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1 Morale e diritto Itinerario tematico Introduzione Diritto e morale riguardano ambiti diversi, ma che spesso si intersecano e si sovrappon- gono. L’oggetto è infatti comune: i principi e le regole che devono guidare il compor- tamento. Non mancano però le differenze: la morale riguarda la coscienza, la sfera inte- riore; il diritto, il comportamento esteriore, il rapporto con gli altri. La morale, inoltre, implica l’adesione della volontà del soggetto, mentre il diritto regola unicamente gli atti: non ha nessun rilievo giuridico se rispettiamo una legge perché convinti del suo valore o per timore della pena. Molti filosofi ipotizzano un rapporto, più o meno stretto, tra morale e diritto, e l’eventua- le mancanza di un rapporto è anch’essa significativa. Parlando del rapporto o meno tra questi due ambiti, in realtà, ci riferiamo alle relazioni tra l’individuo e la collettività di cui è parte, alla dipendenza o meno del singolo da questa collettività, alla convinzione o meno che esistano legami non solo convenzionali tra i membri di una collettività, di un popolo, ecc. Infatti, se riteniamo che ci sia una sostanziale continuità tra morale e diritto, per cui le leggi scritte esprimono valori comuni, allora ipotizziamo anche un’unione non solo convenzionale tra gli individui. In questa prospettiva, possiamo parlare di norme culturali, nel senso antropologico del termine, come insieme di regole che fanno parte di una tradizione, di una cultura, ed hanno la forza coercitiva delle norme giuridiche (nel senso che chi le viola viene punito dalla comunità, con vere e proprie pene o più spesso con l’emarginazione) ma al tempo stesso sono interiorizzate come quelle morali. Morale e diritto sono dunque in qualche misura correlati, ma lo sono più o meno a secon- da della prospettiva filosofica da cui si muove, e con la prevalenza, nei diversi sistemi di pensiero, dell’uno o dell’altro aspetto. 1. La relatività del diritto e della morale In origine, nel mito e nelle prime filosofie, la legge, il nómos, coincide con la razionalità della natura e del tutto, con il lógos, la ragione. La legge di natura è insieme necessaria e giusta, il lógos garantisce, per Eraclito, l’equilibrio tra i contrari così come la legge garanti- sce l’equilibrio tra le classi in contrasto nella città. La distinzione tra lógos e nómos, tra legge naturale e legge umana, ha inizio con la nasci- ta della democrazia, quando le leggi perdono la loro sacralità, vengono discusse e decise in assemblea, possono essere cambiate, sono diverse da città a città, ecc.

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Morale e dirittoItinerario tematico

IntroduzioneDiritto e morale riguardano ambiti diversi, ma che spesso si intersecano e si sovrappon-gono. L’oggetto è infatti comune: i principi e le regole che devono guidare il compor-tamento. Non mancano però le differenze: la morale riguarda la coscienza, la sfera inte-riore; il diritto, il comportamento esteriore, il rapporto con gli altri. La morale, inoltre, implica l’adesione della volontà del soggetto, mentre il diritto regola unicamente gli atti: non ha nessun rilievo giuridico se rispettiamo una legge perché convinti del suo valore o per timore della pena.

Molti filosofi ipotizzano un rapporto, più o meno stretto, tra morale e diritto, e l’eventua-le mancanza di un rapporto è anch’essa significativa. Parlando del rapporto o meno tra questi due ambiti, in realtà, ci riferiamo alle relazioni tra l’individuo e la collettività di cui è parte, alla dipendenza o meno del singolo da questa collettività, alla convinzione o meno che esistano legami non solo convenzionali tra i membri di una collettività, di un popolo, ecc. Infatti, se riteniamo che ci sia una sostanziale continuità tra morale e diritto, per cui le leggi scritte esprimono valori comuni, allora ipotizziamo anche un’unione non solo convenzionale tra gli individui. In questa prospettiva, possiamo parlare di norme culturali, nel senso antropologico del termine, come insieme di regole che fanno parte di una tradizione, di una cultura, ed hanno la forza coercitiva delle norme giuridiche (nel senso che chi le viola viene punito dalla comunità, con vere e proprie pene o più spesso con l’emarginazione) ma al tempo stesso sono interiorizzate come quelle morali.

Morale e diritto sono dunque in qualche misura correlati, ma lo sono più o meno a secon-da della prospettiva filosofica da cui si muove, e con la prevalenza, nei diversi sistemi di pensiero, dell’uno o dell’altro aspetto.

1. La relatività del diritto e della moraleIn origine, nel mito e nelle prime filosofie, la legge, il nómos, coincide con la razionalità della natura e del tutto, con il lógos, la ragione. La legge di natura è insieme necessaria e giusta, il lógos garantisce, per Eraclito, l’equilibrio tra i contrari così come la legge garanti-sce l’equilibrio tra le classi in contrasto nella città.

La distinzione tra lógos e nómos, tra legge naturale e legge umana, ha inizio con la nasci-ta della democrazia, quando le leggi perdono la loro sacralità, vengono discusse e decise in assemblea, possono essere cambiate, sono diverse da città a città, ecc.

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I principali interpreti di questo nuovo atteggiamento sono i sofisti, insegnanti itineranti che si spostano di città in città e toccano con mano la diversità delle leggi. Con essi si afferma un atteggiamento relativistico sia in ambito morale che giuridico. «L’uomo è mi-sura di tutte le cose», afferma Protagora, quindi anche del bene e del male, del brutto e del bello, dei valori e dei giudizi morali.

Il relativismo sofistico non deve essere inteso nel senso banale che ogni individuo è giu-dice del bene e del male. Al contrario, i sofisti individuano aspetti importanti in rapporto alla morale e ai valori.

1. I valori sono relativi ai diversi popoli o alle diverse comunità. Se è vero che non esi-stono valori universali, non è però vero che ogni individuo sceglie i propri, ma ognuno considera validi quelli del proprio popolo, della propria comunità.

T1 Il relativismo etico dei sofistiUn duplice ordine di ragionamenti si fa in Grecia dai cultori di filosofia intorno al bene e al male. Gli uni sostengono che altro è il bene, altro il male; altri invece, che sono la stessa cosa; la quale, per alcuni sarebbe bene, per altri male; e per lo stesso individuo, sarebbe ora bene, ora male. Quanto a me, io mi metto dal punto di vista di questi ul-timi; e ne ricercherò le prove nella vita umana, le cui cure sono il mangiare, il bere e i piaceri sessuali; poiché questi soddisfacimenti per l’ammalato sono un male, ma per chi è sano e ne ha bisogno, un bene. Pertanto, l’abuso di essi è male per gli incontinen-ti, ma per chi li vende e ci guadagna, è un bene. E così la malattia per i malati è un male, ma per i medici un bene [...].

Si fa un duplice ordine di ragionamenti anche sul bello e sul brutto. Gli uni dicono che altro è il bello altro è il brutto, differenti, come di nome, così di fatto; altri invece che bello e brutto sono la stessa cosa. Ed io cercherò di spiegare questo secondo modo di vedere. Ad esempio per un giovinetto il concedersi a un amante è bello; ma ad uno che non sia suo amante è brutto. E per le donne, fare il bagno in casa è bello, ma nella palestra, è brutto (invece per gli uomini tanto nella palestra che nel ginnasio è bello). [...]. E così via per tutti gli altri casi. Passo ora a quelle cose che le città e i popoli ri-tengono brutte. Per esempio, per gli Spartani, che le fanciulle facciano la ginnastica e si esibiscano in pubblico sbracciate e senza tunica, è bello; per gli Ioni, brutto. E per quelli, è bello che i fanciulli non apprendano la musica e le lettere; per gli Ioni è brutto non saper tutte queste cose. Presso i Tessali è bello per una persona prendere i cavalli o i muli dall’armento e domarli, e prendere un bove e sgozzarlo, scuoiarlo, squartarlo; ma in Sicilia è brutto e opera di schiavi. Presso i Macedoni si ritien bello che le fanciulle prima di sposarsi amino e si congiungano con un uomo, e dopo le nozze brutto; presso i Greci, è brutta l’una e l’altra cosa. Presso i Traci, il tatuaggio per le fanciulle è un orna-mento; presso gli altri popoli invece, il tatuaggio è una pena che si impone ai colpevoli. Gli Sciti ritengono bello che uno, dopo aver ammazzato un uomo e averne scuoiata la testa, ne porti in giro la chioma posta dinanzi al cavallo, e dopo averne indorato e argentato il cranio, con esso beva e faccia libagioni agli dèi; invece, presso i greci, neppure si vorrebbe entrare nella casa di uno che avesse compiuto tali cose.[...]. E io credo che se si comandasse a tutti gli uomini di riunire in un fascio le cose che ciascun di essi reputa cattive, e poi dopo di togliere dal gruppo quelle che ciascun d’essi reputa

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belle, non ce ne rimarrebbe neppur una, ma tra tutti se le ripiglierebbero tutte. Poiché nessuno la pensa come un altro.

(Ragionamenti Duplici I, 1-3; II, 1-3. 8-13, 18 = DK 90, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di Diels-Kranz, ed. it. a cura di G. Giannantoni, Roma-Bari,Laterza, 1993,

2 voll., vol. II, pp. 1044, 1046-47)

2. Giudici dei valori e delle leggi devono essere tutti gli uomini. Nella polis del V sec. a.C. viene meno il principio di autorità che aveva caratterizzato la precedente società aristocratica. Le leggi perdono la loro sacralità, non sono più opera degli dèi o di un So-lone, ma del popolo, dei cittadini che partecipano all’assemblea e ai diversi momenti della vita della città. A tale proposito, Platone narra un mito significativo, attribuendo-lo a Protagora.

T2 Protagora: Il mito della politicaCome [...] l’uomo fu partecipe di sorte divina, innanzi tutto per la sua parentela con la divinità, unico tra gli esseri viventi, credette negli dèi, e si mise ad erigere altari e sacre statue; poi, usando l’arte, articolò ben presto la voce in parole e inventò case, vesti, calzari, giacigli e il nutrimento che ci dà la terra. Così provveduti, da principio gli uomini vivevano sparsi, ché non v’erano città. E perciò erano distrutti dalle fiere, perché in tutto e per tutto erano più deboli di quelle, e la loro perizia pratica, pur es-sendo di adeguato aiuto a procurare il nutrimento, era assolutamente insufficiente nella lotta contro le fiere: non possedevano ancora l’arte politica, di cui quella bellica è parte. Cercarono, dunque, di radunarsi e di salvarsi fondando città: ma ogni qual-volta si radunavano, si recavano offesa tra di loro, proprio perché mancanti dell’arte politica, onde nuovamente si disperdevano e morivano. Allora Zeus, temendo per la nostra specie, inviò Ermes perché portasse agli uomini il pudore e la giustizia affin-ché servissero da ordinamento della città e da vincoli costituenti unità di amicizia. Chiese Ermes a Zeus in qual modo debba dare agli uomini il pudore e la giustizia: “Debbo distribuire giustizia e pudore come sono state distribuite le arti? Le arti fu-rono distribuite così: uno solo che possegga l’arte medica basta per molti profani e lo stesso vale per altre professioni. Anche giustizia e pudore debbo istituirli negli uomini nel medesimo modo, o debbo distribuirli a tutti?”. “A tutti, rispose Zeus, e che tutti ne abbiano parte: le città non potrebbero esistere se solo pochi possedesse-ro pudore e giustizia, come avviene per le altre arti. Istituisci, dunque, a nome mio una legge per la quale sia messo a morte come peste della città chi non sappia avere in sé pudore e giustizia”. E così, [...] anche per questa ragione, gli Ateniesi e tutti gli altri, qualora si debba discutere della capacità architettonica o di qualche altra attività artigianale, ritengono che solo pochi abbiano il diritto di dare consigli, e se qualcuno che non appartenga a quei pochi pretenda di dare il proprio parere, non lo sopportano [...] e non a torto come dico io; qualora, invece, si accingano a deliberare su questioni relative alla capacità politica, che si impernia tutta sulla giustizia e sulla saggezza, è ragionevole che tutti vengano ammessi, poiché si ritiene necessario che ognuno sia partecipe di questa dote, o non esistano città.

(Platone, Protagora 322a-323a, in Opere Complete, a cura di F. Adorno, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 82-83)

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Oltre alla tesi principale, secondo la quale tutti gli uomini devono possedere l’arte poli-tica, è interessante notare come essa venga considerata il fondamento del pudore e della giustizia, che costituiscono la base non solo dell’ordinamento della città ma anche dei vincoli di amicizia tra i cittadini. Il diritto, la morale e la cultura sono percepiti come un tutto unitario.

3. I sofisti elaborano interpretazioni del diritto (come fanno anche relativamente alla religione e ad altri temi), cioè si chiedono quale ne sia l’origine e la funzione all’inter-no della società. Propongono in questo senso interpretazioni diverse, ma, al di là dei contenuti specifici, è importante sottolineare un’ottica quasi di tipo sociologico: non si prende semplicemente atto dell’esistenza del diritto, ma ci si chiedono le ragioni della sua nascita.

Le interpretazioni, come si diceva, sono di diverso segno: ne riportiamo due delle più significative.

T3 Trasimaco: Il giusto è l’utile del potere[...] ciascun governo legifera per il proprio utile, la democrazia con le leggi democrati-che, la tirannide con le leggi tiranniche, egli altri governi allo stesso modo. E una volta che hanno fatto le leggi, eccoli proclamare che il giusto per i sudditi si identifica con ciò che è invece il loro proprio utile; e chi se ne allontana, lo puniscono come trasgressore sia della legge che della giustizia. In ciò dunque [...] consiste quello che, identico in tut-ti quanti gli stati, definisco giusto: l’utile del potere costituito. Ma, se non erro, questo potere detiene la forza: così ne viene, per chi sappia bene ragionare, che in ogni caso il giusto è sempre l’identica cosa, l’utile del più forte.

(Platone, Repubblica I, 338e-339a, in Opere Complete, p. 43)

Nell’interpretazione di Crizia il rapporto tra diritto e morale è considerato come un mez-zo per controllare in modo più efficace gli uomini, mediante l’interiorizzazione della norma giuridica ottenuta con l’ausilio della religione.

T4 Crizia: Gli dèi e la leggeAnche Crizia, uno dei tiranni di Atene, sembra appartenere al gruppo degli atei, per aver detto che gli antichi legislatori finsero dio come una specie di ispettore delle azio-ni umane, sia buone che cattive, con lo scopo che nessuno recasse ingiuria e tradimen-to al suo prossimo per paura di un castigo degli dèi. Dice testualmente così:

Tempo ci fu quando disordinata era la vita degli uomini e ferina e strumento di violenza, quando premio alcuno non c’era pei buoni, né alcun castigo ai malvagi. In seguito parmi che gli uomini leggi punitive sancissero, sì che fosse Giustizia assoluta signora <egualmente di tutti> e avesse ad ancella la Forza; ed era punito chiunque peccasse. Ma poi, giacché le leggi distoglievan bensì gli uomini dal compiere opere vio-lente, ma di nascosto le compivano, allora, suppongo, <dapprima> un qualche uomo ingegnoso e saggio di mente inventò per gli uomini il timor <degli dèi>, sì che uno

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spauracchio ci fosse ai malvagi anche per ciò che di nascosto facessero, dicessero o pen-sassero. Laonde introdusse la divinità sotto forma di genio, fiorente di vita imperitura, che con la mente ode e vede, e con somma perspicacia sorveglia le azioni umane, mo-strando divina natura; il quale Genio udirà tutto quanto si dice tra gli uomini e potrà vedere tutto quanto da essi si compie. E se anche tu mediti qualche male in silenzio, ciò non sfuggirà agli dèi; ché troppa è la loro perspicacia. Facendo di questi discorsi, divulgava il più gradito degli insegnamenti, avvolgendo la verità di un finto racconto. E affermava gli dèi abitare colà, dove ponendoli, sapeva di colpire massimamente gli uomini, là donde sapeva che vengono gli spaventi ai mortali e le consolazioni alla lor misera vita: dalla sfera celeste, dove vedeva esserci lampi, e orrendi rombi di tuoni, e lo stellato corpo del cielo, opera miracolosamente varia del sapiente artefice, il Tempo; là donde s’avanza fulgida la massa rovente del sole, donde l’umida pioggia sovra la terra scende. Tali spaventi egli agitò dinanzi agli occhi degli uomini, e servendosi di essi, co-struì con la parola, da artista, la divinità, ponendola in un luogo a lei adatto; e spense così l’illegalità con le leggi.

E poco oltre aggiunge:Per tal via dunque io penso che in principio qualcuno inducesse i mortali a credere

che vi sia una stirpe di dèi.(Sesto Empirico, Contro i matematici, IX, 54 = DK 88 B 25, in I Presocratici, vol. II, pp. 1025-27)

2. Socrate: la morale della ragionePlatone ci consegna un ritratto molto chiaro del rapporto tra Socrate e le leggi, in partico-lare in due dialoghi: l’Apologia di Socrate e il Critone. Come è noto, Socrate venne accusato di empietà e di corruzione dei giovani, processato (l’Apologia narra appunto la sua difesa nel processo) e condannato a morte. I suoi discepoli organizzarono un piano di fuga, probabilmente non ostacolato neppure dalle autorità cittadine che avrebbero preferito sbarazzarsi di lui senza farne un martire. Nel Critone, Platone ci narra i tentativi di per-suadere Socrate ad accettare la fuga per sottrarsi alla condanna a morte. Socrate immagi-na allora un dialogo tra lui e le leggi della città.

T5 Socrate: Di fronte alle leggiSocr. «Osserva dunque, Socrate», continuerebbero forse le Leggi, «se affermiamo il vero dicendo che tu imprendi a fare cosa non giusta in ciò che ora imprendi. Giacché noi, quantunque t’avessimo generato, allevato, educato, messo a parte di tutto quello che si poteva di meglio, e te e tutti gli altri cittadini; nondimeno, col darne facoltà a chiunque tra gli Ateniesi lo voglia, noi proclamiamo che ognuno, dopo d’essere stato approvato cittadino e aver conosciuto le condizioni della città e noi, Leggi, quando non gli si vada a genio, sia libero di prendere tutti i suoi beni e andarsene dove gli fa comodo. E se non gli piacciamo o noi o la città, nessuna di noi Leggi gl’impedisce o gli vieta di trasferirsi in qualche colonia o recarsi a vivere in un paese straniero, dovunque preferisca, con tutte le proprie sostanze. Ma se uno di voi, pur vedendo come ammini-striamo la giustizia e come in generale governiamo lo Stato, rimane; affermiamo che questi col fatto ha assunto verso di noi l’obbligo di fare ciò che gli ordiniamo, e che

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colui il quale non obbedisca commette una triplice ingiustizia, perché non obbedisce a noi, che gli abbiamo dato la vita, perché non obbedisce a noi che l’abbiamo allevato, e perché, dopo d’avere assunto l’obbligo d’obbedire, non lo fa e non adopera le vie della persuasione, se in qualche cosa erriamo; e laddove noi gli proponiamo, non gl’impo-niamo aspramente i suoi doveri, ma gli lasciamo la scelta tra due vie: o persuaderci o obbedire; egli non fa né l’una cosa né l’altra».

(Critone, in Platone, Tutte le opere, 2 voll., a cura di G. Pugliese Carratelli, Sansoni, Firenze, 1989, vol. I, pp. 52-53)

Nel brano vengono messi in evidenza alcuni aspetti interessanti. Alle leggi viene attribui-ta la doppia funzione di garantire la giustizia nella città e quella di formare i cittadini (ti abbiamo “generato, allevato, educato”), quindi, potremmo dire, sia una funzione giuridica che morale. Inoltre, l’atteggiamento verso le leggi può essere di due tipi: o di obbedienza o di “persuasione”, consistente cioè nel modificare le leggi. Le leggi non sono eterne, pos-sono essere cambiate, ma devono essere rispettate finché sono in vigore.

Le leggi devono essere rispettate perché esprimono la volontà comune della città, ciò che è valido universalmente in contrapposizione agli interessi individuali. Esse rappresenta-no il logos comune, la razionalità collettiva.

Questa stessa chiave di lettura spiega la posizione di Socrate in ambito morale. I sofisti, affermando il relativismo, negavano l’esistenza di criteri comuni che potessero giustifi-care la validità delle leggi. Esse erano considerate come convenzioni, frutto di un accor-do sempre suscettibile di essere cambiato. Lo stesso avveniva per le norme morali e per la virtù. Anche in questo caso, in mancanza di criteri comuni, occorreva prendere come punto di riferimento le caratteristiche delle diverse poleis o le particolari condizioni delle persone. Questo atteggiamento è ben descritto in un altro dialogo di Platone, il Menone.

Menone è un allievo di Gorgia, uno dei sofisti più noti, e Socrate si confronta con lui sul tema della virtù, professando inizialmente la propria ignoranza in materia e chiedendo a Menone di darne una definizione.

T6 Platone: Che cos’è la virtù?Men. […] Ma è proprio vero, Socrate, che tu ignori in che consiste la virtù, e, di te, questo dovremo riferire al nostro paese? socr. Non solo, amico mio, ma, anche, che non mi sembra d’essermi incontrato mai in persona che lo sapesse! men. Ma come! non ti sei incontrato con Gorgia che era qui? socr. Sì. men. E ti è sembrato che non lo sapesse? socr. Non ho molta memoria, Menone, per cui non saprei dirti su due piedi che cosa me ne parve. Ma, forse, Gorgia lo sa e, forse, tu sai quello ch’egli diceva della virtù. Ricordami, dunque, le sue parole, o, se preferisci, di’ cosa ne pensi tu stesso, ché, senza dubbio, hai la stessa opinione di Gorgia. men. Sì. socr. Lasciamo, dunque, Gor-gia, dal momento che è assente; ma dì tu, in nome degli dèi, Menone, cosa sia virtù! Parla, non dirmi di no; sarò felice del mio errore, se mi dimostri che voi, tu e Gorgia, sapete in che consiste la virtù, a me, che pur sostenevo di non avere incontrato persona che lo sapesse.

III. Men. Non ci vuol niente, Socrate! Innanzi tutto se vuoi la virtù dell’uomo, è facile dire che questa è la virtù dell’uomo: essere capace di svolgere attività politica,

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e svolgendola fare il bene degli amici, danno ai nemici, stando attenti a non ricevere danno noi stessi. Se, invece, vuoi la virtù della donna, non è difficile dimostrare che il suo dovere consiste nell’amministrare bene la casa, conservandone i beni e restando fedele al marito. E così altra è la virtù del fanciullo, a seconda che sia femmina o ma-schio, altra quella di un vecchio, a seconda che sia libero o schiavo. E altre infinite virtù ci sono, onde non v’è imbarazzo a dire in che consista la virtù. Per ciascuna attività ed età e per ciascun atto vi è una propria virtù, sì come credo vi sia un vizio, Socrate.

Socr. Quale mai fortuna sembra mi sia toccata, Menone! Andavo cercando una sola virtù, ed ecco che grazie a te già ne trovo uno sciame.

(Menone, 70a-72a, in Opere complete, vol. V, pp. 263-65)

La strada per arrivare a una definizione comune della virtù è per Socrate quella del dia-logo. Nel confronto con l’altro, infatti, possiamo separare ciò che riguarda solo la nostra particolare condizione (l’opinione), che ovviamente non ritroviamo nell’altro, da ciò che è comune e su cui gli interlocutori devono convenire. Mentre ciò che è individuale poggia sulla sensibilità di ognuno, sulle passioni, sulle situazioni specifiche, ciò che è comune può essere giustificato razionalmente, mediante argomentazioni che prescindono da considerazioni individuali. La ragione rappresenta perciò ciò che unifica, ciò che consente di superare le particolarità individuali e il relativismo sofistico, fondando una morale co-mune a tutti gli uomini in quanto esseri razionali.

3. Platone: il bene assoluto e la virtù dello Stato

4.1 Lo Stato platonicoPlatone stabilisce una stretta correlazione tra politica e morale, tanto che pone come fine supremo dello Stato la realizzazione della virtù. Egli concepisce l’anima umana come tripartita, composta da un’anima razionale, dominata dal logos e orientata al bene, una concupiscibile, dominata dalle passioni e tesa al soddisfacimento dei piaceri dei sensi, una irascibile, dominata dalle passioni nobili, come l’ira, lo sdegno, ecc. I di-versi individui che compongono lo Stato sono dominati dall’una o dall’altra anima. In base a queste diverse nature, esistono tre tipi di uomini, che costituiscono tre distinte classi sociali: coloro nei quali prevale l’anima razionale sono i filosofi, e ad essi deve essere affidata la guida dello Stato; quelli che sono dominati dall’anima irascibile sono i guerrieri, il cui compito è la difesa della collettività; le persone in cui prevale l’anima concupiscibile formano la classe dei produttori, che devono provvedere, mediante il lavoro, al sostentamento di tutta la comunità. Ogni classe ha una propria virtù: nei filosofi si realizza la sapienza, nei guerrieri il coraggio, nei produttori deve affermarsi la temperanza per tenere a freno le passioni. Lo Stato in cui tra le diverse classi c’è ar-monia ed equilibrio realizza la giustizia. Uno Stato giusto forma cittadini virtuosi, che svolgono il compito per cui ciascuno è più adatto.

Spetta ai filosofi organizzare lo Stato in modo che predomini la giustizia e che tutti i cittadini siano virtuosi. Per raggiungere questa finalità, Platone assegna loro il compito di organizzare la struttura sociale, assegnando ogni individuo alla funzione che gli è propria in base alla sua natura, e di educare i cittadini delle due classi superiori in modo che sappiano svolgere con competenza, virtù e disinteresse il proprio ruolo.

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Lo Stato ha dunque una finalità etica, che raggiunge mediante un controllo razionale di tutti gli aspetti della vita dei cittadini, educandoli, formandoli e decidendone in un certo senso il destino, con l’assegnare loro determinate funzioni e una precisa collocazione sociale.

All’interno di questo quadro generale, Platone solleva alcuni problemi di un certo rilievo, e particolarmente due, sui quali ci soffermeremo: il rapporto tra le leggi e la moralità; il rapporto tra le leggi e la giustizia.

4.2. La moralità e le leggiNelle prime pagine della sua opera politica principale, la Repubblica, Platone fa porre a Glaucone il problema se il comportamento degli individui segua le norme morali sponta-neamente o per timore delle leggi o ancora del giudizio degli altri.

T7 Platone: L’anello di GigeIII. Che poi anche coloro che la osservano [la giustizia] lo facciano contro voglia, per-ché non hanno la possibilità di commettere sopraffazioni, tanto meglio lo capiremo facendo la seguente ipotesi: diamo all’uno e all’altro, all’uomo giusto e a quello ingiu-sto, il potere di fare quel che vogliono, e poi seguiamoli per vedere dove ciascuno d’essi sia attratto dalla propria inclinazione. Coglieremo in flagrante anche l’uomo giusto, che s’incammina per la stessa via su cui si è posto l’uomo ingiusto, attratto da quell’in-teresse egoistico che ognuno naturalmente persegue come bene, mentre, invece, per convenzione, facendo violenza alla natura, è indotto a rispettare l’uguaglianza. Ma la possibilità di cui parlo, poniamo sia che essi dispongano del potere che, come si narra, un tempo ebbe Gige l’antenato di Creso.

Narrano che Gige fosse un pastore che serviva a mercede quello che era allora il signore della Lidia e che, in conseguenza di un gran temporale e di un terremoto, si spaccasse il terreno, ed una voragine si aprisse vicino al luogo ove teneva al pascolo il gregge. Stupito a quella vista, discese nella voragine, e, fra le altre meraviglie che si rac-contano, vide anche un cavallo di bronzo, cavo, punteggiato di finestrelle, affacciando-si alle quali, dentro, scorse un cadavere la cui statura, così almeno gli parve, sorpassava la misura umana: nulla aveva indosso il morto se non alla mano un anello d’oro. Egli prese quell’anello e quindi uscì. Ora, come di solito ogni mese, i pastori s’erano riuniti per riferire al re intorno alle greggi, ed anche Gige, con l’anello, andò a quell’adunanza. Sedendo insieme agli altri pastori, gli venne fatto di girare il castone dell’anello, a sé, verso il dentro della mano e subito divenne invisibile a chi gli sedeva vicino, tanto che, con sua gran meraviglia, si parlò di lui come se fosse andato via. Maneggiò di nuovo l’anello e, voltone il castone dalla parte del dorso, subito ritornò visibile. Essendosi accorto di tali effetti volle far la prova se l’anello avesse davvero questa virtù: e sempre gli avveniva di diventare invisibile se voltava il castone all’interno, visibile se lo voltava invece verso l’esterno. Certo di questo, riuscì a farsi mettere nel numero di quei pastori che, come messi, venivano inviati al re: giunto gli sedusse la moglie e, da lei aiutato, lo uccise e s’impadronì dello Stato. Se ci fossero dunque due anelli del genere ed uno se lo infilasse al dito l’uomo giusto, l’altro l’ingiusto, nessuno, verosimilmente, sarebbe di carattere tanto adamantino da restare fedele alla giustizia e resistere alla tentazione di impadronirsi dell’altrui bene, quando impunemente potrebbe afferrare tutto quello che vuole dal mercato, entrare nelle case per accoppiarsi con chi più gli piace, uccidere

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alcuni, liberare altri dalla prigione, fare tutto, insomma, come se fosse un dio fra gli uomini. Non solo, ma agendo così non sarebbe per nulla diverso dall’uomo ingiusto, anzi tenderebbero ambedue verso lo stesso fine, e questa, manifestamente, sarebbe la migliore dimostrazione che nessuno è giusto volontariamente, ma perché vi è costret-to, pensando che la giustizia non è, da un punto di vista individuale, affatto vantag-giosa, tanto più che quando si ritenga di avere la possibilità di commettere ingiustizia, si commette. Tutti credono, infatti, che personalmente l’ingiustizia sia molto più utile della giustizia, e non hanno torto chi sostenesse ciò che ora espongo. Eh sì, perché se un uomo, cui fosse toccata una simile impunità, non volesse mai commettere sopraffa-zione alcuna, né allungar le mani sugli altrui beni, sarebbe ritenuto, da chi lo sapesse, come il più infelice ed il più stupido degli uomini; eppure, in pubblico lo loderebbero, l’uno in faccia dell’altro, cercando di ingannarsi reciprocamente nel timore di dover essi stessi patire una qualche ingiustizia. E così stan le cose su questo punto.

(Repubblica, in Tutte le opere, in Dialoghi politici e lettere di Platone, a cura di F. Adorno, Torino, Utet, 1970, 2 voll., vol. II, pp. 252-54)

Glaucone propone anche il caso di due individui, uno ingiusto, che fa in modo di apparire giusto agli occhi degli altri e commette ingiustizia di nascosto; l’altro sinceramente giu-sto, che proprio per questo non si preoccupa di apparire tale, anzi, per amore di giustizia a volte appare ingiusto e non si preoccupa di difendersi da accuse o calunnie in tal senso. Il primo, conclude Glaucone, vivrebbe felice, ammirato e stimato dai concittadini, il se-condo sarebbe disprezzato e forse anche perseguitato.

La risposta di Platone, come abbiamo visto sopra, è la costituzione di uno Stato giusto che formi in tal senso le coscienze dei cittadini, in modo che il dovere coincida con la volontà individuale.

4.3. La giustizia e le leggiIn via di principio, secondo Platone, le leggi non possono assicurare la giustizia, perché sono di necessità universali e non possono distinguere i singoli casi e le specifiche situa-zioni. Applicando una stessa legge a casi diversi, è facile commettere ingiustizia. Per que-sto, nella Repubblica, l’organizzazione dello Stato non è affidata alle leggi ma ai filosofi, che giudicano tenendo conto delle diverse realtà individuali.

Più tardi, nel cosiddetto periodo della “vecchiaia”, Platone rivede in profondità le proprie teo-rie, cercando di avvicinarle al mondo concreto. Questa complessa opera di revisione riguarda anche la politica e trova espressione in due dialoghi, il Politico e soprattutto le Leggi, l’ultima sua opera, rimasta incompiuta. In essa Platone riconferma la propria tesi di fondo: lo Stato migliore sarebbe quello amministrato da filosofi. Aggiunge però subito che i veri filosofi sono molto rari e che nella maggior parte dei casi i governanti cedono alla tentazione di usare il potere per i propri fini personali. Per questo, è preferibile che a comandare siano le leggi, che costituiscono una sorta di razionalità collettiva capace di imporsi sugli interessi privati.

T8 Platone: I filosofi e le leggi… è necessario per gli uomini avere le leggi e vivere secondo le leggi; altrimenti in nulla si distinguerebbero dalle bestie più feroci. E la ragione è che nessun uomo è per sua natura in grado d’intendere quel ch’è utile agli uomini rispetto alla convivenza

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civile, o di potere e di volere agire sempre nel modo migliore, quando l’abbia inteso. È difficile in primo luogo comprendere che la vera arte di governo deve necessaria-mente occuparsi non del privato, ma del comune interesse – giacché il comune inte-resse unisce e il privato disgrega gli stati, – e che ricavano vantaggio l’uno e l’altro, l’interesse comune e il privato, quando si sia ben provveduto all’interesse comune piuttosto che al privato. In secondo luogo, quand’anche uno abbia egregiamente ap-preso per via dell’arte che tale è la natura di queste cose, se dopo ciò si troverà a governare lo stato con pieni poteri, senza dover rendere conto ad alcuno, non potrà mai rimaner saldo in questo principio e passar tutta la vita attribuendo all’interesse pubblico il primo posto nello stato, e al privato il secondo, dopo il pubblico; ma la natura mortale lo spingerà sempre a cercare d’aver di più e a fare l’interesse proprio, come quella che rifugge istintivamente dal dolore e persegue il piacere; essa ante-porrà ambedue queste cose a ciò ch’è migliore e più giusto, e producendo il buio in se stessa, colmerà alla fine d’ogni male se stessa e tutto lo stato. Che se per divina sorte nascerà qualche volta un uomo capace per sua natura di soddisfare a queste condizioni, non avrà punto bisogno di leggi ch’esercitino l’imperio su di lui. Né la legge infatti, né alcun ordinamento vale più della scienza; né risponde all’ordine del-le cose che l’intelligenza sia schiava o soggetta ad alcuno, ma che comandi su tutto, posto che poggi sul vero e sia effettivamente libera, conformemente alla sua natura. Ma oggi tale in verità non è affatto, se non in ben piccola misura; epperò bisogna adottare il secondo partito, quello, cioè, di ricorrere all’ordine e alla legge, i quali vedono e contemplano ciò che per lo più suole avvenire, ma non possono vedere e contemplare tutto.

(Platone, Leggi, IX, 875, in Tutte le opere, a cura di Giovanni Pugliese Carratelli, Firenze, Sansoni, 1989, 2 voll., vol. II, pp. 1335-6)

4. Aristotele: l’analisi del diritto e la separazione dalla moraleCome in Platone, anche in Aristotele il rapporto tra politica e virtù è molto stretto. Cam-bia però la prospettiva di fondo, soprattutto relativamente a due aspetti:

1. Aristotele distingue tra scienze teoretiche e scienze pratiche e conseguentemente tra sapienza (la conoscenza del vero) e saggezza (la conoscenza del bene). In questo modo, separa la funzione del filosofo da quella del politico, assegnando al primo lo studio della realtà e, nel caso specifico, dei diversi sistemi politici, ma non l’azione diretta di governo.

2. La legge non è una necessità derivante dalla mancanza di veri filosofi in grado di gover-nare con giustizia, ma diviene il fondamento dello Stato stesso, ciò che lo caratterizza e ne garantisce la legittimità.

L’opera di Aristotele è volta allo studio delle costituzioni esistenti (ne esamina oltre 150) per ricavarne i principi comuni, ma anche per sottolinearne le specificità. Non esiste in-fatti uno Stato perfetto, ma quello più adatto alle caratteristiche di ogni specifico popolo.

Dalla sua analisi ricava una tipologia generale di forme statali, nell’ambito della quale vengono considerate positive quelle basate sulla legge, negative quelle basate sull’arbitrio dei governanti.

La sovranità della legge garantisce che il potere sia esercitato a vantaggio di tutti, mentre l’arbitrio lo subordina all’interesse particolare di alcuni.

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T9 Aristotele: Le forme della costituzione politicaFatte queste precisazioni, conviene studiare di seguito le forme di costituzione, quante sono di numero e quali, e dapprima quelle rette: definite queste, risulteran-no chiare anche le deviazioni. Poiché costituzione significa lo stesso che governo e il governo è l’autorità sovrana dello stato, è necessario che sovrano sia o uno solo o pochi o i molti. Quando l’uno o i pochi o i molti governano per il bene comune, que-ste costituzioni necessariamente sono rette, mentre quelle che badano all’interesse o di uno solo o dei pochi o della massa sono deviazioni: in realtà o non si devono chiamare cittadini quelli che <non> prendono parte al governo o devono partecipare dei vantaggi comuni. Delle forme monarchiche quella che tiene d’occhio l’interesse comune, siamo soliti chiamarla regno: il governo di pochi, e, comunque, di più d’uno, aristocrazia (o perché i migliori hanno il potere o perché persegue il meglio per lo stato e per i suoi membri); quando poi la massa regge lo stato badando all’interesse comune, tale forma di governo è detta col nome comune a tutte le forme di costitu-zione politia. (E questo riesce ragionevole: che uno o pochi si distinguano per virtù è ammissibile, ma è già difficile che molti siano dotati alla perfezione in ogni virtù, tutt’al più in quella militare, ché questa si trova veramente nella massa: di conse-guenza in questa costituzione sovrana assoluta è la classe militare e perciò ne fanno parte quanti possiedono le armi.) Deviazioni delle forme ricordate sono, la tiranni-de del regno, l’oligarchia dell’aristocrazia, la democrazia della politia. La tirannide è infatti una monarchia che persegue l’interesse del monarca, l’oligarchia quello dei ricchi, la democrazia poi l’interesse dei poveri: al vantaggio della comunità non bada nessuna di queste.

(Politica, I, 7, 1279 a-b, in Opere, tr. di R. Laurenti, Roma-Bari, Laterza, 1986, 11 voll., vol. IX, p. 84)

La legge ha dunque una duplice funzione: determina la forma di Stato e garantisce la giustizia contro la prevaricazione dei governanti.

Esiste una stretta relazione, secondo Aristotele, tra la virtù dei cittadini e quella dello Stato. In un processo circolare di influenza reciproca, i cittadini virtuosi fanno vir-tuoso lo Stato, e a sua volta lo Stato crea le abitudini di vita che formano la moralità dei cittadini.

T10 Aristotele: Lo Stato e la virtùÈ necessario, dunque, da quanto s’è detto, che alcuni beni ci siano, che altri li procuri il legislatore. Noi quindi ci auguriamo e facciamo voti che la compagine dello stato abbia quei beni di cui signora è la fortuna (che ne sia signora lo riconosciamo) ma quanto all’essere virtuoso uno stato, non è già opera della fortuna, bensì di scienza e di scelta deliberata. Ora uno stato è virtuoso in quanto sono virtuosi i cittadini che partecipano della costituzione, e i nostri cittadini partecipano tutti della costituzione. Bisogna per-tanto considerare in che modo un uomo diventa virtuoso. Infatti, se è possibile che i cittadini siano virtuosi collettivamente, senz’esserlo singolarmente, in questa maniera comunque sarebbe preferibile, perché alla virtù dei singoli tiene dietro quella di tutti.

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Ora gli uomini diventano buoni e virtuosi col concorso di tre fattori e questi tre fattori sono la natura, l’abitudine, la ragione. In primo luogo bisogna avere la natura qual è quella dell’uomo e non di uno degli altri animali: poi bisogna avere una certa qualità nel corpo e nell’anima. Ma con certe qualità non giova affatto nascerci, perché le abitu-dini le fanno mutare e in effetti talune qualità, che per natura tendono in entrambe le direzioni, sotto la spinta dell’abitudine vanno verso il peggio o verso il meglio. Ora gli altri animali vivono essenzialmente guidati da natura, taluni, ma entro limiti ristretti, anche dall’abitudine, e l’uomo pure dalla ragione perché egli solo possiede la ragione: di conseguenza in lui questi tre fattori devono consonare l’uno con l’altro. Spesso gli uomini agiscono contro le abitudini e la natura proprio in forza della ragione, se sono convinti che sia preferibile agire diversamente. Abbiamo precisato in precedenza quale dev’essere la natura di coloro che vogliono riuscire maneggevoli al legislatore: il resto è ormai opera d’educazione, e, in effetti, essi apprendono talune cose mediante l’abitu-dine, altre mediante precetti orali.

(Politica, VII, 13, 1332 a-b, pp. 248-49)

Lo Stato ha quindi per Aristotele una funzione educativa, alla cui descrizione è dedicato il Libro conclusivo della Politica.

Diritto pubblico e diritto privatoLa stretta relazione tra etica e politica è garantita anche dal fatto che l’organizzazione dello Stato deve tendere alla realizzazione della giustizia, che Aristotele analizza, in quanto virtù, nell’Etica nicomachea, dove pone l’importante distinzione tra giustizia distributiva e commutativa. La prima riguarda la distribuzione delle risorse della collettività da parte dello Stato, e preconizza il diritto pubblico. Essa deve essere pro-porzionata al contributo che ognuno dà al benessere comune. La seconda riguarda i contratti tra i cittadini, cioè quello che sarà più tardi detto “diritto privato”, e si basa sulla reciprocità.

T11 Aristotele: Giustizia distributiva e commutativaDella giustizia particolare invece e del giusto ad essa corrispondente, una specie è quella che consiste nella ripartizione degli onori, delle ricchezze e di tutte le altre cose divisibili per chi fa parte della cittadinanza (in esse infatti uno può avere ri-spetto a un altro un trattamento iniquo oppure equo), un’altra specie è quella che regola le relazioni sociali. Di quest’ultima vi sono due partì; infatti delle relazioni alcune sono volontarie, altre involontarie; volontarie sono quelle come la vendita, la compera, il prestito, la cauzione, la locazione, il deposito, il salario (esse sono dette volontarie, perché il principio di tali contratti è volontario); di quelle involontarie alcune sono clandestine, come il furto, l’adulterio, l’avvelenamento, il lenocinio, la corruzione di servi, l’assassinio doloso, la falsa testimonianza, altre sono atti di vio-lenza, come i maltrattamenti, l’imprigionamento, l’omicidio, la rapina, la mutilazio-ne, la diffamazione, l’oltraggio.

(Etica Nicomachea, libro V, 2, 1130b-1131a, in Opere, tr. di A. Plebe, Roma-Bari, Laterza, 1988, 11 voll., vol. VII, pp. 112-13)

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Analizzando la giustizia commutativa (i rapporti tra i cittadini) Aristotele individua alcuni importanti principi, in particolare l’uguaglianza di fronte alla legge.

T12 Aristotele: La giustizia commutativaDunque una specie di giusto è questa ora esaminata. Ve n’è poi un’altra ed è quella regolatrice, la quale si presenta nelle relazioni sociali, sia in quelle volontarie, sia in quelle involontarie. Questo giusto è d’una specie diversa dalla precedente. Infatti la giustizia distributiva si manifesta sempre in conformità alla proporzione suddetta delle cose comuni (e infatti quando v’è la ripartizione delle ricchezze comuni, essa avverrà secondo lo stesso rapporto che vi è reciprocamente tra i singoli contributi: e l’ingiustizia che si oppone a questo giusto consisterà nel non rispettare la proporzio-ne). Ciò che invece è giusto nelle relazioni sociali è una certa equità e l’ingiusto una iniquità, non però secondo quella proporzione geometrica bensì secondo quella arit-metica. Infatti non v’è alcuna differenza se un uomo per bene ha rubato a un uomo dappoco o un uomo dappoco a uno per bene: né se chi ha commesso adulterio fosse un uomo per bene o un uomo dappoco; bensì la legge bada soltanto alla differenza del danno (e tratta le persone come eguali), cioè se uno ha commesso ingiustizia e un altro l’ha subita, se uno ha recato danno e un altro l’ha ricevuto. Cosicché il giudice si sforza di correggere questa ingiustizia, in quanto iniqua; e quando l’uno abbia ricevuto percosse e l’altro le abbia inferte, oppure anche uno abbia ucciso e l’altro sia morto, il subire e l’agire sono stati in rapporti d’iniquità: allora si cerca di correggerli con una perdita sottraendo così da ciò che era in vantaggio. Si parla di vantaggio in tali cose solo in senso generale, anche se per taluni, come per chi ha percosso, la pa-rola “vantaggio” non sia propria e così la parola “perdita” per chi ha subìto. Ma quan-do si voglia misurare ciò che si subisce, allora sì può parlare di perdita e di vantaggio. Cosicché l’equo è il medio tra il più e il meno; il vantaggio e la perdita sono poi in sen-so opposto il più e il meno, il vantaggio è un più rispetto al bene e un meno rispetto al male, la perdita è il contrario: tra di essi l’equo è, come s’è detto, la via di mezzo ed è ciò che diciamo giusto: cosicché la giustizia correttiva sarebbe il medio tra il dan-no e il vantaggio. Per questo, quando si è in lite, si ricorre al giudice, e l’andare dal giudice è come andare dalla giustizia: il giudice infatti vuole essere come la giustizia incarnata: e si cerca un giudice imparziale, e alcuni chiamano i giudici mediatori, in quanto, se raggiungono il mezzo, ottengono il giusto. Quindi la giustizia, come pure il giudice, è qualcosa di medio. Il giudice poi eguaglia e, come se si trattasse di una linea tagliata in parti diseguali, toglie ciò per cui la parte maggiore supera la metà e l’aggiunge alla parte minore.

(Etica Nicomachea, libro V, 4, 1131b-1132a, pp. 115-16)

Proseguendo l’analisi della giustizia, Aristotele introduce un’altra distinzione importante, quella tra diritto naturale e diritto positivo. Il primo è legato alla natura umana, cioè alla ragione, ed è di conseguenza comune a tutti gli uomini; il secondo (le particolari legislazioni) dipende dalle condizioni specifiche delle diverse comunità e varia quindi nel tempo e nello spazio, fondandosi sulla convenzione e sull’utilità che non sono le stesse per i diversi popoli.

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T13 Aristotele: Diritto naturale e diritto positivoDel giusto civile una parte è di origine naturale, un’altra si fonda sulla legge. Naturale è quel giusto che mantiene ovunque lo stesso effetto e non dipende dal fatto che a uno sembra buono oppure no; fondato sulla legge e quello invece, di cui non importa nulla se le sue origini sian tali o talaltre, bensì importa com’esso sia, una volta che sia sancito: ad esempio che si debba pagare una mina per il riscatto, oppure sacrificare una capra e non due pecore; e così tutte le disposizioni che vengono emanate per i casi par-ticolari: ad esempio il sacrificare a Brasida1, e ciò che viene prescritto coi decreti. Alcuni pensano che poi tutte le disposizioni civili debbano esser così mutevoli, perché, men-tre ciò che è naturale è immutevole e mantiene ovunque lo stesso effetto (ad esempio il fuoco brucia egualmente presso di noi e presso i Persiani), vedono invece che il diritto è mutevole. La cosa non è proprio così, bensì lo è solo in parte: infatti, se pur forse per gli dèi le cose andranno altrimenti, presso di noi v’è pure un dominio della natura, il quale però sottostà al movimento; tuttavia alcune cose sono mutevoli per natura, altre non per natura. E per quanto entrambe siano mutevoli, è tuttavia facile distinguere quali delle cose suscettibili di mutarsi lo sono per natura, e quali invece non lo sono per natura, bensì per legge e convenzione. E anche agli altri casi s’adatterà la stessa distinzione. Ad esempio per natura la mano destra è migliore, benché sia possibile a tutti divenire ambidestri. Delle norme di giustizia, poi, quelle fondate sulla convenzio-ne e quelle fondate sull’utilità sono simili alle misure: infatti non in ogni luogo sono eguali le misure per il vino e per il grano, bensì dove si comprano sono maggiori, dove si vendono sono minori. Parimenti anche quelle norme di giustizia che non sono natu-rali, ma umane, non sono le stesse ovunque, perché neppure i governi sono gli stessi, benché uno solo sia ovunque il migliore per natura.

(Etica Nicomachea, libro V, 7, 1134b-1135a, pp. 125-26)

1. L’usanza di sacrificare a Brasida, generale spartano, è ricordata a proposito del comportamento degli abitanti di Anfipoli, in THUC. V 9. N. d. T.

5. Machiavelli: la laicizzazione della politica e del dirittoLa stretta relazione esistente tra morale e diritto, caratteristica comune di tutta la filoso-fia classica, viene riaffermata con forza dal cristianesimo e domina la filosofia medievale.

Nel Rinascimento si afferma invece, in particolare con Machiavelli, una netta separazio-ne tra i due ambiti.

T14 Machiavelli: Indipendenza della politica dalla moraleLasciando, adunque, indrieto le cose circa uno principe imaginate, e discorrendo quelle che sono vere, dico che tutti gli uomini, quando se ne parla, e massime e’ principi, per essere posti più alti, sono notati di alcune di queste qualità che arrecano loro o biasimo o laude. [...]

E io so che ciascuno confesserà che sarebbe laudabilissima cosa in uno principe tro-

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varsi, di tutte le soprascritte qualità, quelle che sono tenute buone; ma perché le non si possono avere né interamente osservare, per le condizioni umane che non lo con-sentono, gli è necessario essere tanto prudente che sappia fuggire l’infamia di quelli vizii che li torrebbano lo Stato, e da quelli che non gnene tolgano, guardarsi, se egli è possibile; ma, non possendo, vi si può con meno respetto lasciare andare. Et etiam non si curi di incorrere nella infamia di quelli vizii sanza quali e’ possa difficilmente salvare lo Stato; perché, se si considerrà bene tutto, si troverrà qualche cosa che parrà virtù, e, seguendola, sarebbe la ruina sua; e qualcuna altra che parrà vizio, e, seguendola, ne riesce la securtà e il bene essere suo.

(Il principe, xv, in Tutte le opere, a cura di A. Artelli, Firenze, Sansoni, 1971, p. 280)

Il Principe deve condurre la propria azione guardando solo alla finalità generale, la co-struzione di uno Stato solido che dia sicurezza e prosperità ai cittadini. Per conseguire tale scopo, può lecitamente mettere da parte ogni considerazione morale e preoccuparsi unicamente dell’efficacia delle proprie azioni.

Come modello di “virtù” politica. Machiavelli prende Cesare Borgia, il “Valentino” che nel giro di pochi anni, grazie anche all’appoggio del padre, il papa Alessandro VI, riesce a costruire un nuovo principato nell’Italia centrale.

I metodi usati dal Valentino sono decisamente “amorali”, cioè prescindono dalla morale, ma sono considerati positivamente da Machiavelli.

T15 Machiavelli: La «virtù» del ValentinoE perché questa parte è degna di notizia e da essere imitata da altri, non la voglio lasciare indrieto. Preso che ebbe il duca la Romagna, e trovandola suta comandata da signori impotenti, li quali più presto avevano spogliato e’ loro sudditi che corretti, e dato loro materia di disunione, non di unione, tanto che quella provincia era tutta piena di latrocinii, di brighe e di ogni altra ragione di insolenzia, iudicò fussi necessa-rio, a volerla ridurre pacifica e obediente al braccio regio, darli buon governo. Però vi prepose messer Remirro de Orco uomo crudele ed espedito, al quale dette pienissima potestà. Costui in poco tempo la ridusse pacifica e unita, con grandissima reputazione. Di poi iudicò el duca non essere necessario sì eccessiva autorità, perché dubitava non divenissi odiosa; e preposevi uno iudicio civile nel mezzo della provincia, con uno pre-sidente eccellentissimo, dove ogni città vi aveva lo avvocato suo. E perché conosceva le rigorosità passate averli generato qualche odio, per purgare gli animi di quelli populi e guadagnarseli in tutto, volle mostrare che, se crudeltà alcuna era seguita, non era nata da lui, ma dalla acerba natura del ministro. E presa sopr’a questo occasione, lo fece a Cesena, una mattina, mettere in dua pezzi in sulla piazza, con uno pezzo di legno e uno coltello sanguinoso a canto. La ferocità del quale spettaculo fece quelli populi in uno tempo rimanere satisfatti e stupidi.

(Il principe, vii, in Tutte le opere, a cura di A. Artelli, p. 267)

Dopo essersi servito di Remirro per condurre una feroce repressione, il Valentino lo fa uccidere barbaramente per ingraziarsi i favori della popolazione. Il giudizio di Machiavelli è positivo perché dettato unicamente da considerazioni politiche e non morali.

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Affrancatasi dalla morale, la politica trova il proprio fondamento su princìpi propri, in-dividuati da Machiavelli nella realtà effettuale (la situazione concretamente esistente) e nella conoscenza della natura umana: in una parola, si tratta di conoscere razionalmente la realtà in cui si opera, per adeguare ad essa la propria azione e condurla al successo.

In questo modo è possibile dominare le circostanze e realizzare i propri progetti, perché l’uomo è, almeno per metà, artefice del proprio destino. Per esprimere il rapporto tra la virtù (l’azione razionale basata sulla verità effettuale) e la fortuna (gli eventi impreve-dibili), Machiavelli propone una celebre metafora: la fortuna è come un fiume, soggetto a piene improvvise che possono provocare disastri. Ma se nei periodi di secca abbiamo provveduto a costruire argini robusti (la virtù), le piene impreviste (la fortuna) possono essere contenute.

Al di là dei vari aspetti della teoria politica di Machiavelli, che non è qui opportuno ana-lizzare in modo completo, l’importante è che grazie alla sua opera la politica incomincia ad affermarsi come disciplina autonoma, basata su principi propri, indipendenti dalla morale e dalla religione.

6. Morale e diritto nelle teorie dello Stato modernoTra il Cinquecento e il Seicento vengono poste le basi del diritto e della moderna concezio-ne dello Stato, attraverso la definizione di alcune importanti coordinate:

1. Il contrattualismo: in contrapposizione alla teoria medievale dell’origine divina del po-tere, afferma che la legittimazione dello Stato deriva da un contratto sottoscritto dai cittadini. A partire da questo denominatore comune, si avrà una divaricazione tra l’as-solutismo di Hobbes, secondo il quale il sovrano non è coinvolto nel patto originario e dunque è al di sopra di ogni legge, e il liberalismo, che considera il sovrano come una delle parti in causa e soggetto anch’egli alla legge istitutiva dello Stato (costituzione).

2. Il giusnaturalismo: afferma l’esistenza di diritti naturali, fondati sulla ragione e per questo universali e inalienabili. Nessuna legge positiva (emanata dall’autorità) può revocare tali diritti che devono costituire il fondamento dello Stato. Su questo punto le posizioni dell’assolutismo e del liberalismo risulteranno molto distanti, perché il primo sosterrà la revoca dei diritti naturali in seguito alla formazione dello Stato.

3. Il principio di sovranità: lo Stato è la massima autorità sul proprio territorio; si affer-ma in questo modo la laicità dello Stato, la sua indipendenza dal potere religioso e da ogni potere sovranazionale (impero).

6.1. I “diritti naturali” come sintesi di morale e dirittoIl giusnaturalismo rappresenta il punto focale della nuova concezione della politica e dei suoi rapporti con la morale.

La formulazione del giusnaturalismo moderno è attribuita tradizionalmente a Ugo Gro-zio (anche se non mancano importanti anticipazioni in S. Tommaso e, ancor prima, nella filosofia greca, in particolare negli stoici).

Nella sua opera principale, De iure belli ac pacis, Grozio sottolinea come lo stato di guerra determini la sospensione di ogni accordo e di ogni legge positiva, ma anche in tali circo-stanze rimangono valide alcune norme che non dipendono dagli accordi tra gli individui, essendo invece fondate sulla ragione, comune a tutti gli uomini.

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T16 Grozio: Il diritto naturaleIl diritto naturale è una norma della retta ragione, la quale ci fa conoscere che una de-terminata azione, secondo che sia o no conforme alla natura razionale, è moralmente necessaria oppure immorale, e che per conseguenza tale azione è da Dio, autore della natura, prescritta oppure vietata.

Le azioni a cui tale norma si riferisce sono obbligatorie od illecite per se stesse, e perciò s’intendono necessariamente prescritte o vietate da Dio: e per questa caratte-ristica il diritto naturale si differenzia non solo dal diritto umano, ma anche da quello divino volontario, il quale non prescrive o vieta le azioni che sono per se stesse obbli-gatorie od illecite, ma le rende illecite col vietarle ed obbligatorie col prescriverle.

(Il diritto della guerra e della pace, libro I, cap. i, par. x, tr. di F. Arici, F. Todescan, Milano, CEDAM, 2010, p. 52)

Dall’esistenza di un diritto naturale, Grozio trae due importanti conseguenze: la laicità e l’universalità del diritto.

Essendo dettato dalla ragione, il diritto naturale è in un certo senso indipendente dal co-mando divino, o meglio, Dio lo vuole perché è giusto e non potrebbe non volerlo.

Similmente, in quanto la ragione da cui deriva è comune a tutti gli uomini, il diritto na-turale è universale e deve quindi costituire il fondamento di tutti i sistemi legislativi.

T17 Grozio: Il diritto naturale confuta il relativismoMa poiché sarebbe inutile intraprendere una discussione sul diritto se proprio il diritto non esistesse, affinché la nostra opera venga meglio accolta, e per prevenire critiche, occorrerà ora confutare brevemente questo gravissimo errore: e, per non aver a che fare con una moltitudine di avversari, facciamola rappresentare da uno solo di essi. E chi più adatto a ciò di Carneade, il quale era arrivato al punto – che per la sua Accade-mia era il massimo a cui si potesse giungere – di saper rivolgere il potere della propria eloquenza a servizio del falso non meno bene che a servizio del vero? Costui dunque, essendosi prefisso di combattere la giustizia, e in particolare quell’aspetto di essa di cui stiamo trattando ora, non trovò alcun argomento più efficace di questo: che gli uomini si sono decretati per motivi di utilità leggi diverse secondo i costumi, e varianti anche nel tempo presso uno stesso popolo; diritto naturale poi non esiste, tanto è vero che tutti gli uomini e gli altri animali sono spinti, guidati dalla natura, a ricercare il pro-prio utile: e che perciò, o la giustizia non c’è, o, se ve n’è alcuna, essa è la peggiore delle stoltezze, in quanto chi ha riguardo agli interessi altrui danneggia gli interessi propri.

Ma quanto dice questo filosofo, e con lui quel poeta1 il quale afferma che la natu-ra non può discernere l’ingiusto dal giusto, non è assolutamente ammissibile: perché l’uomo è sì un animale, ma un animale di eccezione, che si distacca da tutti gli altri mol-to più di quanto le altre specie differiscano fra loro: come provano molte attività che sono peculiari al genere umano. E fra queste caratteristiche specifiche dell’uomo vi è la

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1. Orazio, Satire, I, 3, 113.

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ricerca della vita sociale, ossia di una vita in comune – ma non qualsiasi, bensì pacifica e ordinata secondo la norma della propria ragione – con gli esseri della sua specie: che è ciò che gli Stoici chiamavano oikeiosis2. L’affermazione comune secondo cui qualunque animale persegue per natura soltanto il proprio utile non deve perciò essere ammessa come verità universale.

(Prolegomeni al diritto della guerra e della pace, a cura di G. Fassò, Bologna, Zanichelli, 1961, pp. 25-27)

2. etteralmente «domesticità», e, in senso lato, «socievolezza, tendenza verso la vita sociale».

Per la stessa ragione, il diritto naturale è anche immutabile, tanto che neppure Dio po-trebbe cambiarlo.

T18 Grozio: Il diritto naturale è immutabileIl diritto naturale è immutabile, al punto che non può essere modificato neppure da Dio. Per quanto infatti immensa sia la potenza di Dio, si possono tuttavia enunciare proposizioni alle quali essa non si estende: perché tali proposizioni hanno una realtà puramente verbale, e non possiedono alcun significato che esprima realtà effettiva, bensì sono in se stesse contraddittorie. Come dunque neppure Dio può far sì che due per due non faccia quattro, così non può nemmeno far sì che ciò che per intrinseca essenza è male non sia male.

(Il diritto della guerra e della pace , libro I, cap. i, par. x, p. 53)

Le norme dettate dalla ragione non sono solo giuridiche, ma anche morali, poiché la mo-rale stessa ha il proprio fondamento sulla natura umana. Quindi il diritto naturale coin-cide con la morale, che ha anch’essa, relativamente ad alcuni principi fondamentali, le caratteristiche dell’universalità e dell’immutabilità.

T19 Grozio: La morale naturaleDa questa nozione del diritto ne è discesa un’altra più ampia: poiché infatti l’uomo possie-de, al di sopra degli altri animali, non soltanto l’impulso all’associazione di cui si è detto, ma anche il criterio per valutare le cose – future oltre che presenti – piacevoli o nocive, e quelle che possono produrre l’uno e l’altro effetto, appare evidente essere conforme all’umana natura il seguire anche in ciò un giudizio rettamente conformato secondo la norma della ragione umana, senza farsi traviare dal timore, o dalla lusinga di un piacere attuale, e senza farsi trascinare da impulsi inconsiderati; ed è chiaro che ciò che palesemente contraddice a un tale giudizio è contrario al diritto di natura: della natura, s’intende, umana.

(Prolegomeni al diritto della guerra e della pace, par. IX, p. 29)

Dal diritto naturale deriva quello positivo, che deve rispettarlo, ma per altri aspetti si differenzia da popolo a popolo e da epoca a epoca. Parallelamente, anche la morale ha principi universali e norme relative invece ai costumi e alle tradizioni dei diversi popoli.

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6.2. Morale e diritto nella tradizione liberaleLe posizioni di Grozio preludono al liberalismo, che trova una definizione organica negli scritti politici di Locke. Il giusnaturalismo sostiene l’esistenza di principi derivati dalla ragione umana che sono al tempo stesso norma morale e giuridica. Ogni individuo ha dunque in sé, indipendentemente dalla società in cui vive, principi morali che ne guida-no l’azione verso il bene e la giustizia.

Ogni individuo è dunque in grado di agire moralmente indipendentemente dalle leg-gi statali e lo era anche prima che si costituisse un potere civile. I filosofi dell’età mo-derna basano in genere la loro argomentazione sull’esistenza di uno stato di natura, privo di organizzazione politica, analizzando quindi il passaggio da questo allo Stato politicamente organizzato. In questo modo intendono rintracciare le caratteristiche e i limiti del potere politico. Per Locke la condizione naturale dell’uomo è pacifica e permette rapporti di collaborazione, proprio in quanto gli individui sono guidati da princìpi naturali.

T20 Locke: La legge di ragioneMa sebbene questo [di natura] sia uno stato di libertà, tuttavia non è uno stato di li-cenza: sebbene in questo stato si abbia la libertà incontrollabile di disporre della pro-pria persona e dei propri averi, tuttavia non si ha la libertà di distruggere né se stessi né qualsiasi creatura in proprio possesso, se non quando lo richieda un qualche uso più nobile, che quello della sua pura e semplice conservazione. Lo stato di natura è governato dalla legge di natura, che obbliga tutti: e la ragione, ch’è questa legge, insegna a tutti gli uomini, purché vogliano consultarla, che, essendo tutti eguali e indipendenti, nessuno deve recar danno ad altri nella vita, nella salute, nella libertà o nei possessi, perché tutti gli uomini, essendo fattura di un solo creatore onnipo-tente e infinitamente saggio, tutti servitori di un unico padrone sovrano, inviati nel mondo per suo ordine e per i suoi intenti, sono proprietà di colui di cui sono fattura, creati per durare fin tanto che piaccia a lui, e non ad altri; e, poiché siamo forniti delle stesse facoltà e partecipiamo tutti d’una sola comune natura, non è possibile supporre fra di noi una subordinazione tale che ci possa autorizzare a distruggerci a vicenda, quasi fossimo tutti gli uni per uso degli altri, come gli ordini inferiori delle creature sono fatti per noi. Come ciascuno è tenuto a conservare se stesso e non ab-bandonare volontariamente il suo posto, così, per la medesima ragione, quando non sia in gioco la sua stessa conservazione, deve, per quanto può, conservare gli altri, e non può, se non nel caso di far giustizia d’un offensore, sopprimere o menomare a un altro la vita o quanto contribuisce alla conservazione della vita, come la libertà, la salute, le membra del corpo o i beni.

(Due trattati sul governo, II, par. 6, in Due trattati sul governo e altri scritti politici, a cura di L. Pareyson, Torino, Utet, 1982, pp. 231-32)

L’uomo, guidato dal diritto naturale, è in grado di stabilire rapporti di collaborazione con i propri simili indipendentemente dall’esistenza di un’autorità politica. La società civile, cioè l’organizzazione spontanea tra gli individui, precede lo Stato.

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T21 Locke: Origine e caratteristiche della società civileDio, avendo dell’uomo fatto tal creatura, per la quale, nel suo giudizio, non era bene esser sola, lo sottopose a potenti obbligazioni di bisogno, comodità e tendenza a en-trare in società, e parimenti lo adattò, con l’intelligenza e il linguaggio, a continuarla e a goderne. La prima società fu quella fra marito e moglie, che diede origine a quella fra genitori e figli, alla quale venne ad aggiungersi, col tempo, quella fra padrone e servo, e, sebbene queste tre potessero trovarsi, e generalmente si trovassero insieme, e non costituissero che una sola famiglia, in cui il padrone o la padrona avevano una forma di governo proprio della famiglia, ciascuna di esse o tutte insieme non giungevano a co-stituire la società politica, come vedremo dopo aver esaminato i diversi scopi, obblighi e limiti di ciascuna di esse.

La società coniugale è costituita da un contratto volontario fra uomo e donna, e sebbene essa consista principalmente in quella comunione e in quel diritto dell’uno sul corpo dell’altro, che è necessario al suo fine precipuo, ch’è la procreazione, tuttavia essa porta con sé mutuo aiuto e assistenza, e anche una comunione di interessi, qual è necessaria non soltanto onde riunire la loro cura e affezione, ma anche alla loro co-mune prole, che ha diritto ad esser nutrita e mantenuta da loro, sino a che non diventi capace di provvedere per sé.

(Due trattati sul governo, II, parr. 77-78, p. 282)

Lo Stato diviene necessario solo per garantire il rispetto dei diritti naturali contro eventuali sopraffazioni, o quando le dimensioni della società diventano troppo ampie per organizzarsi sulla base del solo diritto naturale. Sono allora necessarie leggi positive, obbligatorie per tutti, e un potere che possa intervenire per farle rispettare e punire chi le violi.

T22 Locke: Il potere legislativoPoiché il fine principale dell’entrata degli uomini in società è il godimento del-le loro proprietà in pace e tranquillità, e i principali strumenti e mezzi diretti a questo fine sono le leggi stabilite in quella società, la prima e fondamentale legge positiva di tutte le società politiche consiste nello stabilire il potere legislativo, in quanto la prima e fondamentale legge naturale, che deve governare lo stesso legislativo, consiste nella conservazione della società, e, per quanto si concilia col pubblico bene, di ogni persona che vi si trova. Questo legislativo non soltanto è il potere supremo della società politica, ma rimane sacro e immutabile nelle mani in cui la comunità l’ha collocato, e l’editto di un altro, in qualunque forma sia conce-pito, o da qualunque potere sia appoggiato, non può avere il valore e l’obbligazione di una legge, se non ha la sua sanzione da quel legislativo che il pubblico ha eletto e designato; perché senza di questa la legge non avrebbe ciò ch’è assolutamente necessario ed essenziale alla legge e cioè a dire il consenso della società, alla quale nessuno può avere il potere di dar leggi se non per consenso di lei e per autorità da essa ricevuta.

(Due trattati sul governo, II, par. 134, pp. 326-27)

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La concezione politica di Locke, e del liberalismo in generale, è quindi caratterizzata da due tesi principali che definiscono il rapporto tra la morale e il diritto e tra il cittadino e lo Stato.

1. Ogni individuo è autosufficiente dal punto di vista morale, avendo in sé i princìpi det-tati dalla ragione. Su questa base può nascere una struttura sociale precedentemente a un’organizzazione politica. La morale è una questione privata e lo Stato non può in alcun caso imporre principi morali, ma solo leggi che devono essere rispettate senza che venga coinvolta la sfera morale dei cittadini. Lo Stato può chiedere il rispetto delle leggi, non l’adesione morale ad esse.

2. La società civile precede lo Stato, che si pone come sua continuazione. Il potere poli-tico ha come proprio compito, e anche come limite, quello di assicurare il rispetto dei diritti naturali che non può in alcun caso revocare o violare. L’individuo, all’interno dello Stato, conserva una propria autonomia e uno spazio di libertà personale che il potere politico non può invadere. Il principio generale è che ognuno è libero nella sfera privata purché rispetti la libertà altrui.

6.3. Morale e diritto nella teoria politica di HobbesLa posizione di Hobbes è profondamente diversa da quella di Locke per quanto riguarda il rapporto tra il diritto e la morale.

Secondo la sua analisi, lo stato di natura è caratterizzato dal diritto di ognuno su ogni cosa e, conseguentemente, da una forte conflittualità.

T23 Hobbes: Lo stato di natura è guerra di ognuno contro tuttiCosicché nella natura umana troviamo tre cause principali di contesa: in primo luogo, la competizione, in secondo luogo, la diffidenza, in terzo luogo la gloria.

La prima fa sì che gli uomini si aggrediscano per guadagno, la seconda per sicurez-za, e la terza per reputazione. Nel primo caso gli uomini usano violenza per rendersi padroni delle persone di altri uomini, delle loro donne, dei loro figli, del loro bestiame; nel secondo caso per difenderli; nel terzo caso per delle inezie, come una parola, un sorriso, un’opinione differente, e qualunque altro segno di scarsa valutazione, o diret-tamente nei riguardi delle loro persone, o di riflesso nei riguardi della loro parentela, dei loro amici, della loro nazione, della loro professione o del loro nome.

Da ciò è manifesto che durante il tempo in cui gli uomini vivono senza un pote-re comune che li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione che è chiamata guerra e tale guerra è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo. La guerra, infatti, non consiste solo nella battaglia o nell’atto del combattere, ma in un tratto di tempo, in cui è sufficientemente conosciuta la volontà di contendere in battaglia; perciò la nozione del tempo va considerata nella natura della guerra, come lo è nella natura delle condizioni atmosferiche. Infatti, come la natura delle condizioni del tempo cattive non sta soltanto in un rovescio o due di pioggia, ma in una inclinazione a ciò di parecchi giorni insieme, così la natura della guerra non va considerata nel combattimento effettivo, ma nella disposizione verso di esso che sia conosciuta e in cui, durante tutto il tempo, non si dia assicurazione del contrario. Ogni altro tempo è pace.

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Perciò tutto ciò che è conseguente al tempo di guerra in cui ogni uomo è nemico ad ogni uomo, è anche conseguente al tempo in cui gli uomini vivono senz’altra sicurezza di quella che la propria forza e la propria inventiva potrà fornire loro. In tale condizio-ne non c’è posto per l’industria, perché il frutto di essa è incerto, e per conseguenza non v’è cultura della terra, né navigazione, né uso dei prodotti che si possono impor-tare per mare, né comodi edifici, né macchine per muovere e trasportare cose che ri-chiedono molta forza, né conoscenza della faccia della terra, né calcolo del tempo, né arti, né lettere, né società, e, quel che è peggio di tutto, v’è continuo timore e pericolo di morte violenta, e la vita dell’uomo è solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve.

(Leviatano, I, xiii , a cura di G. Micheli, Firenze, La Nuova Italia, 1976, pp. 119-20)

Questo stato di guerra permanente mette però in pericolo la sopravvivenza stessa di ognuno, andando contro il principio di conservazione del proprio essere che è quello fon-damentale della natura umana. La ragione suggerisce allora agli uomini di rinunciare al proprio potere su tutto, di spogliarsi di ogni diritto e di conferire tutto il potere a un’au-torità super partes. Nasce in questo modo lo Stato, che rappresenta una frattura netta rispetto alla condizione di natura.

I singoli individui rinunciano ad ogni diritto ma anche ad ogni pretesa di giudicare del bene e del male, che riporterebbe a una situazione di anarchia e di guerra.

Secondo Hobbes la morale deriva dal diritto e nasce in seguito all’interiorizzazione del-le leggi positive, emanate dal sovrano. Gli individui devono, in altri termini, conformare la propria coscienza alla legge.

T24 Hobbes: Le catene artificialiMa come gli uomini, per conseguire la pace e per conservare con essa se stessi, hanno fatto un uomo artificiale, che chiamiamo Stato, così hanno fatto anche delle catene artificiali, chiamate leggi civili, che essi, con mutui patti, hanno attaccato per una estre-mità alle labbra di quell’uomo o assemblea di uomini cui hanno dato il potere sovrano e per l’altra estremità alle proprie orecchie. Questi vincoli, deboli per loro natura, pos-sono nondimeno essere resi saldi non dalla difficoltà, ma dal pericolo di infrangerli.

È solo in relazione a questi vincoli che parlerò ora della libertà dei sudditi. Infatti, dato che non c’è al mondo uno stato in cui siano stabilite regole sufficienti per regolare tutte le azioni e tutte le parole degli uomini (cosa che è impossibile) segue necessaria-mente che in tutti i generi di azioni non menzionate dalle leggi, gli uomini hanno la libertà di fare ciò che la ragione suggerirà loro come più giovevole a loro. [...]

La libertà dei sudditi si trova perciò solo in quelle cose che il sovrano, nel regolare le loro azioni, non ha menzionato, quali la libertà di comprare, di vendere e di fare altri qualunque contratti l’uno con l’altro, di scegliere la propria dimora, il proprio cibo, il proprio modo di vita, di istruire i figli nel modo che pensano sia idoneo e di fare altre cose simili.

(Leviatano, II, xxi, p. 207)

La prospettiva di Locke risulta rovesciata: l’ambito privato, della coscienza, è strettamen-te subordinato a quello politico, è formato da questo.

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Non esistono dunque, nello Stato, diritti naturali né libertà inalienabili. L’unica libertà possibile riguarda l’ambito non regolato dalle leggi, fintanto che il legislatore non decida di intervenire.

La teoria di Hobbes ha una conseguenza molto importante: dato che la coscienza dei sin-goli si modella sulle leggi dello Stato, si stabilisce una sintonia morale di fondo, una co-munanza di valori, tra tutti i sudditi, che costituiscono una realtà unitaria. La copertina del Leviathan, l’opera politica più nota di Hobbes, riporta significativamente l’immagine del sovrano composta da una moltitudine di uomini, che in lui trovano un’unità non solo politica ma anche morale.

T25 Hobbes: La moltitudine e lo StatoSi intende che moltitudine, in quanto termine collettivo, significa molte cose, per cui una moltitudine di uomini è lo stesso che molti uomini. Ma lo stesso termine, essendo di numero singolare, significa una cosa sola, cioè una sola moltitudine. Ma in nessuno dei due modi si intende che la moltitudine abbia una volontà unica data dalla natura, bensì ciascuno ha la sua. Dunque non deve esserle attribuita un’azio-ne unica, qualunque essa sia. Così una moltitudine non può promettere, fare patti, acquistare e trasferire diritti, fare, avere, possedere, e simili, se non singolarmente e individualmente, in modo che vi siano tante promesse, patti, diritti, azioni, quan-ti sono gli uomini. Per questo la moltitudine non è persona naturale. Ma la stessa moltitudine diviene persona unica, se i suoi componenti concludono uno per uno il patto di tenere per volontà di tutti la volontà di un uomo, o le volontà concordi della maggior parte di loro. Infatti così viene dotata di volontà, quindi può compiere azio-ni volontarie, come comandare, dettare leggi, acquistare e trasferire diritti ecc.; e allora viene chiamata piuttosto popolo che moltitudine. Si deve dunque distinguere così: per popolo o moltitudine, quando diciamo che vogliono, comandano o fanno qualcosa, si intende lo Stato che comanda, vuole e agisce mediante la volontà di un solo uomo, o le volontà concordi di più uomini (ciò che può avere luogo solo se costi-tuiscono un’assemblea).

(De cive, Potere, vi, par. 1, a cura di T. Magri, Roma, Editori Riuniti, 1979, pp. 130-31)

6.4. La “volontà generale” di Rousseau come unione politica e moraleRousseau è il teorico della democrazia. La sua concezione politica è dunque, da questo punto di vista, antitetica rispetto all’assolutismo di Hobbes. Per Rousseau l’uomo nasce libero e nessuno Stato può legittimamente revocare tale libertà, che è un diritto naturale inalienabile, come per Locke.

T26 Rousseau: La libertà è inalienabileQuesta libertà comune è una conseguenza della natura dell’uomo. La sua prima legge è di vegliare alla propria conservazione, le sue prime cure sono quelle che deve a se stesso; e, appena raggiunta l’età della ragione, essendo lui solo giudice dei mezzi adatti alla sua conservazione, diviene perciò il padrone di se stesso.

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La famiglia è dunque, se si vuole, il primo modello delle società politiche; il capo è l’immagine del padre, il popolo è l’immagine dei figli, e tutti, essendo nati uguali e liberi, non rinunciano alla libertà che per loro utilità. Tutta la differenza sta in ciò, che nella famiglia l’amore del padre per i suoi figliuoli lo ripaga dalle cure che egli prodiga loro; mentre, nello Stato, il piacere di comandare supplisce a quest’amore che il capo non ha per i suoi popoli.

Grozio nega che qualsiasi potere umano sia stabilito in favore di quelli che son go-vernati; egli cita ad esempio la schiavitù. Il suo modo più costante di ragionare consiste nello stabilire sempre il diritto per via del fatto: si potrebbe forse seguire un metodo più conseguente, ma non uno più favorevole ai tiranni.

È dunque dubbio, secondo Grozio, se il genere umano appartenga a un centinaio d’uomini, o se questo centinaio d’uomini appartenga al genere umano; e, in tutto il suo libro, egli sembra propendere verso la prima opinione; questo è anche il sentimento di Hobbes. Ecco così tutta la specie umana divisa in greggi di bestiame, ciascuno dei quali ha il suo capo, che lo sorveglia per divorarlo.

Come un pastore è d’una natura superiore a quella del suo gregge, così anche i pa-stori d’uomini, che sono i loro capi, sono d’una natura superiore a quella dei loro po-poli. Così ragionava, stando a Filone, l’imperatore Caligola; concludendo abbastanza bene, da questa analogia, che i re erano dèi e i popoli bestie.

Il ragionamento di Caligola è simile a quello di Hobbes e di Grozio. Anche Aristotele, prima di tutti loro aveva detto che gli uomini non sono naturalmente uguali; ma che gli uni nascono per la schiavitù, gli altri per la dominazione. Aristotele aveva ragione, ma egli prendeva l’effetto per la causa. Ogni uomo, nato nella schiavitù, nasce per la schiavitù; niente di più certo. Gli schiavi perdon tutto nelle loro catene, perfino il desiderio di liberar-sene; essi amano la loro schiavitù, come i compagni di Ulisse amavano il loro abbrutimento.

[...]Dire che un uomo si dà gratuitamente, è dire cosa assurda e inconcepibile; un tal

atto è illegittimo e nullo, per il solo fatto che chi lo compie non è in possesso del buon senso. Dire la stessa cosa di un intero popolo, significa supporre un popolo di pazzi; e la pazzia non crea diritto.

Quand’anche ciascuno potesse alienare se stesso, non può alienare i suoi figliuo-li; essi nascono uomini e liberi, la loro libertà appartiene loro; nessuno fuor che essi medesimi ha il diritto di disporne. Prima che siano giunti all’età della ragione, il padre può, a loro nome, stipulare le condizioni per la loro conservazione, per il loro benesse-re, ma non darli irrevocabilmente, e senza condizioni; perché un tal dono è contrario ai fini della natura, e oltrepassa i diritti della paternità. Bisognerebbe dunque, perché un governo arbitrario fosse legittimo, che a ogni generazione il popolo fosse padrone di ammetterlo o di rifiutarlo: ma allora questo governo non sarebbe più arbitrario. Ri-nunziare alla propria libertà significa rinunziare alla propria qualità d’uomo, ai diritti dell’umanità, anzi ai suoi doveri. Non v’è nessun indennizzo possibile per chiunque rinunci a tutto. Una tal rinuncia è incompatibile con la natura dell’uomo, ed equivale a togliere ogni moralità alle sue azioni il togliere ogni libertà alla sua volontà.

(Del contratto sociale, libro i, 1, in Opere, a cura di P. Rossi, Firenze, Sansoni, 1972, pp. 280, 282)

Contro Hobbes, Rousseau sostiene che il potere continua ad appartenere al popolo an-che dopo la formazione dello Stato. Esso dovrebbe esercitarlo direttamente, senza dele-garlo, sul modello di quanto avviene nelle piccole repubbliche della Svizzera, in particolare a Ginevra. Ma anche quando, per le dimensioni dello Stato, il potere deve essere delegato

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a rappresentanti, il popolo conserva sempre il diritto di riprenderlo se i governanti non agiscono per il bene comune. La rivoluzione francese, soprattutto nella fase giacobina, vedrà in Rousseau uno dei suoi ispiratori.

Rousseau si distacca però da Locke e si avvicina per alcuni aspetti a Hobbes nel modo di intendere il rapporto tra la politica e la morale. Secondo la sua analisi, il contratto non istituisce lo Stato, come voleva Locke, ma una nuova realtà sociale, il popolo.

T27 Rousseau: La società trasforma la personalità individualeDELLO STATO CIVILE

Questo passaggio dallo stato di natura allo stato civile produce nell’uomo un cam-biamento molto notevole, sostituendo nella sua condotta la giustizia all’istinto, e dan-do alle sue azioni la moralità che loro mancava innanzi. Allora soltanto, subentrando la voce del dovere all’impulso fisico e il diritto all’appetito, l’uomo, il quale fino allora non aveva guardato che a se stesso, si vede forzato ad operare secondo altri principi e a consultare la sua ragione prima di dar ascolto alle sue tendenze. Sebbene, in questo stato, si privi di non pochi vantaggi che gli vengono dalla natura, ne guadagna in cam-bio di così grandi, e le sue facoltà si esercitano e si sviluppano, le sue idee si estendono, i suoi sentimenti si nobilitano, tutta la sua anima si eleva a tal punto che, se gli abusi di questa nuova condizione non la degradassero spesso al di sotto di quella da cui è usci-to, egli dovrebbe benedire continuamente l’istante felice che ne lo strappò per sempre, e che d’un animale stupido e limitato fece un essere intelligente e un uomo.

Riduciamo tutto questo bilancio a termini facili a paragonare. Ciò che l’uomo perde nel contratto sociale è la sua libertà naturale e un diritto illimitato su tutto ciò che tenta e che può conseguire; ciò che guadagna è la libertà civile e la proprietà di tutto ciò che pos-siede. Per non ingannarsi su queste compensazioni, bisogna distinguer bene la libertà naturale che non ha limiti che nelle forze dell’individuo, dalla libertà civile, che è limitata dalla volontà generale: e il possesso, che non è se non l’effetto della forza, o il diritto del primo occupante, della proprietà che non può essere fondata che su un titolo positivo.

Si potrebbe, a ciò che precede, aggiungere, all’attivo dello stato civile, la libertà morale che, sola, rende l’uomo veramente padrone di se stesso; perché l’impulso del solo appeti-to è schiavitù, e l’obbedienza alla legge, che noi stessi ci siamo prescritta, è libertà.

(Del contratto sociale, p. 287)

In seguito al contratto gli individui, che prima vivevano separatamente, vengono a costi-tuire una dimensione comunitaria che ne cambia la stessa natura.

T28 Rousseau: Il popolo come individuo collettivoSuppongo che gli uomini siano giunti al punto, in cui gli ostacoli, che nuocciano alla loro conservazione nello stato di natura, prendano con la loro resistenza il soprav-vento sulle forze che ciascun individuo possa impiegare per mantenersi in tale stato. Allora quello stato originario non può più sussistere; e il genere umano perirebbe, se non cambiasse la sua maniera d’essere.

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Ora, siccome gli uomini non possono generare nuove forze, ma solo unire e dirigere quelle esistenti, essi non hanno più altro mezzo di conservarsi, se non di formare per aggregazione una somma di forze, che possa prevalere sulla resistenza, metterle in moto per un solo scopo, e farle operare in accordo.

Questa somma di forze non può nascere che dal concorso di parecchi uomini; ma, essendo la forza e la libertà di ogni uomo i primi strumenti della sua conservazione, come potrà egli impegnarli senza nuocersi e senza trascurare le cure che deve a se stes-so? Questa difficoltà, ricondotta al mio argomento, può enunciarsi in questi termini: «Trovare una forma di associazione, che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona ed i beni di ciascun associato; e per la quale ognuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso, e resti altrettanto libero di prima». Tale è il proble-ma fondamentale, di cui il contratto sociale dà la soluzione.

[...]Se dunque si escluda dal patto sociale ciò che non fa parte della sua essenza, si

troverà ch’esso si riduce ai termini seguenti: «Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere, sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi tutti in corpo riceviamo ciascun membro come parte indivisibile del tutto». Immedia-tamente, in cambio della persona privata di ciascun contraente, quest’atto di associa-zione produce un corpo morale e collettivo, composto di tanti membri quanti voti ha l’assemblea; il quale riceve da questo stesso atto la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. Questa persona pubblica, che si forma così dall’unione di tutte le altre, prendeva altra volta il nome di città e prende ora quello di repubblica o di corpo politico, il quale è chiamato dai suoi membri Stato, in quanto è passivo, sovrano in quan-to è attivo, potenza nel confronto coi suoi simili. Riguardo agli associati, essi prendono collettivamente il nome di popolo, e si chiamano particolarmente cittadini in quanto partecipi dell’autorità sovrana, e sudditi in quanto sottomessi alle leggi dello Stato.

(Del contratto sociale, libro i, 6, pp. 284-85)

Anche per Rousseau, come per Hobbes, il contratto dà luogo alla nascita di una realtà metaindividuale, una unione non soltanto giuridica ma anche morale tra i cittadini. Il cemento che unifica la comunità che così si forma, non è però il sovrano, il Leviathan, ma la volontà generale, cioè un comune modo di sentire, una consonanza di valori in cui ogni individuo si riconosce.

Rousseau distingue tra volontà di tutti e volontà generale. La prima corrisponde all’ottica liberale di Locke: in ogni Stato ci sono gruppi, classi sociali che hanno interessi distinti o anche contrapposti e lo Stato deve mediare tra queste diverse “volontà” in modo che nessuna sia sopraffatta dalle altre. La seconda esprime invece la comune visione del mondo, i valori di fondo che vanno oltre le differenze di ceto o di classe e in cui tutti i cittadini si riconoscono.

T29 Rousseau: Volontà di tutti e volontà generaleDa quanto precede consegue che la volontà generale è sempre retta e tende sempre all’utilità pubblica: ma non ne consegue che le deliberazioni del popolo abbiano sem-pre la stessa rettitudine. Si vuol sempre il proprio bene, ma non sempre lo si vede: non si corrompe mai il popolo, ma spesso lo si inganna, ed allora soltanto egli sembra volere ciò che è male.

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V’è spesso gran differenza fra la volontà di tutti e la volontà generale: questa non guarda che all’interesse comune, l’altra guarda all’interesse privato e non è che una somma di volontà particolari: ma togliete da queste volontà il più e il meno, che si di-struggono a vicenda, e resta per somma delle differenze la volontà generale.

Se allorquando il popolo, sufficientemente informato, delibera, i cittadini non aves-sero alcuna comunicazione fra di loro, dal gran numero delle piccole differenze risul-terebbe sempre la volontà generale, e la deliberazione sarebbe buona. Ma quando si crean fazioni, associazioni parziali a spese della grande, la volontà di ciascuna di queste associazioni diventa generale rispetto ai suoi membri, e particolare rispetto allo Stato: si può dire allora che non ci sono più tanti votanti quanti uomini; ma solo quante asso-ciazioni. Le differenze diventano meno numerose, danno un risultato meno generale. Infine, quando una di queste associazioni è così grande, da prevalere su tutte le altre, non avete più per risultato una somma di piccole differenze, ma una differenza unica; allora non c’è più volontà generale, il parere che prevale non è che un parere partico-lare.

Importa dunque, per aver veramente l’espressione della volontà generale, che non vi siano società parziali nello Stato, e che ogni cittadino non pensi che colla sua testa. Tale fu l’unica e sublime istituzione del gran Licurgo . Che se vi sono società parziali, bisogna moltiplicarne il numero e prevenirne la disuguaglianza, come fecero Solone, Numa, Servio. Queste precauzioni son le sole valide perché la volontà generale sia sempre illuminata e il popolo non s’inganni.

(Del contratto sociale , libro ii, 3, pp. 290-91)

La volontà di tutti è regolata dal diritto, dalle leggi positive, che fissano i confini della libertà di ognuno e stabiliscono le regole grazie alle quali la differenza di interessi viene mediata e non si traduce in conflitto. La volontà generale esprime invece la moralità collettiva, i valori comuni. Mentre le leggi devono essere rispettate per la forza costritti-va e il timore della pena, i valori comuni sono parte della coscienza di ognuno e quindi l’adesione ad essi è spontanea ed è sentita come realizzazione della propria dimensione morale e della propria libertà.

Il concetto di “volontà generale” implica l’assenza, all’interno dello Stato, di organizzazio-ni o società parziali da esso indipendenti e la subordinazione dell’individuo alla collet-tività, che ne incarna i valori morali e gli interessi più autentici. Questa posizione è stata variamente interpretata: sicuramente anticipa il concetto romantico di “popolo” come unità spirituale tra gli individui; secondo alcuni critici contiene in embrione il moderno concetto di “cultura”, come disposizioni verso la realtà compartecipate da una comu-nità; secondo altri, però, ha in sé anche delle venature di totalitarismo, in quanto l’indi-viduo non è libero di sottrarsi alla “volontà generale” ed è tenuto a interiorizzare i valori della collettività come parte della propria coscienza morale.

T30 Rousseau: Democrazia o totalitarismo?Se lo Stato o la città non è che una persona morale, la cui vita consiste nell’unione dei suoi membri, e se la sua cura più importante è quella della propria conservazione, essa ha bisogno di una forza universale e coattiva, per muovere e disporre ogni parte nel modo più conveniente al tutto. Come la natura dà a ogni uomo un potere assoluto su

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tutte le sue membra, il patto sociale dà al corpo politico un potere assoluto su tutte le sue; e questo stesso potere, diretto da una volontà generale, porta, come ho già detto, il nome di sovranità.

Ma, oltre la persona pubblica, noi dobbiamo considerare le persone private che la compongono, la cui vita e la cui libertà sono naturalmente indipendenti da essa. Si tratta dunque di distinguere bene i rispettivi diritti dei cittadini e del sovrano1 e i doveri, cui debbono adempiere i primi in quanto sudditi, dal diritto naturale di cui debbono godere in quanto uomini. Si conviene che tutto ciò che ciascuno aliena, col patto sociale, del suo potere, dei suoi beni, della sua libertà, è solo quella parte di tutto ciò, il cui uso interessi alla comunità; ma bisogna convenire anche che solo il sovrano è giudice di questo inte-resse. Tutti i servigi, che un cittadino può rendere allo Stato, esso glieli deve, non appena il sovrano glieli domandi; ma il sovrano, da parte sua, non può caricare i sudditi di alcuna catena inutile alla comunità: esso non può neanche volerlo: perché sotto la legge di ragio-ne nulla si fa senza causa, non meno che sotto la legge di natura.

Gl’impegni, che ci legano al corpo sociale, non sono obbligatori che in quanto siano reciproci; e la loro natura è tale, che adempiendoli non si può lavorare per altri senza lavorare per sé. Perché mai la volontà generale è sempre retta, e perché mai tutti vo-gliono costantemente la felicità di ciascuno di loro, se non perché non c’è nessuno che non si appropri questo termine ciascuno, e che non pensi a se stesso, votando per tutti? Il che prova che l’uguaglianza di diritto e la nozione di giustizia, che essa produce, de-rivano dalla preferenza che ciascuno si dà, e, per conseguenza, dalla natura dell’uomo; che la volontà generale, per essere veramente tale, dev’essere tale così nel suo oggetto come nella sua essenza; che essa deve partire da tutti per applicarsi a tutti e che essa perde la sua rettitudine naturale quando tenda a qualche oggetto individuale e deter-minato, perché allora, giudicando di ciò che ci è estraneo, noi non abbiamo alcun vero principio di equità che ci guidi.

[...]Da qualsiasi parte si risalga al principio, si arriva sempre alla stessa conclusione,

cioè che il patto sociale stabilisce fra i cittadini una tale uguaglianza, che essi s’impe-gnano tutti sotto le stesse condizioni, e debbono godere tutti degli stessi diritti. Così per la natura del patto, ogni atto di sovranità, cioè ogni atto autentico della volontà generale, obbliga o favorisce ugualmente tutti i cittadini; in modo che il sovrano co-nosce solo il corpo della nazione, e non distingue alcuno di quelli che la compongono. Che cosa è dunque propriamente un atto di sovranità? Non è una convenzione del superiore con l’inferiore, ma una convenzione del corpo con ciascuno dei suoi membri: convenzione legittima, perché ha per base il contratto sociale; equa, perché è comune a tutti; utile, perché non può aver altro oggetto che il bene generale; e solida, perché ha per garanzia la forza pubblica e il potere sovrano. Fino a che i sudditi non sian sottomessi che a tali convenzioni, essi non obbediscono a nessuno, ma solo alla loro propria volontà: e domandare fin dove si estendano i diritti rispettivi del sovrano e dei cittadini, vuol dire domandar fino a che punto questi possano impegnarsi con se stessi, ciascuno verso tutti, e tutti verso ciascuno di loro.

Da ciò si vede che il potere sovrano, per quanto sia assoluto, sacro e inviolabile, non passa e non può passare i limiti delle convenzioni generali, e che ogni uomo può disporre pienamente di ciò che gli è stato lasciato dei suoi beni e della sua libertà da

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1. Ovviamente, qui come in seguito il termine «sovrano» non indica il re, ma chi detiene legittimamente la rappresentanza della volontà generale; allo stesso modo, con il termine «sudditi» si indicano i cittadini in quanto sottoposti alla volontà generale.

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queste convenzioni; in modo che il sovrano non è mai in diritto di gravare un suddi-to più che un altro, perché allora, diventando privato l’affare, il suo potere non è più competente.

Una volta ammesse queste distinzioni, è così falso che nel contratto sociale vi sia, da parte dei singoli, alcuna rinuncia effettiva, che la loro condizione, per effetto di questo contratto, si trova ad essere realmente preferibile a quella che era per l’innanzi e che, in luogo di un’alienazione, essi non han fatto che uno scambio vantaggioso di una maniera di essere incerta e precaria con un’altra migliore e più sicura; dell’indi-pendenza naturale con la libertà; del potere di nuocere altrui con la propria sicurezza; e della loro forza, che altri poteva sopraffare, con un diritto che l’unione sociale rende invincibile. La loro vita stessa, ch’essi hanno consacrata allo Stato, ne è continuamente protetta; e quando essi l’espongano per la sua difesa che fanno mai, se non rendergli ciò che han ricevuto da lui? Che fanno mai, se non ciò che farebbero più spesso e con più pericolo nello stato di natura, quando, nel dar battaglie inevitabili, dovrebbero difendere col pericolo della loro vita ciò che serve loro a conservarla? Tutti debbono combattere in caso di bisogno per la patria, è vero; ma così nessuno ha mai da com-battere per se stesso. Non c’è forse ancora un guadagno, a correre, per ciò che forma la nostra sicurezza, solo una parte dei rischi che bisognerebbe correre per noi stessi, non appena la sicurezza ci fosse tolta?

(Del contratto sociale, libro ii, 4, pp. 291-92)

Da un lato la volontà generale sembra costituire il fondamento del dovere di solidarietà e del diritto alla partecipazione che sono tipici della democrazia. Dall’altro lato, però, il carattere coercitivo della volontà generale sembra imporsi alla stessa libertà dell’indi-viduo. Rousseau distingue comunque, nel secondo capoverso del brano riportato sopra, tra una sfera politica nella quale gli individui sono “sudditi” nei confronti della volontà generale e una sfera civile, in cui conservano i propri diritti naturali e in particolare la libertà. L’ambiguità comunque resta e pervade tutto il brano; la ritroviamo nella fase gia-cobina della rivoluzione francese, che si ispira largamente a Rousseau tanto da inserire l’espressione “volontà generale” nel preambolo alla Costituzione del 1793, che sancisce il suffragio universale, l’istruzione obbligatoria e gratuita e gli aiuti sociali per i privi di mezzi economici. Ma, come è noto, il periodo giacobino, accanto all’affermazione di que-sti principi, conosce il terrore e il tentativo di imporre la “volontà generale” con l’uso della ghigliottina.

7. Morale, eticità e diritto nelle filosofie dell’OttocentoNell’Ottocento si confrontano due distinte concezioni del rapporto tra politica e morale. La prima, che fa riferimento al liberalismo, considera l’ambito morale come strettamen-te individuale, indipendente dai rapporti sociali che sono invece regolati dal diritto. L’u-nico giudice morale è la coscienza del singolo, e in questa sfera ognuno è completamente libero; nei comportamenti pubblici, invece, è necessario osservare le leggi, senza che tut-tavia questo implichi una loro accettazione interiore e ancor meno una interiorizzazione delle stesse.

L’altra tendenza filosofica, che fa capo all’idealismo, in particolare hegeliano, considera invece l’individuo come parte di una realtà più vasta, che gli conferisce esistenza e si-gnificato. Morale e diritto coincidono, essendo la prima interiorizzazione del secondo,

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in quanto l’individuo è legato alla comunità o al popolo da vincoli più stretti di quelli me-ramente giuridici. In Hegel, l’esistenza di un piano della morale superiore all’individuo, al quale ognuno deve ricondursi, è espresso, come vedremo, dal concetto di “eticità”.

7.1 L’utilitarismoLa tradizione liberale si esprime nell’utilitarismo inglese, rappresentato soprattutto da Je-remy Bentham e da John Stuart Mill.

L’etica di Bentham si ricollega all’antropologia humiana, assumendo i sentimenti di piace-re e dolore come fondamenti della morale.

T31 Bentham: Il principio dell’utilitàLa natura ha posto l’uomo sotto l’autorità del piacere e del dolore. Noi dobbiamo ad essi tutte le nostre idee; noi rapportiamo a questi due sentimenti tutti i nostri giudizi, tut-te le nostre determinazioni della nostra vita. Colui che pretende di sottrarsi a questo assoggettamento non sa che cosa dice: egli ha come suo unico oggetto di ricercare il piacere e di evitare il dolore, nello stesso momento in cui si priva dei più grandi piaceri ed abbraccia i più forti dolori. Questi due sentimenti eterni ed irresistibili devono esse-re il grande studio del moralista e del legislatore. Il principio dell’utilità subordina tutto a questi due moventi. Utilità è un termine astratto. Esso esprime la proprietà o la ten-denza di una cosa ad evitare qualche male o a procurare qualche bene: male è sofferen-za, è dolore, o causa di dolore; bene è piacere o causa di piacere. È conforme alla utilità o all’interesse di un individuo soltanto ciò che tende ad aumentare la somma totale del suo benessere; è conforme all’utilità o all’interesse di una comunità, solo ciò che tende ad aumentare la somma totale del benessere degli individui che la compongono [...].

La logica dell’utilità consiste nel partire dal calcolo, o dal paragone dei piaceri e dei dolori in tutte le operazioni del giudizio, e a non farvi entrare nessun’altra idea. Io parteggio per il principio dell’utilità, quando misuro la mia approvazione o la mia disap-provazione di un atto privato o pubblico sulla tendenza che esso ha a produrre piaceri e dolori; quando uso i termini giusto, ingiusto, morale, immorale, buono, cattivo, come termini collettivi che racchiudono idee di certi piaceri e di certi dolori, senza dar loro alcun altro significato usuale, senza inventare definizioni arbitrarie, per escludere cer-ti piaceri o per negare l’esistenza di certi dolori. Niente sottigliezze, niente metafisica: non bisogna consultare né Platone, né Aristotele. Piacere e dolore, è ciò che ciascuno sente come tale; il contadino come il principe, l’ignorante come il filosofo.

(Trattati della legislazione civile e penale, in Grande antologia filosofica, diretta da M. F. Sciacca, Il pensiero contemporaneo, S. Marcucci, Milano, Marzorati, 1975, vol. XXIII,

L’utilitarismo inglese, p. 907)

L’utilitarismo morale, come calcolo dei piaceri e dei dolori, consente di trattare la morale stessa indipendentemente da ogni presupposto metafisico o religioso. Il criterio proposto si applica sia alla sfera individuale che a quella pubblica. Tra i due ambiti, che verranno da Hegel distinti come moralità e eticità, non c’è però relazione, l’uno non condiziona e non fonda l’altro. I principi del comportamento individuale possono essere stabiliti indipen-dentemente dall’appartenenza a una società, anche considerando un individuo isolato, che viva, per così dire, su un’isola deserta. L’ambito individuale e l’ambito sociale sono regolati

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dalle stesse dinamiche; tra i due sussiste, o può sussistere se la società è gestita razional-mente, una convergenza, nel senso che l’utilità privata può coincidere con quella pubblica, ma nessuna delle due fonda l’altra, ognuna si sostiene da sé, sulla base del principio di utilità.

Con Mill l’utilitarismo acquista una marcata dimensione sociale. Egli distingue tra quan-tità e qualità del piacere, sostenendo che il criterio indicato dall’utilitarismo è il secondo, cioè il “piacere qualitativo”. Questo non coincide con il soddisfacimento dei bisogni ele-mentari, ma con quelli nobili, legati soprattutto alla coscienza e alla scelta individuali.

T32 Stuart Mill: I piaceri umani sono soprattutto intellettualiLa dottrina che accoglie come fondamento della morale l’utilità, o il principio della massima felicità, sostiene che le azioni sono giuste proporzionalmente alla felicità che tendono a promuovere, sbagliate quando tendono a produrre il contrario della felicità. Per felicità si intende piacere e assenza di dolore; per infelicità, dolore e privazione di piacere. Per dare una chiara visione del modello morale fissato dalla teoria, è necessa-rio dire assai di più; in particolare cosa comprendono i concetti di piacere e di dolore; e fino a che punto la questione non è risolta. Ma tali spiegazioni supplementari non influiscono sulla teoria della vita sulla quale poggia questa teoria della morale vale a dire, che il piacere, e la libertà dal dolore, sono i soli fini cui si possa tendere, e che tutte le cose desiderabili (che sono altrettanto numerose nello schema utilitaristico come in qualsiasi altro schema) sono desiderabili sia per il piacere inerente ad esse stesse, sia per l’intenzione di promuovere il piacere e di prevenire il dolore.

Ora, tale teoria della vita suscita in molte menti, e fra di queste in alcune delle più sensibili e meglio intenzionate grande avversione. Supporre che la vita (così essi si esprimono) non abbia alcun fine più elevato che il piacere — nessun oggetto migliore e più nobile da desiderare e ricercare — è per essi assolutamente meschino e basso; una dottrina degna solo di porci ai quali i seguaci di Epicuro molti secoli fa furono sde-gnosamente paragonati; e i sostenitori moderni di tale dottrina sono occasionalmente oggetto di analogo gentile confronto da parte dei loro avversari tedeschi, francesi e inglesi.

Quando sono stati così attaccati, gli Epicurei hanno sempre risposto che non sono essi, ma i loro accusatori, che presentano la natura umana in una luce degradante, visto che l’accusa presuppone che gli esseri umani non siano desiderosi di altri piaceri se non quelli dei quali sono desiderosi i porci. Se tale ipotesi fosse vera, l’accusa non potrebbe essere smentita, ma non sarebbe più un capo d’accusa, perché se le fonti del piacere fossero esattamente le stesse per gli uomini e per i porci, una regola di vita sufficientemente buona per gli uni sarebbe sufficientemente buona per gli altri. Il confronto fra la vita degli Epicurei e quella delle bestie è sentito come degradante, pre-cisamente perché i piaceri di una bestia non soddisfano la concezione di felicità di un essere umano. [...] Io non considero, in verità, che gli Epicurei non siano caduti in er-rore nel ricavare il loro schema di conseguenze dal principio utilitaristico. Per farlo in maniera opportuna è necessario includere nello schema molti elementi Stoici e anche molti elementi Cristiani. Ma non si conosce teoria epicurea di vita che non attribuisca ai piaceri dell’intelletto, della sensibilità, della immaginazione e dei sentimenti morali, una valutazione assai più alta nel campo dei piaceri, di quella assegnata ai piaceri dei sensi. Bisogna comunque ammettere che, in generale, gli scrittori utilitaristi hanno

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posto i piaceri della mente molto al di sopra dei piaceri del corpo, soprattutto per la maggiore immutabilità, sicurezza, gratuità ecc., dei primi cioè, per dei vantaggi par-ticolari, piuttosto che per la loro natura intrinseca. Tutti questi elementi hanno dato pienamente ragione alla causa degli utilitaristi, ma essi avrebbero potuto servirsi di altri argomenti, per così dire di natura più alta, con piena coerenza. Riconoscere il fatto che alcuni tipi di piaceri sono più desiderabili e più preziosi di altri è perfettamente compatibile col principio dell’utilità. Sarebbe assurdo che, mentre per valutare tutte le altre cose si considera parimenti la qualità e la quantità, la valutazione dei piaceri dovesse dipendere soltanto dalla quantità.

Se mi si chiede cosa intendo per differenza di qualità nei piaceri, o cosa rende un piacere, in quanto tale, più apprezzabile di un altro, esclusa la sua maggior quantità, non c’è che una possibile risposta. Fra due piaceri, se ve n’é uno, a cui tutti o quasi tutti coloro che hanno esperienza di entrambi, danno una preferenza decisiva, indipenden-temente da sentimenti di obbligo morale, questo è il piacere più desiderabile. Se uno dei due è posto, da coloro che hanno autorevole conoscenza di tutti e due, tanto al di sopra dell’altro da preferirlo, pur sapendo che esso può essere raggiunto con maggiore sofferenza e se essi non vi rinuncerebbero per nessuna quantità dell’altro piacere di cui la loro natura è suscettibile, se possiamo attribuire al divertimento preferito una superiorità di qualità tanto maggiore da rendere in confronto la quantità di scarsa importanza, questo è il piacere più desiderabile.

Ora, è un fatto incontestabile che quelli che sono ugualmente a conoscenza e ugual-mente capaci di apprezzare e godere entrambi i piaceri, danno una ben marcata pre-ferenza al sistema di vita che utilizza le loro facoltà più elevate. Poche creature umane acconsentirebbero ad essere tramutate in bassi animali in cambio della promessa del completo esaudimento dei piaceri di una bestia; nessun essere umano intelligente ac-consentirebbe a essere uno sciocco, nessuna persona istruita vorrebbe essere egoista e spregevole, anche se fosse persuasa che lo sciocco, l’ignorante o il furfante è più sod-disfatto della sua sorte di quanto essa non lo sia della propria. Non rinuncerebbe a ciò che ha in più, in cambio della più completa soddisfazione di tutti i desideri che ha in comune con essi. Se mai crede di volerlo, è soltanto in caso di infelicità così estrema, che per sfuggirla scambierebbe la sua sorte più o meno per qualsiasi altra, anche inde-siderabile ai suoi occhi.

Un individuo con qualità più elevate ha maggiori bisogni per essere felice, è pro-babilmente capace di più acute sofferenze, ed è certo più sensibile ad esse per molti aspetti, di un individuo con qualità inferiori; ma a dispetto di queste tendenze, egli non può mai desiderare veramente di abbassarsi a ciò che gli sente essere un gradino più basso dell’esistenza. Possiamo dare la spiegazione che vogliamo a questa avversio-ne, possiamo attribuirla a orgoglio, [...] possiamo attribuirla all’amore per la libertà e per l’indipendenza personale, [...] all’amore per il potere o all’amore per ciò che è stimolante, entrambe cose che relativamente vi sono connesse e vi contribuiscono: ma il suo significato più appropriato è il senso di dignità che ogni essere umano possiede in una forma o nell’altra, in una data proporzione, anche se certamente non giusta, rispetto alle sue più alte possibilità. È una parte talmente essenziale della felicità per coloro nei quali è forte, che nulla che sia con essa in conflitto, potrebbe essere oggetto del loro desiderio se non momentaneamente. Chiunque supponga che questa prefe-renza ha luogo mediante un sacrificio della felicità — che l’essere superiore in uguali circostanze non è più felice dell’inferiore — confonde i due concetti completamente diversi di felicità e di soddisfazione. È incontestabile che un individuo le cui capacità

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di godimento sono basse, ha la maggior probabilità di averle pienamente soddisfatte; e che un individuo altamente dotato sentirà sempre che ogni felicità alla quale egli possa aspirare è imperfetta, in un mondo come l’attuale. Ma egli può imparare a sopportarne le imperfezioni, se esse sono sopportabili, e non proverà invidia per l’individuo che non è cosciente di queste imperfezioni soltanto perché non avverte le limitazioni che queste portano al bene. È meglio essere una creatura umana insoddisfatta piuttosto che un porco soddisfatto, meglio essere un Socrate insoddisfatto piuttosto che uno sciocco soddisfatto. E se lo sciocco o il porco sono di diversa opinione, è perché essi conoscono un solo lato della questione. Gli altri conoscono le due facce del problema.

(Sull’utilitarismo, in Antologia di scritti di logica, economia, politica, etica, tr. di F. Calabi Giorello, Milano, Bietti, 1974, pp. 173-77)

I piaceri da perseguire sono legati soprattutto alla vita associata, in modo che la ricerca, correttamente orientata, verso la propria felicità, coincide con la ricerca della felicità di tut-ti. Nonostante questa maggiore attenzione per la felicità collettiva, l’individuo costituisce comunque il riferimento della morale. Per quanto possa aver bisogno degli altri per una piena realizzazione di sé, per quanto il suo utile possa coincidere con quello comune, il fondamento della morale non deriva dalla società ma dall’individuo stesso.

7.2 La subordinazione dell’individuo allo Stato nella filosofia hegelianaNell’idealismo, e in particolare in Hegel, la prospettiva è notevolmente diversa rispetto a quella utilitaristica. Hegel introduce la distinzione tra morale e etica, considerando la pri-ma come l’insieme di norme interiorizzate dall’individuo, la seconda come la realizza-zione dello Spirito nella realtà sociale e storica. Mettendo tra parentesi il suo linguaggio, e interpretando tale distinzione come verrà intesa dalla filosofia, anche non idealistica, posteriore, possiamo dire che l’eticità è il significato morale delle istituzioni, cioè, più semplicemente, che è la dimensione collettiva, culturale, compartecipata della morale.

La morale non è più ritenuta indipendente dall’etica, come nell’utilitarismo e, in modo diverso, anche in Kant. Essa non è neppure considerata, come in Kant, una struttura im-personale e universale, ma come un principio spirituale che assume esistenza oggettiva nel divenire storico; si definisce e si realizza sul piano sociale, come un insieme di relazio-ni codificate tra gli individui che producono un sentire comune.

L’ottica del giusnaturalismo, secondo la quale la morale costituisce il dato originario e il dirit-to positivo ne è la realizzazione istituzionalizzata, viene rovesciata: alla prospettiva giusna-turalistica secondo la quale esiste un diritto naturale, coincidente con la morale, che deve trovare la propria formalizzazione nelle leggi, Hegel contrappone quella secondo la quale il diritto positivo viene interiorizzato, divenendo moralità e coscienza individuale.

T33 Hegel: L’individuo e la legge§ 484. Ma l’attività finale di questo volere è di realizzare il suo concetto, la libertà, nell’aspetto esteriormente oggettivo, come un mondo determinato mediante il con-cetto1, cosicché il volere si trovi colà come in se stesso, congiunto con se stesso, e il

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1. Lo Spirito si fa mondo razionale, pienamente adeguato a sé, seppure ancora nella forma dell’esteriorità.

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concetto sia quindi compiuto come idea2. La libertà, che si è configurata come realtà di un mondo, riceve la forma della necessità; la cui connessione sostanziale è il sistema delle determinazioni di libertà, e la connessione fenomenica3 è il potere, l’autorità, vale a dire la validità che ha nella coscienza.

§ 485. Questa unità del volere razionale col volere singolo4, – il quale è l’elemento immediato e peculiare dell’attuazione del primo, – costituisce la semplice realtà della libertà. Poiché essa – e il suo contenuto – appartiene al pensiero, ed è l’universale in sé, il contenuto ha la sua vera determinatezza soltanto nella forma dell’universalità. Posta in questa forma per la coscienza dell’intelligenza, e con la determinazione di un potere che abbia autorità, essa è la legge. Il contenuto, liberato dall’impurità e accidentalità, che ha nel sentimento pratico e nell’impulso, e informato al volere soggettivo, – non più nella forma sentimentale ed impulsiva, ma nella sua universalità, – come abitudi-ne, modo di sentire e carattere di esso, è l’ethos o il costume.

§ 486. Questa realtà in generale, come esistenza del volere libero, è il diritto, il quale non è da prendere solo come il ristretto diritto giuridico, ma come tale che comprende tutte le determinazioni della libertà. Queste determinazioni, – in relazione col volere soggettivo, nel quale, come universali, debbono avere la loro esistenza, e solo possono averla, – sono i suoi doveri; e, in quanto abitudine e modo di sentire, sono in esso co-stumi. Ciò che è un diritto, è anche un dovere; e ciò che è un dovere, è anche un diritto. Un’esistenza è un diritto soltanto sulla base del volere sostanziale libero; e il medesimo contenuto, in relazione col volere che si distingue come soggettivo e singolo, è dovere. È un contenuto medesimo quello che la coscienza soggettiva riconosce come dovere, e che essa porta ad esistenza come diritto negli altri. La finità del volere oggettivo dà luogo alla parvenza di distinzione dei diritti e dei doveri.

(Enciclopedia delle scienze filosofiche, a cura di V. Cicero, Roma-Bari, Laterza, 1980, 2 voll., vol. II, pp. 475-76)

2. Il volere trova “colà”, cioè nel mondo dello Spirito oggettivo, il proprio essere, poiché questo mondo è prodotto dal volere stesso, che si dà in esso una esistenza oggettiva. In questo modo il concetto è “compiuto come idea” perché ha sviluppato il proprio essere-in-sé, divenendo mondo.3. Il potere e l’autorità sono la manifestazione esteriore (“fenomenica”) della libertà come sostanza. Essi appaiono come coercizione dell’individuo, ma nella loro realtà effettiva attuano il diritto, che è la libertà di ognuno nelle sue determinazioni concrete.4. Il volere razionale è l’aspetto essenziale del volere di ognuno, è il volere spirituale che si dà esistenza concreta nei singoli individui. In questo darsi esistenza individuale, agli aspetti razionali si congiungono l’impulso e il sentimento, che ne costituiscono l’accidentalità e ciò che non è essenziale. La legge è il ritorno alla razionalità originaria, collocata adesso, però, nella esistenza concreta. Il diritto è quindi “l’esistenza del volere libero” (cfr. il paragrafo seguente).

Per Hegel il diritto non è convenzionale, né è ancorato genericamente alla natura umana. Esso ha un’origine storica complessa. Nel suo linguaggio, è Spirito oggettivo, Spirito che trova nelle istituzioni giuridiche una propria esistenza metaindividuale. Al di là della prospettiva idealistica, l’analisi di Hegel è importante in quanto àncora il diritto al costume, alla tradizione e al modo di vivere di un popolo, cioè a quel complesso insieme di valori e disposizioni verso la realtà che prenderà più tardi il nome di cultura.

Si capisce allora perché la morale non venga considerata da Hegel il dato originario. Essa è l’insieme dei valori, la “visione del mondo” caratteristica di un popolo, che esiste este-riormente nel diritto prima di venire interiorizzata dai singoli come morale. All’uni-versalità kantiana, Hegel sostituisce un prospettiva storica.

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T34 Hegel: La moralitৠ503. L’individuo libero, che nel diritto (immediato) è soltanto persona, è qui determi-nato come soggetto, – volontà riflessa in sé1, cosicché la determinatezza della volontà in genere, esistendo nell’individuo come sua propria, sia distinta dall’esistenza della libertà in una cosa esterna2. Essendo la determinazione della volontà posta così nell’in-terno, la volontà è insieme volontà particolare; e si hanno le ulteriori particolarizzazio-ni di essa, e le loro relazioni tra loro. La determinazione della volontà è, da una parte, quella in sé, la razionalità del volere, l’elemento giuridico (ed etico) in sé; dall’altra, è l’esistenza che si ha nella manifestazione effettiva, che si attua ed entra in relazione con la prima. Il volere soggettivo è moralmente libero in quanto queste determinazioni vengono poste interiormente come le sue3, e volute da esso. La sua manifestazione ef-fettiva, con questa libertà, è azione; nella cui esteriorità essa riconosce come suo, e si lascia imputare, solo quel tanto, che ha saputo in sé ed ha voluto4.

Questa libertà soggettiva o morale è soprattutto quella che si chiama, nel significato europeo, libertà. A cagion del diritto alla libertà, l’uomo deve possedere propriamente una conoscenza della differenza del bene e del male in genere: le determinazioni etiche, come le religiose, non debbono esigere di esser seguite da lui solo come leggi esterne e precetti di un’autorità; ma debbono aver adesione, riconoscimento o anche fondamento nel suo cuo-re, nella sua disposizione d’animo, nella sua coscienza e intelligenza, ecc. La soggettività del volere in se stesso è scopo a sé5; ed è un momento assolutamente essenziale.

(Enciclopedia delle scienze filosofiche, §503, pp. 484-85)

1. L’individuo non è più un semplice portatore di diritti e di doveri, ma vuole, cioè fa dei diritti e dei doveri una propria libera scelta, divenendo così soggetto.2. Cioè nel diritto, che è norma del volere libero nei rapporti con gli altri e con le cose (proprietà).3. L’individuo fa proprie le determinazioni etiche che esistono come realtà oggettiva, nella comunità e nel popolo al quale appartiene.4. È l’affermazione del principio della responsabilità morale, per cui, mentre nel diritto rispondeva dei propri atti in rapporto alla loro conformità o meno con una legge esterna, in ambito morale è responsabile soltanto degli atti che ha scelto liberamente.5. Non può essere subordinata a nessuna limitazione, comunque motivata, né stabilita sulla base di finalità esteriori.

La prospettiva indicata da Hegel avrà importanza ben al di là dell’ambito dell’idealismo. La morale si distingue dal diritto perché ne costituisce l’interiorizzazione consapevole e intenzionale. Il singolo riconosce come proprie le scelte morali, ne fa un prodotto della propria volontà e una componente cosciente del suo essere. Però, i valori che orientano tali scelte non sono prodotti da lui in quanto soggetto particolare, né derivano da una generica natura umana. La morale è sempre di un’epoca e di un popolo, anche se rivis-suta a livello personale. L’epoca e il popolo costituiscono lo sfondo nel quale l’individuo acquista realtà, riconoscendone in sé le determinazioni.

T35 Hegel: L’eticitৠ150. L’ethos, in quanto si riflette nel carattere individuale come tale, determinato dalla natura, è la virtù, la quale, in quanto nulla mostra, se non la semplice adeguatez-za dell’individuo ai doveri dei rapporti ai quali appartiene, è onestà. [...]

§ 151. Ma, nella semplice identità con la realtà degli individui, l’ethos appare come uni-versale modo di agire dei medesimi, – come costume; – come consuetudine del medesimo,

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in quanto seconda natura, la quale è posta in luogo della prima volontà1, semplicemente naturale, ed è l’anima compenetrante2, il significato e la realtà della sua esistenza; lo spirito che vive ed esiste come un mondo, e la cui sostanza così è soltanto in quanto spirito.

§ 152. La sostanzialità etica, a questo modo, è giunta al suo diritto e questo alla sua validità, per cui, in essa, il capriccio e la coscienza particolare del singolo, che era per sé e formava un’antitesi rispetto ad essa, sono svaniti; giacché il carattere etico conosce l’universale immoto, ma dischiuso, nelle sue determinazioni, a razionalità reale, come suo fine motore; e conosce la sua dignità ed ogni esistenza dei fini particolari come fondata in esso, e la ha realmente in esso. La soggettività stessa è la forma assoluta e la realtà esistente della sostanza; e la distinzione del soggetto da essa, in quanto suo oggetto, fine e potenza, è soltanto la differenza della forma, che è nello stesso tempo sparita, altresì, immediatamente3.

La soggettività, che costituisce il campo dell’esistenza pel concetto di libertà, e, dal punto di vista morale, è ancora nello stato di distinzione da questo suo concetto, nel campo etico, è l’esistenza del medesimo adeguata ad esso.

§ 153. Il diritto degli individui per la loro destinazione soggettiva alla libertà, ha il suo compimento nel fatto che essi appartengono alla realtà etica, poiché la certezza della loro libertà ha la sua verità in tale oggettività; ed essi, nel campo morale, posseg-gono realmente la loro essenza particolare, la loro interna universalità4.

Alla domanda d’un padre, circa il miglior modo di educare eticamente il proprio figlio, un Pitagorico diede la seguente risposta (essa è messa anche in bocca ad altri): se tu lo faccia cittadino di uno Stato dalle buone leggi.

§ 154. Il diritto degli individui alla loro particolarità è, appunto, contenuto nella sostanzialità etica, poiché la particolarità è la maniera esteriormente apparente, nella quale esiste l’ethos.

§ 155. In tale identità della volontà universale e individuale si unifica, quindi, dove-re e diritto, e l’uomo, mediante l’ethos, ha diritti in quanto ha doveri, e doveri in quanto ha diritti. Nel diritto astratto, io ho il diritto e un altro il dovere, di fronte alla medesi-ma cosa; nel campo morale, soltanto il diritto del mio particolare sapere e volere, come del mio benessere, deve essere unito ai doveri ed essere oggettivo.

§ 156. La sostanza etica, in quanto contenente l’autocoscienza che è per sé, unita al suo concetto, è lo spirito reale d’una famiglia e d’un popolo.

§ 157. Il concetto di quest’idea è soltanto in quanto spirito, in quanto cosa consa-pevole di sé e reale, poiché è l’oggettivazione di se stesso, il movimento mediante la forma dei suoi momenti. Quindi, esso è:

A) lo spirito etico immediato o naturale; – la famiglia.Questa sostanzialità sbocca nella perdita della sua unità, nella scissione e nel punto

di vista del relativo, e cosi èB) società civile, unione dei componenti, in quanto singoli autonomi in un’universali-

tà, quindi formale, mediante i loro bisogni, e mediante la costituzione giuridica, in quanto

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1. La volontà immediata dell’individuo che non ha acquisito la “seconda natura” della comunità alla quale appartiene, e che per questo è ancora naturalità.2. Che si compenetra con la sostanza etica comune, e quindi si congiunge con la propria vera realtà, che è la totalità – sociale ed etica – di cui è parte.3. La sostanzialità etica è razionale in sé ed esiste di per sé, a prescindere dai singoli concretamente esistenti in un determinato momento (si pensi a uno Stato o a un popolo), ma ha comunque esistenza reale soltanto negli uomini.4. L’espressione “interna universalità” rende in modo chiaro il rapporto tra sostanza etica e individui: l’eticità è dimensione interna del singolo, ma insieme partecipazione al sentire comune, interiorizzazione di una sostanza universale.

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mezzo di garanzia delle persone e della proprietà, e mediante un ordinamento esterno pei loro interessi particolari e comuni; il quale Stato esterno

C) si ritrae e raccoglie nel fine e nella realtà dell’universalità sostanziale e della vita pubblica dedicata ad esso; – nella costituzione statale.

(Lineamenti di filosofia del diritto, tr. di F. Messineo, Roma-Bari, Laterza, 1979, pp. 166-71)

Nel singolo popolo, la moralità si realizza in modo oggettivo, in istituzioni e sistemi di valori che costituiscono l’eticità, incarnandosi nella famiglia, nella società civile e nello Stato. Secondo Hegel, che intende l’eticità come l’oggettivarsi dello Spirito, essa stabilisce un’atmosfera comune, un comune sentire, l’identificazione del singolo in una dimensio-ne metaindividuale in cui si riconosce.

Quando, a partire dalla Sinistra hegeliana e da Marx, l’idealismo hegeliano sarà criticato e abbandonato, verrà però accettata l’idea di una valenza generale dell’ambiente sociale che influenza la moralità e forma i valori degli individui, anche se, come in Marx, il condi-zionamento nell’ambito di una società divisa in classi e dominata dalla borghesia, assume un significato negativo e mistificante.

7.3 Marx: la morale come sovrastrutturaLa prospettiva di Marx non è, nell’approccio alla morale, sostanzialmente diversa da quel-la di Hegel, anche se sarà ad essa antitetica per gli esiti. La morale è l’espressione so-vrastrutturale di rapporti produttivi e di classe, attraverso la quale vengono posti come universali e interiorizzati dai singoli valori che hanno una funzione politica precisa, ed esprimono il dominio della classe egemone sulle altre. Anche per Marx, quindi, la mo-rale e i valori sono sempre storici e collettivi. Il singolo li interiorizza ma non li produce, e facendoli propri diviene parte di processi che vanno al di là della sua particolarità. Tali valori storici non sono però il prodotto di uno “Spirito”, di una razionalità immanente alla società e alla storia, ma l’espressione ideologica, mistificata e mistificante, di rap-porti di produzione che la morale esprime e tende a perpetuare e che al contrario devono essere analizzati criticamente e superati. Marx propone un esempio di questa dinamica storica analizzando il passaggio dalla morale feudale a quella capitalistica, di cui è stata protagonista la borghesia che ha demistificato i valori tradizionali per ricondurli al loro contenuto sociale effettivo.

T36 Marx: La funzione rivoluzionaria della borghesiaLa borghesia ha avuto nella storia una funzione sommamente rivoluzionaria.

Dove è giunta al potere, essa ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, pa-triarcali, idilliache. Essa ha lacerato senza pietà i variopinti legami che nella società feudale avvincevano l’uomo ai suoi superiori naturali, e non ha lasciato tra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, lo spietato «pagamento in contanti». Essa ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i santi fremiti dell’esaltazione religiosa, dell’entusiasmo cavalleresco, della sentimentalità piccolo-borghese. Ha fatto della dignità personale un semplice valore di scambio; e in luogo delle innu-merevoli franchigie faticosamente acquisite e patentate, ha posto la sola libertà di commercio senza scrupoli. In una parola, al posto dello sfruttamento velato

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da illusioni religiose e politiche, ha messo lo sfruttamento aperto, senza pudori, diretto e arido.

La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte quelle attività che per l’innanzi erano considerate degne di venerazione e di rispetto. Ha trasformato il medico, il giu-rista, il prete, il poeta, lo scienziato in suoi operai salariati.

La borghesia ha strappato il velo di tenero sentimentalismo che avvolgeva i rappor-ti di famiglia, e li ha ridotti a un semplice rapporto di denari. [...]

La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti so-ciali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era inve-ce l’immutata conservazione dell’antico modo di produzione. Il continuo rivoluzio-namento della produzione, l’incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca borghese da tutte le altre. Tutte le stabili e irrugginite condizioni di vita, con il loro seguito di opinioni e credenze rese venerabili dall’età, si dissolvono, e le nuove invecchiano prima ancora di aver potuto fare le ossa. Tutto ciò che vi era di stabilito e di rispondente ai vari ordini sociali si svapora, ogni cosa sacra viene sconsacrata e gli uomini sono final-mente costretti a considerare con occhi liberi da ogni illusione la loro posizione nella vita, i loro rapporti reciproci.

(Manifesto del partito comunista, tr. di P. Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1977, pp. 59-61)

Morale e diritto sono anche per Marx strettamente congiunti e, come per Hegel, la morale è l’interiorizzazione di rapporti giuridici ad essa anteriori. Considerando però la morale come espressione degli interessi di classe, Marx la demistifica, togliendole ogni valenza universale e sacrale, e riconducendola interamente alla dinamica sto-rica.

7.4 Nietzsche e la morte della moraleAnche la filosofia di Nietzsche, forse in modo ancora più radicale di quella di Marx, si ca-ratterizza per un’analisi storica e per una demistificazione della morale. Tutti i presuppo-sti etici del passato devono essere superati e ridefiniti. La caratteristica fondamentale di questa operazione consiste nella scomparsa del concetto stesso di eticità nel significato hegeliano: non devono essere cercati valori universali e neppure comuni, ma ogni indi-viduo deve farsi creatore dei valori, deve dare il proprio significato al mondo. Possiamo parlare, in questo senso, di morte dell’etica, piuttosto che, come si è fatto, di morte della morale. Nietzsche usa raramente il primo termine. Parla piuttosto di fine di ogni valore, della necessità di riscrivere le “tavole dei valori”, ed è chiaro nei suoi scritti che i valori sono collettivi, o pretendono di essere universali, fondandosi sulla fede e sull’autorità di Dio. Il termine “morale” è da lui riferito principalmente a quella socratico-cristiana, quin-di ancora una volta a un insieme di concezioni che non soltanto ha una valenza sociale, ma una durata storica.

L’uomo, il singolo uomo, deve per Nietzsche diventare il creatore dei propri valori. La morale vista come qualcosa di esterno, di comune, cioè, secondo l’analisi che abbiamo proposta, la dimensione etica, deve essere cancellata. Essa è la morale del gregge, di chi è incapace di dare un senso al mondo e all’esistenza e segue i comandamenti dati da altri o imposti dalla tradizione.

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T37 Nietzsche: Dall’uomo all’oltreuomoDelle tre metamorfosi.

Tre metamorfosi io vi nomino dello spirito: come lo spirito diventa cammello, e il cammello leone, e infine il leone fanciullo.

Molte cose pesanti vi sono per lo spirito, lo spirito forte e paziente nel quale abita la venerazione: la sua forza anela verso le cose pesanti, più difficili a portare. Che cosa è gravoso? domanda lo spirito paziente — e piega le ginocchia, come il cammello, e vuol essere ben caricato. Qual è la cosa più gravosa da portare, eroi? — così chiede lo spirito paziente, — affinché io la prenda su di me e possa rallegrarmi della mia robustezza. Non è forse questo: umiliarsi per far male alla propria alterigia? Far rilucere la propria follia per deridere la propria saggezza? Oppure è: separarsi dalla propria causa quando essa celebra la sua vittoria? Salire sulle cime dei monti per tentare il tentatore? Oppu-re è: nutrirsi delle ghiande e dell’erba della conoscenza e a causa della verità soffrire la fame dell’anima? Oppure è: essere ammalato e mandare a casa coloro che vogliono consolarti, e invece fare amicizia coi sordi, che mai odono ciò che tu vuoi? Oppure è: scendere nell’acqua sporca, purché sia l’acqua della verità, senza respingere rane fredde o caldi rospi? Oppure è: amare quelli che ci disprezzano e porgere la mano allo spet-tro quando ci vuol fare paura? Tutte queste cose, le più gravose da portare, lo spirito paziente prende su di sé: come il cammello che corre in fretta nel deserto sotto il suo carico, così corre anche lui nel suo deserto.

Ma là dove il deserto è più solitario avviene la seconda metamorfosi: qui lo spirito diventa leone, egli vuol come preda la sua libertà ed essere signore nel proprio deserto. Qui cerca il suo ultimo signore: il nemico di lui e del suo ultimo dio vuol egli diventare, con il grande drago vuol egli combattere per la vittoria. Chi è il grande drago, che lo spirito non vuol più chiamare signore e dio? «Tu devi» si chiama il grande drago. Ma lo spirito del leone dice «io voglio». «Tu devi» gli sbarra il cammino, un rettile dalle squa-me scintillanti come l’oro, e su ogni squama splende a lettere d’oro «tu devi!». Valori millenari rilucono su queste squame e così parla il più possente dei draghi: «Tutti i va-lori delle cose risplendono su di me». «Tutti i valori sono già stati creati, e io sono ogni valore creato. In verità non ha da essere più alcun «io voglio»!». Così parla il drago. Fra-telli, perché il leone è necessario allo spirito? Perché non basta la bestia da soma, che a tutto rinuncia ed è piena di venerazione? Creare valori nuovi — di ciò il leone non è ancora capace: ma crearsi la libertà per una nuova creazione — di questo è capace la potenza del leone. Crearsi la libertà e un no sacro anche verso il dovere: per questo, fratelli, è necessario il leone. Prendersi il diritto per valori nuovi — questo è il più ter-ribile atto di prendere, per uno spirito paziente e venerante. In verità è un depredare per lui e il compito di una bestia da preda. Un tempo egli amava come la cosa più sacra il «tu devi»: ora è costretto a trovare illusione e arbitrio anche nelle cose più sacre, per predar via libertà dal suo amore: per questa rapina occorre il leone.

Ma ditemi, fratelli, che cosa sa fare il fanciullo, che neppure il leone era in grado di fare? Perché il leone rapace deve anche diventare un fanciullo? Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì. Sì, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sì: ora lo spirito vuole la sua volontà, il perduto per il mondo conquista per sé il suo mondo. Tre metamorfosi vi ho nominato dello spirito: come lo spirito divenne cammello, leone il cammello, e infine il leone fanciullo.

(Così parlò Zarathustra, Delle tre metamorfosi, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi, 1977, vol. VI, tomo I, pp. 23-25)

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Nella concezione hegeliana, l’eticità coincide con un significato morale che si realizza nel-la storia e nelle istituzioni umane e nel cui ambito l’uomo si forma. Per questo, l’eticità ha sempre un significato collettivo. La posizione di Nietzsche è diametralmente opposta. L’uomo nuovo, il superuomo, è creatore di valori e non deriva il senso del mondo da nul-la di esterno a se stesso. L’eticità di Hegel è, nel brano riportato sopra, il peso portato dal cammello, qualcosa di subìto e di estraneo, il “tu devi” che il leone deve abbattere. Ma il superuomo non è il leone, distruttore dei vecchi valori; è il bambino che inventa, in prima persona, il significato del mondo.

T38 Nietzsche: La morale dei signori e la morale degli schiaviVagabondando tra le molte morali, più raffinate e più rozze, che hanno dominato fino a oggi o dominano ancora sulla terra, ho rinvenuto certi tratti caratteristici, periodi-camente ricorrenti e collegati tra loro: cosicché mi si sono finalmente rivelati due tipi fondamentali e ne è balzata fuori una radicale differenza. Esiste una morale dei signori e una morale degli schiavi — mi affretto ad aggiungere che in tutte le civiltà superiori e più ibride risultano evidenti anche tentativi di mediazione tra queste due morali e, an-cor più frequentemente, la confusione dell’una nell’altra, nonché un fraintendimento reciproco, anzi talora il loro aspro confronto — persino nello stesso uomo, dentro la stessa anima. Le differenziazioni morali di valore sono sorte o in mezzo a una stirpe dominante, che con un senso di benessere acquistava coscienza della propria distinzio-ne da quella dominata, oppure in mezzo ai dominati, gli schiavi e i subordinati di ogni grado. Nel primo caso, quando sono i dominatori a determinare la nozione di «buono», sono gli stati di elevazione e di fierezza dell’anima che vengono avvertiti come il tratto distintivo e qualificante della gerarchia. [...] È un fatto palmare che le designazioni morali di valore sono state ovunque primieramente attribuite a uomini e soltanto in via derivata e successiva ad azioni: per cui è un grave errore che gli storici della morale prendano come punto di partenza problemi quali «perché è stata lodata l’azione pie-tosa?». L’uomo di specie nobile sente se stesso come determinante il valore, non ha bisogno di riscuotere approvazione, il suo giudizio è «quel che è dannoso a me, è dan-noso in se stesso», conosce se stesso come quel che unicamente conferisce dignità alle cose, egli è creatore di valori. Onorano tutto quanto sanno appartenere a sé: una siffatta morale è autoglorificazione. Sta in primo piano il senso della pienezza, della potenza che vuole straripare, la felicità della massima tensione, la coscienza di una ricchezza che vorrebbe donare e largire — anche l’uomo nobile presta soccorso allo sventurato, ma non o quasi non per pietà, bensì piuttosto per un impulso generato dalla sovrab-bondanza di potenza.

[...]Diversamente stanno le cose per quanto riguarda il secondo tipo di morale, la

morale degli schiavi. Posto che gli oppressi, i conculcati, i sofferenti, i non liberi, gli insicuri e stanchi di se stessi, facciano della morale, che cosa sarà l’elemento omo-geneo nei loro apprezzamenti di valore? Probabilmente troverà espressione un pes-simistico sospetto verso l’intera condizione umana, forse una condanna dell’uomo unitamente alla sua condizione. Lo schiavo non vede di buon occhio le virtù dei potenti: è scettico e diffidente, ha la raffinatezza della diffidenza per tutto quanto di «buono» venga tenuto in onore in mezzo a costoro —, vorrebbe persuadersi che tra quelli la stessa felicità non è genuina. All’opposto vengono messe in evidenza

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e inondate di luce le qualità che servono ad alleviare l’esistenza ai sofferenti: sono in questo caso la pietà, la mano compiacente e soccorrevole, il calore del cuore, la pazienza, l’operosità, l’umiltà, la gentilezza a esser poste in onore — giacché sono queste, ora, le qualità più utili e quasi gli unici mezzi per sopportare il peso dell’esi-stenza. La morale degli schiavi è essenzialmente morale utilitaria. Ecco il focolare dove è nato quel famoso contrasto tra «buono» e «malvagio» — nell’intimo del male si avverte la potenza e la pericolosità, una certa terribilità, finezza e forza, che soffoca il disprezzo alle radici.

(Al di là del bene e del male, par. 260, in Opere, vol. VI, tomo II, pp. 178-79, 180-81)

La morale, nella prospettiva di Nietzsche, è espressione di ciò che l’individuo è: i de-boli hanno bisogno di una morale data dall’esterno, di una morale della rassegnazione e della consolazione; i signori sono i creatori di valori, coloro che non hanno bisogno di comandamenti che stabiliscano il senso del mondo, ma si fanno essi stessi senso del mon-do. “Buono” o “cattivo”, scrive Nietzsche, non deve riferirsi a norme o ad azioni, ma agli uomini, al modo di essere dei singoli.

Ovviamente, in una prospettiva così marcatamente individualistica, il problema del di-ritto non si pone. L’unica legge dell’individuo è la “volontà di potenza”, la necessità di espandere il proprio essere, di accrescere la propria forza vitale.

7.5 La fondazione della scienza del diritto e della moraleLa stretta connessione tra diritto e morale è riaffermata, in prospettiva diversa ri-spetto a Hegel, dal neocriticismo. Hermann Cohen (1842-1918) assegna al diritto, nel contesto delle scienze dello spirito, la stessa funzione che la matematica svolge nelle scienze naturali. Cohen si interroga sui motivi per cui Kant ha proposto, nella Critica della ragion pura, una fondazione delle scienze della natura e non è riuscito, invece, nella Critica della ragion pratica, a fare lo stesso per la morale, o in generale per le scienze dello spirito.

T39 Cohen: Il diritto e la fondazione della scienza moraleVedremo più tardi come sia accaduto che Kant abbia tralasciato, non soltanto per l’ap-plicazione, questo esito della ricerca, cosicché soltanto più tardi, in una redazione a parte, ha trattato questi problemi come parte di una metafisica costruttiva1. In ogni modo l’applicazione psicologica viene delimitata nel suo significato da quest’altra ap-plicazione: non sono il dovere o i postulati a costituire il nocciolo di questo problema, che si trova piuttosto nella dottrina del diritto e negli istituti giuridici. Ugualmente si collocano i postulati rispetto alla dottrina della religione e alla costituzione della reli-gione. E infine non è tanto nella psicologia dell’uomo, quanto piuttosto nel problema di una storia dell’umanità, che l’applicabilità della legge morale deve sostenere la sua autentica prova.

(La fondazione dell’etica kantiana, Introduzione, pp. 27-28)

1. Cohen si riferisce alla Metafisica dei costumi, 1797, e particolarmente alla parte I, Principi metafisici della dottrina del diritto.

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Il limite di Kant, secondo Cohen, è rappresentato dal fatto che ha tentato di fondare la morale sulla nozione del dovere o sui postulati della ragion pratica, non ricono-scendo il piano dell’esistenza oggettiva e analizzabile della morale stessa, cioè il diritto.

Il diritto costituisce il fondamento della morale anzi, riprendendo la definizione he-geliana, dell’etica. Cohen infatti non distingue tra morale e etica, ma riferendosi al diritto mette ovviamente tra parentesi l’ambito individuale. Il diritto è considerato come il piano osservabile della morale, esterno all’individuo e codificato; proprio per questo può costituire, a differenza della morale come interiorità dell’individuo, oggetto di scienza.

La fondazione, nel senso kantiano del termine, di una scienza del diritto è riproposta, nella filosofia più recente, da Hans Kelsen (1881-1973). Egli riprende la distinzione netta del diritto dalla moralità, riaffermandone la specificità e la fondazione autonoma sia dalla morale, sia dall’ideologia o dalla politica. “Diritto” deve essere considerato soltanto quello “positivo” (positivismo giuridico), cioè quello codificato, espresso in leggi scritte. La prospettiva hegeliana aveva evidenziato i propri limiti e i pericoli po-tenziali durante le tragiche vicende del Novecento, quando l’eticità come sentire co-mune di un popolo e la morale come interiorizzazione del diritto erano state assunte come base teorica del totalitarismo, sia da parte del fascismo e del nazismo, sia da parte dello stalinismo. Per questo, secondo Kelsen, è necessario procedere a una fonda-zione razionale del diritto, o, come recita il titolo della sua opera più significativa, di una Dottrina pura del diritto (1933), tale da basare la legittimità delle norme unicamente sulla loro validità razionale.

T40 Kelsen: L’autonomia del dirittoSono trascorsi più di due decenni da quando ho intrapreso a svolgere una dot-trina pura del diritto, cioè una dottrina depurata da ogni ideologia politica e da ogni elemento scientifico naturalistico, una dottrina giuridica, cosciente del suo carattere particolare dovuto alla autonomia del suo oggetto. Anzitutto, il mio scopo è stato quello di elevare la giurisprudenza, che palesemente od occulta-mente si dissolveva quasi del tutto nel ragionamento politico-giuridico, all’altez-za di una scienza autentica, di una scienza dello spirito. Si trattava di sviluppare le sue tendenze dirette non alla creazione, ma esclusivamente alla conoscenza del diritto1, e di avvicinare il più possibile i suoi risultati all’ideale della scienza: oggettività ed esattezza.

(Lineamenti di una dottrina pura del diritto, Prefazione dell’autore, tr. di R. Treves, Einaudi, Torino, 1970, p. 41)

1. Kantianamente, la fondazione “pura” non è tesa alla proposizione di contenuti, ma all’analisi delle condizioni di conoscibilità scientifica di un ambito, quello del diritto, già esistente.

Nella prospettiva del positivismo giuridico, Kelsen distingue nettamente tra norma giu-ridica e norma morale, escludendo una qualunque derivabilità dell’una dall’altra.

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T41 Kelsen: Norma giuridica e norma moraleLa dottrina pura del diritto si sforza [...] di distinguere totalmente il concetto della norma giuridica da quello della norma morale da cui è sorto e assicura l’autonomia del diritto anche di fronte alla legge morale. Questo avviene facendo in modo che la norma giuridica, contrariamente alla dottrina tradizionale, venga intesa non come im-perativo al pari della norma morale, ma bensì come giudizio ipotetico che esprime il rapporto specifico di un fatto condizionante con una conseguenza condizionata. La norma giuridica diventa la proposizione giuridica che esprime la forma fondamentale della legge. Come la legge naturale connette un determinato fatto come causa a un altro come effetto, così la legge giuridica connette la condizione con la conseguenza del diritto (cioè con la così detta conseguenza dell’illecito). Nell’un caso la forma della connessione dei fatti è la causalità, nell’altro è l’imputazione in cui la dottrina pura del diritto ravvisa la speciale struttura del diritto. Come l’effetto è attribuito alla sua cau-sa, così la conseguenza giuridica è attribuita alla sue condizione giuridica, ma quella non può essere considerata come causalmente prodotta da questa. La conseguenza del diritto (o della violazione del diritto) è imputata alla condizione giuridica. Questo è il significato dall’asserzione: qualcuno sarà punito «a causa» d’un delitto; l’esecuzione contro il patrimonio di qualcuno ha luogo «a causa» d’un debito non pagato. Il rappor-to tra la pena e il delitto, tra l’esecuzione e l’illecito civile non ha un significato causale, ma bensì un significato normativo. L’espressione di questo rapporto designato come «imputazione» (che è insieme l’espressione dell’esistenza specifica del diritto, della sua validità, cioè del significato particolare in cui sono posti nel loro reciproco rapporto i fatti appartenenti al sistema del diritto) non è altro che il dover essere (das Sollen) con cui da dottrina pura del diritto rappresenta il diritto positivo; così come la necessità (das Müssen) è l’espressione della legge di causalità.

(Lineamenti di una dottrina pura del diritto, III.11, tr. di R. Treves, Einaudi, Torino, 1970, pp. 63-64)

Kelsen ammette che la norma giuridica sorge da quella morale, ma sottolinea la necessità di scindere i due aspetti. Alla netta separare della morale dal diritto corrisponde l’esclu-sione di qualsiasi oggettivazione della morale in senso hegeliano. L’eticità, assimilabile in un certo senso ai valori culturali, non ha per lui nessuna rilevanza giuridica e deve anzi essere messa tra parentesi, come espressione di particolarità nazionali o comunque le-gate ai singoli popoli, che non hanno rilievo nella costruzione di una teoria positiva del diritto. Il fine di tale teoria è infatti quello di proporsi come valida per l’intera umanità, in modo da costituire il fondamento di un diritto internazionale al quale ogni singolo Stato sia subordinato, per evitare conflitti o aberrazioni come il nazismo o il fascismo, che si erano presentati come espressione di intere nazioni.

8. Politica e coscienza nella filosofia del NovecentoIl Novecento è il secolo della democrazia e del totalitarismo, in un percorso attraversato dalle due guerre mondiali. È l’epoca della rivoluzione russa e dell’utopia socialista ma an-che delle deportazioni di massa e delle purghe staliniane. È l’epoca della guerra fredda tra due modelli, il capitalismo e il socialismo reale, che si caratterizzano, negli slogan propa-

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gandistici contrapposti, l’uno per la libertà l’altro per la giustizia come valori portanti. È l’epoca, infine, negli ultimi decenni del secolo, della crisi dell’autorità e dell’affermazione dell’individuo come unica autorità morale, ma anche del recupero della comunità e dei valori delle minoranze che si contrappongono alla massificazione postindustriale e alla globalizzazione.

Per i rapidi e profondi cambiamenti e le molte tensioni che percorrono i diversi momen-ti del “lungo secolo”, l’etica ha assunto una nuova centralità nella riflessione filosofica del Novecento. Non ne ricostruiremo tutti i passaggi, ma ci limiteremo a presentare alcuni momenti particolarmente significativi di un dibattito complesso e non ancora esaurito.

8.1. La centralità del “politico” nel pensiero di SchmittLa concezione politica di Schmitt è vicina per alcuni aspetti al totalitarismo. Egli fu, in-fatti, un sostenitore del nazismo, giustificò le leggi razziali e le guerre hitleriane, anche se dopo il 1936 venne sostanzialmente emarginato dal regime tanto che, processato a Norimberga per connivenza con il nazismo, venne assolto.

Il tema centrale della riflessione di Carl Schmitt è la questione della sovranità, definita per lo Stato moderno da Bodin in un modo però non più adeguato per la realtà nove-centesca. Dire che il sovrano è colui che detiene il potere, o che nello Stato contempora-neo sovrana è la legge, non risolve il problema, perché lascia in sospeso l’origine della sovranità e della legge stessa. La sovranità deve essere definita, quindi, in relazione a ciò che precede lo Stato “normale” e la legge, come origine del processo. Per questo, secondo Schmitt, occorre partire dallo stato di eccezione, in cui non esiste la legge o è stata revocata, perché in questa situazione è possibile individuare la fonte dell’autorità e della sovranità.

Il diritto non può essere considerato un sistema formale, come vuole il liberalismo, né lo Stato come il risultato di un patto. Lo Stato ha le sue radici nella storia di un popolo e il diritto nei valori di questo stesso popolo. Ma perché si passi da una semplice comunan-za storico-culturale a un’organizzazione statale è necessario che qualcuno (individuo o gruppo) affermi la propria autorità sulla società ed imponga il potere. L’ambito del politico nasce, separandosi da quello del sociale, quando, in seguito a una decisione, viene scelto un sistema di diritto, vengono stabilite le leggi fondamentali, viene fondato il potere.

Perché ciò avvenga è però necessaria una condizione: l’esistenza di un “nemico”, nel senso del diverso, di chi “non è come noi”. Questa condizione, vera e propria categoria del po-litico come ambito specifico, è importante per due aspetti: 1. costituisce il fondamento dell’identità (di gruppo, di comunità o nazionale) come riconoscimento di valori con-trapposti a quelli dell’altro, del “nemico”; 2. costituisce la legittimazione del potere, ne-cessario per la contrapposizione al “nemico” o per la guerra.

Il nemico non è l’avversario della tradizione liberale, il concorrente da combattere all’in-terno di un sistema di leggi comuni, ma è il “nemico pubblico”, contro cui fare eventual-mente guerra, il diverso in contrapposizione al quale una nazione o un popolo avvertono la specificità e la forza dei valori comuni.

Schmitt non sostiene l’inevitabilità della guerra, ma la sua eventualità, l’esistenza di un orizzonte di contrapposizione come base dell’identità comune e dell’autorità politica e come fondamento di valori comuni che saldino moralità e politica.

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T42 Schmitt: La funzione della guerraLa guerra non è dunque scopo e meta o anche solo contenuto della politica, ma ne è il presupposto sempre presente come possibilità reale, che determina in modo parti-colare il pensiero e l’azione dell’uomo provocando così uno specifico comportamento politico. Per questa ragione il criterio della distinzione amico-nemico non significa neppure che un determinato popolo debba essere per l’eternità l’amico o il nemico di un determinato altro popolo, o che la neutralità non sia possibile o non possa essere una scelta politicamente valida. Solo che anche il concetto di neutralità, come ogni altro concetto politico, è dominato in ogni caso da questo presupposto finale di una possibilità reale del raggruppamento amico-nemico.[...] Un mondo nel quale sia stata definitivamente accantonata e distrutta la possibilità di una lotta di questo genere, un globo terrestre definitivamente pacificato, sarebbe un mondo senza più la distinzione fra amico e nemico e di conseguenza un mondo senza politica.

(Il concetto di Politico, in Le categorie del «politico», a cura di G. Miglio e P. Schiera, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 117-18)

8.2. La critica della società industriale e il recupero della dimensione autentica dell’uomo

Una vasta parte della filosofia politica del Novecento è fortemente critica verso il totalita-rismo, sia nella sua forma palese (fascismo, nazismo, stalinismo), sia in quella occulta carat-teristica della società industriale. Come esempio di questa critica, che trova nella “scuola di Francoforte” e nel marxismo occidentale” i momenti maggiormente significativi, analizzia-mo il pensiero di Herbert Marcuse, in cui la critica politica muove da un’esigenza morale di realizzazione piena dell’uomo. Il contrasto tra la coscienza e la società esistente, sottoli-neato da tutti i movimenti ricordati, trova la sua espressione nell’esigenza di una profonda trasformazione politica, anche rivoluzionaria, che si tinge spesso di venature utopistiche.

Nell’analisi di Marcuse, capitalismo e socialismo sovietico sono strutturalmente simili, accomunati dal carattere totalitario dello Stato. Nonostante che il primo si presenti con la forma della democrazia parlamentare, la concentrazione monopolistica e la stretta simbiosi tra economia e politica ne fanno un capitalismo di Stato che subordina a sé e fagocita la società civile.

Nel liberalismo classico, la coscienza individuale era completamente indipendente dallo Stato, mentre la nuova società tecnologia, la società di massa e dei consumi, seppure attraverso mezzi indiretti, finisce non solo per condizionare, ma addirittura per trasfor-mare le coscienze individuali.

Nonostante che la società tecnologica affermi il principio della libertà, nei fatti esercita condizionamenti tali da vanificarla completamente, indirizzando gli individui verso un consenso e un conformismo generalizzati.

T43 Marcuse: La non-libertà della civiltà industrialeUna confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico. In verità, che cosa potrebbe essere più razionale della soppressione dell’individualità nel corso della meccanizzazione di

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attività socialmente necessarie ma faticose, della concentrazione di imprese individua-li in società per azioni più efficaci e più produttive; della regolazione della libera con-correnza tra soggetti economici non egualmente attrezzati; della limitazione di pre-rogative e sovranità nazionali che impediscono l’organizzazione internazionale delle risorse. Che questo ordine tecnologico comporti pure un coordinamento politico ed intellettuale è uno sviluppo che si può rimpiangere, ma che è tuttavia promettente. I diritti e le libertà che furono fattori di importanza vitale alle origini e nelle prime fasi della società industriale cedono il passo ad una fase più avanzata di questa: essi vanno perdendo il contenuto e il fondamento logico tradizionali. Le libertà di pensiero, di parola e di coscienza erano essenzialmente idee critiche, al pari della libera iniziativa, che servivano a promuovere e a proteggere, intese com’erano a sostituire una cultura materiale e intellettuale obsolescente con una più produttiva e razionale. Una volta istituzionalizzati questi diritti e libertà condivisero il fato delle società di cui erano divenuti parte integrante. La realizzazione elimina le premesse. Nella misura in cui la libertà dal bisogno, sostanza concreta di ogni libertà, sta diventando una possibilità reale, le libertà correlate ad uno stato di minore produttività vanno perdendo il conte-nuto di un tempo. L’indipendenza del pensiero, l’autonomia e il diritto all’opposizione politica sono private della loro fondamentale funzione critica in una società che pare sempre meglio capace di soddisfare i bisogni degli individui grazie al modo con cui è organizzata. Una simile società può richiedere a buon diritto che i suoi princìpi e le sue istituzioni siano accettate come sono, e ridurre l’opposizione al compito di discutere e promuovere condotte alternative entro lo status quo. Sotto questo aspetto, il fatto che la capacità di soddisfare bisogni in misura crescente sia assicurata da un sistema auto-ritario o da uno non autoritario sembra fare poca differenza. In presenza di un livello di vita via via più elevato, il non conformarsi al sistema sembra essere socialmente inutile, tanto più quando la cosa comporta tangibili svantaggi economici e politici e pone in pericolo il fluido operare dell’insieme.

(L’uomo a una dimensione, cap. i, tr. di L. Gallino e T. Giani Gallino, Torino, Einaudi, 1969, pp. 21-22)

Marcuse, che si richiama a Hegel e a Marx, è consapevole del rapporto dialettico tra indi-viduo e società e della pervasività delle istituzioni e delle dinamiche sociali, che formano la coscienza dei singoli. Per questo, la moderna società tecnologica occidentale ha in sé una “tendenza totalizzante”, basata non sulla costrizione, ma sul mito dell’efficienza, della produttività e dei consumi.

T44 Marcuse: Il rischio de totalitarismoIn virtù del modo con cui ha organizzato la propria base tecnologica, la società in-dustriale contemporanea tende ad essere totalitaria. Il termine «totalitario», infatti, non si applica soltanto ad una organizzazione politica terroristica della società, ma anche ad una organizzazione economico-tecnica, non terroristica, che opera mediante la manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti. Essa preclude per tal via l’emergere di una opposizione efficace contro l’insieme del sistema. Non soltanto una forma specifica di governo o dominio partitico producono il totalitarismo, ma pure un sistema specifico di produzione e di distribuzione, sistema che può essere benissimo

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compatibile con un «pluralismo» di partiti, di giornali, di «poteri controbilanciantisi», ecc. Al presente il potere politico si afferma in forza del potere che detiene sulla pro-duzione per mezzo di macchine e sull’organizzazione tecnica dell’apparato. Il governo delle società industriali avanzate e di quelle in sviluppo può reggersi e garantirsi so-lamente quando riesce a mobilitare, organizzare e sfruttare la produttività tecnica, scientifica e meccanica di cui la civiltà industriale può disporre. A sua volta questa produttività mobilita la società nel suo insieme, al di sopra e al di là di ogni particolare interesse individuale e di gruppo.

(L’uomo a una dimensione, cap. i, p. 23)

L’alternativa suggerita da Marcuse è il recupero di una dimensione umana autentica, della coscienza individuale, eliminando le strutture e le istituzioni che la massificano e la appiattiscono verso il consenso politico acritico.

T45 Marcuse: Superare il consumismoCodesti nuovi modi possono venire indicati solo in termini negativi poiché equivar-rebbero alla negazione dei modi che ora prevalgono. In tal senso, libertà economica significherebbe libertà dalla economia, libertà dal controllo di forze e relazioni eco-nomiche; libertà dalla lotta quotidiana per l’esistenza, dal problema di guadagnarsi la vita. Libertà politica significherebbe liberazione degli individui da una politica su cui essi non hanno alcun controllo effettivo. Del pari la libertà intellettuale equivarrebbe alla restaurazione del pensiero individuale, ora assorbito dalla comunicazione e dall’in-dottrinamento di massa, ed equivarrebbe pure all’abolizione dell’«opinione pubblica», assieme con i suoi produttori. Il suono irrealistico che hanno queste proposizioni è indicativo non tanto del loro carattere utopico, quanto dell’intensità delle forze che impediscono di tradurle in atto. La forma più efficace e durevole di lotta contro la libe-razione è la coltivazione di bisogni materiali e intellettuali che perpetuano forme obso-lete di lotta per l’esistenza.[...] È possibile distinguere tra bisogni veri e bisogni falsi. I bisogni «falsi» sono quelli che vengono sovraimposti all’individuo da parte di interessi sociali particolari cui preme la sua repressione: sono i bisogni che perpetuano la fatica, l’aggressività, la miseria e l’ingiustizia. Può essere che l’individuo trovi estremo piacere nel soddisfarli ma questa felicità non è una condizione che debba essere conservata e protetta se serve ad arrestare lo sviluppo della capacità (sua e di altri) di riconoscere la malattia dell’insieme e afferrare le possibilità che si offrono per curarla. Il risulta-to è pertanto una euforia per mezzo dell’infelicità. La maggior parte dei bisogni che oggi prevalgono, il bisogno di rilassarsi, di divertirsi, di comportarsi e di consumare in accordo con gli annunci pubblicitari, di amare e odiare ciò che altri amano e odiano, appartengono a questa categoria di falsi bisogni.

(L’uomo a una dimensione, cap. i, pp. 24-25)

8.3 Heller: eticità e moraleNella società contemporanea, postindustriale, l’individuo sembra aver riacquistato, se-condo Ágnes Heller, una nuova centralità in ambito morale: sono venute meno le coerci-zioni del costume e della religione, sono cadute anche quelle della politica e del totalitari-smo e l’individuo deve rispondere solo a se stesso delle proprie scelte.

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Heller giunge a questa conclusione partendo da un recupero del concetto hegeliano di “eticità”, con richiami anche espliciti al concetto di “Sittlichkeit” (costume, eticità), che analizza in particolare nell’opera Etica generale (1989). Heller vede uno stretto legame tra morale e eticità, legame che non rimane però costante nella storia, ma subisce una trasformazione progressiva, da una prevalenza iniziale della dimensione etica, fino all’affermazione della moralità fondata sulla coscienza individuale, propria dell’epoca contemporanea.

T46 Heller: Le condizioni della moralePer sintetizzare in una frase tutte le condizioni della virtù, una persona può essere virtuosa se ha una relazione cosciente e auto-cosciente con le norme e i valori della co-munità (società) di cui è membro e se le sue azioni sono sempre coerentemente guida-te da questa relazione. Seguendo Hegel, possiamo definire le norme e i valori coi quali la persona ha una relazione consapevole “costumi morali” (Sittlichkeit), e la relazione consapevole in sé moralità.

(Le condizioni della morale, tr. di V. Franco, Roma, Editori Riuniti, 1985, pp. 25-26)

Relazione con la comunità e consapevolezza non sono costanti nella storia. Heller delinea diverse epoche della moralità. Nel passato, prevaleva “l’etica della vergogna”, quella, cioè, regolata dalle reazioni della società al comportamento del singolo. Più tardi si è affermata l’etica della coscienza, basata sulla interiorizzazione dei valori. L’etica della modernità è invece caratterizzata da un prevalere della consapevolezza individuale e da scelte sempre meno dipendenti dall’approvazione del gruppo di riferimento o da valori comuni.

T47 Heller: Etica e storicitàI filosofi che vogliono argomentare a favore e non contro la morale, anche se argomen-tano contro un particolare modo di pensare la bontà, contro una particolare morale, affrontano la questione di come siano possibili le persone buone con estrema serietà. Ci sono varie risposte a questa domanda. Con qualche esagerazione, si potrebbe persi-no sostenere che ci sono tante risposte quante sono le filosofie morali. Dal mio punto di vista, la questione stessa deve ora essere formulata di nuovo, ma questa volta in due distinte forme. Credo inoltre, che due risposte separate, ma non prive di connessioni, debbano essere fornite a questa questione. La prima domanda è, dunque, quella vec-chia e generale, che è sempre stata la stessa: «Le buone persone esistono – come sono possibili?». La seconda domanda è di carattere «situato» e si presenta così come una particolare modificazione di quella generale: «Le buone persone esistono ora, come sono ora possibili?». Se nella modernità avesse subìto un mutamento sostanziale sol-tanto il contenuto delle norme, delle virtù e delle idee morali, la duplicazione di questa domanda non sarebbe né rilevante né ragionevole. In verità, il contenuto delle norme, delle virtù e delle idee morali è cambiato sempre – esse sono sempre state di natura variabile, e lo sono ancora nelle società contemporanee, sia di tipo tradizionale sia di tipo moderno. D’altra parte, non è particolarmente difficile fissare alcune costanti nel

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contenuto dei valori, e persino delle virtù, all’interno di una stessa tradizione culturale o persino in tutte le culture a noi note. E la nostra società non costituisce un’eccezione sotto questo riguardo. Così ciò che giustifica la duplicazione della domanda (e della risposta) non è il cambiamento nel contenuto, ma il cambiamento nella struttura.

A grandi linee, si possono distinguere due fondamentali cambiamenti strutturali nella morale. Il primo ha avuto luogo, all’incirca tremila anni fa, nell’ambito di alcune civiltà, con la vera e propria differenziazione, nella condotta umana, tra la regolazio-ne della vergogna e la regolazione della coscienza. Il secondo è avvenuto, nel recente passato della nostra epoca, con la simultanea universalizzazione, pluralizzazione e in-dividualizzazione della morale. La nascita della filosofia morale (e della filosofia in generale) fu dovuta al primo cambiamento strutturale.

La questione «Le buone persone esistono – come sono possibili?» poté essere posta in virtù di questo cambiamento strutturale. Buone persone esistono ora – questa è una prova sufficiente del fatto che ora esse sono possibili. Ma come sono possibili ora? Secondo me, la risposta a questa domanda non soltanto si differenzia da qualsiasi pre-cedente risposta particolare, ma persino da tutte queste risposte fra loro combinate. Precisamente perché la struttura della morale è cambiata nella modernità, ed è ancora in un processo di cambiamento, la risposta deve essere consapevolmente individuata nel mondo moderno nel quale sono avvenute queste trasformazioni strutturali: deve essere individuata in quello stesso mondo in cui la struttura della morale si è sempre più fissata nella forma della universalizzazione, della pluralizzazione e della individua-lizzazione.

(Etica generale, Introduzione, tr. di M. Geuna, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 44-46)

Il rapporto tra un comportamento umano regolato dalla vergogna a quello regolato dalla coscienza, alla morale, infine, dell’universalità, può essere espresso come un progressivo prevalere della morale sull’etica. L’uomo ha una disposizione genetica verso la moralità, che in passato veniva plasmata e indirizzata dalla società in cui era educato. Nel mondo contemporaneo, il venir meno di gruppi di riferimento stabili e di modelli comportamen-tali uniformi riduce sempre di più quello che la Heller definisce “a priori sociale”. Nella mo-dernità, la morale è sempre maggiormente determinata dalla coscienza dell’individuo e sempre meno dai costumi e dalle norme del gruppo. Questa autonomia dell’individuo dalle norme sociali può avere, secondo la Heller, due esiti differenziati e in buona misura contrapposti.

T48 Heller: Morale e modernitàLa morale è stata qui definita come la relazione pratica dell’individuo con le norme e le regole della condotta giusta. Il primo cambiamento strutturale della morale si ebbe con l’emergere dell’aspetto soggettivo di quella relazione, attraverso la differenziazione dell’autorità in autorità esterna ed interna, e attraverso la differenziazione dei coinvol-gimenti prodotti da queste due forme di autorità (la vergogna e la coscienza)1. Il secon-

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1. La vergogna (primo periodo) è il riconoscimento di un’autorità esterna (il giudizio degli altri). La coscienza corrisponde (secondo periodo) all’interiorizzazione dell’autorità, per cui si risponde del proprio comportamento di fronte a se stessi; in entrambi i casi l’autorità, ciò che stabilisce le norme, è sempre la società, anche se nel secondo caso è interiorizzata.

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do cambiamento strutturale della morale si sviluppò a partire dal crescente squilibrio tra l’autorità esterna e l’autorità interna. Questo secondo cambiamento, tuttavia, non ha carattere unidirezionale. Lo squilibrio crescente può cristallizzarsi in due distinte strutture. L’autorità interna (la coscienza)2 può agire come arbitro ultimo nella scelta dell’azione e nella formulazione del giudizio sulla condotta umana. Essa può anche agi-re come unico arbitro in queste materie. Sebbene la seconda struttura si sviluppi suc-cessivamente alla prima, la prima non diventa obsoleta, né viene abbandonata, con lo svilupparsi della seconda. Questa, almeno è la mia speranza, e per la seguente ragione. Mentre l’emergere dell’autorità interna come arbitro ultimo, nella decisione pratica e nel giudizio, può essere considerato un indicatore del progresso morale, perché almeno un sottocaso di quella struttura contribuisce al progresso morale3, l’affermarsi dell’au-torità interna come l’unico arbitro, nella scelta dell’azione e nella formulazione del giudizio sulla condotta umana, rappresenta un regresso morale. Fa parte della dialet-tica della modernità che la contraddizione morale che essa implica non sia né una con-traddizione tra valori né una contraddizione tra norme astratte e norme concrete, ma una contraddizione tra due logiche di sviluppo della sua struttura morale intrinseca.

(Etica generale, cap. VI, p. 195)

2. Nonostante che la Heller impieghi lo stesso termine, la “coscienza” che distingue la modernità è diversa da quella del periodo prece-dente. Nella modernità, le norme morali sono ancora di origine sociale, ma essendo i modelli di riferimento molteplici, la coscienza si pone come arbitro, può scegliere tra norme diverse, nessuna delle quali è “giusta” in via di principio.3. Come vedremo più avanti, dire che la coscienza è arbitro ultimo ma non unico, significa che l’individuo assume la responsabilità delle proprie scelte senza richiamarsi ad autorità esterne, ma lo fa sulla base di ragioni che dimostrino la giustezza dei principi cui le scelte si ispirano. Nel caso accennato dalla Heller, l’individuo sceglie le norme che risultano generalizzabili (non in assoluto, ma relativamente alla propria società e alla propria epoca) e quindi contribuisce all’elaborazione di una morale comune. Sono gli uomini, in quanto individui consapevoli di sé e del proprio rapporto con la collettività, ad elaborare la morale.

In tutt’e due i casi, sia che la coscienza venga intesa come arbitro unico che come arbitro ultimo, il fondamento del bene e del male è l’individuo, e non valori o norme trasmesse dalla tradizione o dall’educazione. Ma nel primo caso, la morale diviene individualistica e si sottrae a ogni possibile definizione o valutazione intersoggettiva. Nel secondo caso (la coscienza come arbitro ultimo) le norme morali vengono argomentate e sostenu-te in un ideale dibattito pubblico. L’individuo accetta di confrontarle e di sostenerle con argomenti razionali, tali cioè da poter essere accettati dagli altri, o da dover essere confutati con altri argomenti. È il singolo che in ultima istanza decide, ma su un terreno comune di confronto e sulla base di argomentazioni pubbliche, comprese – anche se non necessariamente accettate – dagli altri.

T49 Heller: Il bivio etico della modernitàNon c’è scelta morale tra le due strutture, tra la ragione pratica come arbitro ultimo e la ragion pratica come l’unico arbitro, poiché c’è scelta morale solo in presenza di due distinte opzioni morali1. Rispetto alla struttura della morale, non abbiamo alcuna scelta morale. L’impegno per la ragion pratica, intesa come l’arbitro ultimo nella scelta dell’azione e nella formulazione del giudizio sulla condotta, è l’unico impegno morale

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1. In questo caso si tratta invece di una scelta tra strutture, o concezioni, della morale poste su piani diversi, anzi il secondo rappresenta una rinuncia alla morale, che implica sempre la responsabilità nella scelta.

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per noi possibile. Ed intendo un impegno morale. Non possiamo essere certi di un ulteriore stadio di sviluppo morale vale a dire quello per cui ci impegniamo, e che per definizione è più elevato di qualsiasi stadio precedente. La struttura morale moderna non è unidirezionale, ma presenta una biforcazione. L’impegno degli attori decide qua-le tendenza predominerà. Se la struttura che ho chiamato «la coscienza come arbitro ultimo» non si concretizza nel mondo etico, se non diventa «scontata» per gli abitanti dei mondi etici (al plurale), il rischio inerente a questa stessa struttura non può essere superato.

(Etica generale, cap. VI, p. 203)

La Heller, pur muovendo, come si è detto, da presupposti vicini a quelli hegeliani, giunge a distinguere ambito etico e ambito morale, recuperando una prospettiva almeno in parte kantiana, nella quale la morale è fondata sulla razionalità ed è tendenzialmente universalizzabile.

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