Istituto Comprensivo Pier Paolo Pasolini..."Istituto Comprensivo Pier Paolo Pasolini" Casarsa della...
Transcript of Istituto Comprensivo Pier Paolo Pasolini..."Istituto Comprensivo Pier Paolo Pasolini" Casarsa della...
"Istituto Comprensivo Pier Paolo Pasolini"
Casarsa della Delizia
LABORATORIO DI FUMETTO a.s. 2014 – 2015
OMAGGIO A PIER PAOLO PASOLINI
Gli allievi interpretano "I turcs tal Friul"
1
28 settembre –5 ottobre 1499
Dies irae: l’ultima invasione dei Turchi in Friuli
“(…) nell’ultimo ottobre, giorno di S.Leonardo
i Turchi rompono il campo della Signoria et
piarono presoni assai et brusarono fino (…)
a S.Zuan (…) S.Florean, Gleris, Ramuscel.”
Giovanni da S.Vito, Cronaca.
Trasposizione per immagini de “I Turcs tal Friùl” di Pier Paolo Pasolini, con libera
interpretazione finale, da parte degli allievi del Laboratorio di Fumetto della scuola
secondaria di primo grado “E.Fermi” di Casarsa.
Gli allievi del laboratorio: Rachele Bertolin, Christel Boscolo, Veronica Bravin, Iris
Castellarin, Sara Curreli, Alice Franzin, Margherita Mariuzzo, Federica Masarin, Emiluce
Milan, Paola Pilosio, Luca Sabino, Caciane Trevisan . A.s. 2014-15
Walter Chendi
Valeria Rizzo
2
Danilo Buccaro
PREFAZIONE Da alcuni anni la scuola media di Casarsa organizza dei percorsi formativi con lo
scopo di avvicinare gli allievi all’opera e alla figura di Pier Paolo Pasolini. Sono
state costituite in collaborazione con il Comune “Le giovani guide pasoliniane”,
gruppo di allievi, ben motivati e preparati da alcuni docenti, in grado di illustrare e
narrare in vari modi il rapporto cultuale ed esistenziale tra Pasolini e alcuni luoghi
casarsesi (S.Croce, Versutta, la loggia di S.Giovanni). Queste giovani guide hanno
dato eccellente prova della loro preparazione in diverse occasioni (Giornate FAI di
Primavera 2014, Settimana della cultura friulana 2015, ecc.).
Da tre anni è attivo anche il laboratorio di fumetto che nell’anno scolastico 2012-13
ha prodotto “Tracce di microstoria casarsese per immagini”, un piccolo graphic
novel ispirato a un reale episodio che ha visto Pasolini con alcuni amici come
protagonisti nell’ottobre del 1944. Nell’anno scolastico 2013-14 gli allievi del
laboratorio hanno tradotto in immagini il primo capitolo de “Il sogno di una cosa” e
l’anno seguente hanno prodotto questo lavoro. Gli allievi si sono confrontati con il
dramma pasoliniano “I Turcs tal Friùl” e hanno proposto una soluzione fantasiosa
per l’interrogativo, rimasto un po’ sospeso anche nell’opera pasoliniana, su come
mai Casarsa, unico tra i paesi indifesi della zona, sia stata risparmiata dai predoni
turchi nell’incursione del 1499. Per la loro risposta gli allievi del laboratorio hanno
tratto ispirazione dal racconto “Li fadis da li Mirischis”, una popolare storia del
folklore locale, raccolta e fissata su testo da un altro intellettuale casarsese, lo
studioso di tradizioni popolari Riccardo Castellani, il cui lavoro è stato raccolto in un
volume curato da Marco Salvadori ed edito nel 2008 dalla Società Filologica
Friulana e dalla Città di Casarsa della Delizia.
Si è pensato poi di non sprecare l’occasione per contestualizzare storicamente gli
avvenimenti narrati con delle note introduttive per permettere agli alunni di studiare
una importante pagina di storia.
Apprezzabilissimo il risultato finale, soprattutto tenendo conto del fatto che “I Turcs
tal Friùl” , non dimentichiamolo, è testo assai poco “commestibile” per tutti e in
particolar modo per ragazzi di 12-13 anni. Grazie alle guide che li hanno con
competenza seguiti nel lavoro,il disegnatore Walter Chendi e la professoressa
Valeria Rizzo, gli allievi del laboratorio hanno obliquamente attraversato il testo
pasoliniano e nell’esperienza di gruppo hanno sprigionato la loro creatività,
dimostrando ancora una volta di più la validità di un modello di insegnamento che
privilegia l’apprendimento collettivo e l’integrazione dei linguaggi, la superiorità
dell’approccio globale sul settoriale.
3
I turchi alle porte: due secoli di paura
Per oltre due secoli, dalla caduta di Costantinopoli (1453) all’assedio di Vienna
(1683) l’Europa subì la pressione dell’impero
turco che continuava ad espandersi verso
occidente. Furono due secoli in cui l’Europa
cristiana visse nel terrore di essere
conquistata, elaborando gradualmente il
costrutto ideologico dello scontro di civiltà
(Cristianesimo contro Islam, Occidente
contro Oriente, civiltà contro barbarie) che
non è mai stato completamente superato e,
anzi, in questo periodo sta riacquistando
vigore. I due stati su cui ricadde il peso della
resistenza, per la posizione geografica loro e
dei loro domini, furono Venezia (i territori
d’oltremare, isole dell’Egeo e coste dalmate e,
come si vedrà, anche il Friuli, provincia più
esterna e orientale del cosiddetto “Stato de
Tera”) e l’impero d’Austria (Ungheria e
province di frontiera, Serbia, Croazia,
Carinzia, ecc.). Fu un lunghissimo e
tormentato periodo di ostilità, e intervallato
peraltro da tregue e periodi di pace. La
penetrazione turca seguì due direttrici, la
prima lungo il mare Adriatico e la seconda
attraverso l’Europa Orientale. Venezia,
nonostante la strenua resistenza, che
prosciugò buona parte delle sue ricchezze,
perse un po’ alla volta tutti i possedimenti
nell’Egeo (decisiva nel 1669 la caduta di
Candia, il più importante possedimento
oltremarino veneziano, dopo ben 24 anni di
logorante conflitto che esaurì
economicamente Venezia ). Vienna, dopo che
i turchi avevano conquistato la penisola
balcanica ed erano penetrati nell’Europa danubiana, riuscì a stento a resistere
all’assedio del 1683. Solo più tardi la spinta turca, soddisfatta da tante conquiste,
si esaurirà e nel 1718 il trattato di Passarowitz tra Venezia, Austria e Turchia,
sancirà un nuovo stabile assetto, ma Venezia perderà la Morea (Peloponneso).
Sarà l’ultima guerra col Turco.
4
Realtà e pregiudizi
Ma è doveroso rettificare alcuni stereotipi e pregiudizi derivati dalla paura e dal
costrutto ideologico dello “scontro di civiltà”, per cui si tende ad attribuire al
“nemico” solo caratteristiche negative. In questo modo, il mancato
approfondimento della visione produce una semplificazione scorretta della
complessità, non riconoscendo o annullando le distinzioni, distorcendo la realtà
fino a falsificarla.
La prima e maggior falsificazione della realtà storica è di natura linguistica e ha
come ovvia ricaduta delle conseguenze a livello concettuale. Comunemente, nella
letteratura del tempo era utilizzata l’espressione “il Turco” per indicare l’impero
ottomano, ma conviene ricordare che questo era costituito da un complesso
mosaico di popoli e lingue, delle quali tre erano le principali: l’arabo ( lingua dei
testi sacri ); il persiano ( lingua della grande letteratura ); il turco ( lingua dello
stato e del potere). Tra l’altro, nelle bande che hanno devastato il Friuli di veri
turchi ce ne dovevano essere ben pochi (forse nessuno?), costituite com’erano da
slavi di Bosnia islamizzati e da cristiani rinnegati per convenienza (lo stesso capo
e organizzatore della spedizione, Iskander Beg, pare fosse di origine ligure).
Un altro pregiudizio riguarda l’odio dei turchi per la religione cristiana. In realtà
intollerante era l’Europa e l’ intolleranza fu la causa per più di un secolo di
conflitti di religione tra cristiani di diversa confessione e della sanguinosissima
repressione operata dai tribunali dell’Inquisizione. L’impero ottomano presentava
degli aspetti di laicità impensabili per quel tempo in Europa. Nei territori
conquistati dall’impero ottomano le comunità cattoliche, ortodosse, armene ed
ebraiche e tante altre antiche minoranze religiose orientali continuarono a
sopravvivere senza troppi problemi. La conversione non era obbligatoria e si
poteva legalmente mantenere la propria fede pagando una tassa allo stato (che
quindi aveva l’interesse alla sopravvivenza di queste). La maggior parte dei
cristiani che abbracciarono l’islam lo fecero liberamente e per usufruire di alcuni
vantaggi.
L’elemento forse dominante del costrutto ideologico culturale europeo nei
confronti dei turchi è la loro proverbiale aggressività e ferocia. Dato innegabile
questo, in tempo di guerra, ma gli europei erano molto diversi? Le crociate, che
sono state una invasione dell’Europa in Oriente hanno preceduto di tre secoli
l’espansione turca verso Occidente. E come si sono comportati i crociati anche
verso la popolazione civile? E come si è comportata l’europea e cristianissima
Spagna al suo interno (Reconquista) contro “moriscos” e “marrani” e
nell’America del Sud verso le popolazioni indigene? I cavalieri di Malta con la loro
flotta si comportavano da veri pirati nei confronti dei navigli orientali e i
prigionieri che facevano erano ridotti in schiavitù.
5
La società nell’impero turco presentava anche tratti di modernità sconosciuti a
quella europea contemporanea, ancora in gran parte bloccata su una
organizzazione rigidamente classista e semifeudale, soprattutto nelle realtà rurali.
Nell’impero turco non c’erano pregiudizi di casta e la società era caratterizzata da
una fluidità superiore a quella europea, tale da consentire anche a stranieri,
persone di umilissima origine, ex schiavi anche, di fare brillanti carriere come
funzionari, generali e diplomatici al servizio del sultano e nell’amministrazione.
Questa capacità di far convivere, integrare e assimilare a proprio vantaggio
risorse umane e culturali dalle provenienze e origini più diverse è sempre stata
caratteristica dei grandi imperi.
Una delle cause che alimentò maggiormente la paura delle popolazioni rurali dei
territori soggetti alle incursioni turchesche ( coste del Mediterraneo, territori
dell’area balcanica e danubiana, Carniola, Stiria e Friuli ) e la conseguente
avversione verso per i Turchi, fu senz’altro il fatto che obiettivo importante delle
loro razzie erano giovani maschi e donne, destinati ad incrementare il lucroso
commercio degli schiavi, costituiti soprattutto da slavi (da cui deriva la parola
schiavo, “sciavo” i dialetto veneto) . Va ricordato però che il commercio degli
schiavi fu ufficialmente praticato in Europa, almeno fino alla fine del XI secolo e
largamente tollerato per molti secoli, aggirando il divieto sotto altre forme (non si
potevano comprare schiavi ma di potevano accettare in dono, potevano essere
comprati prigionieri di guerra o persone non di origine europea oppure,
semplicemente, i mercanti europei si limitavano a fare i loro affari nei mercati
orientali o ai limiti dell’Europa ). Quando le potenze europee nel corso del
Cinquecento colonizzarono le Americhe, le popolazioni locali furono
automaticamente poste in condizione di schiavitù e la sciagurata durezza del
trattamento cui furono sottoposte portò a veri e propri casi di genocidio.
Il rapporto tra Venezia e l’impero turco fu per forza di cose ambivalente; se da un
lato fu di opposizione e contrasto, da un altro fu di attrazione e complementarità.
I Turchi Ottomani erano un popolo di origine montanara e vocazione continentale
(da qui l’espansione verso Balcani e bacino danubiano) ma, una volta conquistato
il Medio Oriente e i territori africani delle coste mediterranee, dovettero assumere
anche gli interessi di cui erano portatori i popoli rivieraschi, contrastando
l’invadenza di Venezia nei mercati d’Oriente e ciò li portò a guerreggiare contro i
veneziani per sottrarre loro la rete di basi strategiche (porti, isole, fortezze) che
avevano disseminate lungo le coste adriatiche, lo Ionio e l’Egeo. D’altronde
Venezia era la “porta d’Oriente”, interfaccia dell’Europa con l’Oriente e la base
della sua ricchezza stava proprio negli scambi che riusciva a realizzare con quelle
popolazioni e, poiché l’interesse era reciproco, saggiamente i rapporti non furono
completamente interrotti neanche in tempo di guerra e riprendevano con forza
durante i periodi di pace. La presenza di mercanti e uomini d’affari levantini a
Venezia, città per sua natura cosmopolita, era molto diffusa, ospitati liberamente
da privati o in quartieri presi in affitto, soprattutto nei pressi della chiesa dei
6
Santi Giovanni e Paolo (San Zanipolo in veneziano) e nel sestiere di Cannaregio,
dove c’è ancora il pittoresco Campo dei Mori. In questo campo, quasi a “marcare”
il territorio, inserite in nicchie incastonate nei muri esterni di alcune case vi sono
statue di uomini con turbante e vestiti con abiti di foggia orientale e nel muro
esterno di un antico palazzo di proprietà di mercanti che avevano fatto fortuna
con i commerci con l’Oriente c’è un bassorilievo raffigurante un orientale con un
cammello.
7
Si pensi che perfino nel periodo della spedizione della coalizione europea contro i
turchi che culminò con la battaglia di Lepanto, e quindi nel periodo della
massima tensione politica e ideologica contro l’impero ottomano, mercanti
turchi continuarono a risiedere a Venezia. Nel 1621, quando l’impero turco era
ancora un pericolo per l’Europa (l’assedio turco a Vienna è del 1683) Venezia
destina con una legge specifica un grande edificio sul Canal Grande, il Fontego
dei Turchi (chiamato ancora così ma adesso sede del Museo di Storia naturale),
alla comunità turca, da adibire ad albergo, magazzini, contenente all’interno
perfino una piccola moschea. Si sa però che i mercanti persiani, musulmani sciiti
in eterno conflitto con gli ottomani, preferirono andarsene da quella residenza nel
1662. Con la decadenza di Venezia decadono anche i commerci e il numero di
mercanti turchi ospitati nel fontego diminuisce notevolmente. L’ultimo ospite,
dopo una lunga battaglia legale, dopo il 1840 rinunciò al diritto che la legge gli
riservava.
I mercanti, fossero veneziani o orientali, con la loro concretezza avevano indicato
la giusta via. Avevano cioè capito, grazie all’esperienza diretta quanto queste due
civiltà potessero essere complementari e non opposte tra loro, quanto un confine
inteso come interfaccia e non come limite consenta utilissimi scambi con
reciproci vantaggi. Lezione ancor più valida oggi, dove tutto è interdipendente.
Anche i governi in certi periodi lo capirono, poi prevalsero invece spinte
ideologiche e religiose che portarono all’ostilità e ai conflitti.
Le incursioni in Friuli
Accanto alle guerre, dichiarate, l’impero turco però sviluppò delle guerre parallele,
non “ufficiali” per aumentare la pressione sull’Occidente. Si trattava di
sanguinosissime scorrerie condotte da feroci ed eterogenee bande costituite in
realtà soprattutto da bosniaci islamizzati, inquadrati in milizie locali guidate da
ufficiali turchi, cui si aggregavano volontari irregolari e di diversa provenienza,
spesso rinnegati.
Queste incursioni rinnovarono gli orrori delle ultime invasioni barbariche e contro
di esse si rivelarono del tutto impreparate e sciaguratamente inefficaci le
organizzazioni difensive, quando queste c’erano. La base di raccolta e partenza di
queste bande era Banja Luka, e il loro scopo non era occupare territori, ma fare
un ricco bottino. A più riprese nel corso del 1400 queste bande numerose,
abilissime e inafferrabili, penetrarono in Croazia, Istria, Carniola, Carinzia, Stiria.
Si muovevano con gran conoscenza del territorio, raramente attaccavano i luoghi
ben fortificati perché non avevano armi d’assedio e non volevano perdere tempo
ma piombavano di sorpresa a cavallo sui villaggi inermi, razziando ogni cosa di
valore facilmente trasportabile, catturando e portandosi dietro come prigionieri
giovani d’ambo i sessi e persone facoltose da liberare in cambio di riscatto o da
8
vendere come schiavi, massacrando gli altri e distruggendo tutto, paesi e
campagne. Anche il Friuli ebbe a soffrire più volte per queste incursioni, due delle
quali, la prima nel 1477 e la seconda nel 1499 penetrarono in profondità
lasciandosi dietro una vera scia di sangue anche nei nostri paesi.
1499: l’ultima invasione turca in Friuli
Dopo il 1477 molte altre incursioni si
ripeterono, ma il Friuli ne fu solo sfiorato,
finché, nel 1499 ci fu l’ultima e più disastrosa.
Iskander Beg, ancora lui, il 28 settembre con
un forte esercito (10-15.000 uomini) elude le
mal guidate forze venete inviate in precedenza a
difesa del territorio e passa l’Isonzo. Il 29
settembre pone il campo a Rivolto dopo averla
data alle fiamme, ma non riesce a prendere Codroipo, ben difesa ancora come nella
invasione precedente. La notte seguente guada
il Tagliamento e il 1° ottobre pone il campo
principale nei pressi di Roveredo in Piano, da
dove per tre giorni sciameranno le bande che
imperverseranno in tutto il pordenonese
(particolarmente colpite le località di Aviano,
Cordenons, Brugnera) e raggiungendo le
vicinanze di Conegliano.
Anche questa volta S.Vito poté salvarsi grazie
alle sue fortificazioni, come il castello di
Zoppola. S.Floriano, S.Giovanni, Sile e Bannia
vennero nuovamente depredati e in parte
bruciati.
Gli abitanti di S.Giovanni e dei vicini paesi si erano rifugiati a S.Vito e riuscirono
a salvarsi. In base ad un accordo del 1492 la comunità di S.Giovanni aveva
dovuto fornire 60.000 mattoni per rinforzare mura e torri di S.Vito, in cambio
dell’ospitalità in caso di attacco nemico, cosa puntualmente verificatasi. Casarsa
fu risparmiata, probabilmente salvata dalla sua stessa povertà, quindi poco
attraente e vicino ad altre località più ricche e appetibili. Il fatto di essere stati
risparmiati dagli invasori valse però agli abitanti il soprannome spregiativo di
“Turcs”, da parte degli abitanti dei paesi vicini, sospettosi di un’intesa coi nemici.
9
Il pomeriggio del 3 ottobre se ne vanno, portandosi dietro migliaia di prigionieri e,
rintuzzano sanguinosamente un attacco portato coraggiosamente quanto
ingenuamente da circa 800 contadini di Valvasone, che vengono trucidati e
dispersi. Per le piogge il Tagliamento è ingrossato e il passaggio nella notte tra il 3
e il 4 è difficile, perciò gli invasori uccidono 1500/2000 prigionieri che ne
avrebbero rallentato la marcia, permettendo alle milizie venete che si stavano
riorganizzando, di raggiungerli. Ricostruire con precisione il percorso del delle
bande turche nel nostro territorio è impossibile, dato che le cronache tempo sono
comprensibilmente confuse e perché le bande si frazionavano e ricomponevano
continuamente, ritornando a volte sui loro passi. Si sa che, passato il
Tagliamento, la colonna principale con un corteo di migliaia prigionieri ripiega
verso l’Isonzo mentre una forte
banda non ancora sazia si stacca
suddividendosi per saccheggiare i
paesi dell’alta pianura friulana
che era rimasta finora indenne.
Un gruppo risale verso Dignano e
Carpacco, che vengono distrutte,
un altro si dirige verso
Pantianicco, difesa da una
cortina ed entro cui erano stati
ammassati viveri e si erano
rifugiati gli abitanti dei paesi
vicini. Dopo due giorni di assedio
la difesa cede e duecento
difensori vengono uccisi, i
bambini e i giovani sono fatti
prigionieri. Secondo la tradizione
locale scampò all’eccidio solo una donna che, dopo essersi nascosta sotto un tino,
riuscì a fuggire dopo essersi impadronita di un cavallo di un turco. Tale episodio
si dice rappresentato in un rozzo bassorilievo ora posto all’interno della chiesa.
Anche la vicina Chiasiellis subisce danni. Ormai non si fanno più prigionieri e
altri scorridori (akingy) danno alle fiamme in sequenza Basiliano, Blessano,
Variano, Vissandone, Orgnano, Sclaunicco, S. Vidotto (paese vicino a Sclaunicco
e che non verrà più ricostruito, non l’omonimo paese vicino Camino al
Tagliamento). Sedegliano, Turrida, Grions, S. Lorenzo, Gradisca, Codroipo,
Lestizza, Mereto, Tomba subiscono danni. Flambro viene completamente bruciata
ma la popolazione si mette in salvo nei castelli di Sterpo e Belgrado. Danni
notevoli anche a Talmassons, Flumignano, Lavariano.
Il 4 ottobre Mortegliano è assediata ma la popolazione si difende accanitamente e
il 5 pomeriggio, dopo aver subito pesanti perdite gli assedianti tolgono l’assedio e,
10
mentre una banda si dirige verso Lestizza che, protetta dalla centa resiste, si
ricongiungono rapidamente alla colonna principale perché temono di essere
intercettati e bloccati dalle forze venete che finalmente stanno reagendo. Una
trentina sono i morti fra i morteglianesi, tutte persone che non avevano fatto in
tempo a rifugiarsi nella cortina. Poi arrivano gli stradioti da Udine. Gli stradioti,
albanesi che combattono al soldo di Venezia, odiavano con tutte le loro forze i
turchi, e avevano a lungo resistito alla loro invasione. Ora erano diventati i più
spietati nemici dei turchi. La figura degli stradioti entrò anche nella letteratura
dell’epoca e Torquato Tasso, che li vide a Venezia nel 1559, ne fa un ritratto
efficace nel canto della “Gerusalemme Liberata”.
Gli stradioti della guarnigione posta a difesa di
Udine uscirono comunque più volte in spedizioni
volte a intercettare i drappelli degli invasori in
fase di ripiegamento, sortite coronate da
successo, tanto che portarono a Udine più di
mille teste di turchi, a prova del loro operato e
per riscuotere il premio promesso.
Il 6 ottobre, dopo aver sostato nei pressi di
Medea per dar la possibilità, a chi lo poteva, di
riscattare i prigionieri, gli invasori tolgono il
campo e iniziano la marcia di ritorno. I paesi e
borghi distrutti o danneggiati furono tra 150 e
300, i morti e i deportati circa 10.000.
I comandi militari dimostrarono
inettitudine, gli unici che diedero prova di
coraggio e capacità furono gli stradioti
albanesi che in squadre di cavalleria
leggera, quando poterono, incalzarono il
nemico e ottennero successi locali. Ma fu
nel complesso che l’organizzazione
militare veneziana si rivelò del tutto
11
inadeguata a fronteggiare le rapide e sfuggenti bande turche e ciò impose alla
repubblica una riflessione che portò alla radicale revisione della strategia di difesa
del territorio che porterà alla decisione di costruire negli anni seguenti la fortezza
di Palmanova. Nel complesso, soppesando con cautela le cifre riferite dagli storici
contemporanei, memorie, documenti in archivi parrocchiali, ecc., i paesi
saccheggiati e bruciati furono più di 130 in Friuli, 60 tra Gorizia e il Carso,
10.000 i morti.
San Vito: la sinopia della Torre Scaramuccia
A S.Vito al Tagliamento, durante i lavori di restauro dell’antico Ospedale dei
Battuti e dell’annessa torre di S.Nicolò o Scaramuccia (così chiamata perché nei
pressi si svolse un piccolo combattimento, una “scaramuccia”, appunto , tra i
soldati del Patriarca, feudatario del Friuli, e un drappello armato del duca di
Carinzia), è stata trovata una sinopia (disegno preparatorio di un affresco)
raffigurante tre cavalieri che procedono affiancati, con minaccioso cipiglio, baffoni
e turbante, chiaramente vestiti all’orientale. Molto probabilmente una mano
ignota, ma abile, ha voluto fissare il ricordo dei guerrieri turchi che,
impossibilitati a prendere le solide e ben difese mura della cittadina si sono
dovuti accontentare di fare qualche giro dimostrativo attorno alle mura e poi si
sono dedicati a razziare il contado e borghi vicini.
12
La marcia della morte
Ricostruzione del percorso delle bande di incursori turchi nei giorni tra il 30
settembre e il 3 ottobre 1499 nei territori compresi negli attuali comuni di
Casarsa, S.Vito, Sesto al R., Valvasone-Arzene, Fiume Veneto.
13
Gli stradioti
Meritano una citazione a parte gli stradioti, in quanto, unici tra le milizie venete
diedero prova di coraggio e quando ingaggiarono combattimenti con gli invasori
riuscirono sempre ad avere la meglio. Gli stradioti erano soldati di una cavalleria
leggera che la Repubblica di Venezia organizzò per controbattere le incursioni
della cavalleria leggera turca (15° sec.). In Italia furono adoperati per la prima
volta durante la guerra di Ferrara del 1482. Non
recavano armature difensive, ma molti tenevano un
piccolo scudo, erano armati di lancia, mazza e daga
al fianco. Si mostrarono sempre devotissimi alla
Repubblica di Venezia; lo sviluppo della fanteria,
dell’artiglieria e delle fortificazioni da campo li fece
poco a poco scomparire (16°-17° sec.). Erano una
specie di “legione straniera”, costituita soprattutto
da albanesi , poi anche croati e greci, utilizzata
dalla fine del 1400 da Venezia. Costituivano una
tipica cavalleria leggera, velocissima e adatta ai
raid, alle imboscate ed efficace per questi motivi,
soprattutto contro la cavalleria turca, che
combatteva allo stesso modo.
Odiavano in modo particolare i turchi in quanto le
loro terre erano state assoggettate dall’impero
turco, costringendoli ad espatriare. Durante
l’invasione turca del 1499 furono le uniche truppe
venete a dimostrare intraprendenza e coraggio,
benché spesso trattenuti dai comandi delle
guarnigioni in cui si trovavano. Gli stradioti di
stanza a Udine spesso uscivano in rapide sortite
per intercettare piccoli drappelli di turchi in
ripiegamento e isolati dal grosso dell’esercito,
facendone strage. Solo a Udine vennero portate
dagli stradioti più di mille teste di turchi, come
prova del loro impegno e per riscuotere così le taglie
che erano state promesse dalla cittadinanza.
14
La difesa del territorio: cortine e cente
La Stradalta (un tempo chiamata ongaresca, oggi “napoleonica”) è stata la via
delle invasioni provenienti dai bacini danubiano e balcanico. Gli abitanti dei
poveri villaggi che si trovavano lungo questa direttrice, nella cosiddetta “strata
hungarorum”, non avevano a disposizione castelli o città murate e ben munite
entro cui rifugiarsi. Poiché il pericolo solitamente arrivava inaspettatamente,
senza nemmeno lasciar la possibilità di scappare nei boschi, che soprattutto a
sud della linea delle risorgive erano molto estesi, le comunità rurali, per
disperazione, cominciarono a costruire spontaneamente delle fortificazioni. Ciò
avvenne fin da prima del Mille, ma soprattutto nel XI e XII secolo. Queste
fortificazioni rustiche, chiamate cortine, dovevano essere dei recinti di forma
circolare, a volte protetti da un fossato, posti ai margini del paese su dei rialzi di
terreno, naturali o anche artificiali. All’interno c’erano una chiesetta, una torre-
campanile, una canipa (la “caneva”, edificio per l’ammasso dei viveri e delle
granaglie) e poco altro (qualche casetta e recinto per gli animali).
Le cortine nei due secoli seguenti evolsero poi in cente, cioè dei borghi rurali
fortificati con case, che probabilmente avevano incorporato le mura della cortina.
Le case erano arroccate circolarmente intorno alla chiesa, quasi prive di aperture
verso l’esterno al piano terra, con poche feritoie e piccole finestre ai piani
superiori e con una torre portaia come unico accesso, custodito da un portinaio
pagato dalla comunità.
Queste costruzioni tipiche, testimonianza
di una vera e propria psicosi delle
invasioni, proliferarono in tutto il Friuli e
quasi ogni paese (in moltissimi paesi
sopravvivono i toponimi “via cortina”, “via
centata”, ecc.) se ne dotò rispondendo,
oltre che al bisogno di sicurezza, a una
forte esigenza di identità di quelle società
rurali. Nel solo Medio Friuli le cortine o
cente furono moltissime, forse anche ad
imitazione dei villaggi fortificati sloveni o
tabor, in seguito alla colonizzazione slava
di questi territori favorita dai patriarchi
dopo il Mille.
È documentata l’esistenza di cente nei
seguenti paesi: Basagliapenta, Basiliano,
Beano, Blessano, Castions di Strada,
Chiasiellis, Codroipo, Flaibano, Gradisca di Sedegliano, Lavariano, Lestizza,
Mereto di Tomba, Mortegliano, Orgnano, Pantianicco, Plasencis, Roveredo di
15
Varmo, Rivolto, S. Maria di
Sclaunicco, S. Odorico al
Tagliamento, Savalons,
Sedegliano, Turrida,
Variano, Virco, Vissandone,
Zompicchia. Nei territori
dell’attuale provincia di
Pordenone si assistette a
una proliferazione
spontanea di queste
fortificazione contadine,
spesso piccolissime e di
origine plurifamiliare.
Spesso la centa in questi
casi prende il nome non
della località ma della
famiglia, e vale anche il
caso opposto, di cognome,
ad esempio Centis, Di
Centa, ecc., derivato dalla struttura. Lungo la pedemontana pordenonese sono
state censite più di sessanta cente. La loro realizzazione fu in certi casi ostacolata
dalle autorità locali, che scorgevano in queste opere, attraverso la progettazione,
la mobilitazione delle energie, l’organizzazione collettiva e distribuzione dei lavori
di costruzione, la spontanea crescita di quelle piccole comunità rurali verso una
maggior consapevolezza e autonomia politica, potenzialmente pericolosa per
l’equilibrio sociale che esse dovevano mantenere e che prevedeva la totale
soggezione della contadinanza. Si trattò di una grande opera di pianificazione
urbana collettiva, cui la funzione dettò schemi e tipologie costruttive che rese
simili questi paesi e da cui deriva quel loro tipico aspetto chiuso verso l’esterno e
quel senso di omogeneità e armonia d’insieme che avevano e di cui ora rimangono
solo frammenti. Le cente favorirono dunque la maturazione sociale delle comunità
ma non riuscirono ad assolvere, tranne in pochissimi casi, alla funzione per cui
erano state costruite. Troppo piccole, da sembrar patetiche ai nostri occhi e,
soprattutto, non difese da veri soldati, non ressero alla prova delle incursioni
turchesche della seconda metà del 1400. Durante l’ultima incursione, quella del
1499, Codroipo, la più munita e difesa da una vera guarnigione, fu evitata.
Mortegliano resistette a due giorni d’assedio, finché la banda turca assediante
non desistette per non staccarsi troppo dalla colonna principale. Quella di
Lestizza venne attaccata ma resistette perché gli incursori, ormai in ripiegamento,
non insistettero per timore di essere intercettati dalle milizie venete che
rinvenivano. Tutte le altre furono prese e date alle fiamme, compresa Pantianicco,
la cui commovente resistenza durò due giorni. Con l’età moderna cambiò la
strategia di difesa del territorio e venne costruita la fortezza di Palmanova, perciò
16
le cente sopravvissero con pura
funzione abitativa e di molte è
documentata l’esistenza
chiaramente dalle mappe del
Catasto napoleonico (1807-1812)
e dai successivi aggiornamenti
austriaci.
Nei consistenti riordini edilizi
degli ultimi due secoli i fossati
vennero colmati e quasi tutte le
cortine/cente furono smantellate.
La cortina di Mortegliano, con la
torre, venne demolita per far
posto alla nuova chiesa alla fine
dell’Ottocento. La centa di
Lestizza, che era considerata la
meglio conservata del Friuli e a
cui si accedeva attraverso una bella torre portaia, era ancora integra nel 1913 e
venne abbattuta nel 1948 per costruire il nuovo campanile, le altre parti vennero
de molite negli anni seguenti. In un gruppo superstite di case vicine rimane la
“torresse di Garzit”, costruita probabilmente con funzione di avvistamento verso
la metà del 1400 e poi trasformata in colombaia. A Gradisca di Sedegliano,
Sedegliano e Mereto rimangono evidenti i terrapieni che hanno ospitato le cortine
preceduti da profondi fossati e in quasi tutti i paesi sopraelencati rimangono
riconoscibili le tracce della cortina nella caratteristica disposizione delle case ad
anello, spesso attorno alla chiesa come è ben esemplificato nella pianta del paese
di Rivolto.
17
La cortina di Casarsa
Anche Casarsa ebbe la sua cortina, raffigurata schematicamente in un disegno
del 1751, copia di una mappa antecedente. Verso la fine del “500 la cortina aveva
già esaurito la funzione difensiva originaria.
La cortina, di cui oggi non rimangono resti evidenti e di cui sono state rinvenute
alcune tracce grazie a scavi archeologici compiuti nel 1993, sorgeva sull’area in
cui è inserita la chiesa di S.Croce. La chiesa, con il cimitero, doveva trovarsi
probabilmente al centro della cortina, che consisteva in un argine con palizzata o
muro di protezione, circondata da un fossato su cui era gettato un ponte levatoio.
Doveva trattarsi di una costruzione davvero molto modesta, espressione di una
comunità molto piccola e povera, quindi poco interessante per gli invasori, che
preferirono trascurarla e dedicarsi a razziare gli altri paesi vicini, tutti
evidentemente più appetibili. Ricordiamo che lo sviluppo urbanistico di Casarsa è
piuttosto recente ed è dipeso dalla riorganizzazione del territorio conseguente alla
costruzione della grande strada Pontebbana e della ferrovia. Il cambiamento delle
principali vie di comunicazione, con relativa capacità di attrazione, portò
all’emarginazione e al declassamento di centri prima importanti come Valvasone e
il contemporaneo affermarsi di paesi prima trascurabili come Casarsa. E’ evidente
la collocazione eccentrica della zona della vecchia cortina ( zona S.Croce e
biblioteca civica) rispetto all’attuale nucleo principale del paese, segno di una
organizzazione territoriale ed evoluzione urbana diversa rispetto all’attuale.
La cortina come viene
rappresentata in una
mappa del catasto austriaco
del 1823.
18
Le invasioni scritte sulla pietra
Oltre alla lapide che ricorda l’invasione dei Turchi murata ora nella chiesa di
S.Croce a Casarsa, in Friuli ce ne sono almeno altre tre che ricordano le invasioni
del 1477e del 1499.
Iscrizione graffita su un muro della chiesa parrocchiale di Pravisdomini.Il testo, di non
semplice lettura dice:“P(RE) IACOBUS DE VRSARA 1477 LI TURCHI CORSERO IL FRIULI
ADI I DE NOVENBRIO ET ADI 6 TO(R)NARO E PIERO MIS(SER) MARCU DE LA FRATINA
SVLE GRAVE DEL TAIAME(NT)O. Secondo una leggenda di paese, il conte Marco della
Frattina, di cui si parla nella lapide, venne impalato dai turchi, ma una testimonianza
postuma sostiene che venne fatto prigioniero, portato a Istanbul e liberato dietro
pagamento di un riscatto di mille zecchini.
Iscrizione posta all’esterno della chiesa parrocchiale di Tricesimo. Ricorda che nel 1477,
oltre all’invasione dei Turchi, il Friuli soffrì anche di una terribile invasione di cavallette
(langoste=locuste).M. CCCC. LXXVII. NOTA CHE DE AGOSTO FONO LEGOSTE IN LA
PATRIA ET A VLTIMO OTVBRIO LI TVRCHI RONPE LO CAMPO AL OSONZO. LO DI
SEQVENTE TRASCORSE BRVSANDO LA PATRIA PER TVTO.
Bassorilievo inserito sul muro della chiesa di Pantianicco,
nei pressi della vecchia cortina. Secondo la tradizione
rappresenta un cavaliere turco. Durante l’invasione del
1499 la cortina di Pantianicco si difese per diversi giorni ma
poi cedette. Il paese fu distrutto e della popolazione fu fatta
strage.
19
Riferimenti iconografici
I disegni utilizzati per illustrare i testi sono opera del disegnatore
Walter Chendi; non sono come si potrebbe pensare (è molto di moda
oggi) fantasy, ma rigorosamente basati sui documenti iconografici che
sotto riportiamo.
Fig. 1 Fig. 2
Immagini rappresentanti cavalieri
turchi akingy. Le prime due sono
tratte dal Codex Vindobonensis.
Le ali che fregiavano il copricapo
erano concesse solamente ai
guerrieri che avevano dato prova di
grande valore.
Fig. 3
20
Fig. 4 Fig. 5
L’immagine n. 4 è una stampa
dell’epoca che rappresenta degli
stradioti con i loro caratteristici
abbigliamenti.
Cavalieri stradioti sono rappresentati
in secondo piano nell’immagine
n.5. In primo piano fante veneto
con elmo leggero (bacinetto) e
corazza (corsaletto).
L’immagine della figura n.6
rappresenta fanti turchi (16° sec.)
Fig. 6
21
I Turcs tal Friùl
All’interno della chiesa di Santa Croce si trova una lapide votiva che ricorda
l’invasione dei Turchi del 1499. La lapide non appartiene a questo luogo sacro
della comunità casarsese, ma è stata trasferita qui nell’anno 1880 e proviene
dalla piccola chiesa della /Beata Vergine delle Grazie/, che venne portata a
compimento con pitture e decorazioni nel 1529, quando la comunità di Casarsa,
in segno di ringraziamento per essere stata risparmiata dalle invasioni turche,
adempie a quanto la lapide esprime.
«1499 ADI30 7BRE NEL SOPRAD. MILESIMO FURONO LI TURCHI IN
FRIULI ET PASORONO PER DESOPRA LA VILA ET NOI MATIA DE
MONTICO ET ZUANE COLUSO FESIMO AVODO DE FAR QUESTA
SANTA CHIESA SE LORO NON NE DAVANO DANO ET PER LA
GRATIA DELA NOSTRA DONNA FUSSIMO ESAUDITI ET NOI CON LO
COMUN FESSIMO LA PRES ENTE CHIESA NOI CAMERATI BASTI AN
DE JACUZ ET ZUAN DE STEFANO GAMBILIN FESSIMO DIPINZER
DEL 1529 ADI 7 SETEMBRE»
A questa lapide votiva è ispirato il dramma teatrale “I Turcs tal Friûl”, un atto
unico in friulano scritto da Pasolini durante il corso drammatico della guerra. Il
testo, col suo andamento da “mistero”, tra tragedia greca e sacra
rappresentazione, si situa al crocevia di tante e diverse sollecitazioni: le storie
“favolose” della tradizione di casa Colussi raccontate da Susanna Colussi, madre
di Pier Paolo; il fatto storicamente documentato della scorreria dei Turchi in
Friuli nel 1499, che ha solo sfiorato Casarsa, risparmiando il paese; la ferocia
contemporanea della seconda guerra mondiale, che in quel 1944 trasformò
Casarsa in luogo di pericolo e di allarme, con invasioni naziste, azioni partigiane,
bombardamenti anglo-americani che miravano al ponte e alla ferrovia sul
Tagliamento, creando il substrato di ansia e angoscia che alimenta il dramma
22
teatrale. Gli invasori Turchi si sovrappongono ai tedeschi oppressori e nella figura
di Meni è facile intravvedere una trasposizione del fratello di Pasolini, Guido,
partigiano della brigata Osoppo, ferito dai partigiani comunisti nell’agguato di
malga Porzus, rincorso e finito nel Bosco Romagno.
Nei “Turcs tal Friùl” non ci sono tracce documentarie o di cronaca e la minaccia
dei turchi è solo il pretesto per rappresentare un modello di vicenda scandita in
tre parti: dolore, morte, rinascita. Nell’opera viene rappresentata una piccola
comunità popolare, in un luogo periferico e appartato, lontano dagli eventi
importanti, che la storia costringe a confrontarsi con il pericolo e la paura
dell’”altro”. Di fronte al pericolo incombente della fine, ecco che il coro di paese
discute ed elabora al suo interno le possibili reazioni di autodifesa: da un lato, la
rassegnazione, di fronte al mistero del destino e al volere imperscrutabile del
cielo; dall’altro, lo scatto combattivo, attivo e vitale, anche con aspetti di
contestazione.
Sugli uomini che dibattono e si dividono in opposte fazioni, sorvegliano le donne,
unite soprattutto dalla comune condizione dell’essere madri. In scala ideale,
sono madri di crescente potenza consolatrice: Lussia, con la sua dolcissima
fragilità; Anuta Perlina, con la saggezza disincantata di chi ha già molto sofferto.
Ma, ad allontanare davvero la minaccia del Turco, non serve altro mezzo che la
morte, pegno che la comunità dovrà versare per la sua salvezza. E la morte,
dunque, si porta via Meni, il giovane che ha scelto di reagire alla rassegnazione
degli altri, come un Cristo, un capro espiatorio o un eroe tragico di tragedia
antica che, con il suo sacrificio, salva la comunità. (tratto dal sito del Centro
Studi PPP, con semplificazioni).
Questo testo, nella forma di dramma teatrale è riemerso dopo la
morte dell’autore, nel 1976, ma fu composto a Casarsa, forse già dal
maggio 1944.
23
I Turcs tal Friùl
Versione per immagini con finale a libera interpretazione da parte degli allievi del
laboratorio di fumetto della scuola secondaria di I° “E Fermi” di Casarsa.
24
25
26
Sappiamo come poi è andata… Meni Colùs non resiste al suo impulso
generoso e parte per affrontare i Turchi e viene ucciso e tutti gli altri,
che pavidamente non lo avevano seguito, vengono colti dal senso di
colpa .
Queste sono le ultime battute del dramma.
S’ciefin Cuarnùs
“I Turchi si fermano. L’uragano gli sbatte negli occhi tutta la
polvere dei nostri campi cristiani! Tornano a passare
gridando le Mirische. Scappano via urlando. Scompaiono nel
buio”.
Il prete
“Stringiamoci nell’ombra delle nostre case, cristiani, qui,
senza domandarci mai niente, niente che siamo, adagiati nel
grembo del Signore. Amen”.
Ma il dramma pasoliniano non dà una precisa spiegazione di cosa spinse i Turchi
ad evitare di saccheggiare anche Casarsa e gli allievi del laboratorio di fumetto
hanno pensato di inserirsi proprio su questo punto, dando una loro versione.
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
IL LABORATORIO DI FUMETTO
VALERIA RIZZO
E’ la decana dei professori della scuola secondaria e da più di trent’anni si sforza
di avvicinare all’arte e educare al bello i ragazzi di Casarsa, spesso riuscendoci.
Soprannominata (dal preside) Prezzemolina perché sempre presente quando ci sono
iniziative particolari, se è vero che tutti la coinvolgono, è altrettanto vero che lei non
si tira mai indietro, con vantaggio di tutti.
WALTER CHENDI
E’ autore di storie e sicuramente uno dei migliori disegnatori italiani. Unisce alla
pulizia del tratto e bellezza del disegno, che potremmo definire classica, una cura
maniacale per l’esattezza dei particolari e della esatta ricostruzione storica.
Quando l’ho contattato per proporgli un’esperienza con i nostri allievi ha detto
subito di sì, con mia grande gioia e sorpresa. Ormai è un amico. Si atteggia a
burbero, ma è finzione e con i ragazzi ha dimostrato grande pazienza. Per
presentarlo meglio riportiamo suoi cenni biografici tratti dal suo sito, che invitiamo a
visitare (www.walterchendi.com).
37
“Nato a Trieste nell'inverno del 1950, al mattino presto, in una giornata di Bora
scura. Alto 180 centimetri, pesante 120 chili. Acquario ascendente Orso. Sposato.
Due figli. Un cane. Un gatto. Un limone. Un abete. Un tavolo da disegnatore. Un
computer. Tre paia di occhiali.
Dopo alcune esperienze nel mondo del calcio ed altre in alcuni mestieri, ho dedicato
dieci anni ad un grosso computer che all'epoca si chiamava Calcolatore elettronico e
occupava uno stanzone.
Poi, a quarant'anni, smisi di fumare e scoprii i fumetti. Avevo già lavorato per un
paio di giornali locali con strisce, vignette, illustrazioni e copertine, ma fui attratto
dai fumetti e tentai d'imparare a farli.
E' inutile dire che la cosa è più difficile di quanto sembri. Credevo di saper
disegnare e, ancora oggi, consumo molte matite e moltissima gomma. Credevo di
saper raccontare e ancora oggi ho grossi dubbi ad ogni scena.
Il primo fumetto vero e proprio lo mostrai a Vittorio Giardino, quando entrambi
avevamo più capelli. A Lucca, quell'anno, mi presentò Rinaldo Traini che accettò il
"Ritocco di cronaca" , scritto su un particolare della vita di Rembrandt.
Quindi Comic Art acquistò anche alcuni racconti tappabuchi della serie "Nuvola
rossa". Fui e sono onorato di vedere le mie pagine stampate assieme a quelle di
grandi fumettisti come Toppi, Micheluzzi, Crepax, Tardi, Eisner, Cavazzano, Otomo,
Torti, Bacilieri, Mastantuono.
Poi vennero altri lavori, altre vicende, comuni a molti, qualche mostra di quadri,
qualche intoppo e gli anni corsero. Ebbi la possibilità di sceneggiare "Vedrò
Singapore?" di Piero Chiara. Iniziò così la mia collaborazione con la Lizard e
vengono pubblicati anche "Mont Uant" ed "Est Nord Est".“La porta di Sion” mi fa
vincere il Gran Guinigi al LUCCACOMICS 2010 (il più prestigioso premio per
disegnatore di fumetti in Italia, n.d.r.).
Nel frattempo escono tre volumi dedicati alle "Maldobrìe", racconti sulla Trieste
asburgica scritti dal duo Carpinteri & Faraguna. Continuo a scrivere, sceneggiare,
disegnare. Perché mi piace”.
Aggiungiamo noi, vive in una casa-eremo a Caresana (comune di S.Dorligo della
Valle), a pochi chilometri dal centro di Trieste, ma arrivarci è un’impresa e una volta
lì sembra di essere ai confini del mondo. Rcentemente è uscito una sua nuova
storia per immagini, “Maledetta balena”, per la casa editrice Tunué.
38
39