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premio artistico letterario Centro di Riferimento Oncologico di Aviano C R O i n f o r m a Espressioni di cura IV edizione - 2015 Parole e immagini per narrare la malattia oncologica Antologia di racconti

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premio artistico letterario

Centro di Riferimento Oncologico di Aviano

CROinforma

Espressioni di curaIV edizione - 2015

Parole e immagini per narrare la malattia oncologica

Antologia di racconti

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Espressioni di curaIV edizione - 2015

Parole e immagini per narrare la malattia oncologica

Antologia di racconti

a cura delCentro di Riferimento Oncologico di Aviano

premio artistico letterario

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Indice

I racconti ci salveranno?Alberto Garlini I

IntroduzionePaolo De Paoli III

Fotografia. Pazienti e CaregiverL’incontro con la vitaMonica Caeran 2Baci a catenaCarlotta Schiavon 4Nuova visione. La chemio non funzionaFederico Radice 6Siamo sempre in vena di sorridereLeonilde Russo 8Incontrarsi con il toccoGianna Omenetto 10Francesco e mamma Francesca, l’incontroDaniele Gava 12Painful hopeCarmen Dinallo 14Restami accantoIgor Altin 16

© cro di Aviano, 2016Centro di Riferimento Oncologico - irccs -Istituto Nazionale Tumori

via Franco Gallini, 2 - 33081 Aviano (Pn)tel. 0434 659248 - e-mail: [email protected] - www.cro.it

© Tutti i diritti sono riservati.

I racconti inseriti in quest’opera sono di proprietà dei singoli autori, così come i contenuti e le opinioni liberamente espresse nei testi.

Da un’idea diPaolo De PaoliDirettore Scientifico cro Aviano

Coordinamento del progettoIvana TruccoloResponsabile Biblioteca Scientifica e per Pazienti cro Aviano

ContributoLaura CiolfiBiblioteca Scientifica e per Pazienti cro Aviano

Progetto graficoNancy MichilinDirezione Scientifica - Biblioteca cro Aviano

premio artistico letterario Espressioni di curaIV edizione - 2015Parole e immagini per narrare la malattia oncologica. Antologia di racconti

isbn 978-88-9730-511-8Responsabile Scientifico collana croinforma: Paolo De Paoli

CROinforma

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AvventoCaterina Comingio 135I pugni in tascaLele Ghisio 143Tic-tacAntonio Berri 149

Altri partecipantiUna sera ci incontrammoAnna Maria Benini 157IncontroVirginia Bergamasco 158L’incontroMarialuisa Bertoli 159GrazieValentina Bertoli 160Una lettera per teOlimpio Biasoni 161Siamo sempre sotto e non disperiamoClaudio Bomben 162Un felice incontroChiara Boschi 163L’incontro nel mezzo del cammin… ovvero lo scontro!Maria Pia Boschi 164L’avventura di BalenoCristina Bottino 165Domani non possoEleonora Brun 166La storia di AldoAldo Burigana 167

Narrativa. OperatoriCome staiFrancesca Caracciolo 21Lucifero, il portatore di luceXenia Salvadori 27

Narrativa. PazientiLa storia di LucaIerma Sega 37FigliaBarbara Balabani 47Resurrezioni casualiAdriana Reginato 51Il regaloEva Belluzzo 57L’incontro rosaNadia Paludetto 63Niente succede per casoBarbara Piccolo 81Codice zero quarantottoMaria Grazia Goffo 99FiliAlessandra Merighi 105

Narrativa. CaregiverFrammenti di teCecilia Mazzeo 115Everybody, fight for ourselvesAlberto Andreoli Barbi 127

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L’abbraccioBruna Raccolini 183Tre giorniDiego Sciucca 184L’incontroSara Segatto e Giada Vuano 185L’incontro, la storia, il domaniAlessandro Spessotto 186Racconto di un viaggio e solidarietàOrnella Trevisan 187La solitudine di un caffè macchiatoMaurizia Venir 188Cara MammaSara Volpato 189

AppendiceGiuria del concorso 193Partecipanti al concorso 195

Ringraziamenti 201

A chi piacciono i lamponiAngela Colapinto 168Ondate ricorrentiLidia Curto 169Dedicato a JonnyManuela D’Angelo 170Le parole della mia vitaRenata D’Incà 171Due anni vissuti pericolosamente… e intensamenteAnna Maria Fedrizzi 172Il cambiamentoAlessandro Fontana 173Passeggiando lungo la riva di quel mare profondo…Isabella Gallo 174Alice nel paese delle malattieAleksandra Gazda 175Il campo di fiori rossiSara Geremia 176L’incontro e altri incontri lungo la stradaValerio Giodini 177L’incontroEdi Gobbo 178Acqua di stelleBarbara Grella 179Raccontare la propria esperienza con le paroleRosa Mannetta 180L’imprevistoAnna Mungano 181E alla fine ho incontrato me stessaLiana Pivetta 182

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I

La malattia divide, non c’è niente da fare. Sei nella narrazione della normalità: pensi alla tua famiglia, ai figli, pensi ai progetti di lavoro. E poi arriva il male. Il male ti divide. Non puoi più vivere nel racconto che conoscevi come tuo. I tempi sono diversi, le prospet-tive diverse, diverso il rapporto col corpo, e diverso ancora il rapporto con l’immagine di te. Di colpo, tutto cambia. Tutto forse è esagerato, sei sempre tu, ci sono sempre i tuoi amici e la tua famiglia, il lavoro è ancora tuo; ma molto cambia. Nella narratologia, la malattia è un punto di svolta. Dal mondo ordinario passi al mondo dell’avventura. Quello che era vero prima non è più vero. Sei costretto a rinarrarti. A tro-vare una nuova narrazione per te.

È quanto mai intelligente invitare i pazienti a scri-vere racconti sulla loro malattia, perché questa sem-plice richiesta è un bisogno primario, anche se misco-nosciuto, di chi attraversa l’odissea della malattia. La malattia è anche una metafora. E si combatte anche

I racconti ci salveranno?Alberto Garlini

Scrittore e membro della giuria

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IIIII

Cosa rende un concorso artistico letterario organiz-zato da un istituto oncologico di ricerca e cura diverso dagli altri?

In Italia, la medicina narrativa sta acquistando sem-pre più centralità nel discorso mediatico e i concorsi che raccolgono storie di malattia sono sempre più diffusi.

Fin dalla sua prima edizione, la finalità del concorso “Espressioni di cura” è stata di incoraggiare le persone a narrare il loro rapporto con la malattia, assegnando un tema o un incipit attorno a cui ragionare, magari per uscire dagli stereotipi, usare un linguaggio inconsueto, in ogni caso personale. Il concorso non ha mai avuto un carattere agonistico: si tratta di “onorare” lo sforzo di chi partecipa a uscire dal proprio dolore e condivide-re con chi legge una parte importante di sé.

Altra finalità è la volontà di trarre dalle narrazioni elementi utili a migliorare i percorsi di cura nel nostro istituto. E proprio per sottolineare tale scopo, quest’an-no si è deciso di ampliare il concorso a nuove forme

IntroduzionePaolo De Paoli

Direttore Scientifico cro

con le metafore. È vero, c’è la scienza. La scienza però si occupa di estirpare il male, opera, taglia la carne, trova nuove medicine e nuove profilassi. Ma l’uomo è anche il suo umore, i suoi scopi, i suoi progetti. E questi scopi, questi progetti, questi valori sono fatti di narrazioni e di metafore. Chi vive la malattia trova che la sua vecchia narrazione non è più adatta a ciò che è. E scopre con disappunto che una nuova narrazio-ne non è disponibile. Se la deve inventare lui. Mentre la medicina lo aiuta col corpo, i suoi pensieri sono attraversati dal vuoto di quello che ancora non c’è. C’è chi trova in fretta le risposte, chi riesce subito a vedersi nella nuova veste. E c’è chi soffre, chi ha bi-sogno di aiuto per scovare il bandolo della matassa. Ed ecco che un concorso come questo può fornire il primo stimolo per fare il punto della situazione e per narrare un nuovo modo di essere.

La malattia può essere scoperta, incontro, saluta-re esercizio di fragilità. Può essere lotta, guerra. Può essere la riscoperta dei valori della vita e dell’amici-zia. E può essere dolore, dolore puro. Che però se raccontato, se pienamente riassunto nelle parole, non è feroce e misconosciuto, ma può essere almeno in parte addomesticato. Noi siamo le nostre storie. Tutti insieme possiamo creare un immaginario che ci fac-cia stare meglio. Questa è la scommessa.

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IV V

attraverso una fitta rete di alleanze e collaborazioni esterne, coinvolge operatori, pazienti e associazioni di volontariato nell’obiettivo di costruire insieme un’al-leanza vera fra i vari attori dei sistemi sanitari.

Ringrazio infine gli operatori della Biblioteca del cro che con competenza e passione hanno gestito l’orga-nizzazione del concorso e curato questo volume.

espressive come la fotografia e i video. Il tema assegna-to era: L’incontro.

Numerosi hanno accettato l’invito, facendo regi-strare un aumento di partecipanti, anche di genere maschile, mediamente più giovani rispetto agli anni precedenti.

Altra novità ha riguardato la composizione della giuria del concorso: tutti i membri erano esterni, a parte il presidente. Abbiamo coinvolto esponenti di spessore del panorama culturale e sociale italiano, per far sì che la realtà della malattia, o meglio la narrazio-ne di chi vi è a vario titolo coinvolto, esca dalla realtà ospedaliera e sia vista con altri occhi.

La risposta alla domanda iniziale è connessa all’uso e agli obiettivi che guidano il concorso. Le storie rac-colte in questi anni sono tutte importanti, simili nella loro struttura ma diverse perché ogni vita è diversa. Con il nostro concorso ci siamo proposti di utilizzarle permigliorare l’accoglienza e la comunicazione fra pa-zienti, operatori e struttura. Non è un percorso facile, molti sono gli ostacoli, nulla è scontato. Ciò che conta è che per noi la medicina narrativa non è un sempli-ce bacino di storie raccolte, ma uno strumento ne-cessario per un approccio sistemico ai problemi che riguardano la qualità della cura, dell’assistenza e della ricerca. Non a caso il programma di medicina nar-rativa, a cui afferisce il concorso, rientra nelle nostre attività di Patient Education & Empowerment che,

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Avvertenza.Le sezioni di fotografia e narrativa contengono sia le opere vinci-

trici del concorso che le opere selezionate dalla giuria per la pubbli-cazione, in base al punteggio finale ottenuto.

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FotografiaPazienti e Caregiver

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Sezione pazienti2

L’incontro con la vitaMonica Caeran

ESPRESSIONI DI CURA

Conc

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Sezione pazienti4

Baci a catenaCarlotta Schiavon

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Sezione pazienti6

Nuova visione. La chemio non funzionaFederico Radice

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Sezione pazienti8

Siamo sempre in vena di sorridereLeonilde Russo

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10 Sezione caregiver

Incontrarsi con il toccoGianna Omenetto

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artistico letterario - IV edizione 20151°classificato

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12 Sezione caregiver

Francesco e mamma Francesca, l’incontroDaniele Gava

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14 Sezione caregiver

Painful hopeCarmen Dinallo

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Restami accantoIgor Altin

Sezione caregiver

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NarrativaOperatori

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No. Non si può entrare nella camera di un pazien-te con gli occhi bassi e con passo veloce. Non si può. Significa inciampare, far cadere un deflussore, oppu-re impigliarsi nella maniglia della porta. Che figura, non sarebbe professionale. Bisogna concentrarsi, la fine del turno è vicina; a denti stretti prendere un braccio per mettere una flebo. Ora è solo un braccio e non il suo braccio, staccato da tutto il resto. Come un campione già imbustato da far analizzare in anato-mia patologica. No, non si può. Lo evito, pur stando a pochi centimetri da lui e lo tocco appena. Energie zero. Umore sottozero stasera. Perché quello che più temo è di incrociare anche per un solo secondo lo sguardo del mio malato e di sentirmi vicina, troppo vicina a lui; allora ecco che un come stai da parte del paziente pietrifica.

Anche questo l’amore può fare. Rispondo con un sto bene frettoloso. Sono io che ti

curo, come devo stare?

Come staiFrancesca Caracciolo

ESPRESSIONI DI CURA

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tino quando entri a lavoro alle sei e mezzo, e quanto cambia rispetto a quello pimpante delle tredici e tren-ta. Io sì. Saprei definire la pazienza che porti al mat-tino e imitare il saluto, il tuo, che sento già a distanza lungo il corridoio quando entri nelle camere vicine. Quel buongiorno che mi preparo ad accogliere nei minuti che precedono il tuo arrivo. Non avrei alcuna difficoltà a raccontare i tuoi occhi che si fermano sul-la soglia della stanza: sono fissi e mi spogliano un po’. All’inizio li temevo, ora provo solo un po’ di disagio perché so che cercano di capire le mie condizioni: dalla tua espressione capisco se sono uguale, se vado meglio, o se sto peggiorando. Un bollettino insomma. No, non riesci a mentire. Così, allo stesso modo, co-nosco il passo silenzioso della tua notte quando arrivi e ti assicuri del mio sonno. Io fingo perché così non aggiungo pensieri ai tuoi pensieri e puoi stare dietro ad altre persone che stanno peggio di me. Quindi, ti prego, non ti stupire quando osservo la tua stanchez-za e noto l’assenza nell’aria delle tue parole. Per noi malati certe parole sono capaci di arredare una came-ra vuota. Quando non parli si vede. Ogni tanto penso che tra di noi non ci sia alcuna differenza. Le soffe-renze accomunano gli uomini oltre la malattia. Pen-sami come a Carnevale, solo travestito dagli oggetti della cura con i quali mi vesti. Io allo stesso modo non avrò paura della donna squisitamente umana che sento dietro la divisa da infermiera. Stiamo lottando entrambi, io per trattenere quella che tu ogni tanto

In questo momento un enorme cartellone pubbli-citario per strada è più vero di me. Devo incrociare i suoi occhi che hanno visto tutto quello che mi attra-versa. Cioè una tristezza palpabile di un giorno qua-lunque unita a una stanchezza strisciante.

Una radiografia al cuore che ti fa il paziente.Ma come si è permesso di arrivare a tanto? E allo-

ra si sconfina. Per un momento tu ti ritrovi nel letto dove è lui. Sembra quasi che il malato, il caro mala-to, ti voglia rubare il lavoro. Eccolo entrare nella tua divisa. E tu, eccoti lì a combattere per una vita che sfugge e ti disprezza. Entri in un corpo stretto e poco ospitale: un buco nella pancia, un tumore in gola, e una cazzo di pompa che ti nutre. Sono al posto suo. Rimbomba la sua domanda, come stai… come stai… come stai… ma di quei come stai interessati, di quelli che l’altro non sta tranquillo fino a quando non ottiene una risposta. Tipo quello che potrebbe farti tua madre dopo un incidente stradale. Quel come stai. Rivolto proprio a te, mentre entri in camera per met-tergli su (così si dice) un antibiotico.

Mica niente di speciale. Come stai? Ma, oh! Guarda che sei tu il malato,

avrei voluto dirgli. Mica io! E lui in una risposta immaginaria mi avrebbe sicu-

ramente risposto così:«Sono almeno venti giorni che sono in questa ca-

mera a fare il paziente. Ti ho vista camminare. Non so quanti potrebbero descrivere il tuo passo al mat-

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vorresti cacciare: la vita. Non ti meravigliare se in un momento qualunque tolgo quella maschera che pesa un po’. Permettimi di essere quello di sempre e di toccare il tuo cuore almeno come fai tu d’abitudine quando, in un momento che non va, mi leggi e mi chiedi: come stai».

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Non bisogna avere paura del vuoto, perché anche il vuoto è una risorsa, una parte fondamentale del nostro essere, un’entità da considerare una risorsa e non qualcosa da allontanare, da cui fuggire perché fa paura. Le pagine che seguiranno sono vuote, ma presto si riempiranno di parole, emozioni, avventure. Una parte della mia anima messa nero su banco. Ma voglio che qui, incisa a caratteri di fuoco, ci sia anche un frammento della sua, di anima.

Da dove cominciare? Inizio raccontandovi di due occhi, che da lontano mi scrutano. Io, con in mano una cartellina, e lui, laggiù, appoggiato allo stipite del-la porta che mi guarda. Non so chi sia, non conosco il suo nome. Ma di sicuro deve avere un nome bel-lissimo, perché lui lo è. Ha uno sguardo profondo, segnato dalla sofferenza e dalla grinta, dal dolore e dal coraggio. Uno sguardo caldo ma che mi congela dove sono. Indossa un camice ospedaliero. È un paziente. La sua carnagione si fonde con il muro, quasi fosse

Lucifero, il portatore di luceXenia Salvadori

ESPRESSIONI DI CURA

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artistico letterario - IV edizione 2015

MENZIONED’ONORE

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«Ti pare che sia nelle condizioni di sorridere?!» mi aggredisce. «Ho un cancro!»

Lucifero, giovane e bello, ha il cancro, come so-spettavo. Ed è arrabbiato. E io con lui. Quale entità ultraterrena può permettere questo! Un corpo atleti-co e forte, massacrato da un cancro e continuamente debilitato dalle chemio. La sua carnagione, un tempo dorata, frutto di estati all’aperto, ora è pallida e grigia-stra. Uno scempio, ecco cos’è!

Di lui scopro che è anche un pugile: abituato a saltellare sul ring e a schivare i colpi, ora si ritrova a doverne incassare da quelle cellule impazzire e mali-gne che si stanno diffondendo dentro di lui.

E ancora mi chiedo perché. Cosa può aver fatto di male un ragazzo di nemmeno trent’anni per dover stare lì, in piedi, con un palo della flebo come soste-gno, arrabbiato con il mondo e con se stesso?

Torno alle mie faccende, ma sempre con una stra-na agitazione dentro. Quell’incontro mi ha sconvolta. Ho sbattuto la fronte contro il muro di una realtà troppo difficile da digerire.

Do sempre per scontato che siano gli anziani del mio reparto a essere ammalati, non dimenticando che c’è anche una piccola percentuale di malattia on-cologica giovanile. Ma che vuol dire “malattia onco-logica giovanile”?! Ma chiamiamola con il suo nome: vite distrutte da un male fin troppo distruttivo. Come una cesoia da giardinaggio che recide violentemente un fiore ancora nel germoglio, un fiore non ancora

un fantasma. Il palo della flebo che trascina con sé ha issate le pompe di infusione. E mi fermo a pensare a quale strano e maledetto male possa aver attaccato un simile angelo. Angelo sì, perché bellezze così si trovano solo in Paradiso. Non c’è altra possibile pato-logia che possa ferirlo: siamo un reparto per malati di cancro, purtroppo. Lo dimentico sempre, complice la mia ingenuità e il mio essere ancora “nuova” in que-sto ambiente. Chemioterapici? Probabilmente sì.

Passo accanto a lui, gli sorrido. Non ricambia. Stra-no, penso, tutti i pazienti a cui sorrido ricambiano, lui no. Perché? Non indago oltre, e mi accingo a uscire dalla doppia porta a spinta. Mi volto, e lui è ancora lì.

Incontro una collega, la saluto. È da tempo che non la vedo. Ci scambiamo quattro chiacchiere men-tre, insieme, ci avviamo verso l’uscita. Getto un’ulti-ma occhiata nella direzione opposta. Quel ragazzo non si è mosso di un centimetro. Aspetta qualcuno… o qualcosa. Troppo curiosa e impaziente, chiedo alla mia collega chi sia. Lei mi sorride e gli fa un cenno di avvicinarsi. Me lo presenta. Lucifero, ovvero “por-tatore di luce”. Che nome meraviglioso! Avevo detto io che doveva avere un nome speciale, un nome che evoca la luce e il sole. Un nome solare per una perso-na che irradia energia, anche a distanza.

Gli sorrido, ma lui continua a non ricambiare. Te-starda come sono, lo metto spalle al muro:

«Perché non sorridi?» chiedo, come se sorridere fosse la cosa più innaturale e scontata del mondo.

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tita così. Sono scappata, ma al contempo ero ferma: immobile all’interno di un brutto sogno, aspettando di svegliarmi. Risveglio che, per altro, non è mai arri-vato. Mi sono ritrovata in un posto isolato, in un pic-colo parco deserto, mi sono seduta su una panchina e ho dato sfogo a tutte le lacrime che premevano per uscire. Non ce l’ha fatta.

Ho conosciuto Lucifero nella malattia, ma non è da malato che lo voglio ricordare. Lo ricordo, in-vece, con i guantoni ben incerottati alle mani, dritto sul ring, agile e senza paura, che saltella quasi fosse una cavalletta a destra e a sinistra, schivando i colpi dell’avversario, mentre con decisione prepara l’affon-do per la vittoria.

La beffa della storia è che non ho mai visto Lucife-ro combattere, o meglio: non l’ho mai visto combat-tere sul ring. Ho conosciuto il guerriero che c’era in lui, ho visto un vero combattente, qualcuno che deve lottare per continuare a vivere, e che si ritrova nel bel mezzo del round più importante. O vinci o perdi. Non hai possibilità di arrenderti. Lucifero diceva: «Si combatte serenamente fino alla fine, anche sapendo di poter perdere». E forse, questa è stata per me la lezione più importante, quella che mi ha cambiato la vita: per quanto tu possa sfidare la sorte, è la nostra esistenza che ci porta a essere sfidati. La vita ci vuole pronti a combattere e non impreparati alle avversità. Ha ragione chi dice che la nostra vita è fatta di attimi,

sbocciato, una parte di vita fin troppo innocente per essere portata via.

Qualche giorno dopo, sono ritornata in quel re-parto. Con la mano tremante, ho aperto la porta, e con passo incerto mi sono avviata verso quel lun-ghissimo corridoio. Ho fissato per qualche secondo quella porta, secondi che sono durati forse giorni. La porta era aperta, ma lui non c’era. I letti all’interno della stanza erano rifatti, e percepivo l’odore della biancheria pulita e dell’aroma pungente del disinfet-tante ospedaliero. Quella stanza sembrava così fred-da e vuota che mi mise addosso una malinconia tale da farmi venire i brividi.

Ricordo quel giorno quando, passeggiando per il corso, l’occhio mi è caduto su un necrologio. Un vol-to familiare, con gli stessi occhi profondi e penetranti che mi avevano letteralmente paralizzata. Un pugna-le mi ha trapassato il cuore e il respiro mi è venuto meno. Sono corsa lontano con le gambe incerte e tremanti come se scappassi con il demonio alle calca-gna. Scappavo, ma da cosa? Da una consapevolezza. Come nei sogni, o meglio negli incubi: capita a quasi tutti di sognare di essere inseguiti, ma di correre e al contempo di non correre, di voler scappare ma di sentirsi le gambe così pesanti che spesso ci si ritrova stanchi oppure immobili, così spaventati che la paura ci porta a risvegliarci di colpo. Ecco, io mi sono sen-

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Di lui mi resta solo un ricordo legato a un fram-mento di tempo. Non voglio lasciar andare quell’im-magine, ma mi rendo conto che si vive di realtà e non di sogni. Si vive il presente, traendo nutrimento dai ricordi. È stato un regalo di Dio. Una piccola lezione di vita in un momento in cui tutto mi sembrava scon-tato e indistruttibile.

momenti che si succedono come tessere di un do-mino, uno dopo l’altro. Un tremolio, una distrazione e tutto dà origine a una cascata di effetti ed eventi che si ripercuotono inesorabili su ogni secondo della nostra vita.

Fisso la sua lapide, in alto, alto come era lui. In alto, dov’è lui ora. Perché se esiste un Paradiso, Lu-cifero è la prima persona a meritarlo. Il guerriero ha perso il match più importante, ma una vittoria, forse, l’ha avuta. Ha vinto la sua memoria, ha vinto il suo coraggio, ha vinto la sua tenacia. Porterò sempre con me il ricordo di quei cinque minuti, di soli sguardi che hanno accompagnato il nostro primo incontro, e del miracolo successivo che Lucifero ha compiuto per me. Chi dice che uno sguardo non può cambiare una persona, si sbaglia! Oppure è un bugiardo! De-pongo una rosa rossa vicino alla sua foto. Chissà se le rose gli piacevano. Lo spero davvero.

Mi capita di sognarlo. In quel mondo onirico, mi ritrovo in quel lungo corridoio. Lui mi aspetta sulla porta. Mi sorride e mi annuncia con gioia che è gua-rito, che nessun male è riuscito a sconfiggerlo. La sua pelle è calda, sembra baciata dal sole. Se ha lasciato dentro di me un ricordo così indelebile, non oso im-maginare il devasto delle anime che l’hanno cono-sciuto e amato. E poi perduto.

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NarrativaPazienti

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Mi chiamo Luca, ho nove anni.Sono molto bravo a costruire capanne con tronchi

e rami e la mamma ripete spesso che da grande avrò fidanzate fortunate perché mi piace passare l’aspira-polvere in casa, cucino già la pasta e sono capace di aggiustare gli oggetti che si rompono.

Mia sorella si chiama Eva e ha un anno meno di me. Ha un sacco di amiche e si allena quasi tutti i giorni con i pattini sulla pista del ghiaccio perché vuole diventare una campionessa.

Mamma scrive libri. Le piacciono la natura e gli animali, vorrebbe dipingere bene e imparare a cuci-nare ricette nuove.

Papà fa il giardiniere ed è appassionato di compu-ter. Insieme ci divertiamo moltissimo con i trenini elettrici. In inverno sulla neve lui è il migliore con lo snowboard.

Mamma e papà vanno d’accordo, chiacchierano e scherzano tra loro e con noi. Si aiutano nei lavori di

La storia di LucaIerma Sega

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artistico letterario - IV edizione 20151°classificato

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mia mamma. Dalla pancia mi è uscito un singhiozzo e non riuscivo più a smettere di piangere. La maestra ha telefonato ai miei genitori perché era preoccupata, voleva sapere come stava la mamma e anche raccon-tare di me.

La mamma ha promesso che s’impegnerà tantissi-mo ma proprio tantissimo per guarire. «Mi servirà il vostro aiuto e dovrete essere forti e coraggiosi», ha detto. Con papà abbiamo fatto un patto: aiuteremo la mamma fino a quando starà bene. Io preparerò la pasta al pomodoro e Eva penserà ai nostri gatti.

Ci vorrà molto tempo prima che la mamma gua-risca. Dovrà fare quattro cure, lunghe e stancanti. Io andrò in quinta, Eva in quarta; papà segnerà la nostra statura sempre più in alto sul muro e sicuramente ar-riverà due volte Natale. Abbiamo preso quattro sassi e li abbiamo appoggiati sul davanzale. Ogni volta che la mamma finisce una cura ne toglieremo uno e al suo posto metteremo una piantina. Quando ci saran-no solo fiori la mamma sarà guarita.

La mamma va spesso in ospedale e io spero che

sia un posto bello, accogliente e con tanti allegri di-segni alle pareti come l’ambulatorio della dottoressa dalla quale vado quando ho la febbre o il male nelle orecchie.

Per la mamma è faticoso anche guidare l’automo-bile, per questo papà l’accompagna quando deve fare

casa, cucinano un po’ per uno e ballano scatenati in soggiorno quando la radio trasmette musica allegra.

Alla mia famiglia piacciono molto gli animali: ab-biamo quattro pesci e due gatti dormiglioni, Matisse e Blu. Io e Eva vorremmo tantissimo un cane e, per essere pronti quando arriverà il nostro, facciamo un sacco di domande a tutti quelli che ne hanno uno.

È successo qualcosa di brutto.La mamma piange, papà è preoccupato e triste.La mamma è stata da una dottoressa che ha trova-

to nel suo corpo una specie di macchia.Ha usato una macchina speciale che vede sotto la pelle.La macchia è una malattia: si chiama cancro o tumore.Io vorrei essere forte. Ma sono arrabbiato, ho pau-

ra e mi viene da piangere.E dentro di me ho tanto male al cuore.

La mamma dovrà andare spesso all’ospedale e prendere tante medicine. Le medicine della mamma hanno dei superpoteri ma non sanno capire subito dove è la macchia cattiva; così passano nel sangue e vanno in tutto il corpo a cercarla. Sono così stupidis-sime che la mamma perderà anche i capelli e questa cosa mi spaventa.

Le cure stancheranno tanto la mamma che dovrà riposare anche durante il giorno.

Oggi a scuola la maestra non stava bene ed era mol-to stanca. Io le ho chiesto se ha un tumore come la

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Io e mia sorella andremo al mare in campeggio col camper dello zio Diego.

Sono proprio contento perché con lui facciamo sempre cose divertenti e avventurose. Andremo al largo con la barca e ci tufferemo in mare aperto e andremo con il risciò a mangiare il gelato.

Papà resterà a fare compagnia alla mamma che po-trà riposarsi.

Dobbiamo avere tanta pazienza, quando la mam-ma sarà guarita partiremo per una vacanza tutti insie-me e sarà bellissimo.

La mamma ha una malattia strana: non sente male da

nessuna parte, non ha cerotti né un braccio ingessato.Per guarire deve prendere un sacco di medicine.

Sono così tante… Io non so neanche a cosa servono però lei dice che, insieme al nostro amore, la faranno guarire molto presto.

Tutte queste medicine sono dispettose. Il viso del-la mamma si è gonfiato, lei è sempre stanca e nervo-sa, non sopporta la luce e deve evitare i luoghi affol-lati come i supermercati: non può correre il rischio di prendere neppure un raffreddore perché il suo corpo non è capace di difendersi.

La mamma porta gli occhiali da sole anche in casa. Ogni tanto mangiamo tutti in soggiorno con la ve-staglia e gli occhiali scuri e facciamo finta di essere in spiaggia.

una cura che ha un nome che non ho mai sentito pri-ma: chemioterapia.

La mamma e altre persone che hanno il cancro e fanno la chemioterapia stanno insieme in una stanza mentre le medicine entrano nel corpo passando per un tubicino.

La mamma ha conosciuto tante persone nuove: dot-tori, infermiere e persone che vogliono guarire. Lei è contenta perché con quelle più simpatiche scambia li-bri e ricette.

La mamma ha un odore che non riconosco e sen-za capelli non sembra più lei. Non le piace se tutti la fissano e ha comprato tre berretti, che usa in casa oppure quando esce. Un giorno che era stufa dei ber-retti ha comprato una parrucca con la sua amica Re-nata. La mamma per un po’ avrà i capelli finti come quelli della Barbie di mia sorella. Quando sarà guarita i capelli le ricresceranno.

Un giorno che non era troppo stanca, la mamma ha indossato un coloratissimo vestito africano. «Fac-ciamo un concerto?» ha proposto.

Io e Eva abbiamo preso le pentole e le abbiamo suonate come tamburi.

Papà e lo zio Diego hanno fatto festa con noi.Non è importante avere i capelli se ci si può trave-

stire, divertire, suonare e fare festa tutti insieme!

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Da quando è tornata a casa la mamma esce spesso a fare delle passeggiate perché è meno stanca e stare all’aria aperta le mette buonumore. Ma non è ancora guarita. Tutti i giorni deve andare in ospedale per fare una cura che si chiama radioterapia. La mamma si sdraia su un lettino e una macchina che sembra un’a-stronave fa uscire da una specie di occhio delle cose invisibili che si chiamano raggi x.

La mamma ha terminato la cura con la macchina spaziale. Per farle una sorpresa, io e Eva abbiamo comprato la torta con i nostri soldini. La mamma era strafelice, ci ha dato tanti baci e ha detto che siamo i suoi bambini grandi e bravissimi.

La mamma è tanto fiera di noi! Io mi sento molto alto. Sicuramente papà dovrà segnare una tacca più alta sul muro.

La mamma è finalmente venuta a prenderci a scuo-

la dopo tanto tempo che non lo faceva. Non porta più la parrucca ma i miei compagni non l’hanno ri-conosciuta subito perché i suoi capelli nuovi sono molto corti e marroni.

È così bella la mia mamma! Tutta la scuola ha fatto il tifo per lei, come quando noi incitiamo Eva nelle gare. Le maestre le hanno scritto e telefonato tante volte per sapere come stava.

La mamma non ha partecipato alle feste con i ge-nitori. A quella di Natale stava così male che è dovuta

Le nostre giornate sono diverse da quando la mam-ma ha il tumore. Lei non va più a lavorare e non ab-biamo preso il cucciolo che desideriamo perché non ha le forze per accudirlo. Gli amici non vengono più da noi e, dopo la scuola, certi giorni andiamo dai non-ni o da qualche compagno.

Se rimaniamo dai nostri amici a dormire è bello. Quando la mamma starà bene organizzeremo a casa nostra un pigiama party.

La mamma è stata tantissime volte in ospedale e finalmente ha terminato la prima delle sue cure. Le abbiamo comprato una piantina dai fiori profumati.

Ho lo stomaco leggero e mi sembra di respirare meglio.

La macchia si è rimpicciolita ma la mamma deve fare anche un’operazione chirurgica per toglierla del tutto, dovrà rimanere in ospedale alcuni giorni.

Mi sento strano, non sono mai stato a casa di notte senza la mamma, se mi viene paura andrò a dormire nel lettone con papà.

Penseremo forte forte la mamma mandandole tanta energia. La dottoressa le farà un taglietto per togliere il tumore. La mamma non sentirà male per-ché prima respirerà una specie di aria che fa dormire e non ci si sveglia nemmeno se qualcuno ti dà un pizzicotto.

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Poi tutti quattro ci siamo stretti in un super abbrac-cio del cangurino, un abbraccio speciale che abbiamo inventato noi dove il più bravo è quello che riesce ad appiccicarsi di più agli altri come fanno i piccoli nel marsupio di mamma canguro. Sono arcisicuro che, in tutto il mondo, nessuno riuscirà mai a farne uno altrettanto grande.

correre all’ospedale e papà è rimasto con lei tutto il tempo. Le maestre le hanno mandato fotografie delle nostre recite e le hanno raccontato i progressi che facciamo in tutte le materie. Però potevano non dirle di quella volta che è venuta la supplente e io mi sono nascosto nell’armadio…

La mamma deve ancora fare una lunga cura che

si chiama terapia biologica. In ospedale le infermiere le daranno una medicina che, come la chemiotera-pia, entra nel sangue passando per un tubicino. Dopo questa cura la mamma sarà guarita!

Adesso la mamma va in ospedale da sola. Indossa sempre il foulard rosso con le coccinelle perché dice che le dà molta energia. Io e Eva abbiamo inventato per lei una filastrocca dai poteri magici: “Coccinella rossa fai una magia e il male della mamma porta via”. La recitiamo insieme prima di uscire e la ripetiamo anche mentre andiamo a scuola. La mamma ha rac-contato della nostra filastrocca alle sue amiche dell’o-spedale e ha regalato a tutte una piccola coccinella portafortuna di legno.

La mia mamma oggi termina le cure in ospedale.La mia mamma è guarita, guarita per davvero.Ho voglia di correre e di cantare e mi sento leggero

come un palloncino in mezzo al cielo.Mamma e papà hanno detto che siamo stati bra-

vissimi, forti e coraggiosi.

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«Figlia, non lasciare che la carne del porco sporchi il tuo corpo, o ogni altro porco ne sentirà l’odore e si avvicinerà per servirsi di te».

«Madre, il porco non potendo cibarsi della mia carne ha ceduto il mio corpo al branco. Il mio corpo è segnato per sempre».

«Allora, Figlia, sappi che la tua vita sarà una eterna fuga. Dovrai difenderti dagli attacchi dei porci. Loro ti cercheranno e ti troveranno sempre».

∗ ∗ ∗

«Madre, ho vagato per anni nei deserti della vita. Ho conosciuto Uomini e ho incontrato altri porci.Ho pianto, ho riso, ho sofferto e ho gioito.E poi ho incontrato Lei, la Fata dell’Esistenza.Ha guardato il mio corpo illividito dal tempo.Ha scoperto che il mio seno ospitava la morte.Mi ha dato la cura.

FigliaBarbara Balabani

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MENZIONED’ONORE

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Madre, adesso ogni giorno è una conquista, ogni fiore nel prato è una meraviglia, ogni nuvola in cielo è un sogno da realizzare.

Madre, tu che mi hai creata e cresciuta, che mi hai dato la forza di resistere dopo l’attacco dei porci, tu che hai sofferto il mio dolore e ora capisci la mia gioia, aiutami a insegnare alle Persone a usare la lente senza dover passare per la sofferenza.

Aiutami a stendere la rete della solidarietà, della compassione e della serenità, perché ben più forti di me sono i porci, ben più forti di me sono i paladini delle tenebre che ci fanno vivere nella paura e nella angoscia, ma Madre, siamo in tanti a sussurrare nella lingua della Speranza, e possiamo anche imparare a parlare, possiamo imparare a vivere, possiamo impa-rare ad amare.

Forse non riusciremo mai a insegnare la nostra lin-gua a chi non ha orecchie per udirla, ma potremo im-parare tutti assieme a parlare senza vergogna, senza la vergogna di amare e di ricevere amore».

Madre, ho perso i capelli, ho perso le unghie, i miei occhi si sono indeboliti e le mie articolazioni mi creano dolore a ogni singolo movimento come giunti arruggi-niti e incrostati dal sale.

Sono uscita dalla cura gonfia, ustionata e sfinita.Ma la Fata mi ha fatto un dono per compensare

tutto questo.Mi ha dato una lente, mi ha dato la lente della chia-

rezza.Madre, ora lo stupro si chiama stupro, il cancro si

chiama cancro e la depressione si chiama depressione.Ma l’Amore si chiama Amore, la Bellezza si chia-

ma Bellezza, la Vita si chiama Vita, così come già la sofferenza si chiamava sofferenza e la morte si chia-mava morte.

Ma la lente della chiarezza non dà solo nomi alle cose, la lente della chiarezza ti fa vedere senza ma-schera il volto delle persone.

Madre, io non vedo i vestiti, i gioielli, i sorrisi di circostanza. Io vedo le persone.

Vedo le loro paure, la loro forza, il loro coraggio, le loro esitazioni.

Vedo le loro menzogne, i falsi miti, l’arroganza, l’invidia, la prevaricazione, la cattiveria, l’insipienza.

Ma adesso a me non si avvicinano più i porci, ades-so a me si avvicinano le Donne e gli Uomini che non hanno bisogno di nascondere dietro a una maschera il loro volto, perché non hanno nulla di cui provare vergogna.

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Non ti credere, ti avevo già notato nella primavera scorsa, quando solo un tedesco come te poteva stare con il culo su una delle panchine piastrellate che costeg-giano la piscina. Troppo freddo per me che mi sto lec-cando ferite. Leggi, oppure guardi assorto quell’acqua che riflette l’azzurro del fondo. Niente turba la quiete, perché i primi vacanzieri di questo Villaggio Estate non arriveranno che alla metà di giugno. Pentecoste è pas-sata e con lei i tedeschi che sfidano per pochi giorni un tempo non sempre clemente e le gelide acque della pi-scina ora immota. Gli scoiattoli, invece, ci sono sempre e corrono sfidando le congiunzioni fra i rami, come se fossero in autostrada.

La gente che legge mi incuriosisce sempre, così come i carrelli della spesa di chi mi sta davanti alla cas-sa del supermercato. Da entrambe le cose si può in-tuire molto. È per questo che, seguita dalla mia gatta, sdegno le altre panchine vuote e mi siedo accanto a te, seppure a debita distanza. Anche se richiudi il libro te-

Resurrezioni casualiAdriana Reginato

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ci si guadagna in consapevolezza. Come se fosse una meditazione zen estrema: mettici immobilità, digiuno, respirazione, autoisolamento, disorientamento, ma il tutto canalizzato al vedere la luce alla fine del tunnel. Avere un nemico fuori è più facile che averlo dentro.

Non ci siamo neppure presentati, ma sento che devo lasciarlo ai suoi pensieri e la gatta mi segue me-ditabonda. Un ciao per concludere questo incontro è più che sufficiente.

E ora, passata l’estate, ad autunno inoltrato, eccoci qui a incontrarci davanti ai cassonetti delle immondi-zie. Io con un sacchetto di indifferenziata e una “gab-bietta” di bottiglie; tu, con un pacco di cartoni, come a trasloco finito. Tutto sembra imbacuccato: immon-dizie, noi, terreno pieno di foglie e di pigne. La pisci-na è ormai ridotta a uno stagno, brodo primordiale in cui alimentare le raganelle di fine inverno e la pausa per una coppia di anatre selvatiche che migreranno più in là dopo aver preso fiato.

Sono uscita senza occhiali, come al solito e, intenta alla mia solitudine, non mi stupisco se me lo ritrovo a pochi passi questo tedesco che mi dice:

«Mia moglie… mia moglie è morta per cancro al seno l’anno scorso. Il mondo mi è crollato addosso».

Io non so che dire, anzi ho un freddo cane, perché ho una maglietta scollata, in quanto pensavo di but-tare l’immondizia a dieci metri da casa e rientrare di corsa. Invece ora sto tremando, non solo di freddo.

nendoci un dito in mezzo, non riesco a capire il titolo perché è in tedesco, né a decifrare il tuo mezzo sorriso.

«Guten morgen».«Non sono tedesca», ribatto, assolvendoti sul mo-

mento, perché così sembro – teutonica – anche alle commesse del supermercato: longilinea, bionda, gam-be lunghe. Le gambe, effettivamente, sono ancora il pezzo migliore che ho. La linea è molto ammorbidita dall’età che ha superato i sessanta, i capelli striati di un grigio lucente non si sono ancora ripresi dai due cicli di chemio. Non importa. Li batterò io nelle mie “resurrezioni”. Cristo l’ha fatto bene alla prima volta, io sto imparando nel farlo più volte. Del resto tu, con questi pantaloni di velluto a coste un po’ sformati, una pancetta pronunciata, grigio e stempiato quanto basta per denunciare che non sei nel fiore degli anni, non puoi avere a che ridire su una donna ancora pia-cente che ti adesca sulla tua gelida panchina.

«Non parlo tedesco», chiarisco subito. Ma mi sen-to abbastanza stronza da aggiungere: «Do you speak English… or French?»

«No, ma parlo poco italiano».Sollievo, non dovrò mettermi alla prova!«Sei qui al Villaggio per vacanza?» chiedo.«Sì e no», risponde. «La casa è mia, avevo bisogno

di tempo per riflettere. Ma domani parto».Mi sento fuori luogo. Annuisco, capisco, anche per

me è così. Due anni passati a curare il cancro al seno cambiano la vita? Sì, ma se la si prende dal verso giusto,

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«Posso accarezzare?»Ho abbassato di più la maglietta e l’ho lasciato fare.Il tedesco ha passato le sue dita sul mio tatuaggio.

E il mio corpo si è dimenticato della “mutilazione”, perché la sua memoria per moltissimi anni era stata ancorata a un seno, anzi a due tette, non alla mancanza di una. I nervi erano ancora lì, con la loro memoria, ed è stato come se l’inesistente capezzolo, ridotto a seme sotto tanta terra, rifiorisse dopo un lungo inverno.

«Anch’io», e indico la parte dove non c’è più, anzi è rasoterra, il seno sinistro.

«Sì, ti ho vista quest’estate nuotare in piscina, no no, uscire da piscina, con costume…»

E nooo, eh! Già me la sono sfangata nella vita, ora che non mi tocchi uno che, a causa della moglie “cancerizzata”, ci prova davanti ai cassonetti delle immondizie! Poco igienico, se dovesse avvenire qual-cosa. Stavolta sono io che taglio corto:

«Mi dispiace per tua moglie».Getto stizzita il sacchetto nelle immondizie e mi

volto verso di lui.«No», aggiunge, «ho visto la tigre…»Sì, alla mia età, non avevo voglia di riaggiustarmi il

seno. Avevo capito che la femminilità non è un paio di belle tette, ma essere donna dentro, nella propria identità. E che il reciproco piacere sessuale trascende le forme. Quindi, al posto del seno mancante, mi feci tatuare una tigre, anche per salvaguardare me stes-sa con la promessa di non trascurare la prevenzione medica come avevo fatto.

«Tatuaggio», mi indica lui. Abbasso il viso verso il mio seno singolare e non duale, dalla cui scollatu-ra vedo spuntare quella “zampa protettiva”, protesa verso l’altro seno.

«Sì… tatuaggio», rispondo, e avrei potuto aggiun-gere una conferenza nel merito, ma come si fa se la lingua è il tedesco?

Tenerissimo, lui ha allungato un dito e ha aggiunto:

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È realmente possibile chiamarlo incontro?Un incontro, ai miei occhi, è qualcosa di positivo, di

piacevole, qualcosa che in virtù dell’unione tra due “di-versi”, arricchisce entrambi, crea un’armonia nelle parti.

Forse tendo a essere troppo poetica, ma nel mo-mento in cui ho iniziato a scivolare nel tunnel del do-lore, dell’incertezza, fino all’appuntamento, sì, bada-te bene, appuntamento, non incontro, con la radiologa che mi ha comunicato l’esito dei vari test e controlli, non sono riuscita a percepire l’incontro con la malat-tia, bensì uno scontro, una vera e propria scossa che in un attimo ha rovesciato tutto il castello di carta che ho costruito nel tempo.

L’incontro è l’incontro con l’Amore, per cui rin-grazio Dio e l’Universo intero per avermi messo sulla mia strada quel tesoro di Uomo che mi sta a fianco, nonostante tutto, da qualche anno.

L’incontro è una candela accesa con i tuoi cari tutti accanto in una preghiera comune di cui ho un unico

Il regaloEva Belluzzo

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Numeri che per un tecnico sono lavoro, mentre per te sono un destino segnato.

E qui incontri una nuova Te.Una Te che prende in mano la sua vita, che sfida

quanti la danno per spacciata e combatte, con tutte le unghie e i denti, per vincere o quanto meno dare del filo da torcere al nemico.

E davanti alla paura dell’ago incontri tanti Angeli che ti trattano come una bimbetta e si inventano di tutto per farti pensare ad altro: chi, mentre fai i pre-lievi, ti distende, chi chiama in aiuto la collega, chi usa l’ago minuscolo dei bimbi, chi ti consiglia di sentire dentro di te il “Vincerò!” del Nessun dorma. Chi alla fine, tuo malgrado, sconvolgi e che probabilmente cambierà idea sul suo futuro di infermiere.

Incontri il volontariato sotto forma di tanta tene-rezza e dedizione.

Incontri un nuovo modo di vivere la vita.Incontri il tempo che passa, e con esso un suo nuo-

vo valore.La superficialità con cui hai vissuto, la spensiera-

tezza con cui hai affrontato sempre il mondo ti sem-brano lontani, qualcosa che non tornerà più.

Il peso, la gravità di quanto ti investe non ti per-mette più di guardare fuori con gli occhi di prima.

A volte ti scopri pure intollerante nei confronti di chi non apprezza quello che ha, che è quello che ave-vi anche tu. E quindi incontri, per la prima volta, con potenza, la sensibilità e il suo immenso valore.

ma fortissimo ricordo. È un fuoco acceso in una grigia domenica d’autunno tra i tuoi più cari amici.

L’incontro è un abbraccio con persone che non hai più rivisto.

L’incontro è conoscenza di una cultura diversa.È arricchimento. È forza. È unione. È comunione.

È il viaggio, che ti fa partire in un modo e tornare diverso da quello che eri prima.

E più scrivo, più mi accorgo che lo scontro, nel tempo – ma forse fin da subito – diventa incontro.

Lo scontro apre gli occhi, rovescia gli equilibri, ne crea di nuovi, ti trasporta con forza in un mondo che non conoscevi e che piano piano ti trovi a vivere.

E cosi incontri.Incontri per la prima volta la paura negli occhi del

tuo compagno e dei tuoi cari, ma incontri anche la fiducia e la speranza.

Incontri persone che hanno già vissuto quanto ti ritrovi a vivere tu e cerchi, nei loro movimenti, nelle loro parole, nel loro viso, di carpire cosa ti aspetta o cosa ne sarà di te.

Incontri le chiacchiere e le domande della gente, le frasi dette con superficialità o lette su qualche ar-ticolo che ti rimbombano nei giorni seguenti in testa come un mantra negativo che ti mangia dentro.

Percentuali di sopravvivenza, di durata, come fossi una batteria a tempo determinato.

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Un tocco delicato.Il rispetto del silenzio. Dei tuoi tempi.La conferma di una grande amicizia.E ti ritrovi a pensare che questa nave, su cui sei

salita e non sai ancora dove e quando arriverà in por-to, ti ha regalato l’incontro con la maturità, con l’età adulta, con la fine di un periodo della vita fatta di risate e grandi avventure, e l’inizio, o meglio, l’incon-tro con un nuovo modo di vivere che riscopri essere l’unico possibile.

E allora incontri la fragilità di una madre, ma an-che le sue poche parole, calde e potenti, che ti avvol-gono in un abbraccio pieno di amore.

Incontri la Fede, persa negli anni dell’abbondanza e dell’egoismo, e ti ci abbandoni, nella speranza che possa alleviare o addirittura guarire la tua condizione.

Incontri il desiderio di essere una persona miglio-re, e cerchi ogni giorno di perseguire questo nuovo obiettivo.

E ti ritrovi a scoprire che anche uno scontro alla fine è un regalo, un incontro.

E nell’incontro io affronto, a testa alta, la mia condi-zione, come una guerriera di altri tempi, convinta che, nonostante tutto, la mia battaglia la sto già vincendo.

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Ogni giorno pronunciamo migliaia di parole, di so-lito prima le pensiamo, altre volte escono dalla nostra bocca come “a nostra insaputa”, indipendenti dalla nostra volontà e in apparenza senza un perché. Quan-do ci intratteniamo con qualcuno spesso non faccia-mo tanta attenzione alle parole, invece sono proprio loro che possono cambiare un incontro come altri in un incontro unico, capace di risvegliare la nostra co-scienza o i nostri lati più oscuri.

La vita è un grande puzzle di incontri, e ognuno ha parole diverse: se avviene nel momento giusto della nostra esistenza le parole ci sembrano profondamente corrette, mentre se è troppo presto o troppo tardi le percepiamo crudeli o fuori tempo.

Ero una ragazzina, ma ricordo ancora il mio pri-mo grandissimo amore: «Tu sei una brava ragazza, io invece sono matto. Tutti si accontentano nella vita, io invece dalla vita voglio soldi, viaggi, successo, e spo-sarmi molto tardi». Quell’incontro è arrivato troppo

L’incontro rosaNadia Paludetto

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omino dalle gambette corte che assomigliava a Napo-leone, per rispondere alle lettere di contestazioni as-surde e pretestuose del mio capo: voleva licenziarmi perché sapevo che faceva la cresta al bilancio, e poi non avevo nemmeno mai ceduto al suo fascino… In tempi lontani avevo sperato di lavorare lì fino alla pensione ma un bel giorno, quando il capo propose una discreta indennità in denaro per le mie dimissioni, accettai di andarmene.

Era il mio compleanno, e per festeggiare con i miei e il mio compagno ho comprato ben due torte. Sta-vamo cenando nella nostra grande e bella taverna: di solito la usavamo solo d’estate, ma quell’anno faceva ancora caldo sebbene fosse la fine di ottobre. Mia madre aveva appena raccontato l’esito della visita se-nologica fatta quello stesso pomeriggio: «Il dottore vuole togliermi al più presto questo nodulo perché ha detto che a lui i noduli proprio non piacciono».

L’aria della taverna si è fatta improvvisamente gre-ve di umidità. Fintamente distratta, non ho detto nul-la, non ho fatto nulla. Tutte le parole calde e affettuo-se e consolanti e belle e importanti che avrei voluto dirle mi si sono bloccate in gola, morte dentro ancora prima di uscire. La frase limpida, semplice del dottore era come un ritornello che mi rintronava in testa, vo-levo per forza credere che non c’era da preoccuparsi, ma il cuore aveva già capito tutto. Aveva già percepito la gravità e la disperazione che trascinavano con sé quelle parole, mi diceva che quella sera e per sempre

presto nella mia vita, e quelle parole acide mi hanno surgelato il cuore.

Molti anni dopo ho incontrato un altro uomo che per me ha avuto parole migliori. Cuore e mente si sono improvvisamente allineati. Con lui sono riuscita a dimenticare il passato. L’ho sposato un 28 dicembre. È stato il giorno più rigido di quell’inverno, sei gradi sotto zero, una nebbiolina livida quanto gelida, gli al-beri della grande piazza paurosi fantasmi di ghiaccio. Il mio completino bianco, troppo leggero, è stata una velleità pagata cara, con brividi invece pesanti. Non ho più riguardato le foto di quel matrimonio perché i volti dei familiari sono indescrivibili con quella in-credulità di chi non è riuscito a capire davvero perché era lì in quel polare giorno di fine anno.

Solo io e mio marito sapevamo che sono state delle parole semplici, durante un incontro come altri, in un giorno qualsiasi, che hanno cambiato la nostra storia.

Era il giorno del mio trentanovesimo compleanno ed ero strafelice, da poco mi ero licenziata da quel lavoro dove avevo lavorato per due, sopportando in-giustizie e maltrattamenti, per quasi quindici anni.

La mia collega era parente del capo, le sue capacità lavorative erano discutibili ma le tempeste ormonali fre-quenti; più volte la settimana si vedeva con gli amanti lasciandomi sola per tornare dagli incontri sessuali con soldi o piccoli regalini. Tutto in orario lavorativo, di na-scosto dal marito e protetta dal capo.

Ogni venerdì sera incontravo il mio avvocato, un

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sempre riuscita a fare. Non ha affrontato all’insorgere la sua malattia, ha fatto i controlli e si è curata solo quando non lavoravo, così potevo seguire sia lei che mio padre, con le sue molteplici patologie.

Il pensiero che quel primo incontro con l’oncolo-go sia stato tardivo si infrange davanti al grande amo-re di mamma e di moglie. Ogni disquisizione appare solo dissacrante; giudicare con leggerezza la sua de-cisione mi sembra solo offensivo. Ogni parola suona decisamente sbagliata per esprimere la sua scelta di aspettare, anche se ancora provo un doloroso sus-sulto quando, subdola, riaffiora alla mente l’idea che forse poteva soffrire meno e rimanere con noi un po’ di più. Forse, perché non è certo né probabile che quel nodulo così maligno, anche trattato fin dalla sua scoperta, le avrebbe lasciato scampo.

Era luglio, di venerdì pomeriggio, quando sono an-data a trovarla in ospedale. Mentre la pettinavo mi ha raccontato che aveva ricevuto la visita della signora ricoverata nella stessa stanza prima che mia madre fosse trasferita: «La zitella è venuta qui a lamentarsi di tutto, mi ha detto che la sua nuova vicina di letto è proprio una gran contadina, non sa parlare né ve-stirsi». Con voce flebile mi confidò: «Quella lì è pro-prio una vecchia zitella acida», e dopo una pausa per respirare, continuò: «Mi raccomando, tu sposati, non rimanere zitella!»

«Non preoccuparti mamma, entro l’anno mi sposo».Non so perché risposi così, con il mio compagno non

avrei dovuto farcela da sola perché mia madre ora ave-va altre lotte da combattere.

Mentre la mente vagava cercando mille giustificazio-ni gratificanti, continuavo a ripetermi che non c’erano alternative. Ho provato una paura immensa e ignota, la più grande: mai prima di allora avevo pensato di per-dere mia madre; superficialmente, o intelligentemente, non avevo mai considerato questa possibilità.

Molto tempo dopo ho saputo che quel nodulo lo aveva scoperto da mesi, e sono stata presa dallo scon-forto, forse aveva perso tempo prezioso che avrebbe potuto dedicare alle cure. Forse.

Ho messo anche gli eventi della sua malattia in ordine di tempo: solo dopo le mie dimissioni dal la-voro fece la prima visita senologica, che portò alla mastectomia e alla chemioterapia. Mentre io avevo un lavoro temporaneo, si concesse qualche giorno al mare, e solo in autunno, quando mi ritrovai di nuovo disoccupata, lei scoprì la metastasi ossea e si sottopo-se all’intervento per la rottura del femore. All’inizio dell’anno successivo l’accompagnai a fare radiotera-pia, fisioterapia e altri cicli di chemio fino a luglio, quando fu ricoverata dopo l’accertamento di una me-tastasi polmonare.

Non provo più rabbia, anzi mi sono sentita inge-nua per non aver compreso subito che in ogni fase della sua malattia ha pensato prima alla famiglia che a se stessa; sapeva che lottando contro un cancro non avrebbe più potuto difenderla e proteggerla com’era

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da una stanza all’altra per cercare di riempire quella solitudine che sentivamo senza di lei, ma il nostro ma-lessere non passava, non passava mai.

«Ciao, sei ancora a casa dal lavoro dall’anno scorso? Perché non vieni nella scuola dove lavoro io?»

Queste le domande di una mia compaesana che mi telefonò alla fine di settembre.

«L’anno scorso in spiaggia ho incontrato tua madre, mi disse che già a settembre saresti rimasta disoccupa-ta. So che lei non c’è più da qualche settimana, ti faccio le mie condoglianze. Sai, era molto preoccupata per te, ha chiesto informazioni sul mio lavoro perché tu hai un diploma e potresti lavorare come me in una scuola».

Non avevo ancora cercato un nuovo lavoro, ma que-sta idea non mi aveva mai sfiorato, erano passati più di vent’anni da quando avevo conseguito il diploma!

Continuò a raccontarmi di quell’incontro: «Questo è l’ultimo anno che vengo al mare», le disse mia ma-dre, e quelle parole dette con calma e risolutezza ri-masero così indelebili nella sua memoria da chiamar-mi molti mesi più tardi, non appena nel suo istituto scolastico c’è stato bisogno di assumere una persona.Più di un anno prima, in quell’estate, tutti ci senti-vamo sollevati: la chemio era finita e credevamo mia madre guarita. Invece lei aveva già capito di non avere più tanto tempo a disposizione e ha cercato di trovar-mi un lavoro per quando tutto fosse finito. Non ho trovato altre spiegazioni a quelle parole se non l’amo-re incommensurabile di una madre nei confronti di

parlavo da millenni di matrimonio. Le parole uscirono dalla mia bocca da sole, mia madre non disse nulla, ho creduto che non le avesse nemmeno sentite, e ho con-tinuato a pettinarla.

Una zia che la vide il giorno dopo mi ha raccontato la felicità di mia madre nel dirle che mi sarei sposata presto, e il suo impeto nel comunicarglielo, come se avesse una grandissima fretta di farlo sapere, pronun-ciando le parole con quel filo ormai sottilissimo di voce con cui riusciva a malapena a parlare, interrotta dai troppi respiri corti e affannosi.

Ci ha lasciato tre giorni dopo.Si è spenta serenamente grazie alle mie parole che

senza un pensiero sono arrivate dal cuore, è questa la spiegazione che mi sono data per giustificarne l’inconsapevole pronuncia, dopo averle dette in un pomeriggio di un giorno qualsiasi, in un incontro che sembrava come tanti altri, durante una malattia che pensavo ancora lunga. Invece è stato l’ultimo in-contro fra noi due sole, l’ultima occasione per lei di esprimere il suo più grande desiderio e per me l’ulti-mo momento per darle una vera gioia.

Un desiderio che mi ha cambiato la vita, perché vo-glio credere che nulla succede per caso. Il fato ci domina come dicono i classici greci o siamo noi che vogliamo dare una ragione a ogni cosa?

Dopo quel giorno di fine luglio la casa era diventata troppo grande e silenziosa, io e mio padre vagavamo

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moglie, ricordo la piena felicità per la decisione del mio compagno di scegliermi fra tutte le donne del mondo per condividere il resto della sua vita con me, promet-tendolo sia davanti alla legge che alla Chiesa. Final-mente un po’ di serenità con un marito che mi aveva sposato, seppur in momenti e cerimonie diverse, ben due volte!

Sposata da pochissime settimane, mi sentivo anco-ra in luna di miele quando, ai primi di giugno, lui è tornato da un viaggio di lavoro all’estero con una gran tosse, a cui è seguita anche la febbre.

Gli esami di laboratorio hanno confermato che qual-cosa non andava. Terminata la colonscopia, il medico, amico di famiglia, mi chiamò in ambulatorio: «Suo ma-rito non ha un polipo da predisposizione ereditaria, c’è qualcosa di molto grande che ostruisce il colon». Era la seconda volta nella mia vita che le poche parole concise di un medico mi facevano tanta paura.

Insieme abbiamo ritirato il referto della biopsia; il caldo agostano era molto afoso, ma le parole scritte mi hanno raggelato, un altro cancro silenziosamente pericoloso si era presentato alla mia porta e davanti al mio fresco matrimonio. Tornati a casa, in quell’ap-partamento che ancora odorava di legno nuovo, tutto mi è sembrato estraneo e diverso.

Il succedersi degli esami, dell’intervento e della che-mioterapia è stato incalzante.

Mi sorprendo ancora a ridere ricordando i festeg-giamenti per la fine della terapia: mio marito è torna-

una figlia, un tentativo disperato e ultimo di aiutarla prima della fine.

A ottobre sono entrata nella mia prima scuola, ed è stato terribile: un esercito di mostriciattoli che mi scrutavano con occhi inquisitori. Ricordo la prima esercitazione antincendio: una bambina ha confuso la campanella d’allarme con quella della fine delle le-zioni e ha voluto a tutti i costi preparare lo zaino e indossare il cappotto prima di uscire dalla sua classe. Quando siamo arrivati in cortile, per ultimi, tutti i bambini della scuola ci hanno cantato una canzonci-na: «Bruciati, siete tutti bruciati, lallallà» .

Il lavoro era arrivato inaspettato e mi aveva co-stretto a resettare la mia vita: un nuovo ambiente da cui imparare a difendersi, la precarietà, le difficoltà e l’insicurezza di chi fa le cose per la prima volta.

Però mi sono detta che a quarantun anni poteva iniziare per me una vita nuova, che ora potevo pensa-re a quel matrimonio di cui non avevo mai confessato il desiderio, neppure a me stessa, perché oppressa pri-ma da problemi di lavoro e poi dalle condizioni di mia madre. Come da promessa il matrimonio fu celebrato il 28 dicembre, entro la fine di quell’anno.

Io e il mio già marito abbiamo poi fissato anche la data della cerimonia in chiesa, per la primavera succes-siva. È stata una giornata caldissima, alcune invitate alle nozze hanno passeggiato a piedi nudi nel parco della villa del ricevimento, nonostante fosse solo fine aprile.

Siamo andati a vivere insieme, adesso ero “del tutto”

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Quel giorno di metà luglio l’ho passato tutto in giardino fra le mie bambine, un giorno dal caldo esa-sperante e deprimente. Sotto la doccia per sette, otto o forse mille volte ho passato la mano sul seno sini-stro. Non era possibile che, come in un gioco di pre-stigio, all’improvviso ci fosse un grande nodulo mai sentito prima. Ogni volta che ci passavo sopra con la mano sembrava diventare più grande. Non volevo crederci, e in un attimo ho ripercorso i momenti della mia vita nei quali mi sono trovata di fronte a una ma-lattia oncologica: quella tragica di mia madre, e poi quella di mio marito, per cui ho rischiato di rimanere vedova appena sposata.

Poi ho pensato ai tanti e tanti anni di puntuali con-trolli mammografici, sempre negativi, alle sere in cui avevo ringraziato il Signore per aver salvato mio ma-rito dal tumore e mio padre dai tanti infarti, ricordan-doGli sempre che la mia famiglia aveva già sofferto abbastanza per il decorso della malattia di mia madre, per l’infermità e per l’inefficacia delle cure contro quel male che l’ha portata via troppo presto.

Io ora non potevo avere problemi di salute, la mia famiglia aveva già dato.

Pochi giorni dopo avevo l’appuntamento annuale per la mammografia e l’ecografia, fissato da tempo.

Per arrivare a quel centro medico mi sono persa in mezzo alla campagna, anche se la strada era semplice e l’avevo già percorsa. Sono arrivata molto in ritardo, mi avevano già cancellata dalla lista della pazienti di

to a casa con un’anguria di quattordici chili, è stata l’anguria più dolce, rossa e saporita della mia vita, e anche la più costosa, dato che a fine maggio era fuori stagione. Ma nulla ci avrebbe impedito di riscattarci da quella cena a lume di candela per il nostro primo anniversario di nozze annullata per le condizioni pre-carie di mio marito; nessun prezzo ci avrebbe impe-dito di festeggiare la fine di una galleria lunga e buia, anche se da parte sua non c’è mai stato un lamento per le sofferenze che provava. Pur non credendo alla sua efficacia, aveva accettato di fare la terapia, ma solo per amore: «La faccio solo per te, per non lasciare nul-la d’intentato, perché voglio dire alla fine d’aver fatto tutto il possibile per restare il più a lungo con te». Negli anni successivi tante volte ho perso la pazienza. Come Penelope che tesseva e poi disfaceva la tela, io prenotavo esami e visite di controllo e poi lui me li faceva disdire, anche più volte. Il tempo per i controlli lo trovava solo all’ultimo minuto…

Stanchi di abitare in centro abbiamo cambiato casa, trovandone una con un piccolo giardino tutto nostro e due belle terrazze, i quasi cento vasi con dentro le mie bambine avevano bisogno di spazio. Il mio lavoro mi lascia libera nei mesi estivi, i fiori e le piante sono la mia grande passione; mio marito non la condivide, ma i suoi sensi di colpa per lasciarmi spesso sola mi sono utili per costringerlo ad aiutarmi nei lavoretti più pesanti.

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cancro «piccolo, piccolissimo, appena nove millime-tri, ma decisamente maligno. È anche poco frequente averne due molto diversi fra loro. Lei, signora, è un caso particolare».

Sono rimasta impietrita, proprio come quella volta che arrivata sopra la Torre di Pisa non riuscivo più a muovermi, bloccata dal terrore di cadere e dalla stan-chezza per aver fatto tanta fatica a salire fin lassù. Sono solo riuscita a dire: «Anche quello di destra è un cancro?» con la lingua a penzoloni e la bocca spa-lancata, stanca di aver percorso tante strade dolorose prima di arrivare lì.

«Risolviamo, non è che non risolviamo», queste le parole che risuonarono nell’aria davanti alla mia pro-fonda disperazione, che nel momento di massimo stordimento mi hanno riportato sul pianeta Terra, su quella sedia e davanti a quei fogli di carta compilati in un laboratorio. Credo di aver provato nello stes-so istante tutte le emozioni negative che si possono umanamente provare nell’unità di tempo, un insieme di pensieri e sensazioni fisiche, un cocktail paraliz-zante di impotenza e delusione, di tristezza e terrore.

Dopo mia madre e mio marito, era toccato anche a me. Il pensiero è volato alle lacrime di mio marito quando non pensava di farcela e diceva che per lui la vita in fondo poteva anche finire lì; con me aveva raggiungo l’apice della felicità e non poteva desidera-re niente di più. Poi mi è venuto in mente mio padre, così fragile da doverlo proteggere da altri dispiaceri

quel giorno e ho rischiato addirittura di non poter fare i controlli.

Con la prima occhiata all’ecografia del seno sinistro la dottoressa ha fatto un balzo all’indietro e, come un insetto appena catturato, ha cominciato a girare vorti-cosamente intorno al mio lettino, ripetendo sottovoce la cantilena: «Questa non è una cisti, questa non è una cisti». Più la dottoressa cercava di calmarsi per non spaventarmi, più ero consapevole che se non era una cisti, era per forza qualcos’altro.

Una settimana dopo, alla visita chirurgica senologica mi hanno presentato anche un’altra dottoressa: sono stati ben undici, alla fine, i buchi ai seni fra anestesie, aghi aspirati e biopsie.

All’incontro per l’esito istologico sono arrivata pre-parata, in quei dieci giorni di attesa ho pensato tanto, e anche se inizialmente avevo creduto di non avere questo cancro (vuoi vedere che si sono sbagliati tut-ti?), poi ho scartato l’idea e previsto un intervento chi-rurgico al seno sinistro e una successiva terapia. La dottoressa mi è sembrata subito troppo sicura della presenza di qualcosa di anomalo.

Infatti il sospetto che il nodulo al seno sinistro fos-se maligno è stato confermato. Ma non avevo con-siderato che al peggio non c’è fine. Tra le mie tante ipotesi di cancro avevo sempre pensato al singolare. Eppure l’ultima dottoressa aveva voluto caparbia-mente fare una biopsia anche al seno destro, dove si era sempre parlato solo di calcificazioni. C’era un

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mentre la storia di mio marito l’ho immaginata di un freddo grigio metallico, perché di un metallo ferroso era il disgustoso sapore che sentiva in bocca durante i mesi di chemioterapia. E per i miei due, che colori scegliere? Ho pensato al blu scurissimo e al nero, en-trambi senza luce.

Allora mi sono guardata alla specchio e ho guarda-to i miei due nuovi seni, che affettuosamente chiamo “le mie gemelline”, e il primo pensiero è andato a mia madre che era stata molto più brava dei chirurghi, do-nandomi seni più regolari, sodi e omogenei. Ho visto la pelle di un rosa chiarissimo e luminoso, con i due capezzolini rosa acceso, e ho creduto di vedere pure le mani di mia madre morbidamente rosate avvolgermi delicatamente le spalle.

All’improvviso ho sentito una profonda tenerezza, e qualcosa di forte esplodere dentro di me, un’emo-zione che mi ha dato la consapevolezza che potevo farcela, e che mi ha dato quella forza che non crede-vo più possibile.

La vita è un puzzle di incontri, coincidenze, parole e colori: voglio credere che il mio futuro sarà rosa, voglio che la mia vita d’ora in poi sia un quadro pen-nellato di tante sue sfumature.

Vedo già il rosa trasparente della mia coscienza, priva di rimpianti per cure tardive e sicura di aver cercato i medici più capaci, come vedo anche il rosa confetto di mio marito che ho promesso di sposare tanti anni fa e che dopo una profonda ira per il no-

dopo la perdita di mia madre, e i miei amici, sommer-si da problemi di ogni genere.

Mio marito sapeva ogni cosa, ma a tutti gli altri ho deciso di non dire nulla, non volevo dare preoccupa-zione a chi mi voleva bene. E non volevo farmi com-patire dagli altri, non volevo pietà da chi non mi ha mai accettato per quella che sono, da chi non ha mai con-diviso i miei pensieri. Quella vibrazione dolorosa che ti pervade e ti fa mancare il respiro, che ti fa pensare che potrebbe finire tutto in un attimo, affetti, desideri, progetti, ricordi, chi l’avrebbe compresa sinceramente? Non avrei sopportato le considerazioni morbose sulla mia vita, le mie presunte colpe o mancanze per una malattia di cui al mondo, invece, ancora nessuno cono-sce la vera causa.

Non volevo niente da nessuno, però mi mancava ogni vigore, ora che dovevo lottare in prima persona mi sentivo esausta di fronte a queste ennesime ripide salite da affrontare. Per i miei familiari malati avevo stretto i denti e usato unghie molto affilate, ma adesso era tutta un’altra storia, per settimane mi sono lasciata trascinare stancamente dai giorni con apatia e rassegnazione.

Quello al seno destro è stato il quarto cancro in ordine cronologico nella mia famiglia. A me piace di-pingere e così ho pensato di dare a ognuno un colore, quello che meglio lo rappresenta. Quello di mia ma-dre l’ho pensato verde scuro, come la palude soffo-cante e fangosa che l’ha intrappolata e poi risucchiata,

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stro destino malato ora mi aiuta e consola. Ricono-sco pure un prezioso rosa pesco di cui è colorato il mio lavoro, che non avevo mai considerato e che in-vece mia madre aveva intuito giusto per me, e infine, dipinto di rosa antico, è il mio grande e costante im-pegno per mio padre che gli ha permesso di arrivare alla terza età con dignità.

Sono passati tanti anni da quel primo incontro, e so che nel nome del passato e di antiche sofferenze nulla posso pretendere, ma quel rosa che ora sento nel cuore è una filosofia che mi farà dire sempre: «Ri-solviamo, non è che non risolviamo».

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«Signora, gli esami dicono che lei ha un cancro».La dottoressa non smetteva di guardarmi, aveva già

capito che era l’unico modo di attirare la mia attenzione. Non volevo saperlo, avrei voluto avere una notizia mi-gliore, tipo: «Signora, ci siamo preoccupati per niente. Ecco, tenga i suoi esami. Se ha bisogno in futuro, noi siamo qui». E invece no. Aveva proprio detto così. A me.

Ero lì, seduta davanti alla sua scrivania in quell’am-bulatorio bianco, asettico, illuminato solo da luci bian-che e neon. Continuava a chiedermi se avessi delle domande da fare. E io muta. Avevo già staccato il cervello. Mi chiedevo che tipo di domande si fanno in questi casi. Cosa dovevo chiedere? Sentivo a mala-pena la voce di mia sorella accanto a me che chiedeva: «Sicuri che è maligno?» Credo che la risposta sia stata: «Non saremo qui a parlarne». Non ho sentito altro. Ero come in trance. Io non so niente di cancro. Come può essere successo a me? Che sbagli ho fatto? Non conosco nessuno che lo abbia avuto. E poi sono gio-

Niente succede per casoBarbara Piccolo

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forse. O forse ognuna si faceva la propria vita e ogni tanto una aggiornava l’altra. Ecco cos’era il nostro rap-porto. Poi è arrivato quel maledetto giorno d’aprile del 2008. “Signora, lei ha un cancro”, diceva la dottoressa. A te per prima, a me e a tutti dopo, è caduto il mon-do addosso. “Perché a lei?” Impotenti davanti a questa situazione, eravamo quasi incapaci di dare aiuto e so-stegno necessari. Mamma non lo faceva vedere ma era entrata in crisi, papà non parlava più. È stato un duro colpo. Strano a dirsi, ma proprio questa tragedia ci ha permesso di incontrarci di nuovo. Come dici tu, niente succede per caso. Da qui abbiamo cominciato ad avvi-cinarci un po’ di più. A parlare di più. La mia odiosa/amata sorella: sei solare e allo stesso tempo buia, sim-patica e a volte indisponente, al passo coi tempi e a volte bigotta. Versatile? Forse, chi lo sa? Al di là di tutto, proprio per questi motivi, tutti ti vogliono bene!»

Sister

∗ ∗ ∗

Siamo uscite dall’ospedale senza dire una parola. Avevo la testa vuota. Che pensieri si fanno in questi casi? Boh! Non riuscivo più a pensare. Ero tornata in trance. Mia sorella era sparita. Sì, guidava al mio fianco, ma non vedevo né lei né la strada del ritorno a casa. Non ricordo più niente di quel giorno. Non ricordo nemmeno come l’ho detto a casa, ai miei, con cui vive-vo da qualche tempo per motivi pratici, lavoro, figlio.

vane. Ho trentotto anni, santo cielo! Il cancro è una di quelle malattie che ti vengono per anzianità, no? Non ho mai visto o sentito di una donna giovane che si ammala di cancro. Quei rari casi sono genetici. Io non avevo nessuno con lo stesso collegamento genetico. Nessuna familiarità. E poi se ti dicono di fare la mam-mografia dopo i quarant’anni, con tanto di screening regionale e cose simili, e io ne ho trentotto… come può essere? E poi consigliano come prevenzione di allattare al seno… Ho allattato mio figlio per quasi nove mesi. Non era sufficiente? Conosco donne che non hanno mai allattato e stanno bene. Ma che consi-gli danno, allora? D’accordo che fumo, ma il cancro al seno cosa c’entra coi polmoni? E poi che ho fatto di male? Che punizione divina ho meritato?

La dottoressa continuava a guardarmi mentre ri-spondeva alle domande di mia sorella. Sembrava leg-gesse i miei pensieri sconclusionati e prima di con-gedarsi mi ha rassicurata: «Non è colpa sua. Non è colpa di nessuno. Lei ora è spaventata ma noi siamo qui per lei. Non deve fare niente. Riceverà una chia-mata in questi giorni con tutti gli appuntamenti che le servono e tutte le istruzioni su come fare e dove andare. Non si preoccupi, facciamo tutto noi».

Due sorelle come tante«Da piccole litigavamo sempre. Finché un giorno te

ne sei andata a vivere per conto tuo. E da lì abbiamo cominciato a litigare meno. Ad andare più d’accordo,

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malattia come una condanna a morte, lenta e inesora-bile, e non sapendo che dire o fare, o semplicemente come prendermi (più che altro perché mancavano di esperienza) si tenevano a debita distanza di sicurezza.

Per fortuna, si sbagliavano. Le cure sarebbero du-rate un anno e mezzo (neanche poco), ma con buone probabilità di soluzione definitiva. Dal cancro ci si può anche salvare. Le volontarie dell’associazione lo sapeva-no e mi hanno aiutato davvero tantissimo: quasi senza chiedere si sono occupate di capirmi, ascoltarmi, soste-nermi nei momenti di sconforto.

La speranza è un bene contagioso«Come tante prima di te, quando ci siamo incon-

trate eri arrabbiatissima, scocciata perché questo “in-cidente di percorso” ti stava scombinando i piani di una vita già piuttosto intensa, facendoti perdere tem-po prezioso. In balìa di mille cose di cui lamentarti per l’ingiustizia subita, scegliesti di ascoltare le altre donne che sono arrivate da noi prima di te. E mano a mano che le altre raccontavano la propria storia, ve-devamo il tuo viso rasserenarsi. Avevi capito una cosa importante: non eri l’unica a subire questa prepoten-za dalla vita. Ti sentivi meno sola. Si stava facendo strada la speranza. Si è visto e sentito subito. Ricordo che te ne sei andata da quel nostro primo incontro e dai successivi piena di speranza di farcela, di essere in buone mani e che la guarigione era possibile. Anzi, hai iniziato a dire: “Certo che ce la faccio! E se posso

Ricordo solo che non sapevo a chi avrei potuto dirlo. Non avevo amiche del cuore a cui confidare questa bomba. Avevo solo un amico (un ex che si è rivelato al bisogno un buon amico) che mi ha accompagnato per tutte le prime visite e mi ha sostenuto fintanto che non ho ripreso il controllo della situazione.

Nel giro di qualche settimana dalla diagnosi sono sta-ta ricoverata per la prima chemioterapia. Ne avrei avu-te ventiquattro da fare settimanalmente per ridurre la massa tumorale già grande, e poi l’intervento. Sarebbe seguito un altro ciclo di dodici per completare il tutto.

Guardandomi intorno non ho saputo trovare un’an-cora di salvezza. Il mio amico sarebbe partito per la-voro e non avrei potuto contare su di lui. Per la prima volta in vita mia ho capito che da sola non potevo far-cela e che dovevo chiedere aiuto. Ho chiesto il suppor-to psicologico in ospedale. Ho trovato una dottoressa gentile che dopo qualche seduta mi ha consigliato di frequentare gli incontri da lei tenuti con un gruppo di donne e volontarie che hanno passato il mio dramma. È stata la mia salvezza. Donne che parlavano la mia lingua, che avevano le mie stesse paure, i miei dubbi, le mie incertezze, la mia rabbia. Mi sono sentita a casa. Il paragone con le altre esperienze è stato fondamentale. Confrontarmi con chi stava finendo, o aveva già finito, le cure mi riempiva di speranza. Non avevo più l’ignoto davanti, ma dati certi, vissuti. E non è cosa da poco.

Solo ora comprendo che familiari e amici non han-no avuto questa mia possibilità. Loro vedevano la mia

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giornate, mi dedicavo all’associazione come se quella fosse la cosa che avrei voluto fare per il resto della mia vita. E invece no. Forse non era quella la strada per me o per lo meno non era quello il momento. La malattia si è ripresentata. Recidiva del tumore che pensavo di aver sconfitto. Ho dovuto ricominciare con le chemio-terapie. Niente più servizi in ospedale, mi dicevano, di-fese immunitarie basse, salute a rischio. Ho continuato a frequentare l’associazione nei due incontri mensili di formazione. Cercavo di dare il mio contributo aiu-tando nell’organizzazione. Anche se era ben poco e la frustrazione di non poter essere “clown attivo” come gli altri era forte, ho continuato lo stesso. In qualche modo mi faceva bene.

In associazione ho fatto mistero della ripresa della malattia con tutti, tranne che con la Direzione (mi è riu-scito bene nasconderlo dal momento che questa nuova terapia non mi ha fatto cadere i capelli). Non volevo essere trattata diversamente solo perché malata. Nono-stante questo, piano piano anche all’interno dell’asso-ciazione ho trovato sostegno da parte di persone che, a pelle, mi sono sembrate in grado di comprendere ciò che stavo passando, a volte senza nemmeno parlarne.

Niente succede per caso«È il 2013 quando intraprendo un percorso perso-

nale che mi porta a fare un corso per donare sorrisi agli ammalati (clown di corsia). È lì che ci siamo in-contrate! A pelle ci siamo state simpatiche e, perso-

farcela io, ce la possono fare tutte”. Hai cominciato a essere positiva non solo per te ma anche per le altre. Davi coraggio anche alle più disperate, come se già conoscessi cosa sarebbe accaduto o sapessi cose che nessun altro poteva sapere. E la fortuna è che la tua speranza contagiava tutte».

Carmela e Mariella

∗ ∗ ∗

Il tempo è passato, i capelli sono ricresciuti, il tumo-re debellato, la vita è ricominciata come se non aves-si mai avuto questo “incidente di percorso”. A quel punto volevo solo dimenticare e proseguire la mia vita ritornata finalmente “normale”. L’unica cosa che sa-rebbe rimasta ancorata a quel periodo è il bisogno di “ritornare il favore” alle volontarie che mi hanno aiu-tata, cercando anch’io di fare volontariato.

Non potendo dedicarmi alla stessa associazione per-ché ancora “fresca di esperienza”, mi sono ritrovata quasi per caso a fare un corso di formazione per clown di corsia. Sono entrata in un mondo molto lontano dal-la mia quotidianità, un mondo che predilige e ricerca le emozioni e il contatto con l’altro. Mondo a cui non sono mai stata abituata ma, guarda caso, “iniziata” proprio dalle famose volontarie. Niente succede per caso.

Il tempo scorreva tranquillo e, dopo opportuna for-mazione, ho cominciato a fare “servizi” in ospedale e in casa di riposo. La felicità di “dare” mi riempiva le

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“Mi raseranno la zona”.“Che importa! La pettinatura rasata da una lato è di

gran moda!”“Dovrò smettere di lavorare per un po’”.“Che importa! Serve dire qual è il lato positivo?”In mezzo ci sono stati il Carnevale, le riunioni, il

viaggio per il raduno dell’associazione, mille e più svariatissimi messaggi… Eppure dalla mia bocca non è mai uscito un come stai, perché vedo la tua paura, la rabbia, il risentimento, la ciccetta che cala, il rosa che impallidisce, i capelli che cadono. Come stai te lo chiedevo quando stavi bene, perché aveva un senso. Adesso ho smesso di chiedertelo, credo soprattutto per rispetto. Perché credo che a questa domanda, in certe situazioni, ci siano solo risposte poco piacevoli.

Per te e per me. Non ti chiedo nient’altro in merito perché so che già troppo spesso devi parlare di quello che hai, di come ti senti. La mia tecnica è di non farti pensare, non parlare di questo schifo, accantonare per un po’ tutto il male e vivere solo per tutto il bello che c’è. Preferisco essere la tua isola diversa, portarti con la mente in posti anche banali ma lontani dalla tua difficile situazione. Questa mia tecnica non so se funziona e soprattutto non so se è più uno scudo per me o un isola tranquilla per te. Forse è sempre la solita questione di equilibrio: un riparo sereno per entrambe».

Gioia

nalmente, ho capito subito che hai la scorza dura, che nella tua vita devi averne passate tante, ma non ti ho chiesto niente. Spesso il sorriso più forte nasconde le cicatrici più brutte! Niente succede per caso, e in modo naturale il nostro rapporto di amicizia piano piano si avvia! Non lo so perché sei capitata a me o perché io sono capitata a te: se a te serve la mia dote innata di vedere sempre almeno un lato positivo in tutto o se a me serve la tua dote innata di lottatrice instancabile! Ce lo diciamo sempre, niente succede per caso, per cui forse è solo una questione di equili-brio: siamo capitate a noi perché siamo un equilibrio di lotta instancabilmente positiva!

Ci frequentiamo tramite l’associazione Claun ma nei ritagli extra ci conosciamo e vengo a sapere che troppe volte hai dovuto lottare, che questa vita te la sei proprio guadagnata, che questa vita è attaccata a te molto più forte di quelle “quattro cellule” maligne che troppo spesso ti si sono riproposte! Quando ti ho conosciuta avevi già vinto più di una battaglia. Eri già tagliuzzata e rimarginata. Ti ho conosciuta a “pericolo passato”. O almeno lo credevo. Ti ho conosciuta bel-la, coi capelli lunghi, un po’ ciccetta e rosa!

Arriva il 2015. Da “Ho avuto una crisi epilettica”, a “Ho una massa nel cervello che devono operare”, il passo è stato troppo breve e nel mezzo c’è stato:

“Non posso più guidare”.“Che importa! Sarai come una regina! Le regine non

guidano: si fanno scarrozzare!”

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accettare la malattia, la perdita, l’abbandono. Non vuoi. È stato straziante, ma per fortuna c’è stata l’embolia.

Qualche anno più tardi mi sono ritrovata a fare i conti di nuovo con questa malattia: questa volta si trattava di uno zio burbero. Dopo aver passato una vita da solo, il fatto che stavamo con lui lo rendeva felice. La malattia l’aveva cambiato, era diventato dolcissimo.

E ancora qualche anno dopo eccoci di nuovo con mia suocera, la mia seconda mamma. Anche se ero già adulta e caratterialmente più forte, ho rivissuto le stesse emozioni che ho provato con mia madre: la paura ha fatto di nuovo da protagonista, rendendo tutto molto difficile e doloroso, soprattutto nella fase terminale.

Poi, un anno fa credo, arriva un tuo messaggio in cui mi mettevi al corrente della tua situazione, della tua malattia. Mi si è gelato il sangue. Ho pensato che non ce l’avrei fatta ad affrontare anche questo senza rivivere quello che avevo conosciuto: paura e dolore. E invece no! In questo caso, mi hai guarita. Tu, nella tua malattia, mi hai insegnato come essere forte e che le cose vanno accettate. Mi hai dimostrato come una mentalità aperta ti aiuta a vivere, come dobbiamo ar-rivare ad amare noi stessi. Io non sono una persona che ti ha seguita nel momento del dolore fisico della malattia ma, se ti serve, adesso ci sono! Più forte che mai, perché me l’hai insegnato tu. Mi stai insegnando a vivere. Essendo geneticamente predisposta a questo tipo di malattie, ho vissuto a lungo con la paura che un giorno sarei stata colpita anch’io. Ora ho fatto pace

Continui a guarirmi«Ho incontrato il cancro più volte mella mia vita: mia

madre, mio zio, mia suocera, tu. Quando avevo sedici anni ho avuto la tremenda notizia che mia mamma era malata, ormai il cancro era nel fegato, nel pancreas, nell’intestino… Non lo so perché, ma non avevo ca-pito subito cosa volesse dire, le mie sorelle mi dice-vano che non dovevo parlare con mamma della sua malattia, non dovevo piangere e dovevo restare indif-ferente come non fosse successo niente, ma ancora non capivo.

Finché mi hanno spiegato che lei stava per morire, e non lo sapeva. Mi sono sentita cadere il mondo addos-so. Avrei voluto andare a piangere con lei, dirle che sen-za di lei non potevo più vivere e soprattutto pensavo di non poter riuscire più a parlare con lei in quei giorni, perché non potevo piangere! Poi, non lo so come, ho preso il coraggio, i nostri sguardi erano carichi di paura, perché lei sapeva, io sapevo.

Abbiamo potuto condividere ben poco. Dopo solo un mese dal quel giorno nero è partita un’embolia. Ricordo la rabbia, mi era stata portata via mia madre troppo giovane e in così poco tempo, avevo ancora troppe cose da dirle.

Ripensandoci adesso, ritengo l’episodio dell’embo-lia una fortuna: prima di salire in ambulanza, lei ci ha salutato con uno sguardo pieno di serenità. Stare vici-no a una persona malata, soprattutto se è la mamma e tu sei la sua piccola, è davvero difficile. Non riesci ad

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quella sua mania di mettere in discussione tutto, medici compresi, perché non accettava le cose come stavano. La terapia era forte e succedeva spesso che non potes-si farla perché il corpo non rispondeva, si intossicava e basta. Secondo lei c’era un’altra versione delle cose: contestava le scelte e persino le cure e i metodi, per po-tersene andare a casa con la coscienza in ordine, di chi almeno ha fatto il suo. E invece no, non era per quello. Era così perché si sentiva impotente. Anch’io mi senti-vo impotente. Ho sempre pensato che essere positiva, continuare a fare la vita di sempre (solo con più entu-siasmo), prendermi più cura di me stessa ed evitare lo stress bastasse a darmi una marcia in più verso la gua-rigione. E invece no. Non era abbastanza. Non stava funzionando.

Nel frattempo, mio padre si stava lasciando andare. Lo vedevo peggiorare giorno per giorno, sotto i miei occhi. È stata dura stargli vicino. Mi stavo immede-simando nelle sue emozioni, nella sua disperazione, nella sua depressione. Quando lo guardavo vedevo in lui un’anteprima della mia fine. Stavo per cadere nel baratro. E allora, click, ho cambiato modalità: io ero io, mio padre era mio padre. Lui era in difficoltà e io avrei potuto stargli vicino, non più con paura o compassione, ma con positività e comprensione. Comprensione di chi è paziente come te, di chi ha passato vicende simili alle tue.

Mio padre, dopo qualche mese, nella serenità di un hospice e fra gli affetti della famiglia, è venuto a man-

con questa spada di Damocle e so che, se mi doves-se succedere, il tuo esempio mi permetterà di andare avanti al meglio. Niente succede per caso. Sono felice, di avere avuto la fortuna di incontrarti!»

Mandorla

∗ ∗ ∗

La diagnosi di recidiva non è stata una cosa da poco. Dovevo ricominciare tutto da capo. Ero disperata. Mentre piangevo fuori dall’ospedale, mi ha chiamata mia sorella per mettermi al corrente che mio padre era malato. Ho scoperto che, mentre io mi occupavo dei miei esami, il resto della famiglia si occupava di mio padre. Alla fine, senza saperlo, eravamo tutti e due nella stessa barca, contemporaneamente. Io con la mia recidiva e mio padre con un tumore allo sto-maco. Io in una struttura e lui in un’altra. Abitavamo insieme però, sotto lo stesso tetto. Mia madre si occu-pava di mio padre e mia sorella di me. Che situazione! Aveva un che di assurdo.

Mia sorella è stata una rivelazione. Lei è sempre sta-ta a debita distanza da me e dalla mia malattia perché, come tantissimi altri, forse riteneva che, fra le due, la forte ero io e non avrebbe potuto essermi di aiuto (e io non le ho mai fatto intendere il contrario: non chiede-vo aiuto, non ne ero capace). In questa occasione, in-vece, ha superato paure, blocchi e limitazioni cercando di fare tutto ciò che poteva. All’inizio non sopportavo

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smo, nonostante tutto, ha alleggerito il mio peso. Quan-do poi ci siamo frequentate e subito dopo hai dovuto combattere l’ennesima battaglia contro il male, hai ac-centuato in me il pensiero di aver trovato in te la grande forza che ho visto in mio figlio. Ti confesso che più di una volta, volevo lasciarmi andare, ma il pensiero di quello che stavi affrontando, del modo in cui lo affron-tavi, con tanto coraggio e voglia di vivere, mi ha fatto un po’ “vergognare” dei brutti pensieri che mi sono venuti. Per questo penso che averti incontrata sia stata la mia salvezza. Mi stai dando una lezione di vita. La stessa lezione di vita che due anni fa mi ha dato mio figlio, ma che, piombando nella disperazione per la sua perdita, avevo dimenticato».

Angela

∗ ∗ ∗

E pochi mesi più tardi, nel gruppo entra pure Mirna, rimasta vedova troppo presto, con due figli ancora ado-lescenti.

Aiutami che il ciel ci aiuta«Ti ho incontrata in quella stanza dove sono arrivata

con il mio bagaglio di sofferenza. Il tuo sorriso, la tua forza, la tua energia, mi hanno subito colpita. Ho ca-pito che avrei voluto conoscerti più a fondo entrando nella tua vita in punta di piedi, senza invadere il tuo spa-zio e la tua sofferenza, ma semplicemente provando a

care, e con lui tutta la mia positività. Ha cominciato a farsi sempre più strada la mia idea di morte imminente. Dall’hospice hanno suggerito alla famiglia di parteci-pare a un gruppo di “elaborazione del lutto”, fatto di persone che hanno perso un familiare, un compagno, un figlio, un genitore, un amico caro. Mediato da uno psicoterapeuta che si occupa dei pazienti in fine vita. Ho deciso di provare. Ho portato anche mia madre che stava soffrendo molto e che stava per lasciarsi andare. Il gruppo mi ha permesso di comprendere e accettare l’idea della morte, a mia madre di confron-tarsi con altre esperienze simili alla sua, ad accettare il dolore della perdita con forza e determinazione, che la vita va avanti e che non si fa torto a nessuno se non si piange tutto il giorno strappandosi i capelli dalla di-sperazione (come invece sono generalmente abituati quelli della sua generazione).

Qui ho incontrato Angela, promotrice del gruppo insieme allo psicoterapeuta. Hanno pensato che col-mare la perdita di un figlio fosse troppo grande da sopportare o elaborare da soli, che confrontarsi con altri che hanno vissuto quel tipo di esperienza sareb-be stato terapeutico per tutti. E per fortuna che ci hanno pensato! È stata la mia salvezza, e pure quella di mia madre. Niente capita per caso.

La mia lezione di vita«Ti ho incontrata in un’occasione non proprio felice.

Da subito la tua solarità mi ha affascinata, il tuo ottimi-

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“rose e fiori”, quando tutto è facile e in discesa, allora è molto difficile che una persona si sforzi di cambiare, è probabile anzi che si divenga viziati, proprio come le persone che hanno tutto: il vizio le rende peggiori, non migliori. Quando invece una persona nasce in mezzo alle difficoltà è costretta a rimboccarsi le maniche e a migliorare. La vita mette sulla nostra strada le persone di cui abbiamo bisogno per superare le difficoltà. Sta a noi individuare questi incontri benefici e farne buon uso o tesoro.

Il cancro, Carmela e Mariella, Gioia, Mandorla, le ricadute di malattia, mia sorella, mio padre, la morte, mia madre, l’hospice, Angela, Mirna… Tutti incontri provvidenziali in questo mio viaggio di crescita. Io per loro e loro per me. Tutti mi hanno lasciato qualcosa e io spero di aver fatto altrettanto. Grazie a ognuno di loro non sono più la stessa. Niente succede per caso. Nemmeno tu.

portare un po’ di serenità e sollievo, sapendo che tutto ciò avrebbe aiutato anche me, consapevole del fatto che persone come te vanno aiutate e sostenute nel loro percorso di malattia, cercando di saldare nelle nostre anime valori veri e importanti come l’amicizia. Sei una persona che usa la sua sofferenza in modo molto di-gnitoso, quasi in silenzio, per aiutare gli altri ad affron-tare la vita. Esserti amica mi ha reso una persona mi-gliore, aiutarti in questo percorso tortuoso non è per niente facile, ma è doveroso starti vicino e allungare la mano quando tu lo desideri».

Mirna

∗ ∗ ∗

In Oriente dicono che “Niente succede per caso, tutto ha un suo perché”. Tutto quello che ci accade è per una ragione precisa. Non esistono errori. Non esiste il caso. Non esistono capricci divini. E non ci accade per punizione, ma per darci la possibilità di cambiare e migliorare, di evolverci. Questa teoria dice che ogni qualvolta una persona ci fa del male siamo noi ad aver creato quella situazione: in realtà quella persona ci sta, inconsapevolmente, regalando l’op-portunità di cambiare, di vincere il nostro orgoglio, i nostri cattivi sentimenti.

Quasi sempre sono le esperienze più dure e difficili, che ci fanno soffrire, quelle da cui impariamo di più, che ci fanno cambiare maggiormente. Quando tutto è

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Ci sono incontri che non vorremmo mai fare nella vita. Appuntamenti inaspettati che preferiremmo assolutamente evitare, di quelli che non guardano in faccia nessuno, cui non frega niente se sei giovane, bambino o vecchio… o se domani avresti mille altre cose ancora da fare. Quel tipo di incontro che, una volta avvenuto, ti tiene in ostaggio, e come andrà a finire non è dato sapere.

∗ ∗ ∗

«Dobbiamo prendere questo toro per le corna!»Ho il medico di fronte e non sono pronta a sentire

parole che suonano come una sentenza. In lui non c’è nessuna pietà. Davanti ha solo una donna tra tante colpita al seno da un tumore, una di quelle tredici su cento l’anno che sono trafitte da questa brutta bestia.

«Le donne russe continuano a lavorare lo stesso», mi dice.

Poverette!, penso.

Codice zero quarantottoMaria Grazia Goffo

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Lo guardo negli occhi e percepisco il suo smarri-mento. Ci pensa un po’, poi mi suggerisce che non è necessario dire tutto.

Mi fissa il primo appuntamento per la chemio. Devo anche passare all’ambulatorio di Radioterapia, per la testa.

Rimane il compito di come dirlo ai figli, di quali parole usare. Ai miei genitori decido di non dire nien-te, per il momento. Ci sono parole che fanno paura solo a pensarle. Decido di non usarle. So che tra un po’, iniziando le terapie, ci saranno dei segni evidenti, devo pensare a come affrontare il discorso con i ra-gazzi che hanno già intuito qualcosa.

Assieme a mio marito decidiamo di prepararli al mio cambiamento, prima di fare le terapie. La loro mamma perderà i capelli, le ciglia e le sopracciglia. Perderà la forza, ma ce la farà perché questa malattia è conosciuta e i medici sanno come curarla. Non è rara. Cerco di infondere in loro l’ottimismo che gli è dovuto e il coraggio che non ho. Sarà pesante per tutti affrontare tutto questo, ma insieme ne usciremo più forti di prima, sarà solo una dolorosa parentesi della nostra vita che riusciremo a lasciarci alle spalle. Ottimismo diventa la nostra parola d’ordine.

Con la prima terapia inizia il mio viaggio, la trasfor-mazione. Non sono più essere umano e scelgo di di-ventare un tronco. Lentamente inizia il cambiamento. Cosa ci vuole? Basta un ago in vena e una sacca con un liquido rosso. La mutazione non è indolore. Si fa

Neanche mi chiede il lavoro che faccio. Da vent’anni sono a disposizione della “gentile clientela”. Lui mi so-pravvaluta. Poi mi rassicura:

«Da questo momento in poi lei non dovrà pensare a niente, ci occupiamo di tutto noi. Le prenderemo gli appuntamenti per le visite e gli esami del sangue. Le prenoto già la visita con l’oncologo».

«Grazie», dico. Mi assegna il codice di esenzione 048. Sentendo

l’eco di queste parole esplodo, schegge di vita ovun-que e attorno a me c’è il nulla. Afferro la mano che già mi stringe forte, quella di mio marito. L’affondo nella mia e ogni scheggia torna al suo posto. Mi ricompon-go. Asciugo la disperazione che mi esce dagli occhi, raccolgo gli ultimi frammenti di me. Dalla fessura che ho sotto il naso esce un leggero, ma convinto:

«Va bene, prenderò questo toro per le corna».Faccio la visita con l’oncologo. Uomo di poche

parole, alto, con i baffi e gli occhiali. Indossa calzi-ni grigi mélange intonati ai capelli. È seduto con la schiena bella dritta e tiene i piedi incrociati. Fa una prima valutazione dei miei esami. Dai tvb e lol sono passata alle tac e pet.

«La situazione non è delle migliori», dice. «Ci sono lesioni cerebrali e anche il sistema linfatico…»

Posso solo piangere. Non so che altro fare. Il mio uomo mi stringe più forte la mano. Guardo negli oc-chi il dottore e gli chiedo: «Che cosa dirò ai miei figli? I miei genitori sono anziani. Che dirò loro?»

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L’oncologo è diventato il mio angelo custode. Uomo delicato nei modi, non ha mai detto niente più del do-vuto. D’altra parte, io non ho mai chiesto niente. Non ho voluto sapere più di tanto. Ho affrontato con lui una cosa alla volta. Non abbiamo avuto fretta. Ho lottato contro un toro, sono diventata albero. Ho attraversato l’inferno lungo il corso di un fiume. Ora sono rinata fiore. Mi manca un petalo. Fingo di non provare dolore.

pagare a caro prezzo! Non ci sono trasformazioni in saldo. Non esistono sconti.

Inizia la metamorfosi e allora sono pronta a tuffar-mi in un fiume dal corso lungo e tortuoso. Entrata in acqua devo abituarmi a questa nuova condizione di… vita? Chiudo gli occhi e decido di lasciarmi trasporta-re dalla corrente. Da subito prendo botte e colpi, mi ferisco, mi scheggio, soffro, ma sono un tronco, non urlo dal dolore. Ogni tanto l’acqua è tranquilla e mi lascio cullare. Altre volte la forza del fiume aumenta e mi sbatte con violenza contro pietre e massi o sono spinta in gorghi da spavento. Sono un tronco. Mi am-macco, ruoto, mi ferisco, ma resisto. Posso fare altro? Su di me cade la neve. Soffia il vento. Nella corteccia entra il ghiaccio e soffro. È dolore puro. Il sole mi tormenta, brucio dentro. Poi la corrente rallenta. Mi culla. Mi lascio coccolare. Le ferite guariscono anche se in modo lento. A fatica raggiungo la riva del fiume. Finalmente posso riposare. Esco dall’acqua e mi poso sull’erba. Mi asciuga il sole, il vento. Divento morbida e torno a profumare di buono. Lentamente mi sollevo e rivolgo piccoli rami al sole. So già che presto riavrò le mie foglie e le vedrò danzare nel vento.

La malattia e le cure mi hanno trasformata. È dura guardarsi allo specchio e non riconoscersi. Il viso gonfio, il corpo grosso. Mancano i capelli, le ciglia e le sopracciglia. Uno si sente ammalato solo osservando il proprio aspetto fisico.

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Inquieta, questa strana sensazione di distanza. E non è l’inconsueto del nostro primo incontro a generarla, non sono gli anni di differenza, né il luogo.

Lei sa che l’aiuterò a preparare l’interrogazione di italiano, io so che affronterà tutte le prove qui, lei mi ha raccontato l’ultimo anno della sua vita, io alcuni pezzi della mia.

Lei parla con disinvoltura, io stento, c’è qualcosa che parte dal fondo e immobilizza le mie parole.

Non mi resta che cercarne altre, prendo l’antologia, la apro sul tavolo, lei si alza e si siede vicino, mi sono segnata la pagina, partiremo da Foscolo, ho pensato sia meglio ripassare tutto, anche se i primi mesi lei era venuta a scuola. Classe vicina alla mia.

Poi la scure. La seconda, all’improvviso.Di nuovo chemio, debolezza, bandana, pazienza.

Di nuovo un tempo rallentato, accasciato.Qui anche il mio interrompe il suo corso, la tensione

fluisce al suo posto, non so come fermarla, d’istinto spo-

FiliAlessandra Merighi

A Sofia e a Cristina

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No, tranquilla, non ne ho voglia, non mi sento bene, ho solo bisogno di fermarmi.

La mia spossatezza la insospettisce, e io so perché, ma fingo di non considerare un’ipotesi che mi ha già messa sottosopra. E di cui non voglio parlare.

Senza aggiungere altro, lei estrae qualcosa dal cas-setto del comodino, me la chiude in una mano e mi spinge in bagno.

«Ti prego, non adesso, è presto».«Vai».Cerco di rifiutarmi, non è il momento, oggi potrei

abbattermi.Rivivo le tappe di un percorso che a un certo punto

si inceppa sempre e ritorna a zero. Basta, preferisco rimanerne ai margini.

La guardo, non la convinco, mollo ogni riluttanza e vado.

Eseguo.Fatto.Mi avvicino alla finestra, la luce sta calando sulle sa-

gome scure del parco, è diventata penombra, invade, mi siedo sul bordo della vasca, è freddo, mi congela.

Due minuti e trenta secondi. Sono niente, ma rac-chiudono un passato di trent’anni, una svolta, un pre-sente che non si compie, un’assenza.

Pesano.Non li reggo, cedo e cado, cado tra due linee az-

zurre. Una, da sola, non esisteva, le due, insieme, ri-voluzionano ogni teoria.

sto la sedia, sollevo una gamba, afferro il piede, sciolgo il fiocco e riannodo i lacci, costringo la mia attenzione su quel movimento, mi concentro e mi recupero un po’.

“Ne più mai toccherò le sacre sponde”, scivola A Zacinto, la leggiamo tante volte, fino a che ci circola dentro.

Ho sempre amato e sofferto questo sonetto, ieri ne ho rivisto la struttura, l’analisi, il commento, ma oggi il significato è spietato, ferisce.

“Io non toccherò mai più le sponde sacre”, così do-vrei aprire la parafrasi, ma non mi è possibile, me ne rendo conto nell’attimo stesso in cui raccolgo il fiato.

Dov’ero, quando sceglievo i testi?Non mi ero accorta che quelle strofe avrebbero

decapitato il futuro? Lo realizzo adesso, ma è tardi, ho perso il filo e il controllo del respiro.

Lei intuisce, mi sorride, è facile, prof, me la ricor-do, vado avanti io.

Grazie. Non lo dico, ma risuona tra noi, allungo una mano e l’accarezzo. Non lo faccio, ma succede.

Partita la corrente, si accende un flash, si stacca a volo e mi passa davanti.

Le quattro, sono sfinita, il pomeriggio a scuola mi ha distrutta, correrei a casa, ma voglio vedere come sta.

È a letto, a riposo, insieme alle due gemelline che sta aspettando.

Appena mi apre, mi chiede cosa succede, ti vedo stanca, siediti, scaldo l’acqua per il tè.

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Lui inizia a segnare alcune misure, Ombra lo segue fiutando ogni angolo, io perlustro le fughe di legno del pavimento a caccia di eventuali fessure.

So che non devo sforzarmi, ma questo non è uno sforzo, ancora un metro e ho finito.

Sto guardando a terra, sono serena.Lo ero.Un brivido mi parte dal centro della testa, mi

squarta, scende, caldo e rosso. Allaga il mondo. Che mi espelle.

Chiamo con tutta l’energia rimasta, lui corre, ag-guanta Ombra, siamo già in macchina.

La sbarra dell’ospedale è abbassata, una voce me-tallica mi attacca con una mitragliata di domande, io urlo qualcosa che non si capisce, ma la violenza della mia voce si impone, la sbarra si solleva, pochi centi-metri, si arresta, c’è un gatto al finestrino, è vietato.

Questa volta urlo qualcosa che si capisce perché la sbarra decolla, sale, perpendicolare al cielo.

Io precipito.Quella che ero è rimasta nell’abbozzo della nostra

casa, ora sono un avanzo, seduto sulla sedia a rotel-le, svestito, visitato, monitorato, rivestito, ucciso dalla sentenza: placenta scollata per tre quarti, battito del cuore affievolito.

Morirà, era ovvio.Mi assento.Mi ricoverano: letto, pigiama, preghiere, buio, notte.Notte fuori e dentro. Ci confondiamo.

Un turbamento di emozioni, le smorzo, potrebbe essere un errore, la seconda striscetta sarà già scom-parsa. Invece no, è lì, più scura e più spessa.

Ritorno da lei, mi distendo accanto senza spiegare, non ne ho il tempo: devo frenare il capitombolo del cuore, il delirio della testa, la frenesia dello stomaco.

Ho aspettato tanto, evidentemente doveva accadere.Vorrei essere felice, e mi pare di esserlo, ma, sotto

sotto, la mia felicità non prende corpo. È soffocata da un’ombra. Sarà lei a portarsi via quell’accenno di vita che non ce l’ha fatta.

Saltata ogni resistenza, cortocircuito, a un estremo io, all’altro la mia paura.

È domenica, sono stata a casa, quasi a letto, tutta la settimana, i primi mesi sono i più pericolosi, mi hanno ripetuto centinaia di volte.

Oggi c’è il sole, lui vuole mostrarmi come pro-cedono i lavori, ci sono già i muri portanti, daremo un’occhiata e torneremo.

Mi pare esagerato rifiutarmi, mi preparo, prelevo il gatto, almeno esce dai soliti sessanta metri quadrati, e andiamo.

Sono in ansia, ma appena vedo la scala in cemento e l’oblò in vetro del soppalco, mi rianimo.

Sarà un sogno vivere qui, e mi fermo, non oso pensare “in tre”, non mi conviene, e neanche salgo, entrerò nella sua camera quando l’avrò in braccio.

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Vorrei saperne di più, calibro le mie domande sul timore di toccare le sue cicatrici, fino a quando mi ri-trovo nella sua camera, una notte di qualche mese fa.

Era stato un sonno agitato, un risveglio fulmineo, un presentimento, l’idea della fuga. E poi la rassegna-zione, il click dell’interruttore, la realtà.

Lo sapeva.Era stata avvisata, ma non per questo era pronta.Aveva tremato, sudando le lenzuola.Si era concessa due ore di disperazione, si era alza-

ta con l’alba, era andata in bagno, aveva iniziato con le forbici e finito con il rasoio.

Da sola, davanti allo specchio.Tutto a terra.Frano, insieme ai suoi capelli, con le mie certezze.Scompare tutto nello stesso sacco.Io ne esco all’ultimo, mi rialzo, poggio i piedi sul

pavimento, è tiepido e piacevole. E mi illumino.Non avevano avuto lo stesso significato, per me e

per lei, la morte, il pianto e il destino di Foscolo.Io avevo lasciato Zacinto, sofferto l’esilio, naviga-

to le acque, baciato Itaca, patito la mia scomparsa in una terra straniera.

Lei non si era mossa, ormai aveva imparato, si era abbandonata al sole, e, chissà, forse si era anche tuf-fata tra le onde del mare.

Sotto le coperte non si vede, eppure la mia mente inizia a cucire.

Rese le armi, io mi consegno a lei, e al filo sottile che, lentamente, unisce i lembi e chiude la ferita.

Non è mai sbiadita, quella sutura, oggi riaffiora, ogni punto è una goccia che si sgancia e scende lun-go il filo della flebo, il ritmo è uguale, mi aveva calma-ta allora, mi sta calmando adesso.

La parafrasi è quasi terminata, avremmo il secon-do sonetto, ma decidiamo di concederci una pausa e di andare in terrazzo.

Lei si infila una felpa, il pigiama è leggero, calza le ciabatte, prende il cellulare e usciamo.

Ci sediamo sul dondolo di fronte al verde dei bo-schi, io sono tesa, che cosa ci racconteremo, come riempiremo il tempo, sarebbe stato meglio salutarla e accordarci per la prossima lezione.

Non so bene perché, ma non me la sono sentita, il suo modo di stare con me mi ha suggerito che si aspetta qualcosa di più, almeno, questa è la sensazio-ne che mi è arrivata.

La seguo, prendo coraggio e le chiedo come tra-scorra le sue giornate in ospedale, e a casa, tra una terapia e l’altra.

Lei mi spiega, accenna a tante cose, anche doloro-se, riesce a spogliarle del peggio, io ascolto, mi sinto-nizzo, a poco a poco la includo.

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NarrativaCaregiver

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CapelliMi chiese di accompagnarla. Solo tra madre e figlia

c’è questo tipo di complicità. Quel fil di ferro che lega utero a utero.

«Mi accompagni a prendere la parrucca? Mi aiuti a sceglierla? Voglio essere pronta quando cadranno i capelli. Non ho un viso bello come il tuo. Già son brutta così… figurati pelata! Mi ci vedi con la lanugine sparuta di un agnellino appena nato?»

«Mamma!» Nelle mie iridi verdi esplosioni di pig-menti infuocati d’amore. Nella pupilla, il burrone. La caduta, il dolore.

«Certo che vengo con te! Vedrai, ne troveremo una bellissima».

«Mi capisci, vero? Lo so che una parrucca fatta bene costa un’oscenità, ma quando mi guardo allo specchio non devo ricordarmi che sono malata. Non voglio andare in giro con tumore scritto in fronte. Vorrei essere, ecco, dignitosa», disse con le lacrime

Frammenti di teCecilia Mazzeo

ESPRESSIONI DI CURA

Conc

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artistico letterario - IV edizione 20151°classificato

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«Stai da Dio, mamma. Sembrano proprio i tuoi ca-pelli. Non si direbbe mai…» Era vero. Uscite da lì, attraversammo la strada per raggiungere la macchina. Mi teneva stretta: braccetto più mano. O forse io la tenevo stretta. Una “strettitudine” senza parole, di muto e di mutuo amore. Ci tenevamo strette.

«Ho speso troppo, lo so».«No, non dirlo. È giusto così».«Tua zia si sarebbe messa in testa un fazzoletto

piuttosto che non spenderli».«Mamma, la malattia è la tua e anche i capelli sono

tuoi. Ognuno pensi alle proprie crepe. Abbi pietà di te».«È che… proprio non ce la farei ad andare in giro

così».«Hai tutte le ragioni del mondo. Io ti capisco. Sei

felice ora?»«Sì, ho i miei capelli».

Aveva di nuovo i suoi capelli. Era felice.La felicità è una strada sottile. Sottile come un

capello. Ha bulbo e cheratina la felicità. Ha radici e doppie punte. Ha movimento.

La felicità è una strada sottile. Sottile come un capello.Mano nella mano siamo passate dalla sua porticina

minuscola.La felicità è una strada sottile. Come un capello.

Come una crepa. È una strada che cade prima o poi, ma va in profondità e lascia il segno. Scuote le fon-damenta.

affacciate agli occhi e la voce sottilissima, esile, pron-ta a spezzarsi. Una voce di usignolo ferito.

Era caldo quel giorno. Un caldo grigio e afoso. Un caldo piatto di cicale sgualdrine. Un caldo ferroso e amaro.

Il negozio indossava le crepe profonde del terre-moto “fresco di stampa”. Pensai che, in fondo, le cre-pe peggiori erano dentro di me. Pensai: Terremoto, vieni pure con la tua mandria di bufali nelle pareti. Fai cadere la casa, se vuoi. Sbriciola tutto. Rapisci. Prendi. Spezza. Dilania. Ma lasciami intatta mia ma-dre. Puoi? Facciamo una cosa, terremoto: ti concedo di creparmi la casa, ma ora togli le tue manacce luride da questa donna meravigliosa, ok?

Pensai che le case si ricostruiscono, le persone no.Fu l’attesa più lunga della mia vita. Le crepe profon-

de sui muri bianchi di una villetta di periferia. Le teste finte con capelli di ogni genere. I cataloghi. Mi man-cava l’aria. Mi sembrò il giorno più irreale del mondo.

Sto aiutando mia madre a scegliere una parrucca perché ha un tumore. Non ci credevo. No.

La commessa aveva l’aria di saperla lunga. Studia-va la persona, ne ascoltava dubbi, paure, gusti, esi-genze, perplessità. Studiò la pigmentazione colorata dei capelli e il taglio e portò quel “coso marrone” da mettersi in testa. La aiutò a infilarlo. Le insegnò a sistemare le cuciture. A spazzolarlo. A detergerlo con i prodotti idonei. A riporre il “coso” sullo scalpo. Io assistevo muta e impotente.

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E poi arriva la notte e io vorrei strapparla via dalla mia coperta, dalla mia giornata. Tagliarla con le forbici, scucire gli orli e creare un buco, una finestrella d’a-ria, un perimetro per affacciarmi e respirare. Perché la mia notte ha sbarre. Sbarre dure. Sì, vorrei una co-perta senza notte. Una giornata senza notte. E vorrei saper cucire: unire i lembi di stoffa così da nascondere il reato. Così da non dover ammettere che se non c’è più notte è colpa mia. Perché io di notte non dor-mo, divento prigioniera dei ricordi. Bussano forte alle tempie e mi fanno sbarrare gli occhi. Mi costringo-no a fare passeggiate tra rovi, boschi bui, gufi, lupi e schiaffi di vento gelido. La notte mi lascia ferita. Ri-sento la sua voce, le mani sul volante, il suo pianto di bambina sessantenne, il suo terrore, il suo chiedermi coi singhiozzi: «Ma ce la farò? Ma come faccio? Io vo-glio stare ancora qui con voi! Io io io… Ma non è pos-sibile. Ma cos’ho qui dentro? È la malattia. Si è estesa. Dio mio… Ma quanto mi resta? Ma ce la farò?» E io minuscola nel sedile accanto. Io figlia impietrita. Io raggelata dall’angoscia. Io incapace di muovere un so-pracciglio dal dolore. La notte mi porta questa scena. Sempre. Vorrei far sparire la notte. Vorrei far sparire quel tragitto sulla Toyota Yaris nera. Vorrei far sparire il referto della tac. Vorrei far sparire quel senso d’im-potenza e inutilità. Lo scoramento di chi vede la pro-pria roccia madre franare. Vorrei far sparire ottobre, novembre, dicembre. Vorrei far sparire la morte di mia madre. Vorrei dormire di giorno con una coperta

È stato uno dei momenti più irreali e più belli della mia vita: con un occhiolino e una mano stretta ho potuto ridare i capelli a mia madre.

«Ti piaccio? Sto bene?»Il suo rimirarsi nello specchio con la rassegnazio-

ne di un passerotto nella neve. Quello sguardo spau-rito di chi ha ancora in mano le redini di tutto e nello stesso tempo lo sguardo perso nell’altrove. E quella domanda da non fare mai: «Ce la farò?»

La felicità è una strada sottile. Sottile come un ca-pello. Come una crepa.

E io non ho più paura dei terremoti. Ora ho la mia colonna portante. Ho braghe di ce-

mento e ferro. Lei che mi sostiene.Dentro.La felicità è una strada sottile.Come un capello.Lo arrotolo al mio dito.Mi faccio un nido.Lo percorro.Amo.Vivo.

BuchiE poi arriva la notte. Ed è un quadrato di raso

blu di Prussia della mia coperta. Ogni giornata è una coperta patchwork, un collage di quadrati di stoffa.

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La figlia domanda: «Sai cosa ci ha fatto di buono?»«Tagliatelle», risponde il padre.Altra tarma. Altro buco.Fino a un anno fa anche noi andavamo a pranzo

dalla nonna la domenica. E ci andavamo in ciabatte, un piano sopra la nostra testa. Quell’appuntamento che rendeva bella la domenica, giorno da me sempre odiato. La domenica di cotolette di pane e verdure di ogni tipo. La domenica del primo e del secondo.

E anche i miei figli con occhi liquidi domandavano: «Cosa c’è di buono oggi, nonna?»

Addento il Boscaiolo e mi sembra improvvisamente duro. La spremuta da dolcissima si fa acida.

Penso alle risate grasse delle famiglie riunite, delle tavole rotonde, del cacio sui maccheroni, del mascar-pone con le fragole.

Penso che la mia domenica ha un buco.Guardo i miei figli. I loro toast. Sembrano felici.Non si accorgono che ho un buco dentro.Io sono la treccia di mohair ancora piena, per loro.Io cucino cose buone tutti gli altri giorni.

I tuoi vestitiC’è un’ombra scura nel mio salotto. Un’ombra che

spande profumo di rosa, di buono.Sembra una grotta, la tenda degli indiani, la casetta

sull’albero, una tana.Invece quell’ombra è un appendiabiti su ruote. So-

pra ci sono grucce che danzano. Sopra ci sono i tuoi

col buco. Ma la notte, quella notte, non la voglio più. È un grido di civetta che mi squarcia. È tachicardia che strappa il cuscino. È pianto che non piange. Do-lore che scava.

DomenicaSono le cose piccole ad allargare i buchi.Piccole come tarme che ti mangiano i maglioni

mentre vivi la strafottenza dell’estate. Minuscoli es-seri che si insinuano nel buio dell’armadio mentre tu sai di sole e salsedine. Disfano nodi e trecce, fiori e jacquard. Scuciono i punti e fanno buchi. E poi ti fregano quando fa freddo: apri l’anta e non trovi più la mantella rosa cipria, ma il suo colabrodo.

Per quei buchi ci sono le orribili palline di naftalina, o meglio, le cartine profumate oleate.

Ma l’antitarme per i buchi nel cuore non c’è?Sono le cose piccole ad allargare i buchi.Stavo mangiando un panino per pranzo al bar del

centro commerciale. Ed è arrivata quella frase minu-scola e semplice dal tavolo accanto. La frase tarma. La bestiolina che mangia qualcosa di te mentre tu ad-denti felice il tuo Boscaiolo.

Un papà ha detto ai suoi figli davanti allo spritz scintillante: «Ora basta patatine, che tra un po’ andia-mo a pranzo dalla nonna».

Dalla nonna. Preposizione articolata e nome comu-ne di persona, femminile singolare. Due parole, due tarme, due buchi.

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Avevo bisogno dei tuoi auguri. Dovevo capire che c’e-ri ancora, non solo un corpo sparuto che si spegne piano piano. Avevo il disperato bisogno di sentire che avevo ancora una mamma che ti dice: «La mia bimba, vieni qui. Ceci, tanti auguri». E invece, non ce la face-vi. Eri un filo. Un filo di voce, di respiro, di sguardo, di energia. A un certo punto quel filo esile si è smagliato, tirato, la memoria all’improvviso ti ha strattonato. Hai biascicato un «auguri» che veniva da mondi già lon-tanissimi. Ho stretto i pugni, ho rimandato indietro le lacrime, ti ho accarezzato la mano: «Non importa, mamma, stai tranquilla. Non importa».

Ma ora le lacrime scendono veloci sulla tastiera.Non voglio compiere gli anni.Passi pure il tempo.Ma non voglio compiere gli anni, non quest’anno. È

ancora troppo vivido quel corridoio bianco che puz-za di etere e di non ritorno. Le mie gambe molli. La tachicardia. Il respiro che si fa corto. Il bisogno d’aria.

Sono ancora troppo vivi quei novembre e dicem-bre che ti hanno portato via.

Il mio corpo lo sente. Si smaglia nel tuo stesso filo esile. Sente il richiamo energetico di quei giorni, di quella stagione che era la mia preferita.

Buon Non compleanno.

Per sempreC’era una volta un numero di telefono.Non era un numero di telefono normale. Era il suo.

vestiti. Appesi lì, in fila come soldatini alla trincea o equilibristi sulla fune. In attesa di destinazione. In at-tesa che la guerra finisca e che il circo bugiardo chiuda i battenti.

Quando passo avverto una presenza.Mi accovaccio sul parquet e mi nascondo tra le

punte di stoffa che pendono.Facciamo un gioco, mamma?Facciamo che io mi nascondo e che tu mi cerchi

quando torni dal lavoro?Facciamo che quest’ombra è la tua pancia e che io

sto per nascere.Sì, ricominciamo.

Il Non compleannoTra ventitré giorni compierò trentasette anni e un

po’ mi dà fastidio. Non per gli anni, ma perché sarà il primo compleanno senza di te. Senza il tuo abbraccio di rosa e borotalco. Senza la tua “ciccia” di mamma, gommapiuma perfetta che raccoglie ogni dispiacere. Mi mancheranno da impazzire le tue parole scritte, i tuoi biglietti unici, speciali, inimitabili. Dovrò apri-re la scatola e rileggere quelli vecchi: trentasette anni di capolavori di biglietti. E poi? E poi fare finta. È che nessuno ci prova nemmeno ad assomigliarti un po’ vagamente, lontanamente. L’impegno del gesto, della cura, mica la perfezione. No, nessuno ci prova. Un anno fa, il 26 novembre, sono entrata in ospedale con passi di bimba. Incerta. Spaventata. Tremolante.

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Ogni tanto chiudo gli occhi e penso: adesso suona, adesso suona. Ancora una volta, ti prego. Non li avete i telefoni lassù? Nemmeno i segnali di fumo e i mes-saggi in bottiglia? Nessuna parola da lassù può scende-re giù. Non per i cavi. Scendono diversamente. Gocce di pioggia nella grondaia. Chiudo gli occhi e penso: ora mi chiama e sul display appare quella meravigliosa scritta: mamma.

Invece no. Se voglio rivedere quella scritta devo scorrere la rubrica o frugarmi dentro nella credenza della memoria alla voce “Marmellata di fragola”.

Ho deciso di far rivivere quel numero. Ché non voglio che vi si depositi sopra polvere, ruggine e cal-care. Voglio che quel pettirosso continui a star lì, a passarmi vermi. Lì sul filo, ogni mattina quando apro le persiane.

Quel 333 è diventato il numero del cellulare di mia figlia, detta da sempre Mami.

Sarà un “collettivo” mamma-mami.In fondo, la radice è la stessa.In fondo, noi donne della stessa famiglia ci conte-

niamo.Matrioske d’amore.Una dentro l’altra.Scosto la tenda. C’è un pettirosso là fuori che mi

sorride. Ha l’aria di saperla lunga. Gocce di pioggia scivolano nella grondaia. Suonano qualcosa che sa di vita. Una specie di rumore di mamma.

Cominciava con 333. Il numero perfetto.Ho consumato quel numero. Ho consumato le fre-

quenze su cui si appoggiavano le nostre voci sottili, uguali. Ho riempito i cavi di confidenze, lacrime, risa-te grasse, paure, ricette, richieste, consigli.

Due passerotti sul filo della luce. Due pettirossi, noi. A cinguettar la vita, a passeggiare su cornicioni e fronde d’ippocastano, a rimirar le stesse stelle, a riem-pire il nido di briciole e chicchi e semi e ghiande.

Potevo farlo a occhi chiusi senza guardare la tastiera. E quando squillava sapevo sempre che a chiamar-

mi era quel pettirosso un pelo più grande di me. Sempre col verme stretto nel becco, pronto a sfa-

marmi, a scaldarmi.È da troppo tempo che quel numero non squilla più.Il cavo si è svuotato. Non ci sono più quelle infini-

te formichine di voce a risalire e spandersi, a riempire distanze seppure minime.

Non ci sono i sospiri, gli affanni, gli assensi e i rimproveri.

Ho solo quel maledetto 333 religiosamente conser-vato nella rubrica del cellulare. Di fianco al numero, il nome del contatto dice: mamma.

Fino a pochi mesi fa era un continuo mamma mamma mamma mamma… non so quante volte al giorno. Ho perso il conto. Contateli voi i pigolii, i cinguettii.

Ho perso il conto, il cuore non conta. Il cuore sa e basta.

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Tutti dobbiamo lottare per noi stessi. Tante per-sone, tanti problemi. Ognuno vive come se combat-tesse in un’arena. E stasera la mia vita è tutta qui, all’Arena di Verona.

Tutti dobbiamo lottare per noi stessi. Tante per-sone, tanti problemi. Durante le sedute della chemio ripetevo come un mantra il ritornello della canzone degli Spandau Ballet, Fight for ourselves. Le note di quel gruppo inglese che aveva accompagnato la mia giovi-nezza erano la colonna sonora di quelle mattine con lo sguardo perso oltre la finestra. A fissare le chiome degli alberi dimenticarsi del biondo autunnale, fino a restare nude. Poi il nulla, interrotto dai timidi germogli del marzo successivo. Anche la mia testa a quel pia-no dell’ospedale era vuota e spoglia, come fosse pieno inverno. Sentivo scorrere una linfa chimica nelle mie vene che solo la musica poteva contrastare. I due flussi si incontravano nella mia mente. Chiudevo gli occhi e immaginavo potesse tornare l’estate.

Everybody, fight for ourselvesAlberto Andreoli Barbi

ESPRESSIONI DI CURA

Conc

orso

artistico letterario - IV edizione 2015

MENZIONED’ONORE

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sermi lasciata alle spalle il peggio. M’interessa il meglio che deve ancora venire: aspetto che gli Spandau Ballet si esibiscano. Hanno aggiunto delle tappe estive al loro tour. E voglio credere che lo abbiano fatto solo per me.

Ho preferito scegliere un posto sulle gradinate. Non me la sento di spendere tanto per un biglietto, pur desi-derando vederli in prima fila. Soprattutto sarebbe trop-po stancante. Con il cannocchiale le vedo sotto il palco, con la mia stessa apprensione per l’evento. La Martani, la Foglia, la Marangon e Annalisa. Stavolta non mi han-no avvisata. Forse pensano che sia ancora in ospedale. Marco nota la mia espressione: «Se quelle quattro caram-pane pensano di rovinarti la serata, hanno capito male».

«Porta rispetto: ricorda che hanno la stessa età di tua madre. Al massimo, ti concedo di chiamarle milf !»

Il concerto è strepitoso. L’arena risuona di quelle canzoni che sono state il mio inverno e ora la rinno-vata estate. Non mi sento di ballarle in piedi ma le riesco a vivere. Conosco quei testi e quelle melodie come fossero state scritte da me. Stringo il braccio di mio figlio che segue il tempo. Si commuove del mio entusiasmo, si entusiasma per le mie lacrime di gioia. Non è la sua musica ma sa che sono la mia vita. Mio marito, invece, ha preferito restare a casa. Da uno che preferiva i Duran Duran, cosa vuoi pretendere?

Al termine del concerto mi sento come una bam-bina scesa dalla giostra. Mio figlio, cui è toccato un brusco cambio di ruolo, fatto di attenzioni e cure quasi paterne, vuole premiarmi: «Navigando in internet nei

Oltre al clima più mite, la primavera era stata an-nunciata dal ritorno sulle scene dei miei beniamini. Gli Spandau Ballet sarebbero tornati in Italia per cin-que date: Torino, Milano, Padova, Firenze e Roma. Mi avevano contattato le vecchie compagne di scuola per ritrovarsi tutte in prima fila, come fossero passati pochi giorni dall’ultimo tour visto insieme nel 1989. «Eleonora, non puoi mancare! Martin suona solo se vieni tu». «Ragazze, sto combattendo un tumore e non posso sprecare le mie forze per un concerto in piedi. Andate voi e raccontatemi». Una foto, una te-lefonata, un pensiero da parte di tutte. Da Annalisa, l’amica più cara tra loro, un rumoroso silenzio.

Avevo saputo che il mio amato Martin Kemp era sopravissuto a un tumore. In un momento di scon-forto avevo anche pensato di scrivergli e chiedergli un consiglio, quasi fosse un vecchio amico. Mio fi-glio, al solito, mi prendeva in giro: «Mamma, a me puoi dirlo se la malattia ti ha preso al cervello». Mar-tin era diventato, a sua insaputa, una persona di casa. Mio padre lo chiamava il genero inglese. Del resto si era rassegnato che la mia cameretta di adolescente fosse un sacrario dedicato al chitarrista e, in minor parte, agli altri quattro del gruppo. Poi era toccato al mio futuro marito rivaleggiare con il mio amante inglese. Infine mio figlio Marco, sin da piccolo, aveva familiarizzato con lo zio d’Inghilterra.

Stasera a Verona è tutto diverso. Innanzitutto è ar-rivato luglio. Non sono più una ragazzina. Spero di es-

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Leggo il loro imbarazzo con lo stesso interesse con il quale leggevo di nascosto dai professori le riviste di gossip sui cantanti.

«Ragazze, chi non muore si rivede».Mi fanno i complimenti. Sono bella. Sono in forma.

Sono rinnovata nel taglio di capelli. Eppure sono la stessa di sempre. L’importante è non pronunciare la parola cancro. Allora io, che ho più confidenza, dico:

«Se mi vedete così bene, è merito del cancro».Ora non si complimentano più.«Intendo della splendida congiunzione nel segno

del cancro in questo inizio luglio!»Sì ragazze, sono la solita stronza: la prima che ci

prova con Martin si consideri morta!Intanto Annalisa si avvicina con la stessa lentezza

con la quale scorrono le ore di lezione a scuola. Ci interrompe la campanella: il clacson della vettura dai vetri oscurati che supera l’ingresso del parco e sale a tutta velocità fino al piazzale della villa.

«Non si sono nemmeno fermati!» protesta Annalisa.«Ragazze, tocca corrergli dietro. Come una volta».Marco lascia che faccia da sola. Sa che è il mio mo-

mento. Corro e penso al mantra. Tutti dobbiamo lottare per noi stessi. La Martani corre più forte. Subito dietro di lei la Marangon, solo perché non ha reagito pronta-mente allo scatto. Dietro la Foglia, rallentata dal tacco dodici. Si deve andare a un concerto in arena con quei tacchi? Mi vedo ultima e lenta. Il braccio di Annalisa mi cinge: «Secondo me, ora dalla villa liberano i cani».

giorni scorsi ho visto che alcune fan hanno individua-to la spa a cinque stelle fuori città dove stanno allog-giando. Te la sentiresti di provare a incontrarli?»

Nemmeno il tempo di dire sì che la precisione del navigatore, la fortuna della fan e la discreta vivacità alla guida di Marco ci hanno catapultato davanti a una dimora nobile, trasformata in hotel di lusso. Siamo a Corrubbio di Negarine, nelle prime colline veronesi, tra filari di vite e grilli, in attesa del grande cocomero. Se mi avessero detto che un giorno avrei incontrato i miei idoli a Corrubbio di Negarine, grazie al figlio che avrei avuto con Andrea, il bello della quinta d, non gli avrei proprio creduto. Marco inganna l’attesa estraendo da sotto il sedile il mio beauty case.

«E questo che ci fa nella tua auto?»«È una sorpresa di papà. Dice che devi farti bella

per l’incontro con il suo antico rivale in amore».Giro lo specchietto retrovisore e mi trucco come

se avessi sedici anni. Con mano pesante e imprecisa: sono mesi che non lo faccio più. Mi coloro come fos-si una vecchia foto in bianco e nero cui ridare nuo-va luce. Ora sì, sono pronta per l’incontro. Si accosta una macchina scura davanti all’ingresso dell’albergo. Saranno i fratelli Martin e Gary Kemp, Tony Hadley, Steve Norman e John Keeble? Macché, rieccole: Mar-tani, Foglia e Marangon. Annalisa intanto parcheggia. Scendo anch’io. Ora mi diverto.

«Ma che ci fai qui? Sai, ti volevamo avvisare ma non sapevamo se tu…»

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«Ero andata a Grenoble per farmi curare. Mi ver-gognavo di aver un tumore e non volevo parlarne con nessuno. Ho preferito vivermi quell’esperienza lontano da tutto e da tutti. Tu invece sembra che muori dalla voglia di dirlo al mondo. Tu sei forte. Mi fai venire una rabbia…»

«Le canzoni degli Spands non ti hanno insegnato proprio nulla?»

«Gli Spandau?»«Everybody, we’ve got to fight for ourselves. Tutti dobbiamo

lottare per noi stessi. Tante persone, tanti problemi. E aggiungo tante soluzioni individuali».

«Avevo paura di rivivere attraverso il tuo percorso il mio dolore. Voglio dimenticare».

«A me ha spaventato viverlo senza di te, senza po-terne parlare insieme. Senza le prove, la vita sarebbe un concerto stonato».

Annalisa mi ha teso la mano e mi ha aiutata a ri-mettermi in piedi, iniziando a raccontarmi la sua cat-tività francese. In quel momento è arrivato Martin Kemp. Mi ha baciato sulla guancia ringraziandomi per essere stata da sempre una sua fan. Poche parole, poi è scappato via, senza che riuscissimo a scattare una foto. O almeno così abbiamo raccontato alle al-tre per giustificare il nostro ritardo. Perché abbiamo imparato a lottare per noi stesse. Nonostante le per-sone, nonostante i problemi. Fosse solo per un bacio del nostro cantante preferito.

«Non mi dire che per un bacio di Steve non saresti disposta a rimetterci una chiappa!»

Arriviamo al piazzale sotto la villa con il fiatone. Martin e Gary ci salutano dal terrazzo prima di eclis-sarsi. Le guardie del corpo ci tengono a debita distanza ma non possono bloccarci quando arrivano le vetture degli altri. Dieci minuti di pura follia tra schiamazzi notturni, foto e discorsi abbozzati. Il verbo regredire non indica più un passo indietro della malattia ma la ripresa di atteggiamenti immaturi. Siamo quaranten-ni che finalmente coronano il sogno che avevano da ragazzine. Non di sposare Simon Le Bon ma di spos-sare tutti e cinque gli Spandau Ballet. Vedo Annalisa e Steve, abbracciati insieme. Le altre a circondare Tony. Roba da non credere, anni fa. Cose che non avrei cre-duto nemmeno pochi mesi fa.

La sicurezza, con cortese sollecitudine e qualche strattone, ci invita verso l’uscita. Liberiamo i nostri idoli e riprendiamo la discesa. Sono sempre la più lenta del gruppo e la fatica mi costringe a sedere. Solo An-nalisa se ne accorge e torna indietro: «Mi dispiace…»

«Anche a me. Non avrò mai una foto con Martin».«No, hai capito benissimo a cosa mi riferisco».«Stare vicino a chi è malato è un compito terribile.

Ho già costretto un marito e un figlio. Non potevo condizionare anche te, soprattutto se non te la sentivi».

«Ti ricordi quando sono andata in Francia a lavo-rare?»

«Sì, nel 2007. Eri sparita».

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Babbo Natale caro,è l’ultima volta che ti scriverò.È passato qualche anno di malumore da quelli di-

stesi dell’asilo.Allora mi bastava ricevere ciò che avevo desidera-

to in segreto senza manifestare nulla, dopo il giretto apparentemente innocente al negozio di giocattoli, architettato ad arte per carpirmi qualche indizio.

Mi fermavo ipnotizzata davanti al prescelto, il dono designato a occupare tutti i miei sogni fino alla notte fatidica. E tuttavia mi attendeva un risveglio semplice, privo di sottotesti o trame romanzate.

Non saresti arrivato nella notte ghiacciata e scarna, dribblando Gesù Bambino.

Ma come facevi ad arrivare per primo da me? For-se vi spartivate le zone in anticipo, a mo’ di agenti di commercio? Con tanto di provvigioni per chi si se l’era sbrigata prima del diteggiare pastello dell’alba?

AvventoCaterina Comingio

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Nell’ordine:calzettoni variamente urticantimutande di cotone misto kriptonite, onde resistere a

lavaggi decennalilibri dai caratteri cubitalitorroni di ghiaia, buoni per il conto del dentista a

gennaio e… una bambolina fornita di vestitini e acces-sori. Fantastica.

Ma quest’ultima veniva dagli zii, cui spettava la menzione d’onore per i regali più ludici. Il loro pacco transitava «dalle mani di san Niccolò» – famosissimo a Trieste, meno da noi – e dopo opportuni passaggi arrivava a te, in tempo per la Vigilia.

Per ultimo aprivo il tuo regalo, trattenendo i pochi residui di pazienza e per nulla i pigolii di meraviglia.

Quello era il nostro vero Natale.

I preparativi del Cenone mi sembravano occupare tutto quel mese.

Il baccalà scelto per tempo e lavato più di me nella vasca da bagno; brodi di lische, bocconcini rigonfi di pastella esagitata nell’olio che impesta ogni cosa, animata e inerte; frutta ingrassata per le Feste, so-prattutto nel prezzo.

Noci, nocciole, mandorle, pistacchi, paste di man-dorla. Troppo anche per il ricordo.

E poi di corsa alla Messa di Mezzanotte, nella chiesa-freezer in cui mi addormentavo con le gambe lunghe

Nessun piattino di biscotti caserecci, frutta o sale per le renne, né un boccale di vino o altra bevanda spiritosa per scaldarti.

Già la mia incoscienza bambina ne veniva turbata.Ubriacare un povero vecchio! Ma le renne corre-

vano per il cielo senza di lui?Anche le pattuglie armate di palloncino erano lungi

a venire.

Ero governata da un’impazienza protrattasi tutta la notte. Tutto il mese, a dire la verità.

Già dal 25 novembre scattava l’attesa.Un mese a Natale!E così ogni mattino mi avvicinava a quel risveglio,

tanto che quell’ultima fatidica giornata della Vigilia va-gavo dalla malinconia all’agitazione; per il piacere prossi-mo a sfumare via e perché quella notte ancora non avrei dormito, stavolta per i postumi della grande abbuffata.

Per noi al 25 la festa era ormai roba vecchia, concen-trati com’eravamo a celebrare il tuo arrivo già la sera prima. Alla giornata di Natale era relegato il collaudo dei doni e un protrarsi di visite in casa fino a Santo Stefano.

I pacchi comparivano senza preavviso sotto l’al-bero, nei rari istanti in cui non lo tenevo sotto tiro, prima dell’inizio del Cenone. Con qualche banalità venivo allontanata dalla mia postazione di vedetta dietro al divano.

Ed eccoli, i doni. Sempre pochi e sempre utili.

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Ci avevi allegato un biglietto quadrato, bianco, sen-za busta, su cui avevi tracciato col normografo, come i serial killer, i tuoi auguri e la tua firma, in lettere cia-scuna di un colore diverso.

Lì iniziai a sospettare qualcosa sulla tua esistenza.

∗ ∗ ∗

Questa è l’ultima volta, per forza.Stamattina c’è stato un risveglio trafelato.L’sms non lasciava molta immaginazione dietro di sé:

“Sei sveglia?” Ore 9.15. In tempo per la Messa di Natale, volendo.

Ma in Chiesa non vado più regolarmente, se non per matrimoni, cresime, riti così. L’ultima volta per battezzare le bambine, giusto dodici mesi fa.

Mi vesto senza controllare gli abbinamenti, con-ciata ancora come ieri sera dopo il lavoro.

Chiuso il negozio, mi sono ripulita dalla polvere, dal-la saturazione delle vendite, dalla frenesia senza senso e senza soldi delle tre settimane più importanti dell’anno per il commercio e appena concluse con la Vigilia. Poi sono passata a trovarti al solito orario delle visite.

Eri in corsia, e pure imbronciato: normale, come al solito, direi.

Non avevi mangiato granché; eppure purè e stelline in brodo gratificano da quando si è piccoli e ammalati, e soprattutto in ospedale non se ne può fare a meno.

Non hai voluto nemmeno la stella di Natale, ma sia-

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distese sulla panca. Riuscivo a creare qualche associa-zione mentale, frammista ai canti stonati delle vecchie e a quelli stentorei di don Roberto, nonostante la testa ciondolasse lungo la manica di lana pesante del cappot-to di mamma.

Ma il freddo mi infilzava appena socchiudevo le palpebre.

Intravedevo il bimbo in scala 1:1, dagli addominali tonici a sostenere le gambe sollevate, e tuttavia sor-ridente, esposto nella mangiatoia ai piedi dell’altare perché l’adorassimo.

Un rito fitto di misteri. Adorare.«Veeenite adoreeemus», in un loop infinito.Ancora e ancora adorare? Forse è “odorare”? Per quel-

lo solleva i piedi, il bambino? Per farli annusare meglio? E mentre la lana della manica mi grattava via la

guancia, nella notte profonda ci alzavamo dalle pan-che e nello scambio di auguri con le altre sciagurate del paese, le ultime ore decisive del Parto scivolavano infine verso quelle del Benvenuto.

Mai cucciolo è stato aspettato più a lungo, con tanti canti, con tanto gelo, con tanto sonno.

Un pensiero cristallizzato andava al mio regalo mezzo scartato, lasciato in salotto sul tavolo di mar-mo coperto dalla tovaglia di filo leggero chiazzato di Lambrusco e Moscato.

Quello era il tuo dono personalissimo, dedicato dav-vero a me e così tanto pregustato.

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Ma tranquillizzali pure, il giro è finito: non hai di-menticato nessuno, nemmeno stavolta.

Tuttavia sarà Gesù Bambino a darti il cambio, da qui in avanti.

Global manager fra dodici mesi, è bene che inizi a organizzarsi da subito.

Non è lavoro di poco conto, tutta la notte in giro per un solo piccino; e l’esperienza del vecchio Babbo Natale conterà pure qualcosa per il nuovo discepolo.

Comodo e pasciuto nella sua culla-mangiatoia in Chiesa, anche stamattina lo si starà adorando con di-screzione, dietro colli di pelliccia sollevati e chiacchie-riccio festivo.

mo riusciti a lasciartela sul comodino finché non ce ne siamo andati. «Portàtela alle infermiere».

Non si capiva se per gentilezza nei loro confronti o per fastidio nei nostri.

Ti abbiamo salutato con un bacio sulla fronte, ri-lanciando gli auguri all’indomani. Il cenone ordinato al catering ci aspettava a casa, ancora immersi nella normalità distorta di una Vigilia spartiacque fra il no-stro personale e definitivo “prima e dopo Cristo”.

Ma oggi in fondo non importa l’eleganza. Se anche fossi arrivata imbellettata, ecco cuffietta e mascherina d’organza a occultarmi; ma sono pure senza trucco, tanto. Il camice color cimice fa il resto, su gonna di velluto e calze in improbabile fantasia fiocchi di neve.

Entriamo uno alla volta.Mascherato pure tu, prostrato dalla fatica. La consegna dei regali si è conclusa all’alba, e ora

vuoi solo riprenderti.Ma non ti concedono granché riposo qui.Nemmeno il primo sole, che filtra potente dalla

fila di grandi finestre di spalle al tuo letto, nemmeno i neon imperterriti, accesi qualunque sia il tempo fuori, ti danno requie.

I rintocchi delle campane arrivano ovattati, l’eco persa sulla punta dell’alberello che luccica pure lui intermittente, accanto al monitoraggio dei medici.

Ti tengono d’occhio in tanti, perché non scappi.

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La camicia che mi suda addosso. Mi guardo intorno, in quest’ora tarda di fine po-

meriggio deserto che descrive il perimetro di un par-cheggio infinito e assolato. Anche i pensieri accalorati si inseguono sudando emozioni che non ho tempo di decifrare. Non ho nessun ritardo da giustificare, provo solo una sensazione approssimata d’ansia. Chissà se immotivata, ma la ricaccio in gola e la faccio scendere con la saliva. Esco dall’auto e uno sguardo rapido lo riservo alla luce, ancora abbagliante di mezza estate, filtrata da lenti scure che, spesso, mi hanno difeso dal sole e a volte dalle lacrime. M’incammino con le mani in tasca dall’abitudine che ho: di nascondere i pugni e altri significati, e un po’ mi curvo sul passo rapido che m’impegno a mantenere fino all’ingresso.

La porta automatica che mi si apre innanzi non è quella del Paradiso, ma suggerisce qualche speranza di frescura e un sollievo immotivato. Qualche fram-

I pugni in tascaLele Ghisio

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È nata lì, l’esigenza di guardarsi negli occhi senza piangere e raccontarsi quell’accadere: «Sai, non ho voluto dirti nulla finora; avevi altro a cui pensare». La saliva mi si blocca in gola, di fronte al rispetto di Mar-co. E penso a quanto ha dovuto rinchiudere in un silenzio il dolore e lo sgomento. E a quanto, a volte, li ho rinchiusi io, nello stesso silenzio. Restiamo seduti di fronte, sospesi nell’aria spostata improvvisamente dal barista che appoggia sul tavolino una crema di caffè, accanto al mezzo bicchiere di disperato refri-gerio ordinato da Marco nell’attesa, in quest’angolo di bar. Alle sue spalle lo stesso bar si dissolve, vuoto. Gli occhi gli brillano di gratitudine, mentre un amaro disincanto lo aiuta a raccontare.

Quel fugace incontro lungo un corridoio infinito e luminoso d’inizio estate. Già, anche con lei. Ci siamo scambiati sorrisi e baci. Pochi dettagli allora, descritti adesso e diventati una storia difficile da dimenticare. Continuiamo a parlare fitto: tra domande e risposte, tra domande senza risposta. E di quella volta in più che hanno fatto l’amore, per toccare la vita da vicino. E di quelle corse in auto, contro il tempo che s’im-pone. E gli scazzi nel tentativo di capirci qualcosa, di trovare una parola chiara in mezzo ai dubbi. Esserci di fronte ha il senso della presenza immateriale, che ci ha accompagnati prima. Che ci accompagnerà poi. Mentre lei, Anna, su di sopra, s’assopisce e speriamo sogni bene.

mento affiora dalla memoria, ma non mi posso ascol-tare ora. L’impatto con l’aria condizionata consola il corpo, mentre le mani escono dalle tasche e corrono verso gli occhiali per riporli nel taschino della camicia, in un contemporaneo dilatarsi della pupilla che per-cepisco senza potermi vedere: la luce si è fatta ombra e un certo silenzio sembra essere calato intorno. La vista periferica descrive poche figure di passaggio.

Lui è seduto là in fondo, all’angolo del bar descrit-to da pareti bianche e ampie vetrate. Qualche spruz-zo d’azzurro rassicura cromaticamente la vista, sui rumori soffici di un barista rimasto solo a condur-re l’immenso bancone. Marco ha l’aria tranquilla e mi sorride da lontano. Camminando supero con lo sguardo il barista, mentre gli lascio scivolare una «cre-ma di caffè» tra le labbra e rispondo al sorriso lontano di Marco con un cenno del capo e un digrignare di denti, che sottolinea la tensione che mi sono inavver-titamente portato a spasso. Mi avvicino veloce, Marco si alza e finalmente c’incontriamo liberandoci in un abbraccio pieno di domande inespresse. I giorni pas-sati sono stati densi di momenti smozzicati in poche frasi da leggere su un display luminoso e colorato, che non dà mai peso alle parole. Ne erano seguite altre al telefono: brevi accenni a una vita interrotta all’im-provviso da parole poco comprensibili.

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addosso e con lievi sorrisi. Senza chiamare destino la vita, quando non le puoi sfuggire.

A un certo punto ci alziamo. Ci avviamo lenti ver-so il centro d’un atrio enorme e celebriamo lì il rito di un saluto e un abbraccio, sincero. La vista periferica non registra movimenti di passaggio. Marco si volta e se ne va, io lo guardo avviarsi verso la scala mo-bile che lo condurrà fino a quel corridoio nel quale c’incontrammo tempo fa, e poi agli ascensori che si aprono sul reparto oncologico al secondo piano. Va a vedere se Anna dorme ancora e non per sempre, ancora. Ad aspettarmi fuori c’è il parcheggio assola-to e vuoto d’una domenica d’agosto. Su, di sopra, al secondo piano, nella stanza accanto a quella in cui è morta mamma qualche giorno fa c’è Anna che dor-me e aspetta Marco. Estraggo gli occhiali scuri dal ta-schino della camicia e affronto le porte automatiche. Fuori da questo ospedale c’è il sole. Ma io, a questo giro, ho da nascondere lacrime. E m’incammino con le mani in tasca dall’abitudine che ho: di nascondere i pugni e altri significati.

Intanto, il grande vuoto intorno ci consegna aria da respirare. Chiusi dentro un acquario di pensieri e qualche sommessa risata. Ci suda l’anima, questo sì. E quest’aria condizionata non è d’aiuto. Marco ac-cenna un saluto e una sonora battuta di circostanza. Osservo sorpreso la ragazza vestita di bianco, sul tre-spolo, poco più in là di noi. Mi chiedo se l’ho vista già, se non sono io ad aver perso aderenza con una realtà che ho spento da poco. Ma no, è nuova. E sim-patica. Marco me ne parla entusiasta, come di una spiaggia a cui è approdato il suo mare di possibilità. E Anna è su a dormire. Proviamo a chiamarla al tele-fono, ma probabilmente sogna ad alto volume e non ci sente. La saluterò poi, se non è oggi. O forse mai, se non è oggi.

Ho anch’io tanto da raccontare. E Marco ha la pa-zienza d’ascoltare. Di quando infilavo le parole per sopravvivere al giorno e alla malinconia della notte. Di quando reinventavo i ricordi per regalarli a mia madre. Lui invece mi racconta di come ha preso Anna per mano e ha dimenticato il mondo. Quello che ab-biamo lasciato fuori, nell’afa di mezza estate. Di come abbia trovato le risposte a certe domande; di come il dubbio non avesse né senso né spazio. Di come fosse indispensabile la lucidità di pensiero. E lo abbraccio con lo sguardo: penso a due uomini di fronte, con la vita che picchia duro. Penso che questo è stato l’uni-co incontro possibile, tra di noi, ora. Senza sudarci

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Tic-tac, tic-tac. Ventisette estati ci separavano dal nostro primo impatto, perché proprio di impatto si trattò. Entrai in cucina, come sempre, di corsa, e an-dai a sbattere contro un muro alto un metro e novan-tadue: eri tu! La leva non faceva per noi ma durante quegli undici mesi che abbiamo trascorso assieme, abbiamo vissuto una vita intera. Tic-tac, tic-tac, il tuo tempo scorre veloce.

Sembravi il classico gigante buono con un cuore immenso ma eri qualcosa di più, molto di più. Esiste l’amore a prima vista? Non so, ma, di certo esiste l’a-micizia, vera, a primo impatto, quella rara che non ca-pita a tutti. Be’, tu e io abbiamo avuto questa immensa fortuna. Eri pieno di voglia di vivere, di scoprire, di parlare. Parlare! Quella prima notte abbiamo finito la serata chiacchierando sotto le stelle con il cielo che già si faceva pallido. Tic-tac, tic-tac, il tuo tempo corre.

E la tua grande passione, la fotografia. Mi hai con-tagiato, anzi, incantato. Quanta poesia in uno scatto.

Tic-tacAntonio Berri

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diventati grandi. Solo che adesso non eri più un me-tro e novantadue. No, perché stavi seduto su quella sedia a rotelle. Tic-tac, tic-tac, il tempo Valter, se ne sta andando tutto.

Forse ci siamo divertiti di più con le scorribande nei corridoi dell’ospedale che per le stradine del Friuli. Forse perché sapevamo che erano le ultime che avrem-mo fatto insieme. Chissà. Tic-tac, tic-tac, ormai ti è ri-masto poco, troppo poco.

L’isolamento a Forlì, il canto del cigno vicino a casa e poi, mi ricordo quel giorno – tic-tac, tic-tac, il tuo tempo sta per scadere –, come hai gustato l’aran-ciata, avevi sete. Tic-tac, tic-tac, non ce n’è quasi più di tempo, ti sono rimaste solo briciole.

Il nostro ultimo incontro. Ero venuto per vederti e, perdonami Valter, non ti avevo riconosciuto. Tic-tac, tic.

E quante scorribande con la tua mitica Lambretta tra le valli del Natisone, la scoperta dei villaggi terremo-tati e abbandonati, le tagliole austriache della Grande Guerra usate sui nostri poveri soldati e poi, la fine di questo viaggio sopra un campanile a guardare il “nostro” Matajur in lontananza. Non so a chi dei due venne in mente ma non ha alcuna importanza. Pren-demmo una moneta da dieci lire e la incastrammo nel supporto di legno della campana con la promessa di tornare un giorno, chissà quando, insieme, per ve-dere se fosse ancora lì. Era un momento pieno d’e-mozione, triste e gioioso insieme e, mentre eravamo lì, per un bel po’ non ci siamo guardati, forse per un senso di pudore e rispetto nei confronti dell’altro e di se stessi, per non vedere una lacrima solcarci le guance. Tic-tac, tic-tac, il tuo tempo va.

Dopo neanche due mesi ci siamo ritrovati per due settimane sui monti trentini a scarpinare e raccoglie-re funghi. E cucinarli, eh sì, perché non disdegnavi l’arte culinaria. Tic-tac, tic-tac, non posso fermare il tuo tempo.

Poi, ci siamo un po’ persi, siamo diventati “grandi”, sposati, due eredi tu e una io. Ma un giorno ci siamo cercati, così, perché ci mancavamo. Era un ritrovar-si, un nuovo incontro, dal giorno prima. Sono così le vere amicizie. Tic-tac, tic-tac, hai così poco tempo.

Ventisette estati ed eri lì che sorridevi come sem-pre. L’ennesimo incontro dopo quel nostro primo impatto, dopo i monti scalati assieme, dopo essere

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Altri partecipanti

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Avvertenza.Questa sezione racchiude gli estratti dei racconti scritti dagli altri

partecipanti al concorso. Si ricorda che ogni partecipante è a suo modo vincitore.

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Una sera ci incontrammo ma il nostro non fu pro-priamente un incontro galante.

Avvenne sotto la doccia. Dopo una calda giornata estiva trascorsa in ufficio, lei aveva bisogno di rilas-sarsi. Sotto l’acqua che scorreva, mentre si passava la mano insaponata sul seno, si fermò. […]

La mano ripassava sopra al nodulo, sopra di me insomma, indugiava incredula, poi passava a toccarsi l’ascella. […]

Lei, ancora sotto la doccia, si fermò a pensare. Finì di sciacquarsi e se ne andò a letto, forse non credeva ancora alla mia presenza.

La notte si girò e rigirò nel letto senza riuscire a dormire ma sapevo che stava pensando a me.

Nei giorni successivi dita e mani esperte mi tastaro-no, mi misurarono, mi fotografarono. A lei fecero per-fino dei tatuaggi per delimitare quanto fossi grande.

Una sera ci incontrammoAnna Maria Benini

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Al piano di sotto c’era la sala ritrovo, scendemmo. Era occupata da persone che chiacchieravano in di-sparte oppure guardavano la tv. Salutammo tutti. Uno di loro, con un marcato accento meridionale, si pre-sentò: «Io sono Marcello, chi di voi due è…?»

Risposi che ero io.«Anche tu la radio?»«Sì. Comincio domattina alle nove».«Ah bene, magari ci incontriamo, beviamo un caffè

assieme e, se ritardi, faccio compagnia a tuo marito!»“Ok, molto volentieri. A domani».[…]L’indomani mattina alle nove iniziavo la terapia. A

metà strada mi sentii chiamare, era Marcello.«Hai fatto colazione?»[…]Questa specie di rito si protrasse per venticinque

giorni.

L’incontroMarialuisa Bertoli

Le si avvicinò Tomàs.«Che fai, Sabina?»«Scrivo».«E cosa scrivi?»«Del mio incontro con la malattia. Scrivo perché

tutti possano capire che è come scoprire di essere im-potenti, che c’è qualcosa che ti sovrasta e ha potere su di te. Come sapere che il tuo tempo è minore».

«Oh no, tu scrivi perché fuori c’è un grande ban-chetto e ne sei esclusa. Sto citando Dostoevskij. Pro-prio un personaggio dell’Idiota scrive una lettera per-ché era tisico e gli restava poco tempo di vita, e si ostenta a leggerla davanti a tutti. E sai cosa dice in questa lettera?»

«Non ne ho idea».«Tutto. Ma dicendo tutto, alla fine non dice niente,

perché è difficilissimo esprimere l’essenza […]. L’im-portante è lasciare luce, colore, nel nostro cammino. E assorbire tutta la bellezza possibile».

IncontroVirginia Bergamasco

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Sara, sorridente e felice, mi abbraccia stringendomi forte. Pure io stringo, ma con molta delicatezza e pau-ra di sbriciolare questa creatura che si raggomitola sul mio petto. […] Mi scosto leggermente allontanandola quel tanto per riuscire a guardarla negli occhi, appog-giare con leggerezza le mie labbra alle sue e baciarla.

Chiudo gli occhi per lasciarmi trascinare dalla fan-tasia verso momenti felici della nostra relazione. […]

Dolcemente mi stacco dalle sue labbra, accarezzo i suoi capelli come facevo una volta, le sorrido e i suoi occhi iniziano a scalciare la tristezza per bagnarsi di luce nuova. La sua felicità penetra lentamente in me sussurrandomi parole d’amore e di brillantezza. Sem-bra quasi un paradosso che sia Sara stessa a darmi la forza di vivere, dovrei essere io a trasmetterle nuova linfa di vita. Lei mi guarda regalandomi nuovamente un flebile ma coraggioso: «Ciao amore mio, finalmente sei qui con me, scusami se non ti ho voluto prima».

Una lettera per teOlimpio Biasoni

Il 31 luglio di quest’anno all’uomo viene diagno-sticato un tumore al cervello, dopo aver passato gli ultimi mesi a combattere quello al polmone.

Subito lui ripensa al suo passato, si chiede se è quel-lo la causa del male. Il senso di colpa per aver fatto soffrire le persone più care è così doloroso da con-fonderlo con un male incurabile, nonostante decine di anni passati a riscattarsi.

E allora lo deve chiedere, deve domandare alla dot-toressa che lo può curare se quei giorni lontani che sembravano affogati hanno deciso di farsi sentire in quel modo. Perché da allora lui aveva veramente fat-to tutto ciò che poteva per far dimenticare agli altri i propri errori, anche a se stesso.

GrazieValentina Bertoli

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Sei mesi di chemioterapia lasciano il segno.La malattia lascia il segno.Le cicatrici più grandi sono quelle dell’animo, ancor

prima di quelle del corpo.La fallibilità dell’essere umano appare in tutta la sua

evidenza.Cambia la prospettiva.Cambiano le domande e, soprattutto, cambiano le

risposte.Io sono cambiata.E se all’inizio ho pensato di dover ingaggiare una

guerra all’ultimo sangue, col tempo ho compreso una cosa fondamentale: il corpo va ascoltato e amato an-che e soprattutto se “fa le bizze”.

La malattia ha portato con sé un forte desiderio di introspezione.

Un felice incontroChiara Boschi

Squillò il telefono. Il nostro dottore ci comunicò che era stato contattato dalla struttura sanitaria locale perché c’erano delle anomalie nel sangue e ci informò che per l’indomani aveva preso contatti per una visita speciali-stica urgente. Magone generale, notte insonne, ipotesi e supposizioni varie.

Era di martedì, e il cielo ci crollò addosso. Il responso: leucemia.

Davanti a una situazione del genere, pretesi di ascol-tare altri pareri. Decisi su due piedi di rivolgermi anche ad altre strutture, forse maggiormente qualificate. Tro-vai la struttura ad hoc che confaceva pienamente alle mie esigenze. Personale giovane, altamente qualificato, gentilissimo, cordiale, in grado di infondere fiducia e tranquillità. A questa struttura affidai tutta la mia esi-stenza e il futuro della mia compagna.

Ebbe così inizio il nostro calvario.

Siamo sempre sotto e non disperiamoClaudio Bomben

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L’avventura di BalenoCristina Bottino

ESPRESSIONI DI CURA

Conc

orso

artistico letterario - IV edizione 2015

MENZIONED’ONORE

Quando passavo davanti allo specchio alla fine della chemioterapia davvero non mi riconoscevo. Chi era quella donna grassa e gonfia (con il cortisone e l’inatti-vità avevo preso quasi quindici chili!), senza capelli, ci-glia e sopracciglia, con il corpo completamente glabro e unghie marroni (che coprivo con smalti coloratissimi, da quando mia nipote me lo aveva fatto notare)? E poi quella pelle fragile e rugosa, specie quella del dorso della mano e gli arti parestesici… un disastro!

Ma quel che più mi faceva soffrire era non rico-noscermi neppure spiritualmente. Dove se n’era an-data la donna forte, ironica, resistente del mio prima? Come aveva lasciato il posto a questa persona dispe-rata, fragile, sempre stanca che desiderava morire an-ziché vivere?

L’incontro nel mezzo del cammin… ovvero lo scontro!

Maria Pia Boschi

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Aldo nel 2012 stava bene, a parte i cervicali che gli davano dei problemi.

Un giorno dalla Regione arrivò la proposta di una visita di controllo delle feci. Risultò: sanguinamento e urgenza di intervento al colon.

Prima delle feste natalizie il dottore consigliò l’in-tervento. […]

Aldo recuperò bene le sue forze […]. Ma un anno dopo, sempre a dicembre, ritornò in sala operatoria per lo stesso intervento. Gli venne asportato un po’ più di colon e questa volta soffrì di più a causa delle aderenze precedenti.

Ora sono passati diciannove mesi, Aldo fa una vita normale e fa sempre i suoi controlli prescritti.

A parte un’ernia che si è formata, il suo stato di salute, seguendo una dieta, è discreto e forte dei mo-menti in cui necessita di riposo, anche giornaliero.

Questo mese Aldo compirà settantatré anni, è un uomo efficiente che dà gioia e compagnia.

La storia di AldoAldo Burigana

Mi accorgo che sono passati ormai due anni dal giorno in cui mi hanno diagnosticato il tumore e il tempo mi sembra volato, passato così in fretta, e non nascondo che la cosa un po’ mi spaventa.

Sorrido se ripenso a quando mi hanno chiamato dall’ospedale. Era un martedì.

«La dottoressa dice che può iniziare domani con la chemioterapia».

Silenzio, panico.«No, domani non posso», come se le parole mi

uscissero dalla bocca da sole, come se a pronunciarle non fossi stata io, le vedo stampate nella mia mente.

domani non posso! Sono forse matta?, mi viene da chiedermi. Poi, ritornata in me, mi invento una riunione al lavoro a cui non posso mancare. Fatto sta che mi concedono un giorno.

Domani non possoEleonora Brun

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Ondate ricorrentiLidia Curto

Ora lui deve dirmelo per forza. Con quali parole? Se ne è preparate tante, adatte a non ferire, ad allevia-re, addolcire. Il problema è che la sua vena di parole è ricca solo quando le scrive, quando le pensa. Pronun-ciarle è altra cosa. E comunque, anche se me lo avesse detto, il senso non muterebbe. L’effetto di condanna non cambierebbe. Non riesce a non pensare che per me nostra madre è ancora viva: sarebbe morta in que-sto momento, solo dopo aver pronunciato la sentenza. Alla fine usa l’eufemismo più spontaneo: «La mamma non c’è più».

[…]Mi raccolgo ancora di più nel sedile per cercare di

nascondere a tutti la mia disperazione incredula.«Perché piange questa piccola?»La voce estranea del passeggero produce un suo

effetto.Mio fratello, quasi sottovoce, spiega: «Ha appena sa-

puto che la sua mamma è morta».

Chiudemmo la fabbrica per quasi un mese. Il mac-chinario guasto venne smontato, aggiustato, rimon-tato e alla fine il produttore riuscì a riaprire l’attività senza grandi perdite.

Decise di cambiare prodotto e di lanciare una cam-pagna sul riciclo di materiali. Insegnare alla gente come non sprecare ciò che può essere riutilizzato gli sembrò un progetto più redditizio.

Il succo di lamponi, tutto sommato, non si era rivela-ta una grande idea: del resto, a chi piacciono i lamponi?

[…]«Ti piace l’idea del riciclo?»«Sì, mi piace molto», sospirai.«La fabbrica è di entrambi, penso che tu sia abba-

stanza grande da potertene occupare da sola».«Lo penso anch’io, ma preferisco avere qualcosa da

condividere con te».

A chi piacciono i lamponiAngela Colapinto

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Dal primo settembre 2015 nella mia vita sta per en-trare la parola quiescenza, ma preferisco chiamarla pen-sionamento. Ho in mente una tabella di marcia dei la-vori da ultimare, già penso ai festeggiamenti, mi vedo nella mia vita futura, pregusto la libertà di agire e di spostarmi vista la mia passione per i viaggi, insomma nella mia vita prevale la parola progetto.

Ma non ho fatto bene i conti con il mio destino, per-ché una parola nuova, inaspettata, arrogante, presun-tuosa, difficile da digerire, fa capolino nella mia vita. Co-mincia per m, ma siccome spaventa sia chi la pronuncia sia chi l’ascolta, preferisco chiamarla lesione secondaria. La bestiaccia, dopo vent’anni di letargo, si è risvegliata e mostra i muscoli.

Le parole della mia vitaRenata D’Incà

Ho la sensazione di essere stata scaraventata giù dalla giostra, sola, costretta a guardare chi è ancora su e con-tinua a girare. La mia vita si è fermata.

Come un alieno, arrivo in quella che sarà la mia nuova casa. Si comincia con biopsia all’osso e poi mammo-grafia, ecografia ed eccolo lì: il cancretto Jonny è ben sistemato nel seno destro, dove sta prendendo pos-sesso del mio corpo. E visto che ci si trova bene… metastasi ossee diffuse.

Incontro l’oncologo che, abbracciandomi, mi dice: «Non è sola, ci siamo noi con lei. Insieme faremo questo percorso nuovo della sua vita», e mi sento fi-nalmente presa per mano per incominciare questo cammino.

Dedicato a JonnyManuela D’Angelo

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Io penso invece che sia un grave sbaglio non par-larne, che sia una buona terapia aprirsi per esorcizzare il male, che sia di grande aiuto confrontarsi con tutti: magari senza diventare queruli e senza sollecitare la pietà: ma parlare è una medicina. Comunicare non fa ribollire e rigirare all’interno la rabbia, come con il pe-stello nel mortaio di cucina, e così si evita di cadere nella tremenda domanda: perché proprio a me? Que-sta è una domanda letale – al novantanove per cento non c’è mai una risposta –, ha l’effetto di cacciarci nella disperazione, nell’autocommiserazione e in de-finitiva nella depressione. È una domanda che ci si porrebbe inevitabilmente e che in breve ci lascerebbe soli con noi stessi: è un limite a cui non bisogna mai arrivare, e la sola medicina per evitarlo, oltre a quelle prescritte, è parlarne.

Il cambiamentoAlessandro Fontana

Sotto la doccia cantavo Meravigliosa creatura di Gianna Nannini; non sapevo neanch’io perché, ma era un’os-sessione, ce l’avevo in testa continuamente.

Una mattina, in psicoterapia all’oncologico, si è svelato l’arcano: la psicologa mi ha chiesto chi fosse quella meravigliosa creatura. Io, sulle prime, non ho compreso la domanda. Poi ho detto che immaginavo fosse una donna amata dalla cantante. Alla fine ho capito: ero io. Ero nata per la seconda volta e avevo in me la potenza della vita che si impone su tutto, anche sul cancro, anche sulla morte.

Nella mia storia di cancro questo è stato l’incontro più bello; mi fa piangere ancora pensare alla forza e alla voglia che sentivo vibrare nel mio corpo. Da spirito poetico e amante del lirico, quale io sono, mi fa piacere credere che, fondamentalmente, l’incontro con la malattia è stato preparatorio e propedeutico all’incontro con la gioia e con la vita.

Due anni vissuti pericolosamente… e intensamenteAnna Maria Fedrizzi

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Cominciò così il mio lavoro con i pazienti stranieri, principalmente venezuelani, che vengono in Italia per sottoporsi al trapianto del midollo.

Una volta imparato il lessico necessario, poteva sembrare un lavoro di routine: tradurre i colloqui du-rante i quali il primario illustrava le terapie, modalità del trapianto, eventuali rischi e precauzioni da adotta-re. Nulla di più errato! Ho avuto la fortuna di lavorare con un medico in grado di adattare e modificare il pro-prio linguaggio pur di rendere comprensibile qualsivo-glia informazione attraverso una sorta di “grammatica della fantasia”, per dirla con Rodari. Ho sentito parlare del trapianto quasi fosse un racconto dove i protago-nisti combattono insieme, tra il dolore e la speranza.

[…]Chiunque si trovi ad affrontare l’incubo della ma-

lattia oncologica vede sconvolta la propria vita, ma per i pazienti stranieri la situazione è infinitamente più difficile: vivono molte più solitudini.

Alice nel paese delle malattieAleksandra Gazda

Caro diario,da quanto tempo non rileggo le tue pagine. Mi ero

allontanata da quelle che sono state le mie emozioni, e ora eccomi qui a sfogliare queste pagine a cui ho rac-contato di ognuno di voi. Quelle piccole cose che ci facevano sorridere e a volte anche piangere, quando la terapia era così forte che non riuscivate ad alzarvi dal letto, quando le persone che avevate tanto amato si allontanavano da voi, quando quella bottiglietta di Coca-Cola era l’unico sollievo contro quella sensazio-ne di nausea che non voleva abbandonarvi, quando… quando non ce l’avete fatta.

Continuo a sfogliare e c’è una frase che, chissà dove avevo letto, ora mi appare così appropriata: “Un’emo-zione è come uno strattone: qualcuno ti solleva, ti tira per la manica. A volte è una scossa violenta, un colpo doloroso. Richiede di essere conosciuta, esige di essere compresa”.

Passeggiando lungo la riva di quel mare profondo e immenso pieno di creature

meravigliose che è il mio lavoro, un giorno ti incontrai

Isabella Gallo

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Ho capito che non ero io quello che stava più male. C’erano persone che erano in condizioni peggiori, perché la sofferenza fisica aveva preso il sopravvento intaccando anche la capacità di esprimersi e di comu-nicare. Ho così imparato a rispettare anche tutte le persone con cui mi sono trovato a convivere. Ma nel mio viaggio ho potuto fare altri incontri. Con i medi-ci, che ho trovato molto competenti e dotati anche di quelle capacità umane che favoriscono la comunica-zione interpersonale. Ho imparato a considerare tut-te le persone che incontravo come compagni di viag-gio e ogni incontro mi ha dato modo di arricchirmi di nuove esperienze. Ho appreso a familiarizzare con quel luogo di cura, denominandolo Tumor’s Hotel, giusto per sdrammatizzare i lunghi periodi di terapie e di ricoveri.

L’incontro e altri incontri lungo la strada

Valerio Giodini

La “me infermiera” ha imparato dalla malattia: le persone malate, in un certo qual modo, mi hanno cu-rata con le loro parole e i loro sguardi riconoscenti, dopo una mia particolare attenzione alla loro anima, al loro corpo. Il corpo, veicolo della cura. Noi operato-ri comunichiamo maggiormente “da corpo a corpo” perché è il mezzo di comunicazione più autentico e sincero: il corpo non mente; la mente, invece, sì. Le pa-role, quando nascono dalla mente, spesso sono vuote, portatrici quasi di menzogna. Se invece vengono dette “da cuore a cuore”, il corpo lo sente, si rinvigorisce, anche solo per un istante, e comunica al posto della persona stessa, nel caso non si possa più esprimere con il linguaggio verbale. Il corpo stesso è una pagina bian-ca, un po’ speciale e magica in quanto diversa in ogni istante della nostra vita, sempre contemporaneamente pagina bianca e scritta, tela bianca e dipinta di tutti i co-lori presenti in questo universo. Dipinta, magari, con un campo di fiori rossi.

Il campo di fiori rossiSara Geremia

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Arturo andò ad abitare a un paio di chilometri dal paese, in laguna. La sua casa era sulla riva di un mare chiaro e basso, che lasciava scoperti diversi metri di battigia ondulati al richiamo delle maree. All’alba, fu-cile in spalla, andava al guado con il cane Pablo. Avan-zando tra le alghe, l’acqua gli lambiva i polpacci. Nella foschia del primo mattino il profilo di qualche airone immobile sulle zampe sottili si trasformava, attraverso il mirino, in un veloce frullo verso l’alto. Camminando per ore, arrivava fino al faro, là dove i pini marittimi si curvano verso il mare e il sole, a fasci, crea colonne di luce in pineta.

Gocce di sangue rosso cupo, spesso, cadevano una dopo l’altra, sciogliendosi nell’acqua bassa. Pablo, al-lora, interrompeva la sua corsa e si sedeva paziente vicino ad Arturo, che tossendo cercava il fazzoletto e inspirava profondamente per riprendere fiato.

«Dài, vecio! Si riparte», diceva, asciugandosi qual-che goccia galeotta dagli anfibi.

Acqua di stelleBarbara Grella

Nel marzo del 2013, però, è arrivata la recidiva.Da quel momento le nostre vite sono state stravolte.

I medici dicevano e non dicevano, forse non avevano il coraggio di dire che questa volta non ne sarebbe uscito. La morte però non è contagiosa! Perché allora quando uno sa che la stai attraversando, e che piano piano ti av-vicini a essa, si allontana sempre di più? Tanti dicono: «Per non disturbare», «Non sappiamo cosa dire», e così via. Ma noi non siamo già finiti, viviamo e combattia-mo perché lei non vinca!

È devastante vedere che tuo figlio peggiora di gior-no in giorno e non sai cosa fare! Una madre non do-vrebbe sopravvivere al figlio, è innaturale, non puoi accettare una cosa così. Per quanto uno possa essere consapevole, non è mai pronto ad affrontare la morte.

L’incontroEdi Gobbo

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Arriva il giorno e, dopo esserti sottoposta all’esame, ti ritrovi seduta su un lettino. Davanti a te un medico con tono deciso ti dice: «Mi guardi negli occhi e mi comprenda bene. Lei ha un cancro al seno. Purtroppo, data la sua posizione, dovrà togliere tutto il seno».

Esci dallo studio medico e tutto è come un’ora fa: c’è il sole, fa caldo, sei calma. Dovresti rientrare in ufficio ma sei ancora per strada e sono trascorse due ore. Il sole ti colpisce, è insopportabile, continui a camminare. Ti ritrovi come svuotata, dentro non hai pensieri che affollino la tua mente.

Ritorni a casa, prepari la macedonia, la cena, ascol-ti il telegiornale. Parli con tuo marito che cerca di farti coraggio (parole e carezze inutili), c’è riunione di famiglia, ognuno dice la sua, i figli minimizzano, le tue sorelle balbettano consigli, ma nei loro occhi si legge la paura che ora ti attanaglia, che non va via.

L’imprevistoAnna Mungano

A giugno 2007 termino questo viaggio introspet-tivo ed esplorativo. Questo viaggio che ha ucciso il cancro. Sono un’altra persona. Sono Rosa, ma sono diversa. Ho altre aspettative di vita. Dopo aver intra-preso una battaglia furiosa contro il “signor cancro”, ora vedo la vita come una conquista. Ho vinto con tenacia. Ho detto al mio corpo, sempre: «Forza! Or-ganizza una forte armata contro le cellule maligne. Voglio vincere!» Ho vinto. La vittoria mi rende felice.

Attualmente, sono una scrittrice e un’editorialista. Insegno ancora, ma ho vari interessi. Sto scrivendo un nuovo romanzo che fra poco sarà pubblicato. Esi-sto e sono orgogliosa di esistere.

Raccontare la propria esperienza con le paroleRosa Mannetta

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Data la mia età, il mio seno non era sicuramente bel-lo, però io gli volevo bene, sapevo gestirlo anche quan-do è diventato penzolante.

I miei tre nipoti sono sempre stati attirati da questa nonna con le tette grandi, e quando dormivano con me da piccolini entravano in quel morbido cuscino, si sen-tivano al sicuro con l’odore della carne così familiare.

Si sentivano protetti e io non ho mai avuto vergogna. Invece adesso sì. Mi sento mutilata, sono piena di or-ribili cicatrici e sempre dolorante. Non riesco ad ac-cettare che non ho più una parte del mio corpo così importante. Volevo bene alle mie mammelle, la stessa parola mi porta subito a mia mamma, al mio allatta-mento: loro sono state il mezzo di nutrimento più im-portante per le mie due figlie, l’essenza della vita. Io non ho più né mamma né mammelle, so dov’è la mia mamma, invece le mie mammelle non so che fine ab-biano fatto.

L’abbraccioBruna Raccolini

Prendo il computer e inizio a cercare su internet […].Mi viene in mente che non ho pensato al medico

che mi ha accolta su all’istituto. Non ricordo il nome, cerco il certificato e digito sui tasti. Compaiono al-cune opzioni: nella prima questo medico risponde a una signora che chiede informazioni riguardo all’in-tervento al seno subito dalla madre. Leggo la rispo-sta: cortese, concisa, competente. Seconda opzione: Facebook. Ma io non sono iscritta a nessuna di que-ste cose, per me la privacy è sacra, la mia come quella del prossimo […]. Provo le altre opzioni, curriculum, reparto senologico dell’istituto, ma sbaglio e si apre Facebook: compare una foto bellissima, il volto sorri-dente del chirurgo con gli occhi azzurri, una splendida ragazza bionda e due bellissimi bambini.

Una foto di famiglia come se ne vedono poche, or-mai: trasmette serenità, gioia, calore… Bene, decido all’istante che mi farò operare da lui, il mio istinto di solito non sbaglia.

E alla fine ho incontrato me stessaLiana Pivetta

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Abbiamo associato la parola incontro all’azione che un padre e una madre compiono verso il proprio figlio co-stretto ad affrontare un difficilissimo ostacolo che la vita, purtroppo, gli ha riservato.

Immaginiamo l’immensa gioia del figlio nell’abbrac-ciare le persone più speciali della sua vita, il sorriso stam-pato nel suo volto e il calore che gli viene trasmesso. È difficile credere che con un abbraccio le emozioni passino da un corpo a un altro, eppure quando vedia-mo una persona triste, la prima cosa che ci verrebbe da fare è proprio abbracciarla e stringerla più forte a noi.

Pensiamo alla parola incontro come a un sinonimo di forza e coraggio: forza, perché entrambe sappiamo molto bene che le terapie, per avere risultati, devono fisicamente distruggerti; e coraggio, perché suggeria-mo a tutti di guardare la vita sotto un’altra prospettiva, reagendo a tutte queste difficoltà nel migliore dei modi.

L’incontroSara Segatto e Giada Vuano

Mi svegliai quattro ore dopo: mia madre piangeva e mio padre aveva gli occhi lucidi. Non capivo, non capivo proprio. Nemmeno il tempo di chiedere cosa stesse succedendo che mi iniziarono a spostare con tutto il lettone in direzione sconosciuta.

Ricordo solo che entrai in una stanza e un chirurgo mi prese di forza e mi impiantò con violenza un ago nel braccio. Urlai di prepotenza.

Nero. Da lì in poi solo nero: sopra, sotto, in parte, dentro di me. Tutto nero. Nero come la notte, quella di cui avevo paura. Nero come il petrolio nel golfo del Messico. Nero come l’amore che non avevo ancora provato… grazie a Dio. Sembrava stessi in una stanza simile al briefing del primo film della trilogia di Matrix, solo che mentre lì era tutto bianco, qui era nero.

Nero come il buio, come il male, come l’universo con le sue lenzuola nere.

Tre giorniDiego Sciucca

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Ora ho cominciato a lavorare.Sono fragile, lavoro a tempo ridotto.Spesso trovo colleghi che mi abbracciano.Sei qui, ce l’hai fatta, ti pensavamo spacciata.Incontro persone che iniziano il cammino di cura,

mi raccontano le loro perplessità, mi scrutano e dicono: se ce l’hai fatta tu.

Sono qui, godo il tempo che ho, vado in piscina, lavoro e cerco di prendere le cose positive che riesco.

Sono felice che qualcuno guardi a me con speranza, non mi sento vincitrice o perdente.

In questo percorso ho trovato amicizia, solidarietà.Signore, ti ringrazio: nel buio la luce c’è, basta co-

glierla.

Racconto di un viaggio e solidarietàOrnella Trevisan

Poi una gita in montagna, a ritrovare vecchi com-pagni di università davanti a una griglia e qualche (?) bottiglia di vino. Canzoni, chitarra, “ombre”, e la no-tizia che anche un altro amico, per caso, aveva sco-perto di avere il mio stesso problema. Non siamo mai stati troppo seri, e dopo un paio d’ore e altret-tante bottiglie ci siamo presentati come “tumorati di Dio” e abbiamo tirato sera.

Al momento dei saluti, poi, l’ho abbracciato sus-surrandogli: «Ho paura». Lui ha risposto con l’inevi-tabile: «Anch’io», ma ci diamo appuntamento all’an-no successivo per un’altra cantata.

L’incontro, la storia, il domaniAlessandro Spessotto

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Perché la medicina è una realtà parallela, vestita di detto e non detto, di auscultazioni, numeri e sigle.

Capii subito la gravità. Lo chiesi diretta – come sono io, come sei sempre stata anche tu – al tuo medico, e lui mi confermò quanto da profana avevo capito.

Vortici, vortici, vortici.Velocità.Regressioni.Schegge impazzite.Barlumi luccicanti di speranza, lampi abbaglianti

di gioia.Quale forza, quale Meraviglia, Mamma.I tuoi sorrisi, la tua voglia di fare, di uscire, di vivere.La malattia è un viaggio nell’abisso, un mettere le

mani in acque torbide, in cui nulla è certo, ma le spe-ranze e la forza del positivo sono enormi.

Cara MammaSara Volpato

Voleva prolungare le ore della notte e non avrebbe mai scelto un caffè espresso: la discesa della bevanda nella tazzina sarebbe stata troppo rapida. Decise di pren-dere un caffè lungo macchiato. La solitudine di un caffè lungo macchiato. Sì, un caffè lungo macchiato con tut-te le palline di zucchero. Dopo una nuotata ci voleva un po’ di glucosio. Prima sarebbe sceso lo zucchero, poi il caffè, il latte e infine, togliendo la tazzina dall’erogatore, si augurava che la bevanda fosse bollente, così da ave-re altro tempo da trascorrere prima di berlo. Guarda-va le lucine illuminate sulla scelta delle bevande. Aveva da tempo associato quelle lucine alle sue care lontane colleghe. Non più caffè espresso, caffè macchiato, mo-kaccino, caffè d’orzo, cappuccino e cioccolata, ma le due Carla, Gabriella, Letizia, Angela, Laura, Tiziana, Valeria e via dicendo. […] A suo modo in quelle lun-ghe ore della notte non era mai sola, c’era sempre una lucina a farle compagnia.

La solitudine di un caffè macchiatoMaurizia Venir

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Appendice

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Ivana Truccolo (presidente di giuria)Responsabile Biblioteca Scientifica e per Pazienti cro AvianoDafne BertoncelloStudentessa ed ex pazientePaolo Dal PontEsperto di produzione di audiovisiviPiervincenzo Di TerlizziDirigente scolastico Istituto d’Istruzione Superiore “Evangelista Torricelli” di Maniago (Pn)Alberto GarliniScrittore, tra i curatori del festival letterario PordenoneleggeMoira PiemonteDocente di graficaEnzo RussoScrittoreAngela RuzzoniFilologa

Giuria del concorso

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Igor Altin Fontanafredda (Pn)Restami accantoAlberto Andreoli Barbi BolognaEverybody, fight for ourselvesBarbara Balabani Mestre (Ve)FigliaEva Belluzzo Tarcento (Ud)Il regaloAnna Maria Benini Cervia (Ra)Una sera ci incontrammoVirginia Bergamasco Spilimbergo (Pn)IncontroAntonio Berri Meduna di Livenza (Tv)Tic-tacMarialuisa Bertoli PordenoneGrazie

Partecipanti al concorsoMarta SantinTecnico sanitario di laboratorioCinzia SpadolaDocenteAnna VallerugoGiornalista e traduttriceDaniele ZanelloFormatore esperto di didattica audiovisiva

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Renata D’Incà BellunoLe parole della mia vitaCarmen Dinallo Caneva (Pn)Painful hopeAnna Maria Fedrizzi Nettuno (Rm)Due anni vissuti pericolosamente… e intensamenteAlessandro Fontana Budoia (Pn)Il cambiamentoIsabella Gallo Moncalieri (To)Passeggiando lungo la riva di quel mare profondo…Daniele Gava Sacile (Pn)Francesco e mamma Francesca, l’incontroAleksandra Gazda PerugiaAlice nel paese delle malattieSara Geremia VeneziaIl campo di fiori rossiLele Ghisio Tollegno (Bi)I pugni in tascaValerio Giodini Cassago Brianza (Lc)L’incontro e altri incontri lungo la stradaEdi Gobbo Maron di Brugnera (Pn)L’incontroMaria Grazia Goffo Marcon (Ve)Codice zero quarantottoBarbara Grella Maniago (Pn)Acqua di stelle

Olimpio Biasoni Maniago (Pn)Una lettera per teClaudio Bomben Porcia (Pn)Siamo sempre sotto e non disperiamoChiara Boschi PordenoneUn felice incontroMaria Pia Boschi ForlìL’incontro nel mezzo del cammin… ovvero lo scontro!Cristina Bottino San Fior (Tv)L’avventura di BalenoEleonora Brun Vigonovo di Fontanafredda (Pn)Domani non possoAldo Burigana PordenoneLa storia di AldoMonica Caeran Giavera del Montello (Tv)L’incontro con la vitaFrancesca Caracciolo Cerrione (Bi)Come staiAngela Colapinto BolognaA chi piacciono i lamponiCaterina Comingio Casarsa della Delizia (Pn)AvventoLidia Curto PordenoneOndate ricorrentiManuela D’Angelo PordenoneDedicato a Jonny

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Xenia Salvadori Montereale Valcellina (Pn)Lucifero, il portatore di luceCarlotta Schiavon PordenoneBaci a catenaDiego Sciucca Claut (Pn)Tre giorniIerma Sega Rovereto (Tn)La storia di LucaSara Segatto e Giada Vuano Sacile (Pn) e Porcia (Pn)L’incontroAlessandro Spessotto Porcia (Pn)L’incontro, la storia, il domaniOrnella Trevisan Ceggia (Ve)Racconto di un viaggio e solidarietàMaurizia Venir PordenoneLa solitudine di un caffè macchiatoSara Volpato PordenoneCara MammaFrancesca Zennaro TriesteVivere, non esistere

Rosa Mannetta AvellinoRaccontare la propria esperienza con le paroleCecilia Mazzeo BolognaFrammenti di teAlessandra Merighi Porcia (Pn)FiliAnna Mungano Castelfranco Veneto (Tv)L’imprevistoGianna Omenetto Manzano (Ud)Incontrarsi con il toccoIn ogni mio giornoNadia Paludetto San Donà di Piave (Ve)L’incontro rosaBarbara Piccolo Brugnera (Pn)Niente succede per casoLiana Pivetta Azzano Decimo (Pn)E alla fine ho incontrato me stessaBruna Raccolini TriesteL’abbraccioRaffaele Radice NapoliNuova visione. La chemio non funzionaNuova visione. Sono ancora quiAdriana Reginato Lignano Sabbiadoro (Ud)Resurrezioni casualiLeonilde Russo Rosolini (Sr)Siamo sempre in vena di sorridere

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Si ringraziano i membri della giuria per il lavoro svolto e tutti gli autori partecipanti al concorso arti-stico letterario. Questo è il loro libro.

Un ringraziamento al Comune di Pordenone, al Comune di Aviano e alla sezione Friuli Venezia Giulia dell’Associazione Italiana Biblioteche per aver con-cesso il proprio patrocinio al concorso.

Grazie, inoltre, alla Biblioteca Civica di Aviano e alla Mediateca Pordenone di cinemazero per aver collabo-rato a promuovere l’iniziativa.

La stampa di questo volume è finanziata con fondi del 5 per mille devoluto al cro, progetto Patient Education, e della L.R. 23/2015, in virtù del riconoscimento di “interesse regionale” alla Biblioteca cro.

Ringraziamenti

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Finito di stampare nel mese di febbraio 2016Tipografia Sartor srl

Stampato su carta certificata fsc mixed credit

Il marchio fsc® identifica i prodotti contenenti legno provenienti da foreste gestite in maniera corretta

e responsabile secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici.

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