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Istituzioni di filosofia a.a. 2008-9 primo semestre Richard Davies Indicazioni di lettura per frequentanti e per non-frequentanti

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Istituzioni di filosofia

a.a. 2008-9 primo semestre

Richard Davies

Indicazioni di lettura per frequentanti

e per non-frequentanti

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Indice Introduzione 4

Obblighi per frequentanti e non-frequentanti 4 (1) Obblighi comuni 4 (2) Obblighi e modalità d’esame per i frequentanti 4 (3) Obblighi e modalità d’esame per i non-frequantanti 4

Programma delle lezioni 5 Testi (in ordine cronologico) Autore testo e parte genere letterario Platone di Atene Eutrifrone, 2-9 dialogo aporetico 8 Fedro, 274-8 dialogo socratico 15

Gorgia, 482-6 declamazione 20 Teeteto, 169-72 dialogo indiretto 23 Aristotele di Stagira Sull’interpretazione, ix trattato di logica 26 Metafisica, IV, iii-iv (part) dimostrazione elenchtica 29 Metafisica, V, xxx lessico 32 Etica nicomachea, I, v raccolta delle cose dette 33 Etica nicomachea, V, i e vii lezione pubblica 34 M.T. Cicerone Tuscolane, V, 7-11 monologo terapico 37 T. Lucrezio Caro La natura delle cose II, 218-91 poema didattico 39 Luciano di Samosata I filosofi all’asta 20-25 teatrino satirico 41 Diogene Laerzio Vite dei filosofi, VII, 36-48 dossografia 44 Giamblico Vita pitagorica, I, xii, biografia esemplare 47 Sant’Agostino Confessioni, XI, 12-8 confessione spirituale 48 Boezio Consolazione, V, iii dialogo consolatorio 52 Sant’Anselmo Proslogion, Proemio e I, 2-5 dialogo teocentrico 55 Eadmero di Bec Vita di Sant’Anselmo, I 25-6 agiografia 58 San Tommaso Sulla Verità, qu 2, art xii quæstio disputata 60 Galileo Galilei (sull’esegesi biblica) consigli epistolari 67 Thomas Hobbes Leviatano, III, 37 esegesi etimologica 68 Renato Cartesio Il mondo, 5-7 speculazione fisica 74 Meditazioni, Sinossi e II monologo paranoico 83 Benedetto Spinoza Trattato Teologico-Politico, vi esegesi biblica 91 G.W. Leibniz Discorso di metafisica, vi-vii trattato articolato 96 David Hume ‘Sui miracoli’ argumentum ad hominem 98 Immanuel Kant ‘Nota sul genio’ appunti per lezione universitaria 103 P.S. De La Place Sulla probabilità, ii divulgazione matematica 104 Friedrich Nietzsche ‘Verità e bugie…’ saggio provocatorio 106 J. Cowper Powys Wolf Solent, cap. 5 romanzo 115 Casimir Lewy Significato e modalità, 2 trattato accademico (‘analitico’) 117 Massimo Cacciari ‘L’invenzione dell’individuo’ articolo di rivista intellettuale (‘continentale’) 123

Letture autonome 126

Percorsi di approfondimento per i non-frequentanti 126 Strumenti di consultazione 128

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Introduzioni generali alla filosofia 129 ‘Parafilosofia’ 129

Prontuario per la stesura di una tesina 131 Valore 131 Presentazione 131 Conteggio delle parole 131 Originalità 131 Citazioni 132 Note 133 Bibliografia 135

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Introduzione Obblighi per frequentanti e non-frequentanti (1) Obblighi comuni, sia per i frequentanti che per i non-frequentanti (5 crediti formativi

[CFU]) Tutti gli studenti del corso sono tenuti a familiarizzarsi con:

(i) i capitoli 3 e 5 di R. Popkin e A. Stroll, Filosofia per tutti, Net, Milano, 2003 (pp. 139-200 e 239-308)

(ii) i testi contenuti in questa dispensa a pp. 8-126 (2) Obblighi e modalità di esame per i frequentanti (5 CFU) Per la frequenza effettiva si intende la presenza ad almeno due terzi delle lezioni del modulo. L’esame orale verterà sugli argomenti discussi in aula e sui testi di cui sopra (‘Obblighi comuni’).

In aggiunta all’esame orale previsto dalla legge, gli studenti hanno l’opzione di due altre modalità di verifica, che possono concorrere alla valutazione finale.

La prima è un paper scritto a fine modulo. Questo è della durata di due ore e consiste in una scelta di tre domande delle sei proposte concernente il contenuto delle lezioni. Si presuppone una conoscenza della lettura delle parti indicate di Popkin e Stroll, ma questo testo non è oggetto dell’esame.

La seconda modalità alternativa a disposizione dei frequentanti è l’elaborazione di una tesina in 5-10 pagine in linea con le indicazioni fornite più sotto (‘Prontuario per la stesura di una tesina’, pp. 131-6). Gli studenti possono scegliere uno degli argomenti proposti per i non-frequentanti (‘Percorsi di approfondimento’, pp. 126-8) o proporre un percorso personale inerente ai temi del corso; in questo secondo caso è vivamente consigliato previo accordo sulle letture e sul titolo con il docente del corso. Una tesina vale 5 CFU. (3) Obblighi e modalità di esame per i non-frequentanti (5 CFU) I non-frequentanti devono preparare i testi di cui sopra (‘Obblighi comuni’) e preparare uno degli approfondimenti proposti più sotto (‘Percorsi di approfondimento’, pp. 126-8). Per la ‘preparazione’ si intende una lettura accurata e riflessiva, mirata a sostenere un’interrogazione orale sia sull’argomento scelto sia sui testi di base.

Come preparazione all’esame orale previsto dalla legge, i non-frequentanti possono elaborare una tesina di 5-10 pagine in linea con le indicazioni fornite più sotto (‘Prontuario per la stesura di una tesina’ pp. 131-6) o su uno degli argomenti proposti (‘Percorsi di approfondimento’, pp. 126-8) o proponendo un percorso personale inerente ai temi del corso; in questo secondo caso è vivamente consigliato previo accordo sulle letture e sul titolo con uno dei docenti del corso. Una tesina vale 5 CFU.

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Programma delle lezioni

N° lezione

Argomento trattato Testo di riferimento

Disp. pp.

1 Materiali e modalità del corso

2 Il nome ‘filosofia’ e la figura del filosofo – le tre vite – l’uovo filosofico e le sue parti

Cicerone, Tuscolane Giamblico, Vita Aristotele, Etica, I Diogene, Vite

37-8 47 33 44-6

3 L’ironia di Socrate: – la dichiarazione della propria

ignoranza – l’avvio all’interrogazione

Platone, Eutifrone, 2-4

8-10

4 La richiesta di una definizione – l’offerta di esempi – le condizioni necessarie e sufficienti

Platone, Eutifrone, 5-8

10-13

5 Concetti ‘spessi’ e difficili da tradurre – perché la seconda definizione di

Eutifrone è giusta (la ‘pietà’ non è una virtù)

Platone, Eutifrone, 5-8

10-13

6 Il ridicolo della filosofia – termini tecnici e sofismi – un passatempo adatto ai bambini

Luciano, Asta Diogene, Vite Platone, Gorgia

41-3 44-6 20-2

7 Perché i filosofi sono imprigionati dal passato della loro disciplina

– lo storicismo italiano negli studi umanistici

8 La varietà di rapporti esterni della filosofia – con la ‘cultura’ (anche popolare) e con

la letteratura – con le religioni e con le scienze – con la vita pubblica e con quella

quotidiana

9 La formazione di ‘scuole’ filosofiche – concorrenza tra le sette: il feticcio di

Socrate nell’Atene ellenistica – ‘analitici’ vs ‘continentali’ e il

problema della comunicazione

Cacciari, Invenzione Lewy, Significato

123-5 117-23

10 I linguaggi della filosofia e la questione della citazione ‘in originale’

– i presunti vantaggi di certe lingue

Cacciari, Invenzione Lewy, Significato

123-5 117-23

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naturali – i presunti vantaggi di certi formalismi

11 I privilegi del dialogo come genere letterario filosofico

– la possibilità di una saggezza non-scritta

Platone, Fedro 15-9

12 Filosofie, sistemi, atmosfere e metafore – un ruolo per la ‘dimostrazione’ nella

discussione filosofica?

Powys, Wolf Solent 115-6

13 La spinta relativista – la verità come ‘un esercito di

metafore’ – ‘non ci sono fatti, ma solo

interpretazioni’

Nietzsche, ‘Verità e bugie’

106-114

14 Gradi e forme di relativizzazione

15 L’autoconfutazione di Protagora Platone, Teeteto 23-5

16 La difesa ‘elenctica’ della Legge di Contraddizione

Aristotele, Metaf. IV 29-31

17 Un ragionamento basato sull’improponibilità del contrario

– il cogito come ‘ciò che ognuno che può fare per se stesso ma mai per un altro’

Cartesio, Meditazioni

85-90

18 La reductio ad absurdum come arma potente in matematica (e altrove)

– una definizione di Dio – la dimenticabilità dell’illuminazione

Sant’Anselmo, Proslogion Eadmero, Vita

55-7 58

19 La conoscenza di Dio e del tempo creato Sant’Agostino, Confessioni

55-7

20 Preconoscenza divina e fatalismo – un punto di vista atemporale sul tempo – la libertà umana di scegliere il futuro

Boezio, Consolazione San Tommaso, Sulla verità

52-4 60-6

21 Il Principio di Bivalenza e i contingenti futuri Aristotele, Sull’ Interpretazione

26-8

22 Un’Intelligenza che conosce le leggi della natura

– il determinismo causale

La Place, Probabilità

104-5

23 L’ossimoro di ‘legge di natura’ – ‘nomos’ e ‘physis’ – ‘leggere il libro della natura’

Platone, Gorgia Aristotele, Etica V Galilei, due epistole

20-2 34-6 67

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24 L’operato di Dio nello stabilire le regole della fisica

– un esperimento con un ‘mondo nuovo’

Cartesio, Mondo 74-82

25 Eventi senza causa: la deriva atomica – perché il casuale non libera

Lucrezio, Sulla natura

39-40

26 Eventi con molte cause: coincidenze – incidenti ed esiti fortunati – ‘come se fossero’ intenzionali

Aristotele, Metaf. V 32

27 Eventi con cause sovrannaturali – varietà di miracoli, nascosti e palesi – miracoli come messaggi

Hobbes, Leviatano 68-73

28 L’empietà della trasgressione delle leggi stabilite da Dio

Spinoza, Trattato Leibniz, Discorso

91-5 96-7

29 Gli eventi che screditano le testimonianze al loro favore

– la nascita della teoria della probabilità

Hume, ‘Sui miracoli’ 98-102

30 Sinossi delle tappe percorse

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Platone di Atene (427-347 a.C.) Eutifrone

lingua originale: greco

edizione di riferimento: Stephanus (Henri Estienne), Ginevra 1578 tr. it. G. Reale, Bompiani, Milano, 2001

tema: la definizione genere letterario: dialogo aporetico

[Stephanus, vol. I, pag. 2] Incontro di Socrate con Eutifrone davanti al tribunale1 EUTIFRONE: Che c’è di nuovo, Socrate, che hai lasciato i trattenimenti del Liceo per venire

oggi a trattenerti qui intorno al Portico del arconte re? Non credo che anche tu abbia, come ho io, una causa davanti al re.

SOCRATE. Veramente, Eutifrone, questa mia gli Ateniesi non la chiamano una causa, ma un’accusa.

EU Che dici? Qualcuno dunque ha sporto un’accusa contro di te? Perché non ti farò il torto di supporre che tu accusi un altro.

SO No, di certo. EU Ma un altro te? SO Precisamente. EU E chi è costui? SO In coscienza, Eutifrone, neppur io so bene chi egli sia. Deve però essere giovane ed ignoto.

Lo chiamano, se non erro, Meleto, ed è del demo di Pittos. Non hai tu per caso in mente un Meleto Pitteo, con zazzera, poca barba e naso aquilino?

EU Non credo di conoscerlo, Socrate. Ma, insomma, di che ti accusa? L’accusa di empietà e di corruzione dei giovani SO Di che? D’un’accusa che rivela un uomo non comune, mi sembra. Perché, così giovane,

intendersi d’una faccenda così grave, non è affare da nulla. Egli difatti, a quanto afferma, sa in che modo si corrompano i giovani e chi siano quelli che li corrompono. E dev’essere un sapiente; s’è accorto della mia ignoranza, ha visto che corrompo i suoi coetanei, e viene ad accusarmi alla città, come ad una madre comune, mi pare, il solo dei nostri uomini di Stato che cominci bene, giacché è cominciar bene il prendersi cura prima di tutto dei giovani, in modo che riescano ottimi, come il dovere d’un buon agricoltore è aver cura prima delle tenere piante e poi delle altre. E perciò forse anche Meleto [pag. 3] monda il terreno innanzi tutto di noi che corrompiamo, a suo dire, i germogli dei giovani; e in seguito, quando si sarà messo a curare i più anziani, procaccerà evidentemente moltissimi e grandissimi beni alla città, come c’è da aspettarselo da chi comincia a questo modo.

1 I titoletti in neretto sono indicazioni suggerite dal traduttore delle fasi del ragionamento,e non si trovano nel testo platonico (nota di Davies).

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Platone, Eutifrone

9

EU Così fosse, Socrate! Eppure temo assai che non avvenga il contrario. Giacché mi pare che egli cominci a nuocere alla città dal focolare, quando cerca di far male a te. E, di grazia, che cosa fai, secondo lui, per corrompere i giovani?

SO Delle cose enormi, al primo udirle, mio impareggiabile amico. Egli afferma ch’io sono un facitore di dèi; e perché, com’egli pretende, faccio nuovi dèi e non riconosco gli antichi, per questo mi ha accusato.

EU Capisco, Socrate; perché tu dici d’avvertire di tratto in tratto quel tal segno demonico. Egli dunque immaginandosi che tu voglia introdurre delle nuove credenze religiose, perciò ha sporto contro te quest’accusa. E viene in tribunale a calunniarti, perché sa che accuse simili fanno presa facilmente sul volgo. Anche di me, quando nell’assemblea parlo di religione e predico il futuro, anche di me si ride come d’un pazzo; e sebbene io non abbia mai detto nulla di men che vero nelle mie predizioni, tuttavia il volgo è invidioso degli uomini del nostro stampo. Per altro, del volgo non bisogna darsi pensiero, ma affrontarlo animosamente.

SO Mio caro Eutifrone, se non si trattasse che d’esser deriso, sarebbe cosa da nulla. Agli Ateniesi, secondo me, non importa gran fatto se pensano che qualcuno sia un dotto, purché non si eriga a maestro della propria sapienza. Ma quando sospettano che uno voglia comunicarla agli altri, oh! allora montano in collera, o per invidia, come tu dici, o per qualche altro motivo.

EU Quanto a codesto non desidero per niente sperimentare che cosa essi pensino di me. SO Perché forse tu ti metti, mi pare, di rado in evidenza e sei restio ad insegnare la tua

sapienza. Io invece temo di sembrar loro di volere, per la mia grande socievolezza, prodigare a tutti quel che ho in mente, non solo senza compenso, ma anche rimettendoci del mio, ove qualcuno provi gusto ad ascoltarmi. E però se, ripeto, si contentassero di rider di me, come tu dicevi di te, non mi rincrescerebbe affatto passar qualche ora in tribunale, a scherzare e a ridere. Ma se la piglieranno sul serio, nessuno può prevedere come andrà a finire, fuorché voi altri indovini.

EU Probabilmente, Socrate, non avverrà nulla di male; e tu verrai a capo del tuo processo secondo il tuo desiderio, come io, penso, del mio.

L’accusa di omicidio rivolta da Eutifrone contro il padre SO E così, che specie di causa, Eutifrone, è la tua? Ti difendi o persegui? EU Perseguo. SO E chi? [pag. 4] EU Uno che, a perseguirlo, devo sembrarti impazzito. SO Oh, che! persegui forse uno che vola? EU Ma che volare! E’ un vecchio decrepito. SO E chi è? EU Mio padre. SO Tuo padre, mio eccellente amico? EU Mio padre, appunto. SO E che cosa gli rimproveri e di che lo accusi? EU D’omicidio, Socrate. SO Oh, Eracles! la gente, Eutifrone, certo ignora come ciò sia ben fatto, perché non è, credo,

da tutti regolarsi così in un caso simile, ma da uomo assai provetto in fatto di sapienza. EU Sicuro, per Zeus, assai provetto, Socrate.

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Platone, Eutifrone

10

SO E sarà senza dubbio uno dei tuoi familiari la vittima di tuo padre, non è vero? Giacché per un estraneo, penso, non lo accuseresti d’omicidio.

EU E’ ridicolo, Socrate, il credere da parte tua che faccia qualche differenza se il morto sia un estraneo o un familiare, e che non si debba tener conto unicamente di questo: se chi ha ucciso ha ucciso giustamente o no; e se giustamente, lasciarlo andare; se no, dargli addosso, quand’anche l’uccisore viva sotto il tuo tetto e mangi alla tua mensa. Perché il contagio ti s’attacca egualmente, ove tu, sapendolo, viva con un uomo siffatto e non purifichi te e lui, perseguendolo in giudizio. Il morto non era che un mio colono; e poiché possedevamo delle terre a Nasso, serviva lì da noi dietro compenso. Un giorno, preso dal vino e montato in collera contro uno dei nostri servi, lo ammazza; sicché mio padre, fattolo legare mani e piedi e gettatolo in una fossa, manda qui uno a sentire dall’esegeta che cosa ne dovesse fare. Nell’attesa, egli di quell’uomo in ceppi non si curava né punto né poco, come d’un omicida, quasi non importasse nulla se anche moriva. E questo difatti avvenne; che per la fame, per il freddo e per le catene, morì prima che il messo tornasse dall’esegeta. Ed ora perciò mio padre e gli altri di casa ce l’hanno con me, perché per un omicida sporgo querela d’omicidio contro mio padre, che, dicono, non l’uccise, e perché, quand’anche l’avesse ucciso, dal momento che il morto era un omicida, non bisognava darsi pena per lui. E sentenziano che è un’empietà da parte d’un figlio sporgere contro il padre una querela d’omicidio, perché, Socrate, non hanno un’idea precisa di quel che, secondo il diritto divino è santo o empio.

SO Sicché tu, Eutifrone, in nome di Zeus, credi di vederci così chiaro nei giudizi divini, circa quello che è santo o empio, da non temere che, stando i fatti come tu li hai narrati, con l’accusa contro tuo padre tu non commetta per caso un’azione empia?

EU Non varrei nulla, Socrate, [pag. 5] né Eutifrone sarebbe dappiù del volgo, s’io non sapessi a fondo tutte queste cose.

Posizione del problema del dialogo: che cos’è il santo? SO Per me dunque, mirabile Eutifrone, il meglio è farmi tuo scolaro, e prima che s’inizi il

dibattimento, invitare Meleto ad un’intesa stragiudiziale. Io gli direi che anche per il passato tenevo in gran conto la conoscenza delle cose divine, e che ora, dal momento ch’egli m’accusa d’errare in fatto di religione, perché improvviso e introduco delle credenze nuove, mi son fatto tuo discepolo. E: ‘Se tu’, direi, ‘Meleto, riconosci che Eutifrone è sapiente in questo campo, devi pur credere che anch’io penso rettamente e non chiamarmi in giudizio; se no, intenta un processo a questo maestro prima che a me, come ad uno che corrompa i vecchi, me e il proprio padre, me con gl’insegnamenti e il padre con le ammonizioni e col castigo’; e ov’egli non mi dia retta e non rinunzi alla sua azione, o non quereli te in vece mia, ripeterei davanti al tribunale quelle medesime cose su cui l’avevo già invitato ad una intesa preliminare.

EU Ah! per Zeus, Socrate, se provasse ad accusarmi, saprei ben io, credo, trovare il suo lato debole, e, assai più che di me, in tribunale si parlerebbe di lui.

SO Ed è questa la ragione per cui, mio caro amico, desidero di farmi tuo discepolo, giacché vedo che mentre di te né altri né questo Meleto mostrano d’accorgersi, quanto a me egli m’ha scorto così addentro e così facilmente da accusarmi d’empietà. Or dunque, in nome di Zeus, dimmi ciò che asserivi di saper tanto bene: che cosa sia, secondo te, pio, e che cosa empio, così in fatto d’omicidio, come in qualsiasi altro caso. O in ogni atto ciò che è santo non è sempre identico a se stesso, e ciò che invece non santo contrario di tutto ciò

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Platone, Eutifrone

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che è santo ma sempre però identico a sé, ed informato, quanto alla non santità, ad un’unica idea di tutto quello che sia per essere non santo?

EU Certamente, Socrate. Prima definizione: Santo è ciò che Eutifrone sta facendo, accusando il padre SO Su, dunque, rispondimi: come definisci ciò che è santo e ciò che non è santo? EU Ebbene, io dico che la santità è fare quel che io faccio ora: perseguire chi, sia padre sia

madre sia un altro qualunque, operi ingiustamente, commettendo o un omicidio o un furto sacrilego o qualche altra azione colpevole; l’empietà invece nel non perseguirlo. Poiché, vedi, Socrate, che prova decisiva ti addurrò che la legge è questa; prova già da me addotta anche ad altri per dimostrare che si fa bene a far così, a non avere alcuna indulgenza per l’empio, chiunque egli sia. Quegli stessi infatti, che tengono Zeus per il migliore e il più giusto tra gli dèi, [pag. 6] ammettono che anch’egli incatenasse il proprio padre perché divorava ingiustamente i figlioli, e che quello a sua volta avesse mutilato suo padre per colpe simili; e s’adirano poi con me, perché chiamo in giudizio mio padre, che ha commesso un reato. E così sono in contradizione con se stessi nel giudicare gli dèi e me.

SO Ah! Eutifrone, che la ragione per cui mi son tirato addosso quest’accusa, sia appunto perché, quando degli dèi si contano delle storie siffatte, io non posso udirle senza sdegnarmene? E perciò, probabilmente, c’è chi dirà ch’io pecco. Ma ora, poiché ci credi anche tu, che di queste cose t’intendi assai bene, dovremo per forza, mi pare, convenirne anche noi. Che potremo infatti opporre noi che siamo i primi a confessare di non intendercene affatto? Ma dimmi, in nome di Zeus protettore dell’amicizia: pensi tu davvero che quei fatti siano andati proprio a quel modo?

EU Anzi ce n’è anche di più sorprendenti che la gente non sospetta nemmeno. SO Sicché tu ritieni che ci siano realmente tra gli dèi e guerre intestine e inimicizie terribili e

battaglie e tante altre cose dello stesso genere, che ci si raccontano dai poeti e di cui sono adorni per mano dei nostri migliori artisti molti luoghi e oggetti sacri, come, in particolare, di ricamate immagini è pieno quel peplo che nelle grandi Panatenee si porta su nell’Acropoli? Diremo che questi fatti son veri, Eutifrone?

EU E non solo codesti, Socrate, ma, come dicevo or ora, degli dèi, se vuoi, ti racconterò tante altre storie, che a udirle ne rimarrai, lo so bene, addirittura stupito.

Critica metodologica della prima definizione data da Eutifrone SO Non ne dubito, ma queste me le racconterai un’altra volta. Per ora provati a spiegarmi più

chiaramente quel che ti chiedevo prima. Io t’avevo domandato che cosa mai fosse la santità; tu, amico, non m’hai insegnato a dovere, ma mi hai detto che santo è suppergiù quel che fai ora, perseguendo d’omicidio tuo padre.

EU E ho detto la verità, Socrate. SO Forse. Tuttavia, Eutifrone, d sono molti altri atti che tu chiami santi. EU Ci sono di certo. SO Ebbene, ti ricorderai ch’io t’avevo pregato d’indicarmi, non uno o due di quei tanti atti che

tu chiami santi, ma precisamente quell’idea per cui tutto ciò che è santo è santo. Tu devi infatti avermi detto che in forza d’un’unica idea tutti gli atti empi sono empi e i santi santi. O non te ne rammenti?

EU Io, sicuro.

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Platone, Eutifrone

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SO Dunque, insegnami precisamente qual è codesta idea, affinché, mirando ad essa e servendomene come d’un esemplare, io dica santo quello che le somigli tra gli atti che tu o altri faccia, ed empio quello che non le somigli.

Seconda definizione: Santo è ciò che è caro agli dèi EU Ma se desideri così, Socrate, ti risponderò anche così. SO Ma lo desidero certo. EU Ebbene, quello che è caro agli dèi è santo, [pag. 7] quello che ad essi non è caro, empio. SO Egregiamente, Eutifrone; ora mi hai risposto proprio così come ti pregavo di rispondermi.

Se per altro m’hai risposto in modo conforme al vero, non lo so ancora. Ma tu senza dubbio mi dimostrerai per giunta che quel che dici è vero.

EU Indiscutibilmente. SO Orsù, vediamo un po’ che cosa diciamo. Ciò che è caro agli dèi e l’uomo caro agli dèi, è

santo; ciò invece che è odioso agli dèi e l’uomo odioso ad essi, empio. E non sono la stessa cosa; ma il santo è il puro contrario dell’empio. Non è così?

EU Appunto. SO E ti pare che si sia detto bene? EU Mi pare Socrate. Prima critica alla seconda definizione SO Però, Eutifrone, s’è anche detto che gli dèi non sono d’accordo, che dissentono gli uni

dagli altri, che c’è dell’inimicizia tra loro? EU Difatti s’è detto. SO Orbene, mio eccellente amico, inimicizia ed ire sono l’effetto d’un dissenso su che cosa?

Esaminiamo così: se io e tu dissentiamo su un numero, quale dei due sia maggiore, questo dissenso potrebbe mai renderci nemici e metterci in collera l’uno contro l’altro? O, fatto il conto, ci troveremmo su un punto simile immediatamente d’accordo?

EU Sicuro. SO E così pure, se si dissentisse su una grandezza maggiore o minore, basterebbe misurare per

mettere immediatamente da parte qualunque dissenso? EU. E’ vero. SO E ci basterebbe, credo, pesare per decidere se qualche cosa è più pesante o più leggera? EU E come no? SO Ma quali sono allora gli argomenti, per i quali, in mancanza d’un criterio sicuro,

diverremmo nemici tra noi e monteremmo in collera? Forse non hai subito la risposta. Ma guarda se non siano questi che dico io: il giusto e l’ingiusto, il bello e il brutto, il buono e il cattivo. Non son forse questi gli argomenti, su cui in caso di dissenso, ove non si possa ricorrere a un mezzo di giudizio incontestabile, diventiamo tra noi nemici, quando lo diventiamo, e io e tu e tutti gli altri uomini?

EU Ma sì, Socrate, è appunto qui il dissenso e su questi argomenti. SO E gli dèi, Eutifrone? Se dissentono, non dissentono forse per queste medesime ragioni? EU Necessariamente. SO E così, nobile Eutifrone, anche gli dèi, stando alle tue parole, non tutti stimano le stesse

cose o giuste o belle o brutte o buone o cattive. Perché forse non litigherebbero tra loro, se non dissentissero intorno a questi argomenti. O no?

EU Hai ragione.

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Platone, Eutifrone

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SO E però quelle cose che ciascun di loro stima buone e giuste, sono appunto quelle che ama, laddove odia le cose contrarie ad esse?

EU Certo. SO Sono dunque le stesse cose, come tu dici, quelle che alcuni stimano giuste, [pag. 8] altri

ingiuste; e poiché intorno ad esse non sono d’accordo, vengono a liti e a guerre gli uni con gli altri. Non è così?

EU Proprio così. SO Sicché, le stesse cose, pare, sono odiate e amate dagli dèi, e sarebbero perciò odiose e care

agli dèi. EU Parrebbe. SO E per conseguenza, Eutifrone, secondo questo ragionamento, sarebbero sante ed empie ad

un tempo. EU Probabilmente. Ulteriori critiche alla seconda definizione SO Dunque, meraviglioso amico, tu non hai risposto a ciò che ti chiedevo. Giacché non ti

chiedevo che sia mai quello che è insieme santo ed empio, poiché, come pare, quel che è caro agli dèi è anche odioso ad essi. Sicché, Eutifrone, non ci sarebbe affatto da stupirsi se col fare quel che ora fai, provocando una pena contro tuo padre, tu facessi cosa cara a Zeus, ma odiosa a Crono e ad Urano, o cara ad Efesto, ma odiosa ad Era, e che, se ci sono altri dèi che su questo punto dissentano tra loro, avvenisse lo stesso anche con essi.

EU Ma, Socrate, su questo punto: che chi ha ucciso ingiustamente qualcuno debba pagarne la pena, nessuno, credo, tra gli dèi la penserà diversamente da un altro.

SO E come, Eutifrone? Degli uomini né hai mai udito qualcuno mettere in dubbio che chi ha ucciso ingiustamente o ha commesso qualche altro atto ingiusto non debba pagarne la pena?

EU Veramente è quello che non cessano di mettere in dubbio dappertutto e specie nei tribunali. E mentre commettono ogni sorta d’ingiustizie, fanno e dicono qualunque cosa per sottrarsi alla pena.

SO Ma, Eutifrone, confessano forse d’esser colpevoli e, pur confessandolo, sostengono di non doverne pagare la pena?

EU Oh! questo no, davvero. SO Dunque, non è esatto che dicano e facciano qualunque cosa, giacché, se non m’inganno,

non hanno il coraggio di dire o mettere in dubbio questo: che, avendo commesso un’ingiustizia, non debbano pagarne la pena. Ma dicono, credo, di non aver commesso nessuna ingiustizia. Non è così?

EU E’ vero. SO E quindi non mettono in dubbio che il colpevole debba pagarne la pena; ma piuttosto

questo: chi sia il colpevole e di che e in quali circostanze. EU E’ vero. SO E altrettanto non si verifica forse anche tra gli dèi, se litigano del giusto e dell’ingiusto,

secondo il tuo discorso; e gli uni affermano degli altri che hanno colpa, e gli altri lo negano? Poiché questo, mirabile amico, nessuno né tra gli dèi né tra gli uomini oserebbe sostenerlo: che il colpevole non debba esser punito.

EU Sì, Socrate, quel che dici è vero, almeno in generale.

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Platone, Eutifrone

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SO Ma, Eutifrone, quelli che disputano, siano uomini o dèi, posto che gli dèi disputino, non disputano, mi pare, se non di singoli atti. E, dissentendo su qualche atto, gli uni affermano che è giusto, gli altri che è ingiusto. Non è così?

EU Certo. [pag. 9] Applicazione delle critiche all’azione giudiziaria di Eutifrone SO Orsù, caro Eutifrone, insegna anche a me, affinché io divenga più sapiente, che prova hai

tu per credere che tutti gli dèi stimino ingiusta la morte di quel mercenario che, divenuto omicida e messo in ceppi dal padrone dell’ucciso, sia morto a causa dei ceppi, prima che colui che ve lo aveva gettato potesse sapere dagli esegeti che cosa dovesse farne; e che in difesa d’un tale uomo sia ben fatto per un figlio d’accusare e querelare d’omicidio il proprio padre? Via, procura di mostrarmi chiaramente come senza alcun dubbio tutti gli dèi tengano per giusta una tale azione. Quando me l’avrai dimostrato in modo esauriente, non cesserò di predicare le lodi della tua sapienza.

EU Forse l’impresa non è facile, Socrate; tuttavia potrei dimostrartelo sino all’evidenza. SO Capisco; io devo sembrarti più ottuso dei giudici, poiché a questi tu dimostrerai

chiaramente che l’atto di tuo padre è ingiusto e tutti gli dèi lo trovano odioso. EU Chiarissimamente, Socrate, purché mi stiano a sentire.

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Platone di Atene (427-347 a.C.) Fedro

lingua originale: greco

edizione di riferimento: Stephanus (Henri Estienne), Ginevra 1578 tr. it. G. Reale, Platone: Tutti gli scritti, Rusconi, Milano,

tema: il non-scritto in filosofia genere letterario: dialogo ‘socratico’

[Stephanus, vol III, pag. 274] La scrittura non accresce né la sapienza né la memoria degli uomini1 SOCRATE - Resta ora da parlare della convenienza dello scritto e della non convenienza,

quando esso vada bene e quando sia invece non conveniente. O no? FEDRO - Sì. SO - Ora sai in quale modo, per quanto concerne i discorsi, si può massimamente piacere a

dio, facendoli oppure parlando di essi? FE - Proprio no. E tu? SO - Io posso narrarti una storia tramandataci dagli antichi; il vero essi lo sanno. E se noi lo

trovassimo da soli, ci importerebbe ancora qualcosa delle opinioni degli uomini? FE - La tua domanda è ridicola! Ma narrami questa storia che hai udito. SO - Ho udito, dunque, narrare che presso Naucrati d’Egitto c’era uno degli antichi dèi di quel

luogo, al quale era sacro l’uccello che chiamano Ibis, e il nome di questo dio era Theuth. Dicono che per primo egli abbia scoperto i numeri, il calcolo, la geometria e l’astronomia e poi il gioco del tavoliere e dei dadi e, infine, anche la scrittura. Re di tutto quanto l’Egitto a quel tempo era Thamus e abitava nella grande città dell’Alto Nilo. Gli Elleni la chiamano Tebe Egizia, mentre chiamano Ammone il suo dio. E Theuth andò da Thamus, gli mostrò queste arti e gli disse che bisognava insegnarle a tutti gli Egizi. E il re gli domandò quale fosse l’utilità di ciascuna di quelle arti, e, mentre il dio gliela spiegava, a seconda che gli sembrasse che dicesse bene o non bene, disapprovava oppure lodava. A quel che si narra, molte furono le cose che, su ciascun’arte, Thamus disse a Theuth in biasimo o in lode, e per esporle sarebbe necessario un lungo discorso. Ma quando si giunse alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza, o re, renderà gli Egiziani più sapienti e più capaci di ricordare, perché con essa si è ritrovato il farmaco della memoria e della sapienza». E il re rispose: «O ingegnosissimo Theuth, c’è chi è capace di creare le arti e chi è invece capace di giudicare quale danno o quale vantaggio ne ricaveranno coloro che le adopereranno. [pag 275] Ora tu, essendo padre della scrittura, per affetto hai detto pro prio il contrario di quello che essa vale. Infatti, la scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché, fidandosi della scrittura, si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da se medesimi: dunque, tu hai trovato non il farmaco della memoria, ma del richiamare alla memoria.

1 I titoletti in neretto sono indicazioni suggerite dal traduttore delle fasi del ragionamento, e non si trovano nel testo platonico (nota di Davies).

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Platone, Fedro

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«Della sapienza, poi, tu procuri ai tuoi discepoli l’apparenza, non la verità: infatti essi, divenendo per mezzo tuo uditori di molte cose senza insegnamento, crederanno di essere conoscitori di molte cose, mentre, come accade per lo più, in realtà, non le sapranno; e sarà ben difficile discorrere con essi, perché sono diventati portatori di opinioni invece che sapienti» .

FE - O Socrate, ti è facile narrare racconti egiziani, o di quale altro paese tu vuoi! SO - Ma se ci sono stati alcuni, mio caro, che hanno creduto che i primi vaticini di Zeus

Dodoneo venissero dai discorsi di una quercia! Gli uomini di allora, dato che non erano sapienti come voi giovani, nella loro semplicità, si accontentavano di ascoltare «una quercia o una rupe», purché dicessero la vec rità; ma per te, forse, fa differenza chi parla e di dove è; infatti, tu non guardi solamente a questo, se le cose stanno come egli dice oppure se stanno diversamente.

FE - Hai colpito giusto: anche a me pare che, riguardo alla scrittura, le cose stiano come dice il re cebano.

SO - E allora, chi ritenesse di poter tramandare un’arte con la scrittura, e chi la ricevesse convinto che da quei segni scritti potrà trarre qualcosa di chiaro e saldo, dovrebbe essere colmo di grande ingenuità e dovrebbe ignorare veramente il vaticinio di Ammone, se ritiene che i discorsi messi per iscritto siano qualcosa di più di un mezzo per richiamare alla memoria di chi sa le cose su cui verte lo scritto.

FE - Giustissimo. Lo scritto non sa aiutarsi e ha bisogno del soccorso del suo autore SO - Perché, o Fedro, questo ha di terribile la scrittura, simile, per la verità, alla pittura: infatti,

le creature della pittura ti stanno di fronte come se fossero vive, ma se domandi loro qualcosa, se ne restano zitte, chiuse in un solenne silenzio; e così fanno anche i discorsi. Tu crederesti che parlino pensando essi stessi qualcosa, ma se, volendo capire bene, domandi loro qualcosa di quello che hanno detto, continuano a ripetere una sola e medesima cosa. E una volta che un discorso sia scritto, rotola da per tutto, nelle mani di coloro che se ne intendono e così pure nelle mani di coloro ai quali non importa nulla, e non sa a chi deve parlare e a chi no. E se gli recano offesa e a torto lo oltraggiano, ha sempre bisogno dell’aiuto del padre, perché non è capace di difendersi e di aiutarsi da solo.

FE - Anche questo che hai detto è giustissimo. Le ragioni della superiorità dell’oralità sulla scrittura SO – [pag. 276] E allora? Vogliamo considerare ora un altro di A scorso, fratello legittimo di

questo? E vogliamo vedere in quale modo nasca, e, per sua natura, quanto sia migliore e più potente di questo?

FE - Qual è questo discorso, e in quale modo tu dici che nasca? SO - E il discorso che viene scritto, mediante la scienza, nell’anima di chi impara, e che è

capace di difendersi da sé e sa con chi deve parlare e con chi deve tacere. FE - Intendi dire il discorso di colui che sa, il discorso vivente e animato, del quale il discorso

scritto può dirsi, a buona ragione, un’immagine? Lo scritto come forma di gioco e la serietà dell’oralità SO - Sì, appunto. Ora, dimmi un po’ questo: l’agricoltoB re che ha senno, farà sul serio

seminando d’estate nei «giardini di Adone» i semi che gli stanno a cuore e dai quali vuole

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Platone, Fedro

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che nascano frutti, e si rallegrerà nel vederli crescere belli in otto giorni, o lo farà per gioco e a motivo della festa, se pure lo farà? Invece, i semi dei quali si preoccupa sul serio li seminerà in luogo adatto, seguendo tutte le regole dell’arte dell’agricoltura, contento che quanti ne ha seminati giungano al loro termine in otto mesi?

FE - Così farà, o Socrate, in quest’ultimo caso seriamente, nell’altro non seriamente, come tu dici.

SO - E chi ha la scienza del giusto, del bello e del buono, dovremo dire che abbia meno senno di un agricoltore per le sue sementi?

FE - No, assolutamente. SO - E allora, se vorrà fare sul serio, non le scriverà sull’acqua nera, seminandole mediante la

cannuccia da scrivere, facendo discorsi che non sono capaci di difendersi da soli col ragionamento, e che non sono nemmeno capaci di insegnare la verità in modo adeguato .

FE - No, almeno non è verosimile. SO - No, infatti. Ma i giardini di scritture li seminerà e li scriverà per gioco , quando li

scriverà, accumulando materiale per richiamare alla memoria se medesimo, per quando giunga alla vecchiaia che porta all’oblio, se mai giunga, e per chiunque segua la medesima traccia, e gioirà di vederli crescere freschi. E quando gli altri si dedicheranno ad altri giochi, passando il loro tempo nei simposi, o in altri piaceri simili a questi, egli allora, come sembra, invece che in quelli passerà la sua vita dilettandosi nelle cose che io dico.

FE - Ed è un gioco molto bello, o Socrate, in confronto dell’altro che non vale nulla, questo di chi è capace di dilettarsi con i discorsi, narrando storie sulla giustizia e sulle altre cose di cui parli.

SO - Così è in effetti, o caro Fedro, ma molto più bello diventa l’impegno su queste cose, credo, quando si faccia uso dell’arte dialettica e con essa, prendendo un’anima adatta, si piantino e si seminino discorsi con conoscenza, che siano capaci [pag. 277] di venire in soccorso a sé e a chi li ha piantati, che non restino A privi di frutto, ma portino seme, dal quale nascano anche in altri uomini altri discorsi, che siano capaci di rendere questo seme immortale e che facciano felice chi lo possiede, nella misura più grande che all’uomo sia possibile.

FE - Molto più bello è questo che dici. Chiarezza e compiutezza sono proprie dell’oralità e non dello scritto SO - E una volta d’accordo su questo, siamo ora in grado di giudicare, o Fedro, le questioni di

prima. FE - Quali? SO - Quelle che volevamo chiarire e per cui siamo giunti a questo punto, ossia di esaminare il

rimprovero fatto a Lisia circa lo scrivere discorsi, e di esaminare i discorsi medesimi, quali fossero scritti a norma d’arte e quali fossero invece scritti senza arte. Quanto a ciò che sia a norma d’arte e quanto a ciò che non lo sia, mi pare che lo abbiamo chiarito in maniera conveniente.

FE - Sì, mi è parso. Ma ricordami ancora una volta come abbiamo detto. SO - Prima bisogna che uno sappia il vero su ciascuna delle cose sulle quali parla o scrive, e

sia in grado di definire ogni cosa in se stessa, e, una volta definita, sappia dividerla nelle sue specie fino ad arrivare a ciò che non è più ulteriormente divisibile; e dopo essere penetrato nella natura dell’anima, ritrovando allo stesso modo la specie adatta per ciascuna natura, bisogna che costruisca e ordini il suo discorso in modo corrispondente, dando ad

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Platone, Fedro

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un’anima complessa discorsi complessi e comprendenti tutte le armonie, e ad un’anima semplice discorsi semplici. Prima di questo non sarà possibile che si tratti con arte, nella misura in cui convenga per natura, il genere dei discorsi, né per insegnare, né per persuadere, come tutto ciò che si è detto in precedenza ci ha ricordato.

FE - Su questo punto proprio questo risulta. SO - E poi, sulla questione se è bello o brutto pronunciare e scrivere discorsi e quando il

biasimo sia fatto a ragione e quando a torto, non ce l’ha forse chiarito il discorso che abbiamo fatto poco fa?

FE Che cosa abbiamo detto? SO Che se Lisia, o chiunque altro, ha scritto o scriverà su cose di interesse privato o di

interesse pubblico, proponendo leggi, scrivendo opere politiche, nella convinzione che in queste opere scritte vi sia una grande stabilità e chiarezza, allora questo, per chi scrive, sarà di grande vergogna, sia che qualcuno lo dica sia che non lo dica. Infatti, il non distinguere la veglia dal sonno per quanto concerne il giusto e l’ingiusto, il male e il be- E ne, la cosa non può non essere, per davvero, vergognosissima, quand’anche la moltitudine lo lodi.

FE Non può di certo. SO Invece, chi ritiene che in un discorso scritto, qualunque sia l’argomento su cui verte, vi sia

necessariamente molta parte di gioco, e che nessun discorso sia mai stato scritto in versi o in prosa con molta serietà (e nemmeno sia mai stato recitato, come i discorsi che vengono recitati dai rapsodi, che senza possibilità di esame e senza nulla insegnare mirano solamente a persuadere), ma che, [pag. 278] veramente, i migliori di essi non sono altro A che mezzi per aiutare la memoria di coloro che già sanno; e ritiene che solamente nei discorsi detti nel contesto dell’insegnamento e allo scopo di fare imparare, ossia nei discorsi scritti realmente nell’anima intorno al giusto e al bello e al bene, ci sia chiarezza e compiutezza e serietà; e inoltre ritiene che discorsi di questo genere debbano essere detti suoi, come se fossero dei figli legittimi, e prima di tutto il discorso che egli reca in se stesso, se mai lo abbia trovato, e poi quelli che, o figli o fratelli .a seconda del loro valore, e saluta tutti gli altri e li manda a spasso; ebbene, o Fedro, appunto un uomo di questo genere è probabile che sia quello che tu ed io ci augureremmo di diventare.

FE Lo voglio davvero, e mi auguro quel che dici. Il filosofo non affida le cose di maggior valore alla scrittura ma all’oralità SO E per quanto riguarda i discorsi, abbiamo scherzato abbastanza. Ma tu va’ da Lisia e digli

che noi due, discesi alla fonte e al santuario delle Ninfe, abbiamo ascoltato dei discorsi che ci ordinavano di dire a Lisia e a chiunque altro componga discorsi, e ad Omero e a chiunque altro abbia composto poesia senza musica o con musica, e, in terzo luogo, a Solone e a chiunque in discorsi politici, che chiama leggi, ha composto opere scritte, che se ha composto queste opere sapendo come sta il vero, ed è in grado di soccorrerle quando viene a difendere le cose che ha scritto, e quando parla sia in grado di dimostrare la debolezza degli scritti, ebbene, un uomo del genere va chiamato non col nome che quelli hanno, ma con un nome derivato da ciò cui egli si è dedicato con verità.

FE E quale è questo nome che tu gli dai? SO Chiamarlo sapiente, o Fedro, mi pare troppo, e che tale nome convenga solamente a un

dio; ma chiamarlo filosofo, ossia amante di sapienza, o con qualche altro nome di questo tipo, gli si adatterebbe meglio e sarebbe più adeguato.

FE - E non sarebbe per nulla fuori luogo.

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SO - Invece, colui che non possiede cose che siano di maggior valore rispetto a quelle che ha composto o scritto, rivoltandole in su e in giù per molto tempo, incollando una parte con l’altra o togliendo, non lo chiamerai, a giusta ragione, poeta, E o compositore di discorsi, o scrittore di leggi?

FE - E come no? SO - Dì, allora, queste cose al tuo amico!

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Platone di Atene (427-347 a.C.) Gorgia

lingua originale: greco edizione di riferimento: Stephanus (Henri Estienne), Ginevra 1578

tr. it. D. Fusaro (in rete) tema: natura e convenzione

genere letterario: declamazione

(Socrate ha appena estorto dai suoi altri interlocutori le ammisioni: (i) da Gorgia, che la retorica non serva a niente; e (ii) da Polo, che sia meglio subire malvagità che commetterla; Callicle, che è stato presente al dialogo, irrompe sulla scena) [Stephanus Vol I, pag. 482] CALLICLE: O Socrate, sembri svolgere i tuoi ragionamenti con giovanile baldanza, come un vero oratore popolare. E anche in questa occasione parli come un oratore popolare, visto che a Polo accade la stessa cosa che egli accusava Gorgia di subire nei tuoi confronti. Egli diceva, infatti, che Gorgia, alla tua domanda se, quando venisse alla sua scuola uno che volesse imparare la retorica senza conoscere la giustizia, Gorgia gliela avrebbe insegnata, egli si vergognò e disse che gliela avrebbe insegnata, solo in considerazione dell’usanza che vige fra gli uomini, di sdegnarsi se uno rifiutasse di farlo. Ebbene, secondo Polo, fu questa sua ammissione che portò Gorgia a contraddirsi e questo ti riempì di soddisfazione. E allora Polo si fece beffe di te, e con ragione, secondo me.

Ma ora la stessa cosa accade proprio a lui. E per questa ragione io non ammiro Polo, ossia per avere ammesso davanti a te che il commettere ingiustizia è più brutto che subirla: infatti, in seguito a questa sua ammissione, impastoiato nei tuoi ragionamenti, si è trovato imbavagliato, vergognandosi di dire ciò che pensava.

E questo perché tu, o Socrate, mentre sostieni di cercare la verità, in realtà porti gli altri a fare affermazioni di questo genere, grossolane e volgari, che non sono belle rispetto alla natura, ma rispetto alla legge. E queste, vale a dire la natura e la legge, sono nella maggior parte dei casi opposte. Dunque, quando uno si vergogna e non osa dire le cose che pensa, finisce necessariamente per contraddirsi. [pag. 483] E tu, imparata questa astuzia, tendi tranelli nei tuoi ragionamenti, riferendo le tue domande alla natura, quando uno parla riferendosi alla legge, e facendo riferimento alla legge, quando uno si riferisce alla natura. E questo è quello che hai appena fatto a proposito del commettere e del subire ingiustizia: mentre Polo si riferiva a ciò che è più brutto secondo la legge, tu svolgevi il tuo ragionamento facendo riferimento alla natura.

Secondo natura, infatti, è più brutto tutto ciò che è anche peggiore, vale a dire il subire ingiustizia; secondo la legge, invece, è più brutto il commettere ingiustizia. Infatti questa condizione, ossia quella di essere vittima di ingiustizia, non è degna di un uomo, bensì di uno schiavo qualsiasi, per il quale è meglio essere morto che vivere, e che, quando è vittima di ingiustizia e viene oltraggiato, non è in grado di portare aiuto a se stesso, né ad altri di cui si prenda cura.

Ma io credo che ad istituire le leggi siano stati uomini deboli e del volgo. Dunque, per sé e nel proprio interesse costoro istituiscono leggi, fanno elogi e muovono rimproveri. E per spaventare gli uomini più forti e capaci dì prevaricare, affinché non abbiano più di loro, dicono che è brutto e ingiusto prevaricare, e che proprio in questo consiste il commettere

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ingiustizia, vale a dire nel cercare di avere più degli altri. Io credo, in effetti, che costoro siano contenti quando abbiano l’uguaglianza, perché sono meno capaci degli altri. Per queste ragioni, dunque, per legge si dice che è brutto e ingiusto il cercare di avere più degli altri, ed è questo ciò che essi chiamano ‘commettere ingiustizia’. Invece, mi pare che la natura stessa mostri questo, vale a dire che è giusto che chi è migliore abbia più dì chi è peggiore, e chi è più capace abbia più di chi è meno capace. E che le cose stanno così, lo dimostra in molti casi, sia nelle altre specie animali, sia in tutte le città e stirpi umane, cioè che il diritto si giudica con questo criterio: che il più forte comandi sul più debole ed abbia più di lui.

Del resto, avvalendosi di quale diritto Serse mosse guerra alla Grecia, o suo padre agli Sciti? E si potrebbero citare altri innumerevoli casi di questo genere! Ma io penso che costoro agiscano così secondo il diritto della natura, e, per Zeus, anche secondo la legge, almeno quella di natura, e tuttavia, probabilmente, non secondo quella legge che noi istituiamo.

Per plasmare i migliori e i più forti di noi, prendendoli da giovani come si fa con i leoni, incantandoli e seducendoli, li sottomettiamo, [pag. 484] dicendo loro che bisogna ottenere l’uguaglianza e che in questo consiste il bello e il giusto. Ma io penso che, se solo nascesse un uomo dotato di una natura che ne fosse all’altezza, costui, scrollatosi di dosso, fatte a pezzi e sfuggito a tutte queste cose, calpestati i nostri scritti, incantesimi, sortilegi e leggi, che sono tutte contro natura, così ribellatosi, il nostro schiavo si rivelerebbe nostro padrone, ed allora splenderebbe il diritto di natura.

E mi pare che anche Pindaro esprima le stesse cose che io esprimo, in quel carme dove dice: ‘la legge di tutti regina mortali e immortali...’; ebbene, questa, lui dice, ‘guida, giustificando l’azione più violenta, con mano potente: lo deduco dalle imprese di Eracle, poiché ... senza averle comprate...’; dice press’a poco così , perché non so il carme a memoria. In ogni modo, dice che, senza averle comprate e senza che Gerione gliele avesse donate, Eracle portò via le vacche, convinto che questo fosse per natura suo diritto, e che tanto le vacche quanto le altre cose che sono in mano ai peggiori e ai più deboli appartengono tutte al migliore e al più forte.

E che la verità sia questa, potresti capirlo se, lasciata ormai perdere la filosofia, tu venissi a cose più grandi. Certo, Socrate, la filosofia è un’amabile cosa, purché uno vi si dedichi, con misura, in giovane età; ma se uno vi passi più tempo del dovuto, allora essa diventa rovina degli uomini. Infatti, per quanto uno sia ben provvisto di doti naturali, qualora si attardasse a filosofare anche quando fosse ormai avanti negli anni, per forza di cose egli diventerebbe inesperto di tutte quelle cose di cui deve avere esperienza chi intende essere uomo per bene e onorato.

Infatti, costoro diventano inesperti delle leggi che riguardano la città, di quei discorsi di cui ci si deve servire quando si hanno faccende da sbrigare con altri uomini, in privato e in pubblico, dei piaceri e dei desideri umani, e, in generale, diventano del tutto inesperti dei costumi degli uomini. Quando poi si dedichino a qualche affare, privato o pubblico, si rendono ridicoli, allo stesso modo in cui, credo, si rendono ridicoli i politici quando si intromettano nelle vostre dispute e nei vostri ragionamenti. Accade infatti quanto dice Euripide, ‘che ciascuno brilla in una data cosa, e a questa si sente attratto, dedicando ad essa la maggior parte del giorno perché lì gli accade di superare se stesso’.

Quella cosa, invece, [pag. 485] in cui uno si ritrovi mediocre, la evita e ne parla male, e loda l’altra per amor proprio, pensando di lodare in questo modo se stesso. Ma io penso che la cosa più giusta sia partecipare dell’una e dell’altra cosa: è bello partecipare alla filosofia nella misura in cui è utile all’educazione spirituale, e non è brutto filosofare finché si è giovani; ma

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Platone, Gorgia

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quando si attardi a filosofare un uomo ormai avanti negli anni, la cosa, o Socrate, si fa ridicola, ed io provo nei confronti di coloro che fanno i filosofi un sentimento identico a quello che provo nei confronti di coloro che balbettano e giocano.

Infatti, quando mi capita di vedere un fanciullo, a cui ancora si addice l’esprimersi in questo modo, cioè balbettando e giocando, ne gioisco e mi pare grazioso, spontaneo, e confacente alla sua età. Quando invece mi capita di sentire un fanciullo esprimersi con chiarezza, mi dà l’impressione di essere una cosa acerba, mi infastidisce le orecchie, e mi pare un modo di fare servile. Se poi ci accade di sentire un uomo balbettare o di vederlo giocare, ci appare cosa ridicola e poco virile, e pensiamo che meriti di essere preso a botte. Ebbene, lo stesso sentimento lo provo nei confronti di coloro che fanno i filosofi. Infatti, provo gusto a vedere la filosofia sulla bocca di un giovane, e mi sembra che gli si addica e penso che costui sia un uomo libero, mentre considero uomo non libero colui che non coltiva la filosofia, e penso che non sarà mai all’altezza di cose belle e nobili. Ma quando vedo un uomo già avanti negli anni che ancora coltivi la filosofia e non sappia separarsene, mi sembra, o Socrate, che costui abbia bisogno dì essere preso a botte. Infatti, come dicevo poco fa, a quest’uomo, per quanto sia ben provvisto di doti naturali, toccherà diventare un ignavo, fuggendo il centro della città e le piazze, dove, come dice il poeta, gli uomini si affermano, e passare il resto della vita rintanato in un angolo a borbottare con tre o quattro giovanotti, senza mai fare un discorso degno di uomo libero, elevato e valido.

Ma io, Socrate, nutro per te vera amicizia: rischio di provare nei tuoi confronti quel sentimento che lo Zeto di Euripide provava nei confronti di Anfione, che ho già menzionato. Anche a me, infatti, viene di dirti le stesse cose che costui disse al fratello: ‘Tu trascuri, Socrate, le cose di cui dovresti occuparti, e travesti di una forma puerile la natura così nobile della tua anima; né ai processi sapresti portare un discorso che regge, né sapresti prendere la parola in modo da essere ragionevole e persuasivo, né sapresti prendere un consiglio ardito in favore dì altri’.

Ebbene, caro Socrate, e non prendertela con me, perché io parlo per il tuo bene, non ti pare che sia sconveniente per te trovarti in questa situazione, in cui io credo che vi troviate tu e gli altri che si addentrano sempre più avanti nella filosofia? Infatti, supponiamo che ora uno, arrestato te o un altro qualsiasi di quelli che sono come te, ti trascinasse in carcere dicendo che tu hai commesso un delitto, benché tu sia innocente: sai bene che tu non sapresti che fare di te, ma resteresti smarrito e a bocca aperta, non sapendo che dire; e che, una volta messo piede in tribunale, anche se ti capitasse un accusatore buono a niente e incompetente, potresti morire, se costui volesse chiedere per te la pena di morte.

Ebbene, o Socrate, come può essere saggia quell’arte che, preso sotto le sue cure un uomo di buone speranze, lo renda peggiore, e incapace di aiutare se stesso e di salvare dai più grandi pericoli se stesso o qualsiasi altro uomo, e che lo lasci in balia dei suoi nemici, perché lo spoglino di ogni suo avere, e lo faccia vivere privato di ogni diritto nella sua città? Un uomo del genere, anche se l’espressione è piuttosto rozza, si può prendere a schiaffi impunemente! Ma amico mio, dammi retta, smettila di confutare, e coltiva invece la buona musa delle cose pratiche, dedicati a quelle cose, grazie alle quali ti farai la reputazione di essere uomo di buon senso, lasciando ad altri queste sottigliezze, chiacchiere o fandonie che si debbano chiamare, con le quali finirai per abitare in vuote dimore, ed emulando non gli uomini che stanno a confutare queste piccolezze, ma coloro che possiedono averi, fama e molti altri beni.

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Platone di Atene (427-347 a.C.) Teeteto

lingua originale: greco edizione di riferimento: Stephanus (Henri Estienne), Ginevra, 1578

tr. it. G. Giardini, Bompiani, Milano, 2001 tema: l’autoconfutazione del relativismo

genere letterario: dialogo indiretto

(Socrate sta discutendo con Teodoro la natura della scienza e prende in esame la dottrina di Protagora secondo cui ‘l’uomo è misura di tutte le cose’) [Stephanus, vol. I, p. 169] La dottrina di Protagora1 SOCRATE: Per prima cosa, dunque, riesaminiamo il problema allo stesso punto di prima e

consideriamo se eravamo malcontenti, a ragione o a torto, biasimando il ragionamento che presupponeva che ciascuno è autosufficiente a se stesso rispetto alla conoscenza. Ma Protagora non convenne con noi che quanto alla conoscenza del meglio e del peggio alcuni si distinguono di gran lunga e questi proprio sono i sapienti. Non è così?

TEODORO: Sì. SO: Se dunque egli, essendo presente, ce lo avesse concesso, e non avessimo invece dovuto

ammetterlo noi, prendendo la sua difesa, non ci sarebbe affatto bisogno di riprendere la questione per renderla consolidata. Ora, forse, qualcuno potrebbe giudicarci senza diritto di fare questa ammissione in vece sua. Per questo motivo è cosa migliore concordare in maniera più chiara su questo stesso problema. Infatti non è che cambi poco se a cosa sta così o in maniera diversa.

TEO: È vero. SO: Dunque [pag. 170] non con il concorso di altri, ma del suo ragionamento, nel modo più

breve, cerchiamo di comprendere quello che è il suo assenso. TEO: Come? SO: Così: dice egli che quel che pare a ciascuno questo anche è per colui al quale pare? TEO: Lo dice, sì. L’apparente esclusione dell’opinione falsa SO: E dunque, Protagora, anche noi manifestiamo il pensiero di un uomo, o meglio di tutti gli

uomini, quando affermiamo che per certe questioni non c’è nessuno che non consideri se stesso più sapiente degli altri, per altre questioni invece non stimi gli altri migliori di sé, e che in mezzo a grandissimi pericoli, come quando sono esposti a guerre e malattie, al mare in tempesta, come a degli dèi si tengono vicini a quelli che in ciascuna di queste circostanze hanno il potere, perché sembrano loro dei salvatori, mentre non sono diversi in altro da loro, se non per il sapere. E ogni condizione umana è piena di persone alla ricerca dei maestri e comandanti o per sé o per altri esseri viventi, o per iniziative che intendono

1 I titoletti in neretto sono indicazioni suggerite dal traduttore delle fasi del ragionamento, e non si trovano nel testo platonico (nota di Davies).

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Platone, Teeteto

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compiere, ma lo è di individui che ritengono di essere capaci di insegnare e di esserlo altrettanto a comandare. E in questi atteggiamenti cosa diremo, se non che gli stessi uomini pensano che esista, in loro, sapienza e ignoranza?

TEO: Niente altro. SO: Gli uomini dunque non considerano la sapienza vero pensiero e l’ignoranza opinione

falsa? TEO: Ebbene? Può Protagora contraddire qualcuno che lo contraddice? SO: Dunque, Protagora, che ne faremo del tuo ragionamento? Diciamo dunque che gli uomini

nutrono talvolta opinioni vere e talvolta opinioni false? Da ambedue le ipotesi ne viene che non sempre gli uomini nutrono opinioni vere, ma vere e false. Considera infatti tu stesso, Teodoro, se qualcuno dei seguaci di Protagora, o tu stesso, volessi affermare con forza che nessuno considera un altro ignorante e nutre pure false opinioni?

TEO: Ma è incredibile, Socrate. SO: Ma giunge a tal punto di necessità chi sostiene che l’uomo è misura di tutte le cose. TEO: E come? SO: Ma quando tu dai un giudizio di per te stesso su una cosa, e poi manifesti a me su quella

stessa cosa il tuo parere, questo per te, secondo il ragionamento di Protagora, sarà vero, ma per noi e tutti gli altri non è forse possibile divenire giudici, o dobbiamo sempre giudicare che tu hai opinioni vere? Oppure sono una infinità gli uomini che ogni volta si contrastano pensandola all’opposto, ritenendo che tu giudichi e pensi il falso.

TEO: Ma, per Zeus, Socrate, sono ‘migliaia di migliaia’ gli uomini, come dice Omero, che mi cagionano ogni sorta di difficoltà.

SO: E dunque, vuoi che diciamo che allora tu per te stesso, hai opinioni vere, ma false per tutte queste migliaia di uomini?

TEO: Pare sia necessario a seguito di questo ragionamento. SO: E cosa ne è per Protagora in persona? Se neppure Protagora avesse mai creduto che

l’uomo è misura di tutte le cose, né la maggioranza degli uomini, come del resto non la pensano neppure, non sarebbe forse necessario che quella “verità” [pag. 171] che egli delineò non esistesse per nessuno? Se invece egli la credette realmente, ma la maggioranza degli uomini non la crede, sai bene che quanto più numerosi sono quelli a cui pare rispetto a quelli cui non pare, tanto più che essa non è rispetto a quelìa che è.

TEO: È giocoforza se essa sarà a seconda di ciascuna opinione o non sarà. La verità per il relativista della tesi anti-relativista SO: C’è poi questo secondo punto che è ancor più simpatico: egli, Protagora, rispetto alla sua

opinione siccome ammette come vere anche tutte quelle che pensano gli uomini, riconosce che sia vera l’opinione di quelli che la pensano in modo opposto al suo e per il quale pensano che egli abbia affermato il falso.

TEO: Proprio così. SO: E non concederà dunque che sia falsa la propria opinione, dal momento che riconosce

come vera quella di coloro che pensano che egli abbia sostenuto il falso? TEO: Necessariamente. SO: Ma questi altri non ammettono certo con se stessi di nutrire false opinioni. TEO: Certamente no.

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Platone, Teeteto

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SO: Egli invece Protagora dal canto suo riconosce che sia vera anche questa opinione in conseguenza di ciò che ha scritto.

TEO: Pare. SO: Cominciando da tutti questi, dunque, fin dallo stesso Protagora, ci sarà un dilemma:

ancora più quando egli ammette, che chi va predicando il contrario di lui, questo può nutrire una opinione vera, allora lo stesso Protagora dovrà concedere che né un cane, né il primo uomo che capita, sia misura neppure di una sola cosa che non abbia imparato. Non è così?

TEO: È così. SO: Dunque, siccome ci si trova a dubitare da parte di tutti, per nessuno la verità di Protagora

può essere vera, né per alcun altro, né per lui stesso. TEO: Socrate, noi incalziamo anche troppo l’amico mio. Conseguenze etico-politiche della dottrina di Protagora SO: Forse, mio caro, ma non è chiaro se lo incalziamo correttamente. è probabile però, che lui,

dato che è più vecchio, sia anche più saggio di noi. E se di qui, all’improvviso, balzasse fuori fino al collo, è molto probabile che molte cose avrebbe da dire contro di me che vado disseminando frottole e contro di te che le accetti, poi, calandosi giù di nuovo, se ne andrebbe via a gambe levate. Ma per noi, è necessario, io penso, servirci di noi stessi, così come siamo e ribattere il nostro modo di pensare, sempre alla stessa maniera. E, anche ora, cos’altro possiamo dire che chiunque riconosce questo, cioè che uno è più sapiente di un altro, e un altro più ignorante?

TEO: A me pare così. SO: E possiamo affermare anche che il ragionamento poggia soprattutto su questo punto che

noi abbozzammo, correndo in aiuto a Protagora, che la maggior parte delle cose, le calde, le aride, le dolci e tutte le altre di questa sorta, quali sembrano, tali sono anche per ciascuno. Ma se poi si conviene che in certe cose vi è una certa qual differenza tra l’una e l’altra, come quello che è salutare e nocivo al nostro corpo, Protagora dovrà pur concedere che non ogni donnetta, o ragazzotto, o animale sono in grado di curare se stessi, conoscendo bene ciò che è giovevole alla loro salute, ma proprio in queste faccende, se pure in altre mai, c’è differenza tra l’uno e l’altro.

TEO: A me pare così. [pag. 172] SO: Parimenti nella sfera politica il bello e il brutto, il giusto e l’ingiusto, il santo e il non

santo, sono quali in ogni città, pensando che siano, pone nelle proprie leggi a suo beneficio; ed in queste nessuno è più sapiente di un altro, né privato cittadino di cittadino, né città di città. Ma nel porre una città provvedimenti di legge utili o non utili, in questo caso Protagora, se in altri mai, concederà ancora una volta che esiste diversità tra consigliere e consigliere, tra una città e l’altra nella loro valutazione del vero e non avrà certo il coraggio di sostenere che quei provvedimenti che una città vara, ritenendoli utili a sé, questi lo dovranno essere a tutti i costi. Ma a proposito di quello di cui parlavo, del giusto e dell’ingiusto, del santo e del non santo, chi segue Protagora si ostina ad affermare che non c’è in natura nessuna di queste cose che abbia una sua essenza, ma che la valutazione che si dà in comune diventa essa appunto vera, proprio allora mentre pare valida e per tutto il tempo in cui lo pare. E quanti non abbiano in maniera assoluta il ragionamento di Protagora, orientano la propria sapienza un presso a poco così. Ma da un ragionamento, Teodoro, ci sopravviene un altro ragionamento e, da uno più piccolo, un altro più grande.

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Aristotele di Stagira (384-22 a.C) Sull’interpretazione

lingua originale: greco edizione di riferimento: I. Bekker, Berlino, 1831 ecc.

tr. it. G. Colli, in Aristotele: Opere, Laterza, Bari-Roma, 1973 tema: il futuro indeterminato

genere letterario: trattato di logica

Capitolo ix [Bekker pagina 18a] Rispetto agli oggetti che sono e a quelli che sono stati, è dunque necessario che tra l’affermazione e la negazione una risulti vera e l’altra invece falsa: si avrà sempre un giudizio vero contrapposto ad un giudizio falso, sia riguardo agli oggetti universali, presentati in forma universale, sia riguardo agli oggetti singolari, come già si è detto.

Riguardo invece agli oggetti universali, che non sono espressi in forma universale, ciò non risulta necessario, ed in proposito si è pure parlato. D’altro canto, rispetto agli oggetti singolari che saranno, le cose si presentano diversamente. In effetti, se tra affermazione e negazione, in ogni caso, una dev’essere vera e l’altra invece falsa, risulta altresì necessario che ogni determinazione appartenga oppure non appartenga ad un oggetto; di conseguenza, quando una persona affermi che un oggetto sarà qualcosa ed un’altra neghi questa stessa attribuzione, è chiaro che una delle due persone deve necessariamente dire la verità, se si ammette che ogni affermazione sia vera oppure falsa. Entrambe le determinazioni non potranno infatti appartenere simultaneamente a tali oggetti.

In realtà, se è vero [pag. 18b] dire che un oggetto è bianco, oppure che non è bianco, esso sarà necessariamente bianco, oppure non sarà bianco, e d’altra parte, se un oggetto è bianco, oppure non è bianco, era vero affermare oppure negare la cosa. Del pari, se la determinazione non appartiene all’oggetto, chi l’attribuisce a questo dice il falso, e d’altro canto, se chi attribuisce la determinazione all’oggetto dice il falso, la determinazione non appartiene all’oggetto. In tal caso è dunque necessario che tra l’affermazione e la negazione una risulti vera e l’altra invece falsa. Ed allora, nulla è né diviene per caso, o secondo due possibilità indifferenti, e nulla potrà essere o non essere; tutte le cose risultano piuttosto determinate per necessità, e non sussiste alcuna indifferenza tra due possibilità (in effetti, la verità è detta o da chi afferma o da chi nega), poiché altrimenti qualcosa potrebbe indifferentemente prodursi oppure non prodursi: ciò che può accadere in due modi indifferenti non è infatti, né sarà, in una certa situazione piuttosto che nella situazione contrapposta.

Oltre a ciò, se qualcosa è adesso bianco, era vero in precedenza dire che sarebbe poi stato bianco; di conseguenza, è sempre stato vero dire rispetto a qualsivoglia oggetto prodottosi, che sarebbe poi stato. E così, se è sempre stato vero dire che un oggetto era o sarebbe poi stato, non è possibile che questo non fosse o che non fosse poi stato. Ciò che non è possibile, d’altro canto, che non si sia prodotto, è impossibile che non si sia prodotto; inoltre, ciò che è impossibile che non si sia prodotto, è necessario che si sia prodotto. Per tutti gli oggetti che sarebbero poi stati, è dunque necessario che si siano prodotti. Di conseguenza, nulla potrà essere secondo due possibilità indifferenti, o per caso: se un qualcosa avvenisse infatti per caso, non sarebbe più determinato per necessità. Neppure certo si può dire che vera non è né l’affermazione né la negazione, sostenendo ad esempio che un qualcosa né sarà né non sarà. In

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Aristotele, Sull’interpretazione

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tal caso risulterebbe anzitutto necessario che la negazione non sia vera, quando l’affermazione è falsa, e che l’affeimazione non sia vera, quando la negazione è falsa.

Oltre a ciò, se risulta vero il dire che un oggetto è bianco e grande, è allora necessario che entrambe le determinazioni appartengano all’oggetto, e se d’altro canto è vero il dire che tali determinazioni apparterranno domani all’oggetto, esse vi apparterranno domani necessariamente. Se per contro domani un qualcosa né sarà né non sarà, ciò che può accadere in due modi indifferenti – ad esempio una battaglia navale – non potrà realizzarsi: si dovrebbe dire, in effetti, che la battaglia navale né si verifica né non si verifica.

Alle suddette conclusioni assurde, e ad altre consimili, si giunge dunque, se davvero si vuol sostenere, a proposito di ogni affermazione e di ogni negazione – si riferiscano poi queste ad oggetti universali, presentati in forma universale, oppure ad oggetti singolari –, che uno dei due giudizi contrapposti è necessariamente vero, mentre l’altro è falso, e se si vuoi dire che nulla tra ciò che diviene può sussistere in due modi indifferenti, ma che piuttosto tutte le cose sono e divengono per necessità. In tal modo, non occorrerebbe più che noi prendessimo delle decisioni, né che ci sforzassimo laboriosamente, con la convinzione che compiendo una determinata azione si verificherà un determinato fatto, e che non compiendo invece una determinata azione non si verificherà un determinato fatto.

Nulla impedisce, in effetti, che un uomo predica anche di diecimila anni la realtà di un fatto, e che un altro uomo neghi tale affermazione; di conseguenza, si verificherà necessariamente quella delle due cose, non importa quale, che già all’atto della predizione era vero dire. Né certo ha alcuna importanza, che delle persone abbiano pronunciato o meno due giudizi contraddittori: in realtà, è evidente che i fatti sono quelli che sono, anche se un uomo non ha affermato qualcosa ed un altro uomo non l’ha negato. Non è infatti per la circostanza di essere stato negato, oppure affermato, [pag. 19a] che un qualcosa sarà o non sarà, e che un avvenimento si verificherà dopo diecimila anni, piuttosto che non in qualsiasi altro momento di tempo.

Di conseguenza, se in ogni tempo la situazione delle cose ha fatto sì che fosse allora vero esprimere l’affermazione oppure la negazione, era così già necessario che questo fatto si sia prodotto, e tutto ciò che si è prodotto sia sempre in una situazione tale da prodursi per necessità. Ciò infatti, di cui si è detto secondo verità che sarà, non è possibile che non si produca; del pari, rispetto a ciò che si produce, è sempre stato vero dire che sarà.

Senza dubbio, bisogna ammettere che queste asserzioni risultano impossibili. Noi vediamo infatti che gli eventi futuri prendono principio dalle deliberazioni e dalle azioni, e che in linea generale agli oggetti che non sempre sono in atto tocca indifferentemente il potere di essere o di non essere; per tali oggetti entrambe le cose sono possibili, sia l’essere che il non essere, cosicché risultano possibili sia il divenire che il non divenire. E molti oggetti si comportano evidentemente a questo modo; ad esempio, un determinato mantello ha la possibilità di venir tagliato in due, eppure non sarà tagliato, ma si logorerà prima di allora. Per tale mantello sussiste poi ugualmente la possibilità di non venir tagliato in due, dato che esso non risulterebbe consunto in precedenza, se non fosse davvero in grado di non essere tagliato in due. Di conseguenza, ciò si dirà pure di tutti gli altri aspetti del divenire, cui va attribuito un cosiffatto potere.

E dunque evidente che non tutti gli oggetti sono o divengono per necessità; si deve dire, piuttosto, che alcuni oggetti possono accadere indifferentemente in due modi, caso in cui l’affermazione non risulta affatto più vera della negazione, e che a riguardo di altri oggetti una

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Aristotele, Sull’interpretazione

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delle due possibilità è preminente e si verifica con maggior frequenza, nonostante che anche la seconda possibilità possa presentarsi, e non si verifichi allora la prima.

Che ciò che è sia, quando è, e che ciò che non è non sia, quando non è, risulta certo necessario; non è però necessario che tutto ciò che è sia, né che tutto ciò che non è non sia. In effetti, l’essere per necessità di tutto ciò che è, quando è, non equivale all’essere per necessità, assolutamente, di tutto ciò che è. Similmente si dica per ciò che non è. Del pari, lo stesso discorso vale per i giudizi contraddittori in proposito. Certo, per necessità ogni oggetto è o non è, come pure, sarà o non sarà, ma non è davvero necessario dire una delle due cose, separata dall’altra. Con ciò intendo dire, ad esempio, che necessariamente domani vi sarà una battaglia navale, oppure non vi sarà, ma che non è tuttavia necessario che domani vi sia una battaglia navale, né d’altra parte è necessario che domani non vi sia una battaglia navale. Ciò che invece risulta necessario, è che domani avvenga o non avvenga una battaglia navale.

Di conseguenza, dal momento che i discorsi sono veri analogamente a come lo sono gli oggetti, è chiaro che a proposito di tutti gli oggetti, costituiti così da accadere indifferentemente in due modi, secondo delle possibilità contrarie, anche la contraddizione si comporterà necessariamente in maniera simile. E appunto ciò che avviene riguardo agli oggetti che non sono sempre, oppure a quelli che non sempre non sono. In tali casi è infatti necessario che una delle due parti della contraddizione sia vera e l’altra invece falsa, ma non è tuttavia necessario che una determinata parte sia vera oppure falsa; sussiste piuttosto un’indifferenza tra due possibilità, e quand’anche uno dei due casi risulti più vero, la verità e la falsità non saranno tuttavia già decise sin da principio. Risulta chiaro, di conseguenza, che non sempre [pag. 19b], riguardo ad un’affermazione e ad una negazione contrapposte, sarà necessario che una di esse sia vera e l’altra invece falsa: in effetti, ciò che vale per gli oggetti che sono non vale allo stesso modo per quelli che non sono ed hanno la possibilità di essere o di non essere. Le cose stanno piuttosto come si è detto.

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Aristotele di Stagira (384-22 a.C) Metafisica

lingua originale: greco edizione di riferimento: I. Bekker, Berlino, 1831 ecc.

tr. it. G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1993 tema: la legge di contraddizione

genere letterario: dimostrazione elenctica

Libro IV (Γ), capitolo iii [Bekker pag. 1005a] [Alla scienza dell’essere compete anche lo studio degli assiomi e in primo luogo del principio di non-contraddizione] Dobbiamo dire, ora, se sia compito di un’unica scienza, oppure di scienze differenti, studiare quelli che in matematica sono detti «assiomi» e anche la sostanza. Orbene, è evidente che l’indagine di questi «assiomi» rientra nell’ambito di quell’unica scienza, cioè della scienza del filosofo. Infatti essi valgono per tutti quanti gli esseri, e non sono proprietà peculiari di qualche genere particolare di essere, ad esclusione degli altri. E tutti quanti si servono di questi assiomi, perché essi sono propri dell’essere in quanto essere, e ogni genere di realtà è essere. Ciascuno, però, si serve di essi nella misura in cui gli conviene, ossia nella misura in cui si estende il genere intorno al quale vertono le sue dimostrazioni. Di conseguenza, poiché è evidente che gli assiomi appartengono a tutte le cose in quanto tutte sono esseri (l’essere è, infatti, ciò che è comune a tutto), competerà a colui che studia l’essere in quanto essere anche lo studio di questi assiomi.

Per questa ragione, nessuno di coloro che si limitano all’indagine di una parte dell’essere, si preoccupa di dire qualcosa intorno agli assiomi, se siano veri o no: non il geometra e non il matematico. Ne parlarono, invece, alcuni fisici, ma ne parlarono a ragione: infatti, essi ritenevano di essere i soli a fare indagine di tutta quanta la realtà e dell’essere.

D’altra parte, poiché c’è qualcuno che è ancora al di sopra del fisico (infatti la natura è solamente un genere dell’essere), ebbene, a costui che studia l’universale e la sostanza prima, competerà anche lo studio degli assiomi. [pag. 1005b] La fisica è, sì, una sapienza, ma non è la prima sapienza.

Per quanto riguarda, poi, i tentativi, fatti da alcuni di coloro che trattano della verità, di determinare a quale condizione si debba accogliere qualcosa come vero, bisogna dire che essi nascono dall’ignoranza degli Analitici; perciò, occorre che i miei uditori abbiano una preliminare conoscenza delle cose dette negli Analitici, e non che le ricerchino mentre ascoltano queste lezioni.

È evidente, dunque, che è compito del filosofo e di colui che specula intorno alla sostanza tutta e alla natura di essa, far indagine anche intorno ai principi dei sillogismi. Colui che, in qualsiasi genere di cose, possiede la conoscenza più elevata, deve essere in grado di dire quali sono i principi più sicuri dell’oggetto di cui fa indagine; di conseguenza, anche colui che possiede la conoscenza degli esseri io in quanto esseri, deve poter dire quali sono i principi più sicuri di tutti gli esseri. Costui è il filosofo. E il principio più sicuro di tutti è quello intorno al quale è impossibile cadere in errore: questo principio deve essere il principio più noto (infatti, tutti cadono in errore circa le cose che non sono note) e deve essere un principio non ipotetico. Infatti, quel principio che di necessità deve possedere colui che voglia conoscere qualsivoglia cosa non può essere una pura ipotesi, e ciò che necessariamente deve conoscere chi voglia

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Aristotele, Metafisica, IV, ii-iv

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conoscere qualsivoglia cosa deve già essere posseduto prima che si apprenda qualsiasi cosa. E evidente, dunque, che questo principio è il più sicuro di tutti.

Dopo quanto si è detto, dobbiamo precisare quale esso sia. È impossibile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga a una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto (e si aggiungano pure anche tutte le altre determinazioni che si possono aggiungere, al fine di evitare difficoltà di indole dialettica). E questo il più sicuro di tutti i princìpi: esso, infatti, possiede quei caratteri sopra precisati. Infatti, è impossibile a chicchessia di credere che una stessa cosa sia e non sia, come, secondo alcuni, avrebbe detto Eraclito. In effetti, non è necessario che uno ammetta veramente tutto ciò che dice. E se non è possibile che i contrari sussistano insieme in un identico soggetto (e si aggiungano a questa premessa le precisazioni solite), e se un’opinione che è in contraddizione con un’altra è il contrario di questa, è evidente che è impossibile, ad un tempo, che la stessa persona ammetta veramente che una stessa cosa esista e, anche, che non esista: infatti, chi si ingannasse su questo punto, avrebbe ad un tempo opinioni contraddittorie. Pertanto, tutti coloro che dimostrano qualcosa si rifanno a questa nozione ultima, perché essa, per sua natura, costituisce il principio di tutti gli altri assiomi.

. Capitolo iv (solo inizio: l’elenchos continua fino alla fine del libro [pag. 1012b31]) [Dimostrazione per via di confutazione del principio di non-contraddizione] Ci sono alcuni, come abbiamo detto, i quali affermano che la stessa cosa può essere e non essere, e, anche, che in questo modo si può pensare. [pag. 1006a] Ragionano in tale modo anche molti dei filosofi naturalisti. Noi, invece, abbiamo stabilito che è impossibile che una cosa, nello stesso tempo, sia e non sia; e, in base a questa impossibilità, abbiamo mostrato che questo è il più sicuro di tutti i principi.

Ora, alcuni ritengono, per ignoranza, che anche questo principio debba essere dimostrato: infatti, è ignoranza il non sapere di quali cose si debba ricercare una dimostrazione e di quali, invece, non si debba ricercare. Infatti, in generale, è impossibile che ci sia dimostrazione di tutto: in tal caso si procederebbe all’infinito, e in questo modo, per conseguenza, non ci sarebbe affatto dimostrazione. Se, dunque, di alcune cose non si deve ricercare una dimostrazione, io essi non potrebbero, certo, indicare altro principio che più di questo non abbia bisogno di dimostrazione.

Tuttavia, anche per questo principio, si può dimostrare l’impossibilità in parola, per via dí confutazione (elenchos): a patto, però, che l’avversario dica qualcosa. Se, invece, l’avversario non dice nulla, allora è ridicolo cercare una argomentazione da opporre contro chi non dice nulla, in quanto, appunto, non dice nulla: costui, in quanto tale, sarebbe simile ad un vegetale. E la differenza fra la dimostrazione per via di confutazione e la dimostrazione vera e propria consiste in questo: che, se uno volesse dimostrare, cadrebbe palesemente in una petizione di principio; invece, se causa di questo fosse un altro, allora si tratterebbe di confutazione e non di dimostrazione.

Il punto di partenza, in tutti questi casi, non consiste nell’esigere che l’avversario dica che qualcosa o è, oppure che non è (egli, infatti, potrebbe subito obiettare che questo è già un ammettere ciò che si vuol provare) ma che dica qualcosa che abbia un significato e per lui e per gli altri; e questo è pur necessario, se egli intende dire qualcosa. Se non facesse questo, costui non potrebbe in alcun modo discorrere, né con sé medesimo né con altri; se, invece, l’avversario concede questo, allora sarà possibile una dimostrazione. Infatti, in tal caso, ci sarà già qualcosa di determinato. E responsabile della petizione di principio non sarà colui che

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Aristotele, Metafisica, IV, ii-iv

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dimostra, ma colui che provoca la dimostrazione: e in effetti, proprio per distruggere il ragionamento, quegli si avvale di un ragionamento.

Inoltre, chi ha concesso questo, ha concesso che c’è qualcosa di vero anche indipendentemente dalla dimostrazione.

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Aristotele di Stagira (384-22 a.C) Metafisica

lingua originale: greco edizione di riferimento: I. Bekker, Berlino, 1831 ecc.

tr. it. G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1993 tema: la nozione di contingenza

genere letterario: lessico

Libro V (D) capitolo xxx [Bekker pagina 1025a] Si dice «accidente » ciò che appartiene ad un oggetto e che viene attribuito a questo in modo conforme a verità, ma, tuttavia, non per necessità né per lo più, come, ad esempio, nel caso che un uomo, mentre sta scavando una fossa per piantarvi un albero, vi trovi un tesoro. Trovare il tesoro è un fatto accidentale per colui che scava la fossa, giacché una cosa non deriva necessariamente dall’altra né è necessariamente posteriore ad essa, né si verifica che chi sta piantando trovi il più delle volte un tesoro. E anche un musico può essere bianco; ma, poiché ciò non accade né di necessità né per lo più, noi questo fatto lo chiamiamo accidente.

Di conseguenza, poiché c’è qualcosa che è anche proprietà. di un’altra e poiché alcune di queste proprietà sono presenti soltanto in un certo luogo e in un certo tempo, si chiamerà accidente qualsiasi proprietà che sia presente in un oggetto, senza che, però, la sua presenza faccia in modo che l’oggetto o il tempo o il luogo siano quello che sono ciascuno nella loro essenza. D’altra parte, l’accidente non ha una causa determinata, ma ha come causa il fortuito, ossia l’indeterminato. E stato per accidente che un tale è giunto ad Egina, qualora egli vi sia giunto non perché avesse l’intenzione di giungervi, ma perché è stato spinto da una tempesta o catturato dai pirati. L’accidente si produce ed esiste, ma non in virtù di se stesso, bensì in virtù di un’altra cosa: difatti è stata la tempesta a provocare l’arrivo in un luogo verso cui quel tale non si stava dirigendo [cioè verso Egina].

Ma si usa il termine «accidente » anche in una diversa accezione, cioè per indicare, ad esempio, le proprietà che una cosa ha di per sé, ma che non rientrano nella sua essenza, come è proprietà del triangolo avere la somma degli angoli uguale a due angoli retti. E gli accidenti di questo genere possono essere eterni, ma nessuno degli altri accidenti può esserlo. Ma di ciò si è discusso in altra sede.

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Aristotele di Stagira (384-22 a.C) Etica nicomachea

lingua originale: greco edizione di riferimento: I. Bekker, Berlino, 1831 ecc.

tr. it. A. Plebe in Aristotele: Opere, Laterza, Bari-Roma, 1973 tema: le cose desiderate per se stesse

genere letterario: raccolta della cose dette (endoxa)

Libro I capitolo v [Bekker pag. 1095b] Discutiamo dunque la questione donde siamo partiti. Non a torto gli uomini sembrano concepire il bene e la felicità a seconda del loro genere di vita. La massa e le persone più rozze li trovano nel piacere: perciò essi prediligono una vita di godimento.

Tre infatti sono i generi di vita più notevoli: quello suddetto, quello che mira alla vita politica, infine quello contemplativo. I più evidentemente appaiono simili agli schiavi, scegliendosi un’esistenza degna delle bestie, e trovano una giustificazione nel fatto che molte persone potenti hanno gli stessi gusti di un Sardanapalo.

Le persone evolute e attive ripongono invece il bene nell’onore. Questo infatti è all’incirca il fine della vita politica. Ma questo fine sembra esser cosa più superficiale di quel che cerchiamo. Esso infatti sembra dipendere più da chi conferisce l’onore che da chi è onorato: noi invece riteniamo che il bene sia qualcosa di individuale e di inalienabile. Inoltre gli uomini sembrano ricercare l’onore per convincersi di essere buoni: essi infatti aspirano a essere onorati da chi è assennato, e da chi li conosce, e riguardo alla loro virtù; è evidente dunque che, almeno di fronte a queste persone, la virtù è un bene superiore. Senz’altro si potrebbe dunque ritenere che essa sia il fine della vita politica. Ma anch’essa risulta insufficiente: sembra infatti potersi dare il caso che uno, pur possedendo la virtù, dorma e resti inattivo nel corso della a sua vita, [pag. 1096a] e che inoltre sopporti nella più gran misura mali e sfortune; ma una persona che vive in tal maniera, nessuno la riterrebbe felice, se non per amore di tesi. E intorno a quest’argomento basti ciò (infatti a sufficienza parlai di queste cose nei libri per il grande pubblico).

Il terzo genere di vita è quello contemplativo, intorno al quale dirigeremo la nostra indagine nelle pagine seguenti. La vita invece dedita al commercio è qualcosa di contro natura, ed è evidente che la ricchezza non è il bene che ricerchiamo; infatti essa è solo in vista del guadagno ed è un mezzo per qualcosa d altro. Tanto più dunque si dovrebbero preferire i fini prima elencati: essi infatti sono desiderati di per se stessi. Ma o è evidente che neppure quelli son sufficienti: benché molte teorie sian già state esposte su di essi.

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Aristotele di Stagira (384-22 a.C) Etica nicomachea

lingua originale: greco edizione di riferimento: I. Bekker, Berlino, 1831 ecc.

tr. it. A. Plebe in Aristotele: Opere, Laterza, Bari-Roma, 1973 tema: la definizione e le varietà della giustizia

genere letterario: lezione pubblica

Libro V capitolo i [Bekker pag. 1129a] Dobbiamo ora indagare intorno alla giustizia e all’ingiustizia, determinando con quali azioni esse si trovano ad essere in rapporto, quale medietà sia la giustizia, e di quali estremi il giusto sia il mezzo. La nostra indagine si svolgerà secondo lo stesso metodo delle parti precedenti.

Vediamo dunque che tutti vogliono chiamare giustizia quella disposizione di animo, per la quale gli uomini sono inclini a compiere cose giuste e per la quale operano giustamente e vogliono le cose giuste: altrettanto è dell’ingiustizia, per la quale gli uomini commettono ingiustizie e vogliono le cose ingiuste. Perciò questa definizione anzitutto valga per noi come abbozzo generale. Vi è al proposito differenza tra le scienze e le facoltà da un lato, e le disposizioni dall’altro. Mentre infatti sembra che vi possano essere una stessa scienza e una stessa facoltà di cose contrarie, invece di cose contrarie la disposizione contraria non è la stessa: ad esempio dalla salute non possono derivare gli effetti contrari, bensì solo quelli relativi alla salute; e diciamo infatti che uno cammina in modo sano, quando cammina come chi è sano. Spesso invero si conosce la disposizione contraria dal suo contrario, e spesso le disposizioni opposte derivano dalle loro condizioni implicite: così da un lato, se è noto qual è la buona costituzione fisica, ne diventa nota anche la cattiva, dall’altro la buona costituzione fisica appare dalle condizioni della salute e queste appaiono da quella.

Ne consegue per lo più che, se di una delle due disposizioni si può parlare in molti sensi, anche dell’altra si potrà parlare in molti sensi: ad esempio se si parla in molti sensi del giusto, altrettanto sarà anche per l’ingiusto e l’ingiustizia. Sembra appunto che della giustizia e dell’ingiustizia si parli in molti sensi, ma essendo questi sensi assai vicini tra loro a causa della loro omonimia, essi sfuggono e non sono evidenti come invece accade nelle cose lontane tra loro. La differenza infatti è grande quando riguarda l’idea: ad esempio in greco si chiama egualmente ‘chiave’ sia la clavicola degli animali sia la chiave con cui si chiudono le porte.

Vediamo dunque in quanti sensi si dice che uno è ingìusto. Sembra che ingiusto sia tanto il trasgressore della legge, quanto chi vuole avvantaggiarsi, quanto l’iniquo, per cui è evidente che anche il giusto sarà sia il rispettoso della legge sia l’equo. Perciò ciò che è giusto sarà quel ch’è legale e quel ch’è imparziale, ciò che è ingiusto sarà quel ch’è illegale e quel ch’è iniquo. [pag. 1129b] E poiché l’ingiusto è anche uomo che vuol avvantaggiarsi, si mostrerà tale intorno ai beni, ma non intorno a tutti, bensì intorno a quelli in cui v’è buona e cattiva fortuna, i quali in genere sono sempre beni, ma per qualcuno non lo sono sempre. Gli uomini li desiderano e li inseguono; però non bisogna fare così, bensì bisogna desiderare che quelli che sono beni in senso assoluto divengano beni anche per noi stessi e scegliere solo quelli che sono beni per noi. L’uomo ingiusto poi non sceglie sempre ciò ch’è più del dovuto, bensì sceglie anche il meno nel caso dei mali in genere: però, poiché sembra che anche il minor male sia in certo modo un bene, e la prepotente avidità concerne il bene, per questo egli

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Aristotele, Etica nicomachea, V, i & vii

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sembra esser uomo che vuole avvantaggiarsi. Ed è anche iniquo: questo concetto poi abbraccia tutto ciò ed è quindi comune.

Poiché dunque, come s’è detto, il trasgressore della legge è ingiusto, mentre il rispettoso della legge è giusto, è evidente che tutte le cose legali sono in certo modo giuste: infattì le cose stabilite dal potere legislativo sono legali, e noi diciamo che ciascuna di esse è giusta. Le leggi poi si pronunziano su ogni cosa, mirando o all’utilità comune a tutti o a quella di chi primeggia o per virtù, o in qualche altro modo simile; perciò con una sola espressione definiamo cose giuste quelle cose che procurano o salvaguardano la felicità o parti di essa alla comunità civile. La legge poi comanda anche di operare da uomo coraggioso, ad esempio di non abbandonare le file, di non fuggire e di non gettare lo scudo; e da uomo moderato, ad esempio di non compiere adulterio e oltraggio; e da uomo mansueto, ad esempio di non percuotere e di non far maldicenza; e parimenti secondo le altre virtù e colpe, prescrivendo alcune cose e vietandone altre. È retta poi la legge stabilita rettamente, peggiore quella improvvisata.

Questa giustizia è dunque una virtù perfetta, ma non di per sé, bensì in relazione ad altro. E per questo spesso la giustizia sembra essere la più importante delle virtù, e che né la stella della sera né quella del mattino siano cosi ammirabili; e, nel proverbio, diciamo:

Nella giustizia è insieme compresa ogni virtù.

Essa è una virtù sommamente perfetta, perché il suo uso è quello di una virtù perfetta; cíoè è perfetta, perché chi la possiede può servirsi di questa virtù anche nei riguardi di un altro e non solo di se stesso; infatti molti nelle proprie cose possono servirsi della virtù, ma non possono servirsene nelle cose che concernono altri. [pag. 1130a] E per questo sembra esser giusto il detto di Biante che ‘è la carica che fa conoscere l’uomo’: infatti chi esercita una carica è già in rapporto con altri e partecipa alla società. Proprio per questo poi la giustizia è la sola delle virtù che sembra essere un bene altrui, in quanto riguarda gli altri: essa infatti compie ciò che è utile ad altri, sia ai capi, sia alla società. È dunque l’uomo peggiore colui che diventa reo verso se stesso e verso gli amici; mentre il migliore non è chi fa uso della virtù riguardo a se stesso, bensi riguardo ad altri: e questo è opera difficile.

Questa giustizia dunque non è una virtù parziale, bensi è virtù completa, e l’ingiustizia che le si oppone non è un vizio parziale, ma è vizio completo. (In che cosa differisce poi la virtù da questa giustizia, è chiaro da ciò che s’è detto: entrambe infatti coincidono, ma la loro essenza non è la stessa, bensì in quanto essa riguarda gli altri è giustizìa, in quanto invece è una tal disposizione, in sé, è virtù.)

-–ooOoo–-

tr. it. C. Mazzarelli, Bompiani, Milano, 2001

Capitolo vii [Bekker pag. 1134b]

Del giusto in senso politico, poi, ci sono due specie, quella naturale e quella legale: è naturale il giusto che ha dovunque la stessa validità, e non dipende dal fatto che venga o non venga riconosciuto; legale, invece, è quello che originariamente è affatto indifferente che sia in un modo piuttosto che in un altro, ma che non è indifferente una volta che sia stato stabilito. Per esempio, che il riscatto di un prigioniero sia di una mina, che si deve sacrificare una capra e

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Aristotele, Etica nicomachea, V, i & vii

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non due pecore, e inoltre tutto quello che viene stabilito per legge per i casi particolari, per esempio, il sacrificio in onore di Brasida, e le norme derivate da decreti popolari.

Alcuni ritengono che tutte le norme appartengano a questo secondo tipo di giustizia, perché ciò che è per natura è immutabile ed ha dovunque la stessa validità (per esempio, il fuoco brucia qui da noi come in Persia), mentre essi vedono che le norme di giustizia sono mutevoli. Ma questo non è vero in senso assoluto, bensì solo in un certo senso: anzi, almeno tra li dèi, certamente, non è affatto vero, mentre tra noi uomini c'è una specie di giusto per natura, benché sia tutto mutevole; pur tuttavia, c'è un tipo di giusto che si fonda sulla natura ed uno che non si fonda sulla natura. Ora, tra le norme che possono essere anche diverse, è chiaro quale sia per natura e quale non sia per natura ma per legge, cioè per convenzione, se è vero che sia la natura sia la legge sono mutevoli. La medesima distinzione è adatta anche negli altri casi: per natura, infatti, la mano destra è più forte, eppure è possibile per chiunque diventare ambidestro.

Le norme di giustizia stabilite per convenzione e per fini utili [pag. 1135a] sono simili alle misure: infatti, le misure per il vino e per il grano non sono uguali dappertutto, ma dove si compra all'ingrosso sono più grandi, dove si rivende sono più piccole. Parimenti, anche le norme di giustizia che non derivano dalla natura ma dall'uomo non sono le stesse dappertutto, perché non sono le stesse le costituzioni, ma una soltanto è dappertutto la migliore per natura.

Ciascun tipo di norma giuridica, cioè di legge, è come l'universale nei riguardi del particolare; le azioni compiute, infatti, sono molte, ma ciascuna delle norme è una: la norma è un universale. C'è differenza, poi, tra atto e cosa ingiusta e atto e cosa giusta: giacché una cosa è ingiusta o per natura o per una prescrizione di legge. Questa stessa cosa, quando è stata tradotta in azione, è un atto ingiusto, ma, prima di essere compiuta, non è ancora un atto ingiusto, bensì una cosa ingiusta. Lo stesso vale anche per l'atto di giustizia: in senso generale si chiama piuttosto "azione giusta", mentre "atto di giustizia" si chiama l'atto che corregge un atto di ingiustizia. Ma su ciascun tipo di legge, sulla natura e sul numero delle loro forme e sulla natura dei loro oggetti si dovrà indagare in seguito.

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Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.) Disputazioni tuscolane (c. 45 a.C.)

lingua originale: latino edizione di riferimento: G. Fohlen, J. Humbert, Parigi, 1931

tr. it. L.Z. Clerici, Rizzoli, Milano, 1996 tema: le ‘tre vite’ e l’invenzione della filosofia

genere letterario: monologo terapico Libro V, capitolo III

[7] E pur osservando che la filosofia è antichissima, riconosciamo tuttavia che il nome è recente. Difatti, per quanto riguarda la sapienza in sé, chi potrebbe negare che essa sia antica non solo di fatto, ma anche di nome? Nel l’antichità essa riceveva questo suo bellissimo nome dal fatto di conoscere sia le cose divine e umane, sia gli inizi e le cause di ognuna. Così, stando alla tradizione, furono sapienti, e tali furono considerati, sia quei famosi sette che dai Greci erano considerati e chiamati sofoi, da noi ‘sapienti’ sia, molti secoli prima, Licurgo, di cui si dice che visse come il suo contemporaneo Omero pri ma della fondazione di Roma; sia ancora, nei tempi eroici, Ulisse e Nestore. [8] D’altronde non sarebbe nata la leggenda di Atlante che sostiene il cielo o di Prometeo inchiodato al Caucaso o di Cefeo trasformato in costel lazione insieme con la moglie, il genero e la figlia, se la loro divina conoscenza dell’astronomia non avesse con segnato il loro nome al simbolismo del mito. In seguito, tutti coloro che seguendo le loro orme si dedicavano con passione all’indagine della natura erano considerati e chia mati sapienti, e tale nome si usò fino al tempo di Pitagora. Stando alla tradizione riportata da Eraclide Pontico, discepolo di Platone, uomo di straordinaria cultura, Pitagora si era recato a Fliunte dove aveva discusso con grande dottrina ed eloquenza alcune questioni con Leonte, principe dei Fliasi; Leonte allora, ammirato per il suo ingegno e la sua eloquenza, gli chiese quale arte soprat tutto professasse e si sentì rispondere che egli non conosceva nessuna arte in particolare, ma era un filosofo. Leonte, stupito della novità del nome, chiese chi mai fossero i filosofi e quale differenza ci fosse tra loro e gli altri. [9] Pitagora allora rispose che, secondo il suo modo di vedere, c’era un’analogia tra la vita degli uomini e quel tipo di fiere che si tengono con grandissimo apparato di giochi davanti a un pubblico che accorre da tutta la Grecia. Infatti, come là c’è chi cerca di ottenere la gloria e la celebrità della corona con l’allenamento atletico, e chi vi giunge con l’intento di fare buoni affari comperando e vendendo, ma c’è anche una categoria di persone, ed è di gran lunga la più nobile, che non cerca né il plauso né il lucro, ma vi si reca solo per vedere e osservare attentamente ciò che succede e come succede, lo stesso vale per noi uomini: come la gente parte da una città per recarsi a una fiera affollata, così noi, giunti in questa vita dopo essere parti ti da una vita e da una natura diversa, ci troviamo a servi re chi la gloria, chi il denaro; ci sono alcuni, ma sono rari, che senza tenere in alcun conto tutto il resto, si dedica no con passione allo studio della natura, e questi - diceva Pitagora - si chiamano amanti della sapienza, cioè filosofi; e come alla fiera il comportamento più nobile è quello dell’osservatore disinteressato, così nella vita l’indagine e la conoscenza della natura sono attività di gran lunga superiori a tutte le altre. Capitolo IV

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Cicerone, Tuscolane, V

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[10] Pitagora però non si limitò a inventare il nome, ma ampliò anche il campo stesso della filosofia. Infatti, giunto in Italia dopo la conversazione di Fliunte cui ho accennato, egli diede onore a quella che fu poi chiamata Magna Grecia con le mirabili arti e istituzioni che realizzò sia nella sua vita privata sia in quella pubblica. Forse ci sarà un’altra occasione per parlare della sua dottri na. Ma i filosofi antichi fino a Socrate, che aveva ascol tato le lezioni di Archelao, discepolo di Anassagora, si occupavano dei numeri e dei movimenti, dell’origine e della dissoluzione delle cose, e studiavano con grande impegno le grandezze, le distanze, i moti delle stelle e tutti i fenomeni celesti. Socrate fu il primo a far scendere la filosofia dal cielo, a collocarla nelle città, a introdurla nelle case e a costringerla a occuparsi della vita e dei costumi, del bene e del male. [11] Il suo articolato metodo di discussione, la varietà degli argomenti, l’altezza dell’ingegno, consacrati alla memoria dei posteri dagli scritti di Platone, diedero origine a più scuole filosofiche in contrasto tra loro; tra queste io mi sono attenuto soprattutto al me todo che, a mio avviso, era quello seguito da Socrate, e che consiste nel sospendere il proprio giudizio personale, liberare gli altri dall’errore, cercare in ogni argomento la massima verosimiglianza. E poiché questo procedimento è stato applicato da Carneade con grande acutezza ed eloquenza, anch’io ho cercato di impostare la discussione seguendo tale metodo, sia in molte occasioni passate, sia recentemente a Tuscolo. Il testo scritto dei discorsi tenuti nei primi quattro giorni è riportato nei libri che ti ho dedicato; il quinto giorno, dopo esserci seduti nello stesso luogo, l’argomento della discussione fu deciso così: [12] ‘Non mi sembra che a virtù possa bastare per vivere felici’.

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Tito Lucrezio Caro (c. 98-c. 54 a.C.) Sulla natura delle cose

lingua originale: latino edizione di riferimento: M.F. Smith, Cambridge Ma., 1975.

tr. it. F. Giancotti, Garzanti, Milano, 1994 tema: la deriva atomica

genere letterario: poema didattico Libro II 216 A tale proposito desideriamo che tu conosca anche questo:

che i corpi primi, quando in linea retta per il vuoto son tratti in basso dal proprio peso, in un momento affatto indeterminato e in un luogo indeterminato, deviano un po' dal loro cammino:

220 giusto quel tanto che puoi chiamare modifica del movimento. Ma, se non solessero declinare, tutti cadrebbero verso il basso, come gocce di pioggia, per il vuoto profondo,

. ne sarebbe nata collisione, ne urto si sarebbe prodotto tra i primi principi: così la natura non avrebbe creato mai nulla:

225 Ma, se per caso qualcuno crede che i corpi più pesanti; I più celermente movendosi in linea retta per il vuoto, cadano dall'alto sui più leggeri e così producano urti capaci di provocare movimenti generatori, forviato si discosta lontano dalla verità.

230 Difatti tutte le cose che cadono per le acque e l'aria sottile,

esse, sì, bisogna che accelerino le cadute in proporzione dei pesi, perché il corpo dell'acqua e la tenue natura dell'aria non possono egualmente ritardare ogni cosa, ma più celermente cedono se son vinti da cose più pesanti.

235 Per contrario, da nessuna parte e in nessun tempo. lo spazio vuoto può sussistere quale base sotto alcuna cosa, senza continuare a cedere, come esige la sua natura: perciò attraverso l'inerte vuoto tutte le cose devono muoversi con eguale velocità, quantunque siano di pesi non eguali.

240 Giammai, dunque, le più pesanti potranno cadere dall'alto sulle più leggere, ne potranno per se stesse generare urti che mutino i movimenti con cui la natura compie le sue operazioni. Perciò, ancora e ancora, occorre che i corpi primi declinino un poco; ma non più del minimo possibile, perché non sembri

245 che immaginiamo movimenti obliqui: cosa che la realtà confuterebbe. Infatti ciò vediamo che e alla portata di tutti e manifesto: e che i corpi pesanti, per quanto e in loro, non possono muoversi obliquamente,

250 quando precipitano dall'alto, almeno fin dove e dato scorgere. Ma, che essi non declinino assolutamente dalla linea retta nella loro caduta, chi c'e che possa scorgerlo?

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Lucrezio Sulla natura delle cose, II

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Infine, se sempre ogni movimento e concatenato e sempre il nuovo nasce dal precedente con ordine certo,

255 né i primi principi deviando producono qualche inizio

di movimento che rompa i decreti del fato, sì che causa non segua causa da tempo infinito, donde proviene ai viventi sulla terra questa libera volontà, donde deriva, dico, questa volontà strappata ai fati,

260 per cui procediamo dove il piacere guida ognuno di noi e parimenti deviamo i nostri movimenti, non in un tempo determinato, ne in un determinato punto dello spazio, ma quando la mente di per sé ci ha spinti?

265 Difatti senza dubbio in ognuno dà principio a tali azioni la sua propria volontà, e di qui i movimenti si diramano per le membra. Non vedi anche come, nell'attimo in cui i cancelli del circo sono aperti, non possa tuttavia la bramosa forza dei cavalli

270 prorompere così di colpo come la mente stessa desidera? Tutta infatti, per l’intero corpo, la massa della materia deve animarsi, sì che, una volta animata, per tutte le membra segua con unanime sforzo il desiderio della mente. Quindi puoi vedere che l'inizio del movimento si crea dal cuore,

2 7 5 e dalla volontà dell'animo esso procede primamente, e di là si propaga poi per tutto il corpo e gli arti. Né ciò e simile a quel che accade quando procediamo spinti da un urto per la forza possente e la possente costrizione di un altro. Infatti allora è evidente che tutta la materia dell'intero corpo si muove ed e trascinata contro il nostro volere, finché non l'abbia raffrenata per le membra la volontà. Non vedi dunque ora che, sebbene spesso una forza esterna molti spinga e costringa a procedere senza che lo vogliano, e a lasciarsi trascinare a precipizio, tuttavia c'è nel nostro petto

280 qualcosa che può lottar contro ed opporsi? E pure a suo arbitrio che la massa della materia è costretta talora a piegarsi per le membra, per gli arti, e nel suo slancio è raffrenata, e torna indietro a star ferma. Perciò anche negli atomi occorre che tu ammetta la stessa cosa,

285 cioè che, oltre agli urti e ai pesi, c'e un'altra causa dei movimenti, donde proviene a noi questo innato potere, giacché vediamo che nulla può nascere dal nulla. Il peso infatti impedisce che tutte le cose avvengano per gli urti, quasi per una forza esterna. Ma, che la mente stessa,

290 non abbia una necessità interiore nel fare ogni cosa, né, come debellata, sia costretta a sopportare e a patire, ciò lo consegue un'esigua declinazione dei primi principi, in un punto non determinato dello spazio e in un tempo non determinato.

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Luciano di Samosata (c. 115 – dopo 180 d.C.) I filosofi all’asta

lingua originale: greco edizione di riferimento: A.M.Harmon (et al.), Cambridge, Ma., 1913

tr. it. C. Ghirga (Rizzoli, Milano, 2003) tema: i sofismi

genere letterario: teatrino satirico [Il dialogo si svolge nel mercato di Atene, dove Ermes, un mercante di schiavi, sta tentando di sbolognare rappresentanti delle varie scuole filosofiche; si sono già esibiti Pitagora, Socrate e Diogene il cinico. Zeus è l’organizzatore dell’asta.] [20] ZEUS Chiamane un altro, quello rasato di fresco e tutto serioso, quello della Stoà. ERMES Hai ragione, se la tira proprio come se lo stesse aspettando quella gran folla che di

solito gli va incontro al foro Vendo la virtù personificata, la perfezione fatta uomo. Chi vuole essere il solo a sapere tutto?

COMP Cosa stai dicendo? ERMES Che costui è il solo saggio, il solo bello, il solo giusto, coraggioso, re, oratore, ricco,

legislatore.. e chi più ne ha più ne metta. COMP Ehi, carissimo, non è per caso che sei anche il solo cuoco, calzolaio, fabbro, eccetera,

eccetera? ERMES Così sembra. [21] COMP Vieni qui, bello mio, e di’ al tuo compratore che tipo sei, e prima di tutto, se non

ti scoccia essere venduto e vivere in schiavitù. CRISIPPO Assolutamente no! Queste cose non dipendono da noi, e tutto ciò che non dipende

da noi succede che sia indifferente. COMP Non capisco, cosa intendi dire? CRIS Come dici? Non capisci che di queste cose indifferenti alcune siano preferite, e altre al

contrario respinte? COMP Non capisco neanche adesso. CRIS Naturale, non sei abituato alla nostra terminologia e non possiedi la rappresentazione

comprensiva. Le persone serie, però, che hanno fatto studi di logica, non solo sanno queste cose, ma conoscono anche gli accidenti e i sovraccidenti, quali siano e quanto siano diversi tra loro.

COMP In nome della cultura, dimmi subiti cosa sono accidente e sovraccidente! Non so perché, ma sono stato colpito dal suono di queste parole.

CRIS Subito. Ammettiamo che un tizio zoppo vada ad urtare contro una pietra proprio con il piede claudicante e si procuri inavvertitamente una ferita. Costui, aveva il difetto di zoppicare come accidente e si è procurato la ferita come sovraccidente.

[22] COMP Però, che cervello fino! E che altro dici di conoscere in particolare? CRIS I lacci delle parole con cui incastro i miei interlocutori, li imbavaglio e tappo loro la

bocca con una museruola vera e propria. Il nome di questa mia arte è il tanto decantato sillogismo.

COMP Per dio! Si tratta di un’arte davvero violenta! CRIS Fai attenzione: hai un figlio? COMP Perché?

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Luciano di Samosata, I filosofi all’asta

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CRIS Ammettiamo che un coccodrillo lo trovi mentre va a zonzo lungo il fiume e poi te lo rapisca e ti prometta di restituirtelo solo nel caso in cui indovinassi che cosa lui ha deciso riguardo alla restituzione del bambino. Che cosa dirai che ha deciso?

COMP La questione che mi poni è molto ardua. Non so che risposta dare per prima per riavere il bambino. Ma tu, per dio, rispondi e salvami il pargolo, prima che me lo divori!

CRIS Su, coraggio, te ne insegnerò altri ancora più straordinari. COMP Quali? CRIS Il Mietitore, il Signore, l’Elettra e l’Incappucciato. COMP Cosa sono questo Incappucciato e questa Elettra di cui parli? CRIS Elettra, quella famosa, la figlia di Agamennone, quella che contemporaneamente sa e

non sa la medesima cosa. Infatti quando le sta di fronte Oreste, che ancora non ha riconosciuto, sa di Oreste, che è suo fratello, ma non sa che quello che ha di fronte è Oreste. E ora ascolterai l’Incappucciato, che è altrettanto straordinario. Rispondimi: conosci tuo padre?

COMP Sì. CRIS Ebbene, se io ti presentassi un tipo incappucciato e ti chiedessi: «Conosci questo tipo?»,

cosa diresti? COMP Sicuramente di non conoscerlo. [23] CRIS Eppure il tipo era proprio tuo padre, così se non conosci lui è chiaro che non

conosci tuo padre. COMP Certo che no! Ma una volta tolto il capuccio scoprirò la verità. Ma tornando a noi,

qual è il fine a cui tendi con le tue conoscenze, o meglio, che farai una volta giunto alla più alta vetta della virtù?

CRIS Per quanto attiene ai valori primari, e mi riferisco alla ricchezza, alla salute ac similia, vivrò secondo natura. Prima, però, necessità vuole che mi stravolga fino a rovinarmi la vista su libri scritti in piccolo, raccogliendo scoli e facendo il pieno di solecismi e parole rare. Ma, cosa fondamentale, non è lecito divenire sapienti se non si beve l’elleboro tre volte di seguito.

COMP Che discorso da grande eroe che hai fatto! Ma che dire del fatto che sei un avido usuraio - e questa infatti è la tua natura a quanto pare; è caratteristica di chi ha già bevuto l’elleboro ed è la virtù personificata?

CRIS Proprio così, e ti dirò di più: sarebbe giusto che solo il sapiente prestasse a interesse. Infatti, poiché è proprio del sapiente giocare coi sillogismi, ed il giocare sugli interessi sembra simile al giocare coi sillogismi, sarebbe compito del solo virtuoso sia questo che quello; e non solo prendere gli interessi semplici ma anche quelli doppi. O forse ignori che tra gli interessi esistono i primi e i secondi, che sono come discendenti dai primi? Del resto tu vedi cosa dice il sillogismo: se prenderà il primo interesse, prenderà anche il secondo; ma prenderà il primo, ergo prenderà anche il secondo.

[24] COMP Allora non dovremmo dire la stessa cosa anche del compenso che percepisci dai giovani per la tua sapienza? Non è forse chiaro che solo l’uomo perbene percepirà un compenso per la sua virtù?

CRIS Vedo che capisci, infatti non lo prendo per me, ma per il bene di chi me lo dà. Poiché esistono i prodighi e i risparmiatori, io esercito me stesso a essere risparmiatore, e il discepolo a essere prodigo.

COMP Eppure dovrebbe essere il contrario: il giovane dovrebbe essere risparmiatore, e tu, il ricco tra i due, prodigo.

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Luciano di Samosata, I filosofi all’asta

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CRIS Ma tu mi prendi in giro! Bada che non ti lanci la freccia del sillogismo indimostrabile! COMP E cosa ne verrebbe di terribile da questa freccia? CRIS Imbarazzo, silenzio, sconvolgimento cerebrale. [25] Ma la cosa più importante è che se vorrò ti trasformerò subito in pietra. COMP Come in pietra? non mi sembra che tu sia Perseo, bello mio! CRIS Più o meno così: la pietra è un corpo? COMP Sì. CRIS Allora, l’essere vivente non è un corpo? COMP Sì. CRIS Tu sei un essere vivente? COMP Sembrerebbe. CRIS Dunque essendo un corpo sei una pietra. COMP Neanche per sogno! Ma liberami, per dio, e rendimi di nuovo uomo! CRIS Non è difficile. Torna ad essere uomo in questo modo: dimmi, ogni corpo è vivo? COMP No. CRIS Ebbene, la pietra è viva? COMP No. CRIS Tu sei un corpo? COMP Sì. CRIS Ed essendo un corpo, sei vivo? COMP Sì. CRIS Ergo, essendo vivo non sei una pietra. COMP Ben fatto! Le mie gambe erano già diventate fredde e dure come quelle di Niobe.

Comunque ti comprerò. Quanto devo pagare per lui? ERMES Dodici mine.

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Diogene Laerzio (prima metà III sec. d.C.) Le vite dei filosofi

lingua originale: greco edizione di riferimento: H. Frobenius, Basilea, 1533

tr. it. M. Gigante, TEA, Milano, 1991 tema: le suddivisioni della filosofia

genere letterario: dossografia Libro VII

[36] Dei molti discepoli di Zenone uno dei più famosi fu Perseo figlio di Demetrio nato a Cizio, che secondo alcuni fu alunno ed amico, secondo altri uno dei domestici mandatigli da Antigono per il servizio bibliografico: egli era stato istruttore di Alcioneo, figlio di Antigono. Una volta Antigono volle metterlo alla prova e gli fece annunziare la falsa notizia che i suoi campi erano stati saccheggiati dai nemici. Perseo divenne scuro in volto e Antigono: «Vedi ? La ricchezza non è cosa indifferente».

Gli si attribuiscono le seguenti opere: Del regno, La costituzione degli Spartani, Delle nozze, Dell’empietà, Tieste, Degli amori, Protrettici, Diatribe <in quattro libri>, Aneddoti, in quattro libri; Commentari, Sulle « Leggi» di Platone, in sette libri.

[37] Altri discepoli illustri furono: Aristone figlio di Milziade, nato a Chio, che introdusse la dottrina dell’indifferenza. Erillo di Calcedonia che definì fine la scienza. Dionisio detto l’Apostata che si fece sostenitore della teoria edonistica, perché per la sua grave malattia agli occhi non ebbe più la forza di affermare che il dolore è cosa indifferente. Dionisio era nato ad Eraclea. Sfero del Bosforo. Cleante figlio di Fania nato ad Asso che fu successore nello scolarcato. Zenone era solito paragonarlo a quelle tavolette spalmate di dura cera su cui è faticoso scrivere, ma che conservano a lungo quel che v’è stato scritto. Sfero fu poi alunno di Cleante, dopo la morte di Zenone; e di lui parleremo nella seguente Vita di Cleante.

[38] Ippoboto cataloga fra i suoi alunni anche Filonide di Tebe Callippo di Corinto, Posidonio di Alessandria, Atenodoro di Soli, Zenone di Sidone.

In questa Vita di Zenone mi è parso opportuno dare un resoconto generale di tutta insieme la dottrina stoica, per il fatto che Zenone fu il fondatore della scuola stoica. Abbiamo già dato la lista dei suoi numerosi scritti, in cui parlò come nessun altro stoico. Le opinioni comuni a tutti gli Stoici sono queste: esponiamole sommariamente, attuando il medesimo solito criterio che abbiamo applicato agli altri filosofi. Gli Stoici dividono la filosofia in tre parti: Fisica, Etica, Logica.

[39] Questa distinzione fece per primo Zenone di Cizio nel libro Sulla Logica, poi Crisippo nel primo libro Sulla Logica e nel primo libro Sulla Fisica e Apollodoro l’Efelo nel primo libro dell’Introduzione alla dottrina ed Eudromo nell’Esposizione dei principi elementari di Etica e Diogene di Babilonia e Posidonio.

Queste parti Apollodoro chiama luoghi, Crisippo ed Eudromo specie, altri chiamano generi. [40] Gli Stoici paragonano la filosofia ad un essere vivente: alle ossa ed ai nervi

corrisponde la Logica, alle parti carnose l’Etica, all’anima la Fisica. Oppure la paragonano ad un uovo: la parte esterna, il guscio, è la Logica, la parte seguente, il bianco, è l’Etica, la parte più interna, il tórlo, è la Fisica. Oppure la paragonano ad un fertile campo: la siepe esterna è la Logica, il frutto è l’Etica, la terra o gli alberi la Fisica. Oppure la paragonano ad una città ben munita di mura e razionalmente amministrata. E nessuna parte è separata dall’altra, come pur dicono alcuni Stoici, ma sono tutte piuttosto strettamente congiunte fra loro. Anche

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Diogene Laerzio, Vita di Zenone di Cizio

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l’insegnamento veniva trasmesso congiuntamente e non separatamente. Altri danno il primo posto alla Logica, il secondo alla Fisica, il terzo all’Etica: tra costoro è Zenone nel libro Sulla Logica, oltre a Crisippo, Archedemo ed Eudromo.

[41] Diogene di Tolemaide a sua volta comincia dall’Etica, Apollodoro pone al secondo posto l’Etica, Panezio e Posidonio cominciano dalla Fisica, come afferma Fania, discepolo di Posidono, nel primo libro delle Lezioni di Posidonio. Cleante poi distingue sei parti: Dialettica, Retorica, Etica, Politica, Fisica, Teologia. Altri riferiscono questa partizione non alla Logica, ma alla stessa filosofia. Così per esempio Zenone di Tarso. Alcuni distinguono la parte logica del sistema in due scienze: Retorica e Dialettica; altri le attribuiscono l’ufficio di definire e di fornire canoni e criteri ; altri tuttavia le eliminano l’officio della definizione.

[42] Si servono dei canoni e criteri per trovare la verità perché in essa stabiliscono le regole per la distinzione delle rappresentazioni, ed analogamente si servono delle definizioni per riconoscere la verità, perché la realtà si apprende per mezzo di concetti. Definiscono la Retorica la scienza di dire bene su argomenti pianamente ed unitariamente esposti, e la Dialettica la scienza di discutere rettamente su argomenti per domanda e risposta. Perciò danno anche quest’altra definizione: la scienza di ciò che è vero e di ciò che è falso, e di ciò che non è né vero né falso.

Dividono la Retorica in tre parti: deliberativa, forense, encomiastica [43] La Retorica è costituita dai seguenti elementi: invenzione degli argomenti, loro

espressione in parole, loro disposizione e viva rappresentazione. Costituiscono il discorso retorico le seguenti parti: il proemio, la narrazione dei fatti, la confutazione della parte avversa e l’epilogo.

La Dialettica abbraccia due campi: l’uno delle cose significate e l’altro dell’espressione o parola.

Il campo delle cose significate comprende da una parte la dottrina della loro viva rappresentazione e dall’altra la dottrina degli elementi che la costituiscono, proposizioni enunciate sia indipendenti sia semplici predicati, e termini simili attivi o passivi, generi e specie, e così pure parole, tropi, sillogismi e sofismi determinati dal linguaggio o dall’argomento.

[44] Le varie specie di sofismi sono: il mentitore, il veritiero, il negante, il sorite e simili a questo, il mancante, l’insolubile, il concludente, il velato, il cornuto, l’utide (il nessuno), il mietitore.

Abbiamo or ora detto che l’altro particolare campo della Dialettica riguarda la dottrina della lingua stessa. Questa dottrina si occupa della parola rappresentata in lettere, studia quali siano le parti del discorso e tratta del solecismo, del barbarismo, della dizione poetica, delle anfibolie, dell’eufonia e della musica e, secondo alcuni, anche delle definizioni, delle divisioni e degli stili.

[45] Gli Stoici affermano che è straordinariamente utile lo studio della teoria dei sillogismi. Questa insegna il metodo dimostrativo, che molto contribuisce alla formulazione corretta dei giudizi, alla loro disposizione e al loro ricordo, ed insegna altresì a possedere con salda sicurezza le cognizioni scientifiche.

Il ragionamento stesso consiste di premesse e conclusione: il sillogismo è un ragionamento conclusivo fondato su questi elementi. La dimostrazione è un ragionamento che per mezzo di nozioni più chiare spiega nozioni meno chiare su ogni argomento.

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Diogene Laerzio, Vita di Zenone di Cizio

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La rappresentazione è un’impressione nell’anima: è qui adottato in senso traslato un termine proprio in quanto propriamente l’impressione è l’effetto delle impronte che l’anello col sigillo imprime nella cera.

[46] Di rappresentazioni ve ne sono due: l’una (comprensiva) che coglie immediatamente la realtà, l’altra (non comprensiva) che coglie la realtà con scarsa o nessuna distinzione. La prima, che essi definiscono criterio della realtà, è determinata dall’esistente , conforme all’esistente stesso ed è impressa e stampata nell’anima. L’altra non è determinata dall’esistente oppure se procede dall’esistente non è determinata conforme all’esistente stesso: non è quindi né chiara né distinta.

Essi dicono che la Dialettica stessa è necessaria ed è una virtù che abbraccia altre virtù speciali o particolari: la tempestività ci insegna con scientifica sicurezza il momento in cui dobbiamo dare o negare il nostro assenso; la cautela è la forza della ragione contro la semplice verisimiglianza, così da non cedere ad essa; [47] l’inconfutabilità è il vigore nel ragionamento così da non lasciarci trarre da esso al contrario; la serietà o assenza di leggerezza è la capacità di riportare le rappresentazioni alla retta ragione.

La stessa scienza essi definiscono o una comprensione sicura (apprensione) oppure una facoltà di ricevere le rappresentazioni, che non può essere scossa dalla ragione. Solo con lo studio della Dialettica il sapiente potrà ragionare senza cadere in errore: infatti per mezzo della Dialettica si distingue il vero dal falso e si discerne ciò che è persuasivo da ciò che è espresso ambiguamente. Inoltre senza la Dialettica non è possibile interrogare e rispondere metodicamente.

[48] La precipitosa temerità nelle affermazioni estende il suo effetto anche su ciò che accade nella realtà , sì che coloro che non hanno rappresentazioni bene disciplinate cadono nel disordine e nell’irriflessione. Non altrimenti il sapiente apparirà acuto e perspicace e soprattutto abile nelle argomentazioni. Ché è proprio del sapiente rettamente parlare e rettamente pensare, discutere le questioni proposte e rispondere alle domande: tutti questi requisiti possiede chi è scaltrito nella Dialettica.

Questi sommariamente esposti sono i princìpi fondamentali della logica stoica.

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Giamblico (c. 240-325 d.C.) La vita pitagorica

lingua originale: greco edizione di riferimento: L. Deubner, U. Klein, Lipsia, 1937

tr. it. M. Giangiulio, Rizzoli, Milano, 1991 tema: le ‘tre vite’ e la figura del filosofo

genere letterario: biografia esemplare Capitolo XII Si racconta che Pitagora sia stato il primo a dare a se stesso il nome di «filosofo». Ma non soltanto adottò un nuovo nome; in più fornì preventivamente utili spiegazioni circa il contenuto della nozione, che era a lui peculiare. A suo dire gli uomini arrivano alla vita allo stesso modo in cui la folla va alle solenni riunioni festive. Infatti lì si recano persone di ogni genere, ognuna con un diverso scopo: uno per vendere la propria merce e guadagnar denaro, un altro a far mostra del suo vigore fisico, in cerca di gloria; c’è poi un terzo genere di persone, che è il più nobile di tutti, che si raduna in quelle occasioni per vedere i luoghi, le belle opere, i detti e gli atti eccellenti che nelle riunioni festive è consuetudine vengano mostrati, Ebbene, allo stesso modo anche nella vita. le persone dalle più diverse aspirazioni si radunano nello stesso luogo: alcuni sono presi dalla brama di denaro e di lussuosa mollezza, altri sono dominati dal desiderio di potere e di comando, nonché da folli ambizioni di gloria. Mentre il tipo d’uomo più puro è quello che ha scelto la contemplazione delle cose più nobili: è quest’uomo che Pitagora chiamava filosofo. Bello è contemplare l’intera volta celeste e bello riconoscere l’ordine degli astri che si muovono in essa; ciò deriva dal fatto che il mondo partecipa del Primo, che è anche l’Intelligibile. E il Primo, per lui, era la natura del numero e della proporzione, che pervade tutte le cose e secondo la quale l’universo è armonicamente composto e convenientemente ordinato. E la sapienza era un reale sapere concernente il Bello, il Primo, il Divino e ciò che è esente da mistione e sempre identico a se stesso: di tutto questo ogni altra cosa che può dirsi bella è partecipe. Mentre la filosofia era per lui la ricerca di tal genere di contemplazione. Era dunque nobile anche questo sforzo di formazione spirituale, che contribuiva, insieme al suo operato, al miglioramento del genere umano.

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Sant’Agostino di Ippona (354-430) Confessioni (396-8)

lingua originale: latino edizione di riferimento: i padri Maurini, Parigi, 1679-1700

tr. it. C. Vitali, Rizzoli, Milano, 1999 tema: il rapporto tra Dio e il tempo

genere letterario: confessione spirituale

Libro XI Capitolo xii: IDDIO PRIMA DELLA CREAZIONE Ed eccomi a rispondere a chi domanda: «Che cosa faceva Iddio prima di creare il cielo e la terra?». Non darò la risposta di quel tale che, per eludere con un motto di spirito la difficoltà della domanda, disse: «Preparava l’inferno per coloro che vogliono scrutare il cielo».

Altra cosa è comprendere, altra cosa scherzare. Non è dunque quella la mia risposta. Preferirei dire: «Non so», se non so, al cavarmela con un motto che metta in ridicolo chi fa una domanda profonda e dia lode a chi dà una risposta sbagliata.

Invece, affermo che Tu, o nostro Iddio, sei il creatore di tutta quanta la creazione: e se con le parole cielo e terra si intende tutto ciò che è stato creato, affermo francamente: «Prima di creare il cielo e la terra, Iddio non faceva nulla». Se avesse fatto qualche cosa, che cosa poteva essere se non una creatura? E almeno avessi io la stessa certezza delle altre nozioni che sarei contento di conoscere, come ho la certezza che prima della creazione non esisteva alcuna creatura!

Capitolo xiii: IL TEMPO È NELL’ORDINE DELLE COSE CREATE Se poi qualcuno, leggiero di mente, vuol risalire a ritroso le immagini dei tempi, e si maraviglia che Tu, Dio onnipotente, onnicreante, onnireggente, artefice del cielo e della terra, ti sii astenuto per secoli innumerevoli dal por mano ad un’opera così grandiosa, apra bene gli occhi e si convinca che la sua maraviglia manca di base.

Donde avrebbero potuto incominciare a scorrere quegli innumerevoli secoli, che Tu non avresti fatto, Tu, autore e principio di tutti i secoli? Potevan forse esistere tempi non creati da Te? Come avrebbero potuto passare se non erano mai esistiti?

Se dunque sei Tu l’artefice di tutti i tempi, se esistettero tempi prima della creazione del cielo e della terra, come sí può dire che eri inoperoso? Proprio quei tempi Tu li avevi creati, né potevano passare tempi prima che Tu li avessi fatti. Se poi prima del cielo e della terra il tempo non esisteva, a qual titolo si domanda che cosa facevi allora? Non esistendo il tempo, non esisteva nemmeno un «allora».

E nemmeno si può dire che Tu precedi i tempi nel tempo: ché non avresti preceduto tutti i tempi. Invece, precedi tutto il passato nell’immensità della eternità sempre presente, domini tutto il futuro, il quale appunto perché futuro, appena arrivato, sarà passato: ma «Tu rimani lo stesso, i tuoi anni non avranno fine». Essi non vanno, non vengono: questi nostri vanno e vengono, perché vengano tutti. Gli anni tuoi sono tutti in un punto perché immobili, né quelli che passano sono spinti via dai sopravvenienti, perché non passano: i nostri saranno tutti quando non saranno più. Gli anni tuoi sono un giorno solo, e il tuo giorno non è l’ogni giorno, ma l’oggi, perché il tuo oggi non si annulla nel domani, come non succede ad un ieri. Il tuo oggi è l’eternità, e quindi coeterno generasti colui a cui hai detto: «Io ti ho generato oggi». Tu hai creato tutti i tempi e tutti li precedi: non si può parlare di tempo quando il tempo non

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Sant’Agostino, Confessioni

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esisteva.

Capitolo xiv: NATURA DEL TEMPO Non si può dunque parlare di un tempo in cui Tu sia rimasto inoperoso, perché il tempo l’hai creato Tu: e non si può parlare di tempi coeterni con Te, perché Tu permani, ed essi, se permanessero, non sarebbero più tempi. Che cosa è infatti il tempo? Chi potrebbe darne una breve e facile definizione? Chi ne capirà tanto, almeno con il pensiero, da poterne poi far parola? Ed invece, vi ha una nozione più familiare, più nota, nel parlare comune, del tempo? Certo, quando ne parliamo, sappiamo che cosa intendiamo, e lo sappiamo anche quando ne sentiamo parlare gli altri.

Che cosa è, allora, il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi me ne chiede, non lo so: eppure posso affermare con sicurezza di sapere che se nulla passasse, non esisterebbe un passato; se nulla sopraggiungesse, non vi sarebbe un futuro: se nulla esistesse, non vi sarebbe un presente.

Passato e futuro: ma codesti due tempi in che senso esistono, dal momento che il passato non esiste più, che il futuro non esiste ancora? E il presente, alla sua volta, se rimanesse sempre presente e non tramontasse nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità. Se dunque il presente, perché sia tempo, deve tramontare nel passato, in che senso si può dire che esiste, se sua condizione all’esistenza è quella di cessare dall’esistere; se cioè non possiamo dire che in tanto il tempo esiste in quanto tende a non esistere?

Capitolo xv: MISURAZIONE DEL TEMPO Con tutto ciò, noi parliamo di tempo lungo e di tempo breve, ma sempre riguardo al passato e al futuro. Così, per esempio, diciamo lungo un tempo passato da cento anni; come diciamo lungo un tempo futuro che sarà fra cento anni: breve tempo passato, diremo, quello di dieci giorni fa, e così per il futuro. Ma come può essere lungo o breve quello che non è? Il passato non è più, il futuro non è ancora. Non si dica più dunque: «È lungo»; ma si dica: «Fu lungo», per il passato, e: «Sarà lungo», per il futuro.

O mio Signore e mia luce, anche qui, forse, la tua verità si fa beffe dell’uomo? Un tempo passato, che diciamo lungo, fu lungo quando era già passato o quando era ancora presente? perché non poteva essere lungo se non in quanto esisteva qualche cosa che potesse essere lunga: ma il passato, come tale, non esisteva; non poteva dunque essere lungo.

Non è, quindi, esatto dire: «Quel tempo passato fu lungo», non trovandosi in esso niente che fosse suscettibile di essere lungo. Una volta passato, non è più. Dovremmo dire invece: «fu lungo quel tempo presente», poiché era lungo solo in quanto presente. Non era ancora passato al non essere; c’era possibilità che fosse lungo: ma una volta passato, cessò di essere lungo, avendo cessato di esistere.

Vediamo un po’ ora, o anima umana, se possa essere lungo il tempo presente; hai ricevuto infatti il potere di sentire e di misurare la durata. Che cosa mi risponderai? Cento anni presenti son forse un tempo lungo? Esamina prima se possano essere presenti cento anni. Se sta passando il primo di essi, questo è presente, ma gli altri novantanove sono futuri, dunque non esistono ancora; se si tratta dell’anno numero due, uno è passato, il secondo è presente, tutti gli altri futuri. Così è per tutti gli anni intermedi; qualunque tu prenda, da una parte stanno quelli passati, dall’altra i futuri. Dunque cento anni non possono essere presenti.

Vedi un po’ se almeno dell’anno in corso si possa dire che è presente. Se siamo nel primo mese, tutti gli altri sono futuri; se nel secondo, il primo è nel passato, tutti gli altri nel futuro.

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Sant’Agostino, Confessioni

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Neanche dell’anno che sta passando si può dire che è tutto presente: se non è presente tutto, l’anno non è presente. I suoi mesi sono dodici, e ciascuno di essi mentre è in corso è presente; gli altri sono passati o futuri.

Del resto, nemmeno quando sta passando, si può dire di un mese che è presente: presente è un giorno; se è il primo, futuri gli altri, se l’ultimo, passati gli altri; se intermedio, tra passati e futuri.

Ed ecco: quel tempo presente, il solo a cui possa convenire il termine di «lungo», è ridotto alla durata di una sola giornata. Ma sottoponiamo ad esame anche questa, perché neanche di un giorno si può dire’ che sia presente tutto. Esso è formato, tra giorno e notte, di ventiquattro ore: per la prima tutte le altre sono future, per l’ultima tutte le altre sono passate, per l’intermedia un po’ sono passate, un po’ future. Ed anche l’ora si svolge in istanti fuggitivi; quello volato via è passato, quello che gli resta è futuro. Se possiamo farci un’idea del tempo, quel solo punto si può chiamare presente che non si può più suddividere in particelle, per quanto piccolissime: ma anche quel punto trasvola così rapido dal futuro al passato, da non avere estensione alcuna di durata. Ché, se l’avesse, sarebbe divisibile in passato e in futuro: il presente invece non ammette estensione.

Dove è, allora, un tempo che si possa chiamare lungo? Il futuro, forse? Ma per esso noi usiamo tale espressione, perché non esiste ancora ciò che può essere lungo: diciamo, invece: «Sarà lungo». Quando sarà lungo? Quando sarà ancora futuro? No, perché non esiste ancora quello che dovrebbe essere «lungo». O quando dal futuro — che non è ancora — ha incominciato e sia diventato presente? Da quanto si è detto sopra, il presente proclama di non poter essere un tempo lungo.

Capitolo xvi: SI PUÒ MISURARE SOLTANTO IL PRESENTE Eppure, Signore, noi possiamo distinguere gli intervalli dei tempi e paragonarli tra loro; e diciamo che alcuni sono più lunghi, altri più brevi. Misuriamo pure quanto questo o quel tempo sia più lungo o più breve: e rispondiamo che quello è il doppio o il triplo, questo semplice o tanto quanto quello. Ma noi possiamo misurare il tempo che passa, e lo misuriamo per la percezione che ne abbiamo. Ora, chi può misurare il passato, che non esiste più, o il futuro che non esiste ancora? A meno che uno osi affermare che si può percepire e misurare il non esistente. Dunque si può aver la percezione e misurare il tempo quando sta passando, ma quando è passato non è possibile, perché non esiste.

Capitolo xvii: PASSATO E FUTURO ESISTONO Ed ora, qui, o Padre, non affermo, vado cercando:, o mio Dio, assistimi, sorreggimi.

C’è chi voglia dimostrarmi che non esistono tre forme del tempo, come abbiamo imparato da fanciulli e come abbiamo insegnato ai fanciulli, e cioè il passato, il presente, il futuro, ma che solo il presente sia tempo, poiché gli altri due non esistono? O forse esistono anch’essi, e il tempo, quando da futuro diventa presente esce da qualche occulto recesso, per ritirarsi in qualche occulto recesso quando da presente diventa passato? E quelli che hanno preannunziato avvenimenti futuri dove li videro se non esistevano ancora? Quello che non c’è, non si può certo vedere. E quelli che narrano avvenimenti passati non racconterebbero cose vere, se non le vedessero con la loro mente: e non potrebbero assolutamente essere viste, se non esistessero.

Esistono dunque anche il passato e il futuro.

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Sant’Agostino, Confessioni

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Capitolo xviii: CONOSCENZA DEL PASSATO E DEL FUTURO Permettimi di approfondire alquanto le mie ricerche, o Signore, mia speranza; fa’ che in questo mio proposito io non mi lasci sviare.

Se futuro e passato esistono, vorrei sapere dove hanno sede. Se per ora non ci riesco, so però che, dovunque siano, non vi sono come futuro e passato, ma come presente; perché se anche là sono come futuro o come passato, o non vi sono ancora o non vi sono più. Quindi, dovunque siano, comunque siano non vi sono che in forma di presente. Però, quando si raccontano avvenimenti passati veri, non si tiran fuori dalla memoria gli avvenimenti in se stessi, ma espressioni formate dalle loro immagini che si sono impresse a guisa di orme nell’animo per mezzo dei sensi. Così, la mia fanciullezza non esiste più se non in un tempo passato, che non esiste più; ma, quando la rievoco e ne parlo, io ne vedo l’immagine nel presente, perché essa è ancora nella mia memoria.

Devo invece confessare, o mio Dio, che proprio non so se nella predizione del futuro, il fenomeno si svolga nello stesso modo; se, cioè, le immagini delle cose non ancora esistenti siano presentate come già tali. So tuttavia che noi di solito pensiamo prima a nostre azioni future; che codesta anticipazione di pensiero è presente, mentre l’azione premeditata non esiste ancora, perché futura: quando invece vi ci saremo applicati e realizzeremo quanto avevamo pensato, quell’azione non sarà più futura, allora, ma presente.

In qualunque modo avvenga codesto arcano presentimento del futuro, è certo che non si può vedere se non quello che esiste. Ma ciò che esiste è il presente, non il futuro. Perciò quando si dice che si vede il futuro, non si vede il futuro in se stesso, che non esiste ancora, ma si vedono forse cause o indizi suoi, già esistenti; non il futuro, dunque, ma il presente appare alla nostra vista, e grazie ad esso possono venire preannunziate cose future, concepite con lo spirito: forme concepite che già esistono, e chi predice il futuro le intravede come presenti.

Mi aiuterò con un esempio, scelto fra i tanti. Io vedo l’aurora: preannuncio il levar del sole: ciò che vedo è presente, ciò che preannuncio

è futuro; non il sole è futuro: esso esiste già; ma il suo sorgere, che è futuro; sorgere però che io, se non ne avessi l’immagine nell’animo, non potrei certo predire. Ma nemmeno l’aurora che vedo in cielo è il sorgere del sole, quantunque lo preceda, e nemmeno lo è l’immagine del mio animo: ambedue sono visti nel presente perché si possa preannunciare, il futuro. Il futuro dunque non c’è ancora; se non c’è ancora, non esiste; se non esiste, non si può assolutamente vedere; ma si può preannunciarlo dai segni presenti che già esistono e si possono vedere.

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Anicio Manlio Severino Boezio (475-524) La consolazione della filosofia (524)

lingua originale: latino edizione di riferimento: L. Bieler, Turnhout, 1967

tr. it. O. Dallera, Rizzoli, Milano, 1977 tema: la prescienza divina

genere letterario: dialogo consolatorio Libro V, capitolo iii Allora io: ‘Ecco – dissi – mi sento di nuovo confondere da una perplessità ancora più tormentosa.

E qual’è mai – chiese lei1 – codesta tua perplessità? Ma immagino già da quali idee tu sia turbato.

Mi sembra – dissi – che ci sia un’insanabile contraddizione nell’affermazione che, da una parte, Dio conosce in anticipo tutte le cose e che, dall’altra, per la nostra libertà sussiste una qualche possibilità di scelta. Infatti, se Dio vede in anticipo tutte le cose e in nessun modo può sbagliare, è inevitabile che si verifichi quello che la divina provvidenza ha previsto che debba verificarsi. Di conseguenza, se preconosce dall’eternità non soltanto le azioni umane, ma anche i disegni e i voleri, non vi sarà libertà di decisione; perché non può esistere alcun altro fatto o volere, quale che sia, se non quello di cui la provvidenza divina, immune da errori, abbia già avuto in anticipo conoscenza. Se, infatti, le cose possono orientarsi diversamente da come sono state previste, non ci sarà una sicura prescienza del futuro, ma piuttosto un’opinione incerta, cosa, questa, che ritengo empio credere nei confronti di Dio.

E non posso poi approvare quel ragionamento per mezzo del quale certuni credono di poter risolvere il nodo della questione. Dicono infatti che non già una cosa si verifica per il fatto che la provvidenza ha previsto che essa si verificherà, ma, al contrario piuttosto, per il fatto che una cosa avverrà non può sfuggire alla provvidenza divina; in tal modo la necessità andrebbe a ricadere sulla parte opposta. Secondo costoro, dunque, non è fatale che accadano quelle cose che sono previste, ma è fatale che siano previste quelle cose che devono succedere; quasi che il problema tormentoso fosse, a questo punto, di sapere quai sia il rapporto delle cause: se cioè la prescienza sia la causa. della necessità delle cose future, o se la necessità delle cose future sia la causa della prescienza; e non ci sforzassimo invece di far luce su quest’altro punto, e cioè che, in qualunque rapporto stiano tra di loro le cause, è fatale che si verifichino le cose previste, anche se la prescienza non sembra imporre alle cose future la necessità di avverarsi.

E infatti, posto che qualcuno stia seduto, è logico che sia vera l’opinione per la quale si ritiene che egli sta seduto e, reciprocamente, posto che sia vera l’opinione secondo cui uno sta seduto, è logico che egli stia davvero seduto. In ambedue i casi, dunque, c’è necessità logica; in quest’ultimo: dello star seduto, nel primo caso: della verità. Ora, non è che uno stia seduto per il fatto che è vera l’opinione al proposito, ma, piuttosto, questa è vera perché è stata preceduta dal fatto che quello stesse seduto. Così, per quanto la causa della verità derivi da questa seconda parte, c’è tuttavia in ambedue una medesima necessità. È chiaro che gli stessi ragionamenti si possono fare a proposito della provvidenza e delle cose future; infatti, anche se esse sono previste per il fatto che devono accadere e non si verificano invece per il semplice

1 L’interlocutrice del narratore è la personficazione della Filosofia [nota di Davies]

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Boezio, Consolazione

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fatto di essere previste, non è meno logico, tuttavia, che da Dio siano previste le cose che avverranno, e che le cose previste avvengano in quanto previste, il che, da solo, è sufficiente a sopprimere completamente ogni libértà di determinazione. Giacché, quale controsenso logico sarebbe mai il dire che l’avverarsi delle cose temporali è causa dell’eterna prescienza! E che differenza c’è mai tra il credere che Dio preveda le cose future per il fatto che accadranno e il pensare che le cose già accadute nel passato siano causa di quella somma preveggenza? Inoltre, allo stesso modo che, quando so che una cosa è, risulta logico che quella cosa sia, così, quando conosco che una cosa avverrà, è fatale che quella cosa avvenga; ne deriva, dunque, che non si possa evitare l’avverarsi di una cosa prevista.

Infine, se qualcuno ritiene che qualcosa stia diversamente da come sta in realtà, questo pregiudizio non solo non è scienza, ma è opinione fallace e ben diversa dalla verità della scienza. Perciò, se qualcosa potrà avverarsi in modo tale che il suo avverarsi non sia certo e necessario, come si potrà conoscere in anticipo che quella cosa avverrà? Come, infatti, la scienza, in sé, non contiene nessun elemento di falsità, così ciò che da essa è concepito non può essere diverso da come è concepito. La causa, appunto, per cui la scienza è immune da errore consiste nel fatto che ogni cosa, per logica necessità, sta in quel modo in cui la scienza conosce che essa sta. E dunque? In che modo Dio conosce in anticipo questi futuri incerti? Se, infatti, ritiene che inevitabilmente avverranno cose che possono anche non avvenire, si sbaglia, cosa, questa, che è sacrilego non soltanto pensare, ma anche solo enunciare. Ma se le cose, così come sono, egli le vede proiettate nel futuro, in modo, cioè, da conoscere che esse possono indifferentemente avverarsi o non avverarsi, che tipo di prescienza sarebbe mai questa che non racchiude nulla di sicuro, nulla di determinato? E in che cosa differisce tutto questo da quel ridicolo vaticinio di Tiresia

Tutto quel che io dico, o avverrà o non avverrà?2

E in che cosa la prescienza divina sarebbe superiore al modo di pensare umano, se, come gli uomini, giudica incerte quelle cose il cui avverarsi è incerto? Ma se presso quella fonte certissima di tutte le cose non ci può essere nulla di incerto, risulta allora certo l’avverarsi di quelle cose di cui ha decisamente previsto che accadranno. Non sussiste perciò libertà alcuna per le decisioni e le azioni umane, poiché la divina mente, tutto prevedendo senza possibilità d’errore, le vincola e circoscrive a un ben preciso risultato.

Una volta accettata questa conclusione, ogni valore umano è evidentemente destinato a eclissarsi. E privo di senso, infatti, fissare premi o castighi per buoni e cattivi, quando nessun’attività libera e volontaria dello spirito li ha meritati. E apparirebbe iniqua al massimo grado quell’esigenza che ora è sentita come giustissima, cioè che i malvagi siano puniti e gli onesti rimunerati, mentre a orientarli nell’uno o nell’altro senso non è la loro personale volontà, ma vi sono costretti dalla forza necessitante che determina il futuro. E non ci sarebbero più, per nessun verso, vizi e virtù, ma piuttosto una inestricabile, disordinata confusione di valori e, cosa di cui nulla si può immaginare di più empio, avverrebbe che, derivando l’intero ordine universale dalla provvidenza e nulla essendo consentito alla decisione umana, anche i nostri vizi si dovrebbero attribuire all’autore di tutti i beni. A questo punto non ha più nessun senso sperare o pregare; cosa mai, infatti, uno dovrebbe sperare o pregare, quando le cose• su cui si può esercitare il desiderio risultano concatenate tra li loro secondo una successione rigorosa? Verrà, dunque, eliminato quell’unico rapporto possibile tra

2 La fonte è il poeta latino Orazio (Sermones, II, 5) [nota di Davies]

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Boezio, Consolazione

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uomini e Dio, che consiste appunto nello sperare e nel pregare, se è vero che noi, in premio di un doveroso riconoscimento della nostra bassezza, meritiamo l’inestimabile contraccambio della grazia divina, che è la sola via per cui sembra che gli uomini possano entrare in colloquio con Dio e congiungersi con quella inaccessibile luce, grazie all’atto stesso della preghiera, prima ancora di essere stati esauditi. Ora, se, ammesso il carattere necessitante del futuro, tutto questo appare privo di efficacia, a quale altro mezzo ricorreremo per poterci congiungere e restare uniti al supremo signore delle cose? Sarà perciò inevitabile che il genere umano, come poco fa dicevi tu nei tuoi versi, sradicato e dissociato dalla sua fonte, sprofondi nel nulla.

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Sant’Anselmo (1033-1109) Proslogion (1077-8)

lingua originale. latino edizione di riferimento: F.S. Schmitt, Seckau, 1938

tr. it. I. Sciuto, Rusconi, Milano, 2001 tema: la dimostrazione dell’esistenza di Dio

genere letterario: dialogo teocentrico

Proemio Dopo aver pubblicato, per le pressanti preghiere di alcuni confratelli, un opuscolo’ come esempio di meditazione sulla razionalità della fede, mettendomi nella posizione di chi, ragionando silenziosamente dentro di sé, ricerca ciò che non conosce, considerando che quell’opuscolo era costruito con la concatenazione di molti argomenti, ho cominciato a chiedermi se per caso fosse possibile trovare un argomento unico, tale che per essere dimostrato non avesse bisogno di altro, ma solo di se stesse e che fosse da solo sufficiente a stabilire che Dio esiste veramente, che è il sommo bene di nessun altro bisognoso e di cui tutte le cose hanno bisogno per essere e per ben-essere, e tutto ciò che crediamo della divina sostanza.

Rivolgevo spesso e con impegno il mio pensiero su questo punto e talvolta mi sembrava di poter già afferrare quanto cercavo, talvolta invece sfuggiva del tutto all’acume della mia mente; alla fine, privo di speranza, volli cessare la ricerca di una cosa che sembrava impossibile trovare. Ma quando volevo escludere completamente da me quel pensiero, affinché non impedisse alla mia mente, occupandola inutilmente, di impegnarsi in altri pensieri nei quali potessi fare progressi, proprio allora quel pensiero cominciò sempre più ad imporsi, con una certa importunità, a me che non lo volevo e lo respingevo. Mentre dunque, un giorno, fortemente mi affaticavo nel resistere alla sua insistenza, nel conflitto stesso dei pensieri mi si presentò ciò di cui avevo disperato, sì da farmi applicare con passione a quel pensiero che mi ero preoccupato di respingere.

Ritenendo poi che quanto gioivo di avere trovato, se fosse stato scritto, sarebbe piaciuto a qualche lettore, us questo e su altri argomenti ho scritto il seguente opuscolo, mettendomi nella posizione di chi tenta di innalzare la sua mente a contemplare Dio e cerca di comprendere ciò che crede. E poiché giudicavo che né questo opuscolo né quello che sopra ho ricordato fossero degni del nome di libro o di portare il nome dell’autore, ma pensavo tuttavia che non si dovessero pubblicare senza un titolo qualsiasi col quale invitassero alla lettura, in qualche modo, colui nelle cui mani fossero pervenuti, diedi a ciascuno il suo titolo, chiamando il primo Esempio di meditazione sulla ragione della fede e il successivo La fede che cerca l’intelletto.

Ma quando l’uno e l’altro erano già stati trascritti da molti con questi titoli, molti mi sollecitarono (specialmente il reverendo arcivescovo di Lione, di nome Ugo, legato apostolico in Gallia, che me l’ordinò con autorità apostolica) a scrivere il mio nome su di essi. Per fare ciò più adeguatamente, ho dunque intitolato il primo opuscolo Monologion, cioè soliloquio, e questo invece Proslogion, cioè colloquio. Parte prima: DIMOSTRAZIONE DELL’ESISTENZA DI DIO

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Sant’Anselmo, Proslogion

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2. Dio esiste veramente. Dunque, o Signore, tu che dai l’intelligenza alla fede, concedimi di comprendere, per quanto sai che mi possa giovare, che tu esisti come crediamo e che sei quello che noi crediamo.

E davvero noi crediamo che tu sia qualcosa di cui non si possa pensare nulla di più grande. O forse non vi è una tale natura, perché «disse l’insipiente in cuor suo: Dio non esiste»? Ma certamente quel medesimo insipiente, quando ascolta ciò che dico, cioè «qualcosa di cui non si può pensare nulla di più grande», comprende ciò che ode; e ciò che comprende è nel suo intelletto, anche se egli non intende che quella cosa esista. Altro, infatti, è che una cosa sia nell’intelletto, e altro è intendere che quella cosa esista. Quando il pittore, infatti, prima pensa a ciò che sta per fare, ha certamente nell’intelletto ciò che ancora non ha fatto, ma non intende ancora che questo esista. Quando invece lo ha già dipinto, non solo ha nell’intelletto ciò che ha già fatto, ma intende anche che esso esista. Anche l’insipiente, dunque, deve convenire che, almeno nell’intelletto, vi sia qualcosa di cui non si può pensare nulla di più grande, perché quando sente questa espressione la intende, e tutto ciò che si intende è nell’intelletto.

Ma, certamente, ciò di cui non si può pensare qualcosa di più grande non può essere nel solo intelletto. Se infatti è almeno nel solo intelletto, si può pensare che esista anche nella realtà, il che è maggiore. Se dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore è nel solo intelletto, quello stesso di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore. Ma evidentemente questo non può essere. Dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste, senza dubbio, sia nell’intelletto sia nella realtà. 3. Non si può pensare che Dio non esista. Tutto ciò è talmente vero, che non si può neppure pensare che Dio non esista. Infatti si può pensare che vi sia qualcosa di cui non si possa pensare che non esiste; e questo è maggiore di ciò che si può pensare non esistente. Quindi, se ciò di cui non si può pensare il maggiore può essere pensato non esistente, quello stesso di cui non si può pensare il maggiore non è ciò di cui non si può pensare il maggiore; ma questo è contraddittorion. Dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste così veramente che non si può neppure pensare non esistente.

E questo sei tu, Signore Dio nostro. Dunque tu esisti così veramente, Signore Dio mio, che non puoi neppure essere pensato non esistente. E giustamente. Se infatti una qualche mente potesse pensare qualcosa migliore di te, la creatura si eleverebbe al di sopra del Creatore e sarebbe giudice del Creatore; il che sarebbe grandemente assurdo. In verità, di tutto ciò che è, all’infuori di te solo, si può pensare che non sia. Tu solo dunque hai l’essere nel modo più vero, e perciò massimo, rispetto a tutte le cose, perché qualsiasi altra cosa non è in modo così vero e, quindi, ha un essere minore. Perché dunque «l’insipiente ha detto in cuor suo: Dio non esiste», quando è così evidente ad una mente razionale che tu sei più di tutte le cose? Per quale motivo, se non perché è stolto e insipiente? 4. In che modo l’insipiente ha detto in cuor suo ciò che non si può pensare. Ma in quale modo l’insipiente ha detto in cuor suo ciò che non ha potuto pensare, o in che modo non ha potuto pensare ciò che ha detto in cuor suo, dato che è la stessa cosa dire nel cuore e pensare? Se poi veramente, anzi poiché veramente sia lo pensò perché lo disse in cuor suo, sia non lo disse in cuor suo perché non poteva pensarlo, non in un modo soltanto si dice nel cuore o si pensa qualcosa. In un modo, infatti, una cosa è pensata quando si pensa la parola che la significa; in un altro modo, quando si comprende ciò che la cosa è. Nel primo modo, pertanto, si può pensare che Dio non sia, ma nel secondo assolutamente no. Perciò nessuno, il

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Sant’Anselmo, Proslogion

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quale comprenda ciò che Dio è, può pensare che Dio non esista, sebbene dica in cuor suo queste parole, non dando loro alcun significato o dandogliene uno estraneo. Dio, infatti, è ciò di cui non si può pensare il maggiore. Chi comprende bene questo, comprende certamente che egli esiste in modo tale che neppure nel pensiero può non essere. Chi dunque comprende che Dio è così, non può pensare che egli non esista.

Ti ringrazio, buon Signore, ti ringrazio perché ciò che prima ho creduto per un tuo dono, ora per la tua illuminazione lo comprendo in modo tale che, se non volessi credere che tu esisti, non potrei non comprenderlo.

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Eadmero di Bec (1060-c.1124) Vita di Anselmo (inizio XII sec.)

lingua originale. latino edizione di riferimento: R.W. Southern, Oxford, 1972

tr. it. I. Biffi, Jaca Book, Milano, 1987 tema: la scoperta (e scampata perdita) di un ragionamento

genere letterario: agiografia Libro I 25. In questo periodo1, scrisse tre trattati, il De veritate, il De libertate arbitrii e il De casu diaboli; da essi appare chiaramente dove fissasse la sua attenzione benché nel trattare tali argomenti non esulasse affatto da quelli di interesse generale. Ne scrisse anche un quarto che intitolò De grammatico; è un’opera sottoforma di dialogo tra lui ed un discepolo a cui propone, risolvendole, molte questioni dialettiche e gli dà ragguagli ed anche istruzioni sul modo in cui debbano essere considerate le sostanze e gli accidenti.

Compose pure una breve dissertazione a cui diede il titolo di Monologion perché in essa si rivolge solo a se stesso e, senza mai rifarsi all’autorità della Sacra Scrittura, ma indagando con la sola forza della ragione, scoprì quale fosse la natura di Dio e fornì prove ed argomentazioni inconfutabili sul fatto che ciò che la fede autentica sente riguardo a Dio non può essere che verità. 26. In seguito gli venne in mente di cercare se fosse possibile dimostrare con un’unica breve trattazione, quello che si crede e si predica a proposito di Dio, cioè che è eterno, immutabile, onnipotente, onnipresente in tutte le cose, incomprensibile, giusto, pio, misericordioso, verace, verità, bontà, giustizia e così via e come il tutto sia in Lui una cosa sola.

Secondo quanto riferiva, questo intento gli procurava qualche disagio. Il riflettervi gli toglieva infatti da un lato la voglia di mangiare, di bere e di dormire, dall’altro, ed era la sua angustia maggiore, gli turbava la concentrazione che avrebbe dovuto prestare al Mattutino ed agli altri uffici divini. Quando se ne accorse ed ancora non riusciva a comprendere pienamente quello che cercava, si convinse che quei pensieri fossero una tentazione del diavolo e si sforzò di allontanarli dalla sua mente. Ma per quanto si affannasse, essi lo perseguitavano con insistenza sempre maggiore. Ma ecco che una notte, durante una veglia di preghiera, la grazia di Dio illuminò il suo cuore e l’intera questione apparve chiara al suo intelletto riempiendogli di gioia e di esultanza ogni intimo recesso dell’anima. Considerando poi fra sé che anche altre persone avrebbero potuto apprezzare la sua conclusione, se ne fossero state messe a conoscenza, senza provare alcuna forma d’invidia la trascrisse immediatamente sopra delle tavolette cerate e le affidò ad uno dei confratelli del monastero perché le custodisse con ogni riguardo.

Dopo alcuni giorni richiese le tavolette a chi le aveva in consegna. Furono cercate nel luogo in cui erano state riposte ma non si trovarono. Si domandò ai monaci se per caso qualcuno le avesse prese, ma invano. E finora non è venuto fuori nessuno che abbia ammesso di saperne qualcosa. Anselmo riprodusse un ulteriore scritto sullo stesso tema sopra altre tavolette e le consegnò al medesimo monaco con l’impegno di una salvaguardia più scrupolosa. Costui le

1 Gli anni 1080-5 [nota di Davies]

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Eadmero, Vita di Anselmo

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sistemò nell’angolo più segreto del suo letto ed il giorno dopo, senza avere il sospetto di alcun misfatto, le ritrovò sparse sul pavimento davanti al letto con i pezzi di cera che le ricoprivano sparpagliati qua e là. Si raccolsero le tavolette, la cera fu ripresa e portarono le une e l’altra ad Anselmo. Egli giustappose i pezzetti di cera e, con una certa fatica, recuperò la scrittura. Ma nel timore che per qualche negligenza queste andassero definitivamente perdute, nel nome di Dio ordinò che venissero ricopiate su della pergamena.

Compose poi un volume di modeste proporzioni ma di rilevante consistenza per le proposizioni espresse e la finezza speculativa, e lo intitolò Proslogion. In quest’opera si rivolge ora a se stesso ora a Dio. Essa venne nelle mani di un tale che, non essendosi trovato molto d’accordo con una delle argomentazioni, aveva pensato che fosse insostenibile e nell’intenzione di confutarla compose una replica in opposizione e la sistemò in appendice a quel medesimo testo. Quando uno dei suoi amici gliela fece recapitare ed Anselmo la vide, ne fu felice, espresse il proprio ringraziamento a chi gli aveva mosso quelle critiche e gli inviò la sua risposta in merito scrivendola in fondo all’opuscolo che gli era stato mandato; poi lo ritornò all’amico che gliel’aveva fatto pervenire. Aveva agito così nel desiderio che altre persone oltre a quella, meritevoli di avere quell’operetta, la richiedessero a lui perché alla fine vi aggiungesse la critica alla sua argomentazione e la sua risposta alla critica.

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San Tommaso d’Aquino (1224/5-1274) Sulla Verità (1256-9)

lingua originale. latino edizione di riferimento: S.E. Fretté, M.Maré Vivès (et al.),

Polyglot, Vaticano (1882 ecc., ‘edizione Leonina’), vol XXII tr. it. F. Fiorentino, Bompiani, Milano, 2005

tema: Dio e i futuri contingenti genere letterario: quæstio disputata

Questione 2: La conoscenza di Dio Articolo 12: Se Dio conosca i futuri contingenti OBIEZIONI 1. Per dodicesimo ci si chiede se Dio conosca i futuri contingenti singolari. E sembra di no. Infatti, si può conoscere solo il vero, com’è detto nel libro I degli Analitici Posteriori; ora, nei singolari contingenti e futuri non c’è una determinata verità, com’è detto nel libro Della interpretazione; dunque, Dio non ha scienza dei singolari futuri e contingenti. 2. Inoltre. Ciò cui segue l’impossibile è impossibile; ora, al fatto che Dio conosca il singolare contingente e futuro segue l’impossibile, ossia che la scienza di Dio sia fallibile; dunque, è impossibile che [Dio] conosca il singolare futuro contingente. Prova della minore: ammettiamo per ipotesi che Dio conosca un certo futuro contingente singolare, per es. che Socrate siede. Ora, o è possibile che Socrate non sieda oppure è impossibile. Se non è possibile che Socrate non sieda, dunque, è impossibile che Socrate non sieda; dunque, è necessario che Socrate sieda; ma era stato ammesso per ipotesi che [ciò] fosse contingente. Invece, se è possibile che non sieda, ciò ammesso, non deve seguire nulla di sconveniente, però segue che la scienza di Dio sia fallibile; dunque, non sarà impossibile che la scienza di Dio sia fallibile. 3. Ma diceva che il contingente, in quanto esiste in Dio, è necessario. IN CONTRARIO. Ciò che è in sé contingente non è necessario in rapporto a Dio, se non secondo che esiste in lui; ma secondo che esiste in lui, non è distinto da lui; dunque, se non è conosciuto da Dio se non secondo che è necessario, esso non sarà conosciuto da lui secondo che è costituito nella propria natura, secondo la qual cosa è distinto da Dio. 4. Inoltre. Secondo [quanto dice] il Filosofo nel libro I degli Analitici primi, da una premessa maggiore [la cui predicazione è] necessaria e da una premessa minore [la cui predicazione è] d’inerenza segue una conclusione necessaria; ora, questa proposizione: Ogni cosa conosciuta da Dio è necessario che esista, è vera; infatti, se non esistesse ciò che Dio sa che esiste, la sua scienza sarebbe fallibile; dunque, se qualche essere è conosciuto da Dio, è necessario che esso esista. Ora, nessun contingente è necessario che esista; dunque, Dio non conosce nessun contingente. 5. Ma diceva che quando si dice: Ogni cosa conosciuta da Dio è necessario che esista, non si introduce una necessità dal lato della creatura, ma solo dal lato di Dio che conosce. IN CONTRARIO. Quando si dice: Ogni cosa conosciuta da Dio è necessario che esista, la necessità è attribuita al soggetto della proposizione; ora, il soggetto della proposizione è Ciò che è conosciuto da Dio, non lo stesso Dio che conosce; dunque, non si introduce con ciò la necessità se non dal lato della cosa conosciuta. 6. Inoltre. Quanto più una conoscenza, in noi, è certa tanto meno essa può riguardare le cose contingenti: infatti, la scienza non è che delle cose necessarie, poiché è più certa dell’opinione

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San Tommaso, Sulla verità

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che può riguardare le cose contingenti; ora, la scienza di Dio è certissima; dunque, non può essere se non di cose necessarie. 7. Inoltre. In ogni condizionale vera, se l’antecedente è assolutamente necessario, anche il conseguente sarà assolutamente necessario; ora, questa condizione è vera: Se una cosa è stata conosciuta da Dio, essa esisterà. Dunque, poiché questo antecedente: Questa cosa è stata conosciuta da Dio è assolutamente necessario, anche il conseguente sarà assolutamente necessario; dunque, tutto ciò che è conosciuto da Dio è assolutamente necessario che esista. Ora, che [l’enunciato] Questa cosa è stata conosciuta da Dio è assolutamente necessario, lo provava così: questo è un enunciato che riguarda il passato; ora, ogni enunciato riguardante il passato, se è vero, è necessario, poiché ciò che è stato è impossibile che non sia stato; dunque, esso è assolutamente necessario. Inoltre, ogni realtà eterna è necessaria; ora, tutto ciò che Dio ha conosciuto, lo ha conosciuto sin dall’eternità; dunque, che egli abbia conosciuto è cosa assolutamente necessaria. 8. Inoltre. Ogni cosa come si rapporta all’essere così si rapporta al vero; ora, i futuri contingenti non hanno l’essere; dunque, neppure la verità; dunque, non ci può essere scienza di essi. 9. Inoltre. Secondo [quanto dice] il Filosofo nel libro IV della Metafisica, chi non conosce una cosa determinata non conosce nulla; ora, il futuro contingente, soprattutto se è in potenza a due alternative contrarie, non è in nessun modo determinato né in se stesso né nella sua causa; dunque, in nessun modo ci può essere scienza di esso. 10. Inoltre. Ugo di S. Vittore, nel libro Sui sacramenti, dice che «Dio, che ha tutto dentro di sé, non conosce nulla al di fuori di sé»; ora, nulla è contingente se non [ciò che esiste] al di fuori di lui: infatti, in lui non c’è niente di potenziale; dunque, egli in nessun modo conosce il futuro contingente. 11. Inoltre. Tramite il medio necessario non si può conoscere qualcosa di contingente, poiché, se il medio è necessario, anche la conclusione [è] necessaria; ora, Dio conosce tutte le cose tramite il medio, che è la sua essenza; dunque, poiché tale medio è necessario, sembra che non possa conoscere qualcosa di contingente. IN CONTRARIO 1. C’è che nei Salmi è detto: «Chi plasmò uno ad uno i loro cuori vede in tutte le loro opere»; ora, le opere degli uomini sono contingenti, poiché dipendono dal libero arbitrio; dunque, Dio conosce i futuri contingenti. 2. Inoltre. Ogni cosa necessaria è conosciuta da Dio; ora, ogni contingente, secondo che si riferisce alla conoscenza divina, è necessario, come dice Boezio nel libro V della Consolazione della filosofia; dunque, ogni contingente è conosciuto da Dio. 3. Agostino, nel libro VI della Trinità, dice che Dio conosce immutabilmente le cose mutevoli; ora, una cosa è contingente per il fatto che è mutevole, in quanto si dice contingente ciò che può essere e non essere; dunque, Dio conosce le cose contingenti in modo immutabile. 4. Inoltre. Dio conosce le cose in quanto ne è causa; ora, Dio non solo è causa delle cose necessarie, ma anche di quelle contingenti; dunque, egli conosce tanto le cose necessarie quanto quelle contingenti. 5. Inoltre. Dio in tanto conosce le cose, in quanto c’è in lui l’esemplare di tutte le cose; ora, l’esemplare divino delle cose contingenti e mutevoli può essere immutabile, come anche l’esemplare delle cose materiali è immateriale e delle cose composte è semplice; dunque,

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San Tommaso, Sulla verità

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sembra che, come Dio conosce le cose composte e materiali, pur essendo immateriale e semplice, così conosce le cose contingenti, anche se in lui non c’è contingenza. 6. Inoltre. Avere scienza è conoscere la causa di una cosa; ora, Dio conosce la causa di tutte le cose contingenti: infatti, egli conosce se stesso, che è causa di tutto; dunque, egli conosce le cose contingenti. RISPONDO, dicendo che riguardo alla presente questione si sono commessi diversi errori. Infatti, alcuni, volendo giudicare la scienza divina alla stregua della nostra scienza, dissero che Dio non conosce i futuri contingenti: ma questo è impossibile, poiché, se fosse vero, [Dio] non potrebbe provvedere alle vicende umane, che accadono in maniera contingente. Perciò altri dissero che Dio ha scienza di tutte le cose future, che però accadono tutte in maniera necessaria, altrimenti la scienza di Dio riguardo ad esse sarebbe fallibile. Ma anche questo è impossibile, poiché, se fosse vero, verrebbe meno il libero arbitrio, non sarebbe necessario consigliarsi e non sarebbe neanche giusto infliggere delle pene o premiare per dei meriti, poiché tutto sarebbe compiuto per necessità. Perciò bisogna dire che Dio conosce tutte le cose future e che questa conoscenza non impedisce che alcune cose accadano in maniera contingente.

Perché ciò sia evidente bisogna sapere che in noi ci sono alcune potenze e [alcuni] abiti conoscitivi in cui non ci può mai essere la falsità, quali il senso, la scienza e l’intelligenza dei primi princìpi; invece, [ce ne sono altre] in cui ci può essere il falso, come l’immaginazione, l’opinione e il giudizio. Ora, c’è falsità in qualche conoscenza per il fatto che le cose non stanno in realtà così come [le] si conoscono. Perciò, se c’è una potenza conoscitiva tale che in essa non ci sia mai la falsità, occorre che il suo oggetto di conoscenza non venga mai meno da ciò che di esso il soggetto conoscente apprende. Ora, non si può impedire che il necessario esista, neanche prima di prodursi, giacché le sue cause sono immutabilmente ordinate alla sua produzione, cosicché per mezzo di tali abiti, che sono sempre veri, si possono conoscere le cose necessarie anche quando sono future, come conosciamo un’eclissi futura o il sorgere del sole con scienza vera. Invece, il contingente può essere impedito prima che sia prodotto nell’essere, poiché in questo caso esiste solo nelle sue cause, alle quali può sopraggiungere un impedimento che non le fa pervenire al [proprio] effetto. Ma dopo che il contingente è stato ormai prodotto nell’essere, non [lo] si può più impedire e quindi riguardo al contingente, secondo che esiste al presente, ci può essere un giudizio di quella potenza o abito, nella quale non si trova mai la falsità, come il senso [il quale] giudica che Socrate sta seduto, quando sta seduto. Da ciò è evidente che il contingente, in quanto è futuro, non può essere conosciuto per mezzo di nessuna conoscenza, che non possa andar soggetta alla falsità. Perciò, dato che la scienza divina non è soggetta alla falsità né può andarvi soggetta, sarebbe impossibile che Dio avesse scienza dei futuri contingenti se li conoscesse come futuri.

Pertanto, una cosa è conosciuta in quanto futura allorquando tra la conoscenza di chi conosce e l’accadere della cosa si riscontra un ordine del passato al futuro; ora, non si può riscontrare quest’ordine tra la conoscenza divina e qualsiasi cosa contingente, ma l’ordine della conoscenza divina ad una qualsiasi cosa è come l’ordine del presente al presente, cosa che si può certamente intendere nel modo che segue. Se uno vedesse molte persone passare per una sola via l’una dopo l’altra e per un certo tempo, nei singoli intervalli di tempo vedrebbe come presenti alcuni di quelli che passano, di modo che in tutto il tempo della sua visione vedrebbe come presenti tutti quelli che passano. Però non li vedrebbe tutti insieme

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come presenti, poiché il tempo della sua visione non è tutto simultaneo. Invece, se la sua visione potesse avvenire tutta nello stesso tempo, [li] vedrebbe come presenti tutti insieme, anche se non passano tutti insieme al presente. Perciò, dato che la visione della scienza divina è misurata dall’eternità, la quale è tutta insieme e comunque include tutto il tempo e non è assente in nessuna parte del tempo, segue che essa vedrebbe non come futuro ma come presente qualsiasi cosa si compia nel tempo. Infatti, ciò che è visto da Dio è certamente futuro per quella cosa, alla quale succede nel tempo, ma per la visione divina, che non è nel tempo ma al di fuori del tempo, non è futuro, bensì presente. Così, dunque, noi vediamo il futuro come futuro, poiché è futuro per la nostra visione, dato che la nostra visione è misurata dal tempo, ma non è futuro per la visione divina, che è al di fuori del tempo, come anche colui che fosse nella fila di coloro che passano vedrebbe coloro che passano ordinatamente in un modo - cioè non vedrebbe se non quelli che sono davanti a lui - mentre chi fosse al di fuori della fila di coloro che passano li vedrebbe in un altro modo - cioè vedrebbe tutti insieme quelli che passano.

Dunque, come la nostra vista non s’inganna mai quando vede le cose contingenti nel momento in cui sono presenti e comunque ciò non esclude che queste cose avvenganoin modo contingente, così Dio vede in maniera infallibile tutte le cose contingenti sia quelle che, per noi, sono presenti sia quelle che sono passate sia quelle che sono future, poiché per lui non sono future ma le vede esistere allorquando esistono, cosicché ciò non esclude che esse accadano in maniera contingente. In queste cose la difficoltà sorge a causa del fatto che non possiamo parlare della conoscenza divina se non secondo il modo della nostra conoscenza, ossia esplicitando contemporaneamente le differenze dei tempi. Infatti, se parlassimo della scienza di Dio così com’essa è, dovremmo dire che Dio sa che questa cosa esiste invece di dire che Dio sa che [questa cosa] esisterà, poiché per lui le cose non sono mai future, ma sempre presenti. Perciò, come dice anche Boezio nel libro V della Consolazione, la sua conoscenza riguardante le cose future «è più propriamente detta provvidenza che previdenza, poiché le vede stando lontano sulla vedetta dell’eternità». Tuttavia la si può chiamare anche previdenza per l’ordine che ciò che da lui è conosciuto ha con le altre cose per le quali esso è futuro. RISPOSTE ALLE OBIEZIONI 1. Alla prima, dunque, bisogna rispondere che, benché il contingente non sia determinato per tutto il tempo in cui è futuro, tuttavia dal momento in cui è stato realizzato nella natura ha una determinata verità ed è in questo modo che la visione della conoscenza divina si porta su di esso. 2. Alla seconda bisogna rispondere che, com’è stato detto, il contingente si rapporta alla conoscenza divina nella misura in cui si pone che esiste nella natura; ora, sin dal momento in cui esso esiste, non può non esistere nel tempo in cui esiste, poiché «ciò che è, è necessario che sia quando è», com’è detto nel libro I Della interpretazione; tuttavia, non segue che sia, in assoluto, necessario, né che la scienza di Dio sia fallibile, così come anche la mia vista non è fallibile, quando vedo che Socrate sta seduto, benché ciò sia contingente. 3. Alla terza bisogna rispondere che in tanto si dice che il contingente è necessario in quanto è conosciuto da Dio, poiché da Dio è conosciuto in quanto è già presente; tuttavia, in quanto è futuro, non deriva da questo fatto una certa necessità a tal punto che si possa dire che accade necessariamente: l’accadere, infatti, appartiene solo a ciò che è futuro, poiché ciò che già è non può ancora accadere; tuttavia è vero che esso è accaduto e che è accaduto è necessario.

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4. Alla quarta bisogna rispondere che quando si dice che Tutto ciò che Dio conosce è necessario, questa proposizione ha un duplice significato, in quanto può riguardare o l’enunciato o la cosa. Se riguarda l’enunciato, in tal caso la proposizione è composta ed è vera e il [suo] senso è il seguente: l’enunciato [nel quale si dice che] Ogni cosa che Dio conosce esiste è necessario, poiché è impossibile che Dio conosca che qualcosa esiste e che esso non esista. Se riguarda la cosa, allora [la proposizione] è divisa e falsa e il [suo] senso è il seguente: ciò che è conosciuto da Dio è necessario che esista. Infatti, le cose conosciute da Dio non per questo accadono necessariamente, com’è evidente dalla cose dette. E se si obietta che questa distinzione ha luogo solo nelle forme, che possono avvicendarsi in un soggetto, come la forma del bianco o la forma del nero, e che invece non può accadere che qualcosa sia conosciuto da Dio e poi non [più] conosciuto - e in tal caso la distinzione predetta qui non ha luogo - bisogna dire che, quantunque la scienza di Dio sia invariabile ed è sempre nello stesso modo, tuttavia la disposizione secondo la quale la cosa si rapporta alla conoscenza di Dio non si rapporta ad essa sempre nello stesso modo: infatti, la cosa si rapporta alla conoscenza di Dio secondo che essa esiste al presente; ora, l’esistenza al presente della cosa non sempre conviene ad essa; per conseguenza la cosa può essere assunta con tale disposizione oppure senza di essa e così, per conseguenza, può essere assunta nel modo in cui si rapporta alla conoscenza di Dio oppure in altro modo e, in base a ciò, ha luogo la predetta distinzione. 5. Alla quinta bisogna rispondere che, se la predetta proposizione riguarda la cosa, è vero che la necessità è posta nei riguardi di ciò che è conosciuto da Dio; ma se riguarda l’enunciato, la necessità non è posta nei riguardi della cosa stessa, ma nei riguardi dell’ordine della scienza alla cosa conosciuta. 6. Alla sesta bisogna rispondere che come la nostra scienza non può riguardare i futuri contingenti, così neppure la scienza di Dio e ancor meno se li conoscesse come futuri; invece li conosce come presenti per lui, però come futuri per gli altri e quindi l’argomentazione non conclude. 7. Alla settima bisogna rispondere che riguardo a ciò ci sono opinioni diverse. Infatti, alcuni dicono che questo antecedente: Questa cosa è stata conosciuta da Dio è contingente, per il fatto che, pur riferendosi al passato, comporta tuttavia un ordine al futuro e quindi non è necessario, nello stesso modo in cui si dice: Questa cosa stava per accadere: questa cosa passata non è necessaria, poiché ciò che stava per accadere poteva non accadere, com’è detto nel libro II Della Generazione: «Chi sta per camminare potrebbe non camminare». Ma ciò poco importa, poiché, quando si dice: Questa cosa sta per accadere oppure [Questa cosa] stava per accadere, si designa l’ordine che esiste nelle cause di questa cosa, per la sua produzione. Ora, benché le cause che sono ordinate ad un certo effetto potrebbero [anche] essere impedite, di modo che l’effetto non consegua da esse, tuttavia non si può impedire che un tempo siano state ad esso ordinate; per conseguenza, quantunque ciò che sta per accadere potrebbe non accadere, tuttavia è impossibile che ciò non sia stato per accadere.

E quindi altri dicono che questo antecedente è contingente, poiché e composto di necessario e di contingente. Infatti, la scienza di Dio è necessaria, ma ciò che egli conosce è contingente cd entrambe le cose sono incluse nel predetto antecedente, L otn’é contingente anche questo enunciato: Socrate è un uomo bianco oppure Socrate è un animale e corre. Ma, ancora una volta, anche questo poco importa, poiché la verità della proposizione non cambia per il fatto che la necessità e la contingenza sono incluse materialmente nell’enunciato, ma soltanto per la congiunzione principale, su cui si fonda la verità della proposizione, cosicché in entrambe queste proposizioni: Penso che l’uomo è un animale e Penso che Socrate corre c’è la stessa

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ragione di necessita e di contingenza. E quindi, poiché l’atto principale, espresso in questo antecedente: Dio sa che Socrate corre, è necessario, quantunque ciò che e materialmente affermato sia contingente, con ciò non si impedisce che il predetto antecedente sia necessario.

E perciò altri ammettono semplicemente che sia necessario, però sostengono che da un antecedente assolutamente necessario non occorre che segua un conseguente assolutamente necessario, se non quando l’antecedente è causa prossima del conseguente: infatti, se la causa fosse remota, la necessità dell’effetto potrebbe essere impedita dalla contingenza della causa prossima, nello stesso modo in cui, benché il sole sia causa necessaria, tuttavia la fioritura dell’albero, che è il suo effetto, è contingente, poiché la sua causa prossima, vale a dire la forza germinativa della piante, e mutevole. Ma anche questa tesi non sembra sufficiente, poiché non è per la natura della causa e del causato che dall’antecedente necessario segue un conseguente necessario, ma piuttosto per l’ordine del conseguente all’antecedente, poiché il contrario dell’antecedente non è in nessun modo compatibile con l’antecedente, cosa che accadiebbe se da un antecedente necessario potesse seguire un conseguente contingente: cosicché ciò è necessario che accada in qualsiasi proposizione condizionale, se essa e vera, sia che l’antecedente sia effetto e sia che sia causa prossima o remota: e se ciò non fosse riscontrabile nella proposizione condizionale, in nessun modo sarà vera. Perciò anche questa condizionale è falsa: Se il sole si muove, l’albero fiorirà.

E quindi bisogna dire altrimenti: [cioè] che l’antecedente è, in assoluto, necessario e che il conseguente è assolutamente necessario nel modo in cui segue all’antecedente. Infatti, un conto sono quelle cose che si attribuiscono di per sé ad una cosa, un altro conto sono quelle che ad essa si attribuiscono secondo che è conosciuta. Infatti, quele cose che si attribuiscono ad essa di per sé ad essa convengono secndo il suo modo [di essere], nvece quelle che si attribuiscono ad essa, o che ad essa conseguono in quanto è conosciuta, sono secondo il modo [di essere] del soggetto conoscente. Perciò, se nell’antecedente è espresso qualcosa ch dovrebbe appartenere alla conoscenza, occorre che il conseguente sia assunto secondo il modo [di essere] del soggetto conoscente e non secondo il modo della cosa conosciuta. Per es., se dicessi Se cnosco qualcosa, questo qualcosa è immateriale, non occorre che ciò che è conosciuto sia immateriale, se non nella misura in cui è conosciuto. E similmente, quando dico Se Dio conosce qualcosa, questo qualcosa sarà, il conseguente deve essere intesto non secondo la disposizione della cosa in se stessa, ma secondo il modo [di essere] del soggetto conoscente, ora benché la cosa in se stessa sia futura, tuttavia secondo il modo di chi conosce è presente. E quindi bisogna dire: Se Dio conosce qualcosa, questo qualcosa è, piuttosto che [Se Dio conosce qualcosa,] questo qualcosa sarà. Perciò, il giudizio Se Dio conosce qualcosa, questo qualcosa sarà è uguale a questo Se vedo Socrate correre, Socrate corre: entrambi sono necessari nel momento in cui si verificano. 8. All’ottava bisogna rispondere che, quantunque il contingente, nel momento in cui è futuro, non abbia [ancora] l’essere, tuttavia a partire dal momento in cui è presente ha l’essere e la verità e quindi soggiace alla visione divina, benché dio conosca l’ordine di una cosa ad un’altra e, quindi, conosca che una cosa è futura rispetto ad un’altra; ma se è così, non è sconveniente ritenere che Dio conosca che qualcosa futura non accadrà, in quanto cioè sa che alcune cause sono inclini ad un certo effetto, che non si produrrà; infatti, ora non stiamo parlando della conoscenza del futuro, in quanto è visto da Dio nelle sue cause, ma in quanto è conosciuto in se stesso; in questo modo è conosciuto, infatti, come presente.

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9. Alla nona bisogna rispondere che in quanto il futuro è conosciuto da Dio, esso è presente e quindi è determinato ad un’alternativa, quantunque, finché resta futuro, si rapporti a entrambe le alltrnative. 10. Alla decima bisogna rispondere che Dio non conosce nulla al di fuori di sé, se l’espresione al di fuori si riferisce a ciò con cui conosce; invece, consosce qualcosa al di fuori di sé se si riferisce a ciò che conosce e di ciò sid è discusso sopra. 11. All’undicesima bisogna rispondere che duplice è il medio di conoscenza: uno, che è il medio della dimostrazione e questo deve essere proporzionato alla conclusione, di modo che, una volta che questo sia stato posto, è posta [anche] la conclusione – e Dio non è un medio di conoscenza del genere rispetto alle cose contingenti; l’altro medio della conoscenza è la somiglianza della cosa conosciuta e l’essenza divina è un tale mdeio della conoscenza, [che] tuttavia non [è] adeguato ad alcunché, pur essendo appropriato alle cose singole, come sopra è stato detto.

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Galileo Galilei (1564-1642)

Lingua originale: italiano edizione di riferimento: Opere Edizione nazionale in 20 volumi

a cura di A.Favaro, Barbero, Firenze, 1890-1909 tema: il rapporto tra esegesi biblica e indagine fisica

genere letterario: epistole Lettera ‘privata’ a Don Benedetto Castelli (21 dicembre 1613, in Ed. naz., V, pp. 282-3) […] procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto nelle Scritture, per accomodarsi all’intendimento dell’universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al significato delle parole, dal vero assoluto; ma all’incontro, essendo la natura inesorabile e immutabile e noncurante che le sue recondite ragioni e modi d’operare sieno o non sieno esposti alla capacità de gli uomini, per lo che ella non trasgredisce mai i termini delle leggi imposteli […]

Lettera ‘pubblica’ alla Granduchessa Madre madama Cristina di Lorena (1615, in Ed. naz., V, p. 317) […] procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto nelle Scritture, per accommodarsi all’intendimento dell’universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al nudo significato delle parole, dal vero assoluto; ma all’incontro, essendo la natura inesorabile e immutabile e mai non trascendente i termini delle leggi imposteli, come quella che nulla cura che le sue recondite ragioni e modi d’operare sieno o non sieno esposti alla capacità de gli uomini; […]

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Thomas Hobbes (1588-1679) Leviatano (1651)

lingua originale: inglese

edizione di riferimento: R. Tuck, Cambridge University Press, Cambridge, 1991 tr. it. R. Davies

tema: gli eventi sovrannaturali genere letterario: esegesi etimologica

Parte III, Capitolo xxxvii: I miracoli e il loro uso 1. Un miracolo è un’opera che causa ammirazione Per ‘miracoli’ s’intendono le ammirevoli opere di Dio, per cui si chiamano anche ‘meraviglie’. E poiché per la maggior parte vengono fatti per significare il Suo comando nelle occasioni in cui gli uomini, senza di essi (seguendo il loro ragionamento naturale) sono portati a mettere in dubbio quello che Egli ha comandato e quello che non ha comandato; nella Sacra Scrittura, vengono comunemente chiamati ‘segni’, nello stesso senso in cui i latini li chiamano ‘ostenta’ e ‘portenta’, perché mostrano e pre-significano ciò che l’Onnipotente sta per far accadere. 2. Deve quindi essere raro e riguardare fenomeni di cui non si conosca la causa naturale Quindi, per capire che cosa sono i miracoli, dobbiamo in primo luogo capire che tipo di opere sono quelle di cui gli uomini si meravigliano e che chiamano ammirevoli. Esistono soltanto due cose che fanno meravigliare gli uomini ogni volta che si verificano: le cose strane, vale a dire quelle che non si sono mia prodotte o che si sono prodotte molto raramente, e quelle che, quando si producono, non si può immaginare che siano state fatte con mezzi naturali, ma solo immediatamente per mano di Dio. Ma quando di una cosa vediamo una possibile causa naturale, allora, per quanto raramente ne siano state compiute di simili o, se ne sono state compiute spesso di simili, per quanto impossibile immaginare un mezzo naturale, non ci meravigliamo più, né stimiamo un miracolo. 3. [Due esempi] 1 Dunque se un cavallo o una mucca parlassero, sarebbe un miracolo, perché entrambe le cose sono strane e la causa naturale è difficile da immaginare, come lo sarebbe anche se vedessimo una strana deviazione della natura nella produzione di qualche nuova forma di creatura vivente. Ma quando un uomo o un altro animale danno vita ad un loro simile, anche se non sappiamo come questo avvenga più di quanto ne sappiamo per i casi strani, tuttavia non si tratta di un miracolo, perché è qualcosa di usuale. In maniera simile, se un uomo subisce una metamorfosi trasformandosi in una pietra o in una colonna, si tratta di un miracolo perché è qualcosa di strano; ma se è un pezzo di legno a cambiare in questo modo, non si tratta di un miracolo, perché è una cosa che vediamo spesso e tuttavia non sappiamo attraverso quale operazione Dio lo faccia accadere, non più di quanto ne sappiamo per il primo caso.

1 I titoletti di sezioni tra parentesi quadre non sono nel testo originale di Hobbes (nota di Davies).

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4. [Un altro esempio] Il primo arcobaleno che si vide nel mondo costituì un miracolo, perché fu il primo e, di conseguenza, fu strano e servì come un segno posto nel cielo da Dio per assicurare al suo popolo che non ci sarebbe più stata una distruzione universale del mondo con l’acqua. Ma oggi, poiché sono frequenti, non sono miracoli né per quelli che conoscono le loro cause naturali né per quelli che non le conoscono. Ancora, ci sono molte opere rare, prodotte dall’arte dell’uomo e tuttavia quando conosciamo come sono state fatte, dato che così conosciamo anche i mezzi con cui sono state fatte, non le consideriamo come miracoli, perché non vengono prodotte immediatamente dalla mano di Dio, bensì con la mediazione dell’operosità umana. 5. Ciò che a qualcuno sembra un miracolo può non sembrarlo ad un altro Inoltre, visto che l’ammirazione e la meraviglia sono una conseguenza della conoscenza e dell’esperienza, di cui gli uomini sono più o meno dotati, ne segue che una stessa cosa può essere un miracolo per uno e non per un altro. Accade quindi che gli uomini ignoranti e superstiziosi si meravigliano molto per opere che altri uomini, sapendo che derivano dalla natura (che non è l’opera immediata bensì ordinaria di Dio), non ammirano affatto. Così è accaduto quando le eclissi di sole e di luna sono state prese per opere sovrannaturali dalla gente comune, mentre c’erano altri che, da cause naturali, avevano potuto predire l’ora precisa in cui si sarebbero verificate. Così quando qualcuno, complottando e informandosi in segreto, riesce a conoscere le azioni private di un uomo ignorante e sprovveduto e gli dice ciò che ha fatto in passato, a quest’ultimo sembra una cosa miracolosa. Ma tra uomini saggi e cauti non si possono compiere facilmente miracoli come questi. 6. Il fine dei miracoli Ancora, appartiene alla natura del miracolo che esso si compia per procurare credito ai messaggeri, ai ministri e ai profeti di Dio, perché così gli uomini possano sapere che essi sono chiamati, inviati ed impiegati da Dio e con ciò siano meglio inclini ad obbedire loro. Quindi, anche se la creazione del mondo e poi la distruzione di tutte le creature viventi nel diluvio universale sono state opere ammirevoli, tuttavia non si usa chiamarli miracoli, perché non furono fatte per procurare credito a qualche profeta o qualche altro ministro di Dio. Infatti, per quanto ammirevole possa essere un’opera, l’ammirazione non consiste nel fatto che essa poteva essere compiuta, poiché gli uomini credono naturalmente che l’Onnipotente possa fare ogni cosa, bensì nel fatto che Egli la fa come risposta alla preghiera o alla parola di un uomo. Ma le opere di Dio svolte in Egitto per mano di Mosè furono miracoli veri e propri, perché furono fatte con l’intento di far credere al popolo di Israele che Mosè non si era presentato per qualche piano legato al suo interesse personale, bensì in quanto inviato da Dio. Quindi, dopo che Dio gli ebbe comandato di liberare gli Israeliti dalla schiavitù egiziana, quando egli disse (Esodo, 4,1): Essi non mi crederanno, ma diranno che il Signore non mi è apparso, Dio gli diede il potere di trasformare il bastone che aveva in mano in un serpente e poi di ritrasformarlo in un bastone e di rendere lebbrosa la sua mano portandola al seno e di risanarla togliendola da esso, per far credere ai figli di Israele 8come è nel versetto 5) che il Dio dei loro padri gli era apparso; e se ciò non fosse stato sufficiente, gli diede il potere di trasformare le acque in sangue. Quando ebbe compiuto questi miracoli davanti al popolo, si dice (versetto 41) che essi gli credettero. Nondimeno, per paura del Faraone, osarono non obbedirgli. Dunque, le altre opere che furono fatte per tormentare il Faraone e gli Egiziani, tendevano

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tutte a fare in modo che gli Israeliti credessero in Mosè ed erano miracoli veri e propri. In maniera simile, se consideriamo tutti i miracoli fatti per mano di Mosè e di tutti gli altri profeti fino alla cattività, e poi quelli del nostro Salvatore e dei suoi apostoli, troveremo che il loro fine fu sempre quello di generare o di riconfermare la credenza che essi non furono mossi da scopi personali, ma furono stati inviati da Dio. Possiamo inoltre osservare che nella Scrittura il fine dei miracoli era quello di generare la credenza non universalmente in tutti gli uomini, eletti e reprobi, ma soltanto negli eletti, vale a dire in quelli che Dio aveva stabilito che dovessero diventare suoi sudditi. Infatti, quelle miracolose piaghe d’Egitto non avevano come loro scopo la conversione del Faraone, poiché prima Dio aveva detto a Mosè che avrebbe indurito il cuore del Faraone perché non lasciasse andare il popolo; e quando infine egli lo lasciò andare, non fu persuaso dai miracoli, ma furono le piaghe a spingerlo. Così anche del nostro Salvatore è scritto (Matteo, 13,58) che non compì molti miracoli nel suo Paese a causa della loro incredulità, e (Marco, 6,5) invece di ‘Egli non ne compì molti’ c’è scritto ‘Egli non potè operarne nessuno’. Questo non perché gli mancasse il potere – che sarebbe una bestemmia contro Dio – o perché il fine dei miracoli non fosse quello di convertire al Cristo gli increduli – perché il fine di tutti i miracoli di Mosè, dei profeti, del nostro Salvatore e dei suoi apostoli fu quello di aggiungere uomini alla Chiesa – ma perché il fine dei loro miracoli fu quello di aggiungere alla Chiesa (non tutti gli uomini, ma) quelli che dovevano essere salvati, vale a dire quelli che Dio aveva eletto. Dunque, visto che il nostro Salvatore era stato mandato da suo Padre, non poteva usare il suo potere per convertire quelli che suo Padre aveva rifiutato. Quelli che, esponendo questo passo di San Marco, dicono che la parola ‘non poté’ sta per ‘non volle’ lo fanno senza esempi nella lingua greca (dove ‘non volle’ talvolta sta per ‘non poté’ nelle cose inanimate che non hanno volontà, ma mai ‘non poté’ er ‘non volle’), ponendo così un ostacolo davanti ai cristiani deboli, come se Cristo non potesse fare miracoli fra i credenti. 7. La definizione di miracolo Da quello che ho appena detto sulla natura e sull’uso del miracolo, possiamo trarre quest definizione: ‘UN MIRACOLO è un’opera di Dio (che va oltre il suo operato secondo le modalità naturali predisposte nella creazione), fatta per rendere manifesta ai suoi eletti la missione di un ministro straordinario inviato per la loro salvezza. 8. [I miracoli sono opera di Dio] Da questa definizione possiamo in primo luogo desumere che in tutti i miracoli l’opera compiuta non è l’effetto di una qualche virtù del profeta, perché è l’effetto immediato della mano di Dio, vale a dire, che Dio l’ha compiuta senza utilizzare il profeta come causa subordinata. 9. [Nessuno spirito creato può compiere miracoli] Secondariamente, che nessun demonio, angelo o altro spirito creato può fare un miracolo, perché questo deve essere fatto o in virtù di qualche scienza naturale o per incanto, cioè in virtù delle parole. Infatti, se gli incantatori lo fanno per qualche loro potere indipendente, allora esiste qualche potere che non proviene da Dio, cosa che tutti gli uomini negano, o se lo fanno per un potere dato loro, allora non si tratta di un’opera immediata della mano di Dio, ma di un’opera naturale e, di conseguenza, non è un miracolo.

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10 [Gli incantesimi e le magie non sono miracoli] Ci sono alcuni testi della Scrittura che sembrano attribuire a certe arti magiche e incantatorie il potere di operare meraviglie (uguali ad alcuni di quei miracoli operati immediatamente da Dio stesso). Così, ad esempio, quando si legge che, il bastone di Mosè, una volta gettato a terra, diventò un serpente, ‘i maghi d’Egitto fecero una cosa simile con i loro incantesimi’ (Esodo, 7,11) e che, dopo che Mosè aveva trasformato in sangue le acque dei ruscelli, dei fiumi, degli stagni e della pozze d’acqua d’Egitto, ‘i maghi agirono in modo simile con i loro incantesimi’ (Esodo, 7,22) e che, dopo che Mosè, con il potere di Dio, aveva portato le rane sulla terra, ‘anche i maghi fecero così con il loro incantesimi e portarono le rane sulla terra d’Egitto (Esodo, 8,7); quando si legge tutto ciò, non si sarà disposti ad attribuire i miracoli agli incantesimi, vale a dire all’efficacia del suon delle parole, e a pensare che la stessa cosa sia molto ben provata da questo e da altri passi simili? Eppure non c’è alcun passo della Scrittura che ci dica che cos’è un incantesimo. Se, dunque, un incantesimo non è, come credono molti, la produzione di strani effetti attraverso sortilegi e parole, ma un impostura e un’illusione compiuta con mezzi ordinari e così distante dall’essere sovrannaturale, che gli impostori, per farlo, non hanno tanto bisogno di studiare le cause naturali, quanto l’ordinara ignoranza, la stupidità e la superstizione del genere umano, allora quei testi che sembrano confermare il potere della magia, della stregoneria e dell’incantesimo devono avere necessariamente un senso diverso da quello che sembrano avere a prima vista. 11. [Sono piuttosto inganni] Infatti, è abbastanza evidente che le parole non hanno effetto se non su chi le comprende e allora non ne hanno un altro oltre a quello di significare le intenzioni o le passioni di chi parla e perciò producono speranza, paura o altre passioni o concezioni in chi ascolta. Dunque, quando un bastone sembra un serpente o le acque sangue oppure qualche altro miracolo sembra fatto per incantesimo, se non è fatto per l’edificazione del popolo di Dio, nè il bastone né l’acqua né qualsiasi altra cosa, tranne lo spettatore, sono incantati, vale a dire raggirati con le parole. Cosicché tutto il miracolo consiste in questo, che l’incantatore ha ingannato un uomo, il che non è un miracolo, bensì una cosa molto facile da fare. 12 Gli uomini sono disposti a farsi ingannare dai falsi miracoli Infatti tale è l’ignoranza e la disposizione all’errore in generale in tutti gli uomini, ed in special modo in quelli che non hanno molta conoscenza delle cause naturali e della natura e degli interessi degli uomini, che essi vengono ingannati con innumerevoli e facili trucchi. E che fama di possessore di poteri miracolosi avrebbe potuto farsi un uomo che, prima che si conoscesse l’esistenza di una scienza del corso delle stelle, avesse detto al popolo che in questa ora o in questo giorno il Sole si sarebbe oscurato? E si potrebbe pensare che un prestigatore che maneggia coppette e altri ninnoli faccia le sue meraviglie per mezzo di un potere quantomeno diabolico, se la sua non fosse ormai una pratica ordinaria. Un uomo che abbia fatto pratica nel parlare trattenendo il respiro (nei tempi antichi uomini di tal genere venivano chiamati ‘ventriloqui’) e nel fare in modo che la sua voce debole sembri provenire non da un debole impulso degli organi vocali, bensì da un luogo distante, è in grado di far credere a moltissimi uomini che è una voce che viene dal Cielo, qualunque cosa egli vorrà raccontare loro. E per un uomo astuto che si sia informato sui segrete e sulle confessioni confidenziali che un uomo fa di solito ad un altro circa le sue azioni e le sue avventure passate, raccontargliele di nuovo non è cosa difficile; eppure ci sono molti che, servendosi di mezzi

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simili, ottengono la reputazione di essere maghi. Ma sarebbe una faccenda troppo lunga fare il calcolo delle diverse specie di quegli uomini che i Greci chiamavano ‘thaumaturgoi’, vale a dire operatori di cose meravigliose; eppure fanno tutto ciò che fanno con la loro destrezza. Ma se guardiamo alle imposture operate in combutta, non c’è nulla, per quanto impossibile a farsi, che sia impossibile da credere. Infatti, due uomini che cospirano perché uno sembri storpio e l’altro sembri curarlo con un incantesimo, inganneranno molti; ma molti che cospirano perché uno sembri storpio, un altro sembri curarlo e tutti gli altri lo testimonino, ne inganneranno molti di più. 13. Cautele contro l’impostura dei miracoli In questa disposizione del genere umano a credere frettolosamente a pretesi miracoli, non può essere cautela migliore né, credo, alternativa, se non quella che Dio ha prescritto in primo luogo tramite Mosè (come ho già detto nel capitolo precedente2), all’inizio del tredicesimo e alla fine del diciottesimo capitolo del Deuteronomio: di non prendere come profeti quelli che insegnano una religione diversa da quella che il luogotenente di Dio (che a quel tempo era Mosè) ha stabilito né quelli (anche se insegnano la stessa religione) di cui non vediamo verificarsi la predizioni. Quindi, primadi dare credito a un preteso miracolo o profeta, bisogna consultare Mosè nel suo tempo, Aronne e i suoi successori nei loro tempi e il governatore sovrano del popolo di Dio, immediatamente subordinato a Dio stesso, vale a dire al capo della Chiesa in tutti i tempi, per vedere quale dottrina abbia stabilito. E quando la cosa che si pretende sia un miracolo è stata fatta, dobbiamo sia vederla fatta sia usare tutti i mezzi possibili per caprire se sia stata fatta realmente e non solo questo, ma anche se è tale che nessuno può farne una simile con il proprio potere naturale e tale invece che richieda immediatamente la mano di Dio. Anche per questo dobbiamo ricorrere al luogotenente di Dio, al quale abbiamo sottomesso i nostri giudizi privati, relativamente a tutti i casi dubbi. Ad esempio, se qualcuno afferma che Dio, sentendogli pronunciare certe parole sopra un pezzo di pane, faccia subito in modo che quel pane non sia più pane, ma un dio o un uomo o entrambe le cose, nonostante esso sembri il pane che è sempre stato, non c’è ragione perché qualcuno creda che ciò sia accaduto realmente né, di conseguenza, perché abbia paura di lui, finché non abbia chiesto a Dio tramite il suo vicario o luogotenente, se ciò sia accaduto o meno. Se questi dice di no, allor segue ciò che dice Mosè (Deuteronomio, 18,22): ‘Egli ha parlato presuntuosamente, tu non ne avrai paura’. Se dice che è accaduto, allora non bisogna contraddirlo. Così, anche se non vediamo un miracolo, ma ne sentiamo solo parlare, dobbiamo consultare la Chiesa legittima, vale a dire il suo capo legittimo, su quanto credito dobbiamo dare a chi ce ne parla. Questo è soprattutto il caso degli uomini che nei nostri giorni vivono sotto i sovrani cristiani. Infatti non conosco nessuno che nei nostri tempi abbia mai visto un’opera così meravigliosa, fatta con l’incantesimo o per la parola o la preghiera di un uomo, tale che anche un uomo dotato di un’intelligenza mediocre possa ritenerla sovrannaturale; e la questione non è più se ciò che vediamo accadere sia un miracolo o se i miracolo di cui sentiamo parlare o crediamo sia un’opera reale e non l’atto di una lingua o di una penna, bensì, per dirla chiaramente, se il resoconto sia veritiero o se si tratti invece di una menzongna. In tale questione, nessuno di noi deve rendere giudice la propria ragione privata o coscienza, ma la ragione pubblica, cioè la ragione del supremo luogotenente di Dio; e in realtà, lo abbiamo già reso giudice, se gli abbiamo dato un potere sovrano per fare tutto ciò che è necessario per

2 Leviatano III cap. 36 discute ‘la parola di Dio e dei profeti’ (nota di Davies)

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la nostra pace e per la nostra difesa. Un privato ha sempre la libertà (dato che il pensiero è libero) di credere o di non credere in cuor suo a quegli atti che sono stati annunciati come miracoli, a seconda del beneficio che può derivare dal credere a coloro che pretendono siano reali o che li appoggiano come tali, e alla luce di queste considerazioni, di congetturare se siano miracoli o menzogne. Ma quando accade di confessare quella fede, la ragione privata deve sottomettersi a quella pubblica, vale a dire al luogotenente di Dio. Ma chi sia questo luogotenente di Dio e capo della Chiesa, sarà considerato in seguito, nel luogo opportuno.

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Renato Cartesio (1596-1650) Il mondo (ca 1630)

lingua originale: francese edizione di riferimento: C. Adam e P. Tannery, (1910 ecc.)

Œuvres de Descartes, (13 voll.) ed. riveduta, Vrin, Parigi, 1964-74 tr. it. M. Garin, Laterza, Bari-Roma, 1967

tema: il formarsi di un mondo genere letterario: speculazione fisica

Capitolo quinto: DEL NUMERO DEGLI ELEMENTI E DELLE LORO QUALITÀ I filosofi affermano che al disopra delle nubi c’è un’aria molto più sottile della nostra, che non si compone come questa dei vapori della Terra, ma costituisce un elemento a parte. Affermano pure che al disopra di quest’aria c’è un altro corpo ancora, molto più sottile, che chiamano l’elemento del fuoco. Aggiungono inoltre che questi due elementi si mescolano con l’acqua e la Terra nella composizione di tutti i corpi inferiori. Quindi, non faccio che attenermi alla loro opinione se dico che quest’aria più sottile e questo elemento del fuoco riempiono gl’intervalli che si trovano tra le parti di quell’aria grossolana che respiriamo: sicché questi corpi tra loro intrecciati formano una massa tanto solida quanto un corpo può esserlo.

Ma per farvi meglio intendere il mio pensiero in proposito, e perché non abbiate a sospettare che voglia obbligarvi a credere tutto ciò che i filosofi ci vengono dicendo sugli elementi, devo descriverveli a modo mio.

Concepisco il primo, che possiamo chiamare l’elemento del fuoco, come il fluido più sottile e penetrante che ci sia al mondo. E, in base a quanto si è detto prima della natura dei corpi fluidi, immagino le sue parti molto più piccole e molto più veloci nel muoversi di tutte quelle degli altri corpi. O meglio, per non trovarmi costretto ad ammettere che in natura c’è il vuoto, non attribuisco alle parti di questo fluido né grandezza né forma determinata, ma sono convinto che il suo movimento impetuoso basti a far sì che si trovi a esser diviso in tutti i modi e in tutti i sensi nello scontrarsi con gli altri corpi e che le sue parti mutino continuamente la propria forma per adattarsi a quella dei luoghi in cui penetrano; dimodoché fra le parti degli altri corpi non vi sia passaggio tanto stretto o angolo tanto piccolo che le parti di questo elemento non possano penetrarvi senza la minima difficoltà riempiendone perfettamente lo spazio.

Quanto al secondo elemento, che possiamo considerare come l’elemento dell’aria, secondo me, paragonato al terzo, è senz’altro un fluido molto sottile; ma, paragonandolo al primo, bisogna attribuire a ciascuna delle sue parti una certa grandezza e forma e immaginarle quasi perfettamente rotonde ed unite fra loro come granellini di sabbia o dí polvere. Dimodoché, per quanto si concatenino o si stringano l’una all’altra, resteranno sempre attorno ad esse parecchi piccoli intervalli, in cui è molto più facile al primo elemento di penetrare che non a esse mutar forma apposta per colmarli. Perciò sono convinto che in nessun luogo del mondo si può trovare questo secondo elemento a uno stato così puro da non includere ín sé un po’ della materia del primo.

Dopo questi due elementi ne ammetto solo un terzo, cioè quello della Terra, le cui parti, secondo me, a paragone di quelle del secondo, sono di tanto più grandi e meno rapide nel muoversi di quanto le parti del secondo lo sono a paragone di quelle del primo. E credo che basti concepirlo come una grande massa — una o più — le cui parti hanno solo un minimo di

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movimento, o addirittura mancano di movimento che produca mutamenti nella loro disposizione reciproca.

Se vi pare strano che, per spiegare questi elementi, io non mi serva, come i filosofi, delle qualità chiamate caldo, freddo, umidità, secchezza, vi rispondo che, secondo me, queste qualità stesse hanno bisogno di spiegazione, e, se non m’inganno, non solo queste quattro qualità, ma anche tutte le altre, e persino tutte le forme dei corpi inanimati si possono spiegare senza bisogno di supporre nella materia dei corpi stessi nient’altro che il movimento, la grandezza, la forma, la disposizione delle parti. E ora mi sarà facile farvi intendere perché non ammetto altri elementi oltre i tre che ho descritto: perché la differenza che deve sussistere fra questi e gli altri corpi detti dai filosofi misti o composti, consiste nel fatto che le forme dei corpi misti includono sempre qualità tra loro contrastanti che si nuocciono a vicenda o per lo meno non tendono alla reciproca conservazione; mentre le forme degli elementi devono essere semplici e aver solo qualità che si armonizzino così perfettamente da tendere ciascuna alla conservazione di tutte le altre.

Ora, oltre le tre che ho descritto, non riesco a trovare al mondo altre forme rispondenti a tali requisiti. Quella infatti che ho attribuito al primo elemento consiste nel fatto che le sue parti si muovono con una tale velocità e sono così piccole da non trovare corpo capace di fermarle; inoltre esse non richiedono né grandezza, né figura, né posizione determinata. La forma del secondo consiste nel fatto che le sue parti hanno un movimento e una grandezza di media entità: tanto che, se ci sono al mondo parecchie cause capaci di aumentarne il movimento e diminuirne la grandezza, ce ne sono esattamente altrettante capaci di fare l’opposto: in tal modo le parti del secondo elemento restano sempre come in equilibrio in questa loro condizione intermedia. E la forma del terzo consiste nell’essere le sue parti tanto grandi o talmente unite fra loro da essere sempre capaci di resistere ai movimenti degli altri corpi.

Soffermatevi quanto volete a esaminare tutte le forme che i vari movimenti, le varie figure e grandezze, la diversa disposizione delle parti della materia possono dare ai corpi composti,e sono certo che non ne troverete nessuna dove manchino qualità tendenti a farla cambiare riducendola nel mutamento a qualcuna delle forme degli elementi.

La fiamma, per esempio, la cui forma, come si è detto prima, richiede parti che si muovano rapidissime e che al tempo stesso posseggano una certa grandezza, non può durare a lungo senza corrompersi; infatti, o la grandezza delle sue parti, rendendole capaci di agire contro gli altri corpi, determinerà una diminuzione del loro movimento; oppure la violenza della loro agitazione, facendole infrangere nell’urto coi corpi che incontrano, determinerà una perdita di grandezza; sicché, un po’ alla volta, potranno ridursi alla forma del terzo elemento, o a quella del secondo, e in qualche caso persino a quella del primo. Di qui potete apprendere la differenza tra questa fiamma, ossia il comune fuoco che troviamo tra noi, e l’elemento del fuoco che ho descritto. E dovete anche sapere che neppure gli elementi dell’aria e della terra, cioè il secondo e il terzo elemento, somigliano all’aria grossolana che respiriamo o alla terra che calpestiamo; ma, in genere, tutti i corpi che si vedono attorno a noi sono misti, o composti e soggetti a corrompersi.

Tuttavia non si deve perciò credere che gli elementi manchino, nel mondo, di luoghi destinati particolarmente a loro dove possano conservare in perpetuo la loro naturale purezza. Al contrario, poiché ogni parte di materia tende sempre a ridursi a qualcuna delle loro forme e dopo essercisi ridotta non tende mai ad abbandonarla, quand’anche Dio, in origine, avesse creato solo corpi misti, tuttavia, dall’origine del mondo in poi, tutti questi corpi avrebbero avuto modo di abbandonare le loro forme assumendo quelle degli elementi. Sicché ora è molto

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probabile che tutti i corpi abbastanza grandi per essere annoverati fra le parti più importanti dell’universo, abbiano semplicemente la forma di un elemento; e che solo sulla superficie di questi grandi corpi possano esservi corpi misti. Ma qui devono esserci di necessità; infatti, essendo gli elemeni per natura in grande contrasto reciproco, due di essi non possono incontrarsi senza agire l’uno contro la superficie dell’altro dando così alla materia che vi si trova le forme diverse dei corpi misti.

A questo proposito, se consideriamo in generale tutti i corpi di cui l’universo si compone, ne troveremo solo di tre sorta che possano essere chiamati grandi e annoverati fra le sue parti principali: al primo genere appartengono il Sole e le stelle fisse; al secondo i cieli; al terzo la Terra coi pianeti e le comete. Perciò abbiamo buone ragioni di pensare che il Sole e le stelle fisse non abbiano altra forma se non quella del primo elemento nella sua assoluta purezza; i cieli quella del secondo; la Terra, coi pianeti e le comete, quella del terzo.

Metto i pianeti e le comete con la Terra perché, vedendoli, come la Terra, resistere alla luce e rifletterne i raggi, non ci noto nessuna differenza. Metto d’altra parte il Sole con le stelle fisse, e attribuisco loro una natura del tutto opposta a quella della Terra, perché la sola azione della loro luce basta a rivelarmi che i loro corpi sono di materia molto sottile e agitata.

Ai cieli, non potendo percepirli coi sensi, ritengo ragionevole attribuire una natura intermedia fra quella dei corpi luminosi di cui avvertiamo l’azione, e quella dei corpi solidi e pesanti di cui avvertiamo la resistenza.

Infine non percepiamo corpi misti se non sulla superficie della Terra, e se consideriamo che tutto lo spazio che li contiene, tra le più alte nuvole e le più profonde cavità che l’avidità umana abbia aperto per trarne i metalli, è di un’estrema esiguità a paragone della Terra e dell’immensa distesa del Cielo, ci sarà facile immaginare che questi corpi misti nel loro insieme non siano altro che una scorza formatasi alla superficie della Terra perché la materia del cielo che la circonda si agita e si mescola ad essa.

Così ci accadrà di pensare che, non solo nell’aria che respiriamo, ma anche in tutti gli altri corpi composti, fino alle pietre più dure e ai metalli più pesanti, ci siano parti dell’elemento dell’aria mescolate a quelle della Terra, e quindi anche parti dell’elemento del fuoco, perché sempre se ne trovano nei pori dell’elemento dell’aria.

Ma va rilevato che, se anche in tutti i corpi ci sono parti dei tre elementi mescolate fra loro, tuttavia, propriamente parlando, a comporre tutti i corpi che vediamo intorno a noi sono solo quelle parti che, per la loro grandezza e la loro difficoltà a muoversi, si possono riportare al terzo elemento: infatti le parti degli altri due sono troppo sottili perché i nostri sensi possano percepirle. E ci si possono rappresentare tutti questi corpi come spugne, in cui la presenza di molti pori o forellini sempre pieni d’aria, o di acqua, o di altro simile fluido, non ciporta tuttavia a ritenere che tali fluidi rientrino nella composizione della spugna.

Molte cose ancora mi restano da spiegare, e molto volentieri aggiungerei qualche altro argomento rivolto a rendere le mie opinioni più verosimili. Ma perché il mio lungo discorso non diventi troppo noioso ho deciso di esporne una parte sotto forma di favola, sperando che la verità ne traspaia con sufficiente vigore e in forma non meno gradevole che se la proponessi nella sua nudità. Capitolo sesto: DESCRIZIONE DI UN NUOVO MONDO E DELLE QUALITÀ DELLA MATERIA CHE LO COMPONE Lasciate dunque che per un poco il vostro pensiero esca da questo mondo per venirne a vedere un altro, nuovissimo, che farò nascere in suo cospetto negli spazi immaginari. I filosofi ci

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insegnano che questi spazi sono infiniti e, dato che sono stati loro a crearli, dobbiamo credere a ciò che dicono. Ma per non essere impediti e impacciati da quest’infinità rinunciamo al tentativo di toccarne il termine; penetriamovi solo quanto basta a farci perder di vista tutte le creature create da Dio cinque o seimila anni fa; e dopo esserci fermati in un certo punto, supponiamo che Dio crei di nuovo attorno a noi tanta materia che, ovunque la nostra immaginazione si stenda, non scorga più alcun luogo vuoto.

Benché il mare non sia infinito, chi ci si trova in mezzo su una nave ha l’impressione di poter stendere la vista all’infinito; tuttavia al di là di ciò che vede, c’è ancora altra acqua. Così, anche se la nostra immaginazione sembra potersi stendere all’infinito, pur non supponendo infinita questa nuova materia, possiamo tuttavia benissimo supporre che essa riempia spazi molto più grandi di quelli che avremo immaginato. Anzi, perché in tutto ‘ciò non possiate trovar nulla a ridire, vietiamo alla nostra immaginazione di spingersi fin dove potrebbe; tratteniamola ad arte in uno spazio determinato, che, per esempio, non superi in grandezza la distanza tra la Terra e le, principali stelle del firmamento, e supponiamo che la materia creata da Dio si estenda da ogni lato molto di più, fino a una distanza indefinita. Infatti è molto più verosimile e molto più conforme alle nostre capacità porre dei limiti all’azione del nostro pensiero che non alle opere di Dio.

Ora, a questa materia immaginata dal libero giuoco della nostra fantasia, attribuiamo, se volete, una natura in cui non vi sia niente che non risulti da chiunque conoscibile col massimo della perfezione. A tal fine supponiamo espressamente che essa non abbia la forma né della terra, né del fuoco, né dell’aria, né altra forma più particolare, per esempio del legno, di una pietra, di un metallo; e nemmeno qualità, come caldo o freddo, secco o umido, leggero o pesante; oppure sapore, odore, suono, colore, luce o altra qualità simile, nella cui natura possa riscontrarsi qualcosa che non sia evidentemente conosciuto da tutti.

E non pensiamola d’altra parte come quella materia prima dei filosofi dove, a furia di spogliarla di tutte le sue forme e qualità, non è rimasto nulla che si possa chiaramente intendere. Concepiamola come un vero corpo perfettamente solido che riempie allo stesso modo tutte le lunghezze, larghezze e profondità del grande spazio in mezzo a cui ci siamo fermati col pensiero; sicché ognuna delle sue parti occupa sempre una parte di questo spazio così esattamente commisurata alla sua grandezza che non potrebbe né riempirne una più grande, né restringersi in una più piccola, né consentire di trovarvi contemporaneamente posto a nessun’altra parte di materia.

Supponiamo inoltre che questa materia possa venir divisa in tutte le parti e secondo tutte le forme immaginabili; e che ognuna di queste parti possa ricevere in sé tutti i movimenti da noi concepibili. E supponiamo ancora che Dio la divida davvero in parecchie di tali parti, più grosse le une, più piccole le altre; queste d’una forma, quelle d’un’altra, come ci piacerà di immaginarle. Ma che non le separi perciò l’una dall’altra in modo da lasciarvi un vuoto frammezzo; supponiamo che le distingua solo per la diversità dei movimenti che ricevono da lui, in modo che, dall’istante in cui le crea, le une comincino a muoversi da un lato, le altre da un altro; le une a muoversi più rapide, le altre più lente (o, se credete, a non muoversi affatto), persistendo in seguito nel loro movimento secondo le leggi ordinarie della natura. Dio infatti ha sì mirabilmente stabilito queste leggi che se, per ipotesi, non creerà nulla più di quanto ho detto, senza neppure portarvi ordine e proporzione, facendone il più confuso e ingarbugliato caos che i poeti possano descrivere, basteranno le leggi di natura a far sì che le parti del caos arrivino a districarsi da sé, disponendosi in bell’ordine, così da assumere la forma di un mondo

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perfettissimo, dove si potranno vedere, non solo la luce, ma anche tutte le altre cose, generali e particolari, che compaiono in questo mondo reale.

Ma prima che io mi addentri in più diffuse spiegazioni, soffermatevi ancora un poco a considerare questo caos e notate che contiene solo cose a voi perfettamente note, al punto che neppure potreste fingere di ignorarle. Infatti le qualità che gli ho attribuito, se ci avete fatto attenzione, le ho supposte attenendomi alle vostre possibilità immaginative. E la materia di cui l’ho composto è ciò che di più semplice e di più facile a conoscersi vi sia nelle creature inanimate; e la sua idea è compresa in modo tale in tutte quelle che la nostra immaginazione può formare, che dovete necessariamente concepirla a meno che non immaginiate mai nulla.

Tuttavia, essendo i filosofi tanto sottili da scoprire difficoltà nelle cose che agli altri uomini sembrano estremamente chiare, e potendo il ricordo della loro materia prima, che essi sanno ben difficile da concepire, allontanarli dal conoscere quella di cui parlo, a questo punto devo dir loro che, se non mí sbaglio, tutte le loro difficoltà a proposito della materia prima vengono dal volerla distinguere dalla sua quantità e dalla sua estensione esteriore, cioè dalla sua proprietà di occupare un certo spazio. Lascio tuttavia che in questo credano di aver ragione, perché non intendo soffermarmi a contraddirli. Ma essi non devono, dal canto loro, trovare strano se io suppongo che la quantità della materia da me descritta non differisca dalla propria sostanza più di quanto il numero differisca dalle cose numerate, e se considero la sua estensione, cioè la sua proprietà di occupare spazio non come un accidente, ma come la sua vera forma e la sua essenza; essi non potrebbero infatti negare che a questo modo non sia facilissimo concepirla. E il mio intento non è di spiegare, come loro, le cose che in effetti si trovano nel mondo vero, ma solo di fingere un mondo a piacere, dove non sia niente che gli spiriti più grossolani non siano capaci di concepire, e che possa tuttavia esser creato proprio come l’avrò immaginato.

Se ci mettessi la minima cosa oscura, in questa oscurità potrebbe celarsi qualche contraddizione che mi è sfuggita; quindi, senza rendermene conto, supporrei una cosa impossibile; mentre, potendo distintamente immaginare tutto ciò che ci metto, certamente, anche se non vi fosse nulla di simile nel vecchio mondo, Dio potrebbe tuttavia crearlo in un mondo nuovo: perché è certo che egli può creare tutte le cose che noi possiamo immaginare. Capitolo settimo: DELLE LEGGI NATURALI DI QUESTO NUOVO MONDO Ma non voglio tardare ancora a dirvi come la natura da sola potrà districare la confusione del caos dí cui ho parlato, e quali sono le leggi che Dio le ha imposto.

In primo luogo, pertanto, dovete sapere che per natura non intendo qui una qualche divinità, o altra sorta di potenza immaginaria; ma mi servo del termine per indicare la materia stessa in quanto la considero con tutte le qualità che le ho attribuito, prese nel loro insieme, e sottoposta a questa condizione: che Dio continui a conservarla nella stessa maniera in cui l’ha creata. Perché, dal solo fatto che continui a conservarla così, seguono necessariamente nelle sue parti parecchi mutamenti che, non potendo — mi pare — essere attribuiti propriamente all’azione divina, che è immutabile, attribuisco alla natura; e chiamo leggi di natura le norme che regolano questi movimenti.

Lo capirete meglio ricordando che, fra le qualità della materia da noi supposte, c’era che le sue parti avessero ricevuto nel momento della loro creazione movimenti diversi, e, inoltre, che fossero da ogni lato in contatto fra loro, senza alcun vuoto frammezzo. Ne consegue, necessariamente, che, da quel momento, cominciando a muoversi hanno anche cominciato a mutare e a diversificare i loro movimenti per l’urto reciproco: sicché, se Dio continua a

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conservarle nel medesimo modo in cui le ha create, non le conserva però nel medesimo stato: Dio, cioè, agisce sempre allo stesso modo e produce quindi, in sostanza, il medesimo effetto; ma in quest’effetto, come per accidente, si riscontrano parecchie diversità. È facile credere che Dio essendo, come tutti devono sapere, immutabile, agisca sempre allo stesso modo. Ma, senza addentrarmi di più in queste considerazioni metafisiche, fisserò qui due o tre delle principali regole secondo le quali è da ritenere che Dio faccia agire la natura del nuovo mondo, sufficienti, credo, per farvi conoscere tutte le altre.

La prima è: che ogni parte della materia in particolare persiste nel medesimo stato finché l’urto delle altre non la costringe a mutarlo. Ossia: se ha una certa grandezza, non diventerà mai più piccola a meno che le altre non la dividano; se è rotonda o quadrata, non muterà mai forma senza che le altre ce la costringano; se è ferma in qualche luogo, non se ne allontanerà mai se le altre non la cacciano; e, se avrà cominciato a muoversi, continuerà sempre con ugual forza, finché le altre non la faranno fermare o rallentare.

Tutti ammettono che la medesima regola, a proposito della grandezza, della forma, della quiete e di mille altre simili cose, viga anche nel vecchio mondo; ma i filosofi ne hanno eccettuato il movimento: la cosa che invece io desidero comprendervi più di ogni altra. Non dovete perciò credere che io voglia contraddirli: il movimento di cui parlano è così diverso da quello che concepisco io da consentire senz’altro che quanto è vero per l’uno non sia vero per l’altro.

Sono essi i primi a confessare che la natura del loro movimento è ben poco nota, e, per renderla in qualche modo intelligibile, non hanno trovato spiegazione più chiara della formula: Motus est actur entis in potentia, prout in potentia est, termini per me tanto oscuri da costringermi a mantenerli qui nella loro lingua perché di tradurli non sarei capace. (Infatti queste parole: ‘il movimento è l’atto di un Essere in potenza, in quanto è in potenza’, per il fatto di essere tradotte, non risultano più chiare.) Al contrario, la natura del movimento di cui intendo parlare è tanto facile da conoscersi che perfino i geometri, i più impegnati fra gli uomini a concepire in modo ben distinto le cose da loroconsiderate, l’hanno ritenuta più semplice ed intelligibile di quella delle loro superfici e delle loro linee; come hanno dimostrato spiegando la linea col movimento del punto e la superficie con quello della linea.

I filosofi suppongono anche parecchi movimenti che secondo loro possono avvenire senza lo spostamento di nessun corpo, come quelli che chiamano motus ad formam, motus ad calorem, motus ad quantitatem (movimento verso la forma, movimento verso il calore, movimento verso la quantità) e mille altri. Io, invece, ne conosco uno solo, più facile da concepirsi delle linee dei geometri, che fa passare i corpi da un luogo all’altro occupando successivamente tutti gli spazi intermedi.

Inoltre, al meno rilevante dei movimenti attribuiscono un essere molto più saldo e più vero che non alla quiete: questa, a quel che dicono, è solo privazione di movimento. Io invece concepisco la quiete come una qualità da attribuirsi alla materia finché staziona in un posto, proprio come il movimento è una qualità che le viene attribuita quando si sposta.

Infine il movimento di cui parlano ha natura sì strana che, mentre tutte le altre cose hanno come fine la propria perfezione e tendono solo a conservarsi, esso ha come unico fine la quiete e, contro tutte le leggi naturali, tende a distruggere se stesso. Al contrario, il movimento da me supposto segue le medesime leggi di natura, come fanno, in genere, tutte le disposizioni e tutte le qualità che si trovano nella materia: quelle che i dotti chiamano modos et entia rationis cum fundamento in re (modi ed esseri di ragione con fondamento nella cosa), e le cosiddette

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qualitates reales (qualità reali) in cui confesso candidamente di non trovare più realtà che nelle altre.

Suppongo come seconda regola che, quando un corpo ne spinge un altro, non possa comunicargli alcun movimento senza perderne contemporaneamente altrettanto del proprio; né sottrarglielo senza aumentare il proprio nella stessa misura. Questa regola, unita alla precedente, si accorda benissimo con tutte le esperienze in cui vediamo cominciare o cessare il movimento di un corpo perché un altro corpo lo spinge o lo ferma. Infatti, per la regola precedente, siamo liberi dall’imbarazzo in cui si trovano i dotti quando vogliono dar ragione del fatto che un sasso continua a muoversi per qualche tempo dopo essere uscito dalla mano che lo ha scagliato: ci si dovrebbe chiedere piuttosto perché non continua a muoversi sempre. Ma è facile spiegarlo. Infatti chi potrebbe negare che l’aria in cui il sasso si muove faccia una certa resistenza? Quando il sasso la fende la sentiamo fischiare; e muovendo nell’aria un ventaglio o un altro corpo molto leggero ed ampio si potrà anche avvertire, dal peso della mano, che l’aria ne impedisce il movimento, anziché favorirlo, come taluni hanno voluto affermare. Ma se, per spiegare l’effetto della sua resistenza, non si ricorre alla nostra seconda regola e si ammette che, quanto più un corpo può opporre resistenza tanto più, come si potrebbe credere in un primo momento, è capace di impedire il movimento degli altri; ci si troverà di nuovo in gravi difficoltà nello spiegare perché il movimento del sasso si attenui più per l’urto con un corpo molle, capace di resistere moderatamente, che non per l’urto con un corpo più duro, che gli oppone maggior resistenza. E neanche sarà facile dire perché, subito dopo aver esercitato un piccolo sforzo contro quest’ultimo, il sasso torna, per così dire, sui propri passi, anziché fermarsi e interrompere il proprio movimento. Mentre, accettando la nostra regola, ogni difficoltà sparisce: essa c’insegna che, quando un corpo ne urta un altro, il movimento del primo non vien rallentato in proporzione della resistenza del secondo, ma nella misura in cui il secondo cede: il secondo, nel cedergli, accoglie in sé la forza di muoversi che l’altro perde.

Ora, benché nella maggior parte dei movimenti che vediamo nel mondo vero non possiamo avvertire, all’inizio o alla fine del moto dei corpi, la spinta o l’arresto dovuti ad altri corpi, non per questo abbiamo motivo di credere che le due regole suddette non vi abbiano piena validità. È certo infatti che spesso questi corpi possono derivare la loro agitazione dai due elementi dell’aria e del fuoco che, come si è detto dianzi, ci si trovano sempre mescolati senza poter essere percepiti, o anche dall’aria più grossolana, che, del pari, non si può percepire; e possono trasferirla ora a quest’aria più grossolana, ora all’intera massa della Terra, dove, disperdendosi, non può, a sua volta, essere percepita.

Ma, anche se la nostra intera esperienza sensibile nel vero mondo apparisse in manifesto contrasto rispetto al contenuto di queste due regole, la ragione che me le ha dettate mi sembra così salda che continuerei a credere di essere obbligato a supporle nel nuovo mondo che vi descrivo. Infatti, anche nel caso di una scelta del tutto libera, qual fondamento più fermo e più saldo della fermezza e immutabilità che è in Dio potremmo prendere a base di una verità?

Ora le due regole derivano evidentemente solo da questo: che Dio è immutabile e che, con l’agire sempre alla stessa maniera, produce sempre lo stesso effetto. Infatti, supponendo che nell’atto stesso di crearla, Dio abbia posto in tutta la materia in generale una certa quantità di movimenti, a meno di negare che egli agisca sempre allo stesso modo, bisogna ammettere che ne conservi sempre la stessa quantità. Supponendo pure che da quel primo istante le diverse parti della materia in cui i movimenti si sono trovati variamente distribuiti abbiano cominciato a conservarli o a trasmetterli dall’una all’altra, a seconda della loro forza, bisogna

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necessariamente concludere che Dio le fa continuare sempre allo stesso modo. Le due regole vogliono dire questo.

Ne aggiungerò una terza: che quando un corpo si muove, benché il suo movimento avvenga per Io più secondo una curva e ogni movimento, come si è detto prima, sia sempre in qualche modo circolare, tuttavia, le sue parti, singolarmente prese, tendono sempre a continuare il loro ín linea retta. Quindi la loro azione, ossia la loro inclinazione a muoversi, è diversa dal loro effettivo movimento.

Se, per esempio, si fa girare una ruota intorno al proprio asse, per quanto tutte le sue parti si muovano in cerchio perché, essendo unite fra loro, non potrebbero far diversamente, tuttavia la loro inclinazione è a procedere in linea retta, come si vede chiaramente quando una si distacca dalle altre; infatti, appena libera, smette di muoversi in cerchio e continua in linea retta.

Allo stesso modo, quando si fa rotare un sasso in una fionda, non solo il sasso corre in linea retta appena ne parte, ma, anche stando nella fionda, preme sul centro facendo tendere la corda; e così mostra chiaramente che la sua inclinazione è sempre a muoversi in linea retta e che si muove in cerchio solo perché costretto.

Questa regola poggia sullo stesso fondamento delle altre due e dipende solo dal fatto che Dio conserva ogni cosa mediante un’azione continua, quindi, non come può essere stata un po’ prima, ma esattamente com’è nell’istante in cui la conserva. Ora, il movimento rettilineo è il solo che sia perfettamente semplice e la cui natura sia completamente contenuta in un istante. Infatti per concepirlo basta pensare un corpo in azione per muoversi verso una certa direzione, il che si verifica in ognuno degli istanti determinabili nel tempo in cui si muove. Mentre, per concepire il movimento circolare, o un altro qualunque movimento, bisogna considerare almeno due dei suoi istanti, o meglio due delle sue parti, e il loro mutuo rapporto.

Ma perché i filosofi, o meglio i sofisti, non trovino qui un’occasione all’esercizio delle loro sottigliezze superflue, osservate che io non affermo con questo che il movimento rettilineo possa avvenire in un istante; dico solo che tutti i requisiti necessari a produrlo si trovano nei corpi in ogni istante determinabile nel loro movimento; mentre non vi si trovano tutti i requisiti necessari a produrre il moto circolare […].

Secondo questa regola dunque dobbiamo dire che solo Dio è l’autore di tutti i movimenti che sono al mondo, in quanto sono e in quanto sono rettilinei; mentre a renderli irregolari e a curvarli sono le diverse disposizioni della materia. Allo stesso modo i teologi c’insegnano che Dio è l’autore di tutte le nostre azioni, in quanto sono, e ín quanto sono in qualche misura buone, mentre sono le diverse disposizioni della nostra volontà che possono renderle viziose.

Potrei aggiungere qui parecchie regole per determinare, in particolare, quando e come e di quanto il movimento di ciascun corpo può venir deviato, aumentato o diminuito dall’urto con gli altri corpi; questa sarebbe una trattazione sommaria di tutti gli effetti della natura. Ma mi limiterò ad avvertirvi che, oltre le tre leggi da me spiegate, non voglio supporne altre all’infuori di quelle che derivano necessariamente dalle verità eterne che i matematici prendono come fondamento abituale delle loro dimostrazioni più certe ed evidenti: parlo delle verità secondo cui Dio stesso ci ha insegnato di avere ordinato tutte le cose in base a numero, peso e misura; la loro conoscenza è talmente connaturata all’anima nostra che, quando le concepiamo distintamente, non potremmo negarne l’immancabile validità, né ammettere che, se Dio avesse creato più mondi, esse non sarebbero in tutti altrettanto vere quanto nel nostro. Sicché chi saprà esaminare a sufficienza le conseguenze di tali verità e delle nostre regole potrà conoscere gli effetti dalle cause; e, per usare i termini della Scuola, potrà avere dimostrazioni a priori di tutto ciò che può essere prodotto in questo nuovo mondo.

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E perché non vi siano eccezioni a fare ostacolo, aggiungiamo pure, se volete, alle nostre supposizioni che nel nuovo mondo Dio non farà mai miracoli, e che le intelligenze o anime ragionevoli che in seguito potremo supporvi non turberanno in nessun modo il corso ordinario della natura.

Con questo, tuttavia, non vi prometto di offrirvi dimostrazioni esatte di tutte le cose che dirò; basterà se vi aprirò la strada perché possiate trovarle da voi stessi, quando vi impegnerete a cercarle. La mente, per lo più, perde il gusto delle cose presentate in modo troppo facile; e per comporre un quadro che vi risulti attraente, oltre ai colori vivi, devo impiegare anche l’ombra. Mi contenterò dunque di proseguire la descrizione iniziata come se mi proponessi soltanto di raccontarvi una favola.

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Renato Cartesio (1596-1650) Meditazioni di prima filosofia (1641)

lingua originale: latino

edizione di riferimento: C. Adam e P. Tannery, (1910 ecc.) Œuvres de Descartes, (13 voll.) ed. riveduta, Vrin, Parigi, 1964-74

tr. it. A. Tilgher, Laterza, Bari-Roma, 1967 tema: verità chiare e distinte

genere letterario: monologo paranoico

SINOSSI DELLE SEI MEDITAZIONI CHE SEGUONO

Nella prima, espongo le ragioni per le quali possiamo dubitare generalmente di tutte le cose, e particolarmente delle cose materiali, almeno fino a che non avremo altri fondamenti nelle scienze, che quelli che abbiamo avuti fin qui. Ora, l’utilità di un dubbio così generale, benché non appaia manifesta a prima vista, tuttavia è grandissima in questo, che quel dubbio ci libera da ogni sorta di pregiudizi, e ci prepara un cammino facilissimo per assuefare il nostro spirito a distaccarsi dai sensi; ed infine, grazie ad esso, non potremo più avere alcun altro dubbio su quel che scopriremo in appresso esser vero. Nella seconda, lo spirito che, usando della sua propria libertà, suppone che tutte le cose, della cui esistenza è possibile anche il minimo dubbio, non esistano, riconosce essere assolutamente impossibile che, frattanto, non esista egli stesso. Ed anche ciò è di una grandissima utilità, poiché per questo mezzo egli distingue facilmente le cose che appartengono a lui, cioè alla natura intellettuale, e quelle che appartengono al corpo. Ma poiché può accadere che alcuni attendano da me in quel luogo delle ragioni per provare l’immortalità dell’anima, io credo doverli adesso avvertire che, avendo cercato di non scrivere niente in questo trattato, di cui non avessi delle dimostrazioni esattissime, mi sono visto obbligato a seguire un ordine simile a quello di cui si servono i geometri, e cioè a premettere tutte le cose, dalle quali dipende la proposizione che si cerca, prima di concluder qualcosa. Ora, la prima e principale cosa che si richiede per conoscere l’immortalità dell’anima, è di formarne un concetto chiaro e lucido, e interamente distinto da tutti i concetti che si possono avere del corpo: il che è stato fatto in quel luogo. Ho richiesto, oltre ciò, di sapere che tutte le cose che noi concepiamo chiaramente e distintamente sono vere, secondo che noi le concepiamo: e questo non ha potuto essere provato prima della quarta Meditazione. Di più, bisogna avere un concetto distinto della natura corporea, il quale si forma in parte nella seconda, in parte nella quinta e sesta Meditazione. Ed infine si deve concludere da tutto.ciò, che le cose che concepiamo chiaramente e distintamente come sostanze differenti, quali lo spirito e il corpo, sono in effetto delle sostanze diverse, e realmente distinte le une dalle altre: e questo si conclude nella sesta Meditazione. Ed in questa stessa Meditazione ciò si conferma anche per il fatto che noi non concepiamo nessun corpo se non come divisibile, mentre lo spirito, o l’anima dell’uomo, non si può concepire che come indivisibile: ed in effetti non possiamo concepire la metà dl nessun’anima, come invece possiamo fare del più piccolo di tutti i corpi, si che le loro nature: non sono solamente riconosciute come diverse, ma

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anche, in certo snodo, come contrarie. Ora è necessario si sappia che io non mi sono impegnato a dirne di più nel presente trattato, sia perché ciò basta a mostrare chiaramente che dalla corruzione del corpo non segue la morte dell’anima, e così a dare agli uomini la speranza di una seconda vita dopo la morte; sia anche perché le premesse, dalle quali si può conchiudere l’immortalità dell’anima, dipendono dalla spiegazione di tutta la Fisica. In primo luogo, per sapere che generalmente tutte le sostanze, cioè tutte le cose che non possono esistere senza essere create da Dio, sono di for natura incorruttibili, e non possono mai cessare di essere, se non sono ridotte a niente da quello stesso Dio, che voglia negare for il suo concorso ordinario. Ed in séguito, affinché si noti che il corpo, preso in generale, è una sostanza, e per questa ragione anch’esso non perisce; ma che il corpo umano, in quanto differisce dagli altri corpi, non è formato e composto che da una configurazione di membra e di altri simili accidenti, e l’anima umana, al contrario, non è composta di nessun accidente, ma è una pura sostanza. Poiché, sebbene tutti i suoi accidenti si cangino, e, per esempio, essa concepisca certe cose, ne voglia altre, ne senta altre ecc. è sempre tuttavia la medesima anima: mentre il corpo umano non è più lo stesso, per ciò solo che la figura di alcune delle sue parti si trova cambiata. Dal che segue che il corpo umano può facilmente perire, ma che lo spirito, o l’anima dell’uomo (cose che io non distinguo), è immortale di sua natura. Nella terza Meditazione, mi sembra di avere spiegato abbastanza lungamente il principale argomento di cui mi servo per provare l’esistenza di Dio. Tuttavia, affinché lo spirito del lettore si potesse più facilmente astrarre dai sensi, non ho voluto servirmi in quel luogo di nessuna comparazione tratta dalle cose corporee, sì che forse vi sono rimaste molte oscurità, le quali, come spero, saranno interamente spiegate nelle risposte da me fatte alle obbiezioni, che poi mi sono state proposte. Così, per esempio, è assai difficile intendere come l’idea di un essere sovranamente perfetto, la quale si trova in noi, contenga tanta realtà oggettiva, cioè partecipi per rappresentazione a tanti gradi di essere e di perfezione da dover necessariamente venire (la una causa sovranamente perfetta. Ma io l’ho spiegato in quelle risposte con la comparazione di una macchina assai ingegnosa, l’idea della quale si trovi nello spirito di qualche operaio; poiché, come l’artificio oggettivo di questa idea deve avere qualche causa, e cioè la scienza dell’operaio o di qualche altro dal quale egli l’abbia appresa, è egualmente impossibile che l’idea di Dio, che è in noi, non abbia per causa Dio stesso. Nella quarta, è provato che le cose che noi concepiamo chiaramente e distintamente sono tutte vere; ed insieme è spiegato in che consista la ragione dell’errore o falsità: ciò che deve necessariamente essere saputo, tanto per confermare le verità precedenti, quanto per meglio intendere quelle che seguono. Ma tuttavia è d’uopo notare che in quel luogo io non tratto in niun modo del peccato, e cioè dell’errore che si commette nella ricerca del bene e del male, ma solo di quello che si produce nel giudizio e nel discernimento del vero e del falso; e che non intendo parlare delle cose che appartengono alla fede, o alla condotta della vita, ma solo di quelle che riguardano le verità speculative, conosciute con l’aiuto del solo lume naturale. Nella quinta, oltre ad essere spiegata la natura corporea presa in generale, l’esistenza di Dio è ancora dimostrata da nuove ragioni, nelle quali tuttavia si possono trovare alcune difficoltà, che saranno risolte nelle risposte alle obbiezioni che mi sono state fatte; e così si scopre in qual modo è vero che la certezza stessa delle dimostrazioni geometriche dipende dalla conoscenza di un Dio.

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Infine, nella sesta, distinguo l’azione dell’intelletto da quella dell’immaginazione e descrivo i caratteri di questa distinzione. Mostro che l’anima dell’uomo è realmente distinta dal corpo, e tuttavia gli è così strettamente congiunta ed unita, che quasi compone una sola cosa con lui. Tutti gli errori che procedono dai sensi sono esposti, con i mezzi di evitarli. Ed infine porto tutte le ragioni, dalle quali si può concludere l’esistenza delle cose materiali: non che io le giudichi molto utili per provare ciò che esse provano, cioè che vi è un mondo, che gli uomini hanno dei corpi, ed altre cose simili, che non sono mai state messe in dubbio da nessun uomo di buon senso; ma perché considerandole da vicino, si viene a conoscere che esse non sono così ferme, né così evidenti come quelle che ci conducono alla conoscenza di Dio e della nostra anima; di guisa che queste sono le più certe e le più evidenti che possano cadere sotto la conoscenza dello spirito umano. Ed è tutto quello che ho voluto provare in queste sei meditazioni, il che è causa che io ometta qui molte altre questioni, di cui ho anche parlato occasionalmente in questo trattato.

––ooOoo––

SECONDA MEDITAZIONE DELLA NATURA DELLO SPIRITO UMANO E CHE QUESTO È PIÙ FACILE A

CONOSCERSI CHE IL CORPO

La meditazione che feci ieri m’ha riempito lo spirito di tanti dubbi, che, oramai, non è più in mio potere dimenticarli. E tuttavia non vedo in qual maniera potrò risolverli; come se tutt’a un tratto fossi caduto in un’acqua profondissima, sono talmente sorpreso, che non posso né poggiare i piedi sul fondo, né nuotare per sostenermi alla superficie. Nondimeno io mi sforzerò, e seguirò da capo la stessa via in cui ero entrato ieri, allontanandomi da tutto quello in cui potrò immaginare il menomo dubbio, proprio come farei se lo riconoscessi assolutamente falso; e continuerò sempre per questo cammino, fino a che non abbia incontrato qualche cosa di certo, o almeno, se altro non m’è possibile, fino a che abbia appreso con tutta certezza che al mondo non v’è nulla di certo. Archimede, per togliere il globo terrestre dal suo posto e trasportarlo altrove, domandava un sol punto fisso ed immobile. Così io avrò diritto di concepire alte speranze, se sarò abbastanza fortunato da trovare solo una cosa, che sia certa e indubitabile. Io suppongo, dunque, che tutte le cose che vedo siano false; mi pongo bene in mente che nulla c’è mai stato di tutto ciò che la mia memoria, riempita di menzogne, mi rappresenta; penso di non aver senso alcuno; credo che il corpo, la figura, l’estensione, il movimento ed il luogo non siano che finzioni del mio spirito [chimerae]. Che cosa, dunque, potrà essere reputato vero ? Forse niente altro, se non che non v’è nulla al mondo di certo. Ma che ne so io se non vi sia qualche altra cosa, oltre quelle che testé ho giudicato incerte, della quale non si possa avere il menomo dubbio? Non v’è forse qualche Dio, o qualche altra potenza, che mi mette nello spirito questi pensieri? Ciò non è necessario, perché forse io sono capace di produrli da me. Ed io stesso, almeno, sono forse qualche cosa? Ma ho già negato di avere alcun senso ed alcun corpo. Esito, tuttavia; che cosa, infatti, segue di là? Sono io talmente dipendente dal corpo e dai sensi, da non poter esistere senza di essi? Ma mi sono convinto che non vi era proprio niente nel mondo, che non vi era né cielo, né terra, né spiriti, né corpi; non mi sono, dunque, io, in pari tempo, persuaso che non esistevo ? No, certo; io

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esistevo senza dubbio, se mi sono convinto di qualcosa, o se solamente ho pensato qualcosa. Ma vi è un non so quale ingannatore potentissimo e astutissimo, che impiega ogni suo sforzo nell’ingannarmi sempre. Non v’è dunque dubbio che io esisto, s’egli m’inganna; e m’inganni fin che vorrà, egli non saprà mai fare che io non sia nulla, fino a che penserò di essere qualche cosa. Di modo che, dopo avervi ben pensato, ed avere accuratamente esaminato tutto, bisogna infine concludere, e tener fermo, che questa proposizione: lo sono, io esisto, è necessariamente vera tutte le volte che la pronuncio, o che la concepisco nel mio spirito. Ma io non conosco ancora abbastanza chiaramente ciò che sono, io che son certo di essere; di guisa che, oramai, bisogna che badi con la massima accuratezza a non prendere imprudentemente qualche altra cosa per me, e così a non ingannarmi in questa conoscenza che io sostengo essere più certa e più evidente di tutte quelle che ho avuto per lo innanzi. Ecco perché io considererò da capo ciò che credevo che esistesse prima che entrassi in questi ultimi pensieri; e dalle mie antiche opinioni toglierò tutto quel che può essere combattuto con le ragioni da me sopra allegate, sì che resti solo ciò che è intieramente indubitabile. Che cosa, dunque, ho io creduto dapprima di essere? Senza difficoltà, ho pensato di essere un uomo. Ma che cosa è un uomo? Dirò che è un animale ragionevole? No di certo: perché bisognerebbe, dopo, ricercare che cosa è animale, e che cosa è ragionevole, e così, da una sola questione, cadremmo insensibilmente in un’infinità di altre più difficili ed avviluppate, ed io non vorrei abusare del poco tempo ed agio che mi resta, impiegandolo a sbrogliare simili sottigliezze. Ma mi arresterò piuttosto a considerare qui i pensieri, che nascevan prima da se stessi nel mio spirito, e che non mi erano ispirati che dalla mia sola natura, quando mi consacravo alla considerazione del mio essere. Io mi consideravo dapprima come avente un viso, delle mani, delle braccia, e tutta questa macchina composta d’ossa e di carne, così come essa appare in un cadavere: macchina che io designavo con il nome di corpo. Io consideravo, oltre a ciò, che mi nutrivo, che camminavo, che sentivo e che pensavo: e riportavo tutte queste azioni all’anima; ma non mi fermavo a pensare che cosa fosse quest’anima, oppure, se mi ci fermavo, immaginavo che essa fosse qualcosa di estremamente rado e sottile, come un vento, una fiamma, o un’aria delicatissima, insinuata e diffusa nelle parti più grossolane di me. Per ciò che riguardava il corpo, non dubitavo per nulla della sua natura; perché pensavo di conoscerla molto distintamente, e, se avessi voluto spiegarla secondo le nozioni che ne avevo, l’avrei descritta in questa maniera: per corpo intendo tutto ciò che può esser determinato in qualche figura; che può- essere compreso in qualche luogo, e riempire uno spazio in maniera tale, che ogni altro corpo ne sia escluso; che può essere sentito o col tatto, o con la vista, o con l’udito, o col gusto, o con l’odorato; che può essere mosso in più maniere, non da se stesso, ma da qualcosa di estraneo, da cui sia toccato e di cui riceva l’impressione. Poiché non credevo in alcun modo che si dovesse attribuire alla natura corporea il privilegio d’avere in sé la potenza di muoversi, di sentire e di pensare; al contrario, mi stupivo piuttosto di vedere che simili facoltà si trovassero in certi corpi. Ma io, chi sono io, ora che suppongo che vi è qualcuno, che è estremamente potente e, se oso dirlo, malizioso e astuto, che impiega tutte le sue forze e tutta la sua abilità ad ingannarmi? Posso io esser sicuro di avere la più piccola di tutte le cose, che sopra ho attribuito alla natura corporea? Io mi fermo a pensarvi con attenzione, percorro e ripercorro tutte queste cose nel mio spirito, e non ne incontro alcuna, che possa dire essere in me. Non v’è bisogno che mi fermi ad enumerarle. Passiamo, dunque, agli attributi dell’anima, e vediamo se ve ne sono alcuni, che siano in me. I primi sono di nutrirmi e camminare; ma se è vero che io non ho corpo, è vero anche che non posso camminare né nutrirmi. Un altro attributo è il sentire; ma,

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egualmente, non si può sentire senza il corpo: senza contare che ho creduto talvolta di sentire parecchie cose durante il sonno, che al mio risveglio ho riconosciuto non aver sentito di fatto. Un altro è il pensare; ed io trovo qui che il pensiero è attributo che m’appartiene: esso solo non può essere distaccato da me. lo sono, io esisto: questo è certo; ma per quanto tempo ? Invero, per tanto tempo per quanto penso; perché forse mi potrebbe accadere, se cessassi di pensare, di cessare in pari tempo d’essere o d’esistere. lo non ammetto adesso nulla che non sia necessariamente vero: io non sono, dunque, per parlar con precisione, se non una cosa che pensa, e cioè uno spirito, un intelletto o una ragione, i quali sono termini il cui significato m’era per lo innanzi ignoto. Ora, io sono una cosa vera, e veramente esistente; ma quale cosa ? L’ho detto: una cosa che pensa. E che altro ? Ecciterò ancora la mia immaginazione per ricercare se non sia qualcosa di più. Io non sono quest’unione di membra che si chiama il corpo umano; io non sono un’aria sottile e penetrante, diffusa in tutte queste membra; io non sono un vento, un soffio, un vapore, e nulla di tutto ciò che posso fingere e immaginare, poiché ho supposto che tutto ciò non fosse niente; eppure, senza cambiare questa supposizione, io continuo ad essere certo che sono qualcosa. Ma egualmente può accadere che queste stesse cose, che io suppongo non esistere, poiché mi sono sconosciute, non siano di fatto differenti da quel me, che io conosco. Io non ne so niente; per ora non discuto di ciò; io non posso dare il mio giudizio che sulle cose che mi son note: io ho riconosciuto di esistere, e ricerco chi sono io, io che ho riconosciuto di esistere. Ora è certissimo che questa nozione e conoscenza di me stesso, così precisamente presa, non dipende dalle cose, l’esistenza delle quali non mi è ancora nota, ‘né, per conseguenza, ed a più forte ragione, da alcuna di quelle: che sono finte ed inventate dall’immaginazione. Ed anche questi termini di fingere ed immaginare mi avvertono del mio errore: io fingerei in effetti, se immaginassi di essere qualcosa, poiché immaginare non è se non contemplare la figura o l’immagine d’una cosa corporea. Ora io so con certezza di esistere, e, a un tempo, che tutte quelle immagini, ed in generale tutte le cose che si riferiscono alla natura del corpo, possono non essere altro che sogni o chimere. In conseguenza di che, vedo chiaramente che avrei tanto poco ragione dicendo: - io ecciterò la mia immaginazione per conoscere più distintamente chi sono -, che se dicessi: - io sono adesso sveglio, e percepisco qualcosa di reale e di vero; ma, poiché non la percepisco ancora abbastanza nettamente, m’addormenterò a bella posta, affinché i miei sogni mi rappresentino quella stessa cosa con maggior verità cd evidenza. E, così riconosco con certezza, che nulla di tutto ciò che posso comprendere per mezzo dell’immaginazione appartiene a quella conoscenza che ho di me stesso, e che è necessario richiamare e distogliere il proprio spirito da questa maniera di concepire, affinché possa esso stesso riconoscere con la massima distinzione la sua natura. Ma che cosa, dunque, sono io? Una cosa che pensa. E che cos’è una cosa che pensa? $ una cosa che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche, e che sente. Certo non è poco, se tutte queste cose appartengono alla mia natura. Ma perché non vi apparterrebbero esse? Non sono io ancora quel medesimo, che dubito quasi di tutto, che, nondimeno, intendo e concepisco certe cose, che assicuro ed affermo quelle sole esser vere, che nego tutte le altre, che voglio e desidero conoscerne di più, che non voglio essere ingannato, che immagino molte cose, qualche volta anche contro la mia volontà; che molte cose sento come se mi venissero attraverso gli organi del corpo? V’è qualcosa in tutto ciò che non sia tanto vero, quanto è certo che io sono ed esisto, quand’anche dormissi sempre, e colui che m’ha dato l’essere si servisse di tutte le sue forze per ingannartisi ? V’è anche alcuno di questi attributi, che possa essere distinto dal mio pensiero, o del quale si

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possa dire ch’esso è separato da me stesso? Poiché è di per sé così evidente che sono io che dubito, che intendo e che desidero, che non v’è qui bisogno di aggiunger nulla per spiegarlo. E con eguale certezza io ho la facoltà d’immaginare; poiché sebbene possa accadere (come ho supposto per lo innanzi) che le cose che immagino non siano vere, tuttavia questa facoltà d’immaginare non cessa d’essere realmente in me, e fa parte del mio pensiero. Infine io sono lo stesso che sente, cioè che riceve e conosce le cose come per mezzo degli organi dei sensi, poiché di fatto vedo la luce, odo il rumore, sento il calore. Ma mi si dirà che queste apparenze sono false e che io dormo. Sia pure; tuttavia è certissimo almeno che mi sembra di vedere, di udire, di scaldarmi; e questo è propriamente quel che in me si chiama sentire, e che, preso così precisamente, non è null’altro che pensare. Da tutto ciò comincio a conoscere chi sono, con un po’ più di luce e di distinzione. Ma non posso trattenermi dal credere che le cose corporee, le immagini delle quali si formano per mezzo del mio pensiero, e che cadono sotto i sensi, non siano conosciute più distintamente di quella non so qual parte di me stesso, che non cade sotto l’immaginazione: benché, in effetti, sia una cosa molto strana che cose che io trovo dubbie e lontane, siano più chiaramente e più facilmente conosciute da me di quelle che sono vere e certe, e che appartengono alla mia propria natura. Ma io vedo bene di che si tratta: il mio spirito si compiace di smarrirsi, e non può contenersi ancora nei giusti limiti della verità. Abbandoniamogli, dunque, ancora una volta le briglie, affinché, venendo dopo a ritrargliele dolcemente ed a proposito, possiamo più facilmente regolarlo e condurlo. Cominciamo dalla considerazione delle cose più comuni, e che noi crediamo di comprendere nel modo più distinto, cioè i corpi che tocchiamo e vediamo. lo non intendo parlare dei corpi in generale, perché queste nozioni generali sono d’ordinario più confuse, ma di qualche corpo in particolare. Prendiamo, per esempio, questo pezzo di cera, che è stato proprio ora estratto dall’alveare: esso non ha perduto ancora la dolcezza del miele che conteneva, serba ancora qualcosa dell’odore dei fiori, dai quali è stato raccolto; il suo colore, la sua figura, la sua grandezza sono manifesti; è duro, è freddo, lo si tocca, e, se lo colpite, darà qualche suono. Infine, tutte le cose che possono distintamente far conoscere un corpo, s’incontrano in questo. Ma ecco che, mentre io parlo, lo si avvicina al fuoco: quel che vi restava di sapore esala, l’odore svanisce, il colore si cangia, la figura si perde, la grandezza aumenta, divien liquido, si riscalda, a mala pena si può toccarlo, e benché lo si batta, non renderà più alcun suono. Ma la cera stessa resta dopo questo cambiamento? Bisogna confessare ch’essa resta; e nessuno può negarlo. Che cosa è, dunque, ciò che si conosceva con tanta distinzione in questo pezzo di cera? Certo non può esser niente di quel che vi ho notato per mezzo dei sensi, poiché tutte le cose che cadevano sotto il gusto o l’odorato o la vista o il tatto o l’udito si trovan cambiate, e tuttavia la cera stessa resta. Forse era ciò che io penso ora: la cera cioè non era né quella dolcezza del miele, né quel piacevole odore dei fiori, né quella bianchezza, né quella figura, né quel suono, ma solamente un corpo, che poco prima mi appariva sotto queste forme, e che adesso si presenta sotto altre. Ma, parlando con precisione, che cosa è ciò che immagino, quando la concepisco in questa maniera? Consideriamolo attentamente, e, allontanando tutte le cose che non appartengono alla cera, vediamo quanto resta. Certo non resta altro che qualcosa di esteso, di flessibile, di mutevole. Ora, che cosa vuol dire: flessibile e mutevole? Non significa forse che io immagino che questa cera, essendo rotonda, è capace di divenir quadrata, e di passare dal quadrato in una figura triangolare? No di certo, non è questo, poiché io la concepisco capace di ricevere un’infinità di simili cangiamenti, e non saprei, tuttavia,

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percorrere quest’infinità con la mia immaginazione; e, per conseguenza, questo concetto che ho della cera non si ottiene per mezzo della facoltà d’immaginare. Ma che cos’è questa estensione ? Non è, essa pure, sconosciuta, poiché nella cera che si fonde aumenta, e si trova ad essere ancora più grande quando è intieramente fusa, e molto più grande ancora, quando il calore aumenta di più? Né io concepirei chiaramente e secondo verità che cosa è la cera, sé non pensassi ch’essa è capace di ricevere maggior numero di variazioni, secondo l’estensione, di quel che io non abbia mai immaginato. Bisogna, dunque, che ammetta che con l’immaginazione non saprei concepire che cosa sia questa cera, e che non v’è se non il mio intelletto che la concepisca: io dico questo pezzo di cera in particolare, poiché, per la cera in generale, la cosa è ancor più evidente. Ora, qual’è questa cera, che non può essere concepita se non dall’intelletto o dallo spirito? Certo è la stessa che io vedo, tocco, immagino, e la stessa che conoscevo fin da principio. Ma, e questo è da notare, la percezione, o l’azione per mezzo della quale la si percepisce, non è una visione, né un contatto, né un’immaginazione, e non è mai stata tale, benché per lo innanzi così sembrasse, ma solamente una visione della mente [solius mentis inspectio], la quale può esser imperfetta e confusa, come era prima, oppure chiara e distinta, com’è adesso, secondo che la mia attenzione si porti più o meno verso le cose che sono in essa, e di cui essa è composta. Tuttavia non saprei troppo meravigliarmi, quando considero quanto il mio spirito sia debole ed incline a scivolare insensibilmente nell’errore. Poiché, sebbene senza parlare io consideri tutto ciò in me stesso, le parole, tuttavia, m’arrestano, e sono quasi ingannato dai termini del linguaggio ordinario; noi diciamo infatti di vedere proprio la cera, se ci è presentata, e non già di giudicare che essa c’è, inferendolo dal colore e dalla figura: donde quasi concluderei che si conosce la cera per mezzo della visione degli occhi, e non per la sola ispezione dello spirito, se per caso non guardassi da una finestra degli uomini che passano nella strada, alla vista dei quali non manco di dire che vedo degli uomini, proprio come dico di veder della cera. E, tuttavia, che vedo io da questa finestra, se non dei cappelli e dei mantelli, che potrebbero coprir degli spettri o degli uomini finti, mossi solo per mezzo di molle? Ma io giudico che sono veri uomini, e così comprendo per mezzo della sola facoltà di giudicare, che risiede nel inio spirito, ciò che credevo di vedere con i miei occhi. Un uomo che cerca di elevare la sua conoscenza al di là del comune, deve aver vergogna di trarre delle occasioni di dubbio dalle forme e dai termini di parlare del volgo; io preferisco passar oltre, e considerare se concepivo con maggior evidenza e perfezione la cera, quando l’ho dapprima percepita ed ho creduto conoscerla per mezzo dei sensi esteriori, o almeno del senso comune, come lo chiamano, e cioè della facoltà immaginativa, di quel che non la concepisca adesso, dopo avere più esattamente esaminato ciò che essa è, ed in quale maniera può essere conosciuta. Certo, sarebbe ridicolo mettere ciò in dubbio. Poiché che cosa vi era in quella prima percezione, che fosse distinto ed evidente, e che non potesse cadere in egual guisa sotto il senso del più piccolo fra gli animali? Ma quand’io distinguo la cera dalle sue forme esteriori, e, come se le avessi tolto i suoi vestimenti, la considero tutta nuda, certo, benché si possa ancora incontrare qualche errore nel mio giudizio, non la posso concepire in questa maniera se non con mente umana. Ma, infine, che dire di questa mente, e cioè di me stesso? Poiché fin qui non ammetto in me altra cosa che uno spirito. Che pronunzierò io, dico, di me, che sembro concepire con tanta distinzione questo pezzo di cera? Non conosco io me stesso, non solamente con molto maggior verità e certezza, ma ancora con molto maggior distinzione e nettezza ? Poiché, se io giudico che la cera è, o esiste, dal fatto ch’io la vedo, certo dal fatto ch’io la vedo segue molto

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più evidentemente ch’io sono, o che esisto io stesso. Poiché può essere che ciò ch’io vedo non sia in effetti cera; può anche accadere ch’io non abbia neppure degli occhi per vedere alcuna cosa; ma non è possibile che, quando io vedo, o (ciò che non distinguo più) quando penso di vedere, io che penso non sia qualche cosa. Egualmente, se io giudico che la cera esiste dal fatto che la tocco, ne seguirà ancora la stessa cosa, e cioè che io sono; e se io traggo quel giudizio dal fatto che la mia immaginazione me ne persuade, o da qualunque altra causa, concluderò sempre la stessa cosa. E ciò che ho notato qui della cera, si può applicare a tutte le altre cose che mi sono esteriori, e che si trovano fuori di me. Ora, se la nozione e la conoscenza della cera sembra essere più netta e più distinta, dopo clic essa è stata scoperta non solamente dalla vista o dal tatto, ma anche da molte altre cause, con quanto maggior evidenza, distinzione e nettezza non debbo io conoscere me stesso, poiché tutte le ragioni che servono a conoscere ed a concepire la natura della cera, o di qualche altro corpo, provano molto più facilmente ed evidentemente la natura del mio spirito ? E nello spirito stesso si trovano ancora tante altre cose, capaci di contribuire a spiegarne la natura, che quelle dipendenti dal corpo, non meritano quasi d’essere enumerate. Ma, infine, eccomi insensibilmente ritornato dove volevo; poiché, siccome adesso conosco che, a parlar propriamente, noi non concepiamo i corpi se non per mezzo della facoltà d’intendere che è in noi, e non per l’immaginazione, né per i sensi; e che non li conosciamo pel fatto che li vediamo o li tocchiamo, ma solamente pel fatto che li concepiamo per mezzo del pensiero, io conosco evidentemente che non v’è nulla che mi sia più facile a conoscere del mio spirito. Ma, poiché è quasi impossibile disfarsi così prontamente di un’antica opinione, sarà bene che mi fermi un poco su questo punto, affinché, con la lunghezza della mia meditazione, imprima più profondamente nella mia memoria questa nuova conoscenza.

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Benedetto Spinoza (1632-1677) Trattato teologico-politico (1670)

lingua originale: latino edizione di riferimento: C. Gerhardt, Opera, Heidelberg, 1925

tr. it. A. Dini, Mondadori, Milano, 2001 tema: l’empietà della credenza nei miracoli

genere letterario: esegesi biblica CAPITOLO VI: Dei miracoli (inzio) Così come si sono abituati a chiamare divina quella scienza che supera la capacità umana, allo stesso modo gli uomini si sono abituati a chiamare divino, cioè opera di Dio, un fatto la cui causa è sconosciuta al volgo.

Il volgo, infatti, ritiene che la potenza e la provvidenza di Dio risultino nella maniera più chiara quando vede accadere in natura qualcosa di insolito e in contrasto con l’opinione che egli per consuetudine ha della natura, soprattutto se ciò sia riuscito a suo guadagno o vantaggio. E da nessuna cosa gli uomini del volgo ritengono si possa dimostrare più chiaramente l’esistenza di Dio se non da questo: che la natura, come ritengono, non conservi il proprio ordine. E perciò il volgo crede che tolgano di mezzo Dio, o almeno la sua provvidenza, tutti coloro i quali spiegano, o cercano di intendere, le cose e i miracoli per mezzo di cause naturali: il volgo ritiene cioè che Dio non faccia niente fintantoché la natura agisce secondo il solito ordine, e, al contrario, che la potenza della natura e le cause naturali restino oziose fintantoché Dio agisce.

Gli uomini immaginano dunque due potenze numericamente distinte l’una dall’altra, cioè la potenza di Dio e la potenza delle cose naturali, sebbene questa sia in un certo modo determinata o (come oggi la maggior parte preferisce ritenere) creata da Dio. Che cosa poi intendano per l’una e l’altra potenza, e che cosa per Dio e natura, lo ignorano del tutto, a meno che non immaginino la potenza di Dio come il potere di qualche maestà regia e quella della natura come forza e impulso.

Il volgo, dunque, chiama «miracoli», ossia opere di Dio, i fatti insoliti della natura, e, un po’ per devozione, un po’ per la voglia di contrastare coloro che coltivano le scienze naturali, desidera non conoscere le cause naturali delle cose, e arde dal desiderio di sentir parlare soltanto di quelle cose che soprattutto ignora e che, perciò, soprattutto ammira. Ciò è evidente, perché in nessun altro modo, se non togliendo le cause naturali e immaginando le cose fuori dell’ordine naturale, il volgo può adorare Dio e riferire tutte le cose al suo potere e alla sua volontà, e non ammira la potenza di Dio se non in quanto immagina la potenza della natura come sottomessa a Dio.

Ciò sembra abbia tratto origine dai primi giudei, i quali, per convincere i pagani del loro tempo che adoravano divinità visibili – vale a dire il sole, la luna, la terra, l’acqua, l’aria ecc. –, e per mostrare loro che quelle divinità I erano deboli e instabili, ossia mutevoli, e soggette al potere del Dio invisibile, raccontavano i propri miracoli, con i quali si sforzavano inoltre di mostrare che tutta la natura era diretta dal potere del Dio che essi adoravano a loro esclusivo vantaggio. E ciò riuscì tanto gradito agli uomini che fino ai nostri giorni costoro non hanno cessato di fingere miracoli per farsi credere più graditi a Dio degli altri e causa finale per la quale Dio ha creato e continua a dirigere tutte le cose.

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Che cosa il volgo, nella sua stoltezza, non attribuisce a sé, dato che non ha un retto concetto né di Dio né della natura, confonde i voleri di Dio con i voleri degli uomini e, infine, immagina la natura limitata fino al punto di credere che l’uomo sia la parte più importante di essa!

Con queste cose ho esposto abbastanza ampiamente le opinioni e i pregiudizi del volgo riguardo alla natura e ai miracoli. Tuttavia, per trattare con ordine l’argomento, mostrerò che:

1. Niente accade contro la natura, ma questa conserva in eterno un ordine fisso e immutabile; e, insieme, mostrerò che cosa si debba intendere per «miracolo».

2. Per mezzo dei miracoli noi non possiamo conoscere né l’essenza né l’esistenza di Dio e, di conseguenza, nemmeno la sua provvidenza, ma tutte queste cose possono essere percepite assai meglio dall’ordine fisso e immutabile della natura.

3. Sulla base di alcuni esempi tratti dalla Scrittura, mostrerò che la stessa Scrittura per «decreti e volizioni» di Dio, e di conseguenza per «provvidenza», non intende altro che l’ordine stesso della natura, il quale segue necessariamente dalle leggi eterne di Dio.

4. Infine, tratterò del modo di interpretare i miracoli della Scrittura e delle cose che principalmente devono essere notate circa le narrazioni dei miracoli.

Queste sono le cose principali che esporrò nel presente capitolo, e che ritengo siano di non poca utilità per l’obiettivo a cui mira quest’opera nel suo complesso.

Quanto al primo punto, esso si dimostra facilmente da ciò che abbiamo esposto nel capitolo IV riguardo alla legge divina, vale a dire: tutto ciò che Dio vuole — ovvero determina – implica eterna verità e necessità.

Dal fatto che l’intelletto di Dio non si distingue dalla sua volontà, infatti, abbiamo mostrato che dire: Dio vuole qualcosa, e dire: Dio intende questa stessa cosa, sono due affermazioni identiche. Perciò, con la stessa necessità con la quale dalla natura e dalla perfezione divina segue che Dio intende una cosa come essa è, da quella medesima natura e perfezione segue che Dio vuole quella stessa cosa come essa è. E poiché niente è necessariamente vero se non per il solo decreto divino, ne segue nella maniera più chiara che le leggi universali della natura I non sono se non decreti di 83 Dio che seguono dalla necessità e dalla perfezione della natura divina.

Se dunque in natura avvenisse qualcosa che ripugna alle sue leggi universali, ciò ripugnerebbe necessariamente al decreto, all’intelletto e alla natura di Dio; ovvero, se qualcuno affermasse che Dio opera qualcosa contro le leggi della natura, costui sarebbe, insieme, costretto ad affermare pure che Dio agisce contro la propria natura, – cosa della quale niente è più assurdo.

La medesima cosa potrebbe essere facilmente dimostrata anche dal fatto che la potenza della natura è la stessa potenza e virtù di Dio, e che la potenza divina, d’altra parte, coincide con l’essenza stessa di Dio; ma per ora preferisco tralasciare questo argomento.

Niente accade dunque in natura che ripugni alle sue leggi universali; ma neppure niente che non convenga con quelle leggi o non segua da esse: tutto ciò che avviene, infatti, avviene per la volontà e l’eterno decreto di Dio, ossia, come abbiamo già mostrato, avviene secondo leggi e regole che implicano eterna necessità e verità.

La natura, pertanto, osserva sempre leggi e regole che implicano eterna necessità e verità, anche quando non ci siano tutte quante note, e osserva perciò un ordine fisso e immutabile.

E non c’è nessuna buona ragione per attribuire alla natura una potenza e una virtù limitata, e per affermare che le sue leggi sono idonee a certe cose e non a tutte. Infatti, poiché la virtù e la potenza della natura sono la stessa virtù e potenza di Dio, e poiché le leggi e le regole della

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natura sono gli stessi decreti di Dio, si deve senz’altro ritenere che la potenza della natura sia infinita e che le sue leggi siano talmente ampie da estendersi a tutte le cose concepite dallo stesso intelletto di Dio; se così non è, infatti, non si stabilisce nient’altro se non che Dio ha creato una natura così impotente e le ha dato leggi e regole così sterili da essere costretto a soccorrerla di nuovo più volte, se vuole che essa sia conservata, e per fare in modo che le cose succedano come è desiderabile, – cosa che giudico del tutto estranea alla ragione. [1. Il miracolo è un fatto riferito da chi non sa spiegarsene la causa naturale] Perciò da queste cose – cioè, in natura non accade niente che non segua dalle sue leggi; le sue leggi si estendono a tutte le cose concepite dallo stesso intelletto di Dio; infine, la natura conserva un ordine fisso e immutabile –, segue chiarissimamente che il nome «miracolo» non può essere inteso se non rispetto alle opinioni degli uomini, e non significa nient’altro che un fatto del quale non possiamo 84 spiegare la causa naturale sull’esempio di un’altra cosa consueta, o almeno non può spiegarla colui che scrive o racconta il miracolo.

Potrei dire, invero, che miracolo è ciò la cui causa non può essere spiegata sulla base dei princìpi delle cose naturali noti con il lume naturale. Ma, poiché i miracoli avvennero rispetto alla capacità del volgo, il quale ignorava completamente i principi delle cose naturali, è certo che gli antichi ritennero miracolo ciò che non potevano spiegare nel modo in cui il volgo è solito spiegare le cose naturali, ricorrendo cioè alla memoria, al fine di ricordarsi di un altro fatto simile che è solito immaginare senza ammirazione; il volgo ritiene infatti di intendere sufficientemente qualcosa solo quando non la ammira. Gli antichi quindi, e quasi tutti fino ad oggi, non hanno avuto altra norma del miracolo all’infuori di questa.

Perciò non c’è dubbio che nella Sacra Scrittura siano narrati come miracoli molti fatti le cui cause possono essere facilmente spiegate sulla base dei principi noti delle cose naturali, come già accennato nel capitolo II, quando abbiamo parlato dell’arresto del sole al tempo di Giosuè e della sua retrocessione al tempo di Achaz. Ma di questo tratterò più a lungo tra poco, cioè quando mi occuperò dell’interpretazione dei miracoli, che ho promesso di trattare nel presente capitolo. [2. È l’ordine fisso e immutabile della natura, e non l’evento miracoloso, a consentire all’uomo di conoscere l’essenza, l’esistenza e la provvidenza di Dio] Qui è ormai tempo che io passi al secondo punto, cioè a mostrare che dai miracoli noi non possiamo intendere né l’essenza né l’esistenza né la provvidenza di Dio, ma, al contrario, queste cose possono essere percepite assai meglio dall’ordine fisso e immutabile della natura. Per dimostrarlo, procedo nel modo seguente.

Poiché l’esistenza di Dio non è nota per sé, essa deve essere conclusa necessariamente da nozioni la cui verità è così salda e indiscutibile da non potersi dare né concepire alcuna potenza dalla quale possano essere mutate. Così devono apparirci tali nozioni, almeno dal momento in cui da esse abbiamo concluso l’esistenza di Dio, se da esse stesse vogliamo concludere tale esistenza all’infuori di ogni rischio di dubbio: infatti, se potessimo concepire che quelle stesse nozioni possono essere mutate da una potenza, qualunque essa sia, allora dubiteremmo della loro verità e, di conseguenza, anche della nostra conclusione, cioè dell’esistenza di Dio, e non potremo essere più certi di nulla.

Inoltre, sappiamo che niente conviene con la natura o ripugna ad essa se non ciò che conviene con questi principi o ripugna ad essi. Perciò, se potessimo concepire che in natura da una potenza (qualunque essa sia) può essere fatto qualcosa che ripugni alla natura, ciò

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ripugnerà altresì a queste prime nozioni, e quindi deve essere respinto come assurdo, oppure si deve dubitare delle prime nozioni (come abbiamo or ora mostrato) e, di conseguenza, di Dio e di tutte le cose percepite in qualsiasi modo.

Dunque, i miracoli, in quanto per essi intendiamo fatti che ripugnano all’ordine della natura, sono ben lontani dal mostrarci l’esistenza di Dio, e ci fanno invece dubitare di essa, mentre senza i miracoli possiamo esserne certi in assoluto, una volta saputo che tutte le cose della natura seguono un ordine fisso e immutabile.

Ma poniamo che sia miracolo ciò che non può essere spiegato per mezzo di cause naturali. Cíò lo si può intendere in due modi: o che esso ha cause naturali, le quali tuttavia non possono essere ricercate dall’intelletto umano; oppure che non ammette nessuna causa all’infuori di Dio, ossia della volontà di Dio. Ora, poiché tutte le cose che avvengono per cause naturali avvengono pure per la sola potenza e volontà di Dio, bisogna infine necessariamente giungere a questo: il miracolo, abbia o no cause naturali, è un fatto che non può essere spiegato per mezzo della causa, cioè un fatto che supera la capacità umana; ma da un fatto, e in assoluto da ciò che supera la nostra capacità, noi non possiamo intendere nulla.

Tutto ciò che intendiamo in maniera chiara e distinta, infatti, deve essere a noi noto per sé oppure per qualcos’altro che è inteso per sé in maniera chiara e distinta. Per la qual cosa, dal miracolo, ossia da un fatto che supera la nostra capacità, noi non possiamo intendere né l’essenza né l’esistenza di Dio, né in assoluto alcunché di Dio e della natura; mentre al contrario, sapendo che tutte le cose sono determinate e stabilite da Dio, che le operazioni della natura seguono dall’essenza di Dio, e che le leggi della natura sono decreti eterni e volizioni di Dio, bisogna senz’altro concludere che noi tanto più conosciamo Dio e la sua volontà, quanto più conosciamo le cose naturali e intendiamo chiaramente in che modo esse dipendono dalla loro prima causa e operano secondo le leggi eterne della natura.

Perciò, in rapporto al nostro intelletto, i fatti che intendiamo in maniera chiara e distinta hanno di gran lunga più diritto ad essere chiamati opere di Dio, e ad essere riferiti alla sua volontà, di quei fatti che ignoriamo del tutto (per quanto questi riempiano completamente l’immaginazione e attirino su di sé l’ammirazione rapita degli uomini), dal momento che soltanto quelle operazioni della natura che intendiamo in maniera chiara e distinta danno una più elevata conoscenza di Dio e mostrano nella maniera più chiara la volontà e i decreti di Dio. Vogliono dunque proprio scherzare coloro che, quando ignorano qualcosa, ricorrono alla volontà di Dio: un modo senz’altro ridicolo di riconoscere la propria ignoranza.

D’altra parte, anche se potessimo trarre qualche conclusione dai miracoli, in nessun modo potremmo concluderne l’esistenza di Dio. Infatti, poiché il miracolo è un fatto limitato e non esprime mai se non una certa e limitata potenza, è certo che noi da tale effetto non possiamo concludere l’esistenza di una causa la cui potenza sia infinita, ma al massimo l’esistenza di una causa la cui potenza sia maggiore; – dico «al massimo» poiché da molte cause che concorrono insieme può anche conseguire un fatto la cui forza e la cui potenza siano minori della potenza di tutte le cause messe insieme, ma di gran lunga maggiore della potenza di ciascuna causa.

Invece le leggi della natura, poiché (come abbiamo già mostrato) si estendono a infinite cose e sono da noi concepite sotto una certa specie di eternità, e poiché la natura, in conformità ad esse, procede secondo un ordine certo ed immutabile, ci mostrano in qualche modo perfino l’infinità, l’eternità e l’immutabilità di Dio.

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Concludiamo dunque dicendo che noi, per mezzo dei miracoli, non possiamo conoscere l’esistenza e la provvidenza di Dio, ma le concludiamo molto meglio dall’ordine fisso e immutabile della natura.

In questa conclusione parlo del miracolo in quanto per esso non s’intende altro se non un fatto che supera la capacità umana o si crede che la superi. Infatti, se si ammettesse che esso distrugge o interrompe l’ordine della natura, oppure che ripugna alle sue leggi, allora non solo non potrebbe darci alcuna conoscenza di Dio, ma ci toglierebbe addirittura quella che abbiamo naturalmente e ci farebbe dubitare di Dio e di tutto.

Né io qui riconosco una qualche differenza tra un fatto contro la natura e un fatto sopra la natura (il quale, come dicono alcuni, sarebbe un fatto che non ripugna alla natura, e che tuttavia non può essere prodotto o reso effettivo da essa). Infatti, poiché il miracolo non avviene fuori della natura, ma nella stessa natura, allora, per quanto lo si giudichi sopra la natura, è tuttavia necessario che interrompa l’ordine della natura, che invece concepiamo fisso ed immutabile sulla base dei decreti di Dio.

Se dunque in natura avvenisse qualcosa che non segue dalle sue leggi, ciò ripugnerebbe necessariamente all’ordine che Dio ha stabilito I in eterno per mezzo delle leggi 87 universali della natura, e sarebbe perciò contro la natura e le sue leggi, e, di conseguenza, ci farebbe dubitare di tutto e ci porterebbe all’ateismo.

E con questo ritengo di aver dimostrato con ragioni abbastanza valide ciò che mi proponevo al secondo punto, per cui possiamo concludere di nuovo che il miracolo, sia esso contro la natura sia esso sopra la natura, è una pura assurdità. E proprio per questo nella Sacra Scrittura per «miracolo» non può essere inteso altro che un’opera della natura che, come abbiamo detto, supera o si crede superi la capacità umana.

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Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716)

Discorso di metafisica (1686) lingua originale: francese

edizione di riferimento: C.I. Gerhardt, Philosophischen Schriften (7 voll.) Berlino, 1875-90

tr. it. M. Mugnai, Laterza, Bari-Roma, 1986 tema: l’incoerenza dei miracoli

genere letterario: trattato articolato

6. Le volontà, o azioni, di Dio si sogliono dividere in ordinarie e straordinarie: ma è bene tener presente che Dio non fa nulla fuori dell’ordine. Ciò che passa per straordinario, è tale solo rispetto a qualche ordine particolare stabilito tra le creature; quanto all’ordine universale, tutto è conforme ad esso. Ciò è tanto vero che, non soltanto nel mondo non capita nulla che sia assolutamente irregolare, ma neppure ci si riesce a fingere qualcosa di simile. Supponiamo, ad esempio, che qualcuno segni una quantità di punti sulla carta, del tutto a caso, come fanno coloro che esercitano la ridicola arte della geomantica: affermo che è possibile trovare una linea geometrica, la cui nozione sia costante e uniforme secondo una certa regola, in modo che detta linea passi attraverso tutti quei punti, e nello stesso ordine in cui la mano li ha segnati. Se qualcuno tracciasse una linea continua che sia ora dritta, ora curva, ora d’un’altra natura, è ancora possibile trovare una nozione o regola, o equazione comune a tutti i punti di detta linea, in base alla quale proprio quei mutamenti si debbono verificare. E non c’è volto il cui contorno non faccia parte di una linea geometrica, e non possa essere tracciato d’un sol tratto con un certo movimento secondo una regola. Ma quando una regola è molto complessa, ciò che le è conforme è creduto irregolare. Così possiamo dire che in qualsiasi modo Dio avesse creato il mondo, questo sarebbe sempre stato regolare, e racchiuso in un certo ordine generale. Ma Dio ha scelto il più perfetto, cioè quello che è, al tempo stesso, più semplice quanto a ipotesi, e più ricco dí fenomeni: come potrebbe essere una linea geometrica la cui costruzione sia facile, e le cui proprietà ed effetti molto interessanti ed estesi. Mi servo di questi paragoni per dare uno schizzo imperfetto della saggezza divina, tale che possa almeno elevare il nostro spirito a concepire in qualche modo ciò che non si può esprimere sufficientemente: ma con ciò non pretendo di spiegare questo grande mistero da cui dipende tutto l’universo. 7. Poiché dunque non si può fare nulla che non sia nell’ordine, possiamo dire che anche i miracoli non sono meno nell’ordine che le operazioni naturali, chiamate cosi perché conformi a talune regole subordinate, che chiamiamo natura delle cose. Di questa natura si può dire che non è altro che un’abitudine di Dio, di cui egli si può dispensare in vista di una ragione più forte di quella che l’ha spinto a servirsi di quelle regole. Quanto al carattere generale o particolare della volontà, si può dire, a seconda di come consideri la cosa, che Dio fa tutto secondo la sua volontà più generale, che è conforme all’ordine perfettissimo da Lui scelto, oppure anche che Egli ha volontà particolari, che sono eccezioni a quelle regole subordinate di cui si è detto: perché la più generale de leggi di Dio, che regola il tutto dell’universo, non soffre eccezioni. Sí può dire, anche, che Dio vuole tutto ciò che è oggetto della sua volontà particolare, quanto invece agli oggetti della sua volontà generale quali le azioni delle altre creature, e particolarmente, di quelle ragionevoli, a cui Dio vuole cooperare, occorre distinguere: se l’azione è buona in se stessa, si può dire che Dio la vuole e la comanda

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Leibniz, Discorso di metafisica

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comunque, che quando essa non si verifichi; ma se essa è cattiva in se stessa, e non diviene buona che per accidente (perché il seguito degli avvenimenti, e in particolare, il castigo e il premio, correggono la sua malvagità e ne compensano il male a usura, per cui alla fine si trova maggiore perfezione nell’insieme che se tutto quel male non fosse accaduto) allora si deve dire che Dio la permette, non che la vuole, nonostante che vi cooperi attraverso le leggi di natura che ha stabilite, e in quanto sa trarne un bene maggiore.

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David Hume (1711-76)

Ricerca sull’intendimento umano (1748)

lingua originale: inglese edizione di riferimento: P.H. Nidditch, Oxford University Press, Oxford, 1975

tr. it., M. Doni, Medusa, Milano, 2005 tema: la credibilità dei miracoli

genere letterario: argumentum ad hominem

Sezione X

SUI MIRACOLI Prima parte 86 C’è, negli scritti del Dr. Tillotson1, un argomento contro la vera presenza, che è quanto di più conciso, elegante e forte possa essere un argomento contro una dottrina così poco degna di una seria confutazione. È d’ogni parte ammesso, dice il dotto prelato, che l’autorità della Scrittura o della tradizione sia fondata meramente sulla testimonianza degli apostoli, che furono testimoni oculari dei miracoli del Salvatore mediante i quali egli diede prova della sua divina missione. Dunque l’evidenza di cui disponiamo circa la verità della religione Cristiana è inferiore rispetto a quella che riguarda la verità dei nostri sensi, dato che non fu maggiore neppure nei primi autori della nostra religione; ed è evidente che debba diminuire nel passaggio da essi ai loro discepoli: ecco che nessuno può confidare nella loro testimonianza come nell’oggetto immediato dei propri sensi. Ma un’evidenza più debole non può mai distruggerne una più forte, pertanto anche se la dottrina della vera presenza fosse stata così chiaramente rivelata nella Scrittura, sarebbe del tutto contrario alle leggi di un ragionamento corretto dare il nostro assenso ad essa. Essa contraddice i sensi, perché tanto la Scrittura quanto la tradizione, su cui si suppone sia stata costruita, non costituiscono un’evidenza paragonabile ai sensi, quando le si consideri meramente come evidenze esteriori, e non siano riposte nel cuore di ciascuno dall’intervento immediato dello Spirito Santo. Niente è così opportuno come un argomento decisivo di questo tipo, in grado finalmente di zittire le bigotterie e le superstizioni più arroganti, e di liberarci dalle loro impertinenti insistenze. Mi compiaccio di aver scoperto un argomento di tal fatta che, se corretto, sarà, per i savi e i dotti, un eterno freno a tutti i generi di illusione superstiziosa, e, di conseguenza, sarà sempre di grande utilità, finché reggerà il mondo; per tanto tempo infatti, presumo, i racconti di miracoli e prodigi si troveranno in ogni storia, sacra e profana. 87 Benché l’esperienza sia la nostra sola guida nel ragionare sui dati di fatto, occorre riconoscere che non è del tutto infallibile, anzi in qualche caso tende ad indurci in errore. Uno che nel nostro clima si aspettasse un tempo migliore in una settimana di giugno piuttosto che in una di dicembre, ragionerebbe in modo giusto e conforme all’esperienza; ma ovviamente gli può capitare di sbagliarsi. Come che sia, possiamo osservare che in un caso simile egli non avrebbe motivo di prendersela con l’esperienza, perché essa solitamente ci informa in anticipo 1 John Tillotson (1630-94) fu arcivescovo di Canterbury, il più autorevole prelato della Chiesa anglicana (Nota di Davies).

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dell’incertezza per via del contrasto degli eventi che possiamo apprendere da un’attenta osservazione. Non tutti gli effetti derivano linearmente dalle loro presunte cause. Alcuni eventi, in ogni paese ed epoca, sembrano essere collegati insieme; altri paiono variare maggiormente, e talvolta tradiscono le nostre aspettative, così che nei nostri ragionamenti sui dati di fatto ci sono tutti i gradi immaginabili di sicurezza, dalla più alta certezza alle specie più basse di evidenza morale . Un uomo saggio, pertanto, mette in proporzione la sua credenza con l’evidenza. Quando le conclusioni sono tali da essere fondate su un’esperienza infallibile, egli si attende l’evento con l’estremo grado di sicurezza, e guarda la sua esperienza passata come una perfetta prova dell’esistenza futura di quell’evento. In altri casi, egli procede con più cautela: soppesa le esperienze contrarie, considera quale parte sia supportata dal maggior numero di esperienze, propende per quella parte con dubbio ed esitazione, e quando alla fine prende una decisione, l’evidenza non oltrepassa ciò che propriamente chiamiamo probabilità. Ogni probabilità, poi, suppone una contrapposizione di esperienze e di osservazioni, nelle quali una parte appare preponderante rispetto all’altra, producendo un grado di evidenza proporzionato al grado di superiorità. Cento esempi o esperienze da una parte e cinquanta dall’altra, comportano un’aspettativa dubbiosa di un evento; ovvio che cento esperienze uniformi, a fronte di una sola che fosse contraddittoria, genererebbero ragionevolmente un grado ben alto di sicurezza. In ogni caso dobbiamo bilanciare le esperienze contrapposte, là dove sono contrapposte, e sottrarre il numero minore dal maggiore, per conoscere la forza esatta dell’evidenza superiore. 88 Applicando questi principi a un caso particolare, possiamo osservare che non c’è specie di ragionamento più comune, più utile e finanche necessaria alla vita umana, di quella che derivi dalla testimonianza degli uomini e dai rapporti tra testimoni oculari e spettatori. Si può forse negare che questa specie di ragionamento sia fondata sulla relazione di causa ed effetto. Non intendo cavillare. Sarà sufficiente osservare che il solo principio da cui derivi la nostra sicurezza riguardo a qualsiasi argomento di tal fatta è la nostra osservazione della veridicità della testimonianza umana, e la costante conformità dei fatti rispetto ai resoconti dei testimoni. Essendo universale la regola secondo la quale nessun oggetto può avere un legame evidente con un altro, e che tutte le interferenze che si possono trarre dall’uno all’altro sono meramente fondate sul nostro esperire la loro costante e regolare correlazione, è chiaro che non possiamo fare un’eccezione a questa regola per quanto concerne la testimonianza umana, il cui legame con un evento sembra, in sé stesso, tanto poco necessario quanto qualunque altro. Se la memoria non avesse una certa misura di tenuta, se gli uomini non fossero per natura inclini alla verità e a un principio di probità, se non fossero sensibili alla vergogna, quando colti in fallo, e se le virtù non fossero, dico, qualità scoperte per esperienza inerenti alla natura umana, non dovremmo mai riporre la minima fiducia nella testimonianza umana. Un uomo delirante, o noto per la sua falsità e scelleratezza, non esercita alcuna autorità su di noi. E come l’evidenza derivata dalla testimonianza umana e dai testimoni è colta dall’esperienza passata, così essa varia con l’esperienza, e la si può considerare come una prova o come una probabilità, a seconda che il legame tra un particolare resoconto e un oggetto sia stato considerato costante o variabile. Ci sono moltissime circostanze da prendere in considerazione in ogni giudizio di questo tipo e il modello ultimo con il quale decidiamo ogni disputa che sorga riguardo a questioni del genere, è sempre tratto dall’esperienza e dall’osservazione. Là dove tale esperienza non sia interamente uniforme in ogni sua parte, ciò comporta un’inevitabile contraddittorietà dei nostri giudizi, e con la stessa contrapposizione e mutua distruzione degli argomenti che si verifica in ogni altro genere di evidenza. Di frequente

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esitiamo di fronte ai resoconti altrui. Bilanciamo le opposte circostanze che cagionano dubbi o incertezze; e quando avvertiamo il prevalere di una parte, propendiamo per questa, ma ancora con un grado di sicurezza debole, proporzionato alla forza della parte avversa. 89 Questo conflitto degli indizi, nel presente caso, può essere derivata da parecchie cause differenti: dal susseguirsi di testimonianze contraddittorie, dalla maniera in cui tali testimonianze sono riportate o dall’insieme di tutte queste circostanze. I nostri sospetti riguardo a qualunque dato di fatto si attivano quando i testimoni si contraddicano l’un l’altro, quando essi siano una ristretta minoranza, o la loro indole sia di dubbia credibilità, quando essi tradiscano un interesse in ciò che affermano, quando pronuncino la loro testimonianza con esitazione, o al contrario con modalità eccessivamente concitate. Ci sono molti altri casi particolari del medesimo genere in grado di sminuire o distruggere la forza di un ragionamentoderivato dalla testimonianza umana. Supponiamo, per esempio, che il fatto che la testimonianza si sforza di avvalorare abbia a che fare con lo straordinario o il meraviglioso; in tal caso, l’evidenza risultante dalla testimonianza risulterà sminuita, in grado maggiore o minore a seconda che il fatto sia più o meno inusuale. Il motivo per cui noi diamo credito ai testimoni e agli storici non è derivato da un qualche legame, che noi percepiamo a priori, tra la testimonianza e la realtà, ma perché siamo abituati a trovare, tra queste ultime, una conformità. E però quando il fatto attestato è tale da capitare raramente al cospetto della nostra osservazione, si apre un divario tra due esperienze contrapposte, delle quali una distrugge l’altra, nella misura in cui glie lo consente la sua forza, e solo la superiore può agire sulla mente con la forza che le resta. L’identico principio di esperienza che ci dà un certo grado di sicurezza nel resoconto di testimoni, ci dà anche, in questo caso, un altro grado di sicurezza contro il fatto che si sforza di avvalorare, dalla cui contraddizione non può che sorgere un disequilibrio, nonché la reciproca distruzione di credenza e autorità.. Non crederei a una storia simile neppure se mi venisse raccontata da Catone, era un proverbio che si diceva a Roma, anche al tempo in cui quel patriota filosofo era in vita2. L’incredibilità di un fatto, si pensava, poteva invalidare una così grande autorità. Il principe indiano che si rifiutava di credere ai primi resoconti sugli effetti del gelo, ragionava correttamente; il che ovviamente richiese una testimonianza molto forte per motivare il suo assenso nei confronti di fatti che provenivano da uno stato di natura di cui egli non era al corrente e tanto dissimile agli eventi di cui aveva esperienza costante ed uniforme. Benché non si trattasse di storie contrarie alla sua esperienza, non erano comunque conformi ad essa. Nessun Indiano, è evidente, poteva avere esperienza che l’acqua non gela nei climi freddi; si tratta di eventi naturali che accadono in una situazione del tutto ignota per lui, ed è impossibile trarne a priori le conseguenze. In un esperimento nuovo, gli esiti sono sempre incerti. Si può talvolta congetturare per analogia riguardo a ciò che seguirà; ma anche questo altro non è che congettura. E si deve ammettere, nel caso del congelamento dell’acqua, che l’evento contraddice l’analogia, ed è tale che un Indiano, per quanto munito di raziocinio, non potrebbe dedurlo. L’azione del freddo sull’acqua non è graduale secondo i gradi del freddo: al momento in cui giunge al punto di congelamento, l’acqua passa all’istante dall’estrema liquidità alla perfetta solidità. Un simile evento, pertanto, può essere considerato straordinario, e richiede una testimonianza decisamente forte affinché sia reso credibile alle persone che abitano in climi caldi: ma ancora non si tratta di un fatto miracoloso, né contrario all’esperienza

2 Questo detto risale almeno a Plutarco (Vita di Catone), come Hume stesso indica in nota (nota di Davies).

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uniforme del corso della natura in casi in cui tutte le circostanze sono le stesse. Gli abitanti di Sumatra hanno sempre visto l’acqua liquida nel loro clima, e il congelamento dei loro fiumi sarebbe considerato da essi un prodigio: non hanno mai visto le acque della Moscovia in inverno, e pertanto non possono ragionevolmente ipotizzare una conseguenza3. 90 Ma per accrescere la probabilità di contro alle dichiarazioni dei testimoni, poniamo che il fatto che essi affermano, anziché essere solo meraviglioso, sia anche miracoloso; e supponiamo anche che la testimonianza in sé valga come una prova completa; in quel caso, c’è una prova contro una prova, la più forte delle quali deve prevalere, seppure con una diminuzione della sua forza, proporzionata a quella della sua parte avversa. Un miracolo è una violazione delle leggi della natura; e se queste leggi sono state fissate da un’esperienza stabile e inalterabile, la prova contro un miracolo, tratta dalla natura stessa dei fatti, è tanto esaustiva quanto qualsiasi argomento che si possa immaginare tratto dall’esperienza. Per quale motivo è più che probabile che tutti gli uomini debbano morire, che il piombo non possa, da solo, restare sospeso per aria, che il fuoco bruci la legna e che si spenga con l’acqua, se non perché questi eventi si trovano in accordo con le leggi di natura? E non è dunque necessaria una violazione di queste leggi, o in altre parole un miracolo, per negarli? Niente è stimato un miracolo se accade nel comune corso della natura. Se capita che un uomo, apparentemente in buon salute, muoia all’improvviso, non siamo di fronte a un miracolo: perché si è già visto molte volte che questo tipo di morte, benché più insolita di ogni altra, è stato frequentemente osservato. È invece un miracolo che un morto torni in vita, perché questo non si è mai visto in nessun’epoca e paese. Ci deve essere, pertanto, un’esperienza uniforme contro ogni evento miracoloso, altrimenti l’evento non meriterebbe quell’appellativo. E siccome un’esperienza uniforme vale come una prova, abbiamo una prova diretta e completa, tratta dalla natura dei fatti, contro l’esistenza di qualunque miracolo; una tale prova non può essere distrutta, né il miracolo può essere reso credibile, a meno che non si dia una prova contraria che sia superiore. Talvolta un evento può, in sé stesso, sembrare non contrario alle leggi di natura, e tuttavia, se fosse reale, potrebbe, a motivo di qualche circostanza, essere considerato un miracolo, perché, di fatto, è contrario a quelle leggi. Per esempio se una persona, vantando un’autorità divina, comandasse a un malato di guarire, alle nuvole di piovere, ai venti di soffiare – in breve, se ordinasse che svariati eventi naturali si sottomettano immediatamente al suo comando – si potrebbe a ragione gridare al miracolo, perché in questo caso saremmo di fronte realmente a eventi contrari alle leggi di natura. Infatti se sussiste un sospetto che la coincidenza tra l’evento e il comando sia stata casuale, non c’è nessun miracolo e nessuna trasgressione delle leggi di natura. Se tale sospetto viene rimosso, c’è evidentemente un miracolo e una trasgressione di queste leggi, dato che nulla può essere più contrario alla natura del fatto che la voce e l’ordine di un uomo abbiano un simile potere. Un miracolo può essere accuratamente definito una trasgressione di una legge di natura da parte di una particolare volontà del Divino, o per l’interposizione di qualche agente invisibile. Un miracolo può essere scoperto dagli uomini oppure no. Ciò non altera la sua natura ed essenza. L’innalzarsi di una casa o di una barca per aria è un evidente miracolo. L’innalzarsi di una piuma, quando il vento non soffi nemmeno per quel minimo che basti a per sollevarla, è parimenti un miracolo, benché non così sensibile ai nostri occhi4.

3 In alcune edizioni, il capoverso appena trascorso appare in nota a piè di pagina (nota di Davies). 4 In alcune edizioni, il capoverso appena trascorso appare in nota a piè di pagina (nota di Davies).

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91 La conseguenza ovvia (e si tratta di una massima generale degna della nostra attenzione) è che “Nessuna testimonianza è sufficiente a stabilire un miracolo, a meno che la testimonianza sia di un genere tale da rendere la sua falsità più miracolosa del fatto che tenta di avvalorare; e anche in quel caso c’è una reciproca distruzione degli argomenti, e solo la parte superiore ci dà una sicurezza pari a quel grado di forza che resta dopo aver sottratto l’inferiore”. Quando qualcuno mi dice di aver visto un morto restituito alla vita, mi chiedo immediatamente se questa persona sia ingannatrice o sia stata ingannata, oppure se il fatto che essa riporta sia realmente accaduto. Peso un miracolo contro l’altro, e secondo la superiorità che scopro, pronuncio la mia decisione e rigetto sempre il miracolo maggiore. Se la falsità di questa testimonianza fosse più miracolosa dell’evento che essa riporta, allora e solo allora egli potrebbe pretendere di influenzare la mia credenza o la mia opinione.

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Immanuel Kant (1724-1804) Enciclopedia filosofica (1767-82)

lingua originale: tedesco edizione di riferimento: Edizione della Reale Accademia Prussica (e successori),

de Gruyter, Berlino, 1900 (ecc.: ancora in corso) tr. it. L. Balbiani, Bompiani, Milano, 2003

tema: la natura della filosofia genere letterario: appunto per lezione universitaria

Nota sul genio Genio e talento sono due cose distinte. Talvolta si definisce il talento genio a causa della sua somiglianza al genio. Il genio è il talento originario di molti: è il talento scevro di finalità.

Il talento di cui necessita la filosofia è diverso da quello necessario per la matematica, come si è detto in precedenza. Il matematico è un grande architetto. Attraverso l’ordine egli può essere molto utile alla filosofia, ma non l’arricchirà di nuovi concetti: Quanto bisogna costruire un conetto, il matematico può fare meraviglie, ma con i conetti discorsivi non cmbinerà neull, a meno che non abbia anche una mente filosofica. – Del talento filosofico sono propri l’arguzia e la facoltà di considerare sia il generale nel concreto sia il particolare nell’astratto.

Si può imparare la filosofia? A questa domanda si è già risposto prima. – Bisogna però imparare a filosofare? – Ciò che ha un’utilità così grande come il filosofia non ha bisogno di essere raccomandato; le lodi sono superflue quando i vantaggi saltano all’occhio in modo così evidente.

Carattere della filosofia. Filosofico significa: 1. libero dall’imitazione 2. libero dall’affezione.

La filosofia fa entrambe le cose. Il molto sapere rende tronfi, la filosofia invece modera la superbia ed è l’unica cura contro di essa. Quando giunge fin dove è possibile agli uomini, là la filosofia fissa i confini e mostra la scarsa utilità di molte conoscenze. La filosofia dovrebbe servire a riconoscere qualcosa come buono in sé e non perché lo vogliono gli altri o perché esse viene richiesto. Bisogna cercare di essere saggi e non di accumulare soltanto conoscenze speculative, perché il sapere lascia un grande vuoto.

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Pierre Simon, marchese De La Place (1749-1827)

Un saggio filosofico sulle probabilità (1795)

lingua originale: francese edizione di riferimento: Œuvres complètes, (14 voll.) Parigi, 1878-1912

tr. it. R. Davies tema: le leggi di natura

genere letterario: divulgazione matematica

Capitolo. II: Sulla probabilità Tutti gli eventi, persino quelli che, a causa della loro irrilevanza, non sembrano seguire le grandi leggi della natura, ne sono i risultati tanto necessariamente quanto le rivoluzioni intorno al Sole. Nella nostra ignoranza dei legami che uniscono tali eventi al sitema intero dell’universo, li abbiamo attribuito a cause finali o all’azzardo, a seconda del modo in cui succedono e si ripetono regolarmente oppure appaiono senza ordine; queste cause immaginarie comunque si sono ritirate gradualmente con l’espandersi della conoscenza e spariscono del tutto davanti a una filosofia solida, che vede in esse solo un’espressioine della nostra ignoranza.

Gli eventi presenti sono connessi con quelli precedenti da un legame basato sul principio evidente che una cosa non può succedere senza una causa che la produca. Questa assioma, nota come il Principio di Ragion Sufficiente, si estende anche alle azioni che vengono considerate indifferenti; la volontà più libera che ci sia non è in grado di farli nascere senza un motivo determinativo; se supponiamo due posizioni con circostanze esattamente uguali e troviamo che la volontà è attiva in una e inattiva nell’altra, diciamo che la sua scelta è un effetto senza causa. In quel caso, is tratta, come dice Leibniz, il caso cieco degli epicurei1. L’opinione contraria è un’illusine della mente che, perdendo di vista le ragioni sfuggenti del libero arbitrio in vicende indifferenti, crede che la scelta si determina da sé e senza motivi.

Dobbiamo dunque considerare lo stato presente dell’universo come l’effetto dello stato predcedente e come la causea di quello successivo. Ammessa per un istante un’Intelligenza in grado di comprendere tutte le forze che animano la natura e le rispettive circostanze di tutte le cose che la compongono – un’Intelligenza sufficientemente vasta da sottoporre questi dati ad analisi – allorra Essa abbraccerebbe in una stessa formula i movimenti dei più grandi corpi dell’universo insieme a quelli dell’atomo più leggero; per Essa, niente sarebbe incerto, e il futuro, come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi. Nella perfezione raggiunta nell’astronomia, la mente umana ci offre una debole idea di questa Intelligenza. Le sue scoperte in meccanica e geometria, aggiunte a quella della gravitazione universale, l’hanno permessa di comprendere in espressioni analitiche gli stati passati e futuri del sistema del mondo. Con l’applicazione dello stesso metodo ad alcuni altri oggetti della sua conoscenza, è riuscita a riferire alle leggi generali i fenomeni osservati e a prevvedere quelli che dovrebbero verificarsi in determinate circostanze. Tutti questi sforzi nella ricerca della verità tendono a riportarla alla vasta Intelligenza appena menzionata, ma da cui rimarrà per sempre

1 Questo doppio rimando è a G.W. Leibniz che, nella sua Quinta Risposta del dibattito epistolare con il fisico inglese Samuel Clarke (1675-1729), scrive che ‘il caso epicureo non è necessità ma qualcosa di indifferente’ (ad 18, §70); e alla dottrina della deriva esposta nel brano di Lucrezio nella dispensa a pp. 69-71. [nota di Davies]

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La Place, Sulla probabilità’

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infinitamente distante. Questa tendenza, peculiare alla razza umana, è quella che ci rende superiori agli animali; e il nostro progresso in questa ricerca distingue le nazioni e le epoche, e ne costituisce la loro vera gloria.

[…] La curva che descrive una semplice molecola di aria o di vapore è regolata in maniera

altrettanto certa quanto le orbite planetari; l’unica differenza tra di loro deriva dalla nostra ignoranza.

La probabilità è relativa, in parte a questa ignoranza e in parte alla nostra conoscenza. Sappiamo che, di tre o più eventi, uno solo deve succedere; ma niente ci induce a credere che uno di loro, invece degli altri, sarà quello che succederà. In questo stato in indecisione, siamo impossibilitati di annunciare l’esito con certezza. Rimane comunque probabile che uno di questi eventi, scelto a volontà, non succederà perché vediamo diversi casi ugualmente possibili che ne escludono il succedersi, mente sono un caso lo favorisce.

La teoria della probabilità consiste nel ridurre tutti gli eventi dello stesso genere a un certo numero di casi ugualmente possibili, vale a dire tali per cui possiamo rimanere ugualmente indecisi riguardo alla loro esistenza, e nel determinare il numero dei casi favorevoli al esito di cui si cerca la probabilità. La proporzione tra quella cifra e tutti i casi possibili costituisce la misura di questa probabilità, che è così una semplice frazioine di cui il numeratore è il numero di casi favorevoli e il denominatore è il numero di tutti i casi possibili.

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Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900) ‘Su verità e menzogna in senso extramorale’ (1873)

lingua originale: tedesco

edizione di riferimento: G. Colli, M. Montinari, Sämtliche Werke, Taschenbuch Verlag, Monaco di Baviera, 1988

tr. it. G. Colli, Adelphi, Milano, 1970 tema: gli autoinganni del desiderio di conoscenza

genere letterario: saggio provocatorio

1 In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzognero della «storia del mondo»: ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire. – Qualcuno potrebbe inventare una favola di questo genere, ma non riuscirebbe tuttavia a illustrare sufficientemente quanto misero, spettrale, fugace, privo di scopo e arbitrario sia il comportamento dell’intelletto umano entro la natura. Vi furono eternità in cui esso non esisteva; quando per lui tutto sarà nuovamente finito, non sarà avvenuto nulla di notevole. Per quell’intelletto, difatti, non esiste una missione ulteriore che conduca al di là della vita umana. Esso piuttosto è umano, e soltanto chi lo possiede e lo produce può considerarlo tanto pateticamente, come se i cardini del mondo ruotassero su di lui. Se noi riuscissimo a intenderci con la zanzara, apprenderemmo che anch’essa nuota attraverso l’aria con questo pathos e si sente il centro – che vola – di questo mondo. Non vi è nulla di abbastanza spregevole e scadente nella natura, che con un piccolo e leggero alito di quella forza del conoscere non si gonfi senz’altro come un otre. E come ogni facchino vuole avere i suoi ammiratori, così il più orgoglioso fra gli uomini, il filosofo, crede che da tutti i lati gli occhi dell’universo siano rivolti telescopicamente sul suo agire e sul suo pensare.

È degno di nota che tutto ciò sia prodotto dall’intelletto, il quale è concesso – unicamente come aiuto –agli esseri più infelici, più delicati e più transitori, allo scopo di trattenerli per un minuto nell’esistenza, onde essi altrimenti, senza quell’aggiunta, avrebbero ogni motivo di sfuggire tanto rapidamente quanto il figlio di Lessing. Quell’alterigia connessa col conoscere e col sentire, sospesa come nebbia abbagliante dinanzi agli occhi e ai sensi degli uomini, li inganna dunque sul valore dell’esistenza, portando in sé la più lusinghevole valutazione riguardo al conoscere. Il suo effetto più universale è l’inganno, ma anche gli effetti più particolari portano in sé qualcosa del medesimo carattere.

L’intelletto, come mezzo per conservare l’individuo, spiega le sue forze principali nella finzione. Questa infatti è il mezzo con cui gli individui più deboli e meno robusti si conservano, in quanto a essi è preclusa una lotta per l’esistenza da condursi con le corna o con gli aspri morsi degli animali feroci. Nell’uomo quest’arte della finzione raggiunge il suo culmine: qui l’illudere, l’adulare, il mentire e l’ingannare, il parlar male di qualcuno in sua assenza, il rappresentare, il vivere in uno splendore preso a prestito, il mascherarsi, le convenzioni che nascondono, il far la commedia dinanzi agli altri e a se stessi, in breve il continuo svolazzare attorno alla fiamma della vanità costituisce a tal punto la regola e la legge, che nulla, si può dire, è più incomprensibile del fatto che fra gli uomini possa sorgere un impulso onesto e puro verso la verità. Essi sono profondamente immersi nelle illusioni e nelle

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Nietzsche ‘Verità e bugie…’

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immagini del sogno, il loro occhio scivola sulla superficie delle cose, vedendo «forme», il loro sentimento non conduce mai alla verità, ma si accontenta di ricevere stimoli e, per così dire, di accarezzare con un giuoco tattile il dorso delle cose. Oltre a ciò, di notte l’uomo si lascia ingannare nel sogno, per tutta la vita, senza che il suo sentimento morale cerchi mai di impedire ciò; devono invece esistere uomini che con la forza di volontà hanno eliminato il russare. In senso proprio, che cosa sa l’uomo su se stesso? Forse che, una volta tanto, egli sarebbe capace di percepire compiutamente se stesso, quasi si trovasse posto in una vetrina illuminata? Forse che la natura non gli nasconde quasi tutto, persino riguardo al suo corpo, per confinarlo e racchiuderlo in un’orgogliosa e fantasmagorica coscienza, lontano dall’intreccio delle sue viscere, dal rapido flusso del suo sangue, dai complicati fremiti delle sue fibre? La natura ha gettato via la chiave, e guai alla fatale curiosità che una volta riesca a guardare attraverso una fessura dalla cella della coscienza, in fuori e in basso, e che un giorno abbia il presentimento che l’uomo sta sospeso nei suoi sogni su qualcosa di spietato, avido, insaziabile e, per così dire, sul dorso di una tigre. In una tale costellazione, da quale parte del mondo sorgerà mai l’impulso verso la verità?

In quanto l’individuo, di fronte ad altri individui, vuole conservarsi, esso utilizza per lo più l’intelletto, in uno stato naturale delle cose, soltanto per la finzione: ma poiché al tempo stesso l’uomo, per bisogno o per noia, vuole esistere socialmente come in un gregge, egli è spinto a concludere la pace, e tende a far scomparire dal suo mondo almeno il più rozzo bellum omnium contra omnes1. Questo trattato di pace porta in sé qualcosa che si presenta come il primo passo per raggiungere quell’enigmatico impulso alla verità. A questo punto viene fissato ciò che in seguito dovrà essere la «verità»; in altre parole, viene scoperta una designazione delle cose uniformemente valida e vincolante, e la legislazione del linguaggio fornisce altresì le prime leggi della verità. Sorge qui infatti, per la prima volta, il contrasto tra verità e menzogna. Il mentitore adopera le designazioni valide, le parole, per fare apparire come reale ciò che non è reale. Egli dice per esempio: «io sono ricco», mentre per il suo stato la designazione esatta sarebbe proprio «povero». Egli fa cattivo uso delle salde convenzioni, scambiando arbitrariamente, o addirittura invertendo i nomi. Quando egli fa questo in modo egoistico, che può d’altronde recare danno, la società non si fiderà più di lui e così lo escluderà da sé. Nel far ciò gli uomini cercano di evitare, non tanto l’essere ingannati, quanto l’essere danneggiati dall’inganno: anche su questo piano essi in fondo non odiano l’inganno, bensì le conseguenze brutte e ostili di certe specie di inganni. In tale senso limitato, l’uomo vuole soltanto la verità: egli desidera le conseguenze piacevoli – che preservano la vita – della verità, è indifferente di fronte alla conoscenza pura, priva di conseguenze, mentre è disposto addirittura ostilmente verso le verità forse dannose e distruttive. Oltre a ciò come stanno le cose rispetto alle suddette convenzioni del linguaggio? Sono forse prodotti della conoscenza, del senso della verità, forse che le designazioni e le cose si sovrappongono? Il linguaggio è dunque l’espressione adeguata di tutte le realtà?

Solo attraverso l’oblio l’uomo può giungere a credere di possedere una «verità» nel grado sopra designato. Quando egli non si accontenta della verità in forma di tautologia, ossia non si appaga di gusci vuoti, baratterà sempre verità e illusioni. Che cos’è una parola? Il riflesso in suoni di uno stimolo nervoso. Ma il concludere da uno stimolo nervoso a una causa fuori di noi è già il risultato di una applicazione falsa e ingiustificata del principio di ragione. Se nella genesi del linguaggio la verità fosse risultata decisiva, se nelle designazioni fosse stato

1 Il rimando è al tedicesimo capitolo del Leviatano di Hobbes [nota di Davies]

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decisivo unicamente il punto di vista della certezza, come potremmo ancora dire: la pietra è dura, quasi che «duro» ci fosse noto anche altrimenti, e non soltanto come uno stimolo del tutto soggettivo? Noi dividiamo le cose in generi, designiamo l’albero come maschile e la pianta come femminile: quali trasposizioni arbitrarie! Che distacco dal canone della certezza! Noi parliamo di un «serpente»: la designazione non riguarda altro se non la tortuosità, e potrebbe quindi spettare altresì al verme. Quali delimitazioni arbitrarie, quali preferenze unilaterali, accordate ora all’una ora all’altra proprietà di una cosa! Le diverse lingue, poste l’una accanto all’altra, mostrano che nelle parole non ha mai importanza la verità, né un’espressione adeguata. In caso contrario non esisterebbero infatti così tante lingue. La «cosa in sé» (la verità pura e priva di conseguenze consisterebbe appunto in ciò) è d’altronde del tutto inafferrabile per colui che costruisce il linguaggio, e non è affatto degna per lui di essere ricercata. Egli designa soltanto le relazioni delle cose con gli uomini e ricorre all’aiuto delle più ardite metafore per esprimere tali relazioni. Uno stimolo nervoso, trasferito anzitutto in un’immagine: prima metafora. L’immagine è poi plasmata in un suono: seconda metafora. Ogni volta si ha un cambiamento completo della sfera, un passaggio a una sfera del tutto differente e nuova. Si può immaginare un uomo che sia completamente sordo e non abbia mai avuto una sensazione del suono e della musica: allo stesso modo che costui, per esempio, si meraviglia di fronte alle figure acustiche di Chladni, disegnate sulla sabbia, trova le loro cause nelle vibrazioni della corda ed è disposto a giurare di sapere ormai che cosa sia ciò che gli uomini chiamano «suono», così avviene a tutti noi riguardo al linguaggio. Noi crediamo di sapere qualcosa sulle cose stesse, quando parliamo di alberi, di colori, di neve e di fiori, eppure non possediamo nulla se non metafore delle cose che non corrispondono affatto alle essenze originarie. Come il suono si presenta in quanto figura nella sabbia, così l’enigmatico x della cosa in sé ora si presenta come stimolo nervoso, ora come immagine, ora infine come suono. In ogni caso il sorgere della lingua non segue un procedimento logico, e l’intero materiale su cui e con cui più tardi lavorerà e costruirà l’uomo della verità, l’indagatore, il filosofo, proviene, se non da una Nefelococcigia, certo però non dall’essenza delle cose.

Soffermiamoci ancora particolarmente sulla formazione dei concetti. Ogni parola diventa senz’altro un concetto, per il fatto che essa non è destinata a servire eventualmente per ricordare l’esperienza primitiva, non ripetuta e perfettamente individualizzata, ma deve adattarsi al tempo stesso a innumerevoli casi più o meno simili, cioè – a rigore – mai uguali, e quindi a casi semplicemente disuguali. Ogni concetto sorge con l’equiparazione di ciò che non è uguale. Se è certo che una foglia non è mai perfettamente uguale a un’altra, altrettanto certo è che il concetto di foglia si forma mediante un arbitrario lasciar cadere queste differenze individuali, mediante un dimenticare l’elemento discriminante, e suscita poi la rappresentazione che nella natura, all’infuori delle foglie, esiste un qualcosa che è «foglia», quasi una forma primordiale, sul modello della quale sarebbero tessute, disegnate, circoscritte, colorate, increspate, dipinte – ma da mani maldestre – tutte le foglie, in modo tale che nessun esemplare risulterebbe corretto e attendibile in quanto copia fedele della forma originale. Noi chiamiamo un uomo «onesto». Perché costui si è comportato oggi così onestamente? – domandiamo. La nostra risposta è di solito: a causa della sua onestà. L’onestà! Ciò significa nuovamente: la foglia è la causa delle foglie. Non sappiamo assolutamente nulla di una qualità essenziale che si chiami l’onestà; e conosciamo invece numerose azioni individuali, e quindi disuguali, che noi equipariamo tra loro, lasciando cadere ciò che vi è di disuguale, e che allora designiamo come azioni oneste. Partendo da esse formuliamo infine una qualitas occulta, con il nome: l’onestà.

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Il trascurare ciò che vi è di individuale e di reale ci fornisce il concetto, allo stesso modo che ci fornisce la forma, mentre la natura non conosce invece nessuna forma e nessun concetto, e quindi neppure alcun genere, ma soltanto una x, per noi inattingibile e indefinibile. Altresì la nostra antitesi tra individuo e genere è infatti antropomorfica e non sgorga dall’essenza delle cose, anche se non osiamo dire che tale antitesi non corrisponde a tale essenza. Questa sarebbe infatti un’asserzione dogmatica, e come tale altrettanto indimostrabile quanto la sua contraria.

Che cos’è dunque la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile, sono monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete. Sinora noi non sappiamo onde derivi l’impulso verso la verità; sinora infatti abbiamo inteso parlare soltanto dell’obbligo imposto dalla società per la sua esistenza: essere veritieri, cioè servirsi delle metafore usuali. L’espressione morale di ciò è dunque la seguente: sinora abbiamo inteso parlare soltanto dell’obbligo di mentire secondo una salda convenzione, ossia di mentire come si conviene a una moltitudine, in uno stile vincolante per tutti. Senza dubbio l’uomo si dimentica che le cose stanno a questo modo; egli mente dunque nella maniera suddetta, incoscientemente e per una abitudine secolare, giungendo al sentimento della verità proprio attraverso questa incoscienza, proprio attraverso questo oblio. Con il sentimento di essere obbligati a designare una cosa come rossa, un’altra come fredda, una terza come muta, si risveglia un sentimento morale riferentesi alla verità. Fondandosi sul contrasto dell’uomo menzognero, di cui nessuno si fida e che tutti evitano, l’uomo dimostra a se stesso che la verità è degna di rispetto e di fiducia, e altresì utile. Come essere razionale, egli pone ora il suo agire sotto il controllo delle astrazioni; non ammette più di essere trascinato dalle impressioni istantanee e dalle intuizioni, generalizza tutte queste impressioni, traendone concetti scoloriti e tiepidi, per aggiogare a essi il carro della sua vita e della sua azione. Tutto ciò che distingue l’uomo dall’animale dipende da questa capacità di sminuire le metafore intuitive in schemi, cioè di risolvere un’immagine in un concetto. Nel campo di quegli schemi è possibile cioè qualcosa che non potrebbe mai riuscire sotto il dominio delle prime impressioni intuitive: costruire un ordine piramidale, suddiviso secondo caste e gradi, creare un nuovo mondo di leggi, di privilegi, di subordinazioni, di delimitazioni, che si contrapponga ormai all’altro mondo intuitivo delle prime impressioni come qualcosa di più solido, di più generale, di più noto, di più umano, e quindi come l’elemento regolatore e imperativo. Mentre ogni metafora intuitiva è individuale e risulta senza pari, sapendo perciò sempre sfuggire a ogni registrazione, la grande costruzione dei concetti mostra invece la rigida regolarità di un colombario romano e manifesta nella logica quel rigore e quella freddezza che sono propri della matematica. Chi è ispirato da questa freddezza difficilmente crederà che il concetto – osseo come un dado, spostabile e munito di otto vertici come questo – sussista unicamente come il residuo di una metafora, e che l’illusione del trasferimento artistico di uno stimolo nervoso in immagini, se non è la madre, sia tuttavia l’antenata di ogni concetto. In questo concettuale giuoco di dadi si chiama peraltro «verità» il servirsi di ogni dado secondo la sua designazione, il contare con esattezza i punti segnati su ogni faccia, il costruire rubriche giuste e il non turbare mai l’ordinamento di caste e la serie gerarchica delle classi. Come i Romani e gli Etruschi dividevano il cielo con rigide linee matematiche e in ciascuna di queste

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caselle, come in un templum, relegavano un dio, così ogni popolo trova sopra di sé un siffatto ciclo concettuale suddiviso matematicamente, e per esigenze della verità intende il ricercare ogni dio concettuale unicamente nella sua sfera. Senza dubbio si può a questo proposito ammirare l’uomo come un potente genio costruttivo, che riesce – su mobili fondamenta, e per così dire, sull’acqua corrente – a elevare una cupola concettuale infinitamente complicata; certo, per raggiungere una stabilità su siffatte fondamenta, occorrerà una costruzione fatta di ragnatele, tanto tenue da non essere trascinata via dalle onde e tanto solida da non essere spazzata via al soffiare di ogni vento. Come genio costruttivo, l’uomo si innalza a questo modo al di sopra delle api: queste costruiscono con la cera che raccolgono ricavandola dalla natura, mentre l’uomo costruisce con la materia assai più tenue dei concetti che egli deve fabbricarsi da sé. In ciò egli è degno di grande ammirazione, non già tuttavia a causa del suo impulso verso la verità e la conoscenza pura delle cose. Se qualcuno nasconde qualcosa dietro un cespuglio, se lo ricerca nuovamente là e ve lo ritrova, in questa ricerca e in questa scoperta non vi è molto da lodare: eppure le cose stanno a questo modo riguardo alla ricerca e alla scoperta della «verità», entro il territorio della ragione. Se io formulo la definizione del mammifero, e in seguito, vedendo un cammello, dichiaro: «ecco un mammifero», in tal caso viene portata alla luce senza dubbio una verità, ma quest’ultima ha un valore limitato, a mio avviso; è completamente antropomorfica e non contiene neppure un solo elemento che sia «vero in sé», reale e universalmente valido, a prescindere dall’uomo. L’indagatore di queste verità in fondo cerca soltanto la metamorfosi del mondo nell’uomo, si sforza di comprendere il mondo come una cosa umana e nel caso migliore riesce a raggiungere il sentimento di una assimilazione. Allo stesso modo in cui l’astrologo considerava le stelle al servizio degli uomini e in collegamento con la loro felicità e con i loro dolori, così un tale indagatore considera il mondo intero come connesso con l’uomo, come l’eco infinitamente ripercossa di un suono originario, cioè dell’uomo, come il riflesso moltiplicato di un’immagine primordiale, cioè dell’uomo. Il suo metodo considera l’uomo come misura di tutte le cose: nel far ciò tuttavia egli parte da un errore iniziale, credere cioè che egli abbia queste cose immediatamente dinanzi a sé, come oggetti puri. Egli dimentica così che le metafore originarie dell’intuizione sono pur sempre metafore, e le prende per le cose stesse.

Solo quando l’uomo dimentica quel primitivo mondo di metafore, solo quando la massa originaria di immagini – che sgorgano con ardente fluidità dalla primordiale facoltà della fantasia umana – si indurisce e irrigidisce, solo quando si crede, con una fede invincibile, che questo sole, questa finestra, questo tavolo siano verità in sé: in breve, solo quando l’uomo dimentica se stesso in quanto soggetto, e precisamente in quanto soggetto artisticamente creativo, solo allora egli può vivere con una certa calma, sicurezza e coerenza. Se egli potesse uscire soltanto per un attimo dalle mura segregatrici di questa fede, la sua «autocoscienza» si dissolverebbe allora d’un tratto. Già gli costa molta fatica l’ammettere che l’insetto o l’uccello percepiscono un mondo del tutto differente da quello umano, e che la questione di determinare quale delle due percezioni del mondo sia la più giusta è del tutto priva di senso, poiché una misura in proposito dovrebbe essere stabilita in base al criterio della percezione esatta, cioè in base a un criterio che non esiste. In generale poi la percezione esatta – il che significherebbe l’espressione adeguata di un oggetto nel soggetto – mi sembra un’assurdità contraddittoria: in effetti tra due sfere assolutamente diverse, quali sono il soggetto e l’oggetto, non esiste alcuna causalità, alcuna esattezza, alcuna espressione, ma tutt’al più un rapporto estetico, intendo dire una trasposizione allusiva, una traduzione balbettata in una lingua del tutto straniera, il che richiederebbe in ogni caso una sfera intermedia e una capacità intermedia che fossero capaci di

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poetare e di inventare liberamente. La parola apparenza contiene molte tentazioni, e perciò la evito per quanto è possibile: non è infatti vero che l’essenza delle cose appaia nel mondo empirico. Un pittore, cui manchino le mani e che voglia esprimere con il canto l’immagine che gli sta di fronte, lascerà indovinare, con questo scambio di sfere, più di quanto il mondo empirico non lasci indovinare riguardo all’essenza delle cose. Persino il rapporto tra uno stimolo nervoso e l’immagine prodotta non è in sé affatto necessario: ma quando la medesima immagine viene prodotta milioni di volte e viene trasmessa ereditariamente attraverso molte generazioni umane, apparendo infine a tutta quanta l’umanità ogni volta come conseguenza della medesima occasione, essa in conclusione acquista per l’uomo il medesimo significato che le spetterebbe se fosse l’unica immagine necessaria, e se quel rapporto fra l’originario stimolo nervoso e l’immagine prodotta fosse un rigido rapporto di causalità. Allo stesso modo un sogno, eternamente ripetuto, sarebbe sentito e giudicato interamente come realtà. Ma l’indurirsi e, l’irrigidirsi di una metafora non offre assolutamente alcuna garanzia per la necessità e per l’autorità esclusiva di questa metafora.

Ogni uomo cui tali considerazioni siano familiari ha senza dubbio sentito una profonda diffidenza verso ogni idealismo cosiffatto, ogni volta che egli si sia convinto con grande chiarezza dell’eterno rigore, dell’onnipresenza e dell’infallibilità delle leggi naturali. Egli è giunto alla seguente conclusione: in questo campo – sin dove possiamo giungere, verso l’altezza del mondo telescopico e verso la profondità del mondo microscopico – tutto è sicuro, costruito, infinito, conforme a leggi e senza lacune; la scienza potrà eternamente scavare questi pozzi con successo, e tutto ciò che sarà trovato risulterà concordante e non contraddittorio. Tutto ciò assomiglia davvero poco a un prodotto della fantasia: se tale fosse il caso, difatti, da qualche parte dovrebbe trasparire l’illusione e l’irrealtà. Invece occorre dire: se ciascuno di noi, per sé, avesse una differente sensazione, se noi stessi potessimo percepire ora come uccelli, ora come vermi, ora come piante, oppure se uno di noi vedesse il medesimo stimolo come rosso e un altro lo vedesse come azzurro, se un terzo udisse addirittura tale stimolo come suono, nessuno potrebbe allora parlare di una tale regolarità della natura, ma la intenderebbe unicamente come una creazione estremamente soggettiva. Oltre a ciò, che cos’è per noi, in generale, una legge della natura? Essa ci è nota non già in sé, bensì soltanto nei suoi effetti, cioè nelle sue relazioni con altre leggi naturali, che a loro volta ci sono note soltanto come somme di relazioni. Tutte queste relazioni rimandano perciò sempre l’una all’altra, e nella loro essenza risultano per noi perfettamente incomprensibili: in tutto ciò ci è realmente noto soltanto quello che noi stessi aggiungiamo, il tempo, lo spazio, ossia rapporti di successione e numeri. Peraltro l’intero elemento miracoloso –proprio quello che ammiriamo nelle leggi naturali –che esige una nostra spiegazione e potrebbe indurci a diffidare dell’idealismo consiste proprio unicamente nel rigore matematico e nell’inviolabilità delle rappresentazioni di tempo e spazio. Queste, tuttavia, noi le produciamo in noi, traendole da noi stessi con quella necessità con cui il ragno tesse la sua tela ; se siamo costretti a comprendere tutte le cose unicamente in base a queste forme, non c’è allora più da meravigliarci che in tutte le cose noi possiamo appunto comprendere, propriamente, soltanto queste forme: tutte quante debbono infatti portare in sé le leggi del numero e il numero è appunto l’elemento più stupefacente che esista nelle cose. Ogni conformità a leggi, la quale ci fa talmente impressione nel corso degli astri e nei processi chimici, coincide in fondo con quelle proprietà che noi stessi introduciamo nelle cose, cosicché siamo noi che facciamo impressione a noi stessi. Da ciò risulta senza dubbio che quella formazione artistica di metafore, con cui comincia in noi ogni sensazione, presuppone già quelle forme, ossia viene compiuta in esse; è soltanto la salda

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permanenza di- queste forme originarie, che può spiegare la possibilità della susseguente costituzione, in base alle metafore stesse, dell’edificio dei concetti. Tale edificio è infatti un’imitazione dei rapporti temporali, spaziali e numerici sul terreno delle metafore.

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Alla costruzione dei concetti lavora originariamente, come abbiamo visto, il linguaggio, e in epoche posteriori la scienza. Come l’ape costruisce le sue celle e al tempo stesso le riempie di miele, così la scienza lavora incessantemente a quel grande colombario dei concetti – cimitero delle intuizioni – costruisce in quell’edificio piani nuovi e più alti, consolida, ripulisce, rinnova le antiche celle, e soprattutto si sforza di riempire quella costruzione a scomparti, innalzata a un livello eccelso, e di ordinarvi l’intero mondo empirico, ossia il mondo antropomorfico. Se già l’uomo di azione lega la sua vita alla ragione e ai concetti razionali, per non essere trascinato via dalla corrente e per non perdersi, all’indagatore poi spetta addirittura di costruire la sua capanna a ridosso della torre della scienza, per poter contribuire alla sua edificazione e per poter trovare egli stesso un riparo ai piedi del baluardo già costruito. E di protezione egli ha bisogno, poiché esistono forze terribili che premono continuamente su di lui, contrapponendo alla «verità» scientifica altre «verità» di natura del tutto diversa e munite dei più svariati stemmi.

Quell’impulso a formare metafore, quell’impulso fondamentale dell’uomo da cui non si può prescindere neppure per un istante, poiché in tal mòdo si prescinderebbe dall’uomo stesso, risulta in verità non già represso, ma a stento ammansito, dal fatto che con i suoi prodotti evanescenti, i concetti, sia stato costruito per lui un nuovo mondo, regolare e rigido, come roccaforte. Tale impulso si cerca allora un nuovo campo di azione, un altro alveo per la sua corrente, e trova tutto ciò nel mito, e in generale nell’arte. Confonde continuamente le rubriche e gli scomparti dei concetti, presentando nuove trasposizioni, metafore, metonimie; continuamente svela il desiderio di dare al mondo sussistente dell’uomo desto una figura così variopinta, irregolare, priva di conseguenze, incoerente, eccitante ed eternamente nuova, quale è data dal mondo del sogno. In sé, anzi, l’uomo desto trae una chiara convinzione di essere sveglio unicamente dalla rigida e regolare ragnatela dei concetti, e talvolta è portato a credere di sognare, appunto perché quella ragnatela concettuale in certe occasioni viene strappata dall’arte. Pascal ha ragione quando sostiene che, se ogni notte ci si presentasse il medesimo sogno, noi ci occuperemmo altrettanto di esso quanto delle cose che vediamo ogni-giorno: «se un artigiano fosse sicuro di sognare ogni notte, per dodici ore filate, di essere re, io credo allora» dice Pascal «che egli sarebbe altrettanto felice quanto un re che sognasse tutte le notti, per dodici ore, di essere un artigiano». La veglia di un popolo — per esempio degli antichi Greci — ispirato miticamente risulta, a causa dei miracoli continuamente operanti quali sono accolti dal mito, realmente più simile al sogno che non alla veglia del pensatore scientificamente disincantato. Quando ogni albero può avere l’occasione di parlare, nascondendo una ninfa, quando sotto la figura di un toro un dio può trascinar via le vergini, quando la stessa dea Atena viene vista improvvisamente, su un bel cocchio, attraversare le piazze di Atene in compagnia di Pisistrato — e tutto ciò è creduto dai buoni Ateniesi – allora in ogni momento tutto è possibile, come nel sogno, e tutta la natura si agita attorno all’uomo, quasi fosse unicamente una mascherata degli dèi, contenti di fare uno scherzo all’uomo con ogni specie di metamorfosi ingannevoli.

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L’uomo stesso peraltro ha un’invincibile tendenza a lasciarsi ingannare ed è come incantato di felicità, quando il rapsodo gli racconta come vere delle favole epiche, o quando nel dramma l’attore fa la parte del re in modo ancora più regale di quanto sia mostrato dalla realtà. L’intelletto, maestro di finzione, è libero e sottratto al suo normale servizio da schiavo, sintanto che può ingannare senza recare danno, e celebra allora i suoi Saturnali. In nessun’altra occasione esso è più esuberante, più ricco, più orgoglioso, più abile e più audace: con gusto creativo mescola le metafore e sposta i confini dell’astrazione, cosicché per esempio designa il fiume come la mobile strada che porta l’uomo là dove di solito egli giunge camminando. Esso ha ormai gettato via da sé il segno della soggezione: un tempo preoccupato, con triste operosità, di mostrare la via e gli strumenti a un povero individuo che ha un ardente desiderio di vivere, un tempo pronto a rapinare e a predare come lo è un servo per il suo padrone, ora invece è divenuto padrone e può cancellare dal suo volto l’espressione della miseria. Tutto ciò che fa adesso, a confronto con le sue azioni precedenti, porta in sé il segno della finzione, così come ciò che aveva fatto in precedenza portava in sé il segno della caricatura.

Ora copia la vita umana, ma la prende come una cosa buona e sembra davvero contentarsi di essa. Quella enorme impalcatura e travatura di concetti, aggrappandosi alla quale il misero uomo riesce a salvarsi lungo la sua vita, costituisce, per l’intelletto divenuto libero, soltanto un’armatura e un trastullo per i suoi audaci artifici. E se manda in frantumi tutto ciò, se lo mescola, lo ricompone ironicamente, accoppiando le cose più estranee e separando le cose più affini, con ciò esso fa vedere di non aver bisogno di quei ripieghi della miseria e di essere ormai guidato, non già da concetti, bensì da intuizioni. Non esiste una strada regolare, che partendo da queste intuizioni conduca nella terra degli schemi spettrali, delle astrazioni: la parola non è fatta per le intuizioni, e l’uomo ammutolisce quando si trova dinanzi a esse, oppure parla unicamente con metafore proibite e con inauditi accozzamenti di concetti, per adeguarsi creativamente – almeno con la distruzione e la derisione delle vecchie barriere concettuali – all’impressione della possente intuizione attuale.

Vi sono epoche in cui l’uomo razionale e l’uomo intuitivo stanno l’uno accanto all’altro, il primo con la paura dell’intuizione, il secondo con il disprezzo per l’astrazione. Quest’ultimo è altrettanto non razionale, quanto il primo è non artistico. Entrambi desiderano di dominare sulla vita: l’uomo razionale, in quanto sa affrontare i più importanti e i più impellenti bisogni con la previdenza, la prudenza e la regolarità; l’uomo intuitivo, in quanto non vede – come «eroe supremamente giocondo» – quei bisogni e considera come reale soltanto la vita trasformata dalla finzione in parvenza e in bellezza. Se l’uomo intuitivo – come è avvenuto nell’antica Grecia – sa usare le sue armi più vittoriosamente e più potentemente dell’avversario, può configurarsi, in caso favorevole, una civiltà e può fondarsi il dominio dell’arte sulla vita: quella finzione, quel rinnegamento della miseria, quello splendore delle intuizioni metaforiche, e in generale quell’immediatezza dell’inganno accompagnano tutte le manifestazioni di una siffatta vita. Né l’abitazione, né l’andatura, né l’abbigliamento, né l’orcio d’argilla lasciano scorgere di essere stati inventati da un bisogno impellente. Sembra quasi che attraverso tutte queste cose debba esprimersi una sublime felicità, una serenità olimpica, e per così dire un giocare con ciò che è serio. Mentre l’uomo guidato dai concetti e dalle astrazioni non riesce per mezzo loro che a respingere l’infelicità, senza riuscire egli stesso a procurarsi la felicità dalle sue astrazioni, mentre cioè egli si sforza per quanto è possibile di liberarsi dal dolore, l’uomo intuitivo invece, ergendosi in mezzo a una civiltà, raccoglie dalle sue intuizioni, oltre che una difesa dal male, un’illuminazione, un rasserenamento, una redenzione, che affluiscono incessantemente. Senza dubbio egli soffre

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più violentemente, quando soffre: egli soffre anzi più spesso, poiché non sa imparare dall’esperienza e cade sempre di nuovo nel medesimo pozzo in cui era caduto una volta. Nel dolore poi è tanto irrazionale quanto nella felicità: egli grida forte e non trova consolazione. Quanto diverso è il comportamento, di fronte a un’eguale sventura, dell’uomo stoico, ammaestrato dall’esperienza, il quale si domina con l’aiuto dei concetti! Lui, che altrimenti cerca soltanto la rettitudine, la verità, la libertà dagli inganni e la difesa dalle sorprese seducenti, ora invece, nella sventura, mette in mostra il capolavoro della dissimulazione, come quell’altro aveva fatto nella felicità: egli non rivela un volto umano mobile e vibrante, ma per cosa dire una maschera, con un dignitoso equilibrio nei tratti; egli non grida e non cambia nemmeno la sua voce. Se un nuvolone temporalesco si rovescia su di lui, egli si avvolge nel suo mantello e se ne va a lento passo sotto il temporale.

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John Cowper Powys (1872-1963) Wolf Solent (1929)

lingua originale: inglese edizione originale: Jonathan Cape, Londra

tr. it. R. Davies tema: l’irrealtà dei sistemi filosofici

genere letterario: romanzo [dal capitolo 5] Wolf approfittò dell’assenza di Christie per avvicinarsi alla libreria che l’aveva già incuriosito. La prima cosa ad attirare la sua attenzione fu un’edizione dell’Hydriotaphia ossia Il seppellimento nelle urne di Sir Thomas Browne. Egli tolse questo libro dallo scaffale, e lo sfogliava distattamente quando rientrò la ragazza con in mano un bicchiere di chiaretto. Rimettendo il volume al suo posto in fretta, e alzando il vino alle labbra, non potè resistere alla voglia di commentare alcuni degli altri più impegnativi volumi che si trovavano nella libreria.

“Vedo che lei legge Leibniz, Signorina Malakite,” disse. “Non trova quelle sue «monadi» di difficile comprensione? Vedo anche che ha per di più Hegel. Mi sono sempre sentito molto attratto da lui – nonostante sarei in imbarazzo se dovessi dire il perché.”

Si rimise a sedere sulla sedia di vimini, con il bicchiere di vino in mano. “Lei si diverte con la filosofia?” aggiunse, guardandola sornione ma amichevole. I suoi

sopraccigli folti si contrassero, e i suoi occhi divennero stretti e piccoli. Christie si sedette vicino a lui sul sofa e, pensierosa, spianò con le mani la sua gonna

marrone. Fu evidente la sua ansia di rispondere a questa domanda importante con la dovuta meticolosità […]

“Non capisco la metà di quello che leggo,” esordiò, parlando con estrema precisione. “Tutto ciò che so è che ognuno di quei libri vecchi ha per me il proprio atmosfera.”

“Atmosfera?” chiese Wolf. “Suppongo che sia buffo parlare in questo modo,” continuò Christie, “ma tutte quelle strane

astrazioni non-umane, come la «sostanza» di Spinoza, e le «monadi» di Leibniz, e le «idee» di Hegel, non rimangono dure e logiche per me. Sembrano sciogliersi.” Si fermò e guardò Wolf con un sorriso, come per scusare la sua pedanteria estrema.

“Cosa intende per «sciogliersi»?” egli mormorò. “Intendo quello che dico,” rispose, con un tocco di fastidio, come se l’atto di pronunciare le

parole le fosse difficile e lei aspetasse che il suo interlocutore fosse in grado di cogliere il loro significato a prescindere. “Intendo che esse diventano ciò che io chiamo «atmosfera».”

“Il tono del pensiero che le aggrada di più, suppongo?” egli suggerì. Christie lo guardò come se egli avesse lanciato un bastone alla bolla di sapone che lei stava

soffiando. “Mi dispiace di essere così incapace di esprimere me stessa,” disse. “Non credo di pensare

per niente alla filosofia in termini di «verità».” “Come la concepisce, allora?” Christie Malakite sospirò: “Ce ne sono così tante!” mormorò. “Così tante?” “Così tante verità. Ma lei non deve farsi problemi nel seguire i miei modi goffi di mettere le

cose, Signor Solent. “La sto seguendo con il massimo interesse,” disse Wolf.

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Cowper Powys, Wolf Solent

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“Ciò che sto cercando di dire è,” proseguì, buttando fuori le parole quasi con ferocia, “io concepisco ciascuna filosofia, non come la «verità», bensì solo come un particolare paese, in cui posso viaggiare – paesi con la loro luce peculiare, i loro edifici gotici, i loro tetti inclinati, i loro viali alberati – ma temo di annoiarla con tutto questo!”

“Vada avanti, per l’amor del Cielo!” implorò. “È esattamente ciò che voglio sentire.” “Voglio dire, si tratta del modo di sentire le cose,” spiegò, “quando si sente la pioggia fuori

dalla finestra mentre stai leggendo un libro. Mi capisce? O, non riesco a metterlo in parole! Quando ti viene quella subitanea sensazione della vita che sta procedendo fuori … anche lontano da dove stai seduto … in tratti vasti di paesaggio … come se stessi viaggiando in una carozza e tutte le cose che passavi fossero … la vita stessa … i parapetti dei ponti con le foglie morte che li coprono … gli alberi agli incroci … le inferriate dei parchi … le luci delle lampade riflesse nei laghetti … non intendo, ben inteso, che la filosofia è identica alla vita … ma – O non vede ciò che intendo?” Si fermò con un gesto di stizzo.

Wolf si morse la labbra per sopprimere un sorriso. In quel momento fu quasi disposto a coccolare la piccola figura nervosa davanti a lui.

“Io so perfettamente ciò che intende,” disse alacramente. “La filosofia per lei, e anche per me stesso, non è affatto scienza! È piuttosto la vita stessa, purificata ed esaltata. È l’essenza della vita colta in volo. È la vita incorniciata, incorniciata dalla finestra di una stanza … di una carozza … dagli specchi … nei nostri momenti di malinconia … quando alziamo gli occhi da un libro coinvolgente … nei nostri sogni a occhi aperti – certo che io so perfettamente ciò che intende!”

Christie si spostò sul sofà e girò la testa in modo tale che lui potesse vedere solo un profilo delicato del suo viso, un profilo che, in quella posizione particolare gli sovvenne un ritratto del filosofo Cartesio!

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Casimir Lewy (1919-90) Significato e modalità (1976)

lingua originale: inglese edizione originale:Cambridge University Press, Cambridge

tr. it. R. Davies tema: verità e significato

genere letterario: trattato accademico (‘analitico’) Capitolo 2: Proposizioni e verità Nel capitolo precedente ho distinto tra proposizioni della forma:

(A) La proposizione che … è vera

e proposizioni della forma:

(B) La proposizione espressa dalla frase “…” è vera

E ho fatto notare che proposizioni della forma (A) non implicano, e non vengono implicate da, le corrispettive proposizioni della forma (B)1.

Orbene, spesso si dice che la verità presuppone significato; e adesso siamo nelle condizioni di spiegare il senso in cui questo è vero e il senso in cui è falso. È vero se significa che proposizioni della forma (B) implicano le proposizioni corrispettive della forma:

(C) La frase “…” è significativa (vale a dire, esprime una proposizione)

È falso se significa che proposizioni della forma (A) implicano le corrispettive proposizioni della forma (C).

Inoltre, si dice, come ha detto ad esempio F.P. Ramsey, che la nozione di verità è ridondante (o superflua) per il fatto che “p è vero” significa la stessa identica cosa di “p”.2

Siamo anche nelle condizioni di spiegare il senso in cui questo è vero e il senso in cui è falso. È vero se significa che proposizioni della forma (A) sono equivalenti a proposizioni della forma.

(D) …,

dove la stessa frase viene sostiuita per “…” in (D) come in (A). Ma la tesi di Ramsey è falsa se significa che proposizioni della forma (B) sono logicamente

equivalenti alle corrispettive proposizioni della forma (D). La distinzione tra le proposizioni della forma (A) e le proposizioni della forma (B) è assai

fondamentale, e la sua mancata osservanza ha portato a errori gravi. Procedo a discutere alcune delle conseguenze di questa distinzione. Facendo così

discuteremo in effetti un numero di problemi che sono in se stessi di una certa importanza. Nella sua Introduzione alla semantica, Carnap dice:

Si aggiunga un commento riguardo al modo di usare il termine ‘vero’ in queste discussioni… Qui noi usiamo il termine in tal senso che asserire che una frase è vera significa la stessa identica cosa che asserire la frase stessa; ad esempio, i due enunciati

1 Ma vedi la nota precedente [non inclusa nella dispensa: aggiunta di Davies]. 2 F.P. Ramsey, “Facts and Propositions”, Aristotelian Soc. Suppl. Vol. 7 (1927), ristampato in F.P. Ramsey,The Foundations of Mathematics and Other Logical Essays (Londra, 1931), pp. 142-3.

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Lewy, Significato e modalità

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“La frase ‘La luna è sferica’ è vera” e “La luna è sferica” non sono altro che due formulazioni della stessa asserzione.3

Un po’ più avanti nella stessa pagina Carnap afferma che naturalmente questo non costituisce una definizione del termine “vero”, bensì un criterio con il quale giudichiamo l’adeguatezza di una definizione di verità, vale a dire se essa si accorda o meno con le nostre intenzioni. E egli procede a dire che, se una definizione di un predicato Pri viene proposta come una definizione di verità, noi la accetteremo come una definizione adeguata se e solo se, in base a questa definizione, Pri soddisfa la summenzionata condizione, vale a dire che essa produce frasi come ““La luna è sferica” è … se e solo se la luna è sferica’, dove Pri (ad esempio “vero”) viene messo al posto di “…”.4

Risulta dunque chiaro che Carnap interpreta il “se e solo se” della condizione di adeguatezza di Tarski nel senso almeno di “strettamente implica ed è strettamente implicato da”. In realtà lo interpreta in un senso ancora più forte, quello in cui le proposizioni:

La frase “La luna è sferica” è vera

e:

La luna è sferica

sono identiche. Ma io non prendo atto di questo e lo interpreterò nel senso dell’interpretazione meno impegnativa indicata sopra.5

Implicitamente Quine adotta la stessa identica interpretazione nella sua recensione nel Journal of Symbolic Logic a un articolo di E.J. Nelson.6 Quine dice:

In esordio a questo intervento, ho dimostrato che non è necessario permettere l’inferenza a ‘a esiste’ a partire da ‘fa’ e da ‘~fa’. Ci risulta una direzione di pensiero, alquanto curiosa e tangenziale a questo punto, che merita di essere menzionata in conclusione. È la seguente: anche se non si può desumere ‘a esiste’ a partire da ‘fa’ e da ‘~fa’, si può desumere ‘‘a’ è significativo’, e non è che questo risuscita il problema originale sotto un’altra forma?7 Una risposta possibile è che ‘‘a’ è significativo’, se vero, è analitico, in modo tale che ‘fa’ e ‘~fa’ possono coumnque essere contraddittori; ma prima di accontentarmi di una risposta simile avrei voluto un’analisi soddisfacente della significatività. Una risposta alternativa è quella secondo cui non si può desumere ‘‘a’ è significativo’ a partire da ‘fa’, ma solo a partire da ‘‘fa’ è significativo’. Ma rimane la contro-risposta che ‘‘fa’ è significativo’ consegue da ‘‘fa’ è vero’, e ‘‘fa’ è vero’ consegue da ‘fa’. Paradossi che sorgono intorno alla parola ‘vero’ non sono, però, una novità.

Per chiarire meglio questa vicenda, prendiamo un esempio specifico.

3 R. Carnap, Introduction to Semantics (Cambridge, Mass., 1942), p. 26. 4 Chiamerò questa condizione ‘la condizione di adeguatezza per una definizione di verità di Tarksi’ o, per brevità, ‘la condizione di adeguatezza di Tarksi’. 5 Discuteremo più avanti la tesi di Tractatus-Carnap secondo cui equivalenza stretta è una condizione sufficiente (oltre che necessaria) per l’identità di proposizioni. 6 W.V.O. Quine, Review of E.J. Nelson, “Contradiction and the Presupposition of Existence”, Journal of Symbolic Logic, vol. 12 (1947), . 55. 7 Il ‘problema orginale’, che non discuteremo, verteva sulla questione se ‘fa’ e ‘~fa’ siano contraddittori o meno. Langford ha affermato che non lo sono adducendo il fatto che entrambi implicano “(Åx). fx ⁄ ~fx” e “a esiste”, che non sono necessari.

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Lewy, Significato e modalità

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Consideriamo: (1) La luna è sferica (2) La parola “sferica” è significativa (3) La frase “La luna è sferica” è significativa (4) “La luna è sferica” è vera

Il paradosso di Quine è dunque il seguente:

(A) (1) → (4);8

(B) (4) → (3); (C) (3) → (2).

Per la transitività di →, dunque, (D) (1) → (2)

Ma (D) è paradossale. Naturalmente, come faccio spesso anche io, Quine usa “paradossale” in questo contesto nel senso di “in conflitto con le intuizioni”. (Questo è un uso comune, legittimo e persino importante della parola. Naturalmente a coloro ai quali mancano di intuizioni filosofiche, non piace usare la parola in questo senso.)

In un articolo pubblicato sulla rivista Analysis,9 ho sostenuto che ci sono due interpretazioni (o sensi) della frase (4). Nello specfico, c’è un senso in cui (A) è vero ma (B) è falso, e un senso in cui (B) è vero ma (A) è falso. Non c’è però un senso di (4) in cui sia (A) che (B) sono veri. Perciò, ho concluso che il paradosso di Quine è risolto.

Per esprimerlo in modo più completo

Senso 1 Senso 2

(A) (1) → ��� ��� (1) ∉����

(B) (4) ∉����10 ��� (4) → (3)

(C) (3) → (2) (C) (3) → (2) (Do per scontato che (C) sia vero.)

Ora, nella raccolta dei suoi articoli Da un punto di vista logico,11 Quine si riferisce al mio articolo e, in effetti, concede che non ci sia paradosso qui e che egli si sia sbagliato (pp. 137n , 164). Non si esprime in modo molto chiaro in proposito, e io proporrò la sua opinione con parole mie. Ma se ho capito bene, adesso ritira (A) e adotta quella che ho chiamato la seconda interpretazione (o senso) di (4): Vale a dire, egli rinuncia al passo secondo cui (1) → ���, ma maintiene il passo secondo cui (4) → �3�.

8 [Lewy usa un segno grafico, noto come “lenza di pesce” e qui reso (per comodità dei font) con “→”, per “implicazione stretta”, che si definisce “necessariamente non (p e non q)” o “se p allora, necessariamente, q”. Il dibattito sull’analisi dei periodi condizionali è un topos della logica sin dalla Grecia antica che a tutt’oggi sembra non trovare consenso. Nota di Davies] 9 C. Lewy, “Truth and Signification”, Analysis vol. 8 (1947). In realtà, l’esempio usato è diverso, ma non tanto da influire sul punto centrale. 10 “∉” significa “non implica strettamente”. 11 W.V.O. Quine, From a Logica Point of View (Cambridge, Mass., 1953; 2a edizione rivista, New York e Evanston, 1961).

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Lewy, Significato e modalità

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In altre parole, egli ammette che il “se e solo se” della condizione di adeguatezza di Tarski non va interpretato nel modo in cui lui stesso e Carnap l’hanno interpretato. In effetti, egli dice “non è necessario affermare” che enunciati della forma:

“––” è vero-in-L se e solo se ––,

dove un unico enunciato qualunque viene scritto al posto dei trattini, sono analitici (p. 137n). Ma non dice che una volta egli stesso ha affermato tanto!12

Ciononostante, Quine sembra rimanere restio nell’accettare la mia prima interpretazione di (4). E così sembra indicare che, nell’affermare (A) ha semplicemente commesso un errore. Io penso che, in questo, manca di giustizia nei suoi propri confronti, e forse anche nei confronti del mio articolo su Analysis.

Per vedere perché le cose stanno così, ci chiediamo: Come va interpretato il “se e solo se” nella condizione di adeguatezza di Tarski? Tarksi,13 e adesso anche Quine, lo interpreta nel senso dell’equivalenza materiale (ossia della bicondizionale verofunzionale). Ne discutiamo.

Prendiamo la seguente proposizione:

(α) La proposizione espressa dalla frase italiana “La neve è bianca” è vera ≡ la neve è bianca14

Ho fomulato (α) usando la formula “la proposizione espressa dalla frase italiana “…”” anziché la formula “la fase italiana “…””. Ho fatto così in parte perché mi sembra questa la formulazione più giusta, e anche in parte perché voglio evitare l’obiezione – che non è pertinente in questa sede – che è improprio parlare di frasi come vere o false. Chi, d’altro canto, preferisce parlare di frasi come vere o false rimane libero di riformulare (α) di conseguenza.

A me sembra chiaro che (α) sia vera; ma in che cosa consiste la sua verità? O, per metterla in termini più generali, perché la condizione di Tarksi (interpretando il “se e solo se” come ≡) è un criterio per l’adeguatezza di qualsiasi definizione di verità? Sicuramente, la condizione non va considerata come arbitraria!

Per discutere di questo, consideriamo le seguenti proposizioni:

(1) La proposizione espressa dalla frase italiana “La neve è bianca” è la proposizione che la neve è bianca;

(2) La proposizione che la neve è bianca è vera;

(3) La proposizione espressa dalla frase italiana “La neve è bianca” è vera;

12 In comune con molti altri, Quine usa “analitico” qui (e nella sua recensione originale) per significare “logicamente necessario”. Tornermo più avanti a discutere il rapporto tra queste due nozioni. 13 Cr. A. Tarski, “The Semantic Conception of Truth”, Philosophy and Phenomenological Research, vol. 4 (1944). La definizione di verità per i linguaggi formalizzati viene proposta in A. Tarksi Pojecie Prawdy w Jezykach Nauk Dedukcyjnich (Varsavia, 1933). Traduzione tedesca (con nuova Nachwort) in Studia Philosophica, vol. 1 (1936). Traduzione inglese (basata sul testo tedesco) in A. Tarksi, Logic, Semantics, Metamathematics (Oxford, 1956). Niente di quanto detto in questo capitolo va interpretato come volto a sminuire l’importanza della monografia di Tarksi come contributo alla logica pura. Mi sembra giusto affermare questo a chiare lettere. 14 Uso “≡” per l’equivalenza materiale, “⊃” per implicazione materiale, “&” per la congiunzione e “∨” per la disgiunzione (Ovviamente quando la traduzione parla della lingua italiana, l’originale parla dell’inglese: chiarimento di Davies).

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Lewy, Significato e modalità

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(4) La neve è bianca.15 Dunque

(A) [(1) & (2)] → (3);

(B) [(1) & (3)] → (2);

(C) Se (A), allora (1) → [(2) ⊃ (3)];

(D) Se (B), allora (1) → [(3) ⊃ (2)]16

Da (A), (B), (C) e (D), arriviamo a

(E) (1) → [(3) ≡ (2)]

Ma (1) è vero; e da (1) e (E), arriviamo a

(F) (2) ≡ (3)

(F) è ovviamente equivalente a

(3) ≡ (2)

a cui applico, per motivi che si chiariranno tra poco, l’etichetta (γ). Se posso permettermi una nota a margine, si noti che il fatto che non è vero che (3) ↔ (2)

dimostra definitivamente che (1) non è logicamente necessario. Se (1) fosse logicamente necessario, sarebbe vero che (3) ↔ (2). Questo perché, ovviamente

{[(P & Q) → R] & ~�~P} ⊃ (Q → R)17

E questo è un’ovvietà lampante se la mettiamo nella forma equivalente;

{[(P → (Q ⊃ R] & ~�~P} ⊃ (Q → R).

Poiché è ovvio che qualunque cosa strettamente implicata da una proposizione necessaria è essa stessa necessaria. Quindi, opinione assurda di A.R: White, B.H. Medlin e J.J.C. Smart, secondo cui proposizioni come (1) sono logicamente necessaria, può essere definitivamente scartata.

Torniamo al filo del ragionamento. Si noti che (γ) non è ancora ciò che (α) – che non è altro che un esempio specifico della

condizione di adeguatezza di Tarksi – afferma. Ciò che (α) afferma è che (3) ≡ (4). Come arriviamo a (α) a partire da (γ)? Ovviamente, dobbiamo aggiungere

(β) (2) ≡ (4)

In altre parole:

(γ) (3) ≡ (2)

15 Chi lo preferisce può rifomulare (1)-(3) come segue: (1´) La frase italiana “La neve è bianca” significa che la neve è bianca (e nient’altro); (2´) Che la neve è bianca è vero; (3´) La frase italiana “La neve è bianca” è vera. 16 (C) e (D) si basano naturalmente sul principio modale secondo cui se (P & Q) � R, allora P � (Q � R). 17 [Lewy usa il simbolo “�” per “è possibile che”; quindi la formula “~�~P” è da intendersi come “non è possibile che non-P”, che è equivalente a “è necessario che P”. Nota di Davies.]

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Lewy, Significato e modalità

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(β) (2) ≡ (4)

quindi

(α) (3) ≡ (4)

Vale a dire,

[(γ) & (β)] → (α);

quindi

(β) → [(γ) ⊃ (α)]

Orbene, se (β) non fosse logiamente necessario sarebbe vero solo che

(γ) ⊃ (α)

mentre è chiaramente vero anche che

(γ) → (α)

Quindi (β) è logicamente necessario. In altre parole, la proposizione seguente è anche vera:

(β´) (2) ↔ (4) Ed è questo che Quine aveva intravvisto quando ha detto che ““fa” è vero” consegue da

“fa”, vale a dire quando ha affermato ciò che, nel mio esempio, è la premessa (A) del presunto paradosso. Se non fosse che egli non accetta questo, e quindi non accetta la mia prima interpretazion della frase ““La luna è sferica” è vera”, poiché questo lo impegnerebbe a distinguere tra il significato della frase “la proposizione che …” e il significato della frase “la proposizione espressa dalla fase “…””.

Quali sono le conseguenze di tutto ciò? Penso che le principali consequenze sono come segue. 1. La concezione “semantica” di verità presuppone una concezione “non-semantica” di verità – una concezione di verità, cioè, in cui “vera” si applica direttamente alle proposizioni e non alle frasi. In altri termini, dobbiamo distinguere tra “la proposizione che … è vera” e “la proposizione espressa dalla fase “…” è vera”. 2. Di conseguenza, dobbiamo riconoscere la distinzione tra il significato della frase:

La proposizione che …

e il significato della frase:

La proposizione espressa dalla frase “…”.

3. È chiaramente la proposizione necessaria (β) che costituisce la condizione di adeguatezza per quella che Tarksi chiama la concezione “classica” (ossia di corrispondenza) di verità, e non la proposizione contingente (α). 4. Nozioni modali sono chiamate in causa dal paradosso di Quine, e vanno riconosciute come tali, nonostante le proteste di Quine.

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Massimo Cacciari (1944-) ‘L’invenzione dell’individuo’ (1996)

lingua: italiano edizione originale: nella rivista Micro-Mega, poi ristampato in Dialogo sulla solidarietà

con il cardinale C.M. Martini, Edizioni Lavoro, Roma, 1997 tema: l’appartenenza ad un’unità sociale

genere letterario: saggio di rivista intellettuale (‘continentale’)

Enseña el Cristo: a tu prójimo amarás como a ti mismo,

mas nunca olvides que es otro1 Antonio Machado

Ricordiamo, per iniziare, alcune utili banalità. Essere politai nella polis non ha nulla a che fare con l’essere cives nella civitas; essere cittadini di un moderno Stato non ha nulla a che vedere con le due forme precedenti, e si potrebbe discutere se le diverse forme di dominio nelle quali si esprime la moderna forma-Stato non producano, a loro volta, forme completamente distinte di cittadinanza. Credo, inoltre, che la critica delle «soggettività forti», delle declinazioni «totalitarie» della soggettività politica, potrà portare ormai ben poco lontano. Siamo usciti dolorosamente dalla colpevole illusione che fossero i «grandi conglomerati tirannici» a produrre guerra, intolleranza, inimicizia, aggressività, e che una volta, appunto, dissolti, sarebbe stato finalmente possibile inaugurare un’epoca di pace, di convivenza, di reciproca comprensione.

Per pensare il termine «comunità», in modo storicamente determinato, al di fuori di vuoti dover-essere, sarà necessario ripartire dalla considerazione dell’individuo, più precisamente: dall’invenzione dell’individualità contemporanea, intorno a cui ruota ogni contemporaneo rapporto di dominio, inteso (e così dev’essere, simmelianamente, inteso) come scambio, interazione (anche quando appare come pura sopraffazione del dominante sul soggetto dominato).

Questa «invenzione» è stata spietatamente analizzata da Tocqueville, ed è a lui che è necessario sempre fare ritorno per ogni discorso realistico, disincantato sulla democrazia.

Una «specie umana del tutto nuova» s’impone sulla scena europea. Essa è sì l’irresistibile prodotto dell’intera storia dello spirito europeo, eppure, nello stesso tempo, ne è anche l’oltrepassamento; ne costituisce l’inveramento e il compimento. Si tratta dell’homo democraticus. Intollerante di ogni dipendenza, dogmaticamente certo della «naturale bontà» dei propri appetiti (come la «scienza» economica gli certifica), egli è però anche, in uno, costantemente bisognoso di protezione, incapace di vera solitudine, pronto perciò, non appena i suoi «diritti» gli appaiano minacciati, a trasformarsi in massa. La sua pretesa di integrale «libertà», che significa volontà di porre il proprio particolare interesse immediatamente come l’universale, conduce necessariamente all’organizzazione di tali interessi, alla «palude delle consorterie», che affermano legittimo soltanto quel potere che immediatamente li rappresenta – e che conducono perciò alla distruzione dell’idea stessa di rappresentanza. Ma poiché una

1 Nonostante la pletora di parole straniere – greche, latine, francesi e tedesche – contenute nel saggio, Cacciari offre una traduzione di questo facilissimo testo spagnolo (che, peraltro nella ristampa contempla un’errore tipografico) [Nota di Davies].

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Cacciari, ‘L’invenzione dell’individuo’

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democrazia diretta, prodotto di una disgregazione individualistica, è impossibile, ovvero conduce alla catastrofe dello stesso interesse individuale, ecco che l’homo democraticus richiederà allora difesa, protezione, tutela con la stessa inarrestabile forza con cui rivendicava la propria individua («empia» la chiama Tocqueville) libertà, e in termini perfettamente indifferenti alla forma del regime politico.

L’homo democraticus di Tocqueville – affine, per tanti aspetti, all’«ultimo uomo» di Nietzsche, e, per altri, all’«uomo del sottosuolo» dostoevskijano – rimane il grande assente nel dibattito politico e politologico attuale. Se ne ignorano, o se ne «epochizzano», i tratti, e «si rimuove» così il fatto che tutti i sistemi di potere contemporanei si fondano sull’ «interazione», sullo «scambio» con questa figura – che tutti i «condottieri» contemporanei sono stati anche «condotti» dal suo inarrestabile («terrificante» per Tocqueville) avanzare. Tocqueville riteneva che soltanto l’assuefazione ad abitudini, costumi, «sentimenti» di giustizia e amicizia potesse bilanciarne gli effetti o, almeno, ritardarli, potesse cioè «trattenere» il dilagare planetario di questa «specie», che percepisce tutti i propri diritti come assoluti e che perciò, per implacabile eterogenesi dei fini, è sempre anche disponibile ad esiti totalitari.

Ma l’appello a questi «valori», la riaffermazione di «collanti» etici o etico-religiosi, anche quando non si mistifichino in reazionarie ideologie aristocratiche, che cosa possono nei confronti dell’individuo estraneo in sé ad ogni foedus, che non sia visto in funzione della gelosa tutela della propria stessa individualità? Quale patto fondamentale, quale «giuramento» può valere per l’individuo disposto a misurarne l’efficacia esclusivamente sul metro della indifferibilità del proprio scopo? E la democrazia contemporanea neppure sarebbe concepibile senza l’«invenzione» di tale individuo... Da qui le aporie in cui è sempre di nuovo coinvolto il discorso democratico; da qui il fatto stesso che le proposte di modifica o di riforma dei suoi ordinamenti (e la democrazia è comunque processo, mai sistema) appaiono «meccanismi di contenimento» rispetto ad una «energia» destinata sempre a trascenderli. Da qui i balbettanti tentativi di «validazione assiologica» (Sartori) di cui essa è in grado di disporre.

(Si noti come queste aporie non si risolverebbero neppure presupponendo, fantasticamente, una perfetta competenza-razionalità da parte dell’homo democraticus. Egli infatti potrebbe esser convinto al differimento delle sue «spettanze» soltanto sulla solida base della fede in programmi che ne prevedano la massimizzazione. Soltanto la fede che l’illimitato progredire tecnologico garantirà comunque il soddisfacimento dei propri interessi potrebbe spingere, ad esempio, l’homo democraticus ad «astenersi» dall’esponenziale crescita del suo consumo di risorse non rinnovabili).

All’individuo contemporaneo – idiotes, e perciò stesso comune, e perciò stesso formante sempre una «massa» di individui «uguali» – non è forse oggi possibile contrapporre configurazioni pratico-politiche. Il «contraccolpo» alla sua storia non appare «progettabile». Se è vero che essa è figura del compimento, necessariamente non potrà essere «superata» da altre potenze a tale storia immanenti. E questa la fatale contraddizione di tutte le ideologie rivoluzionarie del «secolo breve»: pretendere di «oltrepassare» l’homo democraticus attingendo sostanzialmente a dinamiche, energie, idee che appartengono al suo stesso destino. Tantomeno potremmo contrapporgli nostalgie regressive per «comunità organiche» – che in tanto avrebbero senso, in quanto affermassero il primato dell’ethos-daimon (la divinità dell’ethos) rispetto al «carattere» dell’individuo. Le idee contemporanee di «comunità» si reggono invece sulla stessa antropologia positiva che fonda l’individualismo corporato attuale, e perciò contrastano violentemente con quelle classiche della polis.

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Cacciari, ‘L’invenzione dell’individuo’

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Non può esservi continuità dialettica tra individuo contemporaneo e il pensiero del suo «oltre»; intorno a tale consapevolezza andrebbe fatta ruotare una «giusta» interpretazione dello stesso rapporto tra «ultimo uomo» e Über-mensch in Nietzsche, inquanto figura della dépense radicale (contraccolpo della volontà di potenza, giunta al suo culmine, su se stessa; figura della Gelassenheit) – o anche della relazione tra etico e religioso in Kierkegaard. Ma è certo che tali figure, pur trascurando le loro interne aporie, non permettono di pensare ad alcuna «comunità». Esse esprimono, per così dire, singolarità assolute. Da qui l’ulteriore difficoltà: proprio quelle idee che sembrano aver più profondamente affrontato e criticato l’homo democraticus appaiono le più indisponibili ad esser trattate politicamente-praticamente. Lo sguardo più dissacrante sull’idolatria dell’individuo non ha affatto come scopo la costruzione né di respublicae, né di civitates, né di poleis, né di Gemeinschaften ma piuttosto l’elaborazione di una «teoria critica» di queste stesse forme politiche. Da tale opera di dissoluzione critica sembrano potersi «salvare» soltanto declinazioni dichiaratamente «deboli», artificiali, convenzionalistiche dell’idea di «comunità».

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Letture autonome

Nota: nella misura del possibile, tutti i libri e articoli segnalati sono a disposizione o nella biblioteca di Facoltà in Sant’Agostino o presso la Biblioteca Civica «Angelo Maj» in Piazza Vecchia. In caso di difficoltà, si contatti il docente. Percorsi di approfondimento per i non-frequentanti Oltre ai testi indicati nell’‘Introduzione’ sotto la voce ‘Obblighi comuni’ (p. 4), ai non-frequentanti è richiesto l’approfondimento di un tema a scelta inerente ai testi di base. In questa sezione, indichiamo alcune letture pertinenti ad alcuni degli argomenti appropriati a tale scopo. Per quanto riguarda i temi più storici sono indicate delle letture dette ‘primarie’, che richiedono attento e dettagliato scrutinio, e su cui quelle ‘secondarie’ offrono commento e inquadramento.

Studenti intenzionati a proporre un percorso personale devono comunque leggere il materiale di obbligo comune e, in base ad esso, consultare con il docente del corso prima di procedere all’elaborazione della loro alternativa. 1. Il problema della conoscenza e la natura dello scetticismo

(a) Lo scetticismo antico (che cos’è un ‘tropo’ e come produce sospensine del giudizio?) Testo primario: Sesto Empirico Schizzi pirroniani, libro I, capitoli i–xiii (= §§1-35) (qualsiasi edizione o traduzione) Testi secondari: M. L. Chiesara, Storia dello scetticismo greco, Einaudi, Torino, 2003, pp. vii-xii e 159-201; E. Spinelli, ‘L’antico intrecciarsi degli scetticismi’ in M. De Caro, E. Spinelli (a cura di) Scetticismo, Carocci, Roma, 2007, pp. 17-38. (b) Lo scetticismo nel mondo moderno (possiamo dubitare l’esistenza del mondo fisico?) Testo primario: Renato Cartesio (René Descartes) Meditazioni metafisiche, I (qualsiasi edizione o traduzione) Testi secondari: R. Popkin, Storia dello scetticismo, (1960), Il mulino, Bologna, 1995 cap. II e IX-X; E. Scribano, Guida alla lettura delle Meditazioni metafisiche di Descartes, Laterza Bari-

Roma, 1997, pp. 3-58. Anche pertinenti: R. Nozick, Spiegazioni filosofiche, (1981), Il saggiatore, Milano 1987, cap. 3, § II; H. Putnam, Ragione, Verità e Storia (1981), Il saggiatore, Milano, 1985, cap. 1. 2. Lo statuto delle affermazioni filosofiche (a) Le dottrine non scritte di Platone (è possibile trasmettere la saggezza attraverso i libri?) Testo primario: il brano tratto dal Fedro di Platone nella dispensa a pp. 15-9 Testi secondari: J.N. Findlay, Platone, le dottrine scritte e non scritte, (1974) Vita e pensiero, Milano, 1994, pp. 27-70;

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Letture autonome

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G. Reale, Platone, Verso una nuova interpretazione, Vita e pensiero, Milano 1997 (20a edizione) cap. IV (la paginazione varia a seconda dell’edizione); M. Vegetti, Quindici lezioni su Platone, Einaudi, Torino, 2003, pp. 53-65. (b) La legge di contraddizione (si può fondare la nozione stessa di verità?) Testo primario: il testo tratto dal libro IV della Metafisica di Aristotele, nella dispensa a pp. 29-31; Testi secondari: T.H. Irwin, I princìpi primi di Aristotele, (1988), Vita e pensiero, Milano, 1988, pp. 225-47; P.G: Odifreddi, Il diavolo in cattedra, Einaudi, Torino, 2003, pp. 60-71; F: Berto, Teorie dell’assurdo, Carocci, Roma, 2006, pp. 21-46. (c) L’attrattiva del relativismo (può tutto essere relativo?) Testi primari: il brano dal Teeteto di Platone nella dispensa a pp. 23-5 e quello di Nietzsche Testi secondari: A. Schopenhauer, L’arte di ottenere ragione, (1830/1), Adelphi, Milano, 1991, pp. 13-71; G: Romeyer Dherbey, I sofisti, (1995), Xenia, Milano, 2000, pp. 5-23; J.R. Searle, Occidente e multiculturalismo (1995), Sole24Ore, Milano, 2008, pp. 21-77. 3. Tempo e causalità (a) La realtà del tempo (può il tempo essere solo un’apparenza?) J. E. McTaggart, ‘L’irrealtà del tempo’ (1908) e cap. xxxiii della Natura dell’esistenza (1927)

nel suo (a cura di L. Cimmino) L’irrealtà del tempo, Rizzoli, Milano, 2006, pp. 121-42 e 187-213;

M. Dummett, ‘Una difesa della prova di McTaggart’ (1960) nel suo Verità e altri enigmi (1978) Il saggiatore, Milano, 1996;

R. Campaner, ‘Tempo e serie temporali: il dibattito analitico contemporaneo sulla filosofia del tempo, Rivista di filosofia, 95 (2004)

(b) Il tempo in rapporto al fatalismo (se il futuro è fisso dall’eternità, che scelta ho?) I testi primari presenti nella dispensa sono: il capitolo dal Sull’interpretazione di Aristotele e le discussioni di Sant’Agostino, di Boezio e di San Tommaso. Testi secondari: G. Ryle, Dilemmi, (1954) Ubaldini, Roma 1986, lezione II; M. De Caro, Il libero arbitrio, Laterza, Bari-Roma, 2004, pp. 3-86 (discute sia determinismo che fatalismo) Film utili per l’esemplificazione del fatalismo. The Butterfly Effect, regia di P. Howitt, (1997) Final Destination, regia di J. Wong (2000) Sliding Doors, regia di E. Bress e J.M. Gruber (2004); Donnie Darko, regia di R. Kelly (2004) (c) Il tempo in rapporto al determinismo (se il passato causa il presente, che scelta ho mai avuto?) Testi primari:

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Letture autonome

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Il brano da La Place nella dispensa; D. Hume, Ricerca sull’intelletto umano, I, VIII (qualsiasi edizione o traduzione); I. Kant, Critica della ragion pura, ‘Dialettica trascendentale’, Libro II, cap. ii (‘L’antinomia

della ragion pura’) terza antinomia (pp. A444-51; B 473-9) (qualsiasi edizione o traduzione);

Testi secondari: A.J. Ayer, ‘Libertà e necessità’ (1954) in La logica della libertà, a cura di M. De Caro,

Meltemi, Roma, 2002, pp. 41-54; P. van Inwagen, ‘L’incompatibilità fra libero arbitrio e determinismo’ (1975) in La logica

della libertà a cura di M. De Caro, Meltemi, Roma, 2002, pp.135-56. (d) Causa e legge di natura (come si spiegano i fenomeni naturali?) Testi primari: I brani di Galileo, dal Mondo di Cartesio e da La Place nella dispensa; Libro II della Fisica di Aristotele (qualsiasi edizione o traduzione); Testi secondari: B. Russell, ‘Leggi causali fisiche e psicologiche’ (1921) in Metafisica, a cura di A. Varzi,

Laterza, Bari-Roma, 2008, pp. 414-7; M. Benzi, Scoprire le cause, Franco Angeli, Milano, 2003. (e) I miracoli (si possono spiegare i fenomeni apparentement non-naturali?) Testi primari: i brani di Hobbes, Spinoza, Leibniz e Hume nella dispensa Altre letture: J. Douglas, Il criterio, (1754) in Disputa sui miracoli a cura di M. Doni, Medusa, Milano,

2005, pp. 53-81; C. Viano, Le imposture degli antichi e i miracoli dei moderni, Einaudi, Torino, 2005, pp. 50-

113. Strumenti di consultazione (anche per la stesura di una tesina) Il materiale indicato in questa sezione non è obbligatorio per gli scopi del corso, ma può essere utile per chi voglia orientarsi nella filosofia e costruirsi un percorso proprio.

Gli studenti che hanno fatto filosofia alle superiori avranno studiato un manuale che può, nei migliori dei casi (e quindi non tutti), offrire spunti bibliografici per approfondimento. Tra questi possiamo segnalare: N. Abbagnano, G. Fornero, Itinerari di filosofia: protagonisti, testi, temi e laboratori, Paravia,

Torino, 2002 (e poi rielaborato quasi annualmente per motivi grettamente economici). Anche dello stesso Abbagnano sono: Storia della filosofia, (8 voll) iniziata nel 1946 e ripubblicata dalla TEA, Torino, in edizione

economica nel 1995; e il suo dizionario dei concetti filosofici esposti nel loro sviluppo storico: Dizionario di filosofia (1960), UTET, Torino, 1993. Fornero, in collaborazione con Salvatore Tassinari ed altri, ha aggiornato gli ultimi volumi della Storia fondata da Abbagnano e ha prodotto Le filosofie del novecento (2 voll.), Mondadori, Milano, 2002, in edizione economica dal

2004. Altri dizionari, quali

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Letture autonome

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Dizionario di filosofia (2° ed. 1993) a cura di G. Vattimo (et al.), Garzanti, Milano, 1999; e Dizionario di filosofia, (1960) a cura di D.G. Runes, Mondadori, Milano, 1972,

forniscono informazioni anche su individui, scuole e movimenti oltre a definizioni di termini tecnici. Per notizie su singole opere, con un breve riassunto e indicazioni sulla disponibilità di versioni italiane, vedi

Dizionario delle opere filosofiche, (1988) a cura di F. Volpi, Mondadori, Milano, 2000. Va notato che l’uso esteso di materiale desunto/copiato da queste fonti è facilmente

riscontrabile, e conta come plagio (vedi sotto ‘Originalità’ nel ‘Prontuario’ a p. 132).

Introduzioni generali alla filosofia A differenza dei manuali italiani, che privilegiano lo sviluppo storico (o dossografico) della disciplina, esiste un approccio alternativo, e dominante nel mondo anglofono, che inizia con ‘i problemi’. Tra questi a disposizione in italiano, segnaliamo: B. Russell, I problemi della filosofia, (1912), Feltrinelli, Milano, 1959 (un – forse il – classico

del genere); S. Law e D. Postgate, Filosofia per tutti, (2000) Fabbri, Milano, 2001 (un libro che si

pubblicizza come ‘per tutte le età’, perché illustrato con vignette) S. Blackburn, Pensa, (1999), Il Saggiatore, Milano, 2001; N. Warburton, Il primo libro di filosofia, (1991), Einaudi Torino, 1998; e T. Nagel, Una brevissima introduzione alla filosofia, Il saggiatore, Milano 1996 Dello stesso Nagel sono i saggi un po’ più impegnativi, ma altrettanto stimolanti raccolti in, T. Nagel, Questioni mortali, (1979), Il Saggiatore, Milano, 1986. ‘Parafilosofia’ Con la non-parola ‘parafilosofia’ s’intendono testi in due categorie.

In primo luogo, ci sono quelli che parlano sì di filosofi e delle loro dottrine, ma cercando di evitare la pesantezza del discorso scolastico/accademico. Forse l’esempio più di successo di questo genere è il romanzo:

J. Gaarder, Il mondo di Sofia, (1990), Bompiani, Milano, 1993, che introduce la protagonista (per l’appunto una ragazza di nome Sofia) ai vari momenti della storia della filosofia come incontri personali, e che poi fornisce il punto di partenza per il carteggio (genuino, a quanto pare) tra una ragazza undicenne e un professore universitario di filosofia:

Nora K. e V. Hösle, Aristotele e il dinosauro (1996), Einaudi, Torino, 1999. Un percorso simile viene tracciato in modi diversi (motivo per cui riportiamo i rispettivi

sottotitoli) da W. Weischedel, La filosofia dalla scala di servizio: i grandi filosofi tra pensiero e vita

quotidiana, (1966), Cortina, Milano, 1996; e E. Bencivenga, Platone, amico mio: i filosofi rispondono alle grandi domande della nostra

vita, Mondadori, Milano, 1997. Dello stesso Bencivenga possiamo anche segnalare:

La filosofia in trentadue favole, Mondadori, Milano, 1991. Negli ultimi anni sono apparsi diversi libri che adottano un formato simile a quello della

favola, in cui si passa velocemente da un argomento filosofico all’altro tramite l’uso di casi immaginari o di attualità, cercando di esplicitare il loro contenuto concettuale. Esempi di questo genere sono:

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Letture autonome

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R. Casati, A. Varzi, Le semplicità insormontabili: 39 storie filosofiche, Laterza, Bari-Roma, 2004;

J. Baggini, Il maiale che vuole essere mangiato e altri 99 esperimenti mentali, (2005) Cairo, Milano, 2006,

A. Massarenti, Il lancio del nano e altri esercizi di filosofia minima (2006), ripubblicato da Il Sole 24 Ore, Milano, 2007. Il che ci porta alla seconda categoria di ‘parafilosofia’, costituita da scritti la cui ispirazione

deriva da temi o problemi filosofici, ma che li presenta in modi più o meno stravagante. Di questo genere sono senz’altro i classici I viaggi di Gulliver (1726) di Jonathan Swift e Candido (1759) di Voltaire. I testi Alice nel paese delle meraviglie (1865) e Alice attraverso lo specchio (1872) di Lewis Carroll. Mentre gli scritti di Lewis Carroll (pseudonimo di un matematico di professione) sono prevalentemente imperniati su paradossi logici, tanti dei racconti del Padre Brown di G. K. Chesterton vertono sulle varie forme di fraintendimento e di fragilità umana.

Il grande argentino Jorge Luis Borges scrisse molte parabole che illustrano tematiche metafisiche, logiche e morali con un tocco sempre leggero ed icastico (perché, diceva, era troppo pigro per scrivere romanzi), e che sono disponbili in varie traduzioni e collezioni italiane. Anche divertenti sono i racconti di Achille Campanile e i saggi brevi (spesso redatti in un primo momento per la rubrica ‘La bustina di Minerva’ sull’Espresso e poi ripubblicati in vari volumi editi da Bompiani) di Umberto Eco.

Accanto alla ‘parafilosofia’ si collocano opere con intenti quasi puramente di divertimento, giocando su concetti filosofici, di cui una in forma romanzesca:

D. Adams, Guida galattica per gli autostoppisti, (1980), Mondadori, Milano, 1996, che, dopo un inizio un po’ lento e macchinoso, sviluppa un’esilarante serie di gag spaziali su i temi dello spazio e del tempo; di questo è apparso anche un film nel 2005. Segnaliamo infine due libri americani di battute: J.A. Paulos, Penso, dunque rido: l’altra faccia della filosofia, (2000) Feltrinelli, Milano, 2004 T. Cathcart e D. Klein, Platone e l’ornitorinco: le barzellette che spiegano la filosofia (2006),

Rizzoli, Milano, 2007.

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Prontuario per la stesura di una tesina Valore Una tesina vale 5 crediti formativi universitari (CFU). Presentazione La tesina va redatta dallo studente stesso in lingua italiana in unica copia dattiloscritta e consegnata con almeno quindici giorni di anticipo rispetto alla data dell’appello in cui si vuole sostenere l’esame relativo al corso.

La rilegatura della tesina è a scelta dello studente: qualsiasi metodo (dal graffetto alla rilegatura come brossura) è accettato purché assicuri l’integrità del testo.

La pagina di copertina, che non conta come pagina del lavoro, deve contenere le seguenti informazioni:

cognome e nome dello studente; numero di matricola; titolo del lavoro; il titolo del modulo per cui viene presentato (con codice); numero arrotondato delle parole; e data prevista della sessione di esame.

Se la tesina è articolata in paragrafi o sezioni, un sommario o indice può apparire insieme al materiale di titolo e non venir contato nel totale del lavoro.

Conteggio delle parole L’indicazione (p. 4 sopra) di lunghezza di ‘5-10 pagine’ si traduce nella realtà come segue.

Una pagina è un foglio di carta A4. Il testo va stampato in spazio 1,5 o 2 in un font leggibile di almeno 12 pt con margini di intorno ai 2,5 centimetri in alto e basso e su entrambi i lati (di più a sinistra se richiesto dalla rilegatura).

Con queste dimensioni, il numero delle battute a pagine è approssimativamente 2,000, e il numero delle parole intorno alle 400. Quindi, il totale dello scritto va dalle 10,000 battute (2,000 parole) alle 20,000 battute (4,000 parole); ogni programma di word processing ha la capacità di contare i caratteri e le parole; chi redige il lavoro con una macchina da scrivere manuale può stimare il totale in base ad una campione del testo.

Come già detto, la pagina di copertina è esclusa dal conteggio. In modo simile, la lista di letture e altri rimandi, che si trova in fonda al testo, non va contato. Tuttavia, le note sono incluse. Originalità Come insieme, il testo esprime il pensiero del suo autore e non va copiato o parafrasato da qualsiasi altra fonte senza le dovute indicazioni, pena il reato (non solo accademico e morale, ma anche legale) di plagio.

La punizione accademica per plagio varia dall’insufficienza in caso di una tesina molto vicina a un testo pubblicato alla riduzione del voto nonostante la sua apparente qualità. Lo studente è sempre libero di contestare un’accusa di plagio, così come il docente è libero di sostenerla. Se lo studente non è disposto ad accettare la valutazione del docente, può sostenere l’esame con un altro membro della commissione d’esame.

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Prontuario per la tesina

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Citazioni La parafrasi è lecita quando chi scrive estrae il succo o la parte pertinente di un altro testo e dà un’indicazione del punto da dove viene. La citazione è la prassi di prendere in prestito le parole esatte di un altro testo e di riconoscerne la proprietà.

Esempio di parafasi1:

Nel capitolo XXVII del suo libro, Beccaria osserva come la pena di morte non sia efficace come deterrente. Questo ragionamento dipende ...

Il rimando è sufficientemente preciso per gli scopi: la deterrenza è oggetto del intero

capitolo in questione e sappiamo che il libro è Dei delitti e delle pene. La parafrasi non riporta le parole esatte del testo originale: la parola ‘efficace’ appare nel capitolo citato; la parola ‘deterrente’ non ci appare, ma è utile come riassunto.

Esempio di citazione: Beccaria osserva come, ‘[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno

scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti’15. Questo ragionamento dipende ...

Notiamo una serie di aspetti di questa operazione. Primo, le parole citate vanno messe tra virgolette; queste possono essere singole (‘...’),

doppie (“...”) o a lisca di pesce («...»). Secondo, sono le parole esatte così come appaiono nel libro da cui si cita. L’iniziale ‘n’

nella citazione corrisponde all’inizio di una frase e quindi, nell’originale è in maiuscolo. Ma, nella citazione, appare in mezzo a una frase; quindi l’ingerenza tipografica va segnalata con parentesi, preferibilmente, per distinguerli da parentesi già presenti nel testo, quelle quadre ([ e ]) o increspate ({ e }); se una parte della frase beccariana, ad esempio da ‘divenuto’ a ‘che è il freno’, è da tralasciare, inseriamo tre punti di sospensione tra parentesi quadre (o increspate) per indicare l’omissione ([…] o {…}). Se vogliamo enfatizzare una parola o una frase, si usa corsivo (sottolineatura per chi non dispone di una stampante a getto d’inchiostro o laser) e si aggiunge in nota ‘corsivo nostro’; qualora il testo citato contenga un’enfasi, si aggiunge ‘corsivo originale’.

Terzo, questo è un brano relativamente lungo e, di solito, quelli di oltre 30 parole vanno messi con un rientro al margine sinistro con una riga bianca prima e dopo e senza virgolette. Quindi, se si tolgono le parole come sopra, il risultato sarebbe:

Beccaria osserva come, ‘[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che [...] è il freno più forte contro i delitti’15. Questo ragionamento dipende...

Mentre, con testo intero, si ha:

1 Gli esempi vengono presentati attorniati da una ‘scatola’ allo scopo di distinguerli dai commenti che se ne fanno. Questa prassi NON è da copiare nella stesura della tesina.

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Prontuario per la tesina

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Beccaria osserva come,

[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti15.

Questo ragionamento dipende...

Quarto, c’è un rimando ad una nota (‘15’). Tutti i programmi di word processing sono in grado di generare automaticamente note a piè di pagina; chi non dispone di tali attrezzature può raccogliere le note in fondo al testo, numerate in sequenza.

Note Le note a piè di pagine raccolgono i dati bibliografici e di solito appaiono (automaticamente) in un corpo due punti più piccolo di quello del testo. Si scoraggia l’uso delle note per commenti ulteriori: o la controversia è rilevante e deve trovare il suo posto nello sviluppo del ragionamento all’interno del testo, o non è rilevante e va soppressa.

I dati bibliografici si presentano, nei limiti del possibile, uniformamente. Per gli scopi del corso, ci sono tre categorie di materiale a stampa da prendere in considerazione: (i) testi primari (ii) altri libri; e (iii) articoli da riviste e miscellanee (volumi che raccolgono scritti di più autori). Siti internet vengono citati riportando l’URL.

(i) Per la maggior parte dei testi classici esiste già un sistema di riferimento standardizzato. Ad esempio, la paginazione, con quadrante o colonna pagine, più le righe, di Platone risale all’edizione dello Stephanus (Henri Estienne) in tre volumi del 1578, e di Aristotele a quella di Bekker del 1831-6. Questi sistemi, consolidati e utilizzati da tutti commentatori, vengono riportati in quasi tutte le edizioni e traduzioni moderne, e sono da privilegiare rispetto alla numerazione delle pagine del testo che si ha in mano. Testi, come L’etica di Spinoza, che sono suddivisi in piccole sezioni, o, come il Sulla natura delle cose di Lucrezio, che sono articolati in libri e hanno righe numerate, possono essere citati con i numeri forniti nel testo. È comunque da segnalare quale edizione o traduzione è stata adottata.

(ii) I rimandi a libri vanno organizzati nell’ordine: autore; titolo in corsivo; nel caso, data di prima pubblicazione tra parentesi; nel caso, nome/i del/i curatore/traduttore/i; casa editrice; città di pubblicazione; anno di pubblicazione; e pagina/e.

Per la nota alla citazione fatta sopra, questo risulta come segue:

15 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965, pp. 63-4.

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Prontuario per la tesina

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Se la successiva citazione è alla stessa opera, il rimando può prendere la forma o 16 Beccaria, op. cit., p. 64. togliendo l’iniziale dell’autore già citato (‘op. cit.’ significa ‘opera citata’) o 16 Op. cit., p. 64. Se due citazioni di seguito fanno riferimento alla stessa pagina, possono apparire così: 8 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965, p. 62. 9 Loc. cit.. oppure 9 Ibid..

(dove ‘loc. cit.’ significa ‘luogo citato’ e ‘ibid.’ [o l’italiano ‘ivi’] significa ‘lo stesso posto nel testo’). Talvolta si usa ‘ivi’ al posto di ‘ibid.’. Se, dopo aver citato un’altra fonte, si ritorna a un testo già citato, si può avere una sequenza di questo genere: 15 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965, pp. 63-4. 16 C. Cantù, Beccaria e il diritto penale, Sansoni, Firenze, 1862, p. 12. 17 Beccaria, op. cit., p. 65. O, invece di ‘op. cit.’, un titolo abbreviato (‘Dei delitti’) può servire come indicazione utile a chi legge.

(iii) I rimandi ad articoli vanno organizzati nell’ordine: autore; titolo del articolo tra virgolette; nel caso, data di prima pubblicazione tra parentesi; titolo della rivista o miscellanea in corsivo (o tra virgolette a lisca di pesce: questa forma è normale solo in Italia); nel caso di una miscellanea, nome del curatore; nel caso di una miscellanea, casa editrice; nel caso di una miscellanea, città di pubblicazione; nel caso di una rivista, l’anno e il numero; anno di pubblicazione (nel caso di una rivista, messo tra parentesi); e

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Prontuario per la tesina

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pagina/e. Esempio di un rimando in nota ad un articolo di rivista:

2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, Rivista di Storia della Filosofia, XLI, (1986), p. 14.

che era poi ripubblicato in una collezione degli interventi della stessa studiosa:

2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, (1986), nel suo Filosofia e scienza nel pensiero ellenistico, Bibliopolis, Napoli, 1991, p. 153.

Supponiamo anche (in questo caso, fantasiosamente) che, come un ‘pezzo da antologia’, lo stesso saggio viene raccolto in una miscellanea; in quel caso il rimando avrebbe la seguente forma: 2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, (1986), in Logica ellenistica, a cura di A.M. Ioppolo, Laterza, Bari-Roma, 2010, p. 97.

Per un articolo pubblicato per la prima volta in una miscellanea, in questo caso gli atti di un

convegno, si ha:

3 C. Natali, ‘Attività di Dio e attività dell’uomo nella Metafisica di Aristotele’, in Aristotele: Perché la metafisicsa, a cura di A. Bausola e G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1994, pp. 190-1. Bibliografia In fondo alla tesina, cominciando su una nuova pagina, va messa una lista dei testi citati e effettivamente consultati. Oltre alle letture indicate (ai frequentanti) o obbligatorie (per i non-frequentanti), tutto l’altro materiale utilizzato nella stesura della tesina va elencato: ricerche bibliografiche intraprendenti sono viste di buon occhio. Come già detto, l’elenco bibliografico è escluso dal conteggio delle parole.

L’ordine della lista è quello alfabetico per l’iniziale del cognome dell’autore. E il formato corrisponde a quello delle note con poche varianti: (i) nel caso di un testo che ha il proprio sistema di rimandi, come Platone e Aristotele,

l’edizione o traduzione usata va citata con indicazioni del tipo di pubblicazione; se si citano più di un testo, tutti vanno elencati;

(ii) il cognome dell’autore viene prima del nome o iniziale per osservare l’ordine alfabetico; (iii) non si ripete il nome dello stesso autore che viene citato più di una volta, ma per il

secondo testo si mette un trattino sulla nuova riga; (iv) nel caso di un’opera in più volumi, si indica il numero di volumi tra parentesi prima della

casa editrice; (v) nel caso di un articolo, le pagine di inizio e di fine;

Page 136: Istituzioni di filosofia - UniBG 24096 08-9... · Introduzione 4 Obblighi per frequentanti e non-frequentanti 4 (1) Obblighi comuni 4 (2) Obblighi e modalità d’esame per i frequentanti

Prontuario per la tesina

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(vi) per motivi puramente estetici, si mette un rientro (di mezzo centimetro = 18pt) sulle righe successive se il rimando si estende su più di una riga. Così, abbiamo, ad esempio,

Aristotele, Etica Nicomachea, trad. it. con testo greco a fronte, a cura di G. Reale, Rusconi,

Milano, 1992. –– Etica Nicomachea, trad. it. A. Plebe in vol. III di Opere, a cura di G. Giannantoni, (4

volumi), Laterza, Bari-Roma, 1973. –– Metafisica, trad. it. con testo greco a fronte, a cura di G. Reale, (3 volumi), Vita e pensiero,

Milano, 1993. Berti, E., Aristotele nel Novecento, Laterza, Bari-Roma, 1992. Jaeger, W., ‘Genesi e ricorso dell’ideale filosofico della vita’, (1928), appendice al suo

Aristotele, (1923) trad. it. A. Calogero, Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 557-617. Natali, C., ‘Attività di Dio e attività dell’uomo nella Metafisica di Aristotele’, in Aristotele:

Perché la metafisicsa, a cura di A. Bausola e G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1994, pp. 187-214.