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"Istituto Comprensivo Pier Paolo Pasolini"

Casarsa della Delizia

LABORATORIO DI FUMETTO a.s. 2014 – 2015

OMAGGIO A PIER PAOLO PASOLINI

Gli allievi interpretano "I turcs tal Friul"

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28 settembre –5 ottobre 1499

Dies irae: l’ultima invasione dei Turchi in Friuli

“(…) nell’ultimo ottobre, giorno di S.Leonardo

i Turchi rompono il campo della Signoria et

piarono presoni assai et brusarono fino (…)

a S.Zuan (…) S.Florean, Gleris, Ramuscel.”

Giovanni da S.Vito, Cronaca.

Trasposizione per immagini de “I Turcs tal Friùl” di Pier Paolo Pasolini, con libera

interpretazione finale, da parte degli allievi del Laboratorio di Fumetto della scuola

secondaria di primo grado “E.Fermi” di Casarsa.

Gli allievi del laboratorio: Rachele Bertolin, Christel Boscolo, Veronica Bravin, Iris

Castellarin, Sara Curreli, Alice Franzin, Margherita Mariuzzo, Federica Masarin, Emiluce

Milan, Paola Pilosio, Luca Sabino, Caciane Trevisan . A.s. 2014-15

Walter Chendi

Valeria Rizzo

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Danilo Buccaro

PREFAZIONE Da alcuni anni la scuola media di Casarsa organizza dei percorsi formativi con lo

scopo di avvicinare gli allievi all’opera e alla figura di Pier Paolo Pasolini. Sono

state costituite in collaborazione con il Comune “Le giovani guide pasoliniane”,

gruppo di allievi, ben motivati e preparati da alcuni docenti, in grado di illustrare e

narrare in vari modi il rapporto cultuale ed esistenziale tra Pasolini e alcuni luoghi

casarsesi (S.Croce, Versutta, la loggia di S.Giovanni). Queste giovani guide hanno

dato eccellente prova della loro preparazione in diverse occasioni (Giornate FAI di

Primavera 2014, Settimana della cultura friulana 2015, ecc.).

Da tre anni è attivo anche il laboratorio di fumetto che nell’anno scolastico 2012-13

ha prodotto “Tracce di microstoria casarsese per immagini”, un piccolo graphic

novel ispirato a un reale episodio che ha visto Pasolini con alcuni amici come

protagonisti nell’ottobre del 1944. Nell’anno scolastico 2013-14 gli allievi del

laboratorio hanno tradotto in immagini il primo capitolo de “Il sogno di una cosa” e

l’anno seguente hanno prodotto questo lavoro. Gli allievi si sono confrontati con il

dramma pasoliniano “I Turcs tal Friùl” e hanno proposto una soluzione fantasiosa

per l’interrogativo, rimasto un po’ sospeso anche nell’opera pasoliniana, su come

mai Casarsa, unico tra i paesi indifesi della zona, sia stata risparmiata dai predoni

turchi nell’incursione del 1499. Per la loro risposta gli allievi del laboratorio hanno

tratto ispirazione dal racconto “Li fadis da li Mirischis”, una popolare storia del

folklore locale, raccolta e fissata su testo da un altro intellettuale casarsese, lo

studioso di tradizioni popolari Riccardo Castellani, il cui lavoro è stato raccolto in un

volume curato da Marco Salvadori ed edito nel 2008 dalla Società Filologica

Friulana e dalla Città di Casarsa della Delizia.

Si è pensato poi di non sprecare l’occasione per contestualizzare storicamente gli

avvenimenti narrati con delle note introduttive per permettere agli alunni di studiare

una importante pagina di storia.

Apprezzabilissimo il risultato finale, soprattutto tenendo conto del fatto che “I Turcs

tal Friùl” , non dimentichiamolo, è testo assai poco “commestibile” per tutti e in

particolar modo per ragazzi di 12-13 anni. Grazie alle guide che li hanno con

competenza seguiti nel lavoro,il disegnatore Walter Chendi e la professoressa

Valeria Rizzo, gli allievi del laboratorio hanno obliquamente attraversato il testo

pasoliniano e nell’esperienza di gruppo hanno sprigionato la loro creatività,

dimostrando ancora una volta di più la validità di un modello di insegnamento che

privilegia l’apprendimento collettivo e l’integrazione dei linguaggi, la superiorità

dell’approccio globale sul settoriale.

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I turchi alle porte: due secoli di paura

Per oltre due secoli, dalla caduta di Costantinopoli (1453) all’assedio di Vienna

(1683) l’Europa subì la pressione dell’impero

turco che continuava ad espandersi verso

occidente. Furono due secoli in cui l’Europa

cristiana visse nel terrore di essere

conquistata, elaborando gradualmente il

costrutto ideologico dello scontro di civiltà

(Cristianesimo contro Islam, Occidente

contro Oriente, civiltà contro barbarie) che

non è mai stato completamente superato e,

anzi, in questo periodo sta riacquistando

vigore. I due stati su cui ricadde il peso della

resistenza, per la posizione geografica loro e

dei loro domini, furono Venezia (i territori

d’oltremare, isole dell’Egeo e coste dalmate e,

come si vedrà, anche il Friuli, provincia più

esterna e orientale del cosiddetto “Stato de

Tera”) e l’impero d’Austria (Ungheria e

province di frontiera, Serbia, Croazia,

Carinzia, ecc.). Fu un lunghissimo e

tormentato periodo di ostilità, e intervallato

peraltro da tregue e periodi di pace. La

penetrazione turca seguì due direttrici, la

prima lungo il mare Adriatico e la seconda

attraverso l’Europa Orientale. Venezia,

nonostante la strenua resistenza, che

prosciugò buona parte delle sue ricchezze,

perse un po’ alla volta tutti i possedimenti

nell’Egeo (decisiva nel 1669 la caduta di

Candia, il più importante possedimento

oltremarino veneziano, dopo ben 24 anni di

logorante conflitto che esaurì

economicamente Venezia ). Vienna, dopo che

i turchi avevano conquistato la penisola

balcanica ed erano penetrati nell’Europa danubiana, riuscì a stento a resistere

all’assedio del 1683. Solo più tardi la spinta turca, soddisfatta da tante conquiste,

si esaurirà e nel 1718 il trattato di Passarowitz tra Venezia, Austria e Turchia,

sancirà un nuovo stabile assetto, ma Venezia perderà la Morea (Peloponneso).

Sarà l’ultima guerra col Turco.

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Realtà e pregiudizi

Ma è doveroso rettificare alcuni stereotipi e pregiudizi derivati dalla paura e dal

costrutto ideologico dello “scontro di civiltà”, per cui si tende ad attribuire al

“nemico” solo caratteristiche negative. In questo modo, il mancato

approfondimento della visione produce una semplificazione scorretta della

complessità, non riconoscendo o annullando le distinzioni, distorcendo la realtà

fino a falsificarla.

La prima e maggior falsificazione della realtà storica è di natura linguistica e ha

come ovvia ricaduta delle conseguenze a livello concettuale. Comunemente, nella

letteratura del tempo era utilizzata l’espressione “il Turco” per indicare l’impero

ottomano, ma conviene ricordare che questo era costituito da un complesso

mosaico di popoli e lingue, delle quali tre erano le principali: l’arabo ( lingua dei

testi sacri ); il persiano ( lingua della grande letteratura ); il turco ( lingua dello

stato e del potere). Tra l’altro, nelle bande che hanno devastato il Friuli di veri

turchi ce ne dovevano essere ben pochi (forse nessuno?), costituite com’erano da

slavi di Bosnia islamizzati e da cristiani rinnegati per convenienza (lo stesso capo

e organizzatore della spedizione, Iskander Beg, pare fosse di origine ligure).

Un altro pregiudizio riguarda l’odio dei turchi per la religione cristiana. In realtà

intollerante era l’Europa e l’ intolleranza fu la causa per più di un secolo di

conflitti di religione tra cristiani di diversa confessione e della sanguinosissima

repressione operata dai tribunali dell’Inquisizione. L’impero ottomano presentava

degli aspetti di laicità impensabili per quel tempo in Europa. Nei territori

conquistati dall’impero ottomano le comunità cattoliche, ortodosse, armene ed

ebraiche e tante altre antiche minoranze religiose orientali continuarono a

sopravvivere senza troppi problemi. La conversione non era obbligatoria e si

poteva legalmente mantenere la propria fede pagando una tassa allo stato (che

quindi aveva l’interesse alla sopravvivenza di queste). La maggior parte dei

cristiani che abbracciarono l’islam lo fecero liberamente e per usufruire di alcuni

vantaggi.

L’elemento forse dominante del costrutto ideologico culturale europeo nei

confronti dei turchi è la loro proverbiale aggressività e ferocia. Dato innegabile

questo, in tempo di guerra, ma gli europei erano molto diversi? Le crociate, che

sono state una invasione dell’Europa in Oriente hanno preceduto di tre secoli

l’espansione turca verso Occidente. E come si sono comportati i crociati anche

verso la popolazione civile? E come si è comportata l’europea e cristianissima

Spagna al suo interno (Reconquista) contro “moriscos” e “marrani” e

nell’America del Sud verso le popolazioni indigene? I cavalieri di Malta con la loro

flotta si comportavano da veri pirati nei confronti dei navigli orientali e i

prigionieri che facevano erano ridotti in schiavitù.

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La società nell’impero turco presentava anche tratti di modernità sconosciuti a

quella europea contemporanea, ancora in gran parte bloccata su una

organizzazione rigidamente classista e semifeudale, soprattutto nelle realtà rurali.

Nell’impero turco non c’erano pregiudizi di casta e la società era caratterizzata da

una fluidità superiore a quella europea, tale da consentire anche a stranieri,

persone di umilissima origine, ex schiavi anche, di fare brillanti carriere come

funzionari, generali e diplomatici al servizio del sultano e nell’amministrazione.

Questa capacità di far convivere, integrare e assimilare a proprio vantaggio

risorse umane e culturali dalle provenienze e origini più diverse è sempre stata

caratteristica dei grandi imperi.

Una delle cause che alimentò maggiormente la paura delle popolazioni rurali dei

territori soggetti alle incursioni turchesche ( coste del Mediterraneo, territori

dell’area balcanica e danubiana, Carniola, Stiria e Friuli ) e la conseguente

avversione verso per i Turchi, fu senz’altro il fatto che obiettivo importante delle

loro razzie erano giovani maschi e donne, destinati ad incrementare il lucroso

commercio degli schiavi, costituiti soprattutto da slavi (da cui deriva la parola

schiavo, “sciavo” i dialetto veneto) . Va ricordato però che il commercio degli

schiavi fu ufficialmente praticato in Europa, almeno fino alla fine del XI secolo e

largamente tollerato per molti secoli, aggirando il divieto sotto altre forme (non si

potevano comprare schiavi ma di potevano accettare in dono, potevano essere

comprati prigionieri di guerra o persone non di origine europea oppure,

semplicemente, i mercanti europei si limitavano a fare i loro affari nei mercati

orientali o ai limiti dell’Europa ). Quando le potenze europee nel corso del

Cinquecento colonizzarono le Americhe, le popolazioni locali furono

automaticamente poste in condizione di schiavitù e la sciagurata durezza del

trattamento cui furono sottoposte portò a veri e propri casi di genocidio.

Il rapporto tra Venezia e l’impero turco fu per forza di cose ambivalente; se da un

lato fu di opposizione e contrasto, da un altro fu di attrazione e complementarità.

I Turchi Ottomani erano un popolo di origine montanara e vocazione continentale

(da qui l’espansione verso Balcani e bacino danubiano) ma, una volta conquistato

il Medio Oriente e i territori africani delle coste mediterranee, dovettero assumere

anche gli interessi di cui erano portatori i popoli rivieraschi, contrastando

l’invadenza di Venezia nei mercati d’Oriente e ciò li portò a guerreggiare contro i

veneziani per sottrarre loro la rete di basi strategiche (porti, isole, fortezze) che

avevano disseminate lungo le coste adriatiche, lo Ionio e l’Egeo. D’altronde

Venezia era la “porta d’Oriente”, interfaccia dell’Europa con l’Oriente e la base

della sua ricchezza stava proprio negli scambi che riusciva a realizzare con quelle

popolazioni e, poiché l’interesse era reciproco, saggiamente i rapporti non furono

completamente interrotti neanche in tempo di guerra e riprendevano con forza

durante i periodi di pace. La presenza di mercanti e uomini d’affari levantini a

Venezia, città per sua natura cosmopolita, era molto diffusa, ospitati liberamente

da privati o in quartieri presi in affitto, soprattutto nei pressi della chiesa dei

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Santi Giovanni e Paolo (San Zanipolo in veneziano) e nel sestiere di Cannaregio,

dove c’è ancora il pittoresco Campo dei Mori. In questo campo, quasi a “marcare”

il territorio, inserite in nicchie incastonate nei muri esterni di alcune case vi sono

statue di uomini con turbante e vestiti con abiti di foggia orientale e nel muro

esterno di un antico palazzo di proprietà di mercanti che avevano fatto fortuna

con i commerci con l’Oriente c’è un bassorilievo raffigurante un orientale con un

cammello.

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Si pensi che perfino nel periodo della spedizione della coalizione europea contro i

turchi che culminò con la battaglia di Lepanto, e quindi nel periodo della

massima tensione politica e ideologica contro l’impero ottomano, mercanti

turchi continuarono a risiedere a Venezia. Nel 1621, quando l’impero turco era

ancora un pericolo per l’Europa (l’assedio turco a Vienna è del 1683) Venezia

destina con una legge specifica un grande edificio sul Canal Grande, il Fontego

dei Turchi (chiamato ancora così ma adesso sede del Museo di Storia naturale),

alla comunità turca, da adibire ad albergo, magazzini, contenente all’interno

perfino una piccola moschea. Si sa però che i mercanti persiani, musulmani sciiti

in eterno conflitto con gli ottomani, preferirono andarsene da quella residenza nel

1662. Con la decadenza di Venezia decadono anche i commerci e il numero di

mercanti turchi ospitati nel fontego diminuisce notevolmente. L’ultimo ospite,

dopo una lunga battaglia legale, dopo il 1840 rinunciò al diritto che la legge gli

riservava.

I mercanti, fossero veneziani o orientali, con la loro concretezza avevano indicato

la giusta via. Avevano cioè capito, grazie all’esperienza diretta quanto queste due

civiltà potessero essere complementari e non opposte tra loro, quanto un confine

inteso come interfaccia e non come limite consenta utilissimi scambi con

reciproci vantaggi. Lezione ancor più valida oggi, dove tutto è interdipendente.

Anche i governi in certi periodi lo capirono, poi prevalsero invece spinte

ideologiche e religiose che portarono all’ostilità e ai conflitti.

Le incursioni in Friuli

Accanto alle guerre, dichiarate, l’impero turco però sviluppò delle guerre parallele,

non “ufficiali” per aumentare la pressione sull’Occidente. Si trattava di

sanguinosissime scorrerie condotte da feroci ed eterogenee bande costituite in

realtà soprattutto da bosniaci islamizzati, inquadrati in milizie locali guidate da

ufficiali turchi, cui si aggregavano volontari irregolari e di diversa provenienza,

spesso rinnegati.

Queste incursioni rinnovarono gli orrori delle ultime invasioni barbariche e contro

di esse si rivelarono del tutto impreparate e sciaguratamente inefficaci le

organizzazioni difensive, quando queste c’erano. La base di raccolta e partenza di

queste bande era Banja Luka, e il loro scopo non era occupare territori, ma fare

un ricco bottino. A più riprese nel corso del 1400 queste bande numerose,

abilissime e inafferrabili, penetrarono in Croazia, Istria, Carniola, Carinzia, Stiria.

Si muovevano con gran conoscenza del territorio, raramente attaccavano i luoghi

ben fortificati perché non avevano armi d’assedio e non volevano perdere tempo

ma piombavano di sorpresa a cavallo sui villaggi inermi, razziando ogni cosa di

valore facilmente trasportabile, catturando e portandosi dietro come prigionieri

giovani d’ambo i sessi e persone facoltose da liberare in cambio di riscatto o da

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vendere come schiavi, massacrando gli altri e distruggendo tutto, paesi e

campagne. Anche il Friuli ebbe a soffrire più volte per queste incursioni, due delle

quali, la prima nel 1477 e la seconda nel 1499 penetrarono in profondità

lasciandosi dietro una vera scia di sangue anche nei nostri paesi.

1499: l’ultima invasione turca in Friuli

Dopo il 1477 molte altre incursioni si

ripeterono, ma il Friuli ne fu solo sfiorato,

finché, nel 1499 ci fu l’ultima e più disastrosa.

Iskander Beg, ancora lui, il 28 settembre con

un forte esercito (10-15.000 uomini) elude le

mal guidate forze venete inviate in precedenza a

difesa del territorio e passa l’Isonzo. Il 29

settembre pone il campo a Rivolto dopo averla

data alle fiamme, ma non riesce a prendere Codroipo, ben difesa ancora come nella

invasione precedente. La notte seguente guada

il Tagliamento e il 1° ottobre pone il campo

principale nei pressi di Roveredo in Piano, da

dove per tre giorni sciameranno le bande che

imperverseranno in tutto il pordenonese

(particolarmente colpite le località di Aviano,

Cordenons, Brugnera) e raggiungendo le

vicinanze di Conegliano.

Anche questa volta S.Vito poté salvarsi grazie

alle sue fortificazioni, come il castello di

Zoppola. S.Floriano, S.Giovanni, Sile e Bannia

vennero nuovamente depredati e in parte

bruciati.

Gli abitanti di S.Giovanni e dei vicini paesi si erano rifugiati a S.Vito e riuscirono

a salvarsi. In base ad un accordo del 1492 la comunità di S.Giovanni aveva

dovuto fornire 60.000 mattoni per rinforzare mura e torri di S.Vito, in cambio

dell’ospitalità in caso di attacco nemico, cosa puntualmente verificatasi. Casarsa

fu risparmiata, probabilmente salvata dalla sua stessa povertà, quindi poco

attraente e vicino ad altre località più ricche e appetibili. Il fatto di essere stati

risparmiati dagli invasori valse però agli abitanti il soprannome spregiativo di

“Turcs”, da parte degli abitanti dei paesi vicini, sospettosi di un’intesa coi nemici.

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Il pomeriggio del 3 ottobre se ne vanno, portandosi dietro migliaia di prigionieri e,

rintuzzano sanguinosamente un attacco portato coraggiosamente quanto

ingenuamente da circa 800 contadini di Valvasone, che vengono trucidati e

dispersi. Per le piogge il Tagliamento è ingrossato e il passaggio nella notte tra il 3

e il 4 è difficile, perciò gli invasori uccidono 1500/2000 prigionieri che ne

avrebbero rallentato la marcia, permettendo alle milizie venete che si stavano

riorganizzando, di raggiungerli. Ricostruire con precisione il percorso del delle

bande turche nel nostro territorio è impossibile, dato che le cronache tempo sono

comprensibilmente confuse e perché le bande si frazionavano e ricomponevano

continuamente, ritornando a volte sui loro passi. Si sa che, passato il

Tagliamento, la colonna principale con un corteo di migliaia prigionieri ripiega

verso l’Isonzo mentre una forte

banda non ancora sazia si stacca

suddividendosi per saccheggiare i

paesi dell’alta pianura friulana

che era rimasta finora indenne.

Un gruppo risale verso Dignano e

Carpacco, che vengono distrutte,

un altro si dirige verso

Pantianicco, difesa da una

cortina ed entro cui erano stati

ammassati viveri e si erano

rifugiati gli abitanti dei paesi

vicini. Dopo due giorni di assedio

la difesa cede e duecento

difensori vengono uccisi, i

bambini e i giovani sono fatti

prigionieri. Secondo la tradizione

locale scampò all’eccidio solo una donna che, dopo essersi nascosta sotto un tino,

riuscì a fuggire dopo essersi impadronita di un cavallo di un turco. Tale episodio

si dice rappresentato in un rozzo bassorilievo ora posto all’interno della chiesa.

Anche la vicina Chiasiellis subisce danni. Ormai non si fanno più prigionieri e

altri scorridori (akingy) danno alle fiamme in sequenza Basiliano, Blessano,

Variano, Vissandone, Orgnano, Sclaunicco, S. Vidotto (paese vicino a Sclaunicco

e che non verrà più ricostruito, non l’omonimo paese vicino Camino al

Tagliamento). Sedegliano, Turrida, Grions, S. Lorenzo, Gradisca, Codroipo,

Lestizza, Mereto, Tomba subiscono danni. Flambro viene completamente bruciata

ma la popolazione si mette in salvo nei castelli di Sterpo e Belgrado. Danni

notevoli anche a Talmassons, Flumignano, Lavariano.

Il 4 ottobre Mortegliano è assediata ma la popolazione si difende accanitamente e

il 5 pomeriggio, dopo aver subito pesanti perdite gli assedianti tolgono l’assedio e,

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mentre una banda si dirige verso Lestizza che, protetta dalla centa resiste, si

ricongiungono rapidamente alla colonna principale perché temono di essere

intercettati e bloccati dalle forze venete che finalmente stanno reagendo. Una

trentina sono i morti fra i morteglianesi, tutte persone che non avevano fatto in

tempo a rifugiarsi nella cortina. Poi arrivano gli stradioti da Udine. Gli stradioti,

albanesi che combattono al soldo di Venezia, odiavano con tutte le loro forze i

turchi, e avevano a lungo resistito alla loro invasione. Ora erano diventati i più

spietati nemici dei turchi. La figura degli stradioti entrò anche nella letteratura

dell’epoca e Torquato Tasso, che li vide a Venezia nel 1559, ne fa un ritratto

efficace nel canto della “Gerusalemme Liberata”.

Gli stradioti della guarnigione posta a difesa di

Udine uscirono comunque più volte in spedizioni

volte a intercettare i drappelli degli invasori in

fase di ripiegamento, sortite coronate da

successo, tanto che portarono a Udine più di

mille teste di turchi, a prova del loro operato e

per riscuotere il premio promesso.

Il 6 ottobre, dopo aver sostato nei pressi di

Medea per dar la possibilità, a chi lo poteva, di

riscattare i prigionieri, gli invasori tolgono il

campo e iniziano la marcia di ritorno. I paesi e

borghi distrutti o danneggiati furono tra 150 e

300, i morti e i deportati circa 10.000.

I comandi militari dimostrarono

inettitudine, gli unici che diedero prova di

coraggio e capacità furono gli stradioti

albanesi che in squadre di cavalleria

leggera, quando poterono, incalzarono il

nemico e ottennero successi locali. Ma fu

nel complesso che l’organizzazione

militare veneziana si rivelò del tutto

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inadeguata a fronteggiare le rapide e sfuggenti bande turche e ciò impose alla

repubblica una riflessione che portò alla radicale revisione della strategia di difesa

del territorio che porterà alla decisione di costruire negli anni seguenti la fortezza

di Palmanova. Nel complesso, soppesando con cautela le cifre riferite dagli storici

contemporanei, memorie, documenti in archivi parrocchiali, ecc., i paesi

saccheggiati e bruciati furono più di 130 in Friuli, 60 tra Gorizia e il Carso,

10.000 i morti.

San Vito: la sinopia della Torre Scaramuccia

A S.Vito al Tagliamento, durante i lavori di restauro dell’antico Ospedale dei

Battuti e dell’annessa torre di S.Nicolò o Scaramuccia (così chiamata perché nei

pressi si svolse un piccolo combattimento, una “scaramuccia”, appunto , tra i

soldati del Patriarca, feudatario del Friuli, e un drappello armato del duca di

Carinzia), è stata trovata una sinopia (disegno preparatorio di un affresco)

raffigurante tre cavalieri che procedono affiancati, con minaccioso cipiglio, baffoni

e turbante, chiaramente vestiti all’orientale. Molto probabilmente una mano

ignota, ma abile, ha voluto fissare il ricordo dei guerrieri turchi che,

impossibilitati a prendere le solide e ben difese mura della cittadina si sono

dovuti accontentare di fare qualche giro dimostrativo attorno alle mura e poi si

sono dedicati a razziare il contado e borghi vicini.

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La marcia della morte

Ricostruzione del percorso delle bande di incursori turchi nei giorni tra il 30

settembre e il 3 ottobre 1499 nei territori compresi negli attuali comuni di

Casarsa, S.Vito, Sesto al R., Valvasone-Arzene, Fiume Veneto.

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Gli stradioti

Meritano una citazione a parte gli stradioti, in quanto, unici tra le milizie venete

diedero prova di coraggio e quando ingaggiarono combattimenti con gli invasori

riuscirono sempre ad avere la meglio. Gli stradioti erano soldati di una cavalleria

leggera che la Repubblica di Venezia organizzò per controbattere le incursioni

della cavalleria leggera turca (15° sec.). In Italia furono adoperati per la prima

volta durante la guerra di Ferrara del 1482. Non

recavano armature difensive, ma molti tenevano un

piccolo scudo, erano armati di lancia, mazza e daga

al fianco. Si mostrarono sempre devotissimi alla

Repubblica di Venezia; lo sviluppo della fanteria,

dell’artiglieria e delle fortificazioni da campo li fece

poco a poco scomparire (16°-17° sec.). Erano una

specie di “legione straniera”, costituita soprattutto

da albanesi , poi anche croati e greci, utilizzata

dalla fine del 1400 da Venezia. Costituivano una

tipica cavalleria leggera, velocissima e adatta ai

raid, alle imboscate ed efficace per questi motivi,

soprattutto contro la cavalleria turca, che

combatteva allo stesso modo.

Odiavano in modo particolare i turchi in quanto le

loro terre erano state assoggettate dall’impero

turco, costringendoli ad espatriare. Durante

l’invasione turca del 1499 furono le uniche truppe

venete a dimostrare intraprendenza e coraggio,

benché spesso trattenuti dai comandi delle

guarnigioni in cui si trovavano. Gli stradioti di

stanza a Udine spesso uscivano in rapide sortite

per intercettare piccoli drappelli di turchi in

ripiegamento e isolati dal grosso dell’esercito,

facendone strage. Solo a Udine vennero portate

dagli stradioti più di mille teste di turchi, come

prova del loro impegno e per riscuotere così le taglie

che erano state promesse dalla cittadinanza.

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La difesa del territorio: cortine e cente

La Stradalta (un tempo chiamata ongaresca, oggi “napoleonica”) è stata la via

delle invasioni provenienti dai bacini danubiano e balcanico. Gli abitanti dei

poveri villaggi che si trovavano lungo questa direttrice, nella cosiddetta “strata

hungarorum”, non avevano a disposizione castelli o città murate e ben munite

entro cui rifugiarsi. Poiché il pericolo solitamente arrivava inaspettatamente,

senza nemmeno lasciar la possibilità di scappare nei boschi, che soprattutto a

sud della linea delle risorgive erano molto estesi, le comunità rurali, per

disperazione, cominciarono a costruire spontaneamente delle fortificazioni. Ciò

avvenne fin da prima del Mille, ma soprattutto nel XI e XII secolo. Queste

fortificazioni rustiche, chiamate cortine, dovevano essere dei recinti di forma

circolare, a volte protetti da un fossato, posti ai margini del paese su dei rialzi di

terreno, naturali o anche artificiali. All’interno c’erano una chiesetta, una torre-

campanile, una canipa (la “caneva”, edificio per l’ammasso dei viveri e delle

granaglie) e poco altro (qualche casetta e recinto per gli animali).

Le cortine nei due secoli seguenti evolsero poi in cente, cioè dei borghi rurali

fortificati con case, che probabilmente avevano incorporato le mura della cortina.

Le case erano arroccate circolarmente intorno alla chiesa, quasi prive di aperture

verso l’esterno al piano terra, con poche feritoie e piccole finestre ai piani

superiori e con una torre portaia come unico accesso, custodito da un portinaio

pagato dalla comunità.

Queste costruzioni tipiche, testimonianza

di una vera e propria psicosi delle

invasioni, proliferarono in tutto il Friuli e

quasi ogni paese (in moltissimi paesi

sopravvivono i toponimi “via cortina”, “via

centata”, ecc.) se ne dotò rispondendo,

oltre che al bisogno di sicurezza, a una

forte esigenza di identità di quelle società

rurali. Nel solo Medio Friuli le cortine o

cente furono moltissime, forse anche ad

imitazione dei villaggi fortificati sloveni o

tabor, in seguito alla colonizzazione slava

di questi territori favorita dai patriarchi

dopo il Mille.

È documentata l’esistenza di cente nei

seguenti paesi: Basagliapenta, Basiliano,

Beano, Blessano, Castions di Strada,

Chiasiellis, Codroipo, Flaibano, Gradisca di Sedegliano, Lavariano, Lestizza,

Mereto di Tomba, Mortegliano, Orgnano, Pantianicco, Plasencis, Roveredo di

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Varmo, Rivolto, S. Maria di

Sclaunicco, S. Odorico al

Tagliamento, Savalons,

Sedegliano, Turrida,

Variano, Virco, Vissandone,

Zompicchia. Nei territori

dell’attuale provincia di

Pordenone si assistette a

una proliferazione

spontanea di queste

fortificazione contadine,

spesso piccolissime e di

origine plurifamiliare.

Spesso la centa in questi

casi prende il nome non

della località ma della

famiglia, e vale anche il

caso opposto, di cognome,

ad esempio Centis, Di

Centa, ecc., derivato dalla struttura. Lungo la pedemontana pordenonese sono

state censite più di sessanta cente. La loro realizzazione fu in certi casi ostacolata

dalle autorità locali, che scorgevano in queste opere, attraverso la progettazione,

la mobilitazione delle energie, l’organizzazione collettiva e distribuzione dei lavori

di costruzione, la spontanea crescita di quelle piccole comunità rurali verso una

maggior consapevolezza e autonomia politica, potenzialmente pericolosa per

l’equilibrio sociale che esse dovevano mantenere e che prevedeva la totale

soggezione della contadinanza. Si trattò di una grande opera di pianificazione

urbana collettiva, cui la funzione dettò schemi e tipologie costruttive che rese

simili questi paesi e da cui deriva quel loro tipico aspetto chiuso verso l’esterno e

quel senso di omogeneità e armonia d’insieme che avevano e di cui ora rimangono

solo frammenti. Le cente favorirono dunque la maturazione sociale delle comunità

ma non riuscirono ad assolvere, tranne in pochissimi casi, alla funzione per cui

erano state costruite. Troppo piccole, da sembrar patetiche ai nostri occhi e,

soprattutto, non difese da veri soldati, non ressero alla prova delle incursioni

turchesche della seconda metà del 1400. Durante l’ultima incursione, quella del

1499, Codroipo, la più munita e difesa da una vera guarnigione, fu evitata.

Mortegliano resistette a due giorni d’assedio, finché la banda turca assediante

non desistette per non staccarsi troppo dalla colonna principale. Quella di

Lestizza venne attaccata ma resistette perché gli incursori, ormai in ripiegamento,

non insistettero per timore di essere intercettati dalle milizie venete che

rinvenivano. Tutte le altre furono prese e date alle fiamme, compresa Pantianicco,

la cui commovente resistenza durò due giorni. Con l’età moderna cambiò la

strategia di difesa del territorio e venne costruita la fortezza di Palmanova, perciò

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le cente sopravvissero con pura

funzione abitativa e di molte è

documentata l’esistenza

chiaramente dalle mappe del

Catasto napoleonico (1807-1812)

e dai successivi aggiornamenti

austriaci.

Nei consistenti riordini edilizi

degli ultimi due secoli i fossati

vennero colmati e quasi tutte le

cortine/cente furono smantellate.

La cortina di Mortegliano, con la

torre, venne demolita per far

posto alla nuova chiesa alla fine

dell’Ottocento. La centa di

Lestizza, che era considerata la

meglio conservata del Friuli e a

cui si accedeva attraverso una bella torre portaia, era ancora integra nel 1913 e

venne abbattuta nel 1948 per costruire il nuovo campanile, le altre parti vennero

de molite negli anni seguenti. In un gruppo superstite di case vicine rimane la

“torresse di Garzit”, costruita probabilmente con funzione di avvistamento verso

la metà del 1400 e poi trasformata in colombaia. A Gradisca di Sedegliano,

Sedegliano e Mereto rimangono evidenti i terrapieni che hanno ospitato le cortine

preceduti da profondi fossati e in quasi tutti i paesi sopraelencati rimangono

riconoscibili le tracce della cortina nella caratteristica disposizione delle case ad

anello, spesso attorno alla chiesa come è ben esemplificato nella pianta del paese

di Rivolto.

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La cortina di Casarsa

Anche Casarsa ebbe la sua cortina, raffigurata schematicamente in un disegno

del 1751, copia di una mappa antecedente. Verso la fine del “500 la cortina aveva

già esaurito la funzione difensiva originaria.

La cortina, di cui oggi non rimangono resti evidenti e di cui sono state rinvenute

alcune tracce grazie a scavi archeologici compiuti nel 1993, sorgeva sull’area in

cui è inserita la chiesa di S.Croce. La chiesa, con il cimitero, doveva trovarsi

probabilmente al centro della cortina, che consisteva in un argine con palizzata o

muro di protezione, circondata da un fossato su cui era gettato un ponte levatoio.

Doveva trattarsi di una costruzione davvero molto modesta, espressione di una

comunità molto piccola e povera, quindi poco interessante per gli invasori, che

preferirono trascurarla e dedicarsi a razziare gli altri paesi vicini, tutti

evidentemente più appetibili. Ricordiamo che lo sviluppo urbanistico di Casarsa è

piuttosto recente ed è dipeso dalla riorganizzazione del territorio conseguente alla

costruzione della grande strada Pontebbana e della ferrovia. Il cambiamento delle

principali vie di comunicazione, con relativa capacità di attrazione, portò

all’emarginazione e al declassamento di centri prima importanti come Valvasone e

il contemporaneo affermarsi di paesi prima trascurabili come Casarsa. E’ evidente

la collocazione eccentrica della zona della vecchia cortina ( zona S.Croce e

biblioteca civica) rispetto all’attuale nucleo principale del paese, segno di una

organizzazione territoriale ed evoluzione urbana diversa rispetto all’attuale.

La cortina come viene

rappresentata in una

mappa del catasto austriaco

del 1823.

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Le invasioni scritte sulla pietra

Oltre alla lapide che ricorda l’invasione dei Turchi murata ora nella chiesa di

S.Croce a Casarsa, in Friuli ce ne sono almeno altre tre che ricordano le invasioni

del 1477e del 1499.

Iscrizione graffita su un muro della chiesa parrocchiale di Pravisdomini.Il testo, di non

semplice lettura dice:“P(RE) IACOBUS DE VRSARA 1477 LI TURCHI CORSERO IL FRIULI

ADI I DE NOVENBRIO ET ADI 6 TO(R)NARO E PIERO MIS(SER) MARCU DE LA FRATINA

SVLE GRAVE DEL TAIAME(NT)O. Secondo una leggenda di paese, il conte Marco della

Frattina, di cui si parla nella lapide, venne impalato dai turchi, ma una testimonianza

postuma sostiene che venne fatto prigioniero, portato a Istanbul e liberato dietro

pagamento di un riscatto di mille zecchini.

Iscrizione posta all’esterno della chiesa parrocchiale di Tricesimo. Ricorda che nel 1477,

oltre all’invasione dei Turchi, il Friuli soffrì anche di una terribile invasione di cavallette

(langoste=locuste).M. CCCC. LXXVII. NOTA CHE DE AGOSTO FONO LEGOSTE IN LA

PATRIA ET A VLTIMO OTVBRIO LI TVRCHI RONPE LO CAMPO AL OSONZO. LO DI

SEQVENTE TRASCORSE BRVSANDO LA PATRIA PER TVTO.

Bassorilievo inserito sul muro della chiesa di Pantianicco,

nei pressi della vecchia cortina. Secondo la tradizione

rappresenta un cavaliere turco. Durante l’invasione del

1499 la cortina di Pantianicco si difese per diversi giorni ma

poi cedette. Il paese fu distrutto e della popolazione fu fatta

strage.

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Riferimenti iconografici

I disegni utilizzati per illustrare i testi sono opera del disegnatore

Walter Chendi; non sono come si potrebbe pensare (è molto di moda

oggi) fantasy, ma rigorosamente basati sui documenti iconografici che

sotto riportiamo.

Fig. 1 Fig. 2

Immagini rappresentanti cavalieri

turchi akingy. Le prime due sono

tratte dal Codex Vindobonensis.

Le ali che fregiavano il copricapo

erano concesse solamente ai

guerrieri che avevano dato prova di

grande valore.

Fig. 3

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Fig. 4 Fig. 5

L’immagine n. 4 è una stampa

dell’epoca che rappresenta degli

stradioti con i loro caratteristici

abbigliamenti.

Cavalieri stradioti sono rappresentati

in secondo piano nell’immagine

n.5. In primo piano fante veneto

con elmo leggero (bacinetto) e

corazza (corsaletto).

L’immagine della figura n.6

rappresenta fanti turchi (16° sec.)

Fig. 6

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I Turcs tal Friùl

All’interno della chiesa di Santa Croce si trova una lapide votiva che ricorda

l’invasione dei Turchi del 1499. La lapide non appartiene a questo luogo sacro

della comunità casarsese, ma è stata trasferita qui nell’anno 1880 e proviene

dalla piccola chiesa della /Beata Vergine delle Grazie/, che venne portata a

compimento con pitture e decorazioni nel 1529, quando la comunità di Casarsa,

in segno di ringraziamento per essere stata risparmiata dalle invasioni turche,

adempie a quanto la lapide esprime.

«1499 ADI30 7BRE NEL SOPRAD. MILESIMO FURONO LI TURCHI IN

FRIULI ET PASORONO PER DESOPRA LA VILA ET NOI MATIA DE

MONTICO ET ZUANE COLUSO FESIMO AVODO DE FAR QUESTA

SANTA CHIESA SE LORO NON NE DAVANO DANO ET PER LA

GRATIA DELA NOSTRA DONNA FUSSIMO ESAUDITI ET NOI CON LO

COMUN FESSIMO LA PRES ENTE CHIESA NOI CAMERATI BASTI AN

DE JACUZ ET ZUAN DE STEFANO GAMBILIN FESSIMO DIPINZER

DEL 1529 ADI 7 SETEMBRE»

A questa lapide votiva è ispirato il dramma teatrale “I Turcs tal Friûl”, un atto

unico in friulano scritto da Pasolini durante il corso drammatico della guerra. Il

testo, col suo andamento da “mistero”, tra tragedia greca e sacra

rappresentazione, si situa al crocevia di tante e diverse sollecitazioni: le storie

“favolose” della tradizione di casa Colussi raccontate da Susanna Colussi, madre

di Pier Paolo; il fatto storicamente documentato della scorreria dei Turchi in

Friuli nel 1499, che ha solo sfiorato Casarsa, risparmiando il paese; la ferocia

contemporanea della seconda guerra mondiale, che in quel 1944 trasformò

Casarsa in luogo di pericolo e di allarme, con invasioni naziste, azioni partigiane,

bombardamenti anglo-americani che miravano al ponte e alla ferrovia sul

Tagliamento, creando il substrato di ansia e angoscia che alimenta il dramma

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teatrale. Gli invasori Turchi si sovrappongono ai tedeschi oppressori e nella figura

di Meni è facile intravvedere una trasposizione del fratello di Pasolini, Guido,

partigiano della brigata Osoppo, ferito dai partigiani comunisti nell’agguato di

malga Porzus, rincorso e finito nel Bosco Romagno.

Nei “Turcs tal Friùl” non ci sono tracce documentarie o di cronaca e la minaccia

dei turchi è solo il pretesto per rappresentare un modello di vicenda scandita in

tre parti: dolore, morte, rinascita. Nell’opera viene rappresentata una piccola

comunità popolare, in un luogo periferico e appartato, lontano dagli eventi

importanti, che la storia costringe a confrontarsi con il pericolo e la paura

dell’”altro”. Di fronte al pericolo incombente della fine, ecco che il coro di paese

discute ed elabora al suo interno le possibili reazioni di autodifesa: da un lato, la

rassegnazione, di fronte al mistero del destino e al volere imperscrutabile del

cielo; dall’altro, lo scatto combattivo, attivo e vitale, anche con aspetti di

contestazione.

Sugli uomini che dibattono e si dividono in opposte fazioni, sorvegliano le donne,

unite soprattutto dalla comune condizione dell’essere madri. In scala ideale,

sono madri di crescente potenza consolatrice: Lussia, con la sua dolcissima

fragilità; Anuta Perlina, con la saggezza disincantata di chi ha già molto sofferto.

Ma, ad allontanare davvero la minaccia del Turco, non serve altro mezzo che la

morte, pegno che la comunità dovrà versare per la sua salvezza. E la morte,

dunque, si porta via Meni, il giovane che ha scelto di reagire alla rassegnazione

degli altri, come un Cristo, un capro espiatorio o un eroe tragico di tragedia

antica che, con il suo sacrificio, salva la comunità. (tratto dal sito del Centro

Studi PPP, con semplificazioni).

Questo testo, nella forma di dramma teatrale è riemerso dopo la

morte dell’autore, nel 1976, ma fu composto a Casarsa, forse già dal

maggio 1944.

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I Turcs tal Friùl

Versione per immagini con finale a libera interpretazione da parte degli allievi del

laboratorio di fumetto della scuola secondaria di I° “E Fermi” di Casarsa.

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Sappiamo come poi è andata… Meni Colùs non resiste al suo impulso

generoso e parte per affrontare i Turchi e viene ucciso e tutti gli altri,

che pavidamente non lo avevano seguito, vengono colti dal senso di

colpa .

Queste sono le ultime battute del dramma.

S’ciefin Cuarnùs

“I Turchi si fermano. L’uragano gli sbatte negli occhi tutta la

polvere dei nostri campi cristiani! Tornano a passare

gridando le Mirische. Scappano via urlando. Scompaiono nel

buio”.

Il prete

“Stringiamoci nell’ombra delle nostre case, cristiani, qui,

senza domandarci mai niente, niente che siamo, adagiati nel

grembo del Signore. Amen”.

Ma il dramma pasoliniano non dà una precisa spiegazione di cosa spinse i Turchi

ad evitare di saccheggiare anche Casarsa e gli allievi del laboratorio di fumetto

hanno pensato di inserirsi proprio su questo punto, dando una loro versione.

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IL LABORATORIO DI FUMETTO

VALERIA RIZZO

E’ la decana dei professori della scuola secondaria e da più di trent’anni si sforza

di avvicinare all’arte e educare al bello i ragazzi di Casarsa, spesso riuscendoci.

Soprannominata (dal preside) Prezzemolina perché sempre presente quando ci sono

iniziative particolari, se è vero che tutti la coinvolgono, è altrettanto vero che lei non

si tira mai indietro, con vantaggio di tutti.

WALTER CHENDI

E’ autore di storie e sicuramente uno dei migliori disegnatori italiani. Unisce alla

pulizia del tratto e bellezza del disegno, che potremmo definire classica, una cura

maniacale per l’esattezza dei particolari e della esatta ricostruzione storica.

Quando l’ho contattato per proporgli un’esperienza con i nostri allievi ha detto

subito di sì, con mia grande gioia e sorpresa. Ormai è un amico. Si atteggia a

burbero, ma è finzione e con i ragazzi ha dimostrato grande pazienza. Per

presentarlo meglio riportiamo suoi cenni biografici tratti dal suo sito, che invitiamo a

visitare (www.walterchendi.com).

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“Nato a Trieste nell'inverno del 1950, al mattino presto, in una giornata di Bora

scura. Alto 180 centimetri, pesante 120 chili. Acquario ascendente Orso. Sposato.

Due figli. Un cane. Un gatto. Un limone. Un abete. Un tavolo da disegnatore. Un

computer. Tre paia di occhiali.

Dopo alcune esperienze nel mondo del calcio ed altre in alcuni mestieri, ho dedicato

dieci anni ad un grosso computer che all'epoca si chiamava Calcolatore elettronico e

occupava uno stanzone.

Poi, a quarant'anni, smisi di fumare e scoprii i fumetti. Avevo già lavorato per un

paio di giornali locali con strisce, vignette, illustrazioni e copertine, ma fui attratto

dai fumetti e tentai d'imparare a farli.

E' inutile dire che la cosa è più difficile di quanto sembri. Credevo di saper

disegnare e, ancora oggi, consumo molte matite e moltissima gomma. Credevo di

saper raccontare e ancora oggi ho grossi dubbi ad ogni scena.

Il primo fumetto vero e proprio lo mostrai a Vittorio Giardino, quando entrambi

avevamo più capelli. A Lucca, quell'anno, mi presentò Rinaldo Traini che accettò il

"Ritocco di cronaca" , scritto su un particolare della vita di Rembrandt.

Quindi Comic Art acquistò anche alcuni racconti tappabuchi della serie "Nuvola

rossa". Fui e sono onorato di vedere le mie pagine stampate assieme a quelle di

grandi fumettisti come Toppi, Micheluzzi, Crepax, Tardi, Eisner, Cavazzano, Otomo,

Torti, Bacilieri, Mastantuono.

Poi vennero altri lavori, altre vicende, comuni a molti, qualche mostra di quadri,

qualche intoppo e gli anni corsero. Ebbi la possibilità di sceneggiare "Vedrò

Singapore?" di Piero Chiara. Iniziò così la mia collaborazione con la Lizard e

vengono pubblicati anche "Mont Uant" ed "Est Nord Est".“La porta di Sion” mi fa

vincere il Gran Guinigi al LUCCACOMICS 2010 (il più prestigioso premio per

disegnatore di fumetti in Italia, n.d.r.).

Nel frattempo escono tre volumi dedicati alle "Maldobrìe", racconti sulla Trieste

asburgica scritti dal duo Carpinteri & Faraguna. Continuo a scrivere, sceneggiare,

disegnare. Perché mi piace”.

Aggiungiamo noi, vive in una casa-eremo a Caresana (comune di S.Dorligo della

Valle), a pochi chilometri dal centro di Trieste, ma arrivarci è un’impresa e una volta

lì sembra di essere ai confini del mondo. Rcentemente è uscito una sua nuova

storia per immagini, “Maledetta balena”, per la casa editrice Tunué.

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