trascorse tre ven-tine al servizio della città, in qualità di Guardiano.»

«La sua condotta mi appare ancora più incredibile,» commen-tò meravigliato Cugel.

«Tutti gli abitanti di Vull la pensano allo stesso modo.» L'ata-mano si fregò energicamente le mani. «Credo che abbiamo or-mai discusso tutte le cose essenziali. Ora me ne andrò, e ti la-scerò a goderti la tua carica.»

«Un momento,» disse Cugel. «Insisto perché vengano apportati certi cambiamenti e certe migliorie: il tappeto, lo stipetto, i cu-scini, il vassoio, il letto.»

«Ma naturalmente,» rispose l'atamano. Si sporse dalla rin-ghiera, e gridò un ordine a quelli che stavano sotto. Non vi fu una risposta immediata, e l'atamano apparve esasperato.

«Che seccatura!» esclamò. «A quanto pare dovrò andare a provvedere personalmente.» E incominciò a calarsi lungo la scala di corda.

Cugel gli gridò: «Abbi la cortesia di mandarmi la mia sposa Marlinka, perché vi sono alcune cose che desidero discutere con lei.»

«La cercherò immediatamente!» gli gridò di rimando l'atama-no.

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Parecchi minuti più tardi, si sentì il cigolio della grande car-rucola: la scala venne abbassata all'estremità della fune che la reggeva. Guardando oltre la ringhiera, Cugel vide che stavano per issare i cuscini. La pesante fune che reggeva la scala cigolò attraverso la carrucola, trascinando una cordicella leggera, poco più di un robusto spago, alla quale erano legati i cuscini. Cugel li esaminò con aria di disapprovazione: erano vecchi e polverosi, e di una qualità ben diversa da quella che lui aveva in mente. Doveva insistere per avere qualcosa di meglio! Pro-babilmente l'atamano glieli aveva mandati provvisoriamente, in attesa di reperire cuscini corrispondenti ai requisiti neces-sari. Cugel annuì: evidentemente, così stavano le cose.

Guardò attento l'orizzonte. Magnatz non si vedeva. Agitò un paio di volte le braccia, camminò avanti e indietro, e andò a guardare la piazza, dove immaginava di scorgere gli artigiani che preparavano i mobili e gli oggetti da lui ordinati. Ma non vi era traccia di una attività del genere: gli abitanti del villaggio andavano e venivano per i fatti loro. Cugel alzò le spalle e andò a dare un'altra occhiata all'orizzonte. Come prima Magnatz era invisibile.

Tornò nuovamente a scrutare la piazza. Aggrottò la fronte, socchiuse gli occhi per vedere meglio: ma quella non era la sua sposa, Marlinka, che passeggiava in compagnia di un giovane? Mise a fuoco lo strumento ottico su quella figura snella: era ve-ramente Marlinka, e il giovane che le stringeva il braccio con insolente intimità era il cacciatore con il quale era stata fidan-zata. Cugel strinse i denti, indignato. Quel contegno non poteva continuare! Quando Marlinka si fosse presentata, le avrebbe parlato chiaro.

Il Sole raggiunse lo zenith; la cordicella vibrò. Guardando dal-la ringhiera, Cugel vide che stavano issando, in un canestro, il pasto di mezzogiorno, e batté le mani per la gioia. Ma, quando sollevò il tovagliolo, scoprì che il cestello conteneva soltanto mezza pagnotta, un pezzo di carne dura ed una fiasca di vino annacquato. Cugel fissò sconvolto quelle misere vettovaglie, e decise di scendere immediatamente per chiarire la faccenda. Si raschiò la gola e gridò, perché gli mandassero la scala. Nes-suno mostrò di averlo udito. Chiamò più forte. Un paio di per-sone alzarono la testa con vaga curiosità, poi passarono oltre.

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Cugel tirò rabbiosamente la corda, facendola scorrere sulla carrucola ma non apparve né la fune più pesante, né la scala. La cordicella era fissata in un cerchio interminabile, capace di reggere, al massimo, il peso di un canestro di viveri.

Cugel indietreggiò, pensieroso, e valutò la situazione. Poi, puntando di nuovo l'apparecchio ottico sulla piazza, cercò l'a-tamano, l'unico al quale poteva rivolgersi per chiedere soddi-sfazione.

Era pomeriggio avanzato quando Cugel, per caso, guardò la porta della taverna, proprio mentre l'atamano usciva vacillan-do, evidentemente in preda ai fumi del vino. Cugel lo chiamò, perentoriamente: l'atamano si fermò di colpo, alzò la testa per vedere da dove proveniva quella voce, scosse il capo perplesso e se ne andò per i fatti suoi.

Il Sole splendeva obliquamente sul Lago Vull, ed i gorghi era-no spirali nere e marroni. Arrivò la cena di Cugel: un piatto di porri bolliti e una ciotola di zuppa. L'osservò con scarso inte-resse, poi si portò sul fianco della cupola.

«Mandatemi su la scala!» gridò. «Si sta facendo buio! Senza luce, è inutile stare ad aspettare Magnatz o chiunque altro!»

Come al solito, le sue parole non ricevettero attenzione. All'improvviso, Firx sembrò rendersi conto della situazione, e inflisse parecchie fitte dolorose alle viscere di Cugel.

Cugel passò una notte agitata. Quando i nottambuli uscirono dalla taverna, li chiamò e fece accese rimostranze, ma avrebbe fatto meglio a risparmiare il fiato.

Il Sole spuntò dietro alle montagne. Il pasto mattutino di Cugel era di buona qualità, ma ben diverso da quelli descritti da Hylam Wiskode, l'ambiguo atamano di Vull. Preso da furore, Cugel urlò ordini a quelli che stavano sulla piazza, ma venne ignorato sistematicamente. Trasse un profondo respiro; a quanto pareva, doveva arrangiarsi da solo. E con questo? Non per nulla era Cugel l'Astuto! Cominciò a prendere in conside-razione i possibili metodi per scendere dalla torre.

La funicella che serviva per fare salire i viveri fino a lui era troppo leggera. Se l'avesse raddoppiata e raddoppiata ancora, in modo che reggesse il suo peso, lo avrebbe portato, al massi-mo, ad un quarto della distanza che lo separava dal suolo. I suoi abiti e gli oggetti di pelle, se li avesse fatti a pezzi e anno-

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dati insieme, avrebbero allungato la corda, al massimo, di altri sei metri, e lo avrebbero lasciato a penzolare a mezz'aria. Lo stelo della torre non offriva il minimo appiglio. Se avesse avuto a disposizione utensili adatti e il tempo necessario, avrebbe po-tuto incidere una specie di scala all'esterno della torre, o ma-gari abbatterla poco per volta, riducendola alla fine a un corto mozzicone, dal quale avrebbe potuto lanciarsi a terra senza pericolo... Ma era un progetto irrealizzabile. Cugel si lasciò ca-dere sui cuscini, in preda alla disperazione. Ormai tutto era chiaro. L'avevano ingannato. Era prigioniero. Per quanto tem-po era rimasto al suo posto il precedente Guardiano? Ses-sant'anni? La prospettiva non era per nulla allegra.

Firx, che era della stessa opinione, agitò furiosamente chele e pungiglioni, aggravando la disperazione di Cugel.

In questo modo trascorsero giorno e notte. Cugel meditò a lungo, cupamente, e contemplò con grande ripugnanza gli abi-tanti di Vull. Qualche volta prendeva in esame la possibilità di suonare il grande gong, come aveva fatto il suo predecessore... Ma poi, ricordando la punizione, rinunciò.

Imparò a conoscere perfettamente ogni particolare del vil-laggio, del lago e dei dintorni. La mattina, il lago era coperto da una pesante foschia: dopo due ore, la brezza la disperdeva.

I gorghi risucchiavano rumorosamente, oscillando qua e là, e i pescatori di Vull non si avventuravano mai lontano dalla ri-va, con le loro barche. Cugel imparò a riconoscere tutti gli abi-tanti del villaggio, e imparò le abitudini personali di ciascuno. Marlinka, la sua sposa traditrice, attraversava spesso la piaz-za, ma quasi mai le veniva in mente di alzare lo sguardo. Cugel scoprì la casetta in cui abitava e la sorvegliò continuamente attraverso l'apparecchio ottico. Se Marlinka amoreggiava con il giovane cacciatore, lo faceva con straordinaria discrezione, ed i neri sospetti di Cugel non trovarono mai una conferma.

Il vitto non migliorò, e non di rado gli abitanti di Vull dimen-ticavano addirittura di mandarglielo. Firx era sempre più acrimonioso, e Cugel camminava avanti e indietro, nello spazio angusto della cupola, con passi sempre più frenetici. Poco dopo il tramonto, dopo un ammonimento particolarmente strazian-te di Firx, Cugel si fermò di colpo. Scendere dalla torre era faci-lissimo! Perché aveva aspettato tanto? Sì, era proprio Cugel

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l'Astuto! Lacerò tutti i tessuti che si trovavano nella cupola, ricavan-

done delle strisce che intrecciò in una fune lunga sei metri. Adesso doveva aspettare che la città si addormentasse: ancora un'ora o due.

Firx tornò ad assalirlo, e Cugel gridò: «Buono, scorpione! Questa notte fuggiremo dalla torre! Le tue rimostranze sono superflue!»

Cugel sollevò cautamente la funicella che serviva per issare fino a lui il canestro con le vettovaglie: la raddoppiò una volta, due volte, tre volte, e ne ricavò una fune abbastanza forte da reggere il suo peso. Fece un cappio ad una estremità, e assicu-rò l'altra alla carrucola. Dopo aver lanciato un'ultima occhiata all'orizzonte, scavalcò la ringhiera. Scese fino al termine della fune, si infilò nel cappio e rimase a dondolarsi a circa cento-venti metri di altezza, al di sopra della piazza. Poi legò una scarpa, come peso, a una estremità della sua fune lunga sei metri e, dopo parecchi lanci, riuscì a farla passare attorno al pilastro, e si portò più vicino. Con infinita cautela si liberò e, servendosi del laccio che cingeva la colonna come di un freno, scivolò lentamente fino al suolo. Si nascose rapidamente nell'ombra e si infilò le scarpe. Nel momento stesso in cui si rialzava in piedi, la porta della taverna si spalancò e ne uscì, barcollante, Hylam Weskode, ubriaco fradicio. Cugel sogghignò malignamente e seguì l'atamano in una viuzza laterale.

Bastò un colpo solo alla nuca; l'atamano cadde nel fosso. Cugel gli balzò immediatamente addosso, e con dita agilissime prese le chiavi. Poi si diresse verso la tesoreria pubblica, aprì la porta, entrò e riempì un sacco con gemme, flaconi di essenze preziose, oggetti antichi e altre cose di valore.

Ritornato sulla strada, Cugel trascinò il sacco sul lungolago, e lo nascose sotto ad una rete. Poi proseguì verso la casetta di Marlinka. Strisciando rasente ai muri, arrivò ad una finestra aperta, la scavalcò e si trovò nella stanza di lei.

Marlinka si svegliò sentendo le mani di Cugel che le stringe-vamo la gola. Quando cercò di urlate., lui strinse, mozzandole il respiro.

«Sono io,» sibilò. «Cugel, il tuo sposo! Alzati e vieni con me. Il tuo primo grido sarà anche l'ultimo!»

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Presa dal terrore, la ragazza obbedì. Su ordine di Cugel, si buttò un mantello sulle spalle e si allacciò i sandali ai piedi.

«Dove andiamo?» bisbigliò con voce tremula. «Non ti riguarda. Avanti, vieni... Passiamo dalla finestra. E

non far rumore!» Quando fu fuori, nell'oscurità, Marlinka lanciò uno sguardo

inorridito verso la torre. «Chi è di guardia? Chi difende Vull da Magnatz?» «Non c'è nessuno, di guardia,» disse Cugel. «La torre è vuota!» Le ginocchia di Marlinka si piegarono, e la giovane donna

cadde al suolo. «In piedi!» ordinò Cugel. «In piedi! Dobbiamo andare.» «Ma non c'è nessuno di guardia! E questo rende vano l'incan-

tesimo che lo stregone ha gettato su Magnatz, il quale ha giu-rato di ritornare quando la vigilanza si sarebbe interrotta!»

Cugel rimise in piedi la ragazza. «Questo non m'interessa: rifiuto ogni responsabilità. Non ave-

te forse cercato d'imbrogliarmi, di fare di me la vostra vittima? Dov'erano i miei cuscini? Dov'erano i cibi squisiti? E la mia sposa... tu, dov'eri?»

La ragazza pianse, nascondendosi il viso tra le mani, e Cugel la trascinò verso il lungolago. Si fermò accanto alla barca di un pescatore e le ordinò di salire a bordo, poi caricò il suo bottino.

Slegò la barca, prese i remi e si avventurò sul lago. Marlinka era stravolta.

«I gorghi ci faranno annegare! Hai perduto la ragione?» «Neppure per idea! Ho studiato attentamente i gorghi, e so

esattamente dove si trovano.» Cugel avanzò sulla superficie del lago, contando ogni colpo di

remi e scrutando le stelle. «Duecento a est... cento a nord... duecento a est... cinquanta a

sud...» Cugel continuò a remare, mentre attorno a loro si udiva il ri-

succhio dell'acqua che vorticava. Ma la nebbia si era addensata e nascondeva le stelle: Cugel fu costretto a gettare l'ancora.

«Così va abbastanza bene,» disse. «Adesso siamo al sicuro, e c'è una faccenda che dobbiamo regolare.»

La ragazza si rannicchiò sul fondo della barca. Cugel si portò a poppa e la raggiunse.

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«Ecco qui il tuo sposo. Non sei felice, ora che siamo finalmente soli? La mia camera alla locanda era molto più comoda, ma questa barca andrà bene egualmente.»

«No,» gemette lei. «Non toccarmi! La cerimonia non voleva dir niente, era solo un trucco per indurti ad accettare la carica di Guardiano'»

«Magari per tre ventine d'anni, fino a quando avrei suonato il gong per disperazione?»

«Non sono stata io! La mia unica colpa è stata solo quella di divertirmi! Ma che ne sarà di Vull? Nessuno monta di guardia, e l'incantesimo è spezzato!»

«Tanto peggio per l'indegna gente di Vull! Hanno perduto il loro tesoro, la loro fanciulla più bella, e quando spunterà il giorno, Magnatz marcerà contro il villaggio.»

Marlinka lanciò un grido disperato, che si perdette nella neb-bia.

«Non pronunciare quel nome maledetto!» «E perché no? Lo griderò sull'acqua. Informerò Magnatz che

l'incantesimo è finito, e che adesso può andare a prendersi la sua vendetta!»

«No, no! No!» «Allora devi comportarti con me come si conviene.» Piangendo, la ragazza obbedì, e finalmente una fievole luce

rossa, filtrando tra la nebbia, annunciò l'alba. Cugel si alzò in piedi, ma la nebbia nascondeva ancora le rive del lago.

Passò un'altra ora: il Sole, ormai, era già alto. Gli abitanti di Vull avrebbero scoperto che il loro Guardiano era scomparso, e con lui il loro tesoro. Cugel ridacchiò: la brezza sollevò la neb-bia, rivelando i punti di riferimento del paesaggio che lui aveva imparato a memoria. Balzò a prua e cominciò a salpare il cavo dell'ancora; ma, con sua grande irritazione, l'ancora si era im-pigliata.

Tirò, diede strattoni, e il cavo cedette un poco. Cugel tirò con tutte le sue forze. Dal basso salì una miriade di bolle.

«Un gorgo!» urlò Marlinka, terrorizzata. «Qui non c'è nessun gorgo!» ansimò Cugel, e diede un altro

strattone. La fune sembrò allentarsi e Cugel la tirò di nuovo. Guardò fuori bordo, e si trovò di fronte ad un'enorme faccia pallida: l'ancora si era impigliata in una narice. Mentre guar-

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dava, gli occhi si aprirono. Cugel gettò via la fune, balzò sui remi e incominciò a remare

freneticamente verso la riva meridionale. Una mano grande come una casa si sollevò dall'acqua, cer-

cando di afferrarlo. Marlinka urlò. Vi fu un vortice tremendo, una massa enorme d'acqua scagliò la barca verso riva, come un fuscello, e Magnatz si levò a sedere al centro del Lago Violi.

Dal villaggio venne il suono del gong, una serie di frenetici rintocchi metallici.

Magnatz si sollevò sulle ginocchia, e acqua e fanghiglia ru-scellavano sul suo corpo enorme. L'ancora che gli aveva tra-passato la narice era ancora al suo posto, e dalla ferita sgorga-va un denso liquido nero. Magnatz levò un braccio enorme, schiaffeggiò con petulanza l'acqua, vicino alla barca. Il colpo sollevò una muraglia di schiuma che avvolse l'imbarcazione, rovesciò il tesoro, scaraventò Cugel e la ragazza nelle buie pro-fondità del lago.

Cugel scalciò, si spinse verso l'alto, si lanciò verso la superfi-cie ribollente. Magnatz si era alzato in piedi e stava guardando in direzione di Violi.

Cugel raggiunse a nuoto la riva e si trascinò barcollando sulla spiaggia. Marlinka era annegata, e non si vedeva. Magnatz stava guadando il lago, lentamente, dirigendosi verso il villag-gio.

Cugel non attese oltre. Si voltò e corse con tutte le sue forze su per il pendio della montagna.

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IV

PHARESM LO STREGONE

Le montagne erano alle sue spalle: i profili neri, i laghetti mon-tani, le vette di pietra echeggiante, adesso erano una massa fu-ligginosa, a nord. Per qualche tempo, Cugel procedette attra-verso una regione di basse colline arrotondate che avevano il colore e la consistenza del legno vecchio, e le creste coronate da fitti boschetti di alberi azzurro-neri; poi incontrò un sentie-ro che lo portò a sud, attraverso deviazioni tortuose, e final-mente scese in un'immensa pianura. Sulla destra, a mezza lega di distanza, si levava una serie di alti precipizi che attirarono immediatamente la sua attenzione e gli diedero un'impressio-ne nettissima di dejà-vu. Li guardò, sbalordito. Nel passato, in un'epoca imprecisata, aveva veduto quelle pareti rocciose: co-me? quando? Nella sua memoria non c'era risposta.

Sedette a riposare su di una roccia bassa, rivestita di licheni, ma Firx si spazientì e gli procurò una fitta stimolante. Cugel balzò in piedi gemendo per la stanchezza e agitò il pugno verso sud-est, nella direzione in cui si trovava presumibilmente Al-meria.

«Iucounu, Iucounu! Se potrò mai ripagarti un decimo del ma-le che mi hai fatto, 'il mondo mi giudicherà spietato!»

Si avviò lungo il sentiero, alla base delle pareti rocciose che gli avevano suscitato quelle impressioni così vive ma così poco credibili. Sotto di lui, in lontananza, si stendeva la pianura, che riempiva tre quarti dell'orizzonte con colori molto simili a quel-li della roccia coperta di licheni sulla quale s'era fermato poco prima a riposare: c'erano chiazze nere di bosco; un mucchio di pietre grigie, dove le rovine riempivano un'intera vallata; striature inidentificabili di verdegrigio, di lavanda, di grigio-bruno: lo scintillare plumbeo di due grandi fiumi che sparivano in distanza, nella foschia.

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Il breve riposo era servito soltanto a irrigidire le giunture di Cugel; zoppicava, e la borsa gli pesava sul fianco. E ancora più avvilente era la fame che gli attanagliava le viscere. Un altro punto a sfavore di Iucounu! Era vero che il Mago Ridente gli aveva fornito un amuleto capace di convertire in una pasta nu-triente sostanze abitualmente immangiabili come erba, legno, corno, capelli, terra e cose simili. Purtroppo, e quella era una dimostrazione dello spirito umoristico di Iucounu, la pasta conservava £ sapore della sostanza originaria, e durante l'at-traversamento delle montagne Cugel aveva assaggiato ben po-che cose più gustose dell'alloro, dei ramoscelli e delle ghiande di quercia; una volta, poiché non aveva trovato nient'altro, si era nutrito dei rifiuti scoperti nella grotta d'una capra barbuta. Cugel aveva mangiato pochissimo; la sua alta figura snella era diventata sparuta; gli zigomi sporgevano come spuntoni; le so-pracciglia nere, che un tempo si inarcavano con tanta vivacità, adesso erano piatte e squallide. In verità, in verità, Iucounu aveva parecchie cose di cui rendergli conto! E Cugel, mentre procedeva, pensava al tipo di vendetta che si sarebbe preso se mai fosse riuscito a ritornare ad Almeria.

Il sentiero deviò verso un'ampia piana sassosa, in cui il vento aveva scolpito mille figure grottesche. Osservando meglio la zona, Cugel ebbe l'impressione che le figure erose presentasse-ro una certa regolarità, e si fermò a massaggiarsi meditabondo il lungo mento. Il disegno appariva di una sottigliezza estrema: così estrema, anzi, che Cugel si chiese se per caso non fosse una proiezione della sua mente. Avvicinandosi, scoprì altre complessità ed elaborazioni minuziose: spirali, giravolte, volu-te, dischi, selle, sfere squarciate; torsioni e flessioni; fusi, car-dioidi, pinnacoli lanceolati. Era la scultura su roccia più labo-riosa, minuziosa e intricata che si potesse immaginare: eviden-temente non era il risultato della forza degli elementi. Cugel aggrottò la fronte perplesso, giacché non riusciva a immagina-re la causa di un'impresa tanto complicata.

Continuò a camminare, e poco dopo udì un suono di voci e il rumore di utensili. Si fermò di colpo, ascoltò cautamente, poi procedette e scorse una schiera di cinquanta uomini la cui sta-tura andava dai dieci centimetri ai quattro metri. Cugel mosse un piede per fare un altro passo, ma dopo avergli lanciato

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un'occhiata, gli operai ripresero a lavorare, continuando a ce-sellare, a macinare, a raschiare, a sondare ed a lucidare con zelo accanito.

Cugel restò a guardare per parecchi minuti, poi si avvicinò al sovrintendente, un uomo alto circa un metro, che stava ritto davanti ad un leggio e consultava i progetti che aveva davanti, confrontandoli con l'andamento dei lavori per mezzo di un in-gegnoso strumento ottico. Sembrava notare tutto, vedere tut-to: gridava istruzioni, rimproveri, esortazioni, avvertimenti, istruiva i meno esperti nell'uso degli utensili. Per spiegare me-glio le sue osservazioni, protendeva un indice meravigliosa-mente allungabile, che scattava fino a una distanza di quindici metri per battere su una sezione della roccia, per graffiare un rapido diagramma, e poi si ritirava fulmineamente.

Il sovrintendente indietreggiò di qualche passo, tempora-neamente soddisfatto dell'andamento del lavoro, e Cugel si fece avanti.

«Che cos'è questo complesso lavoro, e quale è il suo scopo?» «Il lavoro è quello che vedi,» rispose il sovrintendente, con vo-

ce penetrante. «Ricaviamo forme specifiche dalla roccia natu-rale, per volontà dello stregone Pharesm... Ehi, là! Ehi, là!» Il grido era indirizzato ad un uomo alto un metro più di Cugel, che stava colpendo la pietra con un martello appuntito. «Ho no-tato una sicurezza eccessiva!» L'indice sfrecciò in avanti. «Stai molto attento a quella giuntura: vedi che la roccia tende a spaccarsi? Batti un colpo qui, di sesta intensità sulla verticale, stringendo appena l'utensile; in questo punto, un colpo di quar-ta intensità, in direzione del'inguine; poi usa un ferro a un quarto di forza per rimuovere i detriti.»

Quando il lavoro tornò a procedere correttamente, il sovrin-tendente tornò a studiare il progetto, scuotendo il capo con un cipiglio insoddisfatto.

«Troppo lento! Gli operai lavorano come se fossero in preda al torpore provocato dalle droghe, o dimostrano una stupidità ostinata. Proprio ieri Dadio Fessadil, quello là di tre aune con il fazzoletto verde si è servito di una barra congelante a dician-nove gradi per incidere la parte centrale di un minuscolo qua-drifoglio rovesciato!»

Cugel scosse il capo sbalordito, come se non avesse mai senti-

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to un'enormità peggiore. Poi chiese: «Ma quale è la causa di un lavoro così immane?»

«Non saprei,» rispose il sovrintendente. «Il lavoro continua ormai da trecentodiciotto anni, ma per tutto questo tempo Pharesm non ha mai spiegato il motivo. Deve essere importan-te e ben preciso, perché viene ad ispezionare il lavoro ogni giorno e si affretta a indicare gli errori.» Poi si girò per consul-tarsi con un uomo che arrivava sì e no alle ginocchia di Cugel e che era piuttosto incerto sull'orientamento di una certa voluta. Il sovrintendente consultò un indice e risolse il problema; poi tornò a rivolgersi a Cugel, questa volta con un'aria di franco in-teresse.

«Tu mi sembri svelto e astuto; ti piacerebbe lavorare qui? Ci mancano parecchi operai della categoria da mezza auna, e, se preferisci manifestazioni più energiche, ci andrebbe benissimo uno spaccapietra apprendista da sedici aune. La tua statura va benissimo per essere modificata in entrambi i sensi, e le possi-bilità di promozione sono identiche. Come vedi, io sono un uo-mo da quattro aune. Sono arrivato al grado di Rifinitore in un anno, di Modellatore di Forme in tre, di Assistente Sovrinten-dente in dieci, e ormai sono Capo Sovrintendente da dicianno-ve anni. Il mio predecessore era di due aune, e il Capo Sovrin-tendente prima di lui era un uomo di dieci aune.» Continuò ad enumerare i vantaggi di quel lavoro, che comprendevano il mantenimento, l'alloggio, narcotici a scelta, privilegi di accesso al ninfario, uno stipendio che partiva da dieci terci al giorno, e vari altri benefici che includevano anche i servizi di Pharesm come indovino ed esorcista. «Inoltre, Pharesm ha un conserva-torio, in cui tutti possono arricchire il proprio intelletto. Per-sonalmente, io mi istruisco nell'Identificazione degli Insetti, Araldica dei Re della Vecchia Gomaz, Canto all'Unisono, Cata-lessi Pratica e Dottrina Ortodossa. Non troverai mai un padro-ne più generoso di Pharesm lo Stregone!»

Cugel frenò un sorriso di fronte all'entusiasmo del Capo So-vrintendente; il suo stomaco si torceva per la fame, comunque, e perciò non respinse subito la proposta.

«Non avevo mai preso in considerazione la possibilità di una simile carriera,» disse. «Tu mi hai elencato vantaggi che non conoscevo.»

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«È vero; non tutti li conoscono.» «Non posso dire di sì o di no immediatamente. È una decisione

importantissima, e ritengo giusto ponderarla sotto tutti i suoi aspetti.»

Il Capo Sovrintendente annuì, per dimostrare la sua profonda approvazione.

«Noi 'incoraggiamo la decisione nei nostri operai, quando ogni colpo di scalpello deve produrre l'effetto desiderato. Rimediare a un'inesattezza minima, per esempio, rende necessario ri-muovere un blocco intero, inserire un nuovo blocco al posto di quello vecchio, e poi tutto il lavoro ricomincia daccapo. Fino a quando l'opera non ha raggiunto di nuovo lo stadio precedente, i privilegi del ninfario sono negati a tutti. Perciò, non vogliamo nel nostro gruppo nuovi arrivati opportunisti o impulsivi.»

Firx, rendendosi improvvisamente conto che Cugel si ripro-poneva un nuovo indugio, fece rimostranze del genere più tormentoso. Stringendosi l'addome, Cugel si scostò e, mentre il Capo Sovrintendente lo guardava perplesso, discusse caloro-samente con Firx.

«Come posso continuare senza mezzi?» La risposta di Firx fu un movimento incisivo delle spine. «Impossibile!» esclamò Cugel. «L'amuleto di Iucounu in teoria dovrebbe bastare, ma io non riesco più a trangugiare foglie d'alloro; e ricordati che se io cado morto lungo la strada, tu non potrai mai ritrovare il tuo compagno nella vasca di Iucounu!»

Firx riconobbe l'esattezza dell'argomentazione e, per quanto riluttante, si acquietò. Cugel ritornò al leggio, dove il Capo So-vrintendente era stato distratto dalla scoperta di una grossa tormalina che ostacolava il fluire di una complicata spirale. Fi-nalmente, Cugel riuscì ad attirare la sua attenzione.

«Mentre soppeso l'offerta d'impiego ed i vantaggi contrastanti dell'abbassamento e dell'allungamento, avrei bisogno di un gia-ciglio per sdraiarmi. Vorrei, inoltre, gustare i benefici da te de-scritti, magari per un giorno o due.»

«La tua prudenza è lodevole,» dichiarò il Capo Sovrintenden-te. «Oggi tutti tendono ad impegnarsi avventatamente in attivi-tà che poi rimpiangono di avere prescelto. Non era così nella mia gioventù, quando prevalevano la sobrietà e la discrezione. Disporrò perché tu venga ammesso nell'organizzazione, dove

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potrai verificare ciascuna delle mie affermazioni. Scoprirai che Pharesm è severo ma giusto, e soltanto colui che taglia la roc-cia svogliatamente ha motivo di lagnarsi. Ma guarda! Ecco là lo Stregone Pharesm che viene a fare la sua ispezione quoti-diana!»

Stava salendo dal sentiero un uomo di statura imponente, che portava un'ampia veste bianca. La sua espressione era be-nigna, i suoi capelli sembravano piume gialle; i suoi occhi era-no levati verso l'alto, quasi nella contemplazione di una subli-mità ineffabile. Teneva le braccia tranquillamente incrociate, e si spostava senza muovere le gambe. Gli operai si tolsero i ber-retti e s'inchinarono all'unisono, cantilenando un rispettoso sa-luto, al quale Pharesm rispose chinando lievemente il capo. Lo stregone, scorgendo Cugel, si soffermò, ispezionò in fretta il la-voro eseguito fino a quel momento, poi scivolò verso il leggio.

«Tutto sembra ragionevolmente esatto,» disse al Capo Sovrin-tendente. «Mi pare che la lucidatura della parte inferiore dell'epiproiezione 56-16 sia irregolare e ho notato una scheg-giatura lievissima nella cinta secondaria della diciannovesima guglia. Non si tratta di errori gravi, e non consiglio azioni di-sciplinari.»

«I difetti saranno eliminati e gli artigiani poco diligenti ver-ranno rimproverati: questo è il minimo!» esclamò il Capo So-vrintendente, in un trasporto di collera. «E ora vorrei presen-tarti una possibile recluta per il nostro lavoro. Afferma di non essere esperto nel campo, e rifletterà prima di decidere se en-trare o no a far parte del gruppo. Se deciderà in questo senso, prevedo per lui il solito periodo di raccolta degli scarti, prima di affidargli il compito di affilare gli utensili e di eseguire gli scavi preliminari.»

«Sì: questo sarebbe conforme alla nostra consuetudine. Tut-tavia...» Pharesm scivolò avanti, prese la mano sinistra di Cugel ed eseguì una rapida divinazione sulle unghie. II suo vol-to mite divenne serio. «Vedo contraddizioni di quattro varietà. È chiaro, comunque, che le tue tendenze migliori ti portano ben lontano dalla lavorazione della roccia. Ti consiglio di tro-varti un altro impiego più adatto.»

«Ben detto!» esclamò il Capo Sovrintendente. «Pharesm lo Stregone dimostra il suo infallibile altruismo! Per non essere

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indegno di lui, ritiro immediatamente la mia offerta d'impiego! Poiché non ti servirebbe a nulla sdraiarti su di un giaciglio o controllare i benefici, non dovrai più sprecare altro tempo in-sostituibile.»

Cugel si oscurò in volto. «Una divinazione così rapida potrebbe essere inesatta.» Il Capo Sovrintendente protese verticalmente l'indice per la

lunghezza di dieci metri in atto di sdegnata rimostranza, ma Pharesm annuì placidamente.

«È giustissimo, e sarò felice di effettuare una divinazione più accurata, benché la procedura richieda da sei a otto ore.»

«Tanto tempo?» domandò sbalordito Cugel. «È il minimo indispensabile. Per prima cosa, verrai avvolto

dalla testa ai piedi negli intestini di civette appena uccise, e poi immerso in un bagno caldo contenente un certo numero di so-stanze organiche. Naturalmente, dovrò reciderti il mignolo del piede sinistro, e dilatare il tuo naso quanto basta per lasciar passare uno scarafaggio esploratore, in modo che possa stu-diare i condotti collegati con il tuo apparato sensoriale. Ma torniamo al mio divinatorio, affinché possiamo dare inizio su-bito al procedimento.»

Cugel si tormentò il mento, incerto. Finalmente disse: «Io so-no un uomo molto prudente, e devo ponderare anche sull'op-portunità di intraprendere tale divinazione; perciò, ho bisogno di parecchi giorni di calma e di sonnolenza meditativa. La vo-stra sede e il ninfario adiacente sembrano offrire le condizioni più adatte per tale stato. Perciò...»

Pharesm scosse il capo con aria indulgente. «La prudenza, come ogni altra virtù, non può essere spinta

troppo oltre. La divinazione deve avere inizio immediatamen-te.»

Cugel tentò di discutere ancora, ma Pharesm si mostrò in-crollabile, e scivolò via lungo il sentiero.

Cugel si tirò sconsolato in disparte, esaminando tutti i possi-bili stratagemmi. Il Sole si avvicinò allo zenith, e gli operai co-minciarono a parlare delle vivande che sarebbero state loro servite per il pasto di mezzogiorno. Finalmente il Capo Sovrin-tendente fece un segnale: tutti deposero gli utensili e si radu-narono attorno al carro che conteneva il pranzo.

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Cugel esclamò scherzosamente che si sarebbe lasciato volen-tieri convincere a partecipare al pasto, ma il Capo Sovrinten-dente non volle saperne.

«Come in tutte le attività di Pharesm, deve prevalere l'esat-tezza. È una discrepanza impensabile che cinquantaquattro uomini consumino un pasto preparato per cinquantatré.»

Cugel non riuscì a inventare una risposta adeguata, e sedette in silenzio, mentre i tagliapietre masticavano sformati di car-ne, formaggi e pesci salati. Tutti lo ignorarono, eccetto uno, un uomo da un quarto di auna la cui generosità superava di gran lunga la sua statura, e che decise di riservare a Cugel una par-te della sua razione. Cugel rispose che non aveva fame, poi si alzò e si allontanò, passando in mezzo alla zona dei lavori, nel-la speranza di scoprire un po' di cibo abbandonato.

Curiosò qua e là, ma i raccoglitori degli scarti avevano porta-to via ogni briciola di sostanza estranea al monumento. In pre-da ad un appetito implacato, Cugel arrivò al centro della zona del lavoro dove, distesa su di un disco scolpito, scorse una creatura stranissima: era sostanzialmente un globo gelatinoso che brulicava di particelle luminose, dal quale si dipartivano innumerevoli tubicini o tentacoli trasparenti che si assottiglia-vano e finivano nel nulla. Cugel si chinò per esaminare la crea-tura, che pulsava con un lento ritmo interiore. La pungolò con un dito, e fulgidi lampi si allontanarono, ondulando, dal punto di contatto. Era interessante: una creatura dotata di qualità uniche!

Si tolse uno spillo dalla veste, e punzecchiò un tentacolo, che emise una pulsazione irritata di luce, mentre i puntolini dorati della sua sostanza affluivano avanti e indietro. Ancora più af-fascinato e perplesso, Cugel si fece più vicino, osservando di-vertito quelle scintille rabbiose.

Un pensiero nuovo lo colpì. Quella creatura mostrava qualità che gli ricordavano tanto i celenterati quanto gli echinodermi. Un nudibranco terrestre? Un mollusco privato del suo guscio? E, cosa ancora più importante, era commestibile?

Cugel tirò fuori il suo amuleto e lo accostò al globo centrale, poi ad ognuno dei tentacoli. Non sentì squilli né ronzii: la crea-tura non era velenosa. Sguainò il coltello e cercò di recidere uno dei tentacoli, ma si accorse che era fatto di una sostanza

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troppo elastica, e non si poteva tagliare. Lì vicino c'era un bra-ciere, tenuto acceso per forgiare e affilare gli utensili dei ta-gliapietre. Sollevò la creatura per due dei tentacoli, la portò al braciere e la mise sul fuoco. L'arrosti accuratamente e, quando la giudicò cotta a sufficienza, cercò di mangiarla. Finalmente, dopo molti sforzi poco dignitosi, se la cacciò in gola tutta inte-ra, trovandola priva di sapore e di sensibile volume nutritivo.

I tagliapietre stavano ritornando al lavoro. Con un'occhiata significativa al sovrintendente, Cugel si avviò per discendere il sentiero.

Non molto lontano sorgeva l'abitazione di Pharesm lo Strego-ne: un edificio lungo e basso di roccia fusa, sormontato da otto cupole di rame, di mica e di lucido vetro azzurro dalla forma strana. Pharesm stava seduto davanti alla sua dimora, scru-tando la valle con serena magnanimità. Alzò la mano in un calmo saluto.

«Ti auguro piacevoli viaggi e buon successo in tutte le tue fu-ture imprese.»

«Questo sentimento mi giunge molto apprezzato,» disse Cugel, con una certa amarezza. «Tuttavia avresti potuto rendermi un servizio più significativo se mi avessi offerto una razione del pasto di mezzogiorno.»

La benevolenza placida di Pharesm rimase immutata. «Sarebbe stato un atto di altruismo errato. Una generosità

esagerata corrompe chi la riceve e sminuisce le sue risorse.» Cugel rise, rabbiosamente. «Io sono un uomo di principi ferrei, e non mi lamenterò, an-

che se, in mancanza di meglio, sono stato costretto a divorare un grosso insetto trasparente che ho trovato al centro della tua scultura.»

Pharesm si girò di scatto, con un'espressione improvvisa-mente intenta.

«Un grosso insetto trasparente, hai detto?» «Insetto, epifitita, mollusco... chi lo sa? Non somigliava a nes-

suna creatura che conosco, e il suo sapore, anche dopo un'ade-guata cottura, non era riconoscibile.»

Pharesm s'innalzò fluttuando nell'aria, fino a due metri di al-tezza, per abbassare su Cugel tutta la forza del suo sguardo. Poi parlò con voce bassa e dura.

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«Descrivimi particolareggiatamente quella creatura!» Meravigliandosi della severità dello stregone, Cugel obbedì. «Era così e così, in quanto a dimensioni.» E l'indicò con le ma-

ni. «Era trasparente e gelatinosa, con innumerevoli pagliuzze dorate, che scintillavano e pulsavano quando la creatura veni-va disturbata. I tentacoli sembravano svanire, più che termi-nare. Ha dimostrato una certa opposizione, e inghiottirla è sta-to difficile.»

Pharesm si strinse la testa fra le mani, affondando le dita nel-la chioma di morbide piume gialle. Alzò gli occhi al cielo e lan-ciò un grido tragico.

«Ah! Per cinquecento anni ho faticato per attirare quella creatura, disperando, dubitando, meditando la notte, eppure senza abbandonare mai la speranza che i miei calcoli fossero esatti e il mio grande talismano fosse efficace. Poi, appare fi-nalmente, e tu la trovi, per nessun'altra ragione che quella di soddisfare la tua ripugnante ghiottoneria!»

Cugel un po' scosso dalla collera di Pharesm, dichiarò di ave-re agito senza cattive intenzioni. Pharesm non sì addolcì. Di-chiarò che Cugel s'era addentrato illecitamente nella sua pro-prietà, e di conseguenza aveva perduto il diritto di proclamarsi innocente.

«La tua stessa esistenza è una colpa, aggravata dal fatto che mi hai rivelato questo evento sciagurato. La benevolenza mi aveva indotto al perdono, ma ora mi rendo conto che è stato un grave errore.»

«In questo caso,» affermò dignitosamente Cugel, «mi allonta-nerò dalla tua presenza. Ti auguro buona fortuna per il resto della giornata e adesso, addio.»

«Meno fretta,» disse Pharesm, con voce gelida. «L'esattezza è stata alterata: la colpa che è stata commessa richiede una con-troazione, per onorare la Legge dell'Equità. Posso definire in questo modo la gravità del tuo atto: se in questo istante io ti fa-cessi esplodere nelle parti più minute del tuo essere, la puni-zione sarebbe pari a un milionesimo della tua colpa. Si rende necessaria una contropartita più equilibrata.»

Cugel parlò in tono di grande angoscia. «Mi rendo conto che è stato compiuto un atto dalle gravi con-

seguenze: ma ricorda, che la mia partecipazione è stata fon-

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damentalmente casuale. Dichiaro categoricamente, innanzi tutto la mia assoluta innocenza; secondo, la mancanza di ogni intenzione criminosa: terzo, le mie sincere scuse. E adesso, poiché devo percorrere ancora molte leghe, me ne...»

Pharesm fece un gesto perentorio. Cugel tacque. Pharesm trasse un profondo respiro.

«Tu non hai capito quale enorme calamità hai attirato sul mio capo! Te lo spiegherò, affinché tu non ti sorprenda della seve-rità che ti attende. Come ho già accennato, l'arrivo di quella creatura era il culmine della mia grande opera. Avevo deter-minato la sua natura mediante la consultazione di quaranta-duemila pergamene, tutte scritte in linguaggio enigmatico; un compito che ha richiesto cento anni. Per altri duecento anni ho perfezionato un disegno per attirarla e ho preparato le istru-zioni esatte. Poi ho radunato i tagliapietre, e per trecento anni ho dato forma concreta al mio disegno. Poiché ogni simile atti-ra il simile, le variate e le intercongele creano una superpullu-lazione di tutte le aree, le qualità e gli intervalli di una spirale criptorroide, eccitando finalmente la ponenziazione di una ca-duta pro-ubietale. Oggi si è verificata la concatenazione: la 'creatura', come tu la chiami, si è pervoluta su se stessa: e tu, nella tua stupida malignità, l'hai divorata.»

Con una sfumatura di altezzosità, Cugel ribatté che la «stupi-da malignità» alla quale aveva alluso lo stregone era in realtà pura e semplice fame.

«Comunque, che c'è di tanto straordinario in quella 'creatu-ra'? Se ne possono trovare di altrettanto brutte nelle reti di qualunque pescatore.»

Pharesm si sollevò in tutta la sua altezza e squadrò Cugel all'alto in basso.

«Quella 'creatura',» disse, con voce gracchiante, «è la TOTALITÀ. Il globo centrale è tutto lo spazio, visto all'inverso. I tubicini sono vortici in varie ère, ed è impossibile immaginare quali atti terribili tu hai compiuto toccandola e pungolandola, arrosten-dola e masticandola!»

«E gli effetti della digestione?» si informò delicatamente Gugel. «I vari componenti dello spazio, del tempo e dell'esisten-za conserveranno la loro identità dopo avere attraversato tut-ta la lunghezza del mio intestino?»

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«Bah. È un concetto assurdo. Basta dire che tu hai causato danni e creato tensioni gravissime nel tessuto ontologico. È inesorabilmente necessario che tu ristabilisca un equilibrio.»

Cugel tese le mani. «Non è possibile che ci sia stato un errore? Che quella 'crea-

tura' non fosse nient'altro che una pseudo-TOTALITÀ? Oppure è concepibile che la 'creatura' possa venire attirata qui di nuo-vo?»

«Le prime due teorie sono insostenibili. In quanto all'ultima, devo confessare che certi espedienti frenetici hanno preso forma nella mia mente.» Pharesm fece un segno, e i piedi di Cugel si fissarono al suolo. «Devo andare nel mio divinatorio e scoprire il pieno significato di questi eventi angosciosi. A tem-po debito ritornerò.»

«E allora sarò sfinito per la fame,» disse Cugel, agitatissimo. «Anzi, una crosta di pane e un boccone di formaggio sarebbero bastati a scongiurare tutti gli eventi dei quali ora tu mi addossi la responsabilità.»

«Silenzio!» tuonò Pharesm. «Non dimenticare che rimane an-cora da stabilire quale sarà la tua punizione: è il massimo dell'impudenza trattare in questo modo una persona che già deve faticare per mantenere la sua calma imparziale!»

«Consentimi di dire una cosa,» rispose Cugel. «Se quando ri-tornerai dalla tua divinazione mi troverai qui, morto e dissec-cato, sul sentiero, avrai perso il tuo tempo nel meditare la pu-nizione da infliggermi.»

«Restituire la vitalità è cosa da poco,» disse Pharesm. «Nella tua punizione possono benissimo entrare parecchie morti in-flitte con procedimenti contrastanti.» Si avviò verso il divina-torio, poi tornò indietro con un gesto di impazienza. «Vieni: è più facile darti da mangiare che ritornare sulla strada.»

Cugel sentì di avere di nuovo i piedi liberi, e seguì Pharesm nel divinatorio, passando da un'ampia arcata. In una stanza grandissima dalle pareti grigie, illuminata da poliedri a tre co-lori, Cugel divorò il cibo che Pharesm aveva fatto apparire per lui. Nel frattempo, Pharesm era andato a chiudersi nella sua stanza da lavoro, dove si dedicò alle sue divinazioni. Via via che il tempo passava, Cugel si sentì prendere dall'inquietudine, e per tre volte si accostò all'arcata dell'ingresso. Ogni volta, ar-

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rivò un Presentimento che gli fece cambiare idea: la prima vol-ta sotto forma di un vampiro che gli balzò addosso, la seconda di una scarica zigzagante di energia, e la terza di uno sciame di lucenti vespe purpuree.

Scoraggiato, Cugel si avvicinò ad una panca, e sedette ad aspettare, con i gomiti appoggiati sulle lunghe gambe, le mani sotto al mento.

Finalmente riapparve Pharesm, con la veste sgualcita, il fine piumino giallo dei suoi capelli scomposto in una moltitudine di minuscole ciocche umide di sudore. Cugel si alzò in piedi, len-tamente.

«Ho scoperto dove si trova la TOTALITÀ,» disse Pharesm, con una voce che sembrava un colpo di gong. «Per l'indignazione, allontanandosi dal tuo stomaco, si è ritirata un milione d'anni nel passato.»

Cugel scrollò la testa, solennemente. «Consentimi di esprimerti tutta la mia simpatia, ed il mio

consiglio che è questo: non bisogna mai disperare! Forse la 'creatura' deciderà di passare nuovamente da queste parti.»

«Finiscila di ciarlare! È necessario recuperare la TOTALITÀ! Vieni.»

Cugel seguì riluttante Pharesm in una stanzetta dalle pareti rivestite di piastrelle azzurre e sovrastata da un'alta cupola di vetro azzurro e arancione. Pharesm gli indicò un disco nero, al centro del pavimento.

«Mettiti lì!» Cugel obbedì, di malagrazia. «In un certo senso, io ritengo che...» «Silenzio!» Pharesm si fece avanti. «Guarda questo oggetto!»

Mostrò una sfera d'avorio, grande quanto due pugni, incisa con estrema minuziosità di particolari. «Ecco il modello dal quale era derivata la mia grande opera. Esprime il significato simbo-lico della NULLITÀ alla quale la TOTALITÀ deve necessariamente legarsi, in forza della Seconda Legge delle Affinità dei Criptor-roidi di Kratinjae, che probabilmente tu conosci.»

«Non in tutti gli aspetti,» replicò Cugel. «Ma posso chiederti quali sono le tue intenzioni?»

La bocca di Pharesm sì schiuse appena, in un freddo sorriso. «Sto per tentare uno degli incantesimi più potenti che siano

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mai stati messi a punto: un incantesimo così difficile e coattivo, che Phandaal, il Sommo Stregone della Grande Motholam, ne vietò l'uso. Se sono in grado di controllarlo esattamente, tu verrai scaraventato nel passato, un milione di anni or sono. E là risiederai fino a quando avrai compiuto la tua missione: sol-tanto allora potrai ritornare.»

Cugel si affrettò a scendere dal disco nero. «Non sono 'l'uomo adatto per questa missione, di qualunque

cosa si tratti. Ti esorto con il massimo fervore a servirti di qualcun altro!»

Pharesm ignorò quell'esclamazione. «La tua missione, naturalmente, consiste nel portare questo

simbolo in contatto con la TOTALITÀ.» Poi mostrò un pezzo di tessuto grigio. «Per facilitare la tua ricerca, ti fornisco questo strumento, che collega tutti i possibili vocaboli a tutti i conce-pibili sistemi di significato.» Infilò la reticella nell'orecchio di Cugel, e la reticella si affrettò a collegarsi con il nervo dell'e-spressione consonante. «E adesso,» disse Pharesm, «basta che tu ascolti una lingua sconosciuta per tre soli minuti, per poter-la capire e parlare alla perfezione. Ora, un altro oggetto per aumentare le prospettive di successo: questo anello. Osserva la gemma: se dovessi avvicinarti a meno di una lega dalla TOTALI-TÀ, nella gemma appariranno luci sfreccianti che ti guideran-no. È tutto chiaro?»

Cugel annuì, riluttante. «Ma c'è un altro problema da prendere in considerazione.

Presumi che i tuoi calcoli siano inesatti e che la TOTALITÀ sia ri-tornata indietro soltanto di novecentomila anni nel passato. E allora? Dovrò trascorrere tutta la mia esistenza in quell'epoca molto verosimilmente barbara?»

Pharesm aggrottò la fronte, irritato. «Una situazione del genere comporterebbe un margine di er-

rore del dieci per cento. Il mio sistema di calcolo difficilmente ammette deviazioni superiori all'uno per cento.»

Cugel incominciò a fare calcoli, ma Pharesm gli indicò di nuo-vo il disco nero.

«Svelto! E non muoverti più, altrimenti sarà tanto peggio per te!»

Con il sudore che gli sgorgava da tutte le ghiandole, le ginoc-

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chia che tremavano e cedevano, Gugel ritornò nel punto indi-cato.

Pharesm si ritirò nell'angolo più lontano della stanza, ed en-trò in una spirale di tubo, che scattò ad avvolgere il suo corpo. Da un ripiano, lo stregone prese quattro dischi neri, e cominciò a rimescolarli e ad agitarli con una destrezza così fantastica che i dischi si confusero alla vista di Cugel. Alla fine, Pharesm scagliò via i dischi, che ruotando e vorticando, rimasero librati nell'aria, e incominciarono a volare lentamente verso Cugel.

Poi Pharesm prese un tubo bianco, se lo premette stretta-mente contro le labbra e pronunciò un incantesimo. Il tubo si gonfiò, continuò a gonfiarsi fino a diventare un grosso globo. Pharesm ne attorse l'estremità, chiudendo la sfera e gridando a piena voce un tonante incantesimo, scagliò il globo contro i dischi roteanti, e tutto esplose. Cugel si sentì afferrato, tra-scrinato, sballottato in tutte le direzioni, verso l'esterno, e compresso con veemenza eguale: il risultato fu una spinta in una direzione contraria a tutte le altre, con un impeto corri-spondente ad un'ondata fatta di un milione di anni. In mezzo a luci abbaglianti ed a visioni contorte, Cugel venne trasportato al di là della propria coscienza.

Cugel si svegliò nel bagliore della luce di un Sole arancione dorato, di uno splendore che non aveva mai visto. Era disteso sul dorso e guardava il cielo di un caldo colore azzurro, assai più chiaro e dolce del cielo color indaco dei suoi tempi.

Provò a muovere le braccia e le gambe: visto che erano inte-re, si sollevò a sedere, poi si alzò lentamente in piedi, battendo le palpebre per difendersi da quel fulgore insolito.

La topografia era cambiata solo di poco. Le montagne, a nord, erano più alte e dall'aspetto più aspro, e Cugel non riuscì a identificare la direzione esatta dalla quale era venuto: o, più esattamente, dalla quale sarebbe venuto. La località dei lavori per la realizzazione del progetto di Pharesm era, adesso, una bassa foresta di alberi verdi, lievi come piume, coperti da grappoli di bacche rosse. La valle era come al solito, benché i fiumi scorressero in letti diversi e si scorgessero, a distanze varie, tre grandi città. L'aria che saliva dalla valle portava con sé una strana fragranza pungente, mescolata ad un'antica esa-

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lazione di muffa, e a Cugel sembrò che nell'aria aleggiasse una particolare malinconia; anzi, gli parve di udire una musica, una lenta melodia piagnucolosa, così triste da fargli salire le lacrime agli occhi. Cercò di scoprire da dove proveniva quella musica, che però si dileguò e svanì mentre cercava di seguirla, e si fece udire di nuovo soltanto quando smise di ascoltare.

Per la prima volta, Cugel guardò in direzione dei precipizi rocciosi che si levavano a occidente, e adesso il senso di dejà-vu era più forte che mai. Cugel si tormentò il mento, perplesso. Quel momento era situato nel tempo un milione di anni prima dell'altra occasione in cui aveva veduto quelle pareti rocciose e perciò, per definizione, doveva essere quella la prima volta che le vedeva. Tuttavia, era anche la seconda volta, perché ricor-dava benissimo la sua esperienza iniziale con quei precipizi. D'altra parte, era impossibile contravvenire alla logica del tempo, e quindi, secondo tale calcolo, questa visione precedeva l'altra. Un paradosso, pensò Cugel: un vero rompicapo! Quale esperienza aveva costituito la base del vivissimo senso di fami-liarità che aveva provato in entrambe le occasioni?

... Cugel accantonò quel problema, giudicando che era impos-sibile venirne a capo; stava per voltarsi e per andarsene, quando un movimento attirò la sua attenzione. Tornò a guar-dare in direzione delle pareti rocciose, e l'aria all'improvviso si saturò della musica che aveva udito poco prima: una musica d'angoscia e di disperazione esaltata. Cugel spalancò gli occhi, meravigliato. Un grande essere alato che indossava vesti can-dide svolazzava altissimo, lungo la parete del precipizio. Le ali erano lunghe, fornite di costole di chitina nera, e rivestite di una membrana grigia. Cugel restò a guardare, intimorito, men-tre l'essere entrava in volo in una caverna che si apriva, molto in alto, sulla facciata del precipizio.

Si udì il suono di un gong, da una direzione che Cugel non riu-scì a determinare. Le vibrazioni percorsero l'aria, e quando si spensero, la musica inaudita divenne quasi udibile. Da lontano, al di sopra della valle, stava arrivando in volo uno degli Alati, che trasportava una figura umana, della quale Cugel non poté determinare né il sesso né l'età. Andò a volare in cerchio vicino alla parete del precipizio e lasciò cadere il suo fardello. Cugel ebbe l'impressione di udire un fievole grido, e la musica era tri-

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ste, maestosa, sonora. Il corpo sembrò cadere lentamente, da quella grande altezza, e alla fine piombò alla base del precipi-zio. L'Alato, dopo avere lasciato cadere il corpo, planò e si posò su di un'alta cornice, dove ripiegò le ali e rimase ritto come un uomo, a guardare la vallata.

Cugel si rannicchiò al riparo di una roccia. L'aveva visto? Non poteva esserne certo. Sospirò, sconsolato. Quel triste mondo dorato del passato non gli piaceva per nulla: tanto pri-ma avrebbe potuto andarsene, tanto meglio sarebbe stato. Esaminò l'anello che gli aveva fornito Pharesm, ma la gemma sembrava un vetro opaco, senza quegli scintillii sfreccianti che avrebbero dovuto indicare la direzione della TOTALITÀ Era pro-prio come Cugel aveva temuto. Pharesm aveva sbagliato i suoi calcoli, e lui, forse, non sarebbe mai riuscito a ritornare nel suo tempo.

Il rumore delle grandi ali che sbattevano lo indusse a guarda-re di nuovo il cielo. Cercò di nascondersi contro la roccia, me-glio che poteva. La musica angosciosa si intensificò e poi si al-lontanò in un sospiro, mentre nella luce del sole che stava per tramontare l'essere alato si fermava, librato accanto alla pare-te del precipizio e lasciava cadere la sua vittima. Poi atterrò su di un cornicione, con un grande sbatter d'ali, ed entrò in una grotta.

Cugel si rialzò in piedi e corse, tenendosi curvo, giù per il sen-tiero, nel crepuscolo color ambra.

Poco dopo il sentiero si addentrò in un bosco, e qui Cugel si fermò e riprese respiro; poi proseguì, con maggiore circospe-zione. Attraversò una fascia di terreno coltivato, sul quale sor-geva una baracca abbandonata. Cugel pensò di rifugiarvisi per trascorrere la notte, ma gli sembrò di scorgere una sagoma che stava di vedetta nell'interno, e passò oltre.

Il sentiero conduceva lontano dai precipizi, tra collinette on-dulanti, e poco prima che il crepuscolo cedesse il passo alla notte, Cugel arrivò ad un villaggio che sorgeva sulle rive di uno stagno.

Si avvicinò, cautamente, ma venne incoraggiato da ciò che vedeva: pulizia e ordine. In un giardino, nei pressi dello stagno, c'era un padiglione che probabilmente era destinato alla musi-ca; attorno al giardino c'erano case piccole e strette dai tetti

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aguzzi, coronati da semplici ornamenti. Di fronte allo stagno c'era un edificio più grande, con una facciata ornata di intarsi di legno e di placche smaltate di tosso, di azzurro e di giallo. Il tetto era alto e appuntito: al centro pendeva un pannello scol-pito ed elaborato, mentre ai lati stava una serie di piccole lam-pade sferiche azzurre. Davanti c'era un'ampia pergola che co-priva panche, tavole e uno spiazzo aperto: il tutto era illumina-to da ventagli-fuoco rossi e verdi. Vi erano molti abitanti della città, che si svagavano, inalando incenso e bevendo vino, men-tre giovani e ragazze piroettavano in una strana danza, sal-tando e scalciando, al suono di una musica eseguita da alcuni pifferi e da una fisarmonica.

Imbaldanzito dalla placidità di quella scena, Cugel si avvici-nò. Gli abitanti del villaggio erano di una razza diversa da quel-le da lui conosciute: non erano molto alti, avevano in generale teste grosse e lunghe braccia irrequiete. La loro pelle era di un vivo arancione, simile al colore della polpa delle zucche; gli oc-chi e i denti erano neri; i capelli, egualmente neri, scendevano lisci a incorniciare le facce degli uomini e terminavano in una frangia di perline azzurre, mentre le dorme portavano i capelli attorti attorno a cerchi e spilloni bianchi, in acconciature estremamente complesse. I lineamenti erano massicci, e in particolare le mascelle e gli zigomi apparivano pesanti: gli oc-chi allungati e spaziati scendevano in modo curioso agli angoli esterni. I nasi e le orecchie erano lunghi, controllati quasi per-fettamente dai muscoli, e dotavano i volti di una grande vivaci-tà. Gli uomini indossavano sottane nere a volanti, sopravvesti marrone, e copricapi che consistevano di un largo disco nero, sovrastato da un alto cilindro, sovrastato a sua volta da un di-sco più piccolo che reggeva una sfera dorata. Le donne indos-savano invece calzoni neri, giacchette marroni con dischi smaltati sull'ombelico, e su ciascuna natica una finta coda di piume verdi o rosse, che probabilmente stava a indicare lo sta-to civile della proprietaria.

Cugel avanzò nella luce dei ventagli-fuoco: e subito ogni con-versazione si interruppe. I nasi s'irrigidirono, gli occhi si spa-lancarono, le orecchie si agitarono per la curiosità. Cugel sorri-se a destra e a sinistra, mosse le mani in un saluto elegante e generico, e andò a sedersi a un tavolo libero.

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Dalle varie tavole si levarono mormorii di sbalordimento, troppo sommessi per poter giungere fino alle orecchie di Cugel. Finalmente uno degli uomini più anziani si alzò e, avvicinan-dosi al tavolo di Cugel, pronunciò una frase che Cugel trovò in-comprensibile, perché, in assenza di un ascolto sufficiente-mente prolungato, la rete di Pharesm non aveva ancora avuto la possibilità di trasmettergli il significato di quelle parole. Cugel sorrise educatamente, e allargò le mani in un gesto di rassegnata impotenza. L'anziano tornò a parlare, questa volta in tono piuttosto secco, e anche questa volta Cugel indicò di non essere in grado di comprendere. L'anziano agitò le orec-chie in un secco movimento di disapprovazione e gli voltò le spalle. Cugel chiamò con un cenno l'oste, indicò il pane e il vino che stavano su di un tavolo vicino, per spiegare che voleva le stesse cose.

L'oste formulò una domanda che, per quanto fosse inintelligi-bile, Cugel riuscì a interpretare benissimo: tirò fuori una mo-neta d'oro e l'oste, soddisfatto, se ne andò.

La conversazione riprese alle varie tavole, e poco tempo dopo i vocaboli incominciarono ad assumere, per Cugel, un significa-to preciso. Quando ebbe mangiato e bevuto, si alzò in piedi e si avvicinò al tavolo dell'anziano che gli aveva parlato per primo. Gli si inchinò, rispettosamente.

«Ho il permesso di sedermi al tuo tavolo?» «Certamente, se lo desideri. Siediti.» L'anziano gli indicò la

panca. «Dal tuo comportamento avevo ricavato l'impressione che tu fossi non soltanto muto e sordo, ma anche colpevole di arretratezza mentale. Ma adesso è chiaro, almeno, che puoi udire e parlare.»

«E mi dichiaro anche razionale,» disse Cugel. «Poiché sono un viaggiatore, vengo da molto lontano, e ignoro le vostre usanze, ho pensato che fosse più opportuno stare a guardare in silenzio per un po', per non commettere involontariamente qualche er-rore.»

«Molto ingegnoso, ma bizzarro,» fu il commento dell'anziano. «Tuttavia, la tua condotta non presenta alcuna contraddizione esplicita nei confronti dell'ortodossia. Posso chiederti quale urgente ragione ti ha condotto a Farwan?»

Cugel diede una sbirciata all'anello: il cristallo era opaco, sen-

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za vita: la TOTALITÀ era evidentemente altrove. «La mia patria è molto incolta: viaggio per apprendere i co-

stumi e le abitudini dei popoli più civili.» «Davvero!» L'anziano rimuginò per qualche istante quell'in-

formazione, poi annuì con aria di approvazione. «I tuoi abiti e la tua fisionomia sono di un tipo che non mi è noto. Dove si tro-va, dunque, la tua patria?»

«Si trova in una regione tanto remota,» disse Cugel, «che mai, prima di questo istante, avevo saputo che esistesse la terra di Farwan!»

Le orecchie dell'anziano si appiattirono per la sorpresa. «Cosa? La gloriosa Farwan sarebbe dunque sconosciuta? Le

grandi città di Impergos, Tharuwe, Rhaverjand... mai sentite nominare? E gli illustri Sembers? Senza dubbio la fama dei Sembers sarà giunta fino a voi! Sono stati loro a cacciare 3 pi-rati delle stelle; hanno portato il mare alla Terra delle Piatta-forme; e lo splendore del palazzo di Padara è indescrivibile!»

Cugel scosse tristemente il capo. «Non è mai giunta alle mie orecchie notizia alcuna di queste

straordinarie magnificenze.» L'anziano torse tristemente il naso: per lui, Cugel era eviden-

temente uno stupido. «Le cose stanno come ho detto,» dichiarò, seccamente. «Non ne dubito affatto,» disse Cugel. «Anzi, ammetto la mia

ignoranza. Ma dimmi qualcosa di più, perché è possibile che io sia costretto a soggiornare a lungo in questa regione. Per esempio, che cosa sono gli Alati che risiedono nei precipizi? Che specie di creature sono?»

L'anziano indicò il cielo. «Se avessi gli occhi di un uccello notturno, potresti scorgere

una Luna scura che gira attorno alla Terra e che non può esse-re veduta se non quando getta la sua ombra sul Sole. Gli Alati sono abitanti di quel mondo buio, e la loro vera natura è scono-sciuta. Servono il Grande Dio Yelisea in questo modo: quando viene per un uomo o per una donna il momento di morire, gli Alati vengono informati da un segnale disperato della Norma del morente. Allora discendono sullo sventurato e lo portano nelle loro grotte, che in realtà costituiscono un magico passag-gio che porta alla beata terra di Byssom.»

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Cugel si appoggiò alla spalliera della panca, sollevando le so-pracciglia in un'espressione un po' ironica.

«Davvero, davvero,» disse, in un tono che all'anziano sembrò scarsamente convinto.

«Non possono esservi dubbi circa la verità dei fatti, così come io li ho esposti. L'ortodossia deriva da questo fondamento as-siomatico, e i due sistemi si rafforzano reciprocamente: perciò ognuno di essi viene doppiamente convalidato.»

Cugel aggrottò la fronte. «Indubbiamente le cose stanno come tu mi dici... Ma gli Alati

non stagliano mai nella scelta delle loro vittime?» L'anziano batté le mani sul tavolo, irritato. «La dottrina è inconfutabile, perché coloro che gli Alati por-

tano via non sopravvivono mai, anche quando sembrano esse-re nelle migliori condizioni di salute. Ovviamente, la caduta sulle rocce porta alla morte, ma è la misericordia di Yelisea che concede una fine rapida, al posto della lunga agonia provo-cata, per esempio, da un cancro. Il sistema è una vera benedi-zione. Gli Alati portano via soltanto il moribondo, che poi, at-traverso il precipizio, passa nella beata terra di Byssom. Qual-che volta, un eretico sostiene che le cose stanno diversamente, e in questo caso... ma sono sicuro che tu condividi pienamente la concezione ortodossa.»

«Con tutto il cuore,» affermò Cugel. «I principi fondamentali del vostro credo sono chiaramente esatti.» E bevve un lungo sorso del suo vino. Mentre deponeva il calice, un mormorio musicale bisbigliò nell'aria: un accordo infinitamente dolce, in-finitamente malinconico. Tutti coloro che stavano seduti sotto al pergolato tacquero di colpo, benché Cugel non fosse comple-tamente certo di udire quella musica.

L'anziano si sporse un poco in avanti, e bevve una lunga sor-sata dal suo calice; solo allora rialzò lo sguardo.

«Gli Alati stanno passando sopra di noi proprio in questo momento,» disse.

Cugel si tormentò pensieroso il mento. «E in che modo ci si può proteggere dagli Alati?» La domanda era formulata male: l'anziano lo guardò indigna-

to, arricciando contemporaneamente le orecchie in avanti. «Se una persona sta per morire, appaiono gli Alati. Se no, non

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c'è da avere paura.» Cugel annuì ripetutamente. «Hai veramente chiarito le mie perplessità. Domani, poiché io

e te siamo manifestamente nelle migliori condizioni di salute, saliamo sulla collina, a saltellare avanti e indietro davanti al precipizio.»

«No,» rispose l'anziano, «e per questa ragione: l'atmosfera, a quell'altezza, è molto insalubre: è facile che una persona aspiri un fumo nocivo, che potrebbe rovinargli la salute.»

«Comprendo perfettamente,» disse Cugel. «Vogliamo abban-donare questo triste argomento? Per il momento siamo vivi e nascosti a sufficienza dai tralci che ombreggiano il pergolato. Mangiamo e beviamo e stiamo a guardare gli svaghi dei giova-ni del villaggio, che danzano con grande agilità.»

L'anziano vuotò il suo calice e si alzò in piedi. «Tu fai come preferisci: per quanto riguarda me, è venuto il

momento della mia Umiliazione Rituale: questo atto costituisce una parte integrante della nostra fede.»

«Anch'io farò qualcosa di simile, di tanto in tanto,» disse Cugel. «Ti auguro di goderti il tuo rito.»

L'anziano si allontanò dal pergolato e Cugel rimase solo. Poco dopo, alcuni giovani, attirati dalla curiosità, si unirono a lui, e Cugel spiegò di nuovo la sua presenza, pur insistendo assai meno sulla barbarie della sua terra natale, perché al gruppo si erano unite anche alarne ragazze, e Cugel si sentì attirato dal loro colorito esotico e dalla vivacità dei loro atteggiamenti. Venne servito parecchio vino, e Cugel si lasciò indurre a tenta-re la danza locale, tutta balzi e calci all'aria, che eseguì in modo non ignobile.

Quell'esercizio lo portò vicinissimo ad una ragazza partico-larmente attraente, la quale disse di chiamarsi Zhiainl Vraz. Al termine della danza, lei gli passò un braccio attorno alla cintu-ra, lo ricondusse al tavolo e gli si sedette sulle ginocchia. Quell'atto di familiarità non suscitò la minima disapprovazione da parte degli altri del gruppo, e Cugel si sentì ancora più im-baldanzito.

«Non ho ancora preso accordi per assicurarmi una stanza; forse farei meglio a decidermi, prima che si faccia tardi.»

La ragazza fece un cenno al locandiere.

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«Hai già riservato una stanza per questo forestiero dalla fac-cia cesellata?»

«In verità sì: gliela mostrerò, per assicurarmi che sia degna della sua approvazione.»

Il locandiere portò Cugel in una graziosa stanza al piano ter-reno. C'era un letto, un comò, un tappeto e una lampada. A una parete era appeso un arazzo nero e violetto; a un'altra l'imma-gine di un bambino particolarmente brutto che appariva com-presso e prigioniero dentro a un globo trasparente. A Cugel la stanza piacque: lo dichiarò al locandiere e ritornò sotto il per-golato, dove gli avventori stavano ormai incominciando a di-sperdersi. La giovane Zhiaml Vraz, però, era rimasta; e accolse Cugel con un calore che annullò gli ultimi residui della sua dif-fidenza. Dopo un altro calice di vino, si piegò per parlarle all'o-recchio.

«Forse io sono eccessivamente svelto; forse mi abbandono troppo alla mia vanità; forse contravvengo alle normali regole di decoro del villaggio... ma c'è qualche ragione che ci impedi-sca di rifugiarci nella mia camera e di divertirci insieme?»

«Non c'è nessun motivo che ce lo impedisca,» disse la ragazza. «Non sono sposata, e finché non lo sarò, potrò comportarmi come voglio, poiché questa è la nostra consuetudine.»

«Magnifico,» disse Cugel. «Vuoi -precedermi, oppure seguirmi con discrezione?»

«Andremo insieme: non c'è nessun bisogno di essere furtivi!» Si recarono insieme nella camera ed eseguirono un gran nu-

mero di esercizi erotici; poi Cugel crollò in un sonno di totale sfinimento, perché quella giornata era stata molto movimenta-ta.

Verso mezzanotte si svegliò e scoprì che Zhiaml Vraz era uscita dalla stanza: preso com'era dalla sonnolenza, non si preoccupò troppo, e si mise subito a dormire.

Fu destato dal rumore della porta che veniva spalancata rab-biosamente: si levò a sedere sul letto e si accorse che il Sole non si era ancora levato, e che una deputazione guidata dall'anziano lo stava scrutando con orrore e disgusto.

L'anziano puntò un lungo dito tremante contro di lui, attra-verso la semioscurità.

«Mi era sembrato di sentire un pensiero eretico: e adesso la

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cosa è certa! Guardate: dorme senza copricapo e senza l'un-guento devozionale sul mento. E Zhiaml Vraz ci ha detto che mai, durante i loro amplessi, questo malvagio ha invocato l'ap-provazione di Yelisea!»

«Eresia, senza alcun dubbio!» dichiararono gli altri membri della deputazione.

«Che altro ci si potrebbe aspettare da uno straniero?» chiese in tono sprezzante l'anziano. «Guardate! Persino adesso si ri-fiuta di fare il sacro segno!»

«Ma io non conosco il sacro segno!» protestò Cugel. «Non so niente dei vostri riti! La mia non è affatto eresia, è semplice-mente ignoranza!»

«Questo non posso crederlo,» ribatté l'anziano. «Proprio ieri sera gli ho spiegato «la natura dell'ortodossia.»

«La situazione è veramente grave,» disse un altro, con un to-no di profonda malinconia. «L'eresia esiste soltanto a causa del-la putrefazione del Lobo della Correttezza.»

«E si tratta di una malattia incurabile e fatale,» dichiarò un al-tro, con non minore tristezza.

«È vero! Ahimè, quanto è vero!» sospirò uno che stava ritto accanto alla porta. «Che uomo sventurato!»

«Venite,» esclamò l'anziano, «Dobbiamo provvedere immedia-tamente a sistemare le cose.»

«Non disturbatevi,» disse Cugel. «Lasciate che mi rivesta, e poi lascerò questo villaggio per non ritornare mai più.»

«E te ne andrai altrove a diffondere la tua detestabile dottri-na? Neppure per idea!»

Cugel venne afferrato e trascinato, nudo com'era, fuori dalla stanza. Venne condotto attraverso il parco, in direzione del padiglione centrale. Parecchi componenti del gruppo eressero un recinto di pali di legno sulla piattaforma del padiglione e poi vi spinsero all'interno Cugel.

«Che cosa fate?» gridò lui. «Non voglio saperne dei vostri riti!» Gli altri lo ignorarono, e Cugel rimase a spiare attraverso gli

interstizi del recinto, mentre alcuni abitanti del villaggio lan-ciavano in cielo un grande pallone di carta verde, sollevato dall'aria calda, che portava, nella parte inferiore, tre ventagli-fuoco di color verde.

A occidente, l'alba si affacciò pallida. Gli abitanti del villaggio,

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dopo avere sistemato le cose nel modo che consideravano più soddisfacente, si ritirarono sul limitare del giardino. Cugel cer-cò di arrampicarsi sui pali per uscire dal recinto, ma quelli erano così sottili e così vicini l'uno all'altro che non gli permet-tevano di trovare il minimo appiglio.

Il cielo s'illuminò; e lassù, in alto, ardevano i ventagli-fuoco verdi. Cugel si aggobbì, con la pelle di tutto il corpo accappona-ta per il freddo vento mattutino, e camminò avanti e indietro, nello spazio ristretto del recinto. Poi si fermò di colpo, perché da molto lontano gli giungeva la musica ossessionante. La mu-sica si fece più intensa e parve superare la soglia dell'udibilità. Alto nel cielo apparve un Alato, con la lunga veste bianca che svolazzava. Incominciò a discendere, e le giunture di Cugel si irrigidirono, inerti.

L'Alato si librò sopra al recinto, scese, avvolse Cugel nella sua tunica bianca e cercò di sollevarlo nell'aria. Ma Cugel si afferrò ad una delle sbarre del recinto e l'Alato sbatté invano le sue ali. La sbarra di legno scricchiolò, cigolò, cedette. Cugel si liberò della cappa soffocante e tirò disperatamente la sbarra, con for-za isterica: e il legno si spaccò e si scheggiò. Cugel afferrò fre-neticamente una di quelle schegge e colpì l'Alato. La scheggia appuntita trafisse la veste bianca, e l'Alato colpì violentemente Cugel con l'ala. Cugel afferrò allora una delle costole di chitina e, con uno sforzo poderoso, la torse all'indietro, così che la chi-tina scricchiolò e si spezzò; l'ala si lacerò. L'Alato, sconvolto e sbalordito, spiccò un grande balzo che trascinò anche Cugel al di fuori del recinto, sulla piattaforma, poi sì allontanò balzel-lando attraverso il villaggio, trascinando l'ala spezzata.

Cugel l'inseguì, tormentandolo con un bastone che aveva rac-colto in fretta. Lanciò una occhiata agli abitanti del villaggio, che stavano a guardare, sbalorditi e spaventati: avevano le bocche umide e spalancate, come se stessero urlando: ma Cugel non udì alcun suono. L'Alato balzellava più svelto, lungo il sentiero che portava ai precipizi, e Cugel impugnava il ba-stone con tutte le sue forze. Il Sole dorato si levò al di sopra delle montagne lontane: all'improvviso l'Alato si voltò di scatto per affrontare Cugel, e questi sentì lo sguardo furioso dei suoi occhi, benché il volto, se pure quell'essere aveva un volto, era nascosto sotto al cappuccio della tunica. Sgomento e ansiman-

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te, Cugel indietreggiò, e di colpo si rese conto che era quasi in-difeso, se altri Alati gli fossero piombati addosso dall'alto. Urlò un'imprecazione contro quell'essere e ritornò verso il villaggio.

Tutti erano fuggiti: il villaggio era deserto. Cugel rise, a voce alta. Ritornò alla locanda, si rivestì dei suoi abiti, e cinse la spada. Poi andò nella sala mescita e, guardando nel cassetto del banco, trovò un buon numero di monete. Le ripose nella borsa, accanto alla raffigurazione d'avorio della NULLITÀ. Poi ri-tornò all'aperto: era meglio andarsene finché non c'era in giro nessuno.

Un lampo di luce attirò la sua attenzione: l'anello che aveva al dito brillava di dozzine di scintille mobili, e tutte indicavano il sentiero, verso il precipizio.

Cugel scosse il capo, sfinito, poi tornò a controllare le luci sfreccianti. Gli indicavano, senza ambiguità, la strada dalla quale era venuto. I calcoli di Pharesm, tutto sommato, si erano dimostrati esatti. Avrebbe fatto meglio ad agire con decisione, perché la TOTALITÀ non tornasse a sfuggirgli.

Indugiò soltanto il tempo necessario per procurarsi un'ascia, e si affrettò ad a avviarsi lungo il sentiero, seguendo le scintille luminose dell'anello.

Non molto lontano dal punto in cui l'aveva lasciato, si imbatté nell'Alato malconcio, che adesso stava seduto su di una grossa pietra, sul ciglio della strada, con il cappuccio abbassato sulla testa. Cugel raccolse un sasso e lo scagliò contro quell'essere, che crollò trasformandosi istantaneamente in polvere, la-sciando soltanto un mucchio di tessuto bianco a testimonianza della sua esistenza.

Cugel proseguì lungo il sentiero, tenendosi al riparo delle roc-ce, ma inutilmente. Sopra la testa stavano planando altri Alati, che sbatterono le ah e piombarono in picchiata verso di lui. Cugel giostrò con l'ascia, mirando alle ali, e le creature si risol-levarono in alto, volando in cerchio.

Cugel consultò l'anello, che lo guidò su per il sentiero, mentre gli Alati continuavano a volare in cerchio sopra di lui.

L'anello sfolgorava nell'intensità del suo messaggio: là c'era la TOTALITÀ, che riposava tranquillamente su di una roccia!

Cugel trattenne il grido di esultanza che gli si affacciò alla go-la. Estrasse il simbolo d'avorio della NULLITÀ, corse avanti, e lo

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applicò sul globo gelatinoso centrale. Come aveva dichiarato Pharesm, l'adesione fu immediata.

Nell'istante stesso del contatto, Cugel sentì dissolversi l'incan-tesimo che lo legava a quel tempo antico.

Uno sbatter d'ali, un colpo violento! Cugel venne rovesciato al suolo. Una veste bianca lo avvolse, e poiché con una mano stringeva la NULLITÀ, non riuscì a vibrare un colpo deciso con l'ascia, che venne strappata dalla sua stretta. Lasciò la NULLI-TÀ, afferrò una pietra, scalciò, riuscì in qualche modo a liberar-si e si lanciò verso l'ascia. L'Alato afferrò la NULLITÀ, alla quale s'era attaccata la TOTALITÀ, e le portò entrambe in alto, verso una delle grotte che si aprivano sulla parete del precipizio.

Forze enormi stavano trascinando Cugel, roteando in tutte le direzioni contemporaneamente. Un rombo fortissimo riempì le sue orecchie, vi fu uno svolazzare di luci violette, e Cugel cadde per un milione dì anni nel futuro.

Riprese conoscenza nella stanza piastrellata di azzurro, con il sapore pungente di un liquore aromatico sulle labbra. Pharesm, chino su di lui, gli dava leggeri schiaffetti sul volto e gli versava tra le labbra altre gocce di liquore.

«Svegliati! Dov'è la TOTALITÀ? Come è possibile che tu sia ri-tornato?»

Cugel lo spinse da parte, e si levò a sedere sul divano. «La TOTALITÀ!» ruggì Pharesm. «Dov'è? E dov'è il mio talisma-

no?» «Ti spiegherò,» disse Cugel, con voce impastata... «L'avevo in

pugno, e poi mi è stato strappato da certi esseri alati al servizio del Grande Dio Yelisea.»

«Dimmi! Dimmi!» Cugel narrò le circostanze che lo avevano portato prima a

conquistare e poi a perdere ciò che Pharesm desiderava tanto. Mentre parlava, il volto dello stregone si coprì di un sudore d'angoscia, le sue spalle si incurvarono. Finalmente, condusse Cugel all'aperto, nella fioca luce rossa del pomeriggio avanzato. Insieme scrutarono le pareti rocciose del precipizio che tor-reggiavano sopra di loro, desolate e prive di vita.

«In quale grotta è volato quell'essere?» domandò Pharesm. «Indicamela, se ci riesci!»

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Cugel tese il braccio. «Là, o almeno così mi è sembrato. Era tutto confuso, tutto un

rombo di ali e di vesti bianche...» «Resta qui.» Pharesm rientrò nella sua stanza da lavoro e poi

tornò ad uscire. «Ti darò una luce,» disse, e porse a Cugel una fredda fiamma

bianca legata a una catena d'argento. «Preparati.» Scagliò ai piedi di Cugel un proiettile che si spezzò formando

un vortice, e Cugel venne trascinato ad una altezza spaventosa verso il cornicione malsicuro che aveva indicato a Pharesm. Poco lontano c'era un'apertura nera, l'ingresso di una caverna. Cugel diresse la fiamma verso l'interno. Vide un passaggio pol-veroso, largo tre passi e più alto di lui. Si addentrava nella roc-cia, piegandosi leggermente da un lato. Sembrava completa-mente privo di vita.

Reggendo la lampada davanti a sé, Cugel avanzò lentamente lungo il passaggio, mentre il cuore gli balzava in petto per la paura di qualche cosa che non riusciva a definire. Si fermò di colpo. La musica? Il ricordo della musica? Rimase in ascolto, ma non udì nulla. Tuttavia, quando cercò di muovere un altro passo in avanti, la paura gli bloccò le gambe. Sollevò la lanter-na e sbirciò, teso, nel passaggio polveroso. Dove conduceva? Che cosa c'era, laggiù? Una caverna piena di polvere? La terra dei dèmoni? La beata terra di Byssom? Cugel procedette, len-tamente, con tutti i sensi all'erta. Su di un cornicione, scorse uno sferoide bruno e raggrinzito: il talismano che aveva porta-to nel passato. La TOTALITÀ si era distaccata ormai da molto tempo e se ne era andata.

Cugel prese con estrema cautela l'oggetto, che era fragile, vecchio com'era di un milione di anni, e ritornò verso l'apertu-ra della grotta. Ad un comando di Pharesm, il vortice trasportò Cugel fino al suolo.

Temendo la collera di Pharesm, Cugel gli consegnò il talisma-no raggrinzito.

Pharesm lo prese e lo resse tra il pollice e l'indice. «E questo era tutto?» «Non c'era altro.» Pharesm lasciò cadere l'oggetto che, nel toccare terra, si di-

sfece immediatamente in un mucchietto di polvere. Pharesm

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guardò Cugel, trasse un profondo respiro, poi si voltò con un gesto di inesprimibile frustrazione e rientrò nel suo divinato-rio.

Cugel, tranquillizzato, incominciò a discendere il sentiero, passando davanti ai tagliapietre che stavano raccolti ansiosa-mente in gruppo, in attesa di ordini. Guardarono Cugel con ma-levolenza e un uomo di due aune gli lanciò contro un sasso. Cugel alzò le spalle e continuò a percorrere il sentiero che por-tava a sud. Poco dopo passò oltre al luogo in cui un tempo sor-geva il villaggio, e che adesso era occupato da un gruppo di vecchi alberi nocchiuti. Lo stagno era scomparso e il suolo era asciutto e duro. Nella valle sottostante c'erano delle rovine, ma non sembravano i luoghi in cui sorgevano le antiche città di Impergos, Tharuwe e Rhaverjand, che ormai erano scomparse e dimenticate.

Cugel continuò a procedere verso sud. Dietro di lui, le pareti rocciose dei precipizi si confusero nella foschia e ben presto scomparvero alla sua vista.

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V

I PELLEGRINI

1. Alla locanda

Per quasi tutto il giorno Cugel aveva attraversato un deserto desolato dove non cresceva altro che erba salsa; poi, poco pri-ma del tramonto, arrivò sulla sponda di un fiume lentissimo e molto ampio, accanto al quale si snodava una strada. Mezza lega più in là, sulla sua destra, sorgeva un altro edificio di le-gno e di stucco marrone scuro, evidentemente una locanda. Quella vista rallegrò Cugel, che quel giorno non aveva mangia-to nulla, e aveva trascorso su di un albero la notte precedente. Dieci minuti più tardi, spinse la pesante porta rinforzata da bande di ferro, ed entrò nella locanda.

Si fermò: si trovava in un vestibolo. Ai due lati c'erano fine-stre a due battenti, a piccoli vetri rombici, divenuti color la-vanda per la vecchiaia, dai quali il Sole, tramontando, traeva mille riflessi. Dalla sala comune veniva un allegro mormorio di voci, il tintinnare di bicchieri e di vasellame, l'odore di legno vecchio, di mattonelle cerate, di pentoloni che bollivano. Cugel avanzò e trovò una dozzina di uomini che, raccolti attorno al fuoco, bevevano vino e si scambiavano le solite chiacchiere dei viaggiatori.

Il padrone stava in piedi dietro al banco: era un uomo robu-sto, che non arrivava alla spalla di Cugel, e aveva una testa calva come una cupola e una barba nera, lunghissima, che gli scendeva dal mento. I suoi occhi erano sporgenti, coperti da palpebre pesanti: l'espressione era placida e calma come il flui-re del fiume vicino. Quando Cugel gli chiese alloggio, si tirò dubbiosamente il naso.

«La locanda è già piena, con tutti questi pellegrini che sì re-cano a Erze Damath. Quelli che vedi lì, seduti sulle panche, non

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sono neppure la metà di quelli cui devo dare alloggio questa notte. Potrei metterti un pagliericcio nel corridoio, se sei di-sposto ad accontentarti: di più non posso fare.»

Cugel emise un sospiro di nervosa insoddisfazione. «Non è precisamente quello che mi aspettavo. Ci tengo mol-

tissimo ad avere una camera personale, con un letto di buona qualità, una finestra con vista sul fiume, un tappeto pesante che serva a smorzare i canti e le grida provenienti dalla sala da pranzo.»

«Temo che rimarrai molto deluso,» disse il padrone, senza agi-tarsi. «L'unica stanza che corrisponda alla tua descrizione è già occupata da quell'uomo con la barba gialla che sta seduto lag-giù, un certo Lodermulch, che va anche lui a Erze Damath.»

«Forse, invocando la situazione di emergenza, potrai convin-cerlo a lasciare libera la camera e ad accontentarsi del paglie-riccio in vece mia,» Cugel.

«Non lo ritengo proprio capace di un simile gesto di abnega-zione,» rispose il locandiere. «Ma perché non provi a chieder-glielo tu stesso? In tutta sincerità, ti confesso che preferisco non affrontare l'argomento.»

Cugel scrutò i lineamenti fortemente marcati di Lodermulch, le sue braccia muscolose e il modo piuttosto sdegnoso in cui stava ascoltando le conversazioni dei pellegrini; si sentì pro-penso a condividere la valutazione del carattere di Loder-mulch fatta dal locandiere, e non si mosse per andare a pre-sentargli la sua richiesta.

«A quanto sembra, dovrò accontentarmi del pagliericcio. E adesso, per cena, voglio un pollastro, convenientemente farci-to, condito, arrostito e guarnito, accompagnato da tutti gli altri piatti che la tua cucina può offrire.»

«La mia cucina stenta a star dietro alle ordinazioni, e dovrai mangiare lenticchie insieme ai pellegrini,» disse il padrone. «C'è soltanto un pollastro, e anche quello è riservato per il pasto se-rale di Lodermulch.»

Cusel alzò le spalle, irritato. «Mi laverò per togliermi dì dosso la polvere defila strada, poi

prenderò un calice di vino.» «Là dietro c'è acqua corrente e un trogolo che viene usato

qualche volta per questo scopo. Come extra, DOSSO fornirti un-

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guenti, olii e asciugamani caldi.» «Basterà l'acqua.» Cugel uscì, si recò nella parte posteriore

della locanda, e trovò il trogolo. Dopo essersi lavato, si guardò intorno e notò, a poca distanza, un capanno, costruito solida-mente di legno. Si mosse per rientrare nella locanda, ma poi si fermò e, ancora una volta, ritornò ad esaminare il capanno. At-traversò lo spazio che lo separava dalla piccola costruzione, aprì la porta e guardò nell'interno: poi, immerso nei suoi pen-sieri, fece ritorno nella sala comune. Il padrone gli servì un boccale di vino caldo e aromatizzato, e Cugel se lo portò ad un tavolo non molto in vista.

A Lodermulch avevano chiesto che cosa ne pensava dei co-siddetti Evangelici Funamboli, i quali, rifiutando di appoggiare i piedi sul terreno, se ne andavano in giro camminando su cor-de tese. Con voce secca, Lodermulch indicò quelli che a lui sembravano gli errori della loro dottrina.

«Calcolano che l'età della Terra sia di ventinove eoni, anziché di ventitré, come avviene di solito. E ritengono che per ogni auna quadrata di terreno siano morti due milioni e un quarto di esseri umani, e che la loro polvere si sia depositata, creando in quesito modo una specie di mantello onnipresente di polvere umana, sulla quale camminare è sacrilegio. L'argomento ha una plausibilità superficiale: tuttavia bisogna considerare que-sto: la polvere di un cadavere disseccato, sparsa su di un'auna quadrata, forma uno strato della profondità di nove decimi di millimetro. Perciò, il totale rappresenta quasi una lega di pol-vere di cadavere compatta che riveste la superficie della Ter-ra, il che è manifestamente falso.»

Un aderente della setta, il quale, non avendo a disposizione le solite funi tese, portava ai piedi un paio di ingombranti scarpe cerimoniali, lanciò un'esclamazione agitata.

«Tu parli in verità senza logica e senza comprensione! Come puoi essere così sicuro?»

Lodermulch inarcò le folte sopracciglia in un'espressione di brusca irritazione.

«Devo veramente insistere e spiegarmi meglio? Sulla riva dell'oceano, c'è forse un continuo precipizio alto una lega che segna la linea di demarcazione fra la terra e il mare? No. Do-vunque c'è ineguaglianza. I promontori si avanzano nel mare;

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molto spesso si trovano spiagge di purissima sabbia bianca. Non ci sono da nessuna parte i contrafforti massicci di tufo biancogrigio, sui quali si basano le dottrine della vostra sètta.»

«Queste sono tutte chiacchiere assurde!» proruppe indignato il Funambolo.

«Che cosa?» domandò Lodermulch, gonfiando il petto massic-cio. «Non sono abituato ad essere deriso!»

«Non è derisione, ma una dura e fredda confutazione del tuo dogmatismo. Noi affermiamo che una certa parte della polvere viene portata dal vento sull'oceano, una parte rimane in so-spensione nell'aria, un'altra parte filtra, passando attraverso i crepacci, nelle caverne sotterranee, e un'altra parte ancora viene assorbita dagli alberi, dalle erbe e da certi insetti, in mo-do che poco più di mezza lega di sedimento ancestrale copre la Terra: ma su questo sedimento, camminare è un sacrilegio. Perché le pareti rocciose di cui tu parli non sono visibili do-vunque? A causa dell'umidità esalata ed espulsa da innumere-voli esseri umani nel passato! Questo ha fatto alzare l'oceano per un'altezza esattamente equivalente, in modo che non è possibile notare alcun orlo o precipizio: ed è appunto qui che tu ti sbagli.»

«Bah,» brontolò Lodermulch, volgendo altrove la testa. «Nei vostri concetti c'è una pecca.»

«Nemmeno per sogno!» asserì il Funambolo, con il fervore ti-pico dei suoi correligionari. «Quindi, per il dovuto rispetto ai morti, noi camminiamo in alto, sulle funi, e quando siamo co-stretti a viaggiare, portiamo calzature particolarmente santifi-cate.»

Durante quella conversazione, Cugel aveva lasciato la sala. Un giovane dalla faccia di luna piena, che portava il camice da facchino, si accostò al gruppo.

«Sei tu il degno Lodermulch?» domandò alla persona che por-tava quel nome.

Lodermulch si girò sulla sedia. «Sono io.» «Ti reco il messaggio di un tale che ha portato certe somme di

denaro a te dovute. Ti aspetta in un piccolo capanno, dietro al-la locanda.»

Lodermulch aggrottò la fronte, incredulo.

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«Sei proprio sicuro che quella persona abbia chiesto di Lo-dermulch, Prevosto della città di Barlig?»

«In verità, signore, questo è proprio il nome che mi è stato in-dicato.»

«E l'uomo che ha portato il messaggio?» «Era un uomo molto alto, con un cappuccio voluminoso; ha

detto di essere uno dei tuoi intimi.» «Davvero,» ruminò Lodermulch. «Forse Tyrzog? O probabil-

mente Krednip... Ma perché mai non mi avrebbero dovuto av-vicinare direttamente? Senza dubbio c'è qualche buona ragio-ne.» Issò la pesante massa e si alzò in piedi. «Ritengo sia oppor-tuno andare a vedere.»

Lodermulch uscì dalla sala comune, girò attorno alla locanda, e guardò in direzione del capanno, attraverso la luce ormai molto fioca.

«Ehi, là!» gridò. «Tyrzog? Krednip? Vieni fuori!» Non vi fu risposta. Lodermulch andò a guardare nel capanno.

Non appena fu entrato, Cugel girò attorno al piccolo edificio, all'esterno, sbatté la porta richiudendola, e si affrettò a sbar-rarla con chiavistelli e travi.

Poi, ignorando il bussare e le grida indignate smorzate dallo spessore del legno, Cugel ritornò nella locanda. Subito andò a cercare il padrone.

«C'è stato un cambiamento,» gli disse. «Lodermulch è stato chiamato lontano di qui. Non avrà bisogno né della sua camera né del suo pollastro arrosto, e mi ha offerto gentilmente l'una e l'altro.»

Il locandiere si tirò la barba, andò 'alla porta, e guardò la strada, prima da una parte e poi dall'altra. Quindi tornò indie-tro, lentamente.

«È veramente straordinario! Ha già pagato in anticipo tanto la camera quanto il pollastro, e non ha neppure preteso che gli restituissi il denaro.»

«Ci siamo messi d'accordo, con reciproca soddisfazione. Per ricompensarti del disturbo, io ti pagherò subito tre terci in più.»

Il locandiere alzò le spalle e prese le monete. «Per me fa lo stesso. Vieni, ti accompagnerò in camera tua.» Cugel esaminò la camera e ne rimase pienamente soddisfatto.

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Poi gli venne servita la cena. Il pollastro arrosto era impeccabi-le, come erano impeccabili gli altri piatti che Lodermulch ave-va ordinato e che il locandiere aveva incluso nel pranzo.

Prima di ritirarsi, Cugel andò a fare quattro passi dietro alla locanda, e si assicurò che la sbarra che chiudeva la porta del capanno fosse a posto e che le rauche invocazioni di Loder-mulch non fossero tali da richiamare l'attenzione. Bussò sec-camente alla porta.

«Silenzio, Lodermulch!» gridò, severamente. «Sono io, il lo-candiere! Non urlare così forte: disturberai il sonno dei miei ospiti!»

Senza attendere la risposta, Cugel ritornò nella sala comune, dove incominciò a conversare con il capo della schiera di pelle-grini. Si chiamava Garstang, ed era un uomo magro e teso, dal-la pelle cerea, il cranio fragile, gli occhi velati e un naso metico-loso, così sottile che sembrava trasparente, quando io sì scor-geva controluce. Rivolgendosi a lui con il rispetto dovuto a un uomo ricco di esperienza e di erudizione, Cugel cercò di avere notizie sulla strada che portava ad Almeria, ma Garstang era piuttosto propenso a ritenere che si trattasse di una regione immaginaria.

Cugel dichiarò che le cose stavano diversamente. «Almeria è una regione che esiste nella realtà: di questo posso

garantire personalmente.» «Allora, la tua conoscenza è molto più profonda della mia,» di-

chiarò Garstang. «Questo fiume è l'Asc: la terra che si stende su questa riva è Sudun, quella sulla sponda opposta, invece, è Le-lias. A sud sorge Erze Damath, dove sarebbe opportuno che ti recassi anche tu: poi, forse dovresti recarti ad ovest, attraver-so il Deserto d'Argento e il Mare di Songan, e là potresti chie-dere ulteriori informazioni.»

«Farò come tu mi consigli,» rispose Cugel. «Noi siamo tutti devoti Gilfigiti, e siamo diretti a Erze Da-

math, per il Rito Lustrale dell'Obelisco Nero,» disse Garstang. «Poiché la strada passa attraverso terre deserte, ci siamo ra-dunati in gruppo per difenderci meglio dagli erebi e dai gid. Se vuoi unirti al nostro gruppo, e condividere tanto i privilegi quanto le restrizioni, sarai il benvenuto.»

«I privilegi sono evidenti,» rispose Cugel. «In quanto alle re-

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strizioni, quali sono?» «Semplicemente obbedire ai comandi del capo, che sono io, e

contribuire alle spese.» «Sono d'accordo senza riserve,» esclamò Cugel. «Magnifico! Ci rimettiamo in marcia domattina all'alba.» Gar-

stang indicò uno ad uno altri componenti del gruppo, che era composto di cinquantasette persone. «Quello è Vitz, l'oratore della nostra piccola schiera, e quello seduto là è Casmyre, il teorico. L'uomo dai denti di ferro è Arlo, e quello con il cappello azzurro e la fibbia d'argento è Voynod, uno stregone di gran fama. Assenti da questa sala sono lo stimabile, anche se agno-stico, Lodermulch, e l'indiscutibilmente devotissimo Subucule. Forse stanno cercando, in questo momento, di convincersi a vicenda. I due che stanno giocando a dadi sono Parso e Salana-ve. Quello laggiù è Haxt, e quello è Cray.» Garstang ne nominò parecchi altri, citando i loro attributi. Finalmente Cugel si scu-sò, dichiarando di essere stanco per il viaggio, e si ritirò in ca-mera sua. Si distese sul letto e si addormentò immediatamen-te.

Verso le ore piccole il suo sonno, però, venne disturbato. Lo-dermulch, che aveva scavato il pavimento del capanno, e poi sotto al muro, era riuscito a liberarsi, ed era ritornato imme-diatamente nella locanda. Per prima cosa provò ad aprire la porta della camera di Cugel, il quale l'aveva chiusa accurata-mente a chiave.

«Chi è?» gridò Cugel. «Apri! Sono io, Lodermulch. Questa è la camera dove voglio

dormire!» «Neppure per idea,» dichiarò Cugel. «Ho pagato una somma

principesca per assicurarmi un letto, e sono stato persino co-stretto ad aspettare che il locandiere estromettesse il prece-dente inquilino. Adesso vattene: temo che tu sia ubriaco; se vuoi continuare a darti ai bagordi, vai a svegliare il cantinie-re!»

Lodermulch si allontanò, a passo pesante. Cugel ritornò a sdraiarsi.

Poco dopo sentì battere con forza alcuni colpi, poi udì il grido del locandiere, quando Lodermulch l'afferrò per la barba. Alla fine, però, Lodermulch venne gettato fuori dalla locanda, gra-

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zie agli sforzi congiunti del padrone, della moglie di questi, del facchino, dello sguattero e di altri; e allora, soddisfatto, Cugel ritornò a dormire.

Prima dell'alba i pellegrini, insieme a Cugel, si alzarono e fe-cero colazione. Il locandiere sembrava piuttosto cupo e taci-turno, ed era pieno di lividi, ma non fece domande a Cugel, il quale a sua volta non avviò certo la conversazione.

Dopo colazione, i pellegrini si radunarono sulla strada, dove vennero raggiunti da Lodermulch, il quale aveva trascorso la notte camminando avanti e indietro sulla via.

Garstang fece l'appello del gruppo, poi fece risuonare il suo fi-schietto. I pellegrini si misero in marcia, attraversarono il pon-te, e si avviarono lungo la sponda sud dell'Asc, in direzione di Erze Damath.

2. La zattera

Per tre giorni i pellegrini proseguirono costeggiando l'Asc, e la notte dormirono dietro ad una barriera evocata dallo stre-gone Voynod, per mezzo di un cerchietto di schegge d'avorio: era una precauzione necessaria, perché al di là delle sbarre, visibili a malapena alla luce del fuoco, c'erano esseri ansiosi di unirsi a quella compagnia: Morti Vivi che supplicavano con vo-ci sommesse, erebi che cambiavano continuamente posizione, un po' su quattro piedi, un po' su due, senza riuscire a mettersi comodi. Una volta un gid tentò di scavalcare con un balzo la barriera; in un'altra occasione, tre hoon unirono i loro sforzi per svellere i pali: indietreggiavano, poi correvano avanti, per colpirli tra grugniti di fatica, mentre dall'interno della barriera i pellegrini li osservavano affascinati.

Cugel si avvicinò, toccò con un ramo fiammeggiante una delle figure che premeva contro i pali, e le strappò un urlo di furore. Un grande braccio grigio si insinuò fulmineamente tra le sbar-re: Cugel balzò indietro, appena in tempo per salvarsi. La bar-riera resistette, e alla fine i tre immondi esseri incominciarono a litigare tra di loro e si allontanarono.

La sera del terzo giorno, la comitiva arrivò alla confluenza dell'Asc con un grande fiume dal corso lento, che Garstang

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identificò come Scamander. Vicino sorgeva una foresta di bal-dama, di pini e di querce altissime. Con l'aiuto di alcuni taglia-legna locali vennero abbattuti parecchi alberi, che furono pri-vati dei rami e trascinati vicino all'acqua: poi venne fabbricata una zattera. Quando tutti i pellegrini furono saliti a bordo, la zattera venne spinte con i pali nella corrente, e scivolò a valle senza scosse e senza rumore.

Per cinque giorni, la zattera avanzò sull'ampio Scamander: qualche volta quasi non si scorgevano più le rive, qualche altra si passava vicini alle canne che orlavano la sponda. Poiché non avevano nulla di meglio da fare, i pellegrini intavolavano lun-ghissime dispute, e la diversità delle opinioni su ciascun argo-mento era veramente straordinaria. Molto spesso, la discus-sione verteva su arcani metafisici o sulle sottigliezze dei prin-cipi gilfigiti.

Subucule, che era il più devoto fra tutti i pellegrini, espose particolareggiatamente il suo credo. In sostanza, egli praticava la teosofia gilfigita ortodossa, secondo la quale Zo Zam, la divi-nità a otto teste, dopo avere creato il cosmo, si era tagliato l'al-luce, che in seguito era diventato Gilfig, mentre le gocce di sangue si erano disperse ed avevano formato le otto razze dell'umanità. Roremaund, che era scettico, attaccò quella dot-trina.

«E chi ha creato il tuo ipotetico creatore? Un altro creatore? È molto più semplice presupporre soltanto il prodotto finale: in questo caso, un Sole che si spegne e una Terra morente!» A questo punto, Subucule citò il Testo Gilfigita, in una confuta-zione schiacciante.

Un tale, di nome Bluner, espose con fermezza il proprio cre-do. Egli sosteneva che il Sole era una cellula di una grande di-vinità, che aveva creato il cosmo in un processo analogo a quel-lo della crescita di un 'lichene su di una roccia.

Subucule considerava eccessivamente complicata quella tesi. «Se il Sole fosse una cellula, quale verrebbe ad essere allora la

natura della Terra?» «Quella di un animaletto che ne trae il nutrimento,» rispose

Bluner. «Rapporti di questo genere si riscontrano spesso in na-tura, e non suscitano sbalordimento.»

«E allora, che cos'è che attacca il Sole?» domandò ironico Vitz.

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«Un altro animaletto simile alla Terra?» Bluner incominciò una esposizione dettagliata della sua dot-

trina, ma poco dopo venne interrotto da Pralixus, un uomo alto e magro dai penetranti occhi verdi.

«Ascoltate me: io so tutto: la mia dottrina è di una semplicità estrema. Sono possibili condizioni in un numero immenso, e vi è un numero anche più grande di impossibilità. Il nostro cosmo è una condizione possibile: esiste. Perché? Il tempo è infinito, il che significa che prima o poi deve verificarsi ogni condizione possibile. Poiché ci troviamo in questa particolare possibilità e non ne conosciamo altre, presumiamo di possedere la virtù dell'unicità. In verità, qualsiasi universo è possibile, prima o poi, ed esisterà non una volta soltanto, ma molte volte.»

«Anch'io sono propenso a una dottrina simile, per quanto sia un devoto Gilfigita,» dichiarò Gasmyre, il teorico. «La mia filo-sofia presuppone tutta una successione di creatori, ognuno dei quali è di per se stesso assoluto. Per parafrasare il dotto Pra-lixus, se una divinità è possibile, deve esistere! Soltanto le di-vinità impossibili non esistono! Zo Zam a otto teste che si ta-gliò il Divino Alluce è possibile, e perciò esiste, come è attestato dal Testo Gilfigita!»

Subucule sbatté le palpebre, aprì la bocca per parlare, poi la richiuse. Roremaund, lo scettico, si voltò per scrutare attento le acque dello Scamander.

Garstang, che stava seduto un po' in disparte, ebbe un sorriso pensieroso.

«E tu, Cugel l'Astuto? Una volta tanto ti mostri reticente. Qual è la tua convinzione?»

«È piuttosto confusa,» ammise Gugel. «Ho assimilato una quantità di punti di vista, tutti autorevoli a modo loro: dai sa-cerdoti del Tempio dei Teleologi; da un uccello stregato che estraeva messaggi da una cassetta; da un pio anacoreta che di-giunava e che bevve una bottiglia di roseo elisir quando glielo offrii per scherzo. Le visioni che ne risultarono furono con-traddittorie, ma di grande profondità: perciò la mia concezione del mondo è sincretista.»

«Interessante,» disse Garstang. «Lodermulch, e tu che ne pen-si?»

«Ah,» brontolò Lodermulch. «Guarda questo strappo nella mia

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veste: non so spiegarmene la presenza! L'esistenza dell'uni-verso mi rende ancora più perplesso.»

Intervennero altri. Voynod, lo stregone, definì il cosmo cono-sciuto come l'ombra di una regione dominata dagli spettri, i quali a loro volta esistevano soltanto grazie alle energie psichi-che degli uomini. Il devoto Subucule dichiarò che quella conce-zione era contraria ai Protocolli di Gilfig.

La discussione continuò a lungo. Cugel e un altro paio di pel-legrini, compreso Lodermulch, si annoiarono di quei discorsi e organizzarono un gioco d'azzardo, servendosi di dadi, di carte e di segnapunti. Le puntate, all'inizio puramente nominali, in-cominciarono a crescere. Lodermulch dapprima vinse qualco-sa, poi ebbe perdite notevoli, mentre Cugel continuava a vince-re una puntata dopo l'altra. Alla fine, Lodermulch lasciò cadere i dadi, afferrò il gomito di Cugel, lo scrollò, e fece rotolare fuori dal polsino della sua giubba parecchi altri dadi.

«Benissimo!» urlò Lodermulch. «Che cos'è questa storia? Mi sembrava di avere fiutato odore di bricconeria, e adesso ne ho la prova! Restituiscimi subito il mio denaro!»

«Come puoi dire una cosa simile?» ribatté Cugel. «Quando mai hai dimostrato l'esistenza di un imbroglio? Porto addosso dei dadi... e con questo? Sono forse tenuto a gettare tutte le mie proprietà nello Scamander, prima di prendere parte a un gio-co? Tu stai infangando la mia reputazione!»

«Non me ne importa nulla!» ribadì Lodermulch. «Voglio sol-tanto la restituzione del mio denaro.»

«Impossibile,» disse Cugel. «Nonostante tutte le tue scenate non hai dimostralo che io mi sia comportato in modo scorret-to.»

«Quali dimostrazioni?» ruggì Lodermulch. «Ne occorrono forse altre? Guardate tutti questi dadi: sono tutti sghembi, qualcuno ha punteggi identici su tre facce, altri rotolano solo a fatica, tanto sono pesanti ad uno spigolo!»

«Sono soltanto curiosità,» spiegò Cugel. Indicò Voynod, lo stregone, che aveva osservato il gioco. «Ecco un uomo che ha l'occhio acuto ed il cervello pronto: chiedete a lui se vi è stata evidenza di qualche azione illecita.»

«Nessuna evidenza,» dichiarò Voynod. «Secondo me, Loder-mulch ha formulato un'accusa avventata.»

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Garstang si fece avanti, e venne informato della controver-sia; quindi parlò in tono saggio e conciliante.

«La fiducia è un fattore essenziale in una compagnia come la nostra, costituita da buoni camerati, tutti devoti Gilfigiti. Non può esservi questione di malizia o d'inganno! Senza dubbio, Lodermulch, tu hai giudicato male il nostro amico Cugel!»

Lodermulch fece udire una risata rabbiosa. «Se questa condotta è caratteristica dei devoti, è stata una

vera fortuna, per me, non essermi imbarcato con gente comu-ne!» E dopo questa osservazione, si portò in un angolo della zattera, dove si sedette fissando Cugel con un'espressione di minaccia e di odio.

Garstang scosse il capo, sconsolato. «Temo che Lodermulch si sia offeso. Forse, Cugel, se per spiri-

to di amicizia gli restituissi il suo oro...» Cugel rifiutò con molta fermezza. «È una questione di principio. Lodermulch ha attaccato il mio

bene più prezioso, cioè il mio onore.» «Il tuo senso dell'onore è lodevole,» disse Garstang, «e Loder-

mulch si è comportato con scarso tatto. Tuttavia, in nome del cameratismo... No? Bene, non posso contraddirti. Ehm... ehm. Ci sono sempre piccoli fastidi che ci turbano.» E si allontanò, scrollando il capo.

Cugel raccolse le sue vincite, insieme ai dadi che Lodermulch gli aveva fatto cadere dalla manica.

«Uno spiacevole incidente,» disse a Voynod. «Questo Loder-mulch è una vera seccatura! Ha offeso tutti: vedi, tutti quanti hanno abbandonato il gioco.»

«Forse perché tutto il denaro è ormai in tuo possesso,» suggerì Voynod. -

Cugel esaminò le sue vincite con aria sorpresa. «Non avrei mai sospettato che fossero così sostanziose! Forse

tu vorrai avere la bontà di accettare questa somma, per ri-sparmiarmi la fatica di portarla?»

Voynod accettò, ed una parte delle vincite cambiò di mano. Non molto tempo dopo, mentre la zattera continuava a scen-

dere placidamente il fiume, il Sole ebbe una pulsazione allar-mante. Una pellicola purpurea si formò sulla sua superficie, come una brunitura, e poi si dissolse. Alcuni dei pellegrini pre-

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sero a correre avanti e indietro, sconvolti. «Il Sole si oscura!» gridarono. «Preparatevi al gelo!» Garstang, tuttavia, alzò una mano in un gesto rassicurante. «Calma, calma! Il peggio è passato, il Sole è ritornato come

prima!» «Pensate! Riflettete!» ingiunse Subucule, con estremo fervo-

re. «Credete forse che Gilfig permetterebbe un simile catacli-sma proprio mentre noi stiamo viaggiando per recarci ad una sacra cerimonia all'Obelisco Nero?»

Gli altri si acquietarono, benché ciascuno avesse un'interpre-tazione personale dell'evento. Vitz, l'oratore, scoprì un'analo-gia con l'offuscamento della vista, che poteva venire guarito sbattendo vigorosamente le palpebre. Voynod dichiarò: «Se tutto andrà bene ad Erze Damath, mi ripropongo di dedicare i quattro prossimi anni della mia vita ad un piano per restituire vigore al Sole!» Lodermulch si limitò a formulare un apprez-zamento offensivo: dichiarò che non gli importava niente an-che se il Sole si fosse oscurato e se i pellegrini fossero stati co-stretti a cercare a tentoni la strada per recarsi a partecipare ai Riti Lustrali.

Ma il Sole continuò a risplendere come prima. La zattera sci-volava sulla corrente del grande Scamander, le cui sponde, adesso, erano così basse e prive di vegetazione da apparire come lontane linee scure. Il giorno passò e il Sole sembrò di-scendere nel fiume stesso, proiettando un grande bagliore marrone, che gradualmente divenne opaco e si spense mentre l'astro scompariva.

Nel crepuscolo venne acceso un fuoco, attorno al quale i pel-legrini si raccolsero per consumare il loro pasto serale. Vi fu una discussione sull'allarmante fenomeno solare, alla quale seguirono parecchie speculazioni escatologiche. Subucule la-sciava a Gilfig ogni responsabilità per vita, morte, passato e fu-turo. Haxt, tuttavia, dichiarò che si sarebbe sentito più tran-quillo se in precedenza Gilfig si fosse dimostrato più abile nella gestione dell'universo. Per un po', la conversazione fu piuttosto accesa. Subucule accusava Haxt di superficialità mentre Haxt ribatteva servendosi di espressioni come «crudeltà» e «umilia-zione e devozione cieca». Garstang intervenne per fare notare che non tutti i fatti erano noti, al momento, e che i Riti Lustrali

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all'Obelisco Nero avrebbero potuto chiarire la situazione. La mattina seguente venne avvistato, a valle dalla zattera,

un grande sbarramento: una fila di robusti pali ostruiva la na-vigazione del fiume. Soltanto in un dato punto era possibile passare, ma anche quell'apertura era sbarrata da una pesante catena di ferro. I pellegrini lasciarono che la zattera giungesse vicina a quel passaggio, poi gettarono la pietra che fungeva da ancora. Da una capanna vicina uscì uno zelota, dai capelli lun-ghi e dalla figura magrissima; indossava una tunica nera sbrindellata e impugnava un bastone di ferro. Corse lungo lo sbarramento e guardò con aria minacciosa coloro che erano a bordo della zattera.

«Tornate indietro! Tornate indietro!» gridò. «Il passaggio del fiume è sotto il mio controllo, e io non permetto a nessuno di transitare!»

Garstang si fece avanti. «Imploro la tua indulgenza! Siamo una comitiva di pellegrini,

diretti ai Riti Lustrali di Erze Damath. Se è necessario, paghe-remo un pedaggio per passare questo sbarramento, benché confidiamo che tu sarai tanto generoso da rinunciarvi.»

Lo zelota lanciò una rauca risata, e agitò il bastone di ferro. «Il mio pedaggio deve venire pagato! Chiedo la vita del più

malvagio di tutti voi... a meno che uno di voi non possa dimo-strare la sua virtù a mia soddisfazione!» E, con le gambe pian-tate larghe, la tunica nera che svolazzava nel vento, restò a guardare minacciosamente la zattera.

Tra i pellegrini corse un fremito di disagio, e tutti si guarda-rono furtivamente a vicenda. Vi fu un mormorio, che subito di-ventò una confusione di affermazioni e di vanterie. Finalmente si distinsero i toni striduli della voce di Casmyre.

«Non posso essere certo io il più malvagio! La mia vita è stata improntata alla clemenza e all'austerità, e nei giochi d'azzardo ho ignorato un vantaggio ignobile.»

Un altro gridò: «Io sono ancora più virtuoso, e mangio soltan-to legumi morti, per timore di togliere la vita a qualche essere vivente!»

Un altro: «Io sono anche più scrupoloso, perché mi nutro esclusivamente dei gusci secchi di quei legumi, e di corteccia caduta dagli alberi, per timore di distruggere anche la vita ve-

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getale.» Un altro: «Il mio stomaco rifiuta le sostanze vegetali, ma io mi

attengo agli stessi nobili ideali, e permetto che dalle mie labbra passi soltanto la carne delle carogne.»

Un altro ancora: «Una volta ho attraversato a nuoto un lago di fuoco, per informare una vecchia che la calamità da lei temuta probabilmente non si sarebbe verificata.»

Cugel dichiarò: «la mia vita è stata di incessante umiltà, e so-no incrollabile nella mia devozione alla giustizia e all'equità, anche se ciò mi porta a soffrire i più grandi dolori.»

Voynod non fu meno incrollabile: «Io sono uno stregone, è ve-ro, ma impiego le mie arti esclusivamente per alleviare le sof-ferenze del mio prossimo.»

Poi fu il turno di Garstang. «La mia virtù è la quintessenza di tutte le virtù, poiché è di-

stillata dall'erudizione di intere epoche. Come potrei non esse-re virtuoso? Sono inaccessibile alle comuni passioni dell'uma-nità.»

Alla fine avevano parlato tutti, ad eccezione di Lodermulch, il quale stava in disparte, con un sogghigno agro dipinto sul vol-to. Voynod gli puntò contro un dito.

«Parla, Lodermulch! Dimostra la tua virtù, altrimenti verrai giudicato il più malvagio tra lutti noi, e di conseguenza dovrai rinunciare alla vita!»

Lodermulch rise. Si voltò di scatto e spiccò un grande balzo, giungendo sino all'estremità più vicina dello sbarramento. Scavalcò il parapetto, sguainò la spada e minacciò lo zelota.

«Noi siamo tutti egualmente malvagi, al pari di te, che pre-tendi di imporre questa condizione assurda. Abbassa la catena, o preparati ad affrontare la mia spada.»

Lo zelota alzò le braccia al cielo. «La mia condizione è stata esaudita. Tu, Lodermulch, hai di-

mostrato la tua virtù. La zattera può proseguire. Inoltre, poi-ché tu adoperi la spada in difesa dell'onore, io ti dono questo unguento, che spalmato sulla tua lama le permetterà di taglia-re l'acciaio e la pietra come se fossero burro. Andate, dunque, e possiate tutti trarre profitto dalle Devozioni Lustrali!»

Lodermulch accettò l'unguento e ritornò a bordo della zatte-ra. La catena venne abbassata e la zattera scivolò placidamen-

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te al di là dello sbarramento, senza incontrare ostacoli. Garstang si avvicinò a Lodermulch per esprimergli una mi-

surata approvazione per il suo gesto; ma aggiunse un ammo-nimento.

«In questo caso un atto impulsivo, anzi quasi insubordinato, ha portato un beneficio per tutti. Ma se si presentasse, in futu-ro, una circostanza analoga, farai bene a consigliarti con altri di provata sagacia: me, Casmyre, Voynod o Subucule.»

Lodermulch grugnì, indifferente. «Come vuoi, purché questo indugio non mi causi inconvenien-

ti personali.» E Garstang dovette accontentarsi di quella vaga promessa.

Gli altri pellegrini sbirciarono Lodermulch con aria insoddi-sfatta, e si fecero da parte; Lodermulch rimase solo, e sedette sulla parte anteriore della zattera.

Venne il pomeriggio, quindi il tramonto, la sera e la notte: e quando arrivò finalmente il martino, ci si accorse che Loder-mulch era scomparso.

La perplessità fu grandissima. Garstang s'informò, ma nes-suno fu in grado di chiarire quel mistero, e non fu possibile neppure mettersi d'accordo sulle possibili cause della scom-parsa.

Fatto piuttosto strano, la sparizione dell'impopolare Loder-mulch non valse a riportare l'allegria e il cameratismo che in precedenza avevano regnato nella comitiva. Ogni pellegrino sedeva triste in silenzio, lanciando occhiate a destra ed a sini-stra; non vi furono più giochi, né discussioni filosofiche, e quando Garstang annunciò che Erze Damath si trovava ormai a un solo giorno di viaggio, non suscitò molto entusiasmo.

3. Erze Damath

L'ultima sera trascorsa a bordo della zattera fece risorgere una parvenza dell'antico cameratismo. Vitz, l'oratore, eseguì un certo numero di esercizi vocali e Cugel si esibì in una danza caprioleggiante, tipica dei pescatori d'aragoste di Kauchique, presso i quali aveva trascorso la giovinezza. A sua volta, Voynod eseguì alcune semplici metamorfosi, poi mostrò un

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anellino d'argento. Fece un cenno ad Hart. «Toccalo con la lingua, premilo contro la fronte, poi guarda

attraverso l'anello.» «Vedo una processione!» esclamò Haxt. «Uomini e donne, a

centinaia e centinaia, che sfilano davanti a me. In testa proce-dono mio padre e mia madre, e poi i miei nonni... ma gli altri, chi sono?»

«I tuoi antenati,» dichiarò Voynod. «Ciascuno con il suo co-stume caratteristico, fino all'omuncolo primordiale dal quale siamo discesi tutti noi.» Si fece restituire l'anello, frugò nella borsa e ne trasse una gemma opaca, azzurra e verde.

«Guardate, ora: butto questa gemma nello Scamander!» E scagliò la pietra fuori bordo. La pietra vorticò scintillando nell'aria e piombò nell'acqua scura. «Ora, mi basta tendere la mano, e la gemma ritorna!» Ed effettivamente, mentre la comi-tiva stava a guardare, un lampo umido attraversò la luce irra-diata dal fuoco, e la gemma si posò sul palmo della mano di Voynod. «Con questa gemma, un uomo non deve mai temere la miseria. È vero che non ha un grande valore, ma può essere venduta ripetutamente...

«Che altro posso mostrarvi? Forse questo piccolo amuleto. Francamente, è un talismano erotico, e suscita un'intensa emozione nella persona verso la quale è diretto il suo potere. Bisogna andare molto cauti nel servirsene; e per la verità, ho qui un corollario indispensabile: un periapto a forma di testa d'ariete, confezionato per ordine dell'imperatore Dalmasmius il Tenero, affinché non gli accadesse di offendere la sensibilità delle sue diecimila concubine... Che altro posso mostrarvi? Ec-co qui: la mia bacchetta, che salda istantaneamente qualunque oggetto a qualunque altro. La tengo accuratamente inguainata, per non saldare inavvertitamente i calzoni alle natiche e la borsa alle dita... Ah, ecco! Un corno dotato di poteri singolari. Se lo si spinge nella bocca di un cadavere, causa il proferimen-to di venti parole finali. Inserito nell'orecchio del cadavere, permette di trasmettere informazioni nel cervello privo di vi-ta... E qui che cosa abbiamo? Sì, davvero: un piccolo oggetto che mi ha dato molto piacere!» E Voynod mostrò una bambola che si esibì in una declamazione eroica, cantò una canzone piuttosto salace e si impegnò in un battibecco spiritoso con

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Cugel, il quale stava rannicchiato in prima fila e osservava ogni cosa con la massima attenzione.

Finalmente Voynod si stancò, ed uno dopo l'altro i pellegrini si addormentarono.

Cugel restò sveglio, con le mani intrecciate dietro la testa, a guardare le stelle ed a pensare alla collezione di Voynod; era inaspettatamente ricca di strumenti e di oggetti taumaturgici.

Quando si fu assicurato che tutti dormissero, si alzò in piedi e andò a studiare attentamente Voynod. La borsa era chiusa a chiave, stretta sotto il braccio dello stregone, proprio come Cugel aveva previsto. Allora entrò nella piccola dispensa dove venivano tenute le provviste, prese una certa quantità di lar-do, alla quale mescolò della farina bianca per ottenere una specie di unguento. Con un pezzo di carta pesante confezionò una scatoletta e la riempì di unguento. Poi ritornò al suo posto e si sdraiò per dormire.

La mattina seguente fece in modo che Voynod, come per caso, lo vedesse ungere la lama della sua spada con quell'impasto.

Immediatamente, Voynod assunse un'espressione inorridita. «Non può essere! Sono sbalordito! Ahimè, povero Loder-

mulch!» Cugel gli fece cenno di tacere. «Che cosa stai dicendo?» brontolò. «Io sto semplicemente pro-

teggendo la mia spada dalla ruggine» Voynod scosse il capo con inesorabile decisione. «È tutto chiarissimo! Per amore del guadagno, tu hai assassi-

nato Lodermulch! Non ho altra scelta se non informare gli ac-chiappaladri di Erze Damath!»

Cugel fece un gesto implorante. «Non essere così precipitoso! Tu hai frainteso ogni cosa: io

sono innocente!» Voynod, un uomo alto e cupo dagli occhi cerchiati di viola, il

mento lungo e la fronte spaziosa e corrugata, alzò una mano. «Non è mai stato nelle mie abitudini tollerare l'omicidio. Il

principio dell'equità deve venire applicato anche in questo ca-so, ed è necessaria una compensazione rigorosa. Come minimo, il malfattore non deve mai ricavare profitto dalla sua azione!»

«Stai alludendo all'unguento?» si informò delicatamente Cugel.

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«Precisamente,» disse Voynod. «È il meno che possa richiede-re la giustizia.»

«Tu sei un uomo molto severo,» esclamò angosciato Cugel. «Non ho altra scelta se non sottomettermi al tuo giudizio.»

Voynod tese la mano. «Dammi l'unguento, dunque, e poiché sei chiaramente scon-

volto dal rimorso, non parlerò più della cosa.» Cugel sporse le labbra, con aria meditabonda. «E così sia. Ho già unto la mia spada. Perciò sacrificherò

quanto rimane ancora dell'unguento in cambio del tuo tali-smano erotico, completo di corollario, insieme agli altri tali-smani minori»

«Ho sentito bene?» tempestò Voynod. «La tua presunzione trascende ogni umana comprensione! I miei oggetti magici hanno un valore inestimabile!»

Cugel alzò le spalle. «Questo unguento, a sua volta, non è affatto un articolo che si

trovi comunemente in commercio.» Dopo una lunga disputa, Cugel cedette l'unguento in cambio

di un tubo che proiettava un concentrato azzurro a una di-stanza di cinquanta passi, più un rotolo in cui erano elencate diciotto fasi del Ciclo Laganetico: e dovette accontentarsi di quegli oggetti.

Poco dopo, le prime rovine di Erze Damath apparvero sulla sponda occidentale dello Scamander: erano ville antiche, ora crollate e abbandonate in mezzo a giardini coperti di erbacce.

I pellegrini si servirono dei pali per dirigere la zattera verso la riva. In distanza apparve la punta dell'Obelisco Nero, e a quella vista tutti lanciarono grida di gioia. La zattera avanzò obliquamente attraverso lo Scamander, e poco dopo venne ad attraccare ad uno dei vecchi e malconci moli del porto.

I pellegrini si precipitarono a terra, e si raccolsero attorno a Garstang, il quale tenne un discorsetto.

«È con immensa soddisfazione che mi ritrovo, ora, libero dalle mie responsabilità. Guardate! Ecco la città santa dove Gilfig annunciò il Dogma Gneustico! Dove egli sferzò Kazue e denun-ciò Enxis la Strega! Non è impossibile che i suoi santi piedi ab-biano calpestato proprio questo suolo!» Garstang indico la ter-ra con un gesto drammatico e i pellegrini, abbassando lo

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sguardo, strascicarono inquieti le scarpe. «In ogni caso, siamo giunti qui, e ognuno di noi deve provare letizia e sollievo.

Il viaggio è stato tedioso e non privo di pericoli. Siamo partiti in cinquantanove dalla Valle di Pholgus. Bamish e Randol sono stati presi dagli orti al Campo di Sagma; presso il ponte sull'Asc, Cugel si è unito a noi; sullo Scamander abbiamo per-duto Lodermulch. Ora siamo cinquantasette, tutti buoni com-pagni, provati e fedeli, ed è molto triste separarci e sciogliere la nostra compagnia, che ricorderemo per sempre!

«Tra due giorni avranno inizio i Riti Lustrali. Siamo arrivati in tempo. Coloro che non hanno sprecato tutti i loro fondi nel gioco d'azzardo,» e a questo punto Garstang lanciò un'occhiata tagliente in direzione di Cugel, «possono cercarsi comode lo-cande per alloggiare. Quelli ridotti in miseria dovranno arran-giarsi nel modo migliore. Il nostro viaggio è terminato: ora ci separiamo e andiamo ciascuno per proprio conto, anche se ci ritroveremo tutti, necessariamente, tra due giorni, all'Obelisco Nero. Arrivederci!»

I pellegrini si dispersero: alcuni si avviarono lungo la riva dello Scamander verso una vicina locanda, altri si incammina-rono invece verso la città.

Cugel si avvicinò a Voynod. «Non conosco questa regione, come tu ben sai; forse puoi con-

sigliarmi una locanda comoda e a buon prezzo.» «Davvero,» disse Voynod. «Sono diretto appunto verso una lo-

canda che presenta le caratteristiche alle quali hai alluso: l'O-steria del Vecchio Impero di Dastric, che occupa un antico pa-lazzo. Se le condizioni non sono mutate, vi troveremo lusso sontuoso e vivande squisite a prezzo ragionevole.»

Quella prospettiva suscitò l'approvazione di Cugel; i due si avviarono lungo i viali di Erze Damath, passando davanti a gruppi di casette di stucco, poi attraversarono una zona in cui non vi erano edifici, e in cui i viali formavano una specie di scacchiera vuota; quindi entrarono in un quartiere di grandi palazzi ancora abitati, che sorgevano tra ricchi giardini. Gli abitanti di Erze Damath erano abbastanza belli, anche se di co-lorito più scuro di quelli di Almeria. Gli uomini vestivano esclusivamente di nero: calzoni aderenti e panciotti ornati di pompon neri; le donne erano splendide nei loro abiti gialli, ros-

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si, arancione e magenta, e le loro pantofole scintillavano di lu-strini arancione e neri. L'azzurro e il verde erano colori molto rari, poiché erano considerali di malaugurio, e il violetto rap-presentava la morte.

Le donne ostentavano alte piume sulle acconciature, mentre gli uomini portavano sul capo dischi neri: la sommità del capo spuntava da un foro centrale. Sembrava che fosse di gran mo-da un balsamo resinoso, e tutti coloro che Cugel incontrò esa-lavano aromi di aloe o di mirra o di carcinto. Nel complesso, gli abitanti di Erze Damath apparivano non meno raffinati di quel-li di Kauchique, e molto più vivaci degli apatici cittadini di Azenomei.

Davanti a Cugel apparve l'Osteria del Vecchio Impero di Da-stric, non lontana dall'Obelisco Nero. Con grande dispiacere di Cugel e di Voynod, non vi erano posti liberi, e il portiere si ri-fiutò di lasciarli entrare.

«I Riti Lustrali hanno attirato una grande quantità di devoti,» spiegò l'uomo. «Sarete già fortunati se riuscirete a procurarvi un alloggio qualsiasi.»

E infatti fu così; Cugel e Voynod andarono da una locanda all'altra, ma ogni volta vennero respinti. Finalmente, alla peri-feria occidentale della città, proprio sul limitare del Deserto d'Argento, vennero accolti in una grande taverna dall'aspetto piuttosto disdicevole: la Locanda della Lampada Verde.

«Fino a dieci minuti fa, non avrei potuto darvi alloggio,» di-chiarò il padrone. «Ma gli acchiappaladri hanno portato via due tizi che erano alloggiati qui, dicendo che erano ladri e grassatori famigerati.»

«Spero che non siano tutti così, i vostri clienti,» insinuò Voynod.

«E chi lo sa?» rispose il locandiere. «Il mio compito consiste nel fornire cibo e bevande e alloggio, nient'altro. Anche i ruf-fiani e i delinquenti devono mangiare, bere e dormire, non me-no dei sapienti e degli zeloti. Dalla mia porta sono passati indi-vidui di tutti i generi e, in fondo, che cosa so di voi?»

Stava scendendo il crepuscolo e, senza indugio, Cugel e Voynod si fermarono alla Lampada Verde. Dopo essersi rinfre-scati, si recarono nella sala comune per la cena. La sala era molto ampia: le travi erano annerite del tempo, il pavimento

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era di piastrelle marrone scuro, e c'erano vari pilastri e colon-ne di legno malconcio, che reggevano ciascuno una lampada. La clientela era molto varia, come aveva fatto capire il locan-diere: si notavano almeno una dozzina di costumi e di carna-gioni diverse. Uomini del deserto, sottili come serpenti, che in-dossavano camici di pelle, stavano seduti da un lato; dall'altro c'erano quattro individui dalle facce bianche e dai capelli rossi e serici acconciati a nodo, che non dicevano mai una parola. Lungo un banco, in fondo alla sala, sedevano alcuni bravacci che indossavano calzoni marroni, cappe nere e berretti di pel-le; ciascuno portava una gemma sferica appesa all'orecchio con una catena d'oro.

Cugel e Voynod consumarono un pasto di discreta qualità, benché servito un po' sbrigativamente, poi restarono seduti a bere vino e a stabilire il modo di trascorrere la serata. Voynod decise di provare le grida appassionate e le frenesie devote che intendeva esibire ai Riti Lustrali. Allora Cugel lo supplicò di prestargli il talismano della stimolazione erotica.

«Le donne di Erze Damath sono così belle, e con l'aiuto del ta-lismano potrò conoscere meglio le loro qualità!»

«Neppure per idea,» disse Voynod, stringendosi al fianco la borsa. «E non è necessario che spieghi le ragioni del mio dinie-go,»

Cugel fece una smorfia irritata. Voynod era un uomo le cui grandiose concezioni personali apparivano particolarmente bizzarre e spiacevoli, dato il suo aspetto malsano, sparuto e cupo.

Voynod vuotò il suo boccale, con una frugalità meticolosa che Cugel giudicò ancora più irritante, e si alzò in piedi.

«Ora mi ritirerò in camera mia.» Mentre si voltava, un bravaccio che attraversava barcollan-

do la sala lo urtò. Voynod lanciò un'imprecazione acrimoniosa, che il bravaccio decise di non ignorare.

«Come osi parlarmi in questo modo!» esclamò. «Sguaina la spada e difenditi, oppure ti taglierò il naso!» E il bravaccio im-pugnò la sua lama.

«Come vuoi,» disse Voynod. «Un momento soltanto.» Strizzan-do l'occhio a Cugel, spalmò la spada con l'unguento, poi si rivol-se al bravaccio. «Preparati a morire, amico mio!» E spiccò un

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grande balzo in avanti. Il bravaccio, che aveva notato i prepa-rativi dello stregone e si era reso conto di trovarsi di fronte a qualche manifestazione magica, restò immobile, in preda al terrore. Con un grandioso affondo, Voynod lo passò da parte a parte, e poi pulì la lama con il berretto del bravaccio.

I compagni dell'ucciso, che stavano seduti al banco, a quella vista scattarono in piedi, ma si fermarono non appena Voynod, con la massima calma, si girò verso di loro.

«State in guardia, galletti da letamaio! Avete visto il fato del vostro compagno! È morto a causa del potere della mia spada magica, che è di metallo inesorabile e taglia acciaio e pietra come fossero burro. Guardate!» E Voynod sferrò un fendente contro una colonna. La lama colpì una grappa di ferro, e andò a pezzi. Voynod restò sbalordito, ma i compagni del bravaccio avanzarono.

«Dov'è la lama magica? Le nostre lame sono di comune ac-ciaio, ma colpiscono a fondo!» In un attimo, Voynod fu fatto a pezzi.

Poi i bravacci si rivolsero a Cugel. «E tu? Vuoi dividere la sorte del tuo compagno?» «Neppure per idea!» dichiarò Cugel. «Quest'uomo era soltanto

il mio servitore, e portava la mia borsa. Il vero mago sono io: osservate questo tubo! Proietterò un concentrato azzurro con-tro il primo che oserà minacciarmi!»

I bravacci alzarono le spalle e si allontanarono. Cugel si im-padronì della borsa di Voynod, poi fece un gesto per chiamare il locandiere.

«Abbi la cortesia di far portare fuori questi cadaveri. Poi ser-vimi un altro boccale di vino alle spezie.»

«E il conto del tuo compagno?» domandò irritato il locandiere. «Lo regolerò io, non temere.» I cadaveri vennero portati via. Cugel bevve un ultimo boccale

di vino, poi si ritirò in camera sua, e sparse sulla tavola il con-tenuto della borsa di Voynod. Il denaro andò nel suo borsellino; i talismani, gli amuleti e gli strumenti li ripose nella propria borsa; e gettò via l'unguento. Poi, soddisfatto dell'andamento della giornata, si distese sul letto e poco dopo si addormentò.

Il giorno seguente, Cugel girò per la città, e salì sulla più alta delle otto colline. Il panorama che si stendeva davanti al suo

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sguardo era nello stesso tempo squallido e magnifico. A destra e a sinistra si snodava il grande Scamander. I viali della città delimitavano i grandi riquadri di rovine, le distese vuote, le capanne di stucco dei poveri e i palazzi dei ricchi. Erze Damar-li era la città più grande che Cugel avesse mai visto, molto più grande delle città di Almeria e di Ascolais, benché ormai fosse ridotta in gran parte ad un mucchio di rovine desolate.

Poi Cugel ritornò in centro, e cercò il chiosco di un geografo professionista; dopo avere pagato l'onorario chiese qual era la strada più sicura e più rapida per Almeria.

Il saggio non diede una risposta affrettata o avventata, e tirò fuori carte ed elenchi. Dopo avere riflettuto profondamente, disse a Cugel: «Ascolta il mio consiglio. Segui lo Scamander a nord, fino all'Asc, poi segui il corso di questo fiume, fino a quando incontri un ponte a sei pilastri. Poi volgi la faccia verso nord, attraversa le Montagne di Magnatz, e ti troverai di fron-te alla foresta che viene chiamata la Grande Erm. Prosegui verso occidente, attraverso la foresta, e avvicinati alle rive del Mare Settentrionale. Lì devi costruirti una barca e affidarti al-la forza del vento e delle correnti. Se per caso dovessi giungere alla Terra delle Mura che Crollano, allora ti sarà relativamente facile raggiungere Almeria, proseguendo verso sud.»

Cugel fece un gesto d'impazienza. «Ma questa, in sostanza, è la strada che ho percorso per veni-

re qui. Non ce ne sono altre?» «Per la verità ce n'è una. Un uomo sventato potrebbe arri-

schiarsi ad attraversare il Deserto d'Argento; poi troverebbe il Mare di Songan, oltre al quale si stendono le terre desolate che confinano con l'Almeria Orientale.»

«Benissimo, dunque: mi sembra fattibile. Come posso attra-versare il Deserto d'Argento? Ci sono delle carovane?»

«E per quale scopo? Non c'è nessuno per comprare le merci che potrebbero venire trasportate in questo modo... soltanto banditi che preferiscono rubare tutto. Per intimidirli è neces-saria almeno una forza di quaranta uomini.»

Cugel lasciò il chiosco. In una taverna poco lontano bevve una fiasca di vino e rifletté sul modo migliore per radunare una forza di quaranta uomini. I pellegrini, naturalmente, erano cinquantasei... no, cinquantacinque, dopo la morte di Voynod.

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Una simile comitiva sarebbe andata benissimo... Cugel bevve altro vino e continuò a riflettere. Alla fine pagò il conto e si diresse verso l'Obelisco Nero. Forse

«Obelisco» era una definizione errata, perché in realtà si trat-tava di una grande zanna di compatta pietra nera che si levava ad un'altezza di cento piedi sopra la città. Alla base erano state scolpite cinque statue, ognuna delle quali era rivolta in una di-rezione diversa: ognuna rappresentava il Primo Adepto di qualche setta particolare. Gilfig era rivolto verso sud; le sue quattro mani reggevano altrettanti simboli, i suoi piedi erano posati sui colli di supplici estasiati, con le dita allungate e ri-volte verso l'alto, per indicare eleganza e delicatezza.

Cugel andò a informarsi da un accolito che stava lì accanto. «Chi è il Capo Gerarca dell'Obelisco Nero, e dove posso trovar-

lo?» «È il Precursore Hulm,» disse l'accolito e indicò uno splendido

edificio nei pressi. «Potrai trovarlo in quel palazzo incrostato di gemme.»

Cugel si diresse verso l'edificio indicato e, dopo molte insi-stenze veementi, venne introdotto alla presenza del Precurso-re Hulm, un uomo di mezza età, piuttosto massiccio, dalla fac-cia rotonda. Cugel rivolse ufi gesto al sottogerofante che lo aveva condotto fin lì con una certa riluttanza.

«Va': il mio messaggio è riservato al solo Precursore.» Il Precursore fece un cenno, e il gerofante se ne andò. Cugel si

tese in avanti. «Posso parlare senza timore di essere ascoltato da orecchie

indiscrete?» «Sì.» «Innanzi tutto, sappi che io sono un potente stregone. Guar-

da: un tubo che proietta concentrato azzurro! Ed ecco qui un rotolo che elenca diciotto fasi del Ciclo Laganetico! E questo strumento: un corno che permette ai morti di parlare e, usato in altro modo, consente di trasmettere informazioni al cervello di un cadavere! E possiedo molte altre meraviglie!»

«Veramente interessante,» mormorò il Precursore. «La mia seconda rivelazione è questa: un tempo ho servito

come mescolatore d'incenso al Tempio dei Teleologi, in una terra lontana, dove ho appreso che ciascuna delle sacre imma-

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gini era costruita in modo che i sacerdoti, in caso di necessità, potessero compiere atti che apparissero compiuti dalla divini-tà stessa.»

«E perché non dovrebbe essere così?» chiese benevolmente il Precursore. «La divinità, poiché controlla tutti gli aspetti dell'esistenza, induce i sacerdoti e compiere tali atti.»

Cugel assentì. «Perciò ho ragione di ritenere che le immagini scolpite nell'O-

belisco Nero siano piuttosto simili?» Il Precursore sorrise. «A quale delle cinque ti riferisci, precisamente?» «Precisamente all'immagine di Gilfig.» Gli occhi del Precursore si velarono, mentre rifletteva. Cugel indicò i vari talismani e strumenti. «In cambio di un certo servizio, io donerò a questa sacra isti-

tuzione alcuni di questi oggetti.» «Di quale servizio si tratta?» Cugel fornì una spiegazione particolareggiata, e il Precursore

annuì pensieroso. «Benissimo, se mi darai una dimostrazione del potere dei tuoi

oggetti magici.» Cugel obbedì. «E sono tutti qui?» Con una certa riluttanza, Cugel mostrò lo stimolatore erotico

e spiegò la funzione del talismano complementare. Il Precurso-re annuì, questa volta vivacemente.

«Credo che potremo metterci d'accordo: tutto sia fatto come desidera l'onnipotente Gilfig.»

«Allora siamo intesi?» «Siamo intesi!» La mattina seguente la schiera dei cinquantacinque pellegri-

ni si radunò davanti all'Obelisco Nero. Si prostrarono davanti all'immagine di Gilfig, e si prepararono ad eseguire le loro de-vozioni. All'improvviso, gli occhi della statua lanciarono fiam-me e la bocca si aprì.

«Pellegrini!» risuonò una voce bronzea. «Andate ed eseguite il mio comando! Dovete recarvi al di là del Deserto d'Argento, fin sulla spiaggia del Mare di Songan! Là troverete un tempio, da-vanti al quale dovete prostrarvi. Andate! Attraversate il De-

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serto d'Argento, in tutta fretta!» La voce tacque. Garstang parlò, tremante. «Ti abbiamo udito, o Gilfig, e ti obbediamo!» In quel momento, Cugel avanzò con un balzo. «Anch'io ho udito questo prodigio! Anch'io farò questo viag-

gio! Venite, andiamo!» «Non tanta fretta,» disse Garstang. «Non possiamo andare sal-

tando e balzando come dervisci. Avremo bisogno di provviste e di bestie da soma. E per questo sono necessari i fondi. Chi è di-sposto a versarli?»

«Io offro duecento terci!» «E io sessanta terci, tutta la mia ricchezza!» «Io ho perduto novanta terci giocando d'azzardo con Cugel, e

possiedo solo quaranta terci, che metto a disposizione.» La se-rie delle offerte continuò, e persino Cugel versò sessantacinque terci al fondo comune.

«Bene,» disse Garstang. «Domani provvederò a tutto e dopo-domani, se tutto va bene, lasceremo Erze Damath, passando dalla Vecchia Porta occidentale!»

4. Il Deserto d'Argento e il Mare di Songan

La mattina seguente Garstang, con l'aiuto di Cugel e di Ca-smyre, andò a procurarsi l'attrezzatura e l'equipaggiamento necessario. Venne detto loro di rivolgersi ad un vicino recinto, situato in una delle zone vuote tra i viali della città vecchia. Un muro di mattoni di fango e di frammenti di pietre scolpite cir-condava un'ampia zona, dalla quale uscivano suoni di ogni ge-nere: grida, richiami, urla cavernose, ringhi gutturali, latrati, strilli e ruggiti, e un forte odore composito di ammoniaca, di foraggio, di letami d'una dozzina di generi diversi, di carne vecchia, in cui predominava un sentore acre.

Varcando un portale, i viaggiatori entrarono in un ufficio che si affacciava sul cortile centrale, dove recinti, gabbie e palizza-te custodivano bestie di una varietà tanto grande da sbalordire persino Cugel.

Il proprietario si fece avanti: era un uomo alto, dalla pelle gialla, pieno di cicatrici e privo del naso e di un orecchio. Por-

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tava una veste di pelle grigia, stretta alla cintura, e un alto cappello conico nero, dai lunghi copriorecchie.

Garstang espose il motivo della visita. «Siamo pellegrini e dobbiamo attraversare il Deserto d'Argen-

to. Siamo più di cinquanta, e abbiamo bisogno di bestie da so-ma: prevediamo che il viaggio durerà venti giorni all'andata e venti al ritorno, e prevediamo di fermarci cinque giorni per le nostre devozioni: che queste informazioni ti servano da guida. Naturalmente vogliamo solo le bestie più robuste, più laboriose e più docili.»

«Tutto questo va benissimo,» disse il proprietario, «ma il prez-zo del noleggio è identico al prezzo di vendita, perciò tanto vale che vi assicuriate il massimo beneficio dal vostro denaro, sotto forma del pieno titolo di proprietà sulle bestie che verranno comprese nella transazione.»

«E il prezzo?» chiese Gasmyre. «Il prezzo dipende dalla scelta: ogni bestia ha un valore di-

verso, naturalmente.» Garstang, che aveva osservato gli animali, scosse il capo, ma-

linconico. «Confesso di essere molto perplesso. Ogni bestia è di una spe-

cie diversa, e nessuna sembra rientrare in una categoria ben definita.» Il proprietario riconobbe che le cose stavano effetti-vamente così.

«Se non vi dispiace ascoltare, posso spiegarvi tutto. È una storia molto affascinante, e vi aiuterà molto a tenere a bada le bestie.»

«Allora per noi sarà doppiamente utile ascoltarti,» disse gen-tilmente Garstang, sebbene Cugel facesse gesti d'impazienza.

Il proprietario si avvicinò ad uno scaffale e ne trasse un vo-lume in-folio rilegato in pelle.

«In un eone passato, il Re Pazzo Kutt ordinò di creare un ser-raglio quale non si era mai visto prima, per il suo diletto e per la meraviglia di tutto il mondo. Il suo stregone, Follinense, produsse quindi un gruppo di bestie e di teratoidi assoluta-mente unici, combinando le più strane qualità di plasma: e il risultato è quello che vedete.»

«E il serraglio è durato per tanto tempo?» domandò Garstang, in tono stupito.

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«Per la verità, no. Non rimane nulla del Re Pazzo Kutt, ad ec-cezione della leggenda e di un registro dello stregone Follinen-se.» Batté la mano sull'in-folio rilegato in pelle. «Il registro de-scrive la sua bizzarra sistemologia. Per esempio...» E aprì il vo-lume. «Ecco... uhmmm... qui c'è una precisazione, un po' meno esplicita delle altre, in cui Follinense analizza i semiuomini: è poco più di una breve serie di appunti:

«Gid: ibrido di uomo, gargoyle, whorl, insetto saltante; «Morto Vivo: sciacallo, basilisco, uomo. «Erebo: orso, uomo, ramarro, dèmone. «Leucomorfo: sconosciuto. «Orri: uomo, pipistrello, hoon modificato. «Bazilo: felinodoro, uomo (vespa?).» Casmyre batté le mani sbalordito. «E fu Follinense a creare tutti questi esseri, con grande svan-

taggio per l'umanità?» «Sicuramente no,» dichiarò Garstang. «Sembra soprattutto un

esercizio di oziosa meditazione. Due volte Follinense ammette di non essere certo: nei riguardi del Leucomorfo e del Bazilo.»

«Questa è anche la mia opinione, nel caso in esame,» affermò il proprietario, «benché altrove si mostri meno dubbioso.»

«E in che modo gli esseri che vediamo, dunque, hanno a che fare con il serraglio?» chiese Casmyre.

Il proprietario alzò le spalle. «Un altro degli scherzi del Re Pazzo. Liberò tutta la sua rac-

colta di bestie nelle campagne, creando gravi inconvenienti per tutti. Gli esseri, dotati di fecondità eclettica, diventarono tutti più o meno bizzarri, e adesso si aggirano in gran numero nella Piana di Oparona e nella Foresta di Blanwalt.»

«E allora, noi che dobbiamo fare?» domandò Cugel. «Vogliamo animali da soma, docili e frugali, e non mostri o curiosità, per quanto edificanti.»

«Certi animali del mio vastissimo assortimento rispondono al-le vostre esigenze,» rispose con dignità il proprietario. «Ma il loro prezzo è molto alto. D'altra parte, per un solo tercio potete avere un essere dal lungo collo, dal ventre gonfio e dalla vora-cità sorprendente.»

«Il prezzo è attraente,» disse Cugel, in tono di rammarico. «Purtroppo, abbiamo bisogno di bestie che trasportino viveri e

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acqua attraverso il Deserto d'Argento.» «In questo caso dovremo essere più accurati.» Il proprietario

prese a studiare i suoi animali. «Quella bestia alta, a due gam-be, laggiù, forse è meno feroce di quanto sembri...»

Alla fine venne fatta una selezione di quindici bestie, e venne pattuito il prezzo. Il proprietario portò gli animali al cancello. Garstang, Cugel e Casmyre ne presero possesso e guidarono le quindici creature malamente assortite, a passo tranquillo, at-traverso le strade di Erze Damath, verso la Porta Occidentale. Qui Cugel venne lasciato a custodirle, mentre Garstang e Ca-smyre andavano ad acquistare provviste ed altri oggetti indi-spensabili.

Verso sera i preparativi vennero completati e il mattino se-guente, quando i primi raggi purpurei del Sole colpirono l'Obe-lisco Nero, i pellegrini si avviarono. Le bestie trasportavano panieri di cibo e otri pieni d'acqua; i pellegrini indossavano tut-ti scarpe nuove e cappelli a larghe tese. Garstang non era riu-scito a ingaggiare una guida, ma aveva acquistato una carta dal geografo, che però indicava soltanto un piccolo cerchio con la scritta «Erze Damath,» ed un'area più vasta con la leggenda «Mare di Songan».

A Cugel venne dato l'incarico di condurre una delle bestie, un essere a dodici gambe lungo sei metri, con una minuscola testa da bambino che sogghignava stupidamente e una fitta pelliccia leonina. Quel compito riuscì piuttosto sgradevole a Cugel, per-ché la bestia gli soffiava sul collo un alito puzzolente, e molte volte gli si avvicinava tanto da procedere alle sue calcagna.

Dei cinquantasette pellegrini che erano sbarcati dalla zatte-ra, quarantanove partirono diretti al tempio sulle rive del Ma-re di Songan, e quasi subito il numero scese a quarantotto. Un certo Tokharin, che si era appartato per soddisfare un bisogno naturale, venne punto da un scorpione mostruoso, e corse ver-so nord a grandi balzi, lanciando urla selvagge, fino a quando scomparve all'orizzonte.

Quel giorno trascorse senza altri incidenti. Il deserto era una asciutta distesa grigia, cosparsa di selci, dove cresceva soltan-to l'erba-di-ferro. A sud c'era una catena di colline basse, e Cugel ebbe l'impressione di scorgere uno o due figure, ritte immobili lungo la cresta. Al tramonto la carovana si fermò; e

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Cugel, ricordando i banditi che a quanto si diceva infestavano quella zona, convinse Garstang a mettere due uomini di senti-nella: Lippelt e Mirch-Masen.

La mattina dopo i due erano spariti senza lasciare traccia, ed i pellegrini rimasero sconvolti e allarmati. Si radunarono in gruppo, nervosamente, a scrutare in tutte le direzioni. Il de-serto si stendeva piatto e tetro nella luce cupa e bassa dell'alba. A sud vi erano alcune colline, e soltanto le loro sommità piatte apparivano illuminate; altrove, il territorio si stendeva piatto fino all'orizzonte.

Alla fine la carovana si rimise in marcia, e ormai erano sol-tanto quarantasei. Cugel, come il giorno precedente, dovette occuparsi della lunga bestia a dodici zampe, che adesso aveva preso l'abitudine di premere la faccia sogghignante contro le scapole del suo conducente.

Il giorno passò senza incidenti: vennero percorse leghe e le-ghe. In testa procedeva Garstang, con un bastone, poi Vitz e Casmyre, seguiti da parecchi altri. Venivano poi le bestie da soma, ciascuna con la sua sagoma particolare: una bassa e si-nuosa, un'altra alta e biforcata, dalla conformazione quasi umana, a parte la testa, che era piccola e schiacciata come il guscio di un granchio ferro-di-cavallo. Un'altra, dal dorso con-vesso, sembrava balzare e saltellare sulle sei gambe rigide; un'altra sembrava un cavallo rivestito di piume bianche. Die-tro alle bestie da soma venivano gli altri pellegrini: Bluner era l'ultimo, in armonia con l'esagerata umiltà che lo caratterizza-va. Quella sera, quando si accamparono, Cugel tirò fuori dalla borsa la barriera estensibile, che un tempo era stata di Voynod, e chiuse tutta la comitiva in un robusto recinto.

Il giorno seguente i pellegrini attraversarono una catena di basse montagne, dove furono attaccati dai banditi. Ma doveva essere soltanto una scaramuccia esplorativa, e l'unico ferito fu Haxt, che aveva ricevuto un colpo al calcagno. Due ore dopo si verificò un incidente assai più grave. Mentre passavano sotto un pendio, un macigno si staccò, rotolò addosso alla carovana e uccise una delle bestie da soma, Andle l'Evangelico Funambolo e Roremaund lo Scettico. Durante la notte, poi, Haxt morì, evi-dentemente avvelenato dall'arma che lo aveva ferito.

Seri in volto, i pellegrini si rimisero in cammino e quasi subi-

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to caddero in un'imboscata dei banditi. Per fortuna i pellegrini stavano in guardia, e i banditi vennero messi in fuga dopo aver perduto una dozzina di uomini, mentre i pellegrini avevano perduto soltanto Cray e Magasthen.

Adesso, molti brontolavano e lanciavano lunghe occhiate verso est, in direzione di Erze Damath. Garstang rianimò gli spiriti depressi con un discorsetto:

«Noi siamo Gilfigiti: Gilfig ha parlato! Sulle rive del Mare di Songan cercheremo il sacro Tempio! Gilfig è la saggezza e la misericordia: coloro che cadono al suo servizio vengono imme-diatamente trasportati nella paradisiaca Gamamere! Pellegri-ni! A occidente!»

Riprendendo coraggio, la carovana si rimise in marcia, e la giornata trascorse senza altri incidenti. Durante la notte, tut-tavia, tre delle bestie da soma si liberarono dei guinzagli e fug-girono, e Garstang fu costretto ad annunciare una riduzione delle razioni.

Durante la marcia del settimo giorno, Thilfox mangiò una manciata di bacche velenose e morì tra spasimi atroci; allora suo fratello Vite, l'oratore, fu colto da un attacco di follia furio-sa e cominciò a correre lungo la fila delle bestie da soma, be-stemmiando Gilfig e sventrando con il coltello le vesciche che contenevano l'acqua, fino a quando Cugel riuscì ad ucciderlo.

Due giorni dopo, quella schiera sparuta arrivò ad una fonte. Nonostante gli avvertimenti di Garstang, Salanave e Arlo si gettarono a quattro zampe e bevvero a grandi sorsate. Quasi subito si strinsero il ventre, vomitarono, soffocati, con le lab-bra divenute del colore della sabbia, e in pochi istanti moriro-no.

Una settimana dopo, quindici uomini e quattro bestie da soma giunsero su di un'altura e videro le acque placide del Mare di Songan. Cugel era sopravvissuto, come erano sopravvissuti Garstang, Casmyre e Subucule. Davanti a loro si stendeva una palude, alimentata da un fiumicello. Cugel controllò l'acqua con l'amuleto che gli era stato dato da Iucounu, e dichiarò che era bevibile. Tutti bevvero a sazietà, mangiarono canne convertite in una sostanza nutriente anche se insipida dallo stesso amu-leto, e poi si addormentarono.

Cugel, svegliato da un presentimento di pericolo, balzò in

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piedi all'improvviso, e notò che le canne si agitavano lievemen-te. Svegliò i suoi compagni, e tutti impugnarono le armi: ma qualunque cosa fosse stata a muovere le canne dovette spa-ventarsi e si allontanò. Era metà pomeriggio; i pellegrini scese-ro sulla spiaggia desolata per valutare la situazione. Guarda-rono a nord e a sud, ma non videro traccia del tempio. Qualcu-no perse la calma: vi fu una lite che Garstang riuscì a sedare solo grazie alla sua estrema capacità di persuasione.

Poi Baldi, che si era allontanato di un breve tratto lungo la spiaggia, ritornò, in preda ad una viva eccitazione.

«Un villaggio!» Tutti si avviarono, speranzosi e impazienti, ma il villaggio,

quando i pellegrini si avvicinarono, si rivelò per una ben pove-ra cosa: un gruppetto di capanne di canne abitato da uomini-lucertola che snudarono i denti e agitarono furiosamente le ro-buste code azzurre in segno di diffidenza. I pellegrini procedet-tero lungo la spiaggia e sedettero sulle dune, a guardare la bas-sa risacca del Mare di Songan.

Garstang, fragile e piegato dalle privazioni subite, fu il primo a parlare. Cercò di infondere nella sua voce un tono di gaiezza.

«Siamo arrivati, abbiamo trionfato sul terribile Deserto d'Ar-gento! ora dobbiamo soltanto trovare il tempio e compiere le nostre devozioni: poi potremo ritornare a Erze Damath, ad un futuro di sicura beatitudine!»

«Benissimo,» brontolò Baldi, «ma dove possiamo trovare il tempio? A destra e a sinistra, la spiaggia è egualmente squalli-da!»

«Dobbiamo avere fede in Gilfig che ci guida!» dichiarò Subucu-le. Raschiò una freccia su di un pezzo di legno, e la toccò con il suo nastro sacro. «Gilfig, o Gilfig!» esclamò. «Guidaci tu al tem-pio! Ecco, io lancio questa freccia, che ci indicherà la direzio-ne!» Scagliò la freccia nell'aria che ricadde, rivolta verso il sud.

«È a sud che dobbiamo andare!» gridò Garstang. «A sud! Ver-so il tempio!»

Ma Baldi e alcuni altri rifiutarono di entusiasmarsi. «Non vi accorgete che stiamo per morire di sfinimento? Se-

condo me Gilfig avrebbe dovuto guidare i nostri passi verso il tempio, invece di abbandonarci all'incertezza!»

«Gilfig ci ha veramente guidati!» rispose Subucule. «Non hai

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visto la direzione della freccia?» Balch emise una risata di gracchiante sarcasmo. «Qualunque stecco buttato in aria deve ricadere, e può indica-

re tanto sud quanto nord.» Subucule indietreggiò, inorridito. «Tu bestemmi Gilfig!» «Per niente: non sono sicuro che Gilfig abbia udito la tua ri-

chiesta: o forse non gli hai lasciato il tempo sufficiente per rea-gire. Lancia la freccia per cento volte: se ogni volta punterà verso sud, mi affretterò a marciare anch'io verso sud!»

«Benissimo,» disse Subucule. Invocò nuovamente Gilfig e lan-ciò la freccia, ma quando quella ricadde al suolo, la sua punta indicava il nord.

Balch non disse nulla. Subucule sbatté le palpebre, poi diven-tò rosso in volto.

«Gilfig non ha tempo per questi giochetti,» disse. «Ci ha indica-to la strada una volta, e lo ha ritenuto sufficiente.»

«Non ne sono convinto,» disse Balch. «Anch'io.» «Anch'io.» Garstang alzò le braccia, implorante. «Siamo arrivati fin qui; abbiamo faticato insieme, ci siamo ral-

legrati insieme, abbiamo combattuto (e sofferto insieme... non abbandoniamoci alla dissidenza proprio ora!»

Balch e gli altri si limitarono a scrollare le spalle. «Non ci avventureremo così ciecamente verso sud.» «E che cosa farete, allora? Andrete a nord? O ritornerete ad

Erze Damath?» «Erze Damath? Senza viveri e con quattro sole bestie da so-

ma? Bah!» «Allora dirigiamoci verso sud, alla ricerca del tempio.» Balch tornò a scrollare ostinatamente le spalle, e a quel gesto

Subucule si incollerì. «E così sia! Coloro che vogliono venire a sud da questa parte,

quelli che stanno con Balch da quella!» Garstang, Casmyre e Cugel si schierarono con Subucule; gli

altri rimasero con Balch: erano undici, e incominciarono a bi-sbigliare tra loro, mentre i quattro fedeli pellegrini osservava-no, in preda ad una certa apprensione.

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Poi gli undici balzarono in piedi. «Addio.» «Dove andate?» chiese Garstang. «Non ha importanza. Cercate pure il vostro tempio, se ci tene-

te; noi ce ne andiamo per i fatti nostri.» Con il più secco degli addii si diressero al villaggio degli uomini-lucertola, dove mas-sacrarono tutti i maschi, limarono i denti delle femmine, le ve-stirono di abiti di foglie di canna e si installarono come signori del villaggio.

Garstang, Subucule, Casmyre e Cugel, nel frattempo, si erano diretti a sud seguendo la costa. Al cader della notte si accam-parono e cenarono con molluschi e granchi. La mattina dopo scoprirono che le quattro bestie da soma che ancora rimane-vano erano scappate, e che ormai erano rimasti soli.

«È la volontà di Gilfig,» disse Subucule. «Non ci resta altro che trovare il tempio e morire!»

«Coraggio,» mormorò Garstang. «Non dobbiamo abbandonarci alla disperazione!»

«E che altro ci resta? Rivedremo mai la Valle di Pholgus?» «E chi lo sa? Per prima cosa, dobbiamo compiere le nostre

devozioni al tempio.» Proseguirono; marciarono per tutto il resto della giornata. Al

cader della notte erano troppo stanchi per fare qualcosa di più che gettarsi sulla sabbia della spiaggia.

Il mare si stendeva davanti a loro, piatto come una tavola, così calmo che il Sole calante vi rifletteva soltanto la propria immagine esatta, anziché stendervi sopra una scia luminosa. Ancora una volta 'molluschi e granchi costituirono la magra cena, poi i pellegrini superstiti si distesero per dormire.

Poco dopo le prime ore della notte, Cugel fu svegliato da un suono di musica. Si riscosse, e guardò verso l'acqua: scoprì che era apparsa una città spettrale. Torri agili salivano al cielo, il-luminate da punti scintillanti di luce bianca che salivano e scendevano e si muovevano avanti e indietro. Sulle passeggia-te si muovevano folle di individui gai, che indossavano abiti chiari e luminosi e soffiavano in corni dal suono delicato. Una chiatta carica di cuscini di seta, mossa da un'enorme vela color fiordaliso, passò lentamente oltre. Le lampade fissate a prua e a poppa illuminavano il ponte affollato di gente che si diverti-

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va: alcuni cantavano e suonavano il liuto, altri bevevano. Cugel provò un desiderio quasi doloroso di condividere la loro

gioia. Si sollevò faticosamente in ginocchio e chiamò. Coloro che si stavano divertendo deposero gli strumenti e lo fissaro-no, ma ormai la chiatta era passata oltre, trascinata dalla grande vela azzurra. Poi la città tremolò e svanì, lasciando sol-tanto il buio cielo notturno.

Cugel guardò la notte: la gola gli doleva di un'angoscia che non aveva mai conosciuto prima di quel momento. Con sua grande sorpresa, si trovò ritto sulla battigia. Accanto a lui c'e-rano Subucule, Garstang e Casmyre. Si scrutarono reciproca-mente attraverso l'oscurità, ma non si scambiarono neppure una parola. Ritornarono tutti verso la parte più alta della spiaggia, dove poco dopo si riaddormentarono sulla sabbia.

Per tutto il giorno seguente la conversazione fu ridotta al mi-nimo; anzi, i quattro superstiti si evitavano, come se ciascuno desiderasse rimanere solo con i propri pensieri. Di tanto in tanto, l'uno o l'altro guardava di malavoglia verso il sud, ma nessuno sembrava deciso a lasciare quel luogo, nessuno parlò di partenza.

Il giorno trascorse mentre i pellegrini riposavano in preda ad un mezzo torpore. Venne il tramonto, e poi la notte, ma nessu-no cercò di dormire.

A sera, inoltre, la città fantasma ricomparve, e quella notte si stava svolgendo una grande festa. Fuochi d'artificio meravi-gliosamente complessi fiorivano nel cielo: trine, reti, girandole rosse e verdi e azzurre e argentee. Lungo la passeggiata sfilò un corteo, con fanciulle-fantasma vestite di abiti iridescenti, musici-fantasma in ampie vesti rosse e arancione, e arlecdrini-fantasma caprioleggianti. Per ore ed ore il rumore della baldo-ria alitò sul mare, e Cugel si avanzò fino a quando l'acqua gli arrivò al ginocchio, e rimase a guardare finché la festa non si acquietò e la città scomparve. Quando si voltò gli altri lo segui-rono, risalendo il pendio della spiaggia.

Il giorno seguente erano tutti debolissimi per la fame e per la sete. Con voce gracchiante, Cugel mormorò che era necessario proseguire. Garstang annuì e disse, in tono rauco: «Al tempio di Gilfig!»

Subucule annuì a sua volta. Le sue guance, un tempo gras-

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socce, erano incavate; i suoi occhi opachi e velati. «Sì,» gemette. «Abbiamo riposato. Ora dobbiamo andare!» Casmyre approvò, stordito. «Al tempio!» Ma nessuno si mosse per avviarsi verso sud. Cugel vagò sulla

spiaggia e si sedette per aspettare che scendesse la sera. Guardando sulla destra, vide uno scheletro umano in una posa non dissimile dalla sua. Con un brivido, si volse verso sinistra, e lì c'era un secondo scheletro, corroso dal tempo e dalle sta-gioni, e più oltre ve ne era un terzo, ridotto a un mucchio d'os-sa.

Cugel si alzò in piedi e corse vacillando per raggiungere gli al-tri.

«Presto!» gridò. «Finché ce ne resta ancora la forza! A sud! Venite, prima che ci tocchi di morire come coloro le cui ossa giacciono lassù!»

«Sì, sì,» mormorò Garstang. «Al tempio.» E si sollevò in piedi, pesantemente. «Venite!» gridò agli altri. «Andiamo a sud!»

Subuoule si rialzò, ma Casmyre, dopo un debole tentativo, ri-cadde.

«Io resto qui,» disse. «Quando arriverete al tempio, intercedete per me presso Gilfig: spiegategli che l'incantesimo ha vinto la forza del mio corpo.»

Garstang avrebbe voluto rimanere a supplicarlo, ma Cugel gli indicò il Sole che stava tramontando.

«Se attendiamo l'oscurità, siamo perduti! Domani le nostre forze si saranno esaurite!»

Subucule prese Garstang per il braccio. «Dobbiamo andarcene prima di notte,» mormorò. Garstang rivolse un'ultima supplica a Casmyre. «Mio amico e compagno, raduna le tue forze. Siamo venuti in-

sieme dalla lontana Valle di Pholgus, abbiamo disceso con la zattera lo Scamander, e abbiamo attraversato lo spaventoso deserto! Dobbiamo dunque separarci prima di aver raggiunto il tempio?»

«Vieni al tempio!» gracidò Cugel. Ma Casmyre distolse il viso. Cugel e Subucule trascinarono

via Garstang, sulle cui guance avvizzite scorrevano le lacrime; procedettero barcollando verso sud, lungo la spiaggia, disto-

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gliendo lo sguardo dalla liscia superficie del mare. Il vecchio Sole tramontò, sollevando un ventaglio di colore.

Un gruppo di nuvolette altissime e disperse splendevano gialle su di uno strano cielo color bronzo. Apparve la città, e non era mai sembrata tanto magnifica, con le guglie che rifrangevano la luce del tramonto. Lungo la passeggiata camminavano gio-vani e fanciulle dai capelli ornati di fiori, e qualche volta si sof-fermavano a guardare i tre che procedevano lungo la spiaggia. Il tramonto svanì: la città si accese di luci bianche, e la musica venne a refoli sull'acqua. Per molto tempo seguì i tre pellegrini, e finalmente svanì e morì in lontananza. Il mare si stendeva nero a occidente, e rifletteva gli ultimi scintillii purpurei ed arancione.

Poco dopo i pellegrini trovarono un fiumicello d'acqua dolce, vicino al quale crescevano bacche e prugne selvatiche; si fer-marono per passarvi la notte. La mattina dopo, Cugel prese un pesce con una trappola e catturò alcuni granchi lungo la spiag-gia. Rafforzati, i tre proseguirono verso sud, cercando sempre ansiosamente con lo sguardo il tempio, che ormai Cugel quasi si aspettava di vedere, tanto era intenso il sentimento di Gar-stang e di Subucule. Invece, via via che i giorni passavano, fu proprio il devoto Subucule che incominciò a disperare, a met-tere in dubbio la sincerità dell'ordine di Gilfig, a discutere le virtù essenziali dello stesso Gilfig.

«Che cosa si è guadagnato con questo terribile pellegrinaggio? Gilfig dubita forse della nostra devozione? Certamente ci sia-mo dimostrati buoni fedeli recandoci a presenziare i Riti Lu-strali: perché ci ha mandati tanto lontano?»

«Le vie di Gilfig sono imperscrutabili,» disse Garstang. «Siamo arrivati fin qui, ed ora dobbiamo continuare a cercare!»

Subucule si fermò di colpo e si voltò a guardare nella direzio-ne dalla quale erano venuti.

«Ecco la mia proposta. Erigiamo, in questo punto, un altare di pietra, che diverrà il nostro tempio: poi celebriamo un rito. In questo modo avremo esaudito il volere di Gilfig, e potremo ri-volgere nuovamente il volto verso il nord, verso il villaggio do-ve risiedono i nostri compagni. Là, con un po' di fortuna, po-tremo ricatturare le nostre bestie da soma, provvederci di provviste, e avviarci attraverso il deserto: forse riusciremo a

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ritornare a Erze Damath.» Garstang esitò. «La tua proposta è indubbiamente degna di attenzione. Tut-

tavia...» «Una barca!» gridò Cugel. Indicò il mare, dove a mezza lega

dalla riva galleggiava una barca da pesca, spinta da una vela quadrata che pendeva da un albero altissimo. La barca passò davanti ad un promontorio che sorgeva una lega più a sud dal punto in cui si trovavano i pellegrini, e Cugel indicò un villag-gio sulla riva.

«Magnifico!» dichiarò Garstang. «Può darsi che gli abitanti siano Gilfigiti, e che in quel villaggio sorga il tempio! Prose-guiamo!»

«È possibile che la conoscenza dei nostri sacri testi sia gittata così lontano?»

«La nostra parola d'ordine sarà 'prudenza',» dichiarò Cugel. «Dobbiamo effettuare una ricognizione con grande cura.» Guidò i compagni attraverso una foresta di tamerici e di larici, fino a un punto dal quale potevano guardare il villaggio che 'giaceva ai loro piedi. Le capanne erano costruite rozzamente con pie-tre nere, e ospitavano una popolazione dall'aspetto feroce. Ciocche di ispidi capelli neri incorniciavano le facce rotonde color argilla; ispide setole nere crescevano come spalline sulle loro spalle. Dalle bocche dei maschi e delle femmine sporgeva-no zanne affilate, e tutti parlavano in duri, aspri suoni rin-ghianti. Cugel, Garstang e Subucule arretrarono con estrema prudenza e, nascosti tra gli alberi, discussero a bassa voce.

Questa volta, Garstang era scoraggiato, e pensava che non ci fosse più nulla da sperare.

«Sono esausto, spiritualmente e non solo fisicamente. Forse morirò qui.»

Subucule guardò verso il nord. «Io ritorno, per tentare la sorte nei Deserto d'Argento. Se tut-

to andrà bene, ritornerò a Erze Damath, o addirittura alla Val-le di Pholgus.»

Garstang si rivolse a Cugel. «E tu che farai, visto che il tempio di Gilfig è introvabile?» Cugel indicò un molo al quale era attraccato un certo numero

di barche.

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«La mia destinazione è Almeria, al di là del Mare di Songan. Mi ripropongo di requisire una barca e di fare vela verso occi-dente.»

«Allora ti dico addio,» fece Subucule. «Garstang, tu vieni con me?»

Garstang scosse il capo. «È troppo lontano. Morirei sicuramente nel deserto. Attra-

verserò il mare insieme a Cugel e porterò la Parola di Gilfig alle genti di Almeria.»

«Allora, addio anche a te,» disse Subucule. Poi si voltò in fret-ta, per nascondere l'emozione che gli traspariva sul volto, e si avviò verso nord.

Cugel e Garstang seguirono con lo sguardo la figura che rim-piccioliva in distanza, fino a quando scomparve. Poi si volsero a studiare il molo. Garstang aveva diversi dubbi.

«Le barche mi sembrano robuste e in grado di attraversare il mare, ma 'requisire' significa 'rubare': un'azione specificamen-te proibita da Gilfig.»

«Non esiste la minima difficoltà,» disse Gugel. «Metterò delle monete d'oro sul molo, per un valore corrispondente a quello della barca.»

Garstang acconsentì, ancora incerto. «E il cibo e l'acqua?» «Dopo esserci procurati la barca, procederemo lungo la costa,

fino a quando potremo trovare provviste: allora navigheremo verso occidente.»

Garstang approvò, e insieme incominciarono ad esaminare le barche, confrontandole tra loro. La scelta definitiva cadde su una robusta imbarcazione lunga dieci o dodici passi, ampia e con una piccola cabina.

Al crepuscolo, scesero furtivamente sul molo. Tutto era si-lenzio; i pescatori erano ritornati al villaggio. Garstang salì a bordo della barca e riferì che era in perfetto ordine. Cugel in-cominciò a staccare gli ormeggi, e proprio in quel momento dall'estremità del molo venne un grido selvaggio, e una dozzina di robusti individui si fecero avanti a passo deciso.

«Siamo perduti!» gridò Cugel. «Fuggi, se vuoi salvarti, o me-glio, gettati in acqua!»

«Impossibile!» dichiarò Garstang. «Se dobbiamo morire, mori-

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rò con tutta la dignità di cui sono capace!» E salì sul molo. Io pochi attimi si trovarono circondati da una folla di indivi-

dui di ogni età, attirati da quel frastuono. Uno degli anziani del villaggio 'li interrogò con voce severa.

«Che cosa fate qui? Perché vi aggirate furtivamente sul no-stro molo, e vi preparate a rubare una barca?»

«Per una ragione semplicissima,» disse Cugel. «Vogliamo at-traversare il mare.»

«Cosa?» ruggì l'anziano. «Com'è possibile? La barca non con-tiene né viveri né acqua, ed è attrezzata in modo insufficiente. Perché non vi siete rivolti a noi e non ci avete rivelato le vostre esigenze?»

Cugel sbatté le palpebre e scambiò un'occhiata con Garstang. Poi alzò le spalle.

«Sarò sincero. Il vostro aspetto ci ha spaventati tanto che non abbiamo osato.»

Quell'osservazione suscitò divertimento e sorpresa tra la fol-la. Il portavoce disse: «Siamo molto perplessi: ti prego di spie-garti meglio.»

«Benissimo,» disse Cugel. «Posso essere assolutamente since-ro?»

«Certamente!» «Certe caratteristiche del vostro aspetto ci appaiono terribili

e barbariche: le vostre zanne sporgenti, la criniera nera che circonda le vostre facce, i suoni cacofonici della vostra parla-ta... tanto per citare qualche esempio.»

Gli abitanti del villaggio risero, increduli. «Che sciocchezza!» gridarono. «I nostri denti sono lunghi af-

finché possiamo dilaniare i pesci di cui ci nutriamo. Portiamo i capelli così per tener lontano un insetto molto fastidioso, e poi-ché siamo tutti un po' sordi, è possibile che abbiamo la tenden-za a urlare. Ma siamo essenzialmente un popolo mite e genti-le.»

«Esattamente,» disse l'anziano. «E per dimostrarvi che questo è vero, domani caricheremo di provviste la nostra barca mi-gliore e vi lasceremo partire con i nostri auguri. Questa notte ci sarà una festa in vostro onore!»

«Ecco un villaggio in cui regna la vera santità,» dichiarò Gar-stang. «Non siete per caso adoratori di Gilfig?»

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«No. Noi ci prostriamo davanti al dio-pesce Yob, il quale risul-ta efficiente quanto qualsiasi altro. Ma venite, saliamo al vil-laggio. Dobbiamo fare i preparativi per la festa.»

Salirono una scala intagliata nella roccia del promontorio, che portò ad uno spiazzo illuminato da una dozzina di torce fiammeggianti. L'anziano indicò una baracca che aveva l'aria più comoda delle altre.

«Ecco dove passare la notte: io riposerò altrove.» Garstang si lasciò nuovamente indurre ad elogiare la benevo-

lenza dei pescatori, e l'anziano chinò il capo. «Noi cerchiamo di raggiungere un'unità spirituale. Anzi, sim-

boleggiamo questo ideale nel piatto principale dei nostri ban-chetti cerimoniali.» Si voltò e batté le mani. «Prepariamoci!»

Un grande calderone venne appeso ad un treppiede: vennero portati un ceppo e una mannaia, e ciascuno degli abitanti del villaggio, sfilando davanti al ceppo, si tagliò un dito e lo gettò nel grande paiolo.

L'anziano spiegò: «Con questo semplice rito, al quale natu-ralmente siete invitati a prendere parte anche voi, noi dimo-striamo la nostra eredità comune e la nostra reciproca dipen-denza. Venite, mettiamoci in fila.» E Cugel e Garstang non eb-bero altra scelta che di tagliarsi un dito e gettarlo nel caldero-ne insieme agli altri.

La festa continuò per buona parte della notte. La mattina do-po, gli abitanti del villaggio mantennero la promessa. Venne scelta una imbarcazione particolarmente robusta e manegge-vole, che fu caricata di provviste, compresi gli avanzi del ban-chetto della notte precedente.

Gli abitanti si raccolsero sul molo. Cugel e Garstang espresse-ro la loro gratitudine, poi Cugel issò la vela e Garstang staccò gli ormeggi. Il vento gonfiò la vela e l'imbarcazione si mosse sul Mare di Songan. Poco a poco, la spiaggia si fuse con la foschia della lontananza, e i due rimasero soli, cinti da ogni parte dal nero luccichio metallico dell'acqua.

Venne il meriggio, e la barca continuò a muoversi in quella desolazione elementare: acqua sotto, aria al di sopra, silenzio in tutte le direzioni. Il pomeriggio fu lungo e torpido, irreale come un sogno; e la malinconica grandiosità del tramonto ven-ne seguita da un crepuscolo del colore del vino annacquato.

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Il vento sembrò rinfrescare, e per tutta la notte vennero spinti verso occidente. All'alba il vento cadde e, con le vele che penzolavano oziose, Cugel e Garstang dormirono.

Il ciclo si ripeté per otto volte. Al mattino del nono giorno si vide, a prua, una bassa costa. Verso la metà del pomeriggio, i due guidarono la barca attraverso una dolce risacca, in dire-zione di un'ampia spiaggia bianca.

«Allora questa è Almeria?» domandò Garstang. «Credo di sì,» rispose Cugel. «Ma non saprei esattamente quale

zona sia questa. Azonomei può trovarsi a nord, a ovest o a sud. Se quella foresta laggiù è la stessa che copre l'Almeria Orienta-le, faremo bene ad aggirarla, perché ha una pessima reputa-zione.»

Garstang indicò la spiaggia. «Guarda: un altro villaggio. Se i suoi abitanti sono simili a

quelli dell'altra sponda, ci aiuteranno sicuramente. Vieni, esponiamo le nostre esigenze.»

Cugel esitò. «Sarebbe più opportuno effettuare una ricognizione, come

l'altro volta.» «E a quale scopo?» chiese Garstang. «L'altra volta ci siamo in-

gannati, e ci siamo resi ridicoli.» Si avviò per primo lungo la spiaggia, in direzione del villaggio. Nell'avvicinarsi poterono vedere gli abitanti che si muovevano sulla piazza centrale: erano individui aggraziati, dai capelli d'oro, che parlavano tra loro con voci dolci come una musica.

Garstang avanzò lietamente, aspettandosi un'accoglienza an-cora più espansiva di quella che aveva ricevuta sull'altra sponda: ma gli abitanti del villaggio accorsero e li catturarono con le reti.

«Perché fate questo?» gridò Garstang. «Siamo stranieri, e non abbiamo intenzione di farvi del male!»

«Voi siete stranieri: appunto,» parlò il più alto degli abitanti del villaggio. «Noi adoriamo quel dio inesorabile che è conosciu-to con il nome di Dangott. Gli stranieri sono automaticamente eretici, e li gettiamo in pasto alle scimmie sacre.» Incomincia-rono a trascinare Cugel e Garstang sui sassi acuminati della spiaggia, mentre i bellissimi bambini del villaggio danzavano allegramente tutto intorno.

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Cugel riuscì ad estrarre il tubo che aveva ottenuto da Voynod e lanciò il concentrato azzurro contro gli abitanti del villaggio. Sconvolti, quelli caddero al suolo e Cugel riuscì a districarsi dalla rete. Sguainando la spada, balzò avanti per liberare an-che Garstang, ma ormai i loro avversari si erano già ripresi. Cugel si servì nuovamente del tubo, e gli abitanti del villaggio fuggirono, sbigottiti e doloranti.

«Vai, Cugel!» disse Garstang. «Io sono vecchio, ho poca vitali-tà. Dattela a gambe: cerca di salvarti, con i miei migliori augu-ri.»

«Questo sarebbe normalmente il mio impulso,» riconobbe Cugel. «Ma costoro hanno suscitato in me una generosa follia: perciò liberati dalla rete: ci ritireremo insieme.» Ancora una volta seminò il panico con la proiezione azzurra, mentre Gar-stang si liberava: poi, insieme, i due si misero a correre lungo la spiaggia.

Gli abitanti del villaggio li inseguirono con gli arpioni. Il pri-mo colpo trafisse la schiena di Garstang, che cadde senza un lamento. Cugel si voltò di colpo e puntò il tubo, ma l'incantesi-mo si era esaurito, e apparve soltanto una limpida essudazio-ne. Gli abitanti del villaggio alzarono le braccia per scagliare una seconda raffica di arpioni; Cugel gridò una maledizione, schivò i colpi, e gli arpioni andarono a piantarsi nella sabbia della spiaggia.

Cugel agitò il pugno ancora una volta, poi si lanciò in una cor-sa folle e si rifugiò nella foresta.

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VI

LA GROTTA NELLA FORESTA

Cugel procedeva attraverso la Vecchia Foresta, con passi fur-tivi, soffermandosi spesso per ascoltare, nel caso sentisse un fuscello che si spezzava, un passo smorzato o addirittura l'esa-lazione di un respiro. La sua prudenza, sebbene rallentasse la marcia, non era né teorica né priva di praticità: altri vagavano nella foresta con ansie e bramosie in netto contrasto con le sue. Una sera, al crepuscolo, aveva dovuto fuggire davanti a un paio di Morti Vivi; un'altra volta s'era fermato appena in tempo sul limitare di uno spiazzo dove stava un leucomorfo; da allora Cugel era diventato più diffidente e furtivo che mai; passava da un albero all'altro, sbirciando ed ascoltando, sfrecciando ful-mineo negli spazi aperti con un'andatura stranamente delica-ta, come se il contatto con il suolo gli facesse male ai piedi.

Verso la metà del pomeriggio giunse in una piccola radura umida circondata da mandouar neri, alti e solenni come mona-ci incappucciati. Qualche raggio rossiccio che scendeva obli-quamente nello slargo illuminava un unico albero contorto di cotogno, al quale era appesa una striscia di pergamena. Te-nendosi al riparo delle ombre, Cugel studiò a lungo la radura, poi avanzò e prese la pergamena. Il messaggio era scritto a let-tere contorte:

Zaraides il Saggio fa un'offerta generosa! Chi trova questo messaggio può chiedere e ottenere un'ora di consultazione assolutamente gratuita. In una collinetta vicina si apre una grotta : il Saggio si trova lì dentro.

Gugel studiò la pergamena, perplesso. C'era un grosso pro-blema: perché mai Zaraides doveva dispensare la sua saggezza con tanta munificenza? Ben di rado ciò che veniva promesso come gratuito lo era veramente: in un modo o nell'altro, la

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Legge dell'Equità doveva prevalere. Se Zaraides offriva consi-glio, escludendo la possibilità di un altruismo assoluto, si aspettava certamente qualcosa in cambio; come minimo, un incremento della stima che provava per se stesso, oppure la conoscenza di eventi lontani, oppure un'attenzione educata mentre lui declamava qualche ode, o qualcosa del genere. Cugel rilesse il messaggio, e il suo scetticismo aumentò. Avrebbe gettato via la pergamena, se non avesse avuto un au-tentico, urgente bisogno d'informazioni: in particolare, notizie sulla strada più sicura per giungere alla dimora di Iucounu, e un metodo infallibile per ridurre all'impotenza il Mago Ridente.

Cugel si 'guardò in giro, cercando la collinetta alla quale allu-deva Zaraides. Al ci là della radura, il terreno sembrava salire; e alzando gli occhi, Cugel notò rami nodosi e fogliame fitto, più in su, come se un certo numero di daobado crescesse su di un'altura.

Con la massima cautela, Cugel procedette attraverso la fore-sta, e all'improvviso venne fermato da una grande roccia grigia coronata da alberi e da liane: senza dubbio era la collinetta in questione.

Cugel si fermò, tormentandosi il mento e scoprendo i denti in una smorfia di dubbio. Rimase in ascolto: c'era un silenzio as-soluto, totale. Mantenendosi nell'ombra, continuò a procedere, girando attorno alla collinetta, e finalmente trovò la grotta: un'apertura arcuata nella roccia, alta come un uomo, larga quanto le sue braccia protese. In alto pendeva un cartello scrit-to a caratteri rozzi:

ENTRATE : TUTTI SONO I BENVENUTI!

Cugel si guardò intorno. Nella foresta non si vedeva e non si udiva nulla. Avanzò cautamente di qualche passo, sbirciò nella caverna, e vi trovò solo l'oscurità.

Indietreggiò. Nonostante il cordiale invito dell'insegna, non aveva nessuna voglia di spingersi più avanti. Si accovacciò e osservò intento la grotta.

Passarono quindici minuti. Cugel cambiò posizione: e in quel momento vide un uomo che arrivava, dalla sua destra, con una cautela di poco inferiore alla sua. Il nuovo arrivato era di me-dia statura e indossava abiti rozzi da contadino; calzoni grigi,

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una blusa color ruggine, un berretto marrone con la visiera spinta avanti. Aveva la faccia rotonda, volgare, con un naso rincagnato, gli occhi piccoli e distanti, il mento massiccio co-perto da un'ispida peluria fosca. Teneva stretta in mano una pergamena simile a quella che aveva trovato Cugel.

Cugel si alzò in piedi. Il nuovo venuto si fermò, poi venne più avanti.

«Sei tu Zaraides? Sappi che io sono Fabeln, l'Erborista: cerco una ricca distesa di porri selvatici. Inoltre, mia figlia intristi-sce e languisce, e non vuole più portare i panieri; perciò...»

Cugel alzò una mano. «Ti inganni: Zaraides sta nella sua grotta.» Fabeln socchiuse gli occhi, diffidente. «E allora, tu chi sei?» «Io sono Cugel: e come te, sono venuto a cercare illuminazio-

ne.» Fabeln annuì, con l'aria di avere compreso perfettamente. «Hai consultato Zaraides? È esatto e attendibile? È vero che

non chiede compensi, come dice l'annuncio?» «Tutto vero, in ogni particolare,» disse Cugel. «Zaraides, che a

quanto pare è onnisciente, parla per la pura gioia di trasmette-re informazioni. Le mie perplessità sono state risolte.»

Fabeln lo scrutò attento. «E allora perché aspetti davanti alla grotta?» «Anch'io sono un erborista, e sto formulando nuove domande,

in particolare riguardo ad una vicina radura ricca di porri sel-vatici.»

«Davvero!» esclamò Fabeln, schioccando agitato le dita. «Formula la domanda con cura, e mentre tu studi bene le tue frasi, io entrerò e mi informerò per quanto riguarda il languore di mia figlia.»

«Come vuoi,» disse Cugel. «Però, se dovessi tardare... Sai, im-piegherò pochissimo tempo a formulare la mia domanda.»

Fabeln fece un gesto gioviale. «Prima che tu abbia finito, io sarò già uscito dalla grotta, poi-

ché sono un uomo svelto al punto di essere brusco.» Cugel s'inchinò. «In questo caso, vai pure.» «Sarò breve.» E Fabeln entrò nella grotta. «Zaraides?» chiamò.

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«Dov'è Zaraides il Saggio? Io sono Fabeln: desidero rivolgere alcune domande. Zaraides? Abbi la cortesia di farti vedere!» Poi la sua voce si smorzò. Cugel, che ascoltava attentamente, sentì una porta aprirsi e chiudersi, poi vi fu silenzio. Pensosa-mente, si dispose ad aspettare.

Passarono i minuti... e passò un'ora. Il Sole rosso scese nel cielo pomeridiano e passò dietro alla collinetta. Cugel cominciò a sentirsi irrequieto. Dov'era Fabeln? Inclinò il capo: di nuovo la porta che si apriva e si chiudeva? Sì, e quello era Fabeln: tutto a posto, allora!

Fabeln si affacciò all'imboccatura della grotta. «Dov'è Cugel l'Erborista?» Parlava con voce brusca e rude.

«Zaraides non vuole sedere al banchetto e non vuole discutere di porri, se non in termini generali, fino a quando non ti pre-senterai.»

«Un banchetto?» domandò Cugel, interessato. «La generosità di Zaraides arriva a tanto?»

«In verità sì; non hai notato la sala ornata di arazzi, le coppe scolpite, la zuppiera d'argento?» Fabeln parlava con una certa enfasi cupa che sorprese e sconcertò Cugel. «Ma vieni: ho fret-ta, e non voglio aspettare. Se hai già pranzato, ne informerò Zaraides.»

«Neppure per idea,» disse Cugel, dignitosamente. «Sarebbe un'umiliazione bruciante, per me, offendere Zaraides. Fammi strada: io ti seguirò.»

«Vieni, allora.» Fabeln si voltò; Cugel lo seguì nella grotta, do-ve le sue narici furono aggredite da un odore rivoltante. Si fermò.

«Mi sembra di notare un fetore... un fetore che mi colpisce spiacevolmente.»

«L'ho notato anch'io,» disse Fabeln. «Ma al di là di quella porta l'odore non c'è più!»

«Me lo auguro,» disse Cugel, in tono piccato. «Mi rovinerebbe l'appetito. Dunque, dove...»

Mentre parlava, venne travolto da piccoli corpi rapidi, dalla pelle umidiccia e impregnati di quell'odore che aveva trovato tanto detestabile. Ci fu un clamore di voci stridule; la spada e la borsa gli vennero strappate; una porta si aprì; e Cugel venne scaraventato in una bassa tana. Alla luce d'una vacillante

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fiamma gialla vide i suoi catturatori: erano esseri alti la metà di lui, dalla carnagione pallida e dalla faccia appuntita, con le orecchie sulla sommità del capo. Camminavano leggermente protesi in avanti, e le loro ginocchia sembravano avere la giun-tura in senso contrario, rispetto alle ginocchia dei veri uomini; i loro piedi, calzati di sandali, erano molto morbidi e flessibili.

Cugel si guardò attorno sbalordito. Vicino a lui stava rannic-chiato Fabeln, che lo guardava con odio misto ad una soddisfa-zione maliziosa. Solo adesso Cugel vide che una striscia metal-lica cingeva il collo di Fabeln, ed era fissata ad una lunga cate-na. All'estremità più lontana della tana stava rannicchiato un vecchio dai lunghi capelli bianchi, anche lui trattenuto da col-lare e catena. Mentre Cugel si guardava attorno, gli uominirat-ti gli strinsero una striscia di metallo attorno al collo.

«Fermi!» gridò, costernato. «Che cosa significa? Protesto con-tro questo trattamento!»

Gli uomini-ratti gli diedero una spinta e corsero via. Cugel vi-de le lunghe code squamose che pendevano dai deretani ap-puntiti e sporgevano in modo strano dai camici neri.

La porta si chiuse: i tre uomini rimasero soli. Cugel si rivolse indignato a Fabeln. «Tu mi hai imbrogliato: mi hai fatto catturare! Questa è una

colpa gravissima!» Fabeln fece udire una risata amara. «Non più grave dell'inganno in cui hai attirato me! A causa

del tuo trucco indegno, sono stato catturato, e perciò ho fatto in modo che neppure tu ti salvassi.»

«Questa è una malizia disumana!» ruggì Cugel. «Farò in modo che tu riceva la giusta punizione!»

«Bah,» fece Fabeln. «Non irritarmi con le tue lagnanze. Co-munque, non ti ho attirato nella grotta per pura malizia.»

«No? Hai un altro motivo perverso?» «È molto semplice: gli uomini-ratti sono molto astuti! Chiun-

que attiri altri due nella grotta, ottiene la libertà. Tu rappre-senti un punto a mio vantaggio: basta che fornisca un secondo prigioniero e sarò libero. Non è esatto, Zaraides?»

«Solo in senso lato,» rispose il vecchio. «Tu non puoi segnare quest'uomo sul tuo conto: se la giustizia fosse assoluta, tu e lui sareste invece sul conto mio, e io sarei libero: non sono state le

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mie pergamene ad attirarvi alla grotta?» «Alla grotta, sì, ma non dentro alla grotta!» dichiarò Fabeln.

«Questa è la distinzione che bisogna fare! Vi hanno contribuito anche gli uomini-ratti, e per questo non sei stato liberato.»

«In questo caso,» disse Cugel, «rivendico la tua cattura come punto a mio favore, poiché sono stato io a mandarti nella grot-ta, per controllare la situazione.»

Fabeln alzò le spalle. «È una faccenda che dovrai discutere con gli uomini-ratti.»

Aggrottò la fronte e sbatté gli occhi minuscoli. «E allora, perché non potrei accreditare me stesso sul mio conto? È una que-stione che vale la pena di chiarire.»

«No, no!» fece una voce stridula, che proveniva da una grata. «Noi contiamo soltanto le catture effettuate dopo il sequestro. Fabeln non va sul conto di nessuno: tuttavia ha un punto a suo favore, cioè la persona di Cugel. Zaraides non ha niente, inve-ce.»

Cugel si tastò il collare. «E se non riusciamo a procurare due prigionieri?» «Avete un mese di tempo: non di più. Se non ci riuscite entro

il mese, venite divorati.» Fabeln parlò in tono di freddo calcolo. «Credo di essere ormai praticamente libero. Mia figlia aspetta

a poca distanza da qui. All'improvviso, ha smesso di interes-sarsi dei porri selvatici, e di conseguenza è un peso morto per la mia casa. È giusto che io venga liberato grazie a lei.» E Fa-beln annuì con poderosa soddisfazione.

«Sarà interessante osservare i tuoi metodi.» dichiarò Cugel. «Dove si trova, esattamente, e come bisogna fare per attirarla qui?»

L'espressione di Fabeln divenne di colpo astuta e piena di rancore.

«Non ti dirò niente! Se vuoi segnare punti al tuo attivo, inven-ta tu stesso un sistema!»

Zaraides indicò una tavola su cui stavano strisce di perga-mena.

«Io lego messaggi persuasori a semi alati, che vengono poi li-berati nella foresta. È un metodo di utilità discutibile, perché attira i passanti fino all'ingresso della caverna, ma non oltre...

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Temo di avere ormai solo cinque giorni da vivere. Se avessi le mie pergamene, i miei in-folio, i miei testi! Quanti incantesimi, quanti incantesimi! Spaccherei da cima a fondo questa tana: convertirei ognuno di quegli uomini-ratti in una vampa di fuo-co verde. Punirei Fabeln per avermi defraudato... Uhmmmm... Il Giratore? Il Prurito Terribile di Lugwiler?»

«Anche l'Incantesimo dell'Incistamento Desolato ha i suoi so-stenitori,» suggerì Cugel.

Zaraides annuì. «È un'idea molto apprezzabile... Ma è un sogno vano: i miei

incantesimi mi sono stati strappati e portati in qualche luogo segreto.»

Fabeln sbuffò e voltò le spalle. Dalla grata venne un ammo-nimento stridulo.

«Rimpianti e scuse sono miseri surrogati per le catture che dovete segnare al vostro attivo. Emulate Fabeln! Lui vanta già una cattura e ne sta preparando un'altra! Questo è proprio il tipo d'uomo che preferiamo prendere!»

«L'ho catturato io!» affermò Cugel. «Non avete un minimo di onestà? Sono stato io a indurlo a entrare nella grotta: dovreb-be essere accreditato sul mio conto!»

Zaraides lanciò un grido di veemente protesta. «Neppure per idea! Cugel distorce la verità! Se ci fosse una

vera giustizia, tanto Cugel quanto Fabeln dovrebbero essere segnati a mio credito!»

«Tutto è come prima,» gridò la vocetta stridula. Zaraides alzò le mani e andò a scrivere le sue pergamene con

zelo furioso. Fabeln si aggobbì su uno sgabello e restò immerso in una placida riflessione. Cugel, strisciandogli vicino, sferrò un calcio a una gamba dello sgabello e Fabeln cadde sul pavi-mento. Si alzò di scatto e balzò verso Cugel, il quale gli scagliò contro lo sgabello.

«Ordine!» gridò la vocetta stridula. «Ordine! Altrimenti verre-te puniti!»

«Cugel ha rovesciato lo sgabello e mi ha fatto cadere!» si lagnò Fabeln. «Perché non viene punito lui?»

«È stato un puro caso,» ribatté Cugel. «Secondo me, questo irascibile Fabeln dovrebbe venire isolato per almeno due, o meglio tre settimane!»

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Fabeln incominciò a inveire, ma la voce stridula dietro la gra-ta ingiunse imparzialmente a tutti di fare silenzio.

Alla fine venne portato il cibo, una zuppa grossolana dall'odo-re ributtante. Dopo il pasto, furono tutti costretti a strisciare in una stretta tana ancora più bassa, dove vennero incatenati alla parete. Cugel piombò in un sonno inquieto, e fu svegliato da una voce che chiamava Fabeln attraverso la porta.

«Il messaggio è stato consegnato... è stato letto con grande at-tenzione.»

«Buone notizie!» esclamò la voce di Fabeln. «Domani sarò libe-ro!»

«Silenzio!» gracchiò Zaraides dall'oscurità. «Di giorno devo scrivere pergamene perché tutti, tranne me, ne traggano bene-ficio, solo per essere tenuto sveglio la notte dalla tua abomine-vole allegria?»

«Ah-ah!» ridacchiò Fabeln. «Senti la voce dello stregone ineffi-ciente!»

«Ahimè! Purtroppo ho perduto i miei testi!» gemette Zarai-des. «Altrimenti canteresti una canzone ben diversa!»

«E dove si trovano?» chiese cautamente Cugel. «In quanto a questo, domandalo a quei sudici muridi: sono

stati loro a rubarmeli.» Fabeln alzò la testa per protestare. «Avete intenzione di continuare a scambiarvi ricordi per tut-

ta la notte? Io voglio dormire.» Zaraides, infuriato, incominciò a rimbrottare Fabeln in tono

così violento che gli uomini-ratti corsero nella tana e lo trasci-narono via, lasciando soli Fabeln e Cugel.

La mattina dopo, Fabeln mangiò la sua zuppa con grande ra-pidità.

«E adesso,» disse, volgendosi verso la grata, «toglietemi il col-lare, affinché possa andare a chiamare la seconda delle mie vittime, poiché Cugel è la prima.»

«Bah!» mormorò Cugel. «Che infamia!» Gli uomini-ratti, senza badare alle proteste di Fabeln, gli

strinsero ancora più forte il collare, vi fissarono la catena e lo trascinarono via costringendolo a camminare a quattro zam-pe: e Cugel rimase solo.

Cercò di sollevarsi a sedere, ma la volta umida della tana gli

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premette sul collo: si lasciò scivolare di nuovo sul pavimento, puntellandosi sui gomiti.

«Maledetti ratti! Devo riuscire a fuggire! a differenza di Fa-beln, non posso contare sui miei familiari, e l'efficacia delle pergamene di Zaraides è discutibile... Tuttavia, è possibile che altri passino davanti alla grotta, come abbiamo fatto io stesso e Fabeln.» Si girò verso la grata, dietro la quale sedeva il sorve-gliante dagli occhi acutissimi. «Per reclutare i due prigionieri richiesti, voglio aspettare davanti alla grotta.»

«Questo è consentito,» annunciò il sorvegliante. «Naturalmen-te, la supervisione dovrà essere rigorosa.»

«La supervisione è comprensibile,» riconobbe Cugel. «Tutta-via, chiedo che mi vengano tolti il collare e la catena. Con una costrizione tanto evidente, anche l'individuo più credulo fuggi-rebbe via.»

«C'è qualcosa di vero in ciò che dici,» ammise il sorvegliante. «Ma allora, che cosa ti impedirebbe di dartela a gambe?»

Cugel fece udire una risata un po' forzata. «Ti sembro un tipo capace di tradire la fiducia? Inoltre, per-

ché mai dovrei fuggire, quando posso procurarmi facilmente molte catture a mio credito?»

«Prenderemo certi provvedimenti.» Un attimo dopo, un'orda di uomini-ratti entrò nella tana. Il collare venne tolto, poi la gamba destra di Cugel venne afferrata e un grosso ago d'argen-to gli trapassò la caviglia: poi, mentre Cugel gridava di dolore, l'ago venne fissato a una catena.

«Così la catena non si nota,» dichiarò uno degli uominiratti. «Adesso puoi metterti davanti alla grotta e attirare i passanti nel modo che preferisci.»

Gemendo ancora per le fitte, Cugel risalì strisciando le tane e si portò all'ingresso della caverna, dove Fabeln stava seduto, con la catena attorno al collo, in attesa dell'arrivo della figlia.

«Dove vai?» chiese insospettito. «Passeggio davanti alla grotta, per attirare i passanti e per

indurli a entrare.» Fabeln lanciò un sordo grugnito, e sbirciò tra gli alberi. Cugel andò a fermarsi davanti all'ingresso della grotta. Guar-

dò in tutte le direzioni, poi lanciò un richiamo melodioso. Non ottenne risposta, e incominciò a camminare avanti e in-

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dietro, mentre la catena tintinnava, urtando contro il suolo. Vi fu un movimento tra gli alberi, lo svolazzare di stoffa ver-

de e gialla: comparve la figlia di Fabeln, che portava un paniere e un'ascia. Quando vide Cugel si fermò, poi si avvicinò, esitan-te.

«Cerco Fabeln, il quale mi ha chiesto di portargli certe cose.» «Le prenderò io,» disse Cugel, tendendo la mano verso l'ascia,

ma gli uomini-ratti stavano in guardia e si affrettarono a tirar-lo di nuovo nella grotta.

«La ragazza deve mettere l'ascia su quella pietra, laggiù,» sibi-larono all'orecchio di Cugel. «Vai fuori e informala.»

Gugel tornò a uscire, zoppicando. La ragazza lo fissò, sbalor-dita.

«Perché eri schizzato indietro a quel modo?» «Te lo dirò,» fece Cugel, «ed è una faccenda molto strana: ma

prima devi deporre il paniere e l'ascia su quella roccia laggiù, dove arriverà fra poco il buon Fabeln.»

Dalla grotta venne un brontolio collerico di protesta, subito zittito.

«Che cos'era quel rumore?» chiese la ragazza. «Metti l'ascia dove ti ho detto, e ti farò sapere tutto.» La ragazza, perplessa, portò l'ascia e il paniere nel punto in-

dicato, poi tornò indietro. «Allora, dov'è Fabeln?» «Fabeln è morto,» disse Cugel. «E del suo corpo si è imposses-

sato uno spirito maligno; non dargli ascolto in nessun caso: questo è il mio avvertimento.»

Sentendo queste parole Fabeln lanciò un gran gemito e chia-mò dalla grotta.

«Quest'uomo mente, mente! Vieni qui, nella grotta!» Cugel alzò una mano per fermare la ragazza. «No, assolutamente! Sii cauta!» La ragazza sbirciò, impaurita e meravigliata, verso la grotta,

dove apparve in quel momento Fabeln, che faceva gesti impa-zienti. La ragazza indietreggiò.

La ragazza scosse il capo e Fabeln, in preda al furore, cercò di 'liberarsi dalla catena. Gli uomini-ratti si affrettarono a trasci-narlo nell'ombra, e Fabeln si oppose con tanto vigore che quelli furono costretti a ucciderlo ed a trascinare il suo corpo nelle

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tane. Cugel ascoltò attentamente, poi si rivolse alla ragazza e fece

un cenno con il capo. «Tutto a posto, ora. Fabeln mi ha affidato alcuni oggetti pre-

ziosi: se vuoi entrare nella grotta, li consegnerò a te.» La ragazza scosse il capo sbalordita. «Fabeln non possedeva nulla di prezioso!» «Abbi la bontà di esaminare gli oggetti.» Cugel le indicò corte-

semente la grotta. La ragazza si fece avanti, guardò all'interno, e immediatamente gli uomini-ratti l'afferrarono e la trascina-rono nella tana.

«Questo è un punto a mio vantaggio,» esclamò Cugel, «Non di-menticate di annotarlo!»

«Il punto è regolarmente segnato,» disse una voce dall'interno della grotta. «Ancora un'altra cattura e sarai libero.»

Per tutto il resto della giornata, Cugel camminò avanti e in-dietro davanti all'ingresso della grotta, guardando di qua e di là tra gli alberi, ma non vide nessuno. A sera venne trascinato di nuovo nella grotta e spinto nella tana più bassa, dove aveva trascorso la notte precedente. Adesso nella tana c'era la figlia di Fabeln. Nuda, piena di lividi, con gli occhi vacui, lo guardò fisso. Cugel tentò di parlarle, ma lei sembrava aver perduto la favella.

Venne portata la zuppa della sera. Mentre mangiava, Cugel scrutò di sottecchi la ragazza. Non era affatto brutta, benché fosse scompigliata e sporca. Cugel si trascinò più vicino, ma l'odore degli uomini-ratti era così forte da spegnere la sua libi-dine, e allora ritornò al suo posto.

Durante la notte, nella tana si udì un rumore furtivo: un grat-tare, un raschiare. Cugel, sbattendo insonnolito le palpebre, si sollevò su di un gomito, e vide che un pezzo del pavimento si sollevava lentamente, lasciando filtrare un filo di fumosa luce gialla che investì la ragazza. Cugel lanciò un urlo: nella tana si precipitarono gli uomini-ratti 'armati di tridenti, ma era troppo tardi: la ragazza era stata rubata.

Gli uomini-ratti erano molto incolleriti. Alzarono la pietra che era stata smossa, e urlarono nel varco maledizioni e insulti. Ne arrivarono altri portando secchi di sudiciume che versarono nel buco, aggiungendo altri vituperi. Uno di loro, irritatissimo,

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spiegò la situazione a Cugel. «Lì sotto vivono altri esseri: e appena possono ci defraudano

delle nostre prede. Un giorno o l'altro ci vendicheremo: la no-stra pazienza non è infinita! Questa notte dovrai dormire al-trove, perché non facciano una nuova sortita.» Staccò la catena di Cugel, ma in quel momento venne chiamato dagli altri che stavano cementando il buco nel pavimento.

Cugel si portò senza far rumore verso l'entrata, e quando l'at-tenzione di tutti fu distratta, scivolò nel passaggio. Racco-gliendo la catena, strisciò nella direzione in cui pensava si tro-vasse la superficie, ma quando incontrò un corridoio trasver-sale si confuse. La galleria prese a scendere e si strinse, pre-mendogli le spalle; poi diminuì anche d'altezza, schiacciandolo dall'alto, in modo che egli fu costretto a procedere contorcen-dosi, spingendosi con i gomiti.

Intanto, la sua fuga era stata scoperta: dietro di lui si levaro-no squittii di rabbia, mentre gli uomini-ratti correvano di qua e di là.

Il corridoio girò bruscamente, in un angolo così stretto che Cugel non riuscì a infilarvisi. Contorcendosi e spingendo, si spostò in una posizione diversa, e non riuscì più a muoversi. Espirò e, con gli occhi che stavano per schizzargli dalle orbite, si lanciò verso l'alto, issandosi in un corridoio più ampio. In una nicchia trovò una sfera-di-fuoco, e la prese.

Gli uomini-ratti si stavano avvicinando e strillavano ingiun-zioni. Cugel si lanciò in un corridoio laterale che dava in un magazzino. I primi oggetti sui quali si posò il suo sguardo furo-no la sua spada e la sua borsa.

Gli uomini-ratti si precipitarono dentro, armati di tridenti. Cugel colpì di punta e di taglio e li ricacciò indietro, fin nel cor-ridoio. Lì si raccolsero, sfrecciando avanti e indietro, lanciando stridule minacce contro Cugel. Di tanto in tanto, uno di loro correva avanti per digrignare i denti brandendo il tridente, ma quando Cugel ne ebbe uccisi due, gli altri si tirarono indietro per conferire tra loro a bassa voce.

Cugel ne approfittò per spingere alcune pesanti casse contro l'entrata, per concedersi un momento di tregua.

Gli uomini-ratti tornarono ad avanzare, scalciando e spin-gendo. Cugel infilò la lama attraverso una fenditura tra le cas-

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se, e subito si levò un gemito di dolore. Poi uno parlò. «Cugel, fuori, fuori! Siamo un popolo mite e non c'è in noi al-

cuna malizia. Hai già un punto al tuo attivo, e senza dubbio ben presto ne segnerai un altro, e così sarai libero. Perché crearci tanti fastidi? Non c'è ragione perché, in una situazione essen-zialmente spiacevole, non dobbiamo adottare un atteggiamen-to di cameratismo. Vieni fuori, dunque, e ti procureremo della carne per la zuppa di domattina.»

Cugel rispose educatamente. «Per il momento sono troppo sconvolto per poter pensare con

chiarezza. Vi ho sentito dire che avete intenzione di lasciarmi libero senza altre pretese o difficoltà?»

Nel corridoio vi fu una discussione bisbigliata, poi venne la risposta.

«In effetti, è stata fatta un'affermazione del genere. Perciò, in questo momento ti dichiariamo libero di andare e venire a tuo piacere. Sblocca l'entrata, getta la spada, e vieni fuori!»

«Quale garanzia potete offrirmi?» chiese Cugel, tendendo l'o-recchio verso l'entrata bloccata.

Si udirono alcuni striduli bisbigli, poi venne la risposta. «Non è necessaria nessuna garanzia. Ora ci ritiriamo. Vieni

fuori, passa per il corridoio, verso la libertà.» Cugel non rispose. Tenendo alta la sfera-di-fuoco, si voltò a

ispezionare il magazzino che conteneva una grande quantità di oggetti di vestiario, armi e utensili. Nel bidone che aveva spin-to contro l'entrata notò un gruppo di pergamene rilegate in pel-le. Sulla rilegatura di una di esse era scritto:

ZARAEDES IL MAGO Libro di appunti: attenzione!

Gli uomini-ratti tornarono a chiamarlo, con voci gentili. «Cugel, caro Cugel, perché non sei venuto fuori?» «Mi riposo; recupero le forze,» disse Cugel. Prese il volume, lo

sfogliò, e trovò un indice. «Vieni fuori, Cugel!» risuonò un comando più severo. «Abbia-

mo qui una pentola di vapore velenoso che ci proponiamo di scaricare nel rifugio in cui ti ostini a restare rinchiuso. Vieni fuori, o sarà peggio per te!»

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«Pazienza,» gridò Cugel. «Lasciatemi il tempo di riprendere fiato!»

«Intanto che riprendi fiato, noi prepariamo il pentolone di acido dove ci proponiamo di immergere la tua testa.»

«Va bene, va bene,» disse distrattamente Gugel, assorto nella lettura del libro. Si udì un rumore raschiante e un tubo venne spinto nel magazzino. Cugel lo afferrò e lo torse, in modo che puntasse verso il corridoio.

«Parla, Cugel!» risuonò l'ordine. «Vuoi venir fuori, o dobbiamo mandare nella camera un soffio di gas mortale?»

«Non ne siete capaci,» disse Cugel. «Mi rifiuto di uscire.» «Vedrai! Fate passare il gas!» Il tubo pulsò e sibilò: dal corridoio venne un grido di immensa

angoscia. Il sibilo cessò. Cugel, non trovando nel libro di appunti quello che cercava,

tirò fuori un grosso tomo dal bidone. Questo portava il titolo:

ZARAIDES IL MAGO Compendio di incantesimi — Attenzione!

Cugel lo aprì e lesse; trovò un incantesimo adatto, accostò la sfera-di-fuoco per scorgere meglio le sillabe attivanti. C'erano quattro righe di parole, trentun sillabe in tutto. Cugel se le im-presse a forza nel cervello, dove rimasero salde come pietre.

Un rumore alle sue spalle? Da un'altra porta, gli uominiratti entrarono nel magazzino. Erano tesi, con le bianche facce fre-menti, le orecchie abbassate, e avanzavano lentamente, con i tridenti levati, pronti a colpire.

Cugel li minacciò con la spada, poi cantilenò l'incantesimo conosciuto come Dentro-Fuori-e-Sopra, mentre gli uomini-ratti lo fissavano stravolti. Vi fu un tremendo rumore, un suono la-cerante, una spinta e una torsione convulsa, mentre i corridoi si piegavano, vomitando il loro contenuto nella foresta. Gli uo-mini-ratti correvano squittendo avanti e indietro, e c'erano an-che esseri bianchi dei quali Cugel non riuscì a distinguere l'en-tità, alla luce delle stelle. Gli uomini-ratti e le creature bianche si azzuffarono straziandosi ferocemente a vicenda, e la foresta si riempì di ringhi e di stridor di denti, di strilli acutissimi e di voci esili che si levavano in urla strazianti.

Cugel si allontanò senza far rumore, e nascosto in un cespu-

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glio di mirtilli attese che trascorresse la notte. Quando arrivò l'alba, ritornò cautamente alla collinetta, nella

speranza di impossessarsi del compendio e del libro di appunti di Zaraides. C'era una gran confusione, e molti minuscoli cada-veri, ma gli oggetti che cercava erano irreperibili. Controvo-glia, Cugel si allontanò, e subito s'imbatté nella figlia di Fabeln che stava seduta in mezzo alle felci. Quando le si avvicinò, lei strillò. Cugel strinse le labbra e scosse il capo con fare di di-sapprovazione. La condusse ad un vicino ruscello e cercò di la-varla, ma alla prima occasione la ragazza si divincolò e andò a nascondersi sotto ad una roccia.

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VII

LA DIMORA DI IUCOUNU

L'incantesimo conosciuto come Dentro-Fuori-e-Sopra era di derivazione così antica che la sua origine era ormai dimentica-ta. Uno sconosciuto Cavaliere delle Nuvole del Ventunesimo Eone aveva creato una versione arcaica; il semileggendario Basilio Blackweb l'aveva rifinita, secondo un procedimento proseguito poi da Veronifer il Mite, che vi aveva aggiunto una risonanza rafforzante. Archemand di Glaere aveva annotato quattordici delle sue pervulsioni; Phandaal l'aveva elencato nella categoria «A» o «Perfetta» del suo catalogo monumentale. E in quella forma era finito nel libro di appunti di Zaraides il Saggio, dove Cugel, murato dentro ad una collinetta, l'aveva trovato e l'aveva pronunciato.

Adesso, mentre frugava ancora una volta in mezzo ai detriti di ogni genere, dopo l'incantesimo, Cugel trovò oggetti dispara-tissimi: giubbetti, panciotti e mantelli; indumenti vecchi e nuo-vi; antichi tabarri; brache tagliate e controtagliate secondo la moda di Kauchique, o frangiate e ornate di tasselli nello stile della Vecchia Romarth, oppure pezzate e macchiate secondo le stravaganti usanze di Andromach. C'erano stivali e sandali di tutte le fogge: piume, pennacchi, emblemi e creste; vecchi utensili e armi rotte; braccialetti e gingilli; filigrane macchiate, cammei incrostati; gemme che Cugel non poté trattenersi dal raccogliere e che forse lo fecero indugiare, impedendogli di trovare ciò che cercava: i testi di Zaraides, che erano stati sparpagliati tutto intorno.

Cugel li cercò a lungo. Trovò ciotole d'argento, cucchiai d'avo-rio, vasi di porcellana, ossa rosicchiate e molti denti lucidi di vari tipi, che luccicavano come perle in mezzo alle foglie: ma non trovò i tomi e gli in-folio che avrebbero potuto aiutarlo a sconfiggere e sopraffare Iucounu, il Mago Ridente. Intanto l'es-

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sere che Iucounu gli aveva inflitto come coercizione, Firx, stringeva le sue membra sul fegato di Cugel. Alla fine, quest'ul-timo gli gridò: «Sto semplicemente cercando la strada più rapi-da per arrivare ad Azenomei: fra poco potrai raggiungere il tuo compagno nella vasca di Iucounu! Intanto stai calmo: hai tanta fretta, dunque?» A quelle parole Firx, riluttante, allentò la pressione.

Cugel si aggirò sconsolato avanti e indietro, guardando fra i rami e sotto le radici, aguzzando lo sguardo per sbirciare nei passaggi tra gli alberi, sferrando calci alle felci e ai muschi. Poi, alla base di un tronco d'albero, trovò quello che cercava: un buon numero di in-folio e di pergamene, radunati in un muc-chio ordinato. E sul tronco d'albero stava seduto Zaraides.

Cugel si fece avanti, le labbra strette per la delusione. Zarai-des lo scrutò con aria serena.

«Mi sembra che tu stia cercando qualche oggetto smarrito. Spero che non si tratti di una perdita grave.»

Cugel scrollò seccamente il capo. «Ho perduto alcuni oggetti di poca importanza. Lasciamoli

pure muffire in mezzo alle foglie.» «Assolutamente no!» dichiarò Zaraides. «Descrivimi ciò che

hai smarrito: io emetterò un'oscillazione esploratrice. Riavrai le tue cose in pochi istanti!»

Cugel insistette. «Non vorrei affliggerti per simili sciocchezze. Pensiamo ad al-

tre cose.» Indicò il mucchio di tomi, sui quali Zaraides, nel frat-tempo, aveva appoggiato i piedi. «Per fortuna le tue proprietà sono al sicuro.»

Zaraides annuì, con placida soddisfazione. «Tutto è a posto, adesso. Mi preoccupa esclusivamente lo

squilibrio che altera i nostri rapporti.» E alzò una mano, men-tre Cugel indietreggiava. «Non hai ragione di allarmarti: anzi, al contrario. Le tue azioni mi hanno salvato dalla morte: la Legge dell'Equità è stata sconvolta, e io devo trovare il mezzo per ricambiarti.» Lo stregone si pettinò la barba con le dita. «La ricompensa, purtroppo, dovrà essere pressoché simbolica. Po-trei anche realizzare tutti i tuoi desideri senza modificare con questo la posizione dei piatti della bilancia, tanto è grande il peso del servizio che mi hai reso, sia pure involontariamente.»

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Cugel si rasserenò alquanto, ma proprio in quel momento Firx, di nuovo spazientito, fece altre rimostranze. Stringendosi l'addome, Cugel gridò: «Per prima cosa, abbi la bontà di estrar-re l'essere che mi lacera le viscere: è un certo Firx.»

Zaraides inarcò le sopracciglia. «Che essere è?» «Un detestabile oggetto venuto da una stella lontana. Sembra

un groviglio, un intrico, una ragnatela di spine, aculei e chele bianche.»

«Non è affatto difficile,» disse Zaraides. «Questi esseri possono venire estirpati con un metodo molto semplice. Vieni, la mia abitazione non è molto lontana.»

Zaraides scese dal tronco d'albero, raccolse i suoi compendi e li lanciò in aria: tutti rimasero librati in alto, poi volarono ra-pidi al di sopra delle cime degli alberi e scomparvero alla vista. Cugel li guardò allontanarsi, tristemente.

«Ti meravigli?» domandò Zaraides. «È una cosa da nulla: è la procedura più semplice, che sventa le manovre dei ladri e dei grassatori. Andiamo: dobbiamo espellere quella creatura che ti causa tante sofferenze.»

Si avviò tra gli alberi. Cugel lo seguì; ma adesso Firx, renden-dosi conto in ritardo che la situazione non volgeva a suo van-taggio, fece una furiosa protesta. Cugel, piegandosi in due e spiccando balzi obliqui, riuscì a rincorrere vacillando Zaraides, il quale procedeva senza neppure voltarsi indietro.

La dimora di Zaraides era tra i rami di un enorme daobado. una scala saliva fino a un pesante ramo inclinato, che portava ad un portico rustico. Cugel si arrampicò su per la scala, salì sul ramo, ed entrò in una grande stanza quadrata. Il mobilio era semplice ma lussuoso. Le finestre guardavano sulla fore-sta, in tutte le direzioni: uno spesso tappeto a disegni neri, marroni e gialli copriva il pavimento.

Zaraides richiamò Cugel, con un cenno, nella sua stanza da lavoro.

«Elimineremo subito quella seccatura,» disse. Cugel lo seguì, incespicando, e ad un suo gesto si sistemò su

di un piedistallo di vetro. Zaraides portò uno schermo di strisce di zinco e lo collocò

dietro la schiena di Cugel.

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«Questo serve per far sapere a Firx che ha vicino uno strego-ne esperto: gli esseri della sua specie non sopportano lo zinco. E adesso, una semplice pozione: zolfo, acquastel, tintura di zy-che; certe erbe: bournade, hilp, cassa, anche se le erbe, forse, non sono essenziali. Bevi, se non ti spiace... Firx, esci! Esci, pa-rassita extraterrestre! Lascia la presa! O io spolvererò tutto l'interno del corpo di Cugel con lo zolfo e lo trapasserò con aste di zinco! Vieni fuori! Come? Devo irrorarti con l'acquastel, per farti uscire? Vieni fuori! Ritorna ad Achernar, meglio che puoi!»

A questo punto Firx lasciò andare rabbiosamente la sua pre-sa e uscì dal petto di Cugel: un groviglio di nervi e di tentacoli bianchi, ciascuno con il suo aculeo o la sua chela. Zaraides lo catturò, lo mise in un catino di zinco e lo coprì con una rete, egualmente di zinco.

Cugel, che aveva perduto i sensi, rinvenne e scorse Zaraides che serenamente affabile, stava aspettando il suo risveglio.

«Sei un uomo fortunato,» gli disse lo stregone. «Ho praticato il trattamento appena in tempo. Questi incubi malefici hanno la tendenza a estendere i tentacoli in tutto il corpo dell'ospite, fi-no a raggiungere il cervello: e allora tu e Firx sareste stati una cosa sola. Come mai sei stato infettato da un simile essere?»

Cugel ebbe una rapida smorfia di disgusto. «È stato grazie a Iucounu, il Mago Ridente. Lo conosci?» chie-

se, perché Zaraides aveva inarcato le sopracciglia. «Soprattutto per la sua fama di appassionato dell'umorismo e

del grottesco», rispose il saggio. «Non è altro che un buffone!» esclamò Cugel. «Per un torto

immaginario mi ha scaraventato nell'estremo settentrione del mondo, dove il Sole gira basso e non getta più calore di una lampada. Iucounu deve essersi divertito, ma adesso mi diverti-rò io! Tu mi hai proclamato la tua immensa gratitudine: perciò, prima di parlare di ciò che desidero soprattutto, ci prenderemo una adeguata vendetta su Iucounu.»

Zaraides annuì pensieroso e si passò le dita attraverso la barba.

«Ascolta il mio consiglio. Iucounu è un uomo vanitoso e su-scettibile. Il suo punto più vulnerabile è il suo amor proprio. Voltagli le spalle e vattene altrove! Questo atto di orgoglioso

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disprezzo costituirà una punizione più raffinata di qualunque altro fastidio che tu intendi procurargli.»

Cugel aggrottò la fronte. «Mi sembra una rappresaglia troppo astratta. Se vuoi avere

la bontà di evocare un demone, gli darò le istruzioni più oppor-tune, per quanto riguarda Iucounu. Allora la faccenda sarà si-stemata, e noi potremo discutere altre cose.»

Zaraides scosse il capo. «Non è tanto semplice. Iucounu, per quanto sia un tipo strano,

non si lascia mai cogliere di sorpresa. Scoprirebbe immedia-tamente chi ha ordinato l'aggressione, ed i rapporti di remota cordialità di cui abbiamo goduto fino a questo momento sareb-bero finiti.»

«Puah!» sbuffò Cugel. «Zaraides il Saggio teme dunque di ab-bracciare la causa della giustizia? Trema e si ritira di fronte a un individuo timido e vacillante come Iucounu?»

«Per dirla in una parola... sì,» disse Zaraides. «Da un momento all'altro il Sole può spegnersi. Non desidero trascorrere queste ultime ore scambiando scherzi con Iucounu, il cui umorismo è molto meno raffinato del mio. Perciò, ora, attendi. Fra un atti-mo dovrò concentrarmi su alcuni importanti doveri. Come ul-tima dimostrazione di gratitudine, ti trasferirò dovunque tu lo desideri. Dove vuoi andare?»

«Se questo è quanto hai di meglio da offrirmi, portami ad Azenomei, dove lo Xzan si congiunge con lo Scaum!»

«Sia come vuoi. Ma abbi la gentilezza di salire su quella peda-na. Tendi le mani così... Respira profondamente, e durante il passaggio non aspirare e non espirare... Sei pronto?»

Cugel assentì. Zaraides indietreggiò e pronunciò un incante-simo. Cugel si sentì strappare via, verso l'alto. Un attimo dopo il terreno toccò i suoi piedi: e si ritrovò a camminare sulla strada principale di Azenomei.

Trasse un profondo respiro. «Dopo tutte le prove, dopo tutte le vicissitudini, sono di nuovo

ad Azenomei!» Scrollando il capo, si guardò intorno. Gli antichi edifici, le terrazze affacciate sul fiume, il mercato: tutto era come prima. Non molto lontano c'era il chiosco di Fianosther. Gli voltò le spalle per non farsi riconoscere, e si allontanò.

«E adesso?» ruminò fra sé e sé. «Per prima cosa, abiti nuovi, e

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poi le comodità di una locanda, dove potrò soppesare tutti gli aspetti della situazione attuale. Quando qualcuno vuole ridere con Iucounu, deve preparare i suoi piani con grande cautela.»

Due ore dopo, lavato, sbarbato, rinfrescato e vestito di abiti nuovi neri, rossi e verdi, Cugel andò a sedersi nella sala comu-ne della Locanda del Fiume, davanti ad un piatto di salsicce al-le spezie e ad una fiasca di vino verde.

«Il problema del pareggiamento dei conti pone questioni di una delicatezza estrema,» rifletté. «Devo stare attento a quello che faccio!»

Versò il vino e mangiò parecchie salsicce. Poi aprì la borsa e ne trasse un piccolo oggetto avvolto accuratamente in un pez-zo di stoffa morbida: la lente viola che Iucounu voleva per ap-paiarla a quella che già era in suo possesso. Se la portò davanti all'occhio, ma si fermò bruscamente: avrebbe mostrato ciò che lo circondava in un'illusione tanto splendida che lui, probabil-mente, non avrebbe mai voluto toglierla. Tuttavia, mentre ne contemplava la superficie lucida, gli affiorò nella mente un piano così ingegnoso, così teoricamente efficace e nello stesso tempo così poco rischioso che abbandonò immediatamente la ricerca di altri progetti.

In sostanza, si trattava di un piano semplicissimo. Si sarebbe presentato a Iucounu e gli avrebbe consegnato la lente: o me-glio, gli avrebbe consegnato una lente dall'aspetto identico. Iu-counu l'avrebbe confrontata con quella che già possedeva, e per controllare l'efficacia del paio completo, inevitabilmente avrebbe guardato attraverso le due lenti. La discordanza fra la realtà e l'illusione gli avrebbe sconvolto il cervello e lo avrebbe lasciato indifeso; e allora Cugel avrebbe potuto prendere le mi-sure che riteneva più opportune.

C'era qualche difetto, nel piano? Cugel non riusciva a veder-ne. Se Iucounu avesse scoperto la sostituzione, Cugel doveva limitarsi a mormorare una scusa ed a consegnargli la vera len-te, acquietando così i sospetti del mago. Nel complesso, le pro-babilità di successo apparivano eccellenti.

Cugel finì tranquillamente le salsicce, ordinò una seconda fiasca di vino e osservò con piacere il panorama che si stende-va al di là dello Xzan. Non c'era bisogno di affrettarsi: anzi, quando si aveva a che fare con Iucounu, l'impulsività era un

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grave errore, come aveva già scoperto per esperienza persona-le.

Il giorno seguente, dopo aver riesaminato il suo piano e aver-lo trovato ancora una volta impeccabile, andò a far visita a un soffiatore di vetro che aveva la bottega sulle rive dello Scaum, una lega più a est di Azonomei, in un boschetto di svolazzanti bilibob gialli.

Il soffiatore di vetro esaminò la lente. «Un duplicato esatto, di forma e di colore identici? Non è cosa

da poco, riprodurre un viola così carico. È molto difficile lavo-rare un colore simile nel vetro: non c'è un colorante specifico. Bisogna cercare di indovinare e sperare di aver fortuna. Co-munque... preparerò un impasto. Vedremo, vedremo.»

Dopo diversi tentativi, produsse un vetro della sfumatura ri-chiesta, e ne ricavò una lente che, in apparenza, non si poteva distinguere da quella magica.

«Magnifico!» dichiarò Cugel. «E ora, quanto ti devo?» «Una lente di vetro viola come questa, la valuto cento terci,»

rispose con disinvoltura il soffiatore di vetro. «Cosa?» gridò indignato Cugel. «Ti sembro proprio un gonzo?

È un prezzo eccessivo.» Il soffiatore di vetro ripose utensili, crogioli e stampi, senza

mostrare interesse per l'indignazione di Cugel. «L'universo non è stabile. Tutto fluttua, segue cicli, fluisce e

defluisce: tutto è pervaso dalla mutabilità. I miei prezzi, che sono immanenti nel cosmo, seguono le stesse leggi e variano a seconda dell'ansia del cliente.»

Cugel indietreggiò, irritato, e il soffiatore di vetro allungò le mani e si impadronì di entrambe le lenti. Cugel esclamò: «Che cosa hai intenzione di fare?»

«Ributto il vetro nel crogiolo: che altro?» «E la lente che è mia?» «La conservo come ricordo della nostra conversazione.» «Fermo!» Cugel trasse un profondo respiro. «Potrei pagare il

tuo prezzo esorbitante se la nuova lente fosse trasparente e perfetta come quella vecchia.»

Il soffiatore di vetro esaminò prima l'una, poi l'altra. «Per me, sono identiche.» «E il fuoco?» insistette Cugel. «Guarda un po' attraverso tutte

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e due, e poi dimmi se sono davvero identiche!» Il soffiatore di vetro si accostò agli occhi le due lenti. Una mo-

strava una visione del Sopramondo, l'altra trasmetteva la vi-sione della Realtà. Stordito dalla discordanza, il soffiatore di vetro vacillò, e sarebbe caduto se Cugel, per proteggere le lenti, non lo avesse sostenuto, guidandolo verso una panca.

Prese le lenti, Cugel gettò sul banco da lavoro tre terci. «Tutto è mutabilità, e così i tuoi cento terci si sono ridotti a

tre.» Il soffiatore di vetro, troppo stordito per dare una risposta

coerente, mugolò e si sforzò di alzare la mano, ma Cugel uscì dalla bottega e si allontanò.

Ritornò alla locanda, indossò i suoi vecchi abiti, macchiati e lacerati dalle molte traversie, e si avviò lungo le rive dello Xzan.

Mentre camminava, riprovò fra sé e sé l'imminente confron-to, cercando di anticipare ogni possibile contingenza. Davanti a lui, la luce del sole scintillava attraverso alte torri a spirale di vetro verde: la dimora di Iucounu!

Cugel si fermò per levare lo sguardo verso quell'edificio ec-centrico. Quante volte, durante le sue peregrinazioni, aveva immaginato se stesso ritto in quel luogo, poco lontano da Iu-counu, il Mago Ridente!

Salì il lungo sentiero pavimentato di piastrelle marrone scu-ro, e ad ogni passo la tensione dei suoi nervi aumentava. Si av-vicinò alla porta principale, e vide, sul pesante pannello, un oggetto che la prima volta non aveva notato: un viso scolpito nel legno antico, un viso magro, dalle guance e dalle mascelle contratte, gli occhi sbarrati, le labbra ritratte, la bocca spalan-cata in un urlo di disperazione o forse di sfida.

Cugel alzò la mano per bussare, e sentì un gelo invadergli l'a-nima. Si ritrasse, di fronte a quello sparuto volto di legno, gi-randosi per seguire lo sguardo in quegli occhi ciechi: al di là dello Xzan, oltre le colline spoglie e indistinte, che si estende-vano ondulando in tutte le direzioni, fino a perdita d'occhio. Riconsiderò il suo piano e le azioni da intraprendere. C'era qualche pecca? Un pericolo per lui? Sembrava che non ne esi-stessero. Se Iucounu avesse scoperto la sostituzione, Cugel po-teva sempre dichiarare di essersi sbagliato e consegnargli la

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vera lente. C'era molto da guadagnare, con un rischio minimo! Cugel si voltò di nuovo e bussò alla pesante porta.

Passò un minuto. Lentamente, la porta si aprì. Ne uscì un flusso di aria fredda, carica di un odore amaro che Cugel non seppe identificare. La luce del Sole, scendendo obliquamente alle sue spalle, varcò la soglia e cadde sul pavimento di pietra. Cugel sbirciò incerto nel vestibolo, riluttante ad entrare senza un invito esplicito.

«Iucounu!» gridò. «Vieni qui, perché io possa entrare nella tua dimora! Non voglio più accuse ingiuste!»

Si udì un fruscio, un lento suono di passi. Da una stanza late-rale uscì Iucounu, e Cugel ebbe la sensazione che fosse cambia-to. La grande, molle testa gialla sembrava più ciondolante; le guance erano cadenti, il naso pendeva come una stalattite, il mento era poco più di una verruca sotto la grande bocca con-torta.

Iucounu portava un cappello quadrato, marrone, con gli an-goli rialzati, una blusa di lino marrone e nero, calzoni larghi di una pesante stoffa marrone scuro, ricamata di nero: un bell'a-bito che Iucounu portava senza eleganza, come se gli fosse estraneo e scomodo. E per la verità, formulò un saluto che a Cugel apparve molto strano.

«Bene, amico, qual è la tua proposta? Non imparerai mai a camminare sul soffitto con le mani.» E Iucounu si nascose la bocca con le mani, per celare un risolino.

Cugel inarcò le sopracciglia, sorpreso e dubbioso. «Non è questo il mio scopo. Sono venuto per una faccenda del-

la massima importanza: vale a dire, sono venuto a dirti che la missione da me intrapresa per tuo conto è conclusa in modo soddisfacente.»

«Magnifico!» gridò Iucounu. «Allora puoi consegnarmi le chia-vi dell'armadio del pane!»

«L'armadio del pane?» Cugel lo fissò, sbalordito. Iucounu era impazzito. «Io sono Cugel, che tu hai mandato a nord in. mis-sione. Sono ritornato con la lente magica che permette di ve-dere nel Sopramondo!»

«Ma certo, ma certo!» gridò Iucounu. «Brzm-szzst. Ho paura di non ricordare bene, in tante situazioni contrastanti; è tutto di-verso, adesso. Ma sii il benvenuto. Cugel, naturalmente! È tut-

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to chiaro. Sei andato e tornato! E come va l'amico Firx? Sta bene, spero? Ho tanto desiderato la sua compagnia! Un ottimo amico, Firx!»

Cugel annuì, con scarso fervore. «Sì, Firx è stato davvero un amico, una fonte inesauribile di

incoraggiamento.» «Magnifico! Entra! Devo provvedere ai rinfreschi. Che cosa

preferisci: sz-mzsnz o szk-zsm?» Cugel lanciò a Iucounu un'occhiata di traverso. Il suo com-

portamento era peggio che strano. «Non conosco i rinfreschi che mi offri, perciò ti ringrazio e

declino l'invito. Ma guarda! La magica lente viola!» E Cugel mostrò la copia di vetro che si era procurato solo poche ore prima.

«Magnifico!» dichiarò Iucounu. «Hai agito benissimo e le tue colpe, perché adesso ricordo tutto, dopo avere esaminato le varie circostanze... Le tue colpe, dicevo, sono cancellate. Ma dammi la lente! Devo provarla!»

«Certamente,» rispose Cugel. «Ti consiglio rispettosamente, perché tu possa apprezzare pienamente lo splendore del So-pramondo, di prendere la tua lente e di guardare simultanea-mente attraverso entrambe, Questo è l'unico metodo appro-priato.»

«È vero, verissimo! La mia lente... e adesso, dove l'ha nasco-sta quell'ostinato briccone?»

«Ostinato briccone?» chiese Cugel. «Qualcuno ha forse messo in disordine i tuoi oggetti preziosi?»

«Per così dire.» Iucounu rise sgangheratamente, e scalciò con entrambi i piedi, da un lato: ricadde con un tonfo pesante sul pavimento, e si rivolse allo sbalordito Cugel. «È la stessa cosa, e non ha più importanza, perché tutto deve traspirare nello schema mnz. Sì. Fra poco mi consulterò con Firx.»

«La volta scorsa,» disse paziente Cugel, «sei andato a prendere la lente in un armadietto di quella stanza laggiù.»

«Silenzio!» intimò Iucounu, in tono di improvvisa irritazione. E si rimise in piedi. «Szsz! So benissimo dove è riposta la lente. Tutto è perfettamente coordinato! Seguimi. Scopriremo subito l'essenza del Sopramondo!» Emise un raglio di risa smodate, e Cugel lo fissò, ancora più sbalordito.

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Iucounu, strascicando i piedi, si recò nella stanza indicata e ritornò con lo scrigno che conteneva la lente magica. Rivolse a Cugel un gesto impetuoso.

«Resta esattamente dove sei. Non ti muovere, se conosci Firx!»

Cugel si inchinò, obbediente. Iucounu estrasse la sua lente. «E adesso... quella nuova!» Cugel gli porse la lente di vetro. «Accostale tutte e due agli occhi, affinché tu possa godere la

piena gloria del Sopramondo!» «Sì! Sarà così!» Iucounu sollevò le due lenti e se le accostò agli

occhi. Cugel, che si aspettava di vederlo crollare parallizzato dalla discordanza, fece per prendere la corda che aveva porta-to con sé, per legare il mago privo di sensi; ma Iucounu non dimostrava neppure il minimo segno di turbamento. Sbirciò di qua e di là, gorgogliando una strana risatina.

«Splendido! Superbo! Una visione di puro piacere!» Si tolse le lenti e le ripose con cura nello scrigno. Cugel lo osservò, incu-pito.

«Sono molto soddisfatto,» dichiarò Iucounu, facendo un gesto sinuoso, con le braccia e le mani, che sorprese ancora di più Cugel. «Sì,» continuò il Mago Ridente, «tu hai agito bene, e l'in-sensata perversità della tua colpa ora è perdonata. Adesso non resta altro da fare che liberare il mio indispensabile Firx, e a questo scopo devo metterti in una vasca. Resterai immerso nel liquido adatto per circa ventisei ore, che forse potranno basta-re per indurre Firx a uscire.»

Cugel fece una smorfia. Come poteva ragionare con un mago che era non soltanto bizzarro e irascibile, ma anche scemo?

«Un'immersione del genere potrebbe avere conseguenze spia-cevoli per me,» osservò, cautamente. «È molto più saggio con-cedere a Firx un ulteriore periodo di spasso.»

Iucounu sembrò favorevolmente colpito da quel suggerimen-to, ed espresse la sua soddisfazione con una giga estremamen-te complicata, che eseguì con un'agilità straordinaria per un uomo che aveva gli arti corti e il corpo massiccio. Concluse la dimostrazione con un grande balzo in aria, e atterrò sul collo e sulle spalle, agitando braccia e gambe come uno scarafaggio rovesciato sul dorso. Cugel lo guardò affascinato, chiedendosi

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se Iucounu era vivo o morto. Ma Iucounu, sbattendo le palpebre, si rimise agilmente in.

posizione eretta. «Devo eseguire le pressioni e le spinte esatte,» mormorò. «Al-

trimenti ci sono difficoltà. L'eluttanza è di ordine diverso dallo ssz-pntz.» Emise un'altra grande risata soddisfatta, rovescian-do la testa all'indietro; e guardando la bocca spalancata, Cugel vide, al posto della lingua, una chela bianca. Immediatamente comprese la ragione del bizzarro comportamento di Iucounu. In qualche modo, un essere identico a Firx si era inserito nel corpo del mago, e si era impadronito del suo cervello.

Cugel si massaggiò il mento, interessato. Era una situazione straordinaria! Cercò di concentrare i suoi pensieri. Era essen-ziale scoprire se quell'essere conservava i poteri magici di Iu-counu.

«La tua saggezza mi sbalordisce,» dichiarò Cugel. «Sono pieno di ammirazione! Hai arricchito la tua raccolta di curiosità taumaturgiche?»

«No. Ce n'è già abbastanza,» dichiarò l'essere parlando attra-verso la bocca di Iucounu. «Ma adesso provo il bisogno di rilas-sarmi. L'evoluzione che ho eseguito un momento fa ha reso ne-cessario un poco di calma.»

«È una cosa molto difficile,» disse Cugel. «Il sistema più effica-ce, per questo scopo, consiste nell'afferrare con estrema inten-sità il Lobo della Volizione Direttiva.»

«Davvero?» domandò l'essere. «Proverò a farlo. Vediamo: que-sto è il Lobo dell'Antitesi e qui c'è la Circonvoluzione della Con-figurazione Subliminale... Szzm. Qui ci sono molte cose che mi rendono perplesso. Non era mai così, su Achernar.» L'essere lanciò a Cugel uno sguardo acuto, per scoprire se la sua gaffe era stata notata. Ma Cugel ostentò un atteggiamento di annoia-ta stupidità; e l'essere continuò a esaminare i vari elementi del cervello di Iucounu. «Ah, sì, ecco qui: il Lobo della Volizione Di-rettiva. Adesso, una pressione improvvisa e vigorosa.»

La faccia di Iucounu si tese, i muscoli tremarono, e il corpo massiccio si afflosciò sul pavimento. Cugel avanzò con un bal-zo: in un attimo legò le braccia e le gambe di Iucounu e fissò uno strato di adesivo sulla grande bocca.

Poi Cugel eseguì a sua volta una capriola di soddisfazione.

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Tutto andava per il meglio! Iucounu, la sua dimora e la sua grandiosa raccolta di oggetti magici erano a sua completa di-sposizione! Scrutò la massa inerte del mago e incominciò a trascinarla fuori, per poter spaccare tranquillamente la grossa testa gialla, ma il ricordo delle numerose indegnità, umiliazioni e afflizioni che aveva subito ad opera del Mago Ridente lo in-dusse a fermarsi. Iucounu doveva dunque raggiungere così presto l'oblio, senza sapere la verità e senza rimorsi? Assolu-tamente no!

Cugel trascinò il corpo immobile nel corridoio, e sedette su di una panca a riflettere.

Finalmente il corpo si agitò, aprì gli occhi, cercò di rialzarsi, e, accorgendosi che era impossibile, si voltò a esaminare Cugel, dapprima con stupore, poi con indignazione. Dalla bocca usci-rono suoni perentori ai quali Cugel rispose con un cenno vago.

Poi si alzò in piedi, andò a controllare i legami e il bavaglio, li rinforzò, e incominciò una cauta ispezione della dimora, atten-to alle trappole, alle esche e ai trabocchetti che il capriccioso Iucounu poteva avere predisposto per catturare gli intrusi. Fu particolarmente attento durante l'ispezione della stanza da la-voro del mago, sondando dovunque con un lungo bastone: ma se Iucounu aveva predisposto trappole e trabocchetti, nessuno di questi era visibile.

Guardando sugli scaffali, Cugel trovò zolfo, aquastel, tintura di zyche ed erbe varie, con cui preparò un vischioso elisir gial-lo. Trascinò il corpo flaccido nella stanza da lavoro, sommini-strò la pozione, gridò ordini e allettamenti; e finalmente, men-tre Iucounu diventava ancora più giallo in seguito all'ingestio-ne dello zolfo, e l'acquastel gli usciva fumando dalle orecchie, e Cugel ansimava e sudava per la fatica, l'essere di Achernar si liberò dal corpo massiccio. Cugel lo catturò in un grosso mor-taio di pietra, lo ridusse in poltiglia con un pestello di ferro, lo sciolse con spirito di vetriolo, aggiunse mernauce aromatica e versò il liquido viscoso risultante dentro all'acquaio.

Iucounu recuperò i sensi e fissò Cugel con uno sguardo d'in-tensità inquietante. Cugel gli fece fiutare un po' di raprogeno e il Mago Ridente roteò gli occhi verso l'alto e ricadde in uno sta-to di apatia.

Cugel si sedette a riposare. C'era un problema: qual era il mo-

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do migliore per tenere immobilizzato Iucounu, mentre lui fa-ceva le sue rimostranze? Finalmente, dopo avere consultato un paio di manuali, sigillò la bocca di Iucounu con un composto speciale, si assicurò che restasse vivo per mezzo di un sempli-ce incantesimo, poi lo cacciò dentro ad un alto tubo di vetro, che appese con una catena alla volta del vestibolo.

Poi, mentre Iucounu riprendeva di nuovo conoscenza, Cugel indietreggiò con un sogghigno affabile.

«Finalmente, Iucounu, la situazione incomincia a sistemarsi. Ricordi quale indegno trattamento mi hai inflitto? Veramente orribile! Ho fatto voto di costringerti a pentirti della tua azio-ne. E adesso incomincio a realizzare il mio giuramento. Mi so-no spiegato?»

L'espressione che contorse la faccia di Iucounu costituì una risposta sufficiente.

Cugel sedette, servendosi una coppa del migliore vino giallo di Iucounu.

«Intendo risolvere la faccenda in questo modo: calcolerò la somma delle sofferenze che ho subito, compresi certi elementi incommensurabili come il freddo, gli insulti, l'apprensione, le incertezze, la disperazione più nera, l'orrore e il disgusto e al-tre miserie indescrivibili, non ultima tra queste la compagnia dell'ineffabile Firx. Da questo totale sottrarrò la mia indiscre-zione iniziale, e magari un paio di miglioramenti, e resterà pur sempre un enorme squilibrio da sanare. Per fortuna, tu sei Iu-counu, il Mago Ridente, e certamente trarrai un divertimento impersonale dalla situazione.» Cugel alzò uno sguardo inquisi-tivo verso Iucounu, ma lo sguardo che ricambiò il suo era tutt'altro che divertito.

«Un'ultima domanda,» disse Cugel. «Hai disposto trappole o trabocchetti che possano uccidermi o immobilizzarmi? Batti una volta le palpebre per dire sì, due volte per dire no.»

Iucounu si limitò a guardarlo sprezzante dal tubo. Cugel sospirò. «Mi rendo conto che dovrò agire con cautela.» Portò il vino nella grande sala e incominciò a familiarizzarsi

con la raccolta di strumenti magici, manufatti, talismani e cu-riosità; adesso, in pratica, era tutta roba sua. Lo sguardo di Iu-counu lo seguì dovunque andasse, con una speranza ansiosa

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che non era per nulla rassicurante. I giorni passarono e la trappola di Iucounu, se pure esisteva,

continuò a non scattare, e finalmente Cugel si convinse che non ve ne era nessuna. Nel frattempo, studiò i tomi e gli in-folio di Iucounu, ma con risultati deludenti. Certi tomi erano scritti in lingue arcaiche, alfabeti indecifrabili o terminologie arcane; altri descrivevano fenomeni per lui incomprensibili; altri an-cora trasudavano un tale alone di pericolo imminente che Cugel si affrettò a richiuderli.

Tuttavia, un paio dei manuali gli sembravano più o meno comprensibili. Li studiò con grande diligenza, imprimendosi nella mente una sillaba dopo l'altra, fino a quando si sentì scoppiare le tempie. Alla fine, riuscì a imparare alcuni degli in-cantesimi più semplici e primitivi, e li provò su Iucounu: so-prattutto il Prurito Terribile di Lugwiler. Ma in generale Cugel rimase molto deluso: sembrava che fosse privo di una capacità innata. I maghi esperti erano in grado di dominare tre o anche quattro degli incantesimi più potenti, nello stesso momento: ma per Cugel, anche un solo incantesimo era molto difficile. Un giorno, mentre applicava una trasposizione spaziale a un ca-scino di raso, invertì alcune pervulsioni e venne scaraventato nel vestibolo. Irritato dal sogghigno di Iucounu, Cugel portò il tubo nella parte anteriore della dimora e fissò un paio di sup-porti, ai quali appese delle lampade, che illuminarono l'area davanti all'edificio, durante la notte.

Passò un mese, e Cugel cominciò a sentirsi più sicuro, almeno per quanto riguardava il possesso della dimora. I contadini di un villaggio vicino vennero a portargli i prodotti del loro lavo-ro, e in cambio Cugel rese loro alcuni piccoli servigi. Una volta il padre di Jince, la ragazza che fungeva da cameriera addetta alla sua stanza da letto, perse una fibbia preziosa, caduta in una profonda cisterna, e implorò Cugel di recuperarla. Cugel assentì e calò nella cisterna il tubo che conteneva Iucounu. Iu-counu, alla fine, si decise a indicare l'ubicazione della fibbia, che venne quindi ripescata con un gancio.

Quell'episodio indusse Cugel ad escogitare altri mezzi per servirsi di Iucounu. Alla Fiera di Azenomei era stato organiz-zato un «Concorso di Grottesco.» Cugel presentò Iucounu, e benché non riuscisse a vincere il primo premio, le sue smorfie

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indimenticabili suscitarono molti commenti favorevoli. Alla fiera, Cugel incontrò Fianosther, il venditore di talismani

e di oggetti magici che aveva inviato Cugel, la prima volta, in casa del Mago Ridente. Fianosther guardò, con divertita sor-presa, prima Cugel e poi il tubo che conteneva Iucounu, che Cugel stava riportando a casa in un carro.

«Cugel! Cugel l'Astuto!» esclamò Fianosther, «Allora le voci che corrono sono vere! Adesso tu sei il signore della dimora di Iucounu, e della sua grande collezione di strumenti e di curio-sità!»

Cugel, dapprima, finse di non riconoscere Fianosther, poi parlò con voce gelida.

«È verissimo,» dichiarò. «Iucounu ha deciso di prendere una parte meno attiva agli affari del mondo, come ben vedi. Tutta-via, la dimora è piena di trappole e di trabocchetti: parecchie bestie fameliche si aggirano nei dintorni durante la notte, e ho stabilito un incantesimo di grande violenza per vegliate su tut-te le porte e su tutte le finestre!»

Fianosther non parve notare l'atteggiamento distaccato di Cugel. Si fregò le mani grassocce, e domandò: «Poiché adesso disponi di una immensa collezione di curiosità, sarai certa-mente disposto a vendere alcuni dei pezzi meno pregiati?»

«Non ho bisogno né voglia di farlo,» disse Cugel. «I forzieri di Iucounu contengono abbastanza oro da durare fino a quando il Sole si spegnerà.» E i due uomini, secondo la consuetudine di quel tempo, alzarono lo sguardo per studiare il colore dell'astro moribondo.

Fianosther fece un cenno benevolo. «In questo caso, ti auguro una buona giornata; e anche a te.»

L'ultima parte della frase era rivolta a Iucounu, che ricambiò con uno sguardo irritato.

Ritornato a casa, Cugel portò Iucounu nel vestibolo; poi salì sul tetto e si appoggiò a un parapetto, guardando la distesa del-le colline che si allontanavano, incurvandosi come le onde del mare. Per la centesima volta, meditò sulla strana impreviden-za di Iucounu: lui non doveva cadere in un simile errore. E si guardò intorno, per studiare le difese.

In alto si levavano le torri a spirale di vetro verde: sotto si in-clinavano i tetti spioventi che Iucounu aveva giudicato confa-

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centi al suo senso estetico. Solamente la facciata dell'antico mastio offriva una facile via di accesso. Lungo gli aggetti incli-nati esterni, Cugel dispose lastre di pietra saponaria, in modo che chiunque si arrampicasse per scavalcare il parapetto do-vesse salirvi con i piedi e scivolasse, precipitando nel vuoto. Se Iucounu avesse preso una simile precauzione, rifletté Cugel, invece di predisporre il raffinato labirinto di cristallo, adesso non si sarebbe ritrovato prigioniero nell'alto tubo di vetro.

Era necessario perfezionare altre difese: e cioè bisognava at-tingere alle risorse accumulate negli scaffali di Iucounu.

Ritornato nella grande sala, consumò il pasto servitogli da Jince e Skivvec, le sue belle cameriere, poi tornò a dedicarsi immediatamente ai suoi studi. Quella sera riguardavano l'In-cantesimo dell'Incistamento Desolato, una rappresaglia più usata forse negli eoni passati che nel presente, e l'Appello della Lontana Spedizione, per mezzo del quale Iucounu lo aveva tra-sportato nelle desolate terre del nord. Erano entrambi incan-tesimi potentissimi: entrambi richiedevano un controllo auda-ce e assolutamente esatto. Dapprima, Cugel temette che non sarebbe mai stato in grado di arrivare a tanto. Tuttavia insi-stette, e alla fine si sentì capace di dominare l'uno o l'altro, a volontà.

Due giorni dopo avvenne ciò che Cugel si aspettava: si sentì bussare alla porta e, quando andò ad aprire, si trovò davanti Fianosther.

«Buongiorno,» disse Cugel, senza allegria. «Sono indisposto, e devo pregarti di andartene immediatamente.»

Fianosther fece un gesto mite. «Mi è giunta notizia della tua malattia, e mi sono affrettato a

venir qui con un oppiaceo. Permettimi di entrare...» E così di-cendo spinse la sua figura robusta oltre Cugel. «Ti decanterò la dose specifica.»

«Soffro di una malattia spirituale,» disse Cugel, in tono signifi-cativo. «Una malattia che si manifesta in attacchi di rabbia fe-roce. Ti supplico di andartene perché non vorrei, preso da una crisi incontrollabile, tagliarti in tre pezzi con la mia spada, o peggio ancora, ricorrere alla magia.»

Fianosther fremette, imbarazzato, ma continuò con un tono di irrefrenabile ottimismo.

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«Ho portato anche una pozione contro quell'infermità.» e mo-strò una fiasca nera. «Bevine un sorso soltanto, e tutte le tue ansie spariranno.»

Cugel strinse l'impugnatura della spada. «A quanto sembra, dovrò parlare senza ambiguità. Ti ordino

di andartene e di non ritornare mai più! Conosco il tuo scopo e ti avverto che sarò meno indulgente di Iucounu! Perciò ora vattene! O ti infliggerò l'Incantesimo dell'Alluce Macroide, in forza del quale il dito in questione si gonfia fino a raggiungere le proporzioni di una casa.»

«È così, dunque?» gridò Fianosther, infuriandosi. «La masche-ra è caduta! Cugel l'Astuto si dimostra un ingrato! Chiedi a te stesso: chi ti ha indotto a saccheggiare la dimora di Iucounu? Sono stato io! E secondo ogni criterio di onesta condotta, io ho diritto ad una parte della ricchezza di Iucounu!»

Cugel sguainò la spada. «Ho ascoltato abbastanza: adesso agirò.» «Fermo!» E Fianosther alzò la fiasca nera. «Basta che io lanci

questa bottiglia sul pavimento per scatenare una purulenza, dalla quale sono immune! Indietro!»

Ma Cugel, infuriato, balzò in avanti per trapassare il braccio alzato, con un colpo di spada. Fianosther gettò un grido di do-lore, e lanciò in aria la fiasca nera. Cugel spiccò un salto per af-ferrarla con grande destrezza; ma intanto Fianosther, con un balzo, gli sferrò un colpo, e Cugel arretrò barcollando e andò a sbattere contro il tubo di vetro che conteneva Iucounu. Il tubo si rovesciò sulla pietra e andò in mille pezzi. Iucounu uscì fati-cosamente dai frammenti, strisciando.

«Ah, ah,» rise Fianosther. «Adesso le cose vanno in una dire-zione diversa!»

«Neppure per idea!» gridò Cugel. Estrasse un tubo di concen-trato azzurro che aveva trovato fra gli strumenti di Iucounu.

Iucounu, servendosi di una scheggia di vetro, cercò di taglia-re il sigillo che gli chiudeva le labbra. Cugel gli proiettò contro uno schizzo di concentrato azzurro, e Iucounu lanciò un gran-de gemito di sofferenza.

«Butta il vetro!» ordinò Cugel. «Girati verso il muro!» E mi-nacciò Fianosther. «Anche tu!»

Legò meticolosamente le braccia dei suoi nemici, poi entrò

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nella grande sala e prese il manuale che stava studiando. «E adesso... fuori tutti e due!» ordinò. «Muoversi, svelti! Ora

gli eventi procederanno in un modo ben definito!» Obbligò i due a portarsi in un'area piatta, dietro l'edificio, e li

fece fermare ad una certa distanza l'uno dall'altro. «Fianosther, la tua sorte è ben meritata. Per il tuo inganno,

per la tua avidità e per i tuoi odiosi manierismi, ora ti colpisco con l'Incantesimo dell'Incistamento Desolato!»

Fianosther gemette pietosamente, e cadde in ginocchio. Cugel non lo ascoltò. Consultando il manuale, trovò l'incantesimo: poi, indicando e nominando Fianosther, pronunciò le terribili sillabe.

Ma Fianosther, anziché sprofondare nella terra, continuò a rimanere accosciato. Cugel si affrettò a consultare il manuale e vide che, per errore, aveva trasposto un paio di pervulsioni, invertendo così il potere dell'incantesimo. E mentre si rendeva conto dello sbaglio, da ogni parte si udirono lievi rumori, e le precedenti vittime di interi eoni vennero eruttate dalla pro-fondità di quarantacinque leghe e scaricate sulla superficie. E giacquero lì, sbattendo le palpebre in uno sbalordimento stor-dito: alcuni erano rigidi, troppo sfiniti per reagire. I loro indu-menti erano caduti in polvere, benché coloro che erano stati inastati in tempi più recenti avessero ancora addosso un paio di stracci. Poi tutti, tranne i più storditi e irrigiditi, fecero qualche movimento cauto, assaporando l'aria, tendendo le braccia al cielo, meravigliandosi alla vista del sole.

Cugel proruppe in una risata rauca. «A quanto sembra, ho commesso un'inesattezza. Ma non im-

porta. Non sbaglierò una seconda volta. Iucounu, la tua puni-zione sarà proporzionale alla tua colpa: né più, né meno! Tu mi hai scaraventato, contro la mia volontà, nelle terre desolate del nord, in un paese dove il Sole lancia obliquamente i suoi raggi dal sud. Io farò lo stesso a te. Tu mi hai inflitto la compa-gnia di Firx: io ti infliggo la compagnia di Fianosther. Insieme potrete attraversare le tundre, penetrare nella Grande Erm, valicare le Montagne di Magnate. Non supplicate: non tentate di giustificarvi: in questo caso sarò inflessibile. Statevene tranquilli, se non volete un'altra dose di concentrato azzurro!»

E Cugel si dedicò all'Appello della Lontana Spedizione, e si

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impresse accuratamente nella mente i suoni che l'attivavano. «Preparatevi!» gridò. «E addio!» Cantilenò l'incantesimo, esitando solo ad una pervulsione,

quando l'incertezza lo vinse. Ma tutto andò bene. Dall'alto si udì un tonfo e un grido gutturale, e un dèmone venne arrestato durante il volo.

«Appari, appari!» gridò Cugel. «La destinazione è come prima: sulla riva del mare settentrionale, dove il carico deve essere consegnato vivo e illeso! Appari! Afferra le persone designate e trasportale secondo il comando!»

Un grande sbatter d'ali sferzò l'aria: una sagoma nera dal vol-to orribile guardò giù. Abbassò un artiglio. Cugel si sentì affer-rare e trascinare via, verso il nord, tradito una seconda volta da una pervulsione sbagliata.

Il dèmone volò per un giorno e una notte, ringhiando e ge-mendo. Poco dopo l'alba, Cugel venne gettato su di una spiaggia e il dèmone si allontanò tonando nel cielo.

Scese il silenzio. A destra e a sinistra si stendeva la spiaggia grigia. Dietro si levava il litorale, chiazzato da pochi ciuffi di spinifelci e d'erba salsa. Pochi passi più in là giaceva la gabbia spezzata in cui Cugel, la volta precedente, era stato portato in quel luogo.

Con la testa china e le braccia strette attorno alle ginocchia, Cugel restò seduto a guardare il mare.