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l’immaginazione l’immaginazione 325 Redazione: 73016 San Cesario di Lecce - Tel e fax: 0832 205577 - [email protected] - Sped. in A.P. 45% - Art. 2 comma 20/b L. 662/96 DCO/DC/LE/473 del 07/11/2002 Fil. Poste Lecce - € 8,00 ISSN: 2532-8387 settembre-ottobre 2021 Adriano Spatola, Z-SEGNOPOESIA

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l’immaginazionel’immaginazione

325

Redazione: 73016 San Cesario di Lecce - Tel e fax: 0832 205577 - [email protected] - Sped. in A.P. 45% - Art. 2 comma 20/b L. 662/96 DCO/DC/LE/473 del 07/11/2002 Fil. Poste Lecce - € 8,00

ISSN: 2532-8387

settembre-ottobre 2021

Adriano Spatola, Z-SEGNOPOESIA

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novitàlibreriain

Angelo MastrandreaL’ultimo miglioViaggio nel mondo dell’e-commercee della logistica in Italia tra Amazon,rider, portacontainer, magazzinierie criminalità organizzata

La logistica è divenuto un settore cruciale, anzi il settore cruciale dell’economia capitalista dalla fine degli anni Novanta. Il trasporto su gomma e via mare delle merci, e quello al dettaglio dell’e-commerce, nell’ultimo decennio sono esplosi e, con l’emergenza sanitaria del Covid-19, hanno conquistato enormi quote di mercato.Consegnare ordini così frammentati e in poche ore ha costi altissimi: sociali, anzitutto, per lo sfruttamento dell’ultimo anello della catena, magazzinieri e driver; ambientali, per l’inquinamento che generano i passaggi su gomma nelle città e, a livello mondiale, il traffico sui mari delle navi portacontainer; economici, per la perdita di Prodotto interno lordo generata dalle delocalizzazioni produttive.È nota la leadership di Amazon nell’e-commerce: la sua forza contrattuale, l’assenza di regole nei rapporti di lavoro, l’evasione fiscale ne hanno fatto il padrone indiscusso. Ma la questione riguarda l’intera economia e si riversa a cascata lungo tutto il sistema, radicando forme di abuso lavorativo in cui il sommerso diventa la regola. Con il corredo, a volte, di infiltrazioni della criminalità organizzata.Angelo Mastrandrea si è messo sulle strade della logistica raccontando alcuni casi emblematici: l’assenza di tutele nel mondo di Amazon, le condizioni dei magazzinieri alla Città del Libro di Stradella, la ribellione alla mafia dei trasportatori di frutta della Geotrans in Sicilia, i viaggi intercontinentali delle navi portacontainer con i loro carichi di monnezza, e l’ultimo miglio dei rider, i ragazzi in bicicletta che consegnano il cibo nelle nostre case.

pp. 176, € 14 • Fuori collana

Angelo Mastrandrea è nato nel 1971 a Sala Consilina (Salerno). Scrittore e giornalista, si è sempre occupato di tematiche legate al mondo del lavoro. Scrive per numerose testate tra cui “il manifesto”, di cui è stato vicedirettore, il “Venerdì di Repubblica” e “Internazionale”.Sue inchieste sono uscite anche in Francia su “Le monde diplomatique”, “Courrier international” e “Revue XXI”.Nel 2015 ha pubblicato Lavoro senza padroni (Baldini&Castoldi, finalista al Premio Biella Letteratura e industria).

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POESIA 1

Alberto Bertoni

Gabbiani

Un gabbiano? A Reggio,stamattina, svolazzantesul casello autostradale?

Passa di qui perché ha smesso anche lui di comperareogni giorno il giornale di destraanzi di estrema destrache fino al mese scorsoesibiva superba la tiziaora al bar al mio fianco,finita appena la brevefuga dal virus?

Aria sostenuta e un po’ seccata,becco affilato e incongruaapertura d’alarispetto alla staturacon voglia di rapinoso agguatodavanti all’occhieggiaredalla sportina di plasticadove ammucchio la spesa quotidianadella testata di blandissima sinistrache tengo d’istinto ripiegatafra la Gazzetta dello Sporte il giornale dell’ippica

Esaurita la disputae soprattutto la suamai compiuta metamorfosiio e madama ci scambiamoun mezzo inchino e un ghignoimboccando strade opposteattorno all’albero di basso lignaggioche come mio solito non identificonon essendone capace anche se pagoun discreto oboloper una App di abbecedario vegetaleche mai ho imparato a usare

E fra l’altronon dev’essere un albero difficile,figurarsi se il Comune di Modenacon qualcosa di esotico ha sprecatoi risicati fondi per le piantesu questo viale dritto verso il centroo verso fuori a seconda dell’orientamento cui indirizziamo il nostro

tendere eterno a un finedentro il quartiere dovepiù degli alberi fremonooggi sussurrando le case

La voce di qualcuno

È arrivata la voce di qualcuno

Solo la voce, senza il corpo

È una voce di uomo, calma nel tonononostante il geloche adesso assedia il luogo,quella stanza normale, lo studioa metà del corridoiolì dove minime incombenzetoccano ai nervi cranicie dove noi vertebrati finiamoper accartocciarci su noi stessi e godiamodello stesso godimento di cui godonole sinapsi cerebrali quando smettonodi muovere le antenneo di spaventarsi del vuotod’aria che pela e scoscendetutto quel poco rimastodelle nostre faccelasciate nel vaso dell’ingresso

Hai presente la perfezione della meladi questa precisa mela che guardocome la guardò Cézanneelevandola per sempre a meladi ogni altra melacol lucido e l’opacol’arancio e il verdastrod’azzurro punteggiatoestesi di riflesso a tutto il mondoe poi trasmessi al lavorìo del bacoche si scava uno spaziovitale, quell’attimo prima del letargoquando metodico prendepiena cognizione dello spazio

Tutto questo soloper il gusto di un viaggioprotratto fino all’orlo del dirupoperché il discorso intanto cade mutodavanti alle abitudini di cena,muto e in agguato alle soglie di una terraaffamata di guerra e di vendettaE la voce si sente inadeguata,vorrebbe essere Irlanda,

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POESIA2

Siria, Bosnia, Cecenia o Alabamanelle contraddizioni più cruente della storia,ma farsi anche scroscio di pioggia, qualche voltae maestrale in Sardegnail giorno che il mare mi ha travoltoinsieme con la poveramia fede di sposato da pocoper chiudersi di colpo nel suo grembo

tutto illuminato d’oroMa noi remavamo remavamofinché abbiamo avuto fiatoe lotta e gesto solo dopo che sono evasodal mio periplo malvagiosenza più desiderio d’altro

Ora e per sempre naufragonel ricordo involontario

Lorenzo MorandottiL’amore terrestre

Antichi erbari

Riflessi rami e dita nello specchioil fiume sa dire se l’ombra viene al mondonel fragorecerca un punto di appoggioe addestramento

La lepre invecchia

L’altra sera che terribile spavento dice in fretta al buio di una curvaancora un soffio ed era sottola donna vestita di scuro

Cerca sempre di uscire dal fangola lepre schiacciata nel secolo scorsorincasando a fari accesi ha visto solo la zampa si agitava senza vita

Ipogei

«Verso l’ascesi totale»scrive meno convinto e per l’ultima voltacede al sonnoin gesti che muove la pelleogni frase un tramontodi sete e domande

Fiore di prudenza

È tutto lì attraverso il buionel camminare densonei cori avvelenatiche ammoniscono«rinuncia al tuo bagliore»Non si esce più da certe scuolesaremo ciò che si misuradalla qualità dei presentitutti amici finché un rimpianto un paradosso di vergognali fa perdere e sparire

Dal libro delle esclamazioni volontarieColate di sangueportano in spallai pesi del fiumegrembo rosa su acciaiodiventa latte da navigare

Sa di polvere e corpodanza per intercessioneniente spazio sul camion è carne che invecchialasciate passare

Per scuotere il mondo basta una lacrimasenza respiroe ancora faremo farfalle sulla neve

da Alberto Bertoni, Poesie

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“Il Verri”, n. 76, giugno 2021

Importante questo fascicolo interamentededicato a Carlo Bordini, “rivoluzionario timi-do”, lucido critico e comunicatore di una scrittu-ra narrante la propria vita, che è, a suo dire,“banale e drammatica”, ma sicuramente spingea riflettere, in prosa e in poesia. Gli interventisono di diciotto amici, critici, letterati per scan-dagliare il lavoro in versi e quello di narratore efanno emergere l’uomo, l’intellettuale, l’amico...Nel 2004, nel catalogo Manni, il libro di poesiePericolo. In quarta di copertina semplicemente:“Poesia nuda come i fili di un computer quandosi smonta. Romantica, diretta, ammaliante co-me una confessione laica”. Possiamo aggiun-gere oggi, insieme a Filippo La Porta, “poesiainclusiva, accoglie il mondo come è”. A comple-mento del fascicolo, una preziosa copertina diWilliam Xerra e suoi disegni, con un testo criti-co/esplicativo di Eugenio Gazzola.

ANNA MALERBA, Intorno a RomaTurismo e viaggi 2021

Non è una guida turistica, nemmeno un dia-rio di viaggio, è un libro che invoglia a conosce-re i cento e più luoghi visitati per scelta oculatain brevi gite o piccoli viaggi. Invita a guardarsi in-torno per scoprire a pochi passi territori italianida ammirare. Perché l’Italia davvero racchiudebellezze naturali e artistiche ancora non defor-mate irrimediabilmente in centri con surplus dilocali di souvenirs e cibo senza identità. Nellamia ormai lunga vita ho attraversato soltantoquindici dei luoghi suggeriti da Anna Malerba. Mimancano davvero, per esempio, i paesi fanta-sma, Ravenna e, sembrerà incredibile, tantissi-mo di Roma, e questo, con un po’ di buona vo-lontà, potrei provare a farlo, anche alla mia età.Mi vergogno ed è tardi per recuperare. Leggen-do queste gradevolissime pagine, anche soltan-to in poche convincenti parole, è come essercinel sito, nella contrada, nell’edificio, nella botte-ga, al tavolo di una trattoria, sulla spiaggia delnostro Paese che vediamo cambiare ogni gior-no. L’autrice ci invita a frequentare meravigliepoco note o sconosciute, ci spinge con passionee autorevolezza, con una scrittura accattivante,a vedere, a esplorare. Un’aggiunta: questa chic-ca è stata stampata in poche copie, senza indi-cazione di prezzo, come regalo agli amici.

Anna Grazia D’Oria

NOTERELLE DI LETTURA 3

Compiti dell’erosione

Gli occhi non possono vederema se urtano esce sangue naturaleper fare esercizi in cera giallava a prendere i rami dei gelsie sulla bara piccola un mucchio di panni da stirare

La terra risponde sempre

Ha morso la lingua ed esceaccade sempre prima dell’albasotto la neve paneè morto sdraiato si dicestava seduto su lana di rocciaha detto messa e apparecchiatoe ora davanti ha un mare di tempo

Coltelli e angeli

Non vende più ombresolo gesti neutrimedicina e profezia

Fare la guardia alle matitenon cattura e non portaa pulire le celle,l’inventario si fa prima di tornareal pozzo dei saperi

Ciascuno corre incontro alla sua nottebeato il giorno in cui dimentica di respirare

Memoria della forma

In silenzio prega e scrive la scena delle corniciallenta le maglie della cordala spirale non è chiusase qualcuno è andato viala lampadina esplodeprima che faccia giorno

In silenzio prega e scrive

Lorenzo Morandotti è nato a Milano nel 1966.

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POESIA4

Giovanni Angelini

In prospettiva

In prospettiva fra le gambe dei tavolisi vede il mare,estate e inverno fraternoe la morte riposa.È quello il frutto del suo ventreil gesto sospeso del tempo,il corvo che tace.

In fondodall’altra parte dell’asfaltoil mare,bettola sempre apertaa lampi fra il via vaima fermoe mia madre da lontano lo guarda«Vieni e vedi» mi dice «l’ombra profondache ci svela»Poi china il capo sulla Singermi aspetta, rifà l’orloe tace.

Beato chi

Beato chi non è mai partitoil vino sempre uguale ma ogni anno da scoprire.Il tempo scotta meno a chi non è partito,vede cambiare il superfluo e sorride (quasi)

[immortale.Chi non è mai partito ci raccontaquando ritorniamoe mai partito è inizio a raccontare…la voce pesa e pialla ancora uguale.Il viaggio non è che refuso per chi non è partito, ci amputa del nostro tempoe l’amicizia pesa nel vino sempre offerto e uguale.

Malatempora

Siamo della razza dei fedelinessun male ci ha fatto cambiare.Vicino a noi scorrono vite amichenon più uguali– ma la vita ha sempre ragione –

Ci si allontana con movimenti carsicie poi la faglia diventa invalicabile.La colpa non ha più nome

ma fa bile dei vini…cresce abitudinie memoriache solo nel resistere ci chiama…

Io li riconosco– sono i più soli –i passeri sul ramo ignari dell’età.Inappetenti alla greppiaanoressici all’andazzo.E ognuno accampa la miglior memoria– il vetro più pulito –ognuno si fa eletto di quello che non agisce

[più.

E solo nella disputa e il silenzioresta il legame – la corda –«jusqu’au dernier jour».

Glissando

È un continuo glissare ormail’oliato tempo del compromessoe chi non glissa è raroe anche fra i pochi l’accordo è scarno.Questo lasciare decisioni in sospesoquel rimandare all’eternità del caso…ma i gonzi non abboccano:i mali non cedono a effetti d’otticadi morte allontanata.

Chi glissa non evita ma precipita,chi scansa s’infossa,muore un po’ più in là…Solo chi si muove vivee muove ricordi e vita insieme,raduna luoghi persi e lampi nuovi,anche se il ritmo del tempoè il suo disincanto.

Restaurant

Come se lavarsi i denti dopopotesse preservarci da ogni cancro.

Come riallacciarsi i sandali d’estate,il cuoio grasso nella fibbia.Altri viandanti arrivano più persi e poveri…acquatile è l’aria nella stanza piccola

del restaurant.Cus-cus o tajine: ci si viene con amici sceltiper bere, ridere e ricordare i nostri morti.Ma schioccalo il bicchiere ché l’amico parte,

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POESIA 5

inauguralo il viaggio che non sarà tuo!Da quali derive saremo separati,da quali ombre non sappiamo

e il vino tocca il cuore.Uccello di passo come te allorao riconosci dallo sguardodall’odor d’alga che porta sull’uscio.Parole non dette, costrette dall’harissa che cuoce la bocca. Il vino macchia «la langue fourche» sbagliama tutto è capito in fondo.Annotta,

la gente partela nostra serata comincia.

La trebbia fedele

La trebbia fedele che scalza solchiappura l’ariaappoggia la luce

alla luce che trema di polvere.

All’erta parole poveree fischi a confine.

Quadro immobile viaggia nel tempo,come una eclisse ritorna.

Ignoranza della vita senza ricompensa di vita.

Odor di nafta sotto il ventre della macchina sciancata dalle zolle.

Lontano motori sugano l’acqua

da canne e fossie tutto è un pezzo di pane.

Pausa

Sul sentiero di crestaraggiungili i tuoi

di spalle fra i castagni…Vivi e morti

non ti vedono.

Allunga il passo fra le assenze sempre [più spesse,

il cancro o le costellazioni,l’Orsa e il Cigno.

Storie private o Storia brace è la vitae la memoria il solo companatico.Allunga il passo,

raggiungili dove tutto si incatenae non sarai più solo.

Ma eccolo il corvo che riattaccae veleggia

netto come una sagoma di fòrmicae il suo lamento dall’alto m’accompagnanel penultimo giorno dell’anno.

I fili tesi o a onda

I fili tesi o a ondatirati dai rondoni…

vieni e vedicome rimpagliano il vuotoo almeno provano.

Sono segni persi ricuciti al tempo,anni mancati a amici morti

e conto i lutti.Il sale di quelle terre mancama tiene la sagola.

Vieni e vedile funi che incordano

i vicolialla prosa lontana d’altri vicoli.

Già l’alba

Già l’albae i rumori del lavoro,dalla panetteria sale un odoredi croissant…il ritmo di pietre scosse del tram.

Prime persiane sbattutedall’ultima aria della notte

che si sottrae.

Ma è quello che si sottrae ogni giornoche ci aumenta,quello che non riusciamo a direche si fa sangue di parola.

Già l’alba,una ruota di mercurio è alla finestradove galleggia l’anima…l’anima che è speranza

anche se non esiste.

Giovanni Angelini vive e lavora a Montpellier.

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PROSA6

Bruno GambarottaLa città degli uomini spaiati

Fra le tante Torino esiste anche la “città de-gli uomini spaiati”. Non si trova in un determina-to quartiere, è in ogni dove, è la città che fa dasfondo alle occasioni mancate e ai rimpianti tar-divi. Può trovarsi alla stazione di Porta Susa,quando, salendo sul treno, hai detto a Lucianache appena arrivato in Germania le avresti te-lefonato comunicandole il tuo indirizzo e, men-tre il treno era ancora fermo in stazione, haicambiato la sim al tuo cellulare. Oppure allaCittadella davanti al monumento a Pietro Miccaperché è lì che avevi appuntamento con Ales-sandra; l’hai vista di lontano mentre stava arri-vando e di colpo ti sei reso conto che non avre-sti retto un altro pomeriggio domenicale tra-scorso al cinema e poi in pizzeria a parlare dimutui e di mobili da comprare a rate. Siccomelei ti cercava da un’altra parte e non ti avevaancora avvistato, hai girato i tacchi e sei anda-to al bar a giocare con gli amici. Quegli amiciche adesso sono tutti sposati, hanno figli e ratedel mutuo e dei mobili da pagare e al bar non civengono più. Al bar adesso ci sono dei giovanie tu non li capisci perché fanno troppo casino eper l’età potrebbero essere tuoi figli. La città de-gli uomini spaiati si trova in quel portone di cor-so Umbria dove Silvia, congedandosi con un ul-timo bacio appassionato, ti ha detto che i suoigenitori avevano espresso il desiderio di cono-scerti e volevano invitarti una sera a cena. Tuhai risposto: «Non sono ancora pronto, dammiancora un po’ di tempo» e il tempo te lo sei pre-so tutto. Silvia l’hai rivista vent’anni dopo in cor-sia quando ti hanno operato per l’ernia del di-sco. Lei ha fatto finta di non conoscerti, tu haidato uno sguardo fugace al suo anulare sinistroper controllare se avesse la vera ma poi hai ri-flettuto che quando sono in servizio le infermie-re gli anelli se li devono togliere. La città degliuomini spaiati si trova sotto la volta della galle-ria dell’Industria Subalpina, davanti al cinemaRomano. Ricordi? Davano un pallosissimo filmdi Ingmar Bergman che Roberta ti aveva co-stretto a vedere. Scorrevano ancora i titoli dicoda; Roberta, continuando a guardare loschermo ti ha detto, con il tono di una che dice“ho sete”: «Aspetto un figlio». Tu non hai trova-to niente di meglio da dirle che «Siamo sicuriche sia mio?» Adesso ti ripeti per consolarti chese fosse nato forse sarebbe un drogato o an-drebbe a schiantarsi con l’auto uscendo da una

discoteca, ma dentro di te sai che non è vero.La città degli uomini spaiati si trova in via Bar-baroux. Tu passeggiavi per quella via stretta etortuosa del centro storico tenendo sotto brac-cio la commessa di una pasticceria che avevaperso la testa per te; era bruttina, cicciottella,non sapeva vestirsi, ma ti piaceva perché eracuriosa di tutto, intelligente e la sua allegria eracontagiosa. Non hai mai riso così tanto in vitatua. Quando siete passati davanti al tuo solitobar, gli amici al di là della grande vetrata hannoincominciato a farti il verso e a prenderti in giro.Ti sei vergognato di lei e non l’hai più rivista. Lacittà degli uomini spaiati è in uno di quegli allog-gi lindi e ordinati, senza un granello di polvere,dove una mamma sollecita ti faceva trovarecassetti in ordine, camicie stirate, la cena in cal-do. Una sera ha trovato il coraggio della dispe-razione e ti ha chiesto, sull’orlo delle lacrime:«Con tante brave ragazze che si trovano in gi-ro, proprio con quella ti vai a mettere? Vuoi far-mi morire di crepacuore?» E tutte quelle che ditanto in tanto portavi a casa tu, figlio unico dimadre vedova, per lei non appartenevano maialla folta schiera delle brave ragazze che si tro-vano in giro. La città degli uomini spaiati si ar-rampica sulla collina fino a quella stanza d’al-bergo a ore dove lei rivestendosi ti ha informa-to che, stufa di tutti quei sotterfugi, aveva deci-so di dire tutto a suo marito e di chiedere la se-parazione. Tu, balbettando, hai mormorato:«Aspetta, non precipitiamo le cose, pensiamocibene prima di fare un passo definitivo». Aspet-ta... aspetta... aspetta... Aspetta che mi arrivi lapromozione, aspetta che abbia terminato lascuola serale e che abbia preso il diploma,aspetta che abbia trovato un ricovero per miamadre e si liberi l’alloggio. La città degli uominispaiati si trova in un viale del parco del Valenti-no, dove tu e i tuoi compagni di liceo siete an-dati a passeggiare dopo aver letto sui tabellonii risultati della maturità, quaranta anni or sono.Hai pensato che quella mattina era l’ultima oc-casione, ti sei fatto coraggio e ti sei dichiaratoalla compagna di scuola della quale eri innamo-rato in segreto da ben cinque anni. Lei, per vin-cere l’imbarazzo, è scoppiata a ridere e tu haigiurato a te stesso che mai più avresti corso ilrischio di farti umiliare. Hai fatto una carrierastrepitosa e hai mantenuto la promessa. Gliabitanti della città degli uomini spaiati hanno iloro punti d’incontro prediletti, bar con la salet-ta interna con tavolini dove donne sole fannocolazione prima di andare in ufficio o prendonol’aperitivo prima di tornare a casa, sale dove nel

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PROSA 7

tardo pomeriggio si balla il tango. Le signoremal maritate, con la ciccia strizzata nel busto, ilvestito aderente, il filo di perle, le scarpine di ra-so, lo chignon saldamente avvitato sulla testa,fanno a gara per essere invitate da un uomopalesemente spaiato. Giunta la sera gli uominispaiati compiono un ultimo gesto prima di an-dare a dormire, accendono il portatile e naviga-no sui siti di annunci matrimoniali. Trovano gio-vani donne dell’Europa dell’Est, russe, polac-che, rumene, disposte a tutto pur di arrivare inOccidente, anche a sposare un vecchio che po-trebbe essere il loro padre. Gli uomini spaiati leguardano e riguardano, cercando di immagina-re come potrebbe essere una vita condivisa

con una di quelle bellone cotonate dal sorrisoesitante che cerca di nascondere le capsuled’oro fra i denti. Dicono che siano donne servi-zievoli, sottomesse, di buon comando... Saràvero? Talvolta gli uomini spaiati si lanciano inun annuncio, compilato fra mille esitazioni epentimenti: se hai 59 anni puoi ancora scrivere“cinquantenne?” Se scrivo “laureato” non saràche si spaventano? Sportivo lo mettiamo? E sepoi pretende di fare jogging tutte le mattine?Meglio scrivere: “Cinquantenne, ancora in buo-no stato...” Se questa è la frase usata per ven-dere macchine di seconda mano, perché nonpotrebbe andar bene per un abitante della cittàdegli uomini spaiati?

Marco FerriLe cose non sono più come prima

Immagina una strada. Una strada qualsiasi,molto frequentata nei giorni e nelle ore in cui ipassanti passeggiano, quando ci sono folleche vanno per negozi o per i fatti loro e chiac-chierano, formano capannelli, oppure cammi-nano in silenzio, guardando dentro di sé, sen-za vedere nessuno di quelli che camminano alloro fianco. Immagina un tempo qualsiasi, brut-to o bello, con il sole o con la pioggia, e questafolla dove ci sono anche volti conosciuti, eppu-re tutti si atteggiano a sconosciuti, come un fiu-me che scorre, nei due sensi.

Ecco, ad un certo punto quella strada fini-sce. E nel punto dove finisce c’è una bachecadi metallo.

C’è adesso e c’era tanto tempo fa.È evidente che quella bacheca, considerato

il punto dove era stata piazzata, proprio nell’an-golo, in quell’angolo, non era un oggetto qual-siasi, un ornamento della strada o del muro sucui si appoggia. La bacheca era una anonimalastra rettangolare, con una cornicetta in rilievoe due asticelle che la sorreggevano, piantatenel selciato. Era arguta. La bacheca non erauna vedetta ma qualcosa che si faceva vedere,in un punto strategico del percorso delle folle,senza esibizione della strategia. Modestamen-te. Cercava di affermarsi tra le consuetudini vi-

sive dei passanti, al punto che i passanti di so-lito la guardavano perché la bacheca contene-va delle informazioni e quindi la gente volevavedere se c’erano delle novità. Difatti c’era laconsuetudine di incollare un manifesto su quel-la lastra, poi un altro sopra, qualche tempo do-po, e poi un altro ancora e così via, finché di-ventavano troppi e bisognava staccare tutti glistrati di carta, per ricominciare.

Sulla sommità, al centro, c’era (e c’è anco-ra oggi) un disco, piccolo, anzi quasi invisibilese non fosse per l’adesivo che vi era stato in-collato e che si può ancora vedere, se c’è qual-cuno che presta attenzione a queste cose,sebbene i suoi colori siano sbiaditi e le formedella falce, del martello e di una stella emerga-no dal piccolo sfondo come fantasmi nebbiosi,con dei rosa e dei gialli che tendono al biancoe dei blu che sono diventati celesti o verdechiaro.

Quell’adesivo è sopravvissuto, incompren-sibilmente, alle ondate della cosiddetta storia,al succedersi dei nomi e delle sigle e dei sim-boli, alla sonorità delle parole che sono statedette lì davanti, singolarmente o in gruppo,senza che nessuno abbia avvertito la necessi-tà di incollarci sopra un adesivo più aggiornato,qualcosa che stabilisse la nuova proprietà diquella lastra metallica, ormai arrugginita.

A volte qualcuno, probabilmente nelle ore incui la strada è deserta, incolla ancora un mani-festo che annuncia qualche incontro, una tavo-la rotonda o una conferenza, con il relatore cheha le sue referenze sotto il nome, e poi il nome

da Bruno Gambarotta, La città degli uomini spaiati

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PROSA8

della persona che introduce e presenta, in ge-nere qualcuno del posto. Qualcuno di casa. Maappunto quale casa? La bacheca sembra apo-lide. Invecchiata, incrostata di ruggine. Nessu-no la accudisce. E siccome lì vicino c’è unascuola, a volte i ragazzi incollano qualche fo-glio di formato A4 che fa sapere di una festa,musica, balli. E naturalmente qualcosa che simangia. Sono anche discreti. Incollano i lorofoglietti solo quando non c’è alcun altro annun-cio, su quel fondo bruno rossastro, cosparso dipiccole faglie di ossidi di ferro e residui carta-cei.

La forma della bacheca è simile alle dueaste che i tifosi agitano negli stadi, alte e deri-sorie su quel mare agitato di urla e di corpi chesembrano smottare e franare. Ma la bacheca èimmobile, dimessa e muta, nell’angolo estremodi una strada. Quasi affacciata su una piazza.

Nessuno ha interesse a rimuoverla, nessu-no pensa di esserne il proprietario o di averlaereditata, né sembra apprezzare la sua posi-zione strategica, e molto probabilmente nessu-no ha qualcosa di così importante da comuni-care agli altri, e non sente più il bisogno di far-lo in quel modo, in un punto dove tutti passeg-giano, vanno per negozi, si fermano ai tavolinidei caffè che profumano di dolci, in quella stra-da molto frequentata. E forse pensano chequelli che passeggiano hanno già tanti proble-mi da risolvere, beghe a cui pensare e sacro-santi desideri che inseguono e infine tanta vo-glia di non pensare, camminando. Quindi an-che quelli che un tempo ci scrivevano con glispray gli insulti, gli scherni, le minacce, nean-che ci pensano più adesso a scrivere questecose, non sarebbe una dissacrazione o una sfi-da, e neanche sarebbero sicuri di rivolgersi aqualcuno, a un gruppo o a un’idea politica. Pe-rò la bacheca è di metallo, resiste, resiste conquella pelle brunita che si sfarina stagione do-po stagione. Mentre quell’adesivo, ridotto a ungrumo di colori tenui, sembra quasi dissolversi,cancellarsi da solo, come se improvvisamente,proprio in quel punto e solo in quel punto, iltempo avesse deciso di andare avanti più infretta, cancellando le proprie tracce, scompa-rendo giorno dopo giorno, essendo ormai inca-pace di raggiungere una forma qualsiasi di co-noscenza. E fra poco tempo, qualche mese oqualche anno, dipende dall’intensità del caloreestivo e dai morsi delle gelate invernali, non re-sterà alcun residuo.

Intanto i negozi della strada hanno comin-ciato a cambiare gestione e merci, poi sono ap-

parsi i cartelli affittasi, vendesi, e anche questicartelli sono rimasti inascoltati. Ci sono am-bienti dismessi e dimenticati. A volte, guardan-do attraverso le vetrine buie, si intravedono deilocali vuoti, polverosi, con qualche residuo ab-bandonato sul pavimento o appeso ai muri. Inegozi si sono trasferiti nei centri commerciali,nelle periferie. Dei quattro caffè che c’erano,due hanno chiuso e due accolgono una clien-tela abitudinaria, che non ama passeggiare eneanche leggere. Arriva, si ferma e scompare.

Quella struttura metallica, totalmente inutilee incomprensibile, nell’angolo di una stradache non è più un luogo dove passeggiare, mo-stra desolatamente la sua forma geometrica,come una vecchia macchina da scrivere senzanastro oppure un foglio a righe per una steno-grafia dimenticata.

Marco Ferri è nel catalogo Manni con Uscitasecondaria del 2018.

Erminio Risso

Laborintusdi Edoardo SanguinetiTesto e commento

Poesiapp. 368 - t 18,00

Laborintus, pubblicato nel 1956, è l’opera pri-ma di Edoardo Sanguineti e quella che traccerà lavia di tutta la sua produzione successiva: in 27 se-zioni vi si racconta l’attraversamento di un paesag-gio lunare, che è figura della terra postatomica, daparte di personae che si incontrano, si cercano, si al-lontanano, provano ad amarsi e continuamente sitrasformano.

Il poeta tiene insieme materiali disparati e male-detti, utilizza linguaggi eterogenei, copre temi an-cora attualissimi che vanno dalla corporeità allaglobalizzazione.

È insomma un’opera assai complessa e atipicanel panorama italiano, tanto da richiedere un’esege-si sul modello della Divina Commedia.

Novità

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PROSA 9

Chiara PazzagliaQuasi sorelle

Valeria era la mia compagna di banco alleelementari ed eravamo inseparabili, quasi so-relle. Lei era la prima della classe ma era sem-pre in punizione. Quando la maestra la mette-va all’angolo eseguiva una ruota davanti allacattedra. Era magnifica, la vedevo come al ral-lentatore. Allora Valeria finiva fuori dalla classee se era in vena, eseguiva un’altra ruota cheguardavo estasiata dalla vetrata che ci divide-va, io dietro al banco e lei libera. Sapeva scri-vere, aveva un’opinione su tutto ed era snob.In classe tutti la odiavano, io l’adoravo. E leiadorava me. Insieme a un bambino magrissi-mo testimone di Geova facevamo l’ora alterna-tiva alla religione, organizzata appositamenteper noi. Facevamo antropologia culturale e, co-me ci vantavamo, studiavamo come viveva ilpopolo del deserto del Kalahari in Africa.

A tavola una volta Valeria aveva scioccato imiei genitori, i suoi e più di tutti suo nonno chesi era alzato sbraitando rosso in viso, perchétra un boccone e l’altro si era messa a raccon-tare del Big Bang. Dopo aver descritto l’esplo-sione che aveva dato origine all’universo e aipianeti, aveva raccontato l’evoluzione della vi-ta sulla Terra fino alle scimmie e poi l’uomo.Per noi era solo una storia divertente, che ave-vamo imparato sui banchi di scuola e che rac-contavamo ai nostri genitori orgogliosi e un po’spaventati. Tutti avevano ascoltato con grandeattenzione, poi il nonno di Valeria le avevachiesto con una specie di sorriso malizioso:«Rispondimi allora: chi è venuto prima, l’uovo ola gallina?» E visto che Valeria rimaneva zitta,aveva aggiunto: «È stato Dio a far iniziare tut-to, non dimenticarlo». «Dio non c’entra niente»,aveva ribattuto Valeria.

Non immaginavamo allora che le elementa-ri sarebbero finite e così i nostri giorni una ac-canto all’altra, che ci saremmo separate e sa-remmo entrate in nuove classi con altri compa-gni e in nuovi mattini, nuovi giorni, mesi, anni.

L’estate dopo il liceo, finiti gli esami di matu-rità, ero rimasta a ciondolare in città. Mi sem-brava di essere in un film western disertatoperfino dai cattivi e con gli indiani lontani. Mi ri-trovavo in mezzo all’asfalto rovente delle stra-de e dei palazzi, all’afa e al silenzio di una cit-tà che se n’era andata altrove. Anch’io partivosempre per le vacanze estive ma quell’annoera diverso. Avevo finito per pensare solo alla

maturità. Avevo vagheggiato un inter rail, arri-vare fino in Portogallo per respirare l’aria delmio poeta preferito. Ma era andata diversa-mente, mia madre non si era convinta, i mieiamici erano tutti più grandi e avevano già fattol’inter rail. E soprattutto il mio ragazzo mi ave-va lasciato pochi mesi prima. Insomma, ero ri-masta a casa da sola.

Ogni giorno affrontavo la calura insopporta-bile, uscivo con i jeans strappati, la maglietta ei sandali, mi tuffavo nella città vuota, raggiun-gevo la piazza dove stava Amicopusher. Lochiamavo così tra me e me perché non cono-scevo il suo nome. Credo fossi la sua unicacliente, ogni pomeriggio lo trovavo lì, appollaia-to sul muretto dietro al liceo. Poi raggiungevo ilparco dove fumavo, leggevo e perdevo tempofino al tramonto.

Però un giorno il solito silenzio cicaloso erarotto da delle risate. Amicopusher era in com-pagnia, era avvinghiato a una ragazza e sghi-gnazzava. Dopo il consueto scambio me nestavo andando quando la ragazza fa: «Ma io ticonosco». Era Valeria.

Ci eravamo avviati tutti insieme verso il par-co, poi avevamo cambiato idea e avevamopreso la macchina di Amicopusher, che poi sichiamava Silvano, una Ritmo sgangherata chelui mandava a tutta birra in curva come in unvideogioco delle auto. Uscendo dalla città cieravamo inoltrati nella campagna. Avevamoabbandonato la strada principale e imboccatouna strada sterrata che si inerpicava seguen-do la forma del terreno. Tra vigne e campi epoi dentro a un bosco. Senza meta. Silvanoraccontava delle barzellette, c’era musica, an-davamo. A un certo punto era apparso. Unchiarore, una macchia bianca che spiccava inalto sul verde della campagna, lontano. Il ca-stello bianco era lì per noi. Era un segno. Co-sì ci eravamo messi a seguirlo, a volte scom-pariva alla nostra vista e poi lo ritrovavamo. Einfine l’avevamo raggiunto. Lasciata la mac-china nella radura poco distante avevamo pro-seguito a piedi, quasi correndo, fino a trovar-celo davanti. Eroso e sgretolato dal tempo, maper questo ancora più possente, bianco, grani-tico. Non c’era un guardiano, né reti. Avevamoscavalcato il cancello e eravamo entrati dentrole mura. O quel che ne restava. Ci eravamoaddentrati tra le rovine di pietra. Poi Valeria eio avevamo cominciato ad arrampicarci perraggiungere il torrione più alto. Gli scalini era-no quasi del tutto venuti giù e dei cespugli cre-

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PROSA10

scevano tra una pietra e l’altra. Avevamo sca-lato sempre più in alto fino a sbucare sulla ci-ma del torrione. Ci aveva accolto un cielo az-zurrino e terso. Di fronte a noi si apriva la gran-de vallata, in basso, e non un ostacolo fino al-l’orizzonte. Un vento forte ci sbatteva contro,quasi non riuscivo a respirare. Ma Valeria nonsi era fermata finché non aveva raggiunto ilpunto più alto, un merlo, l’unico ancora quasiintero. Con un ultimo sforzo ci si era issata so-pra. Guardando avanti, il burrone a picco sot-to di lei, si era alzata in equilibrio su un piedesolo. Poi aveva aperto le braccia come ali, ilvento le fischiava tutt’intorno. Ed era rimastacosì, immobile, non so per quanto tempo.Sembrava danzasse.

Ci eravamo salutate leggere leggere, dan-doci appuntamento per il giorno dopo, comeper vederci di nuovo, come alle elementari,ogni giorno, e quello dopo ancora in un temposenza dimensioni. Invece il giorno dopo quan-do ero andata all’appuntamento non avevo tro-vato nessuno, né lei né Amicopusher e così peri giorni a seguire. Arrivato l’autunno ero partitaper un’altra città per fare l’università, e poi erotornata sempre meno, e ero ripartita ancora eero andata sempre più lontano. A volte ripensa-vo al castello bianco, che nome avesse e seera ancora lì. A volte mi chiedevo se non cel’eravamo sognato.

Una sera gironzolavo per le viuzze del quar-tiere vecchio, poca voglia di tornare a casa. Einfilandomi nel primo bar a caso ecco compa-rirmi davanti Valeria, seduta al bancone di fron-te all’entrata insieme a un gruppetto di perso-ne. L’avevo subito riconosciuta. La testa dellamia compagna di banco, i capelli ricci, non piùarruffati ma che sembravano voler esploderesotto la capigliatura ordinata, la faccia rotondae clownesca. Mi era venuta incontro e aveva-mo iniziato a parlare, una di fronte all’altra, inmezzo alla folla del bar. Da cosa eravamo par-tite? Non so. Comunque ci eravamo trovate araccontare, con ordine, la famiglia, il lavoro. Poieravamo uscite dal locale a fare una passeg-giata. La quiete della notte piaceva a tutt’e duedi più, si sentiva solo il rumore dei nostri passisul selciato mentre ci addentravamo nelle viedel quartiere vecchio.

«Ti ho vista a Lisbona, quand’è stato? Dueanni fa? No, di più... era d’estate. In metropoli-tana, stavi salendo su un vagone, poi le portesi sono chiuse e il treno è partito. Ti ho chiama-ta ma era troppo tardi», Valeria mi guardavasorridendo.

«Non sono mai stata a Lisbona», avevo ri-sposto a mia volta con un sorriso.

«Ma no, dai. Sono sicura, eri proprio tu». «Ma che ci fai tu in banca?», avevo finito

per chiederle. «Mi ricordo che scrivevi benissi-mo, avevi una capacità di sintesi e di raccontostupefacenti». La percezione del suo essere,della bambina accanto a me, sembrava nonessere mai svanita.

Valeria mi aveva guardato dritto negli occhi,per niente stupita: «Infatti io avrei voluto fare lagiornalista...» Ma era andato tutto diversamente,aveva finito per rimanere in città e quando eraarrivato il posto in banca non aveva potuto rifiu-tare. «Quella è stata l’unica volta della mia vitain cui non mi sono opposta a mio padre. Ma èstato meglio così, gli sono grata. Sono felice».

Ci eravamo scambiate i numeri di cellulare,dandoci appuntamento per un caffè un’altravolta, sancendo la nostra presenza in un tem-po scandito da impegni e geografie. Tornandoa casa avevo pensato se non sarebbe andatotutto diversamente se dopo le elementari non cifossimo separate. Se avessimo continuatofianco a fianco a intraprendere i nostri cammininel mondo.

Il giorno dopo ero ripartita. Il treno curvavalento tra le dolci colline e i campi di grano. Ognitanto nella campagna spuntava un gruppetto dicase o una strada asfaltata. Un ragazzo e unaragazza avevano attraversato lo scompartimen-to ancora in penombra e mezzo addormentato esi erano seduti di fronte a me. Forse andavanoa scuola, avevano gli zaini. Si erano lasciati ca-dere nei sedili incastrandosi in un abbraccio rac-chiuso dal filo degli auricolari, uno per l’orecchiodi ciascuno. Ascoltavano la musica e guardava-no fuori, in silenzio, mentre il paesaggio ci scivo-lava davanti con una bellezza magnifica, il solesempre più forte che penetrava i banchi di brinamattutina ancora attaccata alla terra. Allora l’hovisto. Una macchia bianca. Un chiarore di pietraarroccato sulla cima di una collina proprio difianco a me. Il castello bianco! Un attimo ed erascomparso, inghiottito mentre il treno continua-va la sua rotta sulle rotaie. Mi ero rimessa a se-dere in preda all’agitazione. “Dunque il castellobianco esiste, è sempre stato lì”, ho pensato.“Per noi, il nostro castello”. Dovevo chiamareValeria e dirglielo, che il castello bianco esiste eche sono in viaggio per Lisbona.

Chiara Pazzaglia vive e lavora a Berlino.

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PROSA 11

Alberto ValentiniLa donna trasparente

Un moto lento ma costante: come cambia-no le nuvole. Lo fanno velocemente, eppurenessuno le guarda più.

«Immagina per un attimo che quando cam-mini per strada nessuno si accorge di te!» dis-se lei.

«E questo che cosa c’entra?» rispose lui.«Tu chiedi aiuto e nessuno si gira!» aggiun-

se.«Cosa vorresti dirmi?»«Sono mesi che ti lancio segnali, ma tu

niente! Fai finta di niente!»Allora lui posò la forchetta sul piatto delica-

tamente e si asciugò le labbra. Sembrava sere-no, almeno in apparenza. Poi la guardò, maerano anni ormai che non la guardava più nel-lo stesso modo.

L’incrocio di sguardi durò pochi secondi, poil’occhio di lui cadde sul piatto di Sorrento appe-so al muro, quello con i limoni dipinti. Quel piat-to era lì da forse due decenni, o magari anchetre, pensò lui. Oltre ai limoni c’era una casabianca a picco sul mare. Quel piatto l’avevascelto lei per entrambi, per la loro casa, per laloro futura cucina. Lui poi lo aveva appeso inun punto che avevano scelto insieme. Dunque,quel piatto, pensò lui in quell’istante, aveva os-servato tutto: i loro baci mentre lei era ai fornel-li, i racconti del figlio quando tornava da scuo-la, la loro figlia nel seggiolone che mangiava lamozzarella, lui e lei che parlavano di bollette,che decidevano cosa fare con il frigorifero cheimprovvisamente li aveva lasciati, le parmigia-ne cucinate, le bottiglie di vino aperte la dome-nica, i nonni presenti, i nonni scomparsi. I com-pleanni, il tumore di lei, la chemio, la laurea deifigli. Quel diavolo d’un piatto si era goduto tut-to, senza dire mai niente. Ed ora? Ed ora sta-va osservando ammutolito l’ennesima discus-sione. Lei che rinfacciava a lui che erano mesiche non coglieva segnali di rottura, come face-va di solito lui: finta di niente.

«Ma mi stai ascoltando?» disse lei.Lui la guardò. Ancora una volta, senza man-

tenere troppo a lungo lo sguardo.«Ti ricordi Sorrento?» rispose lui.Lei ricambiò lo sguardo e le rughe sulla

fronte si appianarono. Bastò quella frase.Entrambi sapevano che proprio a Sorrento

era nata l’idea di avere un altro figlio ed en-trambi avevano sempre detto l’un l’altro che

quello era stato il luogo della loro rinascita. Po-co prima di quel viaggio, infatti, erano stati lì lìper separarsi, una delle tante volte.

«Tu vivi di ricordi» aggiunse lei.«Sono stanco».«Credi di esserlo solo tu?»«Sicuramente lo sarai anche tu».«Io sono distrutta, ferita, delusa».«Come darti torto. Anche io mi sento così».«Sì, ma sei tu che sei stato con un’altra

donna».«Perché sono anni che tu pensi solo alle co-

se tue. Sono anni che non mi vedi più come unuomo» disse lui.

«E come ti vedo?»«Mi vedi come un coinquilino. Senza un at-

timo di intimità».«E questa sarebbe la tua scusa?» disse lei.«Io ammetto la mia colpa, ma non sono sta-

to solo io il problema. Tu dici che non ti guardopiù, ma neanche tu lo fai».

«Non faccio cosa?»«Neanche tu mi guardi più. Da tanto tem-

po».Lei alzò gli occhi, poi lui continuò.«Sai da quanto tempo io e te non siamo più

io e te?» disse lui alzandosi da tavola.«Da troppo» concluse lei.«Abbiamo già avuto una Sorrento, il Padre

Eterno non ce ne darà una seconda» concluselui.

In quel momento lei si rese conto che pro-babilmente era davvero finita. Loro, i figli, i ni-poti, i viaggi in auto, i piedi sul cruscotto, l’ab-baio del cane. Avevano rischiato di separarsialtre volte, ma quella sembrava potesse esse-re la volta decisiva.

Lo pensava lei, lo pensava lui.E poi? Cosa ne sarebbe stato delle conse-

guenze? Cosa avrebbero detto i figli? Da cheparte sarebbero stati? E la loro vecchiaia?

Lei aveva in mano una sigaretta, la accese.Pensò subito che quell’uomo lì, per quantol’avesse fatta disperare, era pur sempre pre-sente in tutto ciò che aveva nella sua mente. Iricordi che lei portava con sé contemplavanosempre la presenza di lui. Non c’era un mo-mento della sua vita che non ricordasse insie-me a lui, suo marito. Nel bene e nel male luic’era stato, con i suoi limiti e con i suoi silenzi,lui c’era stato. Con i suoi errori, certo, ma quel-li poi d’altronde li commettono tutti. Anche leine aveva fatti di errori: e questo lo sapevanoentrambi.

Lui aveva avuto la necessità di tradirla. Ave-

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LE ALTRE LETTERATURE12

va avuto il bisogno di farlo. Forse voleva soloferirla, oppure chi lo sa: farsi notare. Ma nono-stante tutto sapeva benissimo che lei era statala sua cosa più importante. Ma lo era ancora?

E così lui decise di uscire da quella cucinae farsi due passi all’aria fresca.

Si fermò in un posticino che serviva da berela sera dopocena e che aveva un calice di vinodisegnato sulla porta a vetri. L’atmosfera era ac-cogliente. Entrò, si sedette al tavolo e rimasepietrificato. Davanti a lui c’era uno specchio ova-

le che aveva già visto nella casa di un suo ami-co parecchi anni prima. L’amico gli disse che eraun’opera d’arte di un fotografo famoso degli an-ni trenta o quaranta. Sullo specchio c’era unascritta in corsivo: “Les grands trans-Parents”. Lecose più importanti sono spesso trasparenti ainostri occhi. Sono invisibili.

Fin quando non le perdiamo.

Alberto Valentini, medico, vive a Brindisi.

Dmitrij Legeza

Il nome di famiglia1

potrei vivere in Francia – a Parigi o a Versailles,un cognome appropriato, non Kusner,

[né Kenzeev2,prenderei un’amica coi capelli scuri corti,lo sguardo indifeso e un neo alla base del collo

lei verrebbe di sera con una piccola citroen,il concierge le annuirebbe gentile, be’, “bon soire,

s’il vous plaite”, io l’attenderei sul divano con l’umore brioso,sognante e anche, come usa, con l’assenzio

[e con la canapa

vola, nostro veliero magico con le vele verdi,come sei bello, neo, al basamento delle basi,ci invidino pure gli abitanti di Parigi e Versailles,ci invidino pure i russi, che di cognome fanno

[Ivanov3

1 Calco dal francese – nell’originale è usata una forma stor-piata alla francese.2 Aleksandr Kusner, Bachyt Kenzeev, celebri poeti russi vi-venti.3 Cognome assai diffuso in Russia.

L’ombra

è vivo e non è neppure invecchiato,siede, dondolando un po’un po’ assomiglia a una pistolal’ombra della sua scarpa

un po’ assomiglia a un piedistallola scena della bettola sotterranea

legge della città e della tormenta,delle donne e di come morire felice,lui stesso è aquila e prometeo,che si tormenta le interiora

ecco ha mosso un po’ la spalla,e ho visto – trema un po’l’ombra del laccetto, il gancio a scattoall’ombra della sua scarpa

Il coltello

Gli amici telefonano sempre più di rado,mi toccherà vagare da solo per la via Raz’ezzaja,per il viale Zagorodnyj.

Con l’uggia assurdaper una sola donnascendo in un negozio sotterraneoe compro un coltello pieghevole.

Coperto dal vetro, dormeintatto da anni,una lega finissimadi ferro e carbonio

si poserà comodamente in mano –gattino e lama –sei mio per sempre, e ioora non sono solo.

Fa’ attenzione, passante,

da Alberto Valentini, La donna trasparente

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LE ALTRE LETTERATURE 13

al padrone della lama –è quasi Parfën Rogozin1,è un poco idiota.

1 Uno dei protagonisti de L’Idiota di F. Dostoevskij, si con-trappone al principe Myskin.

Una poesia semplice

Ecco un cappotto grigioCol colletto grande,Due giorni faHo pensato a ciò.

E adesso sono entratoIn un negozio, vedo – ma no!Proprio il mio cappottoE, quindi, il destino.

E, quindi, l’ho comprato –Ora guardo di soppiattoIl destino grigioCol colletto grande.

Canzone triste di ragazza1

Sono una stupida, stupida, certo,una stupida di diciott’anni,ho incontrato il corpo d’un militare –tutto di verde, in cima era moro.

Si definiva un agente segretodi forze nucleari strategiche,mi ha gettato sulle spalle il cappotto,e mi ha chiesto di consolarlo.

Ah, quale sicurezza aveva,con che ardore mi ha voluto…Il test positivo di gravidanza si indorava sulla sua spallina.

1 Allusione all’omonima canzone sovietica (1939).

Un micio sul davanzale, 1961

Un appartamentino standard a Mosca o [a Leningrado –

un micio sdraiato sul davanzale, scruta [i passanti,

quando d’un tratto nella sua testa si accende [la radio,

una radio inconsueta “solo per mici”:

“Uwaga1, uwaga, Achtung, Achtung, Attenzione[a tutte le code!!!

Attention, Attention, gatti del mondo, ci rivolgiamo[a voi!

Ieri Gagarin 2 con la sua nave ha fatto un buco[nel cielo,

l’aria se ne va, finisce l’aria, presto moriremo [tutti,

finirà l’aria verso le quattro, allora moriremo tutti!”Il gatto pensa: – Strano, forse morirò anch’io?

“Scappare non si può, aspettare non si puòE non c’è modo fare un buco.Moriranno gli uccelli, le giraffe, poi il padrone,quindi sarà l’ora dei cani grossi…Avranno fortuna solo i pesci nei mari più lontani,i delfini, i sottomarini e le balene”.

Allora il micio scivola sulla fodera,si salva sempre lì.

1 “Attenzione” in polacco.2 Jurij Gagarin (1934-68), astronauta sovietico, nel 1961 fe-ce il primo viaggio nello spazio.

Dmitrij Legeza è nato nel 1966 a San Pie-troburgo, dove vive tuttora. Laureatosi in medi-cina, ha svolto la professione di medico. È co-ordinatore del festival letterario “Peterburgskiemosty” (Ponti di Pietroburgo). Suoi versi sonousciti sulle riviste “Oktjabr’”, “Znamja”, “Inter-poezija”, “Novyj bereg”, “Zinziver” e in volumicollettanei. Ha pubblicato le raccolte poeticheBasmacnik ( Il calzolaio) (2006), Koska na po-dokonnike (Un micio sul davanzale) (2010), dacui sono tratti i versi qui presentati.

Traduzione e nota di Paolo Galvagni

Dmitrij Legeza

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PER RICORDARE14

Bianca BattilocchiAdriano Spatola“Il gioco è l’unica speranzadella poesia”

Opera, a cura di Giovanni Fontana, artista esodale del qui protagonista Adriano Spatola, èl’ultima creazione proposta dalla fucina esoedi-toriale [dia•foria, realtà culturale undergroundintenta a premere sul canone letterario – perabitudine piuttosto a digiuno di ricerca speri-mentale – illividendolo, in risposta, di chiazzeche erano state cancellate nel panorama lette-rario italiano. Tra loro vi è senz’altro Spatola ilquale, pur avendo intessuto numerosissime re-ti con artisti di ogni tipo, critici ed editori, italia-ni e non solo, non ha purtroppo raggiunto an-cora la meritata fama, rimanendo per decennidopo la sua scomparsa (1988) ghiotto bottinoper collezionisti. Fortunatamente, oltre alla ge-nerosa condivisione dell’archivio di MaurizioSpatola e della Fondazione Bonotto, a giocarecon le tessere lasciate da Adriano Spatola,qualcuno ci si è messo, dedicando anni al lavo-ro di ricostruzione e commento delle diverse at-tività del nostro, che dalla scrittura poetica li-neare, visiva e sonora, intermediale e perfor-mativa, si sono estese anche alla creazione dimanifesti, riviste, festival, incontri sulle nuovepossibilità nel campo letterario e artistico.

Il volume in questione antologizza per la pri-ma volta tutte le raccolte poetiche lineari, con-crete e visuali di Spatola e offre inoltre un cdcon 15 tracce, testimoni delle sperimentazionisonoro-performative dell’autore. I testi recupe-rati dalla vicenda spatoliana sono introdotti daun corposo saggio di Giovanni Fontana, intito-lato Guarda come il testo si serve del corpo eassai utile a presentare le varie fasi di produ-zione artistica del compagno di strada.

Parole d’ordine, quando ci si avvicina al Gi-gante del Mulino di Bazzano, possono esseretante, poesia totale, sperimentazione, esoedi-toria, ecc., ma qui ci si soffermerà su quelle di‘gioco’ e ‘gesto’. Il territorio emiliano, dove perlo più si muoveva il poeta, divenne teatro di in-vestigazioni e acrobazie nel tessuto della lin-gua, esplorazioni su più versanti e attraversostrumenti differenti, tutte originatesi dalla spin-ta propulsiva delle avanguardie storiche la cuilezione venne dilatata, passando attraversocomposizioni di gusto surrealista e formulazio-ni grafiche sempre più provocatorie, tramite an-

che i nuovi ‘attrezzi’ a disposizione nel mondodella comunicazione. Si parla di attrezzi inquanto l’approccio di ricerca poetica sposatodall’autore mostra un’abilità e volontà ‘artigia-nale’, lontano dalla verticalità aulica e sfuggen-te della poesia precedente così come dallapiatta orizzontalità offerta dal mercato dell’arte.

Lo studio stimolato anche dalle lezioni bolo-gnesi di Luciano Anceschi e quindi la riflessio-ne sul cosa fare della poesia odierna, viene af-frontato da Spatola con una radicale critica aquesta e alle sue risorse, interrogando da vici-no la meccanica poetica come un accordatorea tu per tu con lo strumento. Sull’argomento,molti suoi lettori hanno usato l’espressione‘corpo a corpo’ per descrivere la relazione in-tessuta tra questo e la Poesia (“il testo è un og-getto vivente”), messa da lui continuamentesotto accusa e analizzata in ogni sua singolaparte. Adriano Spatola dichiarò di aver palpato,bevuto e mangiato di quella – forse come Cor-po e Sangue di… – per sfidare l’intelligenza a“giocare a rifare il mondo”.

Il rapporto tra Spatola e la sua Musa si man-tiene vitale in virtù di un continuo dissenso conla realtà e un dialogo aperto con l’extralettera-rio, mezzo prescelto in nome di una Poesia To-tale. L’officina poetica propone così vari ‘ogget-ti’ poetici che si rifiutano di essere letti e com-presi nel modo tradizionale e invitano l’interlo-cutore a un rapporto diverso, fatto di incom-prensioni e gioco. Tra gli ‘esercizi’ esplicita-mente in forma di ludus, come è il caso di Poe-sia da montare (1965), la linearità dei contenu-ti e della forma viene frammentata per esseredissipata e riorganizzata liberamente all’internodelle pagine, chiedendo al lettore di “comporree scomporre, nelle varie possibilità espressive,un numero x di schede” (Opera, 139). L’autoreavverte in chiosa che non si tratta di divertisse-ment, quanto piuttosto dell’“offerta di un model-lo ambiguo di comportamento, una mimesi vo-lontariamente esplicita del processo di ricercain vitro” dello scrittore che oscilla “tra la purez-za dell’assoluto nulla e il gioco fine a se stes-so”. Poesia come “plastilina da modellare […]allucinazione del mai finito […] l’hobby del fate-vi tutto da voi” (Opera, 139). Si impone così unrifiuto netto per l’abuso di potere imposto daquelle scritture che intendono proporsi forzieridi conoscenza.

Il procedere inesausto per combinazioniinedite si rinnovella costantemente nella vi-ta artistica di Spatola per mezzo di una pre-disposizione alla materialità segnica, alla

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PER RICORDARE 15

manipol-Azione dei testi. Un elemento che infatti continua ad affascinare nei racconti dellegesta spatoliane è la sua seduttiva teatralità, fatta di rituali serio-giocosi che in ultima analisilo definivano nei ruoli interscambiabili di sciamano e clown. Già, perché la poesia-magia diSpatola si giocava soprattutto sui gesti e sui segni, ad esempio quelli guidati dalla sua poesiasonora, dove la parola incantatoria (di “seducteur”) creava un spazio nuovo totalizzante e al-ternativo a quello fisico, “suono che corrisponde alla trama della distanza”.

Far fluire più fonti all’interno dello stesso fiume costituisce il cuore del gesto spatoliano, ovve-ro è metafora assoluta della Poesia Totale che lo stesso si adoperò in tutti i modi di vivere. Ogniemanazione di Spatola è dislocazione di un pensiero univoco ma multiforme, che cerca nell’alte-rità il quid ulteriore della possibilità, del divenire.

Le foto di Adriano Spatola sono di Elmerindo Fiore

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PER UN LIBRO16

SU INGLESE, BORTOLOTTI, BROGGIGIOVENALE, ZAFFARANO, RAOSProsa in prosa Tic 2020

Stefano GhidinelliSpettralizzata o reinstallata? Il ritorno al futuro di Prosa in prosa

Quando uscì nel 2009, nella collana “fuori-formato” diretta da Andrea Cortellessa per Lelettere, Prosa in prosa fu subito riconosciuta –almeno entro la scelta cerchia di lettori cui si ri-volgeva – come una piccola, periferica milesto-ne: uno strano UFO letterario che, lì dall’inospita-le landa del campo letterario in cui era precipi-tato, col suo magnetismo spostava, tanto o po-co, il nord delle bussole critiche con cui era pos-sibile mappare l’area delle cosiddette scritturedi ricerca. A undici anni di distanza, l’intelligenteriproposizione dell’antologia per i tipi di Tic edi-zioni è un’occasione preziosa per tentare, conun poco di agio prospettico, un provvisorio bi-lancio di questa vicenda. A farlo ci invita con for-za, del resto, il nuovo apparato paratestuale ecritico: che secondo una sensibilità ben tipicadel gruppo, re-incornicia il vecchio corpo del-l’antologia (di per sé non sottoposto a ritocchi)approntandone non soltanto una riedizione ma,si direbbe, una più orientata reinstallazione.

Intanto la copertina si presenta come un(in)fedelissimo doppio o calco di quella del2009, in cui sia la fotografia originale di MarcoGiovenale, sia i foto-ritratti dei sei autori in quar-ta, vengono riprodotti/sostituiti da sommarischizzi low fi in forma dipinta/disegnata. Lo stra-no effetto di ‘diplopia’ si ripete poi col frontespi-zio, luogo per antonomasia deputato all’identifi-cazione dell’opera, che qui si presenta però dif-fratto in due piatti tipografici impaginati a spec-chio: sicché il lettore si imbatte prima nel rifles-so rovesciato e illeggibile delle stringhe testualiche, nella pagina di seguito, tornano dritte, de-codificabili. Se la collana “Legend”, che il volu-me inaugura, mira a ripubblicare “classici con-temporanei” (niente meno!), questo insieme dimosse scongiura però ogni sospetto intento diprecoce museificazione. L’accento sembra bat-tere semmai sulla esposizione/interrogazione diuno scarto. Come in un perfetto e inefficienterear-view mirror, qui i testi di Andrea Inglese,

Gherardo Bortolotti, Alessandro Broggi, MarcoGiovenale, Michele Zaffarano, Andrea Raos,sono e non sono più gli stessi di allora, tornanosotto i nostri occhi protestando la non identitàdell’identico. Del resto quando uscì nel 2009Prosa in prosa esibiva un forte carattere di az-zardo e provvisorietà, esponendo una rassegnadi materiali sì altamente lavorati ma in buonaparte ancora in fieri, aperti su alcunché di im-pregiudicato. Alla luce del multiforme dopo chene è seguito, che effetto ci fa rileggere quei te-sti? Possiamo dire di capirli meglio o a rivelarci-si, retrospettivamente, è un margine di equivo-co, di fraintendimento? E quel che ci resta inbocca è l’amaro della disillusione, il dolciastrodel riassaporamento nostalgico, o la sorpresa diun retrogusto che non ricordavamo?

Quanto poco retoriche siano queste doman-de lo dimostra bene il confronto fra la Prefazio-ne e Postfazione originali, di Paolo Giovannettie Antonio Loreto (cui si può aggiungere la quar-ta del curatore Cortellessa, oggi non ripropo-sta), e i loro doppi/corrispettivi datati 2020, a fir-ma ancora di Giovannetti la prima, di Gian Lu-ca Picconi la seconda. La prima cosa che se neevince è che, ha ragione Giovannetti, fra i meri-ti meno dubbi dell’antologia c’è senz’altro quel-lo di aver posto una serie di questioni teoricheintorno alle quali il dibattito resta attualissimo.Certo, il lavoro critico ha prodotto risultati sicurinella ricostruzione della inconsueta “genealo-gia” del progetto (oltre al nome di Jean-MarieGleize, ‘inventore’ delle nozioni di prose en pro-se e littéralité, preziosi sono i rinvii al ChristopheHanna di Poésie action directe, alla languagepoetry americana o al New Sentence di Ron Sil-liman, alle più recenti pratiche del flarf, dellasought poetry, del googlism). Quel che semmaiun po’ continua a fare problema è la definizioneprecisa di che cosa sia una “prosa in prosa”: po-sto che, nella pratica di questi autori, l’etichettaidentifichi davvero un genere o tipo testuale enon un più mosso, meno univoco spazio di pro-curata messa in folle di certe coordinate (nonsolo sintattico-formali) della testualità.

Già la prefazione e postfazione originali, delresto, avanzavano ipotesi divergenti circa lapertinenza di queste scritture al dominio dellapoesia o della prosa (e sia pure, nei due casi,all’insegna di un principio di non corrisponden-za, di irriducibilità). Né è secondario ribadire,come fa Picconi, che in Prosa in prosa le puregemoni “lasse prosastiche” si alternassero asequenze in versi o a liste/elenchi di sintagmi ofrasi. Come oggi è forse più agevole vedere, il

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PER UN LIBRO 17

punto è che qualsiasi forma adottino o esibi-scano – verrebbe quasi da dire: fingano, simu-lino – quei testi difettosi vi insinuano il bug di unatteggiamento scritturale scollato, spostato,che di nuovo, con Giovannetti, non si può nonchiamare installativo. Gli strumenti utilizzati atal fine, ma in dosi e combinazioni assai varie(nelle prassi dei sei autori, nel lavoro di ciascu-no), sono molteplici: si è parlato di anti-lirismo,anti-figuralità, anti-narratività, guasto della coe-renza testuale, ricorso a versioni più o menorinnovate di cut up o scrittura procedurale. Ep-pure nessuna di tali opzioni sembra identifica-re, in sé, il cuore dell’operazione “prosa in pro-sa” meglio di quanto non faccia il rinvio a quel-l’effetto di disturbo installativo del rapporto au-tore/testo. Picconi lo descrive ricorrendo allacoppia barthesiana scrittura/stile: quella degliautori di Prosa in prosa sarebbe insomma unascrittura senza stile e stili, de-individualizzata edifettosamente tipizzata, che non tanto rifiutacerti generi o modi letterari ma li espone in for-ma danneggiata e neutralizzata.

Quanto all’attuale carica di vitalità della pro-posta di Prosa in prosa, comunque, a prevalerenegli apparati è una lettura di segno negativo –sia pure formulata con toni e argomenti diversi –che solo in parte appare condivisibile. Certo c’èpoco da controbattere a Giovannetti quandoconstata che l’interesse suscitato dall’antologianon si è mai davvero tradotto in una più parteci-pata operosità o tradizione di scrittura: e nondi-meno, a scorrere l’accurata lista di ‘eccezioni’ dalui variamente censite, un poco quasi (quasi) cisi ricrede; se non altro si è indotti a riconoscereche, pur senza certo aver fatto scuola, un qual-che circoscritto o obliquo effetto di contagio for-se sì, Prosa in prosa lo ha prodotto. Persino piùradicale è d’altronde il giudizio di Picconi – e ol-tre i confini dell’antologia (in una peraltro densarecensione sul blog Antinomie) dello stesso Cor-tellessa. Per entrambi la proposta “massimali-sta” di Prosa in prosa, già utopica nel 2009, undecennio dopo sarebbe divenuta del tutto ana-cronistica. Non più ripetibile, oggi quell’esperi-mento sarebbe ormai solo “citabile”. Come ap-punto avviene con la nuova edizione Tic, che se-condo Cortellessa di fatto “spettralizza” il volumeoriginale “con la post-crepuscolare ironia dellerose che non cogliemmo”, anzi “con l’amarezzapungente del sogno di una cosa constatata nonsolo irrealizzabile – il che era già allora perfetta-mente chiaro – ma neppure concepibile”.

Può darsi che questo tipo di ricostruzione(stavo per dire, con una battutaccia: di narrazio-

ne) non dispiaccia in fondo agli autori stessi. Ep-pure imputare l’eventuale fallimento di Prosa inprosa ad una modificazione significativa, inter-corsa negli ultimi dieci anni, dei rapporti fra “mer-cato e campo letterario”, sembra poco convin-cente. La stessa dilagante egemonia dei modu-li dello storytelling e del lirismo – peraltro neppu-re così granitica, in specie nell’area di scritturecui Prosa in prosa fa riferimento – non pare no-vità così recente (ma ammetto di non trovarmi amio agio a ragionare con modelli assiologico/de-scrittivi così rigidamente dicotomici).

Più interessante mi pare un altro spunto di ri-flessione introdotto da Giovannetti, benché an-che nel suo caso con una curvatura valutativache – stavolta – non mi persuade del tutto. Il te-ma è quello dell’evoluzione cui è andata incon-tro, nel frattempo, la produzione degli stessiprotagonisti dell’antologia. Almeno per alcuni diloro (Bortolotti, Inglese, in parte Broggi – il cuiultimo progetto, Noi, esce proprio ora per Tic)Giovannetti registra un riaccostamento ai modidel narrativo che ai suoi occhi è il segno di undeciso addomesticamento, e dunque di un fata-le indebolimento della loro proposta originale.Eppure di fronte agli ultimi libri di Bortolotti (so-prattutto Quando arrivarono gli alieni, Storie delpavimento; ma penso anche a Ollivud di Ingle-se, ad esempio), a me sembra che la sfida aicodici che mediano la nostra produzione e frui-zione di rappresentazioni del reale non solo ri-manga nitida, ma si faccia persino più sofistica-ta ed efficace. E ciò proprio nella misura in cuisi appoggia sull’inventiva messa in opera di po-tenti dispositivi di illusio testuale e rappresenta-tiva (i filtri di genere della fantascienza, del cine-ma, del fantastico/fiabesco) che vengono peròsottoposti a non meno potenti effetti di inceppa-mento e svuotamento: dando luogo a ‘narrazio-ni apparenti’ tanto più profondamente distur-banti, infine, quanto più ci allacciano in unaesperienza di incantamento-disincantamentoaffabulatorio davvero ambigua.

Se la rileggo con in mente questi esiti, a meProsa in prosa continua a sembrare un libronon solo importante ma vivo, attuale, denso dipossibili sviluppi. Non da ultimo, magari, per losmagliante pendant del Fotoromanzo finale,con i suoi ipnotici 504 scatti montati in 18 pagi-ne a griglia fissa di 28 items visivi. Anche suquesta foto-testualità installativa e scostantealcuni dei sei autori (soprattutto Giovenale,Zaffarano) hanno continuato a lavorare con sa-gacia. Con l’edizione Tic sotto gli occhi, ci sipuò ben aspettare che ci provino ancora.

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SU RENATO MINOREO caro pensiero Nino Aragno 2019

Simone GambacortaMovimenti di linguaggio

Sin dagli inizi, Renato Minore sembra averfatto inconsapevolmente suo un principio che,con l’andare del tempo e degli studi, avrebbefinito per incontrare enunciato nientemenoche da Marshall McLuhan: “Quando una cosacircola crea circolazione”. La ‘cosa che circo-la’, in Minore, è la scrittura, e il suo continuocircolare ha determinato la fisionomia compo-sita che gli appartiene: il giornalista, il critico,il saggista, l’analista dei media, l’inseguitoredi vite altrui (il suo Leopardi, il suo Rimbaud,persino il suo Flaiano ‘nascosto’ nel romanzoIl dominio del cuore) e il poeta. A collegare idiversi Minore è una sensibilità declinata neitenori cangianti di una scrittura dai molti tim-bri. Lo stesso lavoro sulle parole della poesiaper Minore s’è avviato a suo tempo in un con-testo latamente mcluhaniano, ossia nellachiave laboratoriale del gruppo di ricercaQuinta generazione: le prove di scrittura deicomponenti affioravano su di un terreno dibat-timentale che, nella chiave dello ‘scambio’,metteva in ‘connessione’, e ‘linkava’ l’uno congli altri, i protagonisti di quella equipe del ver-so. Per Minore, Antonio Ciocca, Nicola Colec-chia, Sergio De Risio e Luciano Russi, la ‘cir-colazione’ era la pressione sanguigna di uncorpo estetico multiplo e multanime che pro-duceva movimenti di linguaggio cadenzatidalle diverse temperature stilistiche.

Per muovere allora i primi passi verso lepoesie di Minore, e per avvicinarsi a quelle diO caro pensiero (indicative di un’altitudineparzialmente consuntiva), si deve riandare aquegli iniziali stadi d’indagine sulla parola chesi definirono nel gruppo, tanto più che, quan-do si ebbe l’antologia Quinta generazione(1970), Giorgio Bárberi Squarotti, nella prefa-zione, notò come quella “raccolta di scritti”fosse l’estuario di un intenso lavoro di “elabo-razioni critico-poetiche”. Bárberi Squarotti os-servò anche come il Minore poeta mirasse “acoinvolgere nella sua struttura poematica lasomma maggiore di componenti, al fine di gio-care tutta la sua ricerca sulla complessità esulla quantità”. Allora come ora, in Minore, la

‘circolazione’ non è solo la premessa e l’effet-to di un moto perpetuo della scrittura che de-termina se stessa e che s’incanala nelle rea-zioni chimiche prodotte dalla combustione traun’indole critica e un’indole creativa; è ancheil mezzo indispensabile per l’approvvigiona-mento delle diverse ‘provenienze’ che Minoredestina alla concrezione del verso. Perciò tut-to finisce per replicare lo schema (paradig-ma?) delle “quattro biglie colorate” di cui Mi-nore scrive nel volume Nella notte impenetra-bile: “formavano un quadrato / immaginario eal centro / c’era l’invisibile punto / di conver-genza di tutti / i loro colori”. La poesia di Mino-re tende a un invisibile punto di convergenza:ma vi tende, non lo intercetta; ne deriva un’al-tra caratteristica che la connota: il continuorollio del moto di sorvolo di un’incognita. Nel-la notte impenetrabile è anche il rendiconto al-legorico di un’ansia e di un’inquietudine chesono, a un tempo, certificazioni di stato in vitae commi di un codice di poetica.

Ma è chiaro che un libro come O caro pen-siero, è, per sua natura, un aggregato, unaformazione che convoglia in sé – come osser-va Raffaele Manica nell’impeccabile prefazio-ne – aree di forme e modulazioni diverse, trapagine riconducibili alla dimensione di un “mi-cro-canzoniere”, “riferimenti antichi e nuovi”(Takano, Eliot, Oz, naturalmente Leopardi, deUnamuno, Marias) e “l’irruzione della cronacae della storia”.

Un andamento così mosso non può che ri-flettersi nell’ambito dei temi, non a caso nu-merosi e vari: e tuttavia, come accade in ogniambiente vasto, anche in questo di Minore èpossibile individuare una traccia sottostanteche in qualche modo conduca a dati non va-riabili. In O caro pensiero, il dato non variabi-le è l’elezione del campo relazionale (familia-re, amicale, sentimentale) a declivio proble-matico ed entropico. Al suo fondo, nella lonta-nanza alveolare di quella cellula primigeniabuona a svelarne la genetica da origami, Ocaro pensiero si mostra figlio di un’istanzaepistolare: è un ‘epistolario’ orfano della pos-sibilità di farsi carteggio, reciprocità compiuta,scambio. La voce del libro se ne sta, in effet-ti, tutta racchiusa entro la piccola cinturazionedi due ben dissimulate parentesi: l’istmo checi congiunge all’Altro è, paradossalmente, loiato che ce ne allontana. Siamo nei pressi del“centimetro” del sogno dello Zuckerman dellaLezione di anatomia, quello ‘spazio assente’che allontana e divide lo scrittore dalla madre

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appena morta. In Minore c’è una sorta di va-riazione sul tema, con il rintocco dell’insor-montabile trasparenza del significante.

A margine, però, preme un’altra impressio-ne. Un sottocutaneo Flaiano, con la sua Spi-rale tentatively, sembra essere l’ubiqua intela-iatura di O caro pensiero: il senso di separa-tezza come endoscheletro di una ‘condizioneumana’ che si fa emblema di ogni macrosco-pico e insanato refuso d’esistenza.

Giulia Vantaggiato Parte di un tutto

“Solo prima di fare / tutto sembra possibile”,mentre non appena l’azione si sgancia dal-l’astrazione del pensiero per concretarsi inevento, il ventaglio delle possibilità si estingueimmediatamente, riducendosi a quell’unica oc-casione effettivamente verificatasi. È uno deiparadossi dell’esistenza, davanti al quale èpensabile un solo antidoto: l’atto creativo. Ri-scrivere un passato che sarebbe potuto esse-re, strapparlo all’oblio della dimenticanza e ri-significarlo alla luce dell’esperienza può essereun gesto salvifico, in grado di conferire nuovosenso anche al presente. È questa l’operazio-ne a cui si assiste nei versi di O caro pensiero.

Nella prima sezione la dimensione prepon-derante è quella del ricordo, come si può com-prendere già dai primi versi del componimentod’apertura: “Non c’è pioggia che valga / quellapioggia. Non c’è ricordo / che valga quel ricor-do”. Gli adulti di riferimento (la maestra, l’ami-co di famiglia Enrico, i genitori) riemergononella memoria del poeta ormai adulto egli stes-so, il quale riesce a cogliere anche le debolez-ze di quei personaggi, le piccole mancanzeche li rendono ancora più umani e vicini alpoeta, capace di perdonare e di riconoscersi,ormai padre a sua volta, “avvinto da una biolo-gica / catena che non sai più / come srotolare”.Nella seconda sezione, che dà il titolo all’inte-ra raccolta, l’io pensante si presenta semprepiù “allentato sfilacciato”, colto nel momento dipassaggio in cui il pensiero perde la sua rigidi-tà logica per scivolare nell’irrazionalità del so-gno: i principi d’identità vengono meno, passa-to e presente possono fondersi e confondersigrazie alla “lena del ricordo”. Non si può noncogliere già dal titolo la profonda ispirazioneleopardiana che anima la terza sezione, in cuisi ritrova anche il modo di procedere del poe-

ta recanatese: punto di partenza è infatti losguardo del poeta, che si posa sui particolaricosì come sui grandi panorami stravolti dalletragedie naturali, e da entrambi riesce aestrarre una piccola verità. Così, il dettagliodelle “mani al microscopio” diventa una “map-pa per orientarsi / nelle ere geologiche / dellapersona”, mentre le grandi catastrofi naturalicome il terremoto del 2009 a L’Aquila e lo tsu-nami del 2011 in Giappone si slegano dal-l’evento contingente per diventare occasionedi riflessione, ancora una volta leopardiana,sull’incombere minaccioso della “madre matri-gna” pronta a travolgere “l’ambigua ronda / deinostri saperi” e a fare “sciame o stame / deinostri patimenti”. Anche nella quarta sezionesembrerebbe permanere il ruolo del poeta co-me osservatore, ma a una lettura più attenta, iltema si sposta sulla dimensione temporale de-gli eventi e sui binomi contrastivi tra tempoumano e tempo universale (“Non sappiamoche aver tempo / significa non aver tempo pertutto?”; “Il tempo ha tanta vita / la vita ha pocotempo”), tra specie ed esistenza del singolo (“ilcorto respiro entra / nel soffio universale”), trafinitezza e infinito. Questi elementi si concilia-no nella sezione successiva grazie alla media-zione della poesia giapponese, da cui Minoremutua il tentativo di conciliare gli opposti “co-me la Terra vista / nello spazio da un astronau-ta”, e di cui dimostra la conoscenza profondagrazie a tre traduzioni di Kikuo Takano e ai die-ci Tanka in cui la vena narrativa e l’attenzioneagli elementi naturali tradiscono una vena dimalinconia per i brevi attimi di rivelazione (“lospecchio inclinato / dal balcone riflette / un at-timo solo / il cane appare come / non sarà maipiù”. L’ultima sezione assume una dimensioneinterdisciplinare e forse anche più fredda, at-tingendo ispirazione dai campi dell’economia(Potere regale), della psicanalisi e della socio-logia (Quel giorno Lacan a Roma e Una lezio-ne di Bauman) e delle scienze dure nella serieNeuroni a specchio.

Il pensiero inteso come ricordo, come irra-zionalità del sogno, come sguardo che pla-sma la realtà esterna, ma anche come modoper sentirsi parte di un tutto, come spinta al-l’azione: su tutto questo riflette la raccolta diMinore, il cui stile vario e plurale, mai monolo-gico, è in grado di restituire in versi la fluiditàma anche l’esattezza dell’atto pensante, i tra-passi logici e gli scivolamenti in una dimensio-ne onirica, il corso del tempo e l’intuizione del-l’attimo.

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Come eravamo“La lettura”, rivista mensile del “Corriere della Sera” anno XXXIV, n. 61 giugno 1934, XII

FRA INEDITI E RARI20

Mamme, queste sono le parole che ognuna divoi vorrebbe poter dire alla propria figlia. Va-lendosi della sua doppia prerogativa, una ma-dre, ch’è anche una grande poetessa, le diceper voi.

Ada NegriParole a mia figliaCosì giovine sei: pure, s’io pensoal tempo in cui, per nascere, me tuttarompesti, e tale fu il dolor che forsemeglio la morte, e tale fu la gioiache nulla essere può gioia più grande,lontanissimo ormai sembra quel tempo,e più di sogno che di verità.S’io penso che tu sei vita viventedi mia vita vivente, e che m’illusidentro l’anima tua fissar l’improntadella profonda anima mia, conosco che non è vero: che or sei tu, com’io,son io: diverse: e innanzi a questa legge,ch’è d’ogni madre e d’ogni figlio, tremo.Perché cessato io non ho già d’avertifra le mie braccia, ad onta del fuggiredegli anni e di cullarti sui ginocchi,e di tenerti per la mano: e tucosì farai co’ tuoi fanciulli; e un giornonel riguardarli sì da te diversimover per vie care a lor soli, o figlia,soffrirai com’io soffro, in te frenandola sofferenza: in te dicendo: È giusto.

Nel caro aspetto, dal tuo dolce aprilepoco mutasti. È la malìa canoradi quella voce, sempre: è quel lucentesorriso, sempre: è quella grazia strana che solo nell’ardor si fa bellezzacome il ramo che brucia si trasformain mutevole fiamma: sono gli occhi d’allora, in cui mi perdo: occhi di schiavaregina, occhi d’amore. E sei tu forseviva per altro? O ricco sangue, uscitodal mio, non sei che amore, desideriod’amor, pena d’amore! Or le più fondeverità della vita io dire possoa te, tu a me: se ben del tuo segretocuore non tutto tu mi scopra, forse

perché non pianga; e innanzi a quel gelososilenzio io sto come alla porta il poveroche mendicar vorrebbe e non s’attenta.Rotto è il cordone di pulsante carnefra genitrice e generata: fortela tenerezza, ma più forte il laccio che ciascun lega al suo: amaracondanna di materna solitudineche te pur colpirà. Ma non importail patimento, o creatura nataper la fatica di creare. Importaessere madre: far del sangue nostroaltro sangue, altra forza, altro pensieroche noi tramandi e sé tramandi: eternenell’unità degli esseri e del tempose pur si scenda nella tomba sole.

Copertina di Sacchetti

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IL DINOSAURO 21

Piero Dorfles

Giallo o nero? Difficile operare distinzioni trai generi che hanno a che fare con delitti, violen-za e duri conflitti. Credo però una caratteristicasi possa individuare nel tono complessivo delracconto. C’è un giallismo bonario, alla Camille-ri, o alla Simenon della serie Maigret (negli altrilibri di bonario c’è poco), che pur squadernandocadaveri e brutalità lo fa con una sorta di garboottimistico. I cattivi di solito vengono catturati epagano il fio, i buoni sono buoni e basta. Noileggiamo, rabbrividiamo, ma alla fine ci sentia-mo tranquilli: l’ordine è ristabilito, i colpevolimessi in condizione di non nuocere. Poi ce n’èuno nero, più duro, dove magari ci sono menodelitti ma spesso i cattivi la fanno franca, dove iconflitti sono presentati come endemici e la vio-lenza quasi necessaria. Questo giallismo menoottimistico, una sorta di letteratura della crudel-tà, ha una sua efficacia, specie se apre una vi-sione realistica del contesto sociale che descri-ve. Anche se non sempre ci riesce.

Il molto recensito I bastardi vanno all’infer-no, di Frédéric Dard, Nero Rizzoli (appunto),parte da un presupposto ingegnoso: sappiamodalle prime righe che un agente dei servizi se-greti sarà rinchiuso in una cella con un perico-loso delinquente nella speranza che riesca afargli svelare l’organigramma di un’organizza-zione criminale. Ma non sapremo fino alla finechi dei due – che se lo rinfacciano continua-mente – è lo sbirro. Sono così simili nel com-portamento brutale e cinico che è impossibileper noi lettori individuare buono e cattivo. Liti-gano, uccidono, evadono, si rispettano. Non di-rò come va a finire, se non che tutta la crudel-tà di questo racconto – peraltro scritto con me-stiere – alla fine risulta gratuita, per non direinutile e forse anche un po’ fastidiosa. La cru-deltà c’è, ma non mi pare usata bene.

Altro discorso per Io non ci volevo venire, diRoberto Alajmo, Sellerio, dove tutto è crudele,a cominciare dalla condizione del protagonista,Giovà. Uomo di poche risorse intellettuali, perusare un eufemismo; sovrappeso, figlio di unpadre paralitico e indementito e fratello di unasorella bella e disinvolta, viene guidato in tuttoda una madre determinata quanto impicciona,chiacchierona e in fondo sprovveduta.

Poiché Giovà non è capace di far niente, lamadre lo accompagna dallo Zzu, personaggiofantasticamente realistico: capomafia di unquartiere palermitano, la Mondello dei poveri,

apparentemente solo proprietario di un piccolobar, in realtà domina il territorio ed è l’autoritàindiscussa del paese. Per intervento dello Zzu,Giovà diventa guardia giurata di una ambiguacompagnia di vigilanza, dove il suo compito èsoprattutto quello di non vedere e non sapere.Ma, dopo anni, un giorno lo Zzu lo chiama perun incarico importante, di fiducia, che deve ri-manere rigorosamente segreto. Giovà non èassolutamente in grado di svolgerlo, ma nonpuò tirarsi indietro. Sarà la madre, in combuttacon le donne del quartiere, a svolgere una in-dagine balorda e alla luce del sole, tanto che inbreve tutto il quartiere è coinvolto e tutti finisco-no per conoscere il problema (la morte di unaragazza) e il coinvolgimento della famiglia edegli scherani dello Zzu.

Le cose sono più complicate di quello chepensano le comari e Giovà, in definitiva, arrivaa sapere tutto senza poterlo dire a nessuno.Lo dirà, in una stralunata ricognizione sul luo-go del delitto, al padre paralitico. Servirà soloa lui, come esercizio liberatorio, dire ad altavoce quello che non può dire né allo Zzu (checomunque sa tutto) né ai carabinieri (che nonne vorrebbero sapere niente), né alla popola-zione della borgata, che ha capito ma finge dinon sapere, probabilmente perché così vuolelo Zzu.

Non diremo niente della conclusione, se nonche in tutto il romanzo noi siamo sulle spineperché capiamo subito che Giovà non può cheessere il capro espiatorio, che l’enigma difficil-mente sarà risolto, e che la legge dell’omertànon farà mai emergere il responsabile del delit-to. Non vediamo scorrere il sangue, non vengo-no esibiti cadaveri. Ma è ugualmente un rac-conto crudele perché qui i buoni non esistono,gli ingenui vengono usati cinicamente, il poteremafioso è rispettato con devozione ed esercita-to con morbida ferocia, e le chiacchiere delle si-gnore che si credono protagoniste di un’abilemanovra sono in realtà manovrate con astuzia.Doveva essere crudele, questa storia, perchéper raccontare una condizione di miseria mate-riale e intellettuale, di sudditanza consapevole,di assenza dello Stato era necessario usare laspietatezza di chi non nasconde niente, pursenza rivelare fino in fondo il meccanismo cul-turale e sociale che sta alla base dei rapporti diforza in campo. Quello, sollecitati dalla crudeltàdella storia, lo scopriamo noi lettori.

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22 pollice recto / pollice verso

Renato BarilliCaminito, degna di un terzoposto allo Strega

Negli anni scorsi mi è capitato di scrivere ipollici di luglio subito dopo la proclamazione del-la graduatoria dello Strega, che mi permettevodi rifare secondo le mie opinioni, in modo del tut-to indebito, in quanto sono escluso a vita, perquel poco che me ne rimane, da quello come daogni altro patrio premio. Quest’anno invece, perscadenze di consegna, devo scommettere albuio. Ebbene, mi auguro proprio che a vinceresia Andrea Bajani col suo Libro delle case, co-me del resto già ipotizzavo in un “pollice” a luidel tutto favorevole. Spero che invece le Due vi-te, di Emanuele Trevi si fermi, tutt’al più, al se-condo posto, per scarsa capacità narrativa diquesto autore, bravo come critico, molto menoquanto a doti inventive. In questo caso si è in-ventato appunto due casi di autori proclamatieccellenti, non si sa bene perché, ma in realtàassunti come le sagome di un tiro a segno sucui sparare colpi a salve. A Donatella Di Pietran-tonio e al suo Borgo Sud, pur migliore del pre-cedente L’arminuta, riserverei non più di unquarto posto, mentre addirittura metterei fuoriconcorso Edith Bruck e il suo Pane perduto. Percarità, le memorie di chi è stato vittima dei lagernazisti hanno diritto alla nostra commozione avita, dobbiamo inginocchiarci davanti a tantesventure, un po’ come si chiede di fare ai calcia-tori che si affrontano nel campionato europeo.Per queste pur legittime geremiadi, però, do-vrebbe funzionare una sorta di termine di pre-scrizione, non convince stenderle a tanta di-stanza di tempo. Del resto, quello della Bruck èun saggio misto, che si raccomanda soprattuttoper il ricordo dedicato al suo compagno di unavita, Nelo Risi, eccellente poeta. Ma insommaera meglio sistemare un prodotto del genere inqualche premio, ce ne sono tanti sparsi nellaPenisola, dedicati a un pur convincente memo-rialismo. E allora? C’è Giulia Caminito, col suoL’acqua del lago non è mai dolce, che mi sem-bra del tutto degna di un terzo posto. Non è chesi discosti di molto dal main stream di tante au-trici che farciscono le loro storie di suicidi dram-matici, di padri o parenti, con alti e bassi tra fasidi degrado e invece improvvise fortune, magaria livello di mass media, penso proprio alla DiPietrantonio, e per fortuna è stata eliminata laCiabatti, particolarmente abile nel farcire le suestorie di tutti i possibili mali del momento, in una

continua altalena di alti e bassi. Metterei tanti al-tri nomi nello stesso fascio, a cominciare dallaMaraini, passando alla Avallone, con un elencoquasi interminabile. Mi pento alquanto dellaciambella di salvataggio da me lanciata talvolta,di considerare questi diligenti compiti in classecome degni di un realismo qualificato con due“neo”, meglio ritornare ad applicargliene uno so-lo, con relativa bocciatura. Ma allora che cosa didiverso ha la Caminito? Direi, una volontà di vo-lare basso, di non strafare, di darci una cronaca,senza dubbio dei guai che ai nostri giorni tocca-no a una famiglia di poco censo, ma per fortunaqui il padre non si uccide, semplicemente ha fat-to un passo falso nel lavoro di muratore checonduceva in nero, e ora se ne sta triste, impo-tente, umiliato in carrozzella, bisognoso di assi-stenza capillare. Al suo posto, in un imponenteruolo di mater familias, c’è Antonia, che tenta dicomandare a bacchetta Gaia, la testimone enarratrice che ci parla in prima persona, e cheappunto conduce un racconto intessuto di tantepiccole vicende, di tante ordinarie sciagure, econtrasti, e passi falsi nella vita. C’è una inesau-ribile catena di viaggi in treno, da poveri pendo-lari costretti ad affrontare disagi senza fine. E cisono pure fastidiosi cambi di residenza, conl’obbligo di inscatolare i pochi oggetti domestici.Si aggiunga il capitolo del rapporto con gli altri,con gli esponenti dell’altro sesso, da cui proven-gono anche delle sfide, dei duelli rusticani con lecoetanee nel disputarsi i favori di qualche avve-nente ragazzo. C’è perfino un tentativo di omici-dio, in uno dei laghi che fanno da sfondo a tuttala vicenda, con particolare riferimento al lago diBracciano, ma forse sono proprio quelle acquefredde a esercitare un effetto calmante sull’in-tento omicida, facendolo rientrare. E per fortu-na, sarebbe stato un evento indebito, inappro-priato rispetto all’andamento prevalente dellanarrazione. Quelle acque basse e fangose sa-rebbero del tutto improprie per ospitare la scenadi un crimine, meglio considerarle come un ele-mento ideale per andarvi alla pesca di ricordi,sentimenti, impulsi cattivi poi trasformati in gestidi pace e di accettazione. Insomma, una vicen-da animata, ma mai sopra le righe, recitata convoce discreta, gestita a passi ben misurati. Do-vessi fare un raffronto, menzionerei il romanzodi Francesco Pecoraro, Lo Stradone, anchequello per la capacità di procedere a un pazien-te e convincente accumulo di dati.

Giulia Caminito, L’acqua del lago non è mai dolceBompiani 2021

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23pollice recto / pollice verso

Renato BarilliFalqui, una boccata d’aria fresca

Sempre rovistando attorno al Premio Stre-ga, mi pare che negli anni scorsi si fosse adot-tato il giusto criterio di arricchire la cinquinaselezionando una sesta opera che fosse usci-ta presso un editore minore. Non vedo tracciadi questa utile iniziativa nell’attuale edizione. Èstata abolita? Se mai esistesse ancora, avreipotuto raccomandare (vano sforzo, ovviamen-te inascoltato) un libro di Laura Falqui, Fonda-menti di vita celeste sulla terra, uscito pressouna a me sconosciuta casa editrice Medusa. Èuna boccata d’aria fresca, contro il clima mefi-tico, pesante, affatturato dei tanti romanzi co-stitutivi dell’attuale main stream, tra cui, nel“pollice” accanto, ho cercato di salvare la Ca-minito, ma solo per la discrezione, pulizia emodestia con cui conduce la sua storia, cheperò non si distacca di molto da tante opereconsorelle. Invece, nel caso della Falqui, ba-sta leggere che cosa dice del suo libriccino,nella bandella di presentazione, dove lo di-chiara “del tutto anacronistico, insensato,squinternato ma gioioso”. Ghiotta e appropria-ta è anche la genealogia che si attribuisce,aperta da Lewis Carroll, e a seguire da Ray-mond Queneau, Italo Calvino, Cesare Zavatti-ni, di quest’ultimo in particolare siamo quasi aun rilancio del troppo dimenticato Miracolo aMilano. Mi permetterei di aggiungere alla listaanche Stefano Benni e Ermanno Cavazzoni,che del resto sono autori vicini di residenza al-la Nostra, in terra emiliana. Protagonista, si faper dire, data l’esiguità del personaggio, chericorda anche l’Uomo di fumo di Palazzeschiovvero Il codice di Perelà, è un tale Cinichetti,orfano di madre, mai conosciuto il padre, chesi trova alla testa di sbandati come lui, definiti“teneri puberi asessuati e malinconici”, inse-guiti dalle forze dell’ordine convinte dell’oppor-tunità di relegarli in qualche “agonizzario”, maloro guizzano via, “come uno sciame irregola-re di insetti”, pronti a incunearsi in tunnel, insotterranei, in passaggi segreti, da autenticopopolo della notte, magari avviato a un viaggioverso il centro della terra, alla maniera di JulesVerne. Però non si creda che la Falqui conce-da troppo a un universo immaginario, favolisti-co, lontano dai nostri giorni. I nomi di questieroi negativi sono ricavati da qualche riferi-mento a prodotti di consumo, di massa, c’è tra

loro una Ginger Ale, e anche un Bronx, e cosìvia, in una ben amministrata mezzadria tra ifrutti della pura immaginazione e qualche sbir-ciatina a una realtà non del tutto assente. Co-me richiede un genere narrativo di quest’ordi-ne, il racconto è affidato a brevi capitoli, cia-scuno destinato a giocare, svolgere, esaurirequalche trovata, qualche fuoco d’artificio, ba-sterebbe andare a leggere gli scapricciati titolidi questi brani per coglierne il delirio, freddo ecompiaciuto nello stesso tempo. Sono visitati,ma sempre in modi rapidi, toccata e fuga, tuttii miti e svaghi e passatempi della categoria deldivertimento, come le caccie al tesoro, alla ri-cerca di depositi consistenti dell’unità moneta-ria di questo universo, che sono detti “frillici”. Eci sono anche gli interrogativi maliziosi, maga-ri profferiti pure in forma dialettale: “A Ciniché,’ndo vai?”, cui risponde simmetricamente un“Dondeès Chevieni?” Leggere i titoli dei variparagrafi è un divertimento continuo, una spe-cie di agopuntura che dà tanti piccoli brividi allettore, senza sosta, in una girandola inesauri-bile di invenzioni, davvero una specie di anto-logia, di sintesi di quanto di meglio è stato fat-to in questo senso sul filo dei decenni. Insom-ma, è proprio una cura completa rispetto allanoia, all’abbuffata, alla bulimia dei drammoniche ci vengono serviti da tutta la narrativa “se-ria”, di quella che tenta di dare l’assalto ai pre-mi più rinomati, e lo Strega in tale senso è unatribuna preferenziale, uno spazio del tutto ne-gato alle fragili imbarcazioni, alle bolle di sa-pone, agli aeroplanini zigzaganti messi in ariadalla Falqui. Per loro, ci può essere compren-sione, ricezione solo se si stabilisce uno spa-zio protetto, una palestra sottratta agli eserciziobbligatori cui si sottopongono tanti altri pro-duttori e produttrici di romanzi. Naturalmente,non ci meraviglieremo che a questo deliriocontinuo non ci sia un termine regolare, fissa-to in misura inesorabile. La parola FINE concui si conclude è accompagnata da un puntointerrogativo, lo spettacolo, come di fuochi ar-tificiali, può riaccendersi da un momento all’al-tro, forse molte di queste girandole sono rima-ste inesplose, o comunque chiedono un sup-plemento di esistenza.

Laura Falqui, Fondamenti di vita celeste sulla terraMedusa 2021

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GAMMMATICA24

Marco GiovenaleCausa-effetto(testi senza relazione)

non prende sul serio la cosa e anche perché di fatto a prenderla sul serio si tratterebbe veramen-te di mettersi in pericolo e di mettersi anche in discussione mettersi in discussione non è una co-sa che al momento gli interessi fare anche perché è l’ultima cosa a cui pensare quando si tieneun fucile di quell’entità in mano il corridoio finisce in due svolte scegliere una o scegliere l’altrapuò significare la differenza tra vivere e morire è in grado di capire questa differenza costi quelche costi deve affrontare questa differenza micro le differenze tramano tutta la vita le differenzesono la sostanza della vita senza le differenze neanche ci accorgeremmo di e passeremmo dauno stato all’altro come se niente fosse spesso è stato come niente fosse (stato)

come è possibile che portando a spasso recando attorno a giro il cane ci sia questo rimbomboevidentemente si tratta di“io

avrei potuto usare parole più semplici”

parole più semplici che mi vengono in mente che sono le stesse di chi non vuole ascoltare le pa-role in assoluto

poi non lo so, sarà stato il gelato, vista la stagione, o che erano finite le pillole, delle 24 ore, sa-ranno state le 24 ore, o il vuoto allo stomaco, il jet lag, o la vegetazione, più probabilmente saràstata la salita, poi la scalinata, o al contrario, quando poi scendendo, quando o dove, non è sta-to chiaro, lo scantinato, e risalendo al tetto, il senso di vuoto ai gomiti cioè stare senza balaustra,o sarà stato lo stomaco, il mal di piedi, il sudore asciugato addosso, nel vento su, freddo e piùdel previsto, altrimenti può essere stato lo scompenso politico, il giardino, magari le troppe cre-me, le paste, le uova, l’inquinamento, l’ortica, il pesce passato di data, un’occorrenza statistica,un qualcosa che cadeva, una decisione delle cellule, girare in cerchio troppo a lungo, l’azioneprolungata del farmaco, somatizzare una faccia, l’ennesimo film in cui inquadrano i minacciati,un colpo di frusta da fermi, cetacei coi loro ultrasuoni, la cia, l’altezza sopra il livello del mare, ilmal di mare, un’eccessiva confidenza, una coincidenza, l’artrosi uno sforzo, un ragno nascosto,bianco, l’aspirina, la polpa di granchio, il caldo, il sole, le tasse, il bagno dopo mangiato, un mo-vimento fatto male, non lo so

effetto

posso attraversare sia quando incrocio il signore con i canisia dopo, ma anche prima di incrociare il signore con i canimi è concesso: o facoltà, ne ho: ne

e quindi nesono in grado ma ho anche il potere di attraversare anchea prescindere dalla presenza del signore con i canisullo stesso marciapiede perfino

perfino se vedo un signore anche attraversare tutto questo

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GAMMMATICA 25

tutto questo permette una grande libertàè spia di una grande libertà senza canie signorilitàsu un altro marciapiedema anche se non c’è se non lo vedo posso farlo

è questo il segno di una libertà che l’occidente ha conquistatol’occidente può attraversare e passare dall’altra partequando vede che si avvicina con i cani

ha tante libertà schivare sia pericoli sia ciò che non rappresentapericoloc’è chepuò attraversare la strada anche con i canirecandone e sta sull’altro lato della stradaproprio per incontrarlo oppure potrebbe volereincontrare il signore con i cani per esempio se al suo telefono

e potrebbe chiamarlo telefonarglii cani e l’occidente vanno d’accordoci sono dei fraintendimentisi riesce ad andare d’accordo anchepensandola in maniera radicalmente oppostaquesto è un effetto prodotto da così tantiaccumuli di cavallucci marinimicrorganismi spore sequenza incrociattraversamenti

http:/gammm.org

Novità

Giuseppe Cinà

A macchia e u jardinuLa macchia e il giardino

Prefazione di Giuseppe Traina

Poesiapp. 112 - t 13,00

Il libro, in dialetto siciliano con traduzione afronte, mette in scena una visione del mondo foca-lizzata su un territorio rurale all’interno della Riser-va dello Zingaro, in Sicilia, e sulle sue trasforma-zioni negli ultimi cinquant’anni.

Velio Abati

Fughe

Raccontipp. 176 - t 17,00

La scrittura di Velio Abati nasce dall’allarme delpresente, dando vita a racconti, figure, meditazioni.

Ogni fuga rinnova la sua energia contro le ottu-sità, le violenze, gli smarrimenti dell’oggi, in vistadi un orizzonte di senso del sé e del mondo da ri-conquistare, sempre muovendo dalla concretezzadura dell’esistenza.

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REFRATTARI26

Filippo La Porta

Donarsi? Meglio saper ricevere

Il problema dell’umanità oggi non è tanto esolo lo sfruttamento ma il riconoscimento. Cisentiamo tutti sempre più superflui, insignifi-canti, “pesci de frittura” (Belli).

Paul Ricoeur si è occupato del riconosci-mento nel suo ultimo libro. Al netto di una ver-bosità molto French Theory vi si trovano gem-me di pensiero preziose. Prendiamo il tema deldono, paradigma alternativo alla cultura utilita-ristica, emblema del mutuo riconoscimento.Perché donando non creo un obbligo? Perché,risponde Ricoeur, chi è oggetto del dono devenon tanto restituire qualcosa quanto “ricono-scere” il donatore, la sua unicità. In che modoposso sentire di valere? A me pare che l’accen-to che Ricoeur mette sul ricevere, dunque sulnesso tra “riconoscenza” e “riconoscimento”(presente nella lingua francese e in quella ita-liana) ci porta a una ulteriore considerazione:l’azione morale più alta non consiste, parados-salmente, nel dare ma nel saper ricevere (omeglio: nel mettersi in condizione di ricevereda qualcuno). Non nel dare all’altro ma nel per-mettergli di dare a me, nel riconoscere dunquela sua unicità e insostituibilità, il suo assolutovalore in quanto capace di darmi qualcosa chenessun altro può darmi.

Taoismo (1) Morelli

Capiremo mai il taoismo? Come tutte legrandi sapienze orientali sembra fatto appostoper essere frainteso da noi! Per accostarvisisuggerisco due letture. Anzitutto un libro di ver-si di un poeta cinese del Millecento, meraviglio-samente tradotto da Paolo Morelli (più che tra-durlo ne ha captato la voce, dispersa negli ideo-grammi, come uno sciamano): La contrada na-tale dei sogni di Yang Wanli (Quodlibet). Lapoesia di Yang Wanli mi evoca una frase di Pu-skin rivolta a un poeta: “Descrivi, non fare il fur-bo”. Quando chiesero al poeta Giovanni Giudi-ci, traduttore di Eugenio Onegin di Puskin, cosasignificasse, ha puntualizzato: “Non bisognaforzare la realtà”. Non forzarla né sovrainterpre-tarla: essa possiede un suo ritmo, più o menonascosto, che si tratta soprattutto di ascoltare.Così fa questa poesia, apparentemente dimes-

sa, dove non ci sono metafore perché tutto èmetafora (una nuvola è un dragone che è unanuvola). Descrive e racconta “quello che c’è”: icolori, la pioggia, i fiori e le farfalle, le stagioni, il“mondo di polvere”. Fuorviante paragonareYang Wanli a poeti occidentali: qualcosa delsuo nucleo poetico ci sfuggirà sempre. Poesiascritta in un dormiveglia vigile, sul punto di sve-nire dal sonno, con gli occhi – potremmo dire –“ampiamente chiusi”. Il “wu wei” taoista è con-cetto intraducibile: agire non finalizzato... “Per ildolore chiamo aiuto al cielo, ma il cielo che nesa?” Eppure, smosso dal profumo della vanigliaanche il vecchio – infreddolito e con i piedi do-loranti – “è riuscito ad avere un po’ di fresco”.

Taoismo (2) Laurenti

Ed ecco la seconda lettura. Dovete imma-ginare un metodo prima che una filosofia: unosguardo laterale e dal basso. A questo meto-do è stato fedele Lu Xun, il maggior scrittorecinese del Novecento, un pensatore eretico espiazzante molto amato da Mao Tse Tung. Èora uscito, nella preziosa collana “Pietre d’An-golo” (Aragno) diretta da Andrea Cortellessa,una bellissima, a sua volta un po’ spiazzanteintroduzione a Lu Xun, che ci propone CarloLaurenti, a sua volta sinologo eretico (il retrodel libro, da leggere alla rovescia, consiste inuna antologia di scritti di Lu Xun). Nella intro-duzione siamo invitati a mescolare indisciplinae “incerti rudimenti di Onniscienza”. Laurenti siè mimetizzato con il suo oggetto. Una scrittu-ra insieme saggistica e poetica, figurale e den-samente riflessiva, sempre sul filo del para-dosso, del gioco di parole (l’opera di Lu Xuncome un “continente gigantesco”, anzi “JiKantesco”). Un ritratto erudito e un po’ sventa-to, che si intreccia con la “scoperta” della Cinada parte di Laurenti (o la scoperta di sé attra-verso la Cina): viaggi, traduzioni, amori, av-venture... Anche se dichiara il debito versoEdoarda Masi l’impressione è che le Masi, iFortini, etc. che pure introdussero meritoria-mente Lu Xun nella cultura della “nuova sini-stra” non erano attrezzati per capirlo: pur conla loro intelligenza spesso eretica erano infinetroppo bigotti (in senso marxista). Per capireun autore inafferrabile come Lu Xun, formato-si nel taoismo, occorre pensare più a un Alber-to Savinio: smascheramento dell’ipocrisia edegli inganni del potere ma gusto dello sber-leffo e del nonsense.

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CAMERA CON VISTA 27

Sandra PetrignaniParlando di fisicain versi

Cosa c’entra la fisica con la poesia? Hodomandato. Mi sono resa conto subito cheera una domanda sciocca. Tutto c’entra con lapoesia perché tutto entra nella poesia, tutto lapoesia centra. Non sto giocando con le paro-le, è così. E del resto ne ho avuto prova ulte-riore leggendo il nuovo libro di versi di Brunel-lo Tirozzi (a lui avevo fatto la domanda annifa), fisico di professione. Titolo spiritoso: Fisi-ca pour parler (Algra), in cui procede per cor-tocircuiti: “Lo spazio diventa quasi piatto / lametrica è quasi euclidea”, considerando peròche “è un duro cimento / se in versi tratti l’ar-gomento”.

Il professor Tirozzi che ha insegnato Fisi-ca Matematica alla Sapienza di Roma e orafrequenta il Centro Ricerche di Frascati appli-candosi alla fisica del plasma, il cimento lo af-fronta con leggerezza, ironia e la visione os-sessiva dei posseduti. I suoi versi sono con-templazioni del mondo nel suo formato atomi-co, sono considerazioni sulle particelle, sonolezioni in pillole sulla struttura dell’universo edella mente. “Le reti neuronali creano / emo-zioni, pensieri, piaceri / attenzione e depres-sione…” Ma quando gli chiedevo che c’entrala fisica con la poesia, in realtà volevo direun’altra cosa. Volevo dire: non confondiamo ipiani. Tu sei un amico acquisito, come maritodi una mia amica, Biancamaria Frabotta,un’amica di vecchia data (dai tempi universi-tari del femminismo, pensa un po’). Non solo,si dà il caso che questa mia amica nel frat-tempo si sia imposta come una voce di primopiano della poesia italiana. Come la mettia-mo? Ognuno al suo posto! Eppoi hai già lamusica: quante arti vuoi invadere? (Eh, sì,Brunello sa pure suonare il pianoforte e più diuna sera ci ha intrattenuto con sue perfor-mance jazz niente male).

Ora devo ammettere che, se di fisica non sonulla e non mi verrebbe in mente di occupar-mene, verso chi sa suonare uno strumentoprovo un’irrimediabile invidia… Ma non è que-sto il punto. Il punto è che avevo sistematoBrunello Tirozzi nel suo ruolo di 1. Marito fisico,molto simpatico, di un’amica 2. Performer jazzdi valore 3. Giocatore di tennis niente male, mache non sa perdere (sono rimaste leggendarie

le sue furie in campo contro un Valerio Magrel-li che credo gli desse le piste…)

A un certo punto lo ritrovo anche poeta. Chesia contagiosa la poesia? Che una moglie poe-tessa abbia questa virtù di trasmissione? Chele partite a tennis con Magrelli prevedesseroanche scambi di rime? Che le piacevoli seratenel loro salotto (di Brunello e di Biancamaria)dove potevi incontrare Vivian Lamarque e ElioPecora, Valentino Zeichen e Gregorio Scalise,Giovanna Sicari e Milo De Angelis, GabriellaSica e Toti Scialoja, Maria Grazia Calandronee, appunto, Magrelli abbiano fatto il resto? In-somma succede questo (cfr. “l’mmaginazione”n. 294 dell’agosto 2016): nel maggio di quel-l’anno esce un libretto delizioso. S’intitola Risa-telle (Empiria, con illustrazioni di Bruno Conte)ed è il dialogo in versi di una coppia che saprendersi in giro con affetto. È firmato da en-trambi. Introduceva Elio Pecora chiamando inrima l’applauso: Viva Brunello, evviva Bianca /ed ogni amico faccia un saltello / evviva Bian-ca, viva Brunello.

Io il saltello l’ho fatto, insieme a tutti gli altrinaturalmente, perché come gli altri mi sonostupita di come Brunello tenesse testa allamoglie Poeta. A leggere con attenzione si sco-pre che proprio a Bianca si deve la spinta de-cisiva per farlo scendere in campo. Scrive Bru-nello a un certo punto: “Bianca mi ha donatoun quadernetto / lo metterò in un angoletto /dell’affollato cortiletto / della mia mente / perregistrare rapidamente / i miei pensieri / chepassano velocemente / come indomiti destrie-ri”. E già qui parlava poi “dei neuroni del siste-ma centrale”…

Ora quel quadernetto ha prodotto quattroraccolte che hanno convinto sia lettori non tan-to esperti di poesia (come me), sia soprattuttorinomati addetti. Ha scritto per esempio Peco-ra introducendo Quando arriva l’estro (Empiria2018): “Il suo tono schiva la facezia, accostal’ironia senza cederle, pare lasciarsi alla ca-sualità ma s’arresta all’intoppo, veglia sulla vi-gilanza”. E Maurizio Cucchi nella prefazione aFisica pour parler: “Un libro di pensiero in co-stante movimento inquieto, immerso edespresso nel tessuto articolato e impareggiabi-le della poesia, nel corpo della parola poetica.Un’opera che fa pensare anche al mondo degliantichi, dei classici, e alla loro capacità, nei se-coli quasi del tutto perduta, di coniugare artedella parola e aperta lettura sapiente del mon-do”. Che altro dire? “L’universo lontano è a por-tata di mano”: evviva Brunello.

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28 LEGGENDO RILEGGENDO

Cesare MilaneseL’uomo al punto

Lo si dice “uno dei più sensibili e stimolantiinterpreti dello Zeitgeist contemporaneo”. E si èportati a crederlo che lo sia. In sede di questarivista letteraria senza dubbio, ovviamente perla centralità che tale autore assegna alla “ra-gione estetica” e alla sua forma di pensiero: lafilosofia per eccellenza del “come se”, impron-tata peraltro dalla fecondità consentita dallanuova ermeneutica. Quale si addice meglio aquesti tempi postmoderni, superatori, in valoristorici ed esistenziali, di quelli qualificati soltan-to come moderni; quando la ragione esteticaera ancora posta in situazione d’ancillarità, sot-toposta ai colpi di maglio delle filosofie e delleideologie del “pensiero forte”. Così come asse-risce Gianni Vattimo, che, pertanto, mira a ca-povolgere tale condizione contrapponendovi lascelta-salto del “pensiero debole”.

Avendo Gadamer, si sa, come mallevadoreeuristico, ma avendo anche, nella sua enciclo-pedia di riferimento, i due “classici” della mo-dernità: Nietzsche e Heidegger. Coloro chepiù di tutti i pensatori del loro tempo, furono gliinstauratori “sistemici” delle filosofie della Kri-sis; riguardo alla percezione dell’essente-uo-mo. Essendo, difatti, le loro, entrambe filosofieda “Ecce homo al punto”. Diventato costuisempre più tale col sopraggiungere dei tempidella postmodernità: quelli dell’homme dispa-ru. I tempi del postumano. Dissoluzione d’es-senzialità, questa, peraltro già avviata da pri-ma (dai massimi maestri della modernità stes-sa), nonostante le erculee fatiche delle loro fi-losofie salvifiche: da utopie ideologiche e da“apotropismi” psicoanalitici (giochi linguistici,infatti).

Freud: là dove ora c’è l’Es, ci sarà l’Io.Jung: là dove l’Io ora è ancora indefinito saràdefinito dal processo d’individuazione. Anchese in seguito Lacan introdurrà una rettifica dasmentita con il suo asserto sull’inconscio strut-turato come un linguaggio (magari a confermadell’innatismo di Chomsky, verrebbe da dire);con il che, per conseguenza associativa, tuttopotrebbe passare sotto il dominio del logici-smo puro di Wittgenstein, dove la soggettuali-tà è ontologicamente assente. Ecco, pertanto,allora, lo stato di “uomo al punto” definitivo.Perciò se le cose stessero effettivamente così,niente di più nichilistico di così sarebbe maidetto sotto il sole, riguardo all’uomo. Anche se

l’uomo è pur sempre l’esistente che è dotatodella coscienza di ciò, come Shakespeare netestimonia: “Noi siamo fatti della stessa mate-ria di cui sono fatti i sogni.” Idest, come in let-teratura. Che Vattimo intravede come elabora-zione di un’ermeneutica alla Gadamer, comeesplorazione dei dettagli dell’esistenza. Il cheè ciò che Vattimo intende come riduzione del-l’esperienza della riflessività non nelle essen-ze “maggiori”, ma nelle “forme” minori. Dettogrosso modo, laddove l’esistente, come “uomoal punto” si trova a essere ridotto al dileguaredalle prime; diversamente, sempre come “uo-mo al punto”, si trova a saper sussistere nellapeculiarità del proprio vivere (per usare il suostesso lessico, nelle “avventure della differen-za”, quali sarebbero indicate tanto da Nietz-sche quanto da Heidegger), come sottratte aicolpi di maglio delle metafisiche da filosofieforti: troppo forti.

Quali, peraltro, sarebbero quelle impresse,nella realtà del mondo contemporaneo (soprat-tutto secondo Heidegger), dalle “imposizioni”del Das Gestell della tecnica: dimensione entrola quale l’esistente, l’uomo, finisce veramentesituato “al punto” della sua estinzione definiti-va, ridotto alla funzione di “servente ai mezzi”;tale essendo, pertanto, la sua condizione nel-l’era del postumano. Fatta salva l’ipotesi che (equi azzardiamo senza essere autorizzati a untale azzardo) all’esistente stesso (all’uomostesso) non potesse essere dato, proprio in ra-gione di un suo possibile dominio sulla tecnica(con un rovesciamento globale dei rapporti didominanza) di ricomparire nel mondo come“transumanato” nel titanismo dell’Oltreuomoprofetizzato da Nietzsche.

Condizione in cui l’uomo stesso, obbeden-do a un suo imperativo costitutivo, possa esse-re in grado di “imporsi”, a sua volta, via tecno-logia, sia sulla natura e sia sulle cose, diven-tandone da loro servo a loro signore. Ma allo-ra, se un simile capovolgimento potesse even-tualmente avvenire, ciò non potrebbe non es-sere avvenuto se non con il ritorno sia alla teo-retica forte della dialettica hegeliana e sia al-l’ancora più forte dianoetica aristotelica. Se co-sì potesse avvenire, allora sì che si potrebbepresupporre, per un eccesso d’entusiasmo diun’interpretazione da immaginazione, che lavia della filosofia elaborata da Vattimo, in talevirtuale capovolgimento di sé, potrebbe portar-ci a esclamare: “Qual mai altro coup de théa-tre, salvifico, nel mondo, potrebbe essere piùauspicabile?”

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DIARIO IN PUBBLICO 29

Romano LuperiniGli ultimi due romanzi letti

Gli ultimi due romanzi letti sono di amici mol-to più giovani di me. Sono Gilda Policastro, chepubblica La parte di Malvasia presso La nave diTeseo, e Roberto Contu, La tigna, Castelvecchi.Due romanzi che appartengono a categorie op-poste, il primo a una tendenza “cattivista” e noir,che si compiace di mostrare il negativo e l’orri-bile (con prevalenza del tema sadomasochista),il secondo a una “buonista” e, direbbe Siti nelsuo recente Contro l’impegno, “impegnata” nel-la lotta del Bene contro il Male.

Il primo è forse troppo calcolato e “letterato”,il secondo troppo ingenuo, ma entrambi illustra-no bene due linee di tendenza molto diffuse nel-la letteratura contemporanea, a partire dai co-siddetti “cannibali” la prima, dall’impegno, tantoesecrato da Siti e presente nella letteraturaipermoderna dopo Gomorra, la seconda.

Policastro muove da Gadda della Cognizio-ne del dolore e del Pasticciaccio: c’è un delitto,viene uccisa una misteriosa Malvasia, e uncommissario cerca il bandolo di una matassamolto ingarbugliata. Il lettore all’inizio si lasciatrasportare volentieri sulle strade di questo cri-mine, poi capisce che in realtà questo è solo unpretesto letterario. La parte più autentica delromanzo viene dopo e riguarda la adolescenzadel protagonista, il rapporto tormentato coi ge-nitori e la morte di questi ultimi per un cancro apoca distanza l’uno dall’altro. Qui la compo-nente autobiografica è evidente, e nondimenosi trovano le pagine migliori del romanzo, dovepietà e aggressività rabbiosa si uniscono inmodo felice. Direi anzi che qui incontriamoquanto di più intenso abbia scritto Gilda Polica-stro narratrice (ma come poetessa ha compo-sto in versi, credo, le sue cose più originali).

Contu muove invece dal mondo della scuo-la, cui ha dedicato recentemente uno scritto frail saggistico e il documentario, Insegnanti, e daquello del volontariato cattolico. La sua cono-scenza del mondo giovanile e soprattutto delsuo linguaggio (chi si interessa del neolinguag-gio delle ultime generazioni non può prescinde-re, credo, da questa opera) è l’aspetto più inte-ressante del libro, che ospita pagine di partico-lare intensità ed efficacia sull’esistenza quoti-diana di alcuni liceali. Una coppia di giovani in-namorati scopre la gravidanza di lei, che deci-de di abortire. Per poterlo fare si reca col suocompagno all’ospedale di Orbetello e poi i due

decidono di passare un week end all’isola delGiglio. L’incanto di questi giorni felici viene bru-scamente interrotto da una emorragia che co-stringe la ragazza, sempre molto decisa e sicu-ra di sé, al ricovero in ospedale e al rischio diperdere il figlio. Questa nuova situazione laspinge a rinunciare ai propri propositi e a por-tare in fondo la gravidanza. Intorno alla coppiagravitano poi gli adulti, con le loro famiglie lace-rate e variamente ricomposte. Pagina dopo pa-gina il tema religioso si impone (un protagoni-sta è un prete, insegnante di religione) e varipersonaggi si convertono, se non sempre allafede cattolica, a un rapporto più eticamente im-pegnato con l’esistenza. Sta qui la parte piùdebole del romanzo. Troppe conversioni. Trop-po esplicito e dichiarato l’intento religioso. Amio avviso c’è più intensità religiosa nel modogiovanile e nella gita all’isola del Giglio, con lascoperta della natura e della tenerezza recipro-ca dei due giovani, che nelle dispute teologiche(in cui eccelle il prof. Contro, evidente controfi-gura dell’autore) e nella macchina buonistadella narrazione.

Due romanzi diversissimi. Le vie della narra-tiva contemporanea, dove non esistono più unapoetica dominante e neppure un conflitto dellepoetiche, indicano lo sbandamento ma anche lelinee di ricerca degli autori più giovani.

Zara Finzi

Spazio/tempo piatto

Poesiapp. 80 - t 13,00

“Bisogna fare poesia”. Si conclude con questoverso la nuova raccolta di Zara Finzi.

L’approfondimento di un incessante dialogo trasé e sé, come se silenzio, tempo indefinito, vuoto,fossero occasioni finalmente ritrovate, strumenti re-cuperati senza cercarli perché sempre posseduti,produce testi efficaci a rendere universale uno statocontingente e personale, a dire la vita non solo nel-le grandi aperture ma soprattutto negli angoli, nellesue pieghe più nascoste.

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VARIAZIONI IN REMINORE30

Renato Minore

Qualche anno fa mi è capitato di partecipa-re al progetto e alla sceneggiatura de I viceréche è poi diventato un film anche televisivo diRoberto Faenza. Ora per un analogo progettoancora alle prime battute, mi capita di tornarea De Roberto per rileggere L’imperio. Unastraordinaria impressione di complessità e diattualità. Federico De Roberto tenta di fare iconti con la drammatica disillusione che colpi-sce tutta la generazione che aveva vissuto ilRisorgimento, così come quella nata oltre ilprocesso risorgimentale, all’interno del nuovocontesto politico, in cui ben presto l’ammini-strazione del potere riduce a pura astrazioneverbale la differenza tra gli schieramenti e lapratica “trasformista” finisce col rendere sem-pre più vaga la capacità di rappresentazionepolitica dei durissimi conflitti sociali.

“Ho preso pure il vecchio manoscritto delromanzo che doveva far seguito ai Viceré.Faccio questo tentativo di ritorno all’arte sen-za fede e senza neppure altra speranza chequella di ricavare, chi sa quando, un migliaiodi lire dal lavoro di chi sa quanto tempo. Equesta è la mia vita, propriamente degnad’essere strozzata con tutt’e due le mani, senon fosse il ricordo, la visione, il pensiero e lasperanza di Nuccia”. Nuccia è la giovaneamante Ernesta, moglie dell’avvocato messi-nese Guido Ribera, titolare di uno dei più pre-stigiosi salotti della mondanità intellettuale, incui circolano giornalisti, scrittori, editori. E alei De Roberto in una lettera del 3 giugno1902 parla esplicitamente del romanzo: quelgran romanzo sociale che avrebbe dovutochiudere la trilogia inaugurata da L’illusionenel 1891, proseguita tre anni dopo dalla pub-blicazione de I Viceré, l’epopea della famigliaUzeda di Francalanza, la cui conclusioneavrebbe dovuto essere sull’ultimo degli Uze-da, il deputato Consalvo, un libro dall’autoredefinito “terribile”. Un testo concepito nel1893-’95, rifocillato di appunti e scene dal ve-ro catturate nel soggiorno a Roma fra il 1908e il ’13, per studiare da vicino il mondo parla-mentare che fa da sfondo continuo al raccon-to, mai portato a stesura definitiva e infattiuscito postumo solo nel 1929. Quando De Ro-berto era scomparso due anni prima, a ses-santasei anni, afflitto in vita dagli insuccessicommerciali dei suoi libri e dalla lor ambiguaricezione critica, e anche da un carattere

emotivo, insicuro, sentimentalmente irrisolto,soggetto a disturbi neurovegetativi e psicoso-matici fino alla morte sopraggiunta per traumada svenimento, quando anche lui era tornatoa Catania per sempre disilluso e scettico.

Per la rilettura di quello che si può consi-derare l’unico romanzo letterario italiano par-lamentare significativo, da porre accanto agliZola e agli Trollope, ho usato la nuova edizio-ne Garzanti del 2019 criticamente rivista e cu-rata da Gabriele Pedullà senza le incongruen-ze delle edizioni precedenti, accompagnatada un commento che per la prima volta fa lu-ce sui tantissimi riferimenti polemici alla cor-rotta politica liberale di fine Ottocento. E nesottolinea ancora una volta l’attualità sorpren-dente del tessuto politico, così profondamen-te nostrano, in cui si muovono i personaggi –quella schiera di politici e giornalisti che im-perversano quasi in un coro comico mentrenotizie di costume e notizie importanti si in-trecciano tra di loro senza alcuna gerarchia divalore. I tempi sono diversi ma sempre lostesso è il malcostume e i vizi illuminati dalloscettico conservatore De Roberto con disin-canto fino al nichilismo, da grande scrittorepolitico e insieme da eccelso auscultatore del-l’umanità che si cela dietro la politica politi-cante.

Due uomini a confronto nella Roma post-ri-sorgimentale: il principe Consalvo Uzeda diFrancalanza, già protagonista dei Viceré, eFederico Ranaldi. Consalvo ha grandi ambi-zioni politiche, crede di possedere per nascitail diritto di divenire qualcuno. E, pur di rag-giungere lo scopo, non esita a cambiare ca-sacca: conservatore coi conservatori, mode-rato coi moderati. Per assecondare i socialistiche teme, arriva persino ad accarezzare l’ideadel socialismo per poi finire col combatterlopubblicamente. Così riesce poco alla volta afarsi largo nella vita politica e, muovendosiabilmente in una trama sconfortante di intrighie macchinazioni messe in atto da uomini pic-coli e meschini, ognuno teso soltanto al pro-prio interesse, riesce alla fine a diventare mi-nistro. Federico, al contrario, è un puro di cuo-re, che tradito da una società opportunista evuota, diviene cinico e si disinnamora della vi-ta. Lui, nato nello stesso giorno in cui l’Italia siunisce, cioè quando Vittorio Emanuele entra aNapoli il 12 novembre 1960, anche grazie al

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QUALCOSA E QUALCUNO 31

cattivo esempio del suo mentore Consalvo,dall’idealismo giovanile si trova in balia, nellepagine finali del romanzo, della completa disil-lusione dell’età adulta. Solo qui, nella Romadegli intrallazzi parlamentari dove la patria ri-sorgimentale è prostituita in un bordello di lus-so, tutto finalmente diventa chiaro. Proprio al-

la luce dell’inesausta pulsione a smascherarela violenza dei contrasti tra le forze in campofino a colorarsi di meschinità e di corruzione,nella vita privata come in quella pubblica, che,come un’ombra, accompagnò e ossessionòl’intera esistenza non solo letteraria di Federi-co De Roberto.

Angelo Guglielmi

Vite libertine di Giorgio Ficara è un libro as-solutamente inatteso. Come è possibile che unraffinato critico letterario (e professore universi-tario emerito) scriva un libro di (suo) “piacere”(che tale è Vite libertine) nelle cui pagine si av-volge come in una coperta calda d’inverno?Non mi è difficile rispondere.

Quando Ficara recensisce un romanzo (ocomunque un libro di letteratura contempora-nea) punisce (anche severamente) i testi chelui considera ideologici (in realtà frutto di unmodo di scrivere non tradizionale – ritenendo la“tradizione” ormai obsoleta) e si abbandona alsuo “piacere” caldo di lettore remeritato dallascorrevolezza (se pur accidentata) che trovanelle opere classiche (o contemporanee concaratteristiche similari).

Per Ficara il piacere è un desiderio, perchénon cercarlo in quelli in cui è una pratica natu-rale, dunque i libertini francesi del Settecento?Il Settecento è stato fin dai primi anni un seco-lo di contraddizione: negava le verità rivelate eproclamava l’autorità della Ragione, poi ancoracontraddicendosi (o proprio per questo) si sfo-gava in comportamenti liberi da ogni condizio-namento e limite.

Il nostro “cazzeggiamento” è una abitudine,per loro (i libertini francesi) è un convincimentointeriore che l’esercizio della pratica rende (perloro) sempre piu esigente. Il loro “cazzeggio”non si sviluppa sugli eventi della quotidianitàma sulle pretese di “ordinato scorrimento” dellinguaggio. Per loro il linguaggio afferma e con-testualmente nega in un gioco esilarante chenon ha per fine il divertimento.

I libertini francesi non si divertivano ma pen-savano di dar vita a un nuovo modo di vivere, auna nuova cultura. Le loro ripetizioni (dell’affer-mare-negare) non erano la ricerca della “legge-rezza” (che fa vivere meglio), di una fuga da pe-santi pensosità ma si proponevano come inter-vento archeologico sulle strutture della mente(come armi di scavo di ritrovamenti ancora sco-nosciuti il cui valore sta nel non esistere).

A questo punto mi accorgo che io stesso stofacendo il libertino per il mio improbabile letto-re nel tentativo di rendergli chiaro il senso dellibro che sto leggendo (e sul quale sto cercan-do di riferire).

Nelle Vite libertine di Ficara figurano straor-dinari protagonisti (tra uomini e donne) tutti bel-li ricchi e colti, da Voltaire che intendeva darerealtà all’uguaglianza, a Helvétius “che proget-tava l’abolizione della povertà”, a Thérèse phi-losophe che “voleva realizzare l’utopia del pia-cere universale”, a Diderot che, “materialistacome era, vedeva la summa di amore terrestree celeste nella sua Sophie”, al “vecchio Bernis,cardinale e ambasciatore che era seguito daisuoi peccati come da servi previdenti”. Tutti fe-lici delle loro utopie, che per loro sono realtà difatto, scivolano in una sorta di paradiso terre-stre dove affermando e contestualmente ne-gando si immunizano da qualsiasi dubbio tran-ne da quelli che confermano le loro certezze.Nessun malumore (rimorso) li sfiora conser-vandoli intatti nella loro felicità.

Giorgio Ficara, Vite libertine, La nave di Teseo 2021

da Renato Minore, Variazioni in reminore

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32 CONTROCANTO

Roberto PiuminiPoeta o poetessa, che c’importa

Poeta o poetessa, che c’importa,

santa piuttosto: una Santa Rita

d’Accascia – per chi ama i calembours –

o una spleen-dida, se ne vuoi ancora,

col fumo fra le dita e l’infradito

e, il resto, accavallato: ma stasera,

sul palco, tutta blu, mi sentirete

read to reading, cazzo, e ogni tanto

alzerò gli occhi dalle righe, e torva,

pregna di senso, guarderò gli occhi,

con la stessa ispirata cattiveria,

all’editore frocio in prima fila,

e al tenero amateur, là nell’ottava.

Disegno di Monica Rabà

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LA KASA DEI LIBRI 33

Andrea Kerbaker

Viene qui in visita alla Kasa dei Libri l’Agne-se Manni che – tra le mille cose che segue –tiene i rapporti della rivista con i collaboratorimilanesi, e davanti a un caffè racconta le novi-tà della casa editrice e familiari. “Sai”, dice, “lamamma ha curato un carteggio tra Aldo Palaz-zeschi e Mario Picchi, appena uscito per le Edi-zioni di Storia e Letteratura, gran bell’epistola-rio”. Al nome di Mario Picchi, giornalista cultu-rale quasi dimenticato del secondo dopoguer-ra, alzo un sopracciglio. Tanti anni fa, in quel diRoma, mi capitò di comperare un nutrito grup-po di libri della sua biblioteca, tutti con dedica,che si distinguevano soprattutto per il livello de-gli scrittori: narratori come Elsa Morante e Ro-mano Bilenchi e tanti poeti, da Betocchi a Giu-dici; per non parlare di Marino Moretti, presen-te con moltissimi titoli. Insomma, decisamenteuna bella famiglia di libri, che oggi costituisce ilFondo Picchi e – come tutti quelli di una certaconsistenza – ha diritto a uno scaffale tutto persé. Mentre parlo con l’Agnese vado a memoria.“Mi pare di ricordare”, le dico, “che ce ne sianoun paio dedicati anche da Palazzeschi. Ma nona Picchi: a un certo Gino, che, mi aveva detto illibraio, era suo padre”. I dedicati stanno tutti in-sieme nell’ultima stanza della Kasa: una siste-mazione collettiva che permette ai vari libri diparlarsi e ritrovarsi, visto che spesso lì dentroci sono storie che si incrociano. Con Agnese,deposto il caffè, andiamo di là a controllare. Ri-cordavo bene: ecco i due libri di Palazzeschi,degli anni Quaranta; ed è vero: sono propriodedicati a quel Gino.

Con l’Agnese parliamo poi di tante cose, se-guendo i suoi molteplici pensieri, e io mi dimen-tico totalmente dell’accenno a Picchi. Lei no,però: appena arrivata a casa informa telefoni-camente mamma Anna Grazia, la quale non silascia ingannare dalla mia falsa pista. “Ma no,altro che padre: Gino era Gino Brosio, il piùgrande amico di Palazzeschi, un arredatored’interni, anche per il cinema. Era a sua voltaun amico di Picchi: quando è morto gli ha la-sciato l’intera sua biblioteca, scaffali compresi.Anzi, pensa che le scaffalature sono ancora lì”.Quindi i libri non hanno una storia qualunque: liha dedicati Palazzeschi a un amico molto parti-colare della sua vita. Agnese mi trasmette lanotizia. “Tua madre è sicura?” Certo che sì, tan-to più che il padre di Picchi si chiamava Osval-do. Comunque, per non sbagliare, Anna Grazia

mi fa pervenire il carteggio. Brosio appare giàalla seconda pagina, nota 3, come “tassello im-portante nella vita di Palazzeschi e presenzacostante nelle lettere”. Così importante che“compare nel corso della corrispondenza” tuttala sua famiglia, in testa il cugino Manlio, amba-sciatore negli Usa e a Mosca. Ma il personag-gio centrale è lui, Gino: “architetto d’interni, ar-redatore cinematografico per Luchino Visconti(e – aggiungo io – collaborare in quel campoper un esteta assoluto come Visconti, con lasua proverbiale difficoltà, tanto più in Senso,dove l’arredo è una componente fondamentale,non sarà stato uno scherzo), traduttore dalfrancese, anche regista”. Brosio che muore pri-ma di Palazzeschi, e molte lettere del carteggiosono dedicate alla sua malinconica, lunga e fa-ticosa dipartita: “Povero Gino, non vuol moriree non riesce a guarire”, chiosa Palazzeschi. Ap-profondisco su qualche sito. Brosio si dividevatra due case, a Firenze e Roma. Nella Capitalestava in via dei Redentoristi al 9, dirimpetto aPalazzeschi. Da un’altra parte compare una let-tera di Moretti a Picchi, anno 1978: “Di veri ami-ci, Palazzeschi ne ha avuti (e accettati) due: Gi-no e io”. Tutto si tiene.

Anni fa spopolava un gioco telematico, Se-cond life, dove ci si poteva inventare una vitadiversa da quella vissuta fino ad allora. Per idue libri della kollezione questa opportunità ar-riva adesso: alla luce di queste notizie, ora ledediche acquistano un significato completa-mente diverso. Vado a ricontrollarle. La prima,apposta sulla terza edizione di Romanzi straor-dinari, va “al mio caro Gino, in ore straordina-rie”, ed è datata “Roma, marzo 1944”, quandola città non è ancora aperta. Brosio è a Roma,non lavora: l’anno prima ha arredato tre film mi-nori; quello successivo Abbasso la miseria!, sigirerà solo nel ’45. In quel ’44 Palazzeschi eBrosio sono insieme, ad aspettare la fine del-l’incubo della guerra. “Cari Aldo e Gino, voi sie-te almeno vicini di casa, e forse non c’è nessu-no come me che v’invidi questa fortuna”, scrivein quei giorni Moretti. La seconda dedica sta in-vece sulla prima edizione dei Fratelli Cuccoli,un romanzo chiave, il primo dai tempi (1934)delle Sorelle Materassi: “Al mio carissimo Ginocon tutto l’affetto del suo Aldo. Roma, 1 maggio1948”. Cioè, per quanto mi è possibile ricostrui-re, il primo invio assoluto di questo libro, vistoche gli altri attestati sono tutti successivi. È pro-prio come nel gioco: per queste dediche la se-cond life inizia ora; che è poi il senso ultimo delraccogliere così tanti libri.

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IL DIVANO34

Antonio Prete

Il colore, lingua delle stagioni. Tappeti digiallo: è il frumento di giugno, prima che la treb-biatrice lo sottragga alla creta e i covoni lostringano nei loro cilindri bruniti, abbandonatipoi come sentinelle solitarie lungo i declivi. In-torno, le macchie verdi dei boschi, in alto, sullacresta dei poggi, le linee dei cipressi, più oltrele colline nerazzurre dei castagneti e dei lecce-ti. L’estate si spalanca con la sua tavolozza dicolori: cangianti, giorno dopo giorno, ma ancheora dopo ora, per via del dialogo assiduo dellaluce con l’ombra. Una drammaturgia muta, cheha come spettatore il cielo, il cielo corso a suavolta dalle nuvole, le appassionate della meta-morfosi. Questi gli accadimenti che posso os-servare dalla finestra del mio studio. Accadi-menti della natura, che da una parte distraggo-no dai pensieri e dalla pena che gli accadimen-ti del mondo provocano, dall’altra propongonoun confronto tra il ritmo degli elementi naturalie le vicissitudini che chiamiamo storia, con iltragico, le offese, le follie. Un confronto chepuò svolgersi sia lungo un versante oppositivo– la quiete del ritmo naturale contro la violenzadistruttiva della civiltà – sia lungo la sponda diun’interrogazione intorno alle reciproche impli-cazioni e all’enigma che le sostiene.

*

Può sembrare un adagio da vecchia scuola,ma sono convinto che il nucleo di ogni formazio-ne culturale è la passione per i classici. Se uninsegnamento trasmettesse solo questo, assol-verebbe in pieno al suo compito. L’affermazio-ne, oggi che la definizione di classico è ombreg-giata dal dominio di un’equivalenza mercantile –ed estesissimo è l’immaginario, con le sue for-me visive, musicali, scritte – può suonare inap-propriata all’epoca. Ma intendiamo pure perclassico quello che la tradizione, la permanen-za, l’insistenza sulla scena del sapere e delleforme, ha reso tale: la passione per un libro, siain versi sia in prosa, è esercizio di una relazionecostante e crescente con le immagini, i suoni, ipensieri che in quella rappresentazione delmondo prendono forma e ritmo, una relazioneche diventa, giorno dopo giorno, parte della pro-pria vita, talvolta fondale e scena del propriopensare. La passione per un classico, per piùclassici, può diventare l’alfabeto di una linguapropria: questo passaggio è sotterraneo, lento,

ma prima o poi quella passione si fa generatricedi un sapere che non è più libresco, ma è pulsa-zione di vita. Scrivere spesso è semplicementedare una forma all’amore per un classico.

*

Riapro, dopo averlo letto con piacere e fortecoinvolgimento qualche mese fa, Addio di CeesNooteboom, nella traduzione di Fulvio Ferrari econ una postfazione di Andrea Bajani, quest’ul-tima densa, nella brevità, di bei passaggi ese-getici (lo pubblica Iperborea, che anni fa tradus-se dello scrittore olandese il bellissimo Tum-bas). Ho conosciuto Nooteboom nel 2016 al Fe-stival di Mantova, dove presentai il suo libropoetico einaudiano Luce ovunque, anche quel-lo tradotto da Fulvio Ferrari. In Nooteboom, nel-la sua figura, la raggiera vasta del rapporto conle forme della scrittura, e con il viaggio, si rac-coglie nella leggerezza sorridente di un’affabu-lazione amicale. Questo libro, in cui ogni testoha tre quartine e un ultimo verso breve, unisceil vedere – il paesaggio naturale e urbano, inti-mo e fantastico – con il meditare intorno a figu-re e legami e corpi e visioni che ci sfiorano, abi-tano, abbandonano. La meditazione, a sua vol-ta, si curva nella dolcezza del verso, che la bel-la traduzione fa sentire. Evocazioni di luoghi edescrizioni di luci e di ricordi e di apparizioni simodulano in animatissime variazioni tonali. È ilsilenzio, l’oltre del visibile, e del dicibile, insiemeombra e sintassi dell’addio. A ragione AndreaBajani dice di Nooteboom che è “il grande fu-nambolo del silenzio”, aggiungendo che “pochicome lui, forse nessuno, sono riusciti a far coin-cidere il silenzio con l’avventura”.

*

Più volte il tema dell’addio mi ha coinvolto inun’interrogazione, facendosi ricerca, scrittura(Trattato della lontananza) e traduzione (Losadioses di Neruda). Su questo può avere agito,forse, l’ombra di una lontana partenza: quellache, mentre dicevo addio all’adolescenza, miportò la prima volta, in una lunga notte, su untreno espresso carico di emigranti, dal Salentoa Milano.

*

Leggo di Tommaso Di Francesco I rabdo-manti, uscito per manifestolibri. SottotitoloQuattro poemetti, quattro poesie colloquiali e

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35VISTI&RIVISTI

una favola. I personaggi dedicatari dei testipoetici sono le figure che hanno fondato o di-retto o tenuto vivo il quotidiano “il manifesto”:Aldo Natoli, Luigi Pintor, Lucio Magri, Eliseo Mi-lani, K.S. Karol, Rossana Rossanda, ValentinoParlato, Lidia Menapace, Luciana Castellina.L’autore, che sin dalle origini ha vissuto l’av-ventura politica e culturale del giornale, dive-nendone poi condirettore, dà di ogni personag-gio un ritratto per dir così “in azione”, mostran-do di ciascuno, oltre il timbro politico, le vena-ture del sentire e degli stili – stili di vita, di

scommesse, di passioni – e variando nellascrittura ogni volta sia le tonalità affettive edevocative e visionarie sia le forme del verso,che sono epigrammatiche, gnomiche, narrati-ve, in grado sempre di unire il forte vigoreespressivo, talvolta espressionistico, con il sor-riso. La favola finale ha per protagonista la gat-ta Mefis che Rossanda portò a Roma quandonegli ultimi suoi anni lasciò Parigi. Chi ha fre-quentato alcuni dei personaggi – è il mio caso– leggendo si trova qualche volta ad essere vi-sitato dalla commozione.

Ivo PrandinGoffredo Parise e la “sopa coada”

Per tre volte ci siamo visti di persona: e so-no stati incontri ravvicinati che includono ancheuna lunga intervista poi raccolta in volume (38Venezie): due volte nella nostra terra veneta, ela terza in Friuli. Goffredo Parise (1929-1986)mi ha regalato la sua preziosa attenzione ami-chevole anche nel periodo in cui il male si eraimpadronito di lui costringendolo alla dialisi. Ri-cordo il suo sorriso problematico alla vita.

Ecco l’incontro a Padova dove lo scrittoreera ospite di una zia. Curiosa l’occasione: erostato mandato a ritirare un suo articolo per il“Gazzettino” dedicato a Pablo Picasso (allorain mostra a Venezia, a Palazzo Grassi) forte-mente voluto dal mio direttore, e ottenuto no-nostante Parise avesse la firma bloccata, cioèin esclusiva al “Corriere della Sera”.

Il testo non era ancora pronto quando sonoarrivato. La scena: era pomeriggio inoltrato,tempo tranquillo, con la città del Santo che re-spirava intorno a noi aspettando la sera: Parisesi è ritirato subito in una stanza al secondo pia-no, con la finestra aperta verso di noi che senti-vamo il picchiettare tranquillo e sicuro sulla Oli-vetti, mentre eravamo raccolti giù nel cortiletto inattesa facendo salotto: con la zia e con me,c’erano Giosetta Fioroni e Omaira Rorato – ledue donne amate dallo scrittore – e il poeta ve-neziano Tiziano Rizzo. Oggi quel testo originale,elaborato a caldo da una personalità straordina-ria, è custodito nell’Archivio della Casa di cultu-ra G. Parise a Ponte di Piave (Treviso) nel cuigiardino sono onorate le ceneri dello scrittore.

Ancora Ponte di Piave: d’estate, a pranzonella casa di campagna dei suoi amici Tomma-seo Ponzetta, quelli del racconto “Famiglia” chesi legge in Sillabario n. 1. La contessa Marella,padrona di casa, aveva preparato con le suemani la sopa coada, un famoso piatto unico del-la tradizione gastronomica della Marca trevigia-na a base di piccione, molto apprezzato dallo

Goffredo Parise visto da Rosario Morra

da Antonio Prete, Il divano

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ANGELO ANDREOTTI, L’attenzionepuntoacapo 2019

Era rimasta nascosta sul tavolo ed è com-parsa all’improvviso, questa piccola raccoltapoetica compatta. Antonio Prete, nella prefa-zione, scrive di “presenze lievi e discrete” cheabitano i versi inseriti in una natura piena disussurri e rimbombi, di luminosità, penombre eoscurità in rapporto costante. Le poesie scorro-no in un percorso che coniuga il sentimento al-la ragione, il passato al presente, con attenzio-ne e adesione sincera, senza artifici, ad ogniaspetto della vita.

MARCO FURIA, Minime circostanzeContatti 2021

È un piccolo libro strano, in una scritturasincopata che accorcia il discorso all’essenzia-le e richiede al lettore la pazienza di abituarsi.Poi, a poco a poco tutto scorre nella direzionedi “minime circostanze”, ognuna delle quali oc-cupa una pagina e presenta esili casi di norma-lissima quotidianità. Gli animali sono molto pre-senti: lo strido di un piccione all’inizio, un nidodeserto che attende, dopo aver resistito all’in-verno, i volatili in primavera, conclude il libro.

PINO MONGIELLO, In certi luoghi dell’animaGrafo 2020

La nascita sul Garda, le radici di famiglia nelGargano, la vita nei luoghi del Polesine sono lecoordinate di un organico tragitto fotograficoche l’autore offre al lettore. Le parole, le sueunite a quelle di Francesco Permunian e di Ni-no Dolfo, sono un’appendice, l’apostrofo rosaaggiunto alle pagine con le immagini. Tutte in-tense, portano ad andare oltre per un’immer-sione completa nella natura che appare in tut-ta la sua bellezza e grandezza. La scrittura èquindi un complemento. Le foto primeggiano evanno viste e riviste, e fanno scoprire l’acqua,quando è calma e quando si agita, la roccia, lasabbia ghiaiosa, i campi assolati, gli uccelli delfiume, le case abbandonate, i paesi colorati ele immagini sacre della devozione popolare…Insomma basta per un invito a meditare suquello che ci circonda, da salvaguardare?

Anna Grazia D’Oria

36 VISTI&RIVISTI

scrittore, che amava andare a caccia. Attorno alui, la sua compagna trevigiana Omaira, il pa-drone di casa Pietro Tommaseo Ponzetta e ilsottoscritto, “invitato speciale” con la sua Nadia.Parise non parlò solo di gastronomia. In quelgiorno di gran luce – in parte riflessa dal fiume“sacro alla patria” – e di profumi campestri, etenne banco con allegria. La fasciatura biancadel polso sinistro che spuntava dalla camicia ciricordava la gravità della sua malattia.

Piuttosto strano l’altro incontro, il terzo. L’in-dustriale Franco Zoppas, che mi conosceva esapeva di me e di Parise avendo letto l’intervi-sta, mi chiese se riuscivo a “portarglielo” a ce-na in villa: era un suo fervente lettore, e si sen-tiva onorato di poterlo incontrare: io ero l’inter-mediario. Parise, curiosissimo del prossimo edelle “cose che ci offre la vita”, accettò l’invito ecosì un pomeriggio venne l’autista di Zoppas aprenderci. Durante il viaggio verso Marano La-gunare, dove Zoppas e la sorella ci aspettava-no con semplice solennità, Parise parlò molto,anche di paesaggio e di caccia, una sua pas-sione. Quella sera si sarebbe parlato anche dialtre passioni perché quella zona del Friuli èricca di valli da pesca. Prima dell’arrivo, dopoaver guardato a lungo in silenzio dal finestrinodell’auto, Goffredo mi apostrofò in francese:voleva evitare che l’autista capisse la doman-da: “Ma perché mi hanno invitato?”

Antonietta Langiu

Pietro, il partigiano sardo

Romanzopp. 144 - t 16,00

La storia è quella di un giovane sardo, pastore epoi tagliapietre che è tra i primi ad arruolarsi, a di-ciotto anni, dopo la dichiarazione di guerra di Mus-solini nel 1940. Così la piccola storia di un uomoumile e intelligente si inserisce in quella più grandedell’Italia. Le azioni militari in Albania, un breverientro in Sardegna e un matrimonio affrettato, il ri-torno in zona di guerra, la caduta del fascismo, laResistenza, i campi di concentramento in Baviera,una giovane donna innamorata e poi infine di nuo-vo la Sardegna e un segreto ben custodito.

NOTERELLE DI LETTURA

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I NUOVI LIBRI MANNI 37

Sergio ArmaroliAtlante figurato di grammatiche fossili

Un io attraversa organicamente ogni poe-sia misurandosi con testi amati e assimilati,del passato e del presente, in un cammino disicure incertezze che diventano certe nel pro-cesso di scrittura.

Cinque sezioni comprendono cinque tappedi un itinerario che esplora un inventario tema-tico in cui vi sono anche versi aggiunti in ricer-cato disordine, citazioni da canzonieri, ricalchi,fino alla lunga considerazione finale di una vi-ta in esilio domestico tessuta di microscrittureper ricordare, nell’impossibilità di accordare ilmondo, una Natura come in un quadro metafi-sico di de Chirico, fra distruzione e rinascita.

Cimitero di grammatiche fossili

Cimitero di grammatiche fossilidove rubo una citazionedalla lettura lenta

come un graffio pigro

mentre nell’assenza di uno scopodimentico la pagina.

Nel presente

Nel presentedi un passato, nel ritardo m’illudo,e cerco l’affettodel tuo sguardo.

Lascio incompiutoin questo perduto tempo il quadro,nel sonno di realtà,come paesaggio manifesto d’inconsistenza.

Se le mie rime sparse

Se le mie rime sparse, in queste carteposson sembrare eccessi,di questo io non mi curo

e mi diletto dei miei dolorie d’ogni sorte: in dote,tace, muta,questa pagina bianca, miaperduta.

Poesia di poeta

Io non son sì certo Amor di tua certezzae non provo piacer, né piacevolezza;in sorte, so ch’io non so voler quel ch’io pur

[voglio,silente e assente di disir pur io mi doglioe scrivo sol per mio piacer.

Vita su mensola

Una vita su mensola, come collezionedi oggetti inutili:oggetti d’affezione, ritagli e sassiraccolti durante lunghe peregrinazioni,pezzi di legno (in-forma),e piccoli disegni: appunti.

In quota di scomodità necessaria.

da Sergio Armaroli, Atlante figurato di grammatiche fossili

Sergio Armaroli

Atlante figuratodi grammatiche fossili

Poesiapp. 80 - t 12,00

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I NUOVI LIBRI MANNI38

Ugo FoàIl bambino che non potevaandare a scuola

Quando vengono promulgate le leggi raz-ziali, nel 1938, Ugo ha 10 anni, sta per iscri-versi alle scuole medie. Ma all’inizio di settem-bre, prima che ricominci l’anno scolastico, suamadre gli comunica che, in quanto ebreo, nonpotrà tornare tra i banchi di scuola.

Ugo e i suoi quattro fratelli, e tutti gli ebreiin Italia, non potranno fare sport, lavorare ne-gli uffici pubblici, avere una radio in casa, farsiaiutare da una tata “di razza ariana”, e via viamolti provvedimenti che mirano a estrometter-li dalla vita sociale, economica e politica delPaese. Il padre di Ugo lavora in Eritrea, man-da il denaro per il sostentamento della famigliarimasta a Napoli; e lì Ugo vivrà i bombarda-menti, la fame, gli stenti della guerra, e poi conle Quattro giornate di Napoli, finalmente, l’arri-vo degli Alleati e la Liberazione.

Per quarant’anni Ugo non ha raccontatoquesta storia. Poi ha capito che aveva il doveredi testimoniare, soprattutto davanti ai giovani.Adesso gira instancabile le scuole di tutta Italiae racconta la sua vicenda: è la vita di un bambi-no durante la guerra, un bambino che non puòandare a scuola, che quando dà gli esami daprivatista deve sedere all’ultimo banco. È il rac-conto festoso della Liberazione, e quello tragicodei parenti e degli amici deportati. È la storia diun uomo che deciderà di andare ad Auschwitzsoltanto nel 2005 e lì, davanti al binario che con-duceva ai forni crematori, non potrà fare a me-no di inginocchiarsi e dire una preghiera.

Il libro, pensato per un pubblico di ragazzi,è corredato da agili schede sui momenti sa-lienti del fascismo e della Seconda guerramondiale, sulla persecuzione razziale in Italiae Germania, su episodi e personaggi citati nelracconto di Foà.

La mamma ci chiamò in cucina, ci disse chequell’anno non avremmo iniziato la scuola:niente ginnasio per me, e niente scuola nean-che per i miei fratelli.

Ero frastornato, non capivo: avevo paura diaver fatto qualcosa di male, che fosse una pu-nizione.

Quell’anno sarei andato a scuola con i fra-telli maggiori, avremmo fatto la strada insiemefino al liceo, li avrei trovati nei corridoi, e al-l’uscita, doveva essere un anno speciale. Avreianche smesso di indossare il grembiule nero,

che nascondeva le macchie d’inchiostro dei piùpiccoli. Sarei diventato grande, insomma.

Ma ora tutto svaniva, mi strappavano una co-sa mia e non capivo perché. E poi, sarei rimastoignorante? Come si poteva smettere di andare ascuola così presto, con tutto quello che avevoda imparare? Non avrei visto più i miei compa-gni? Come avrei passato la giornata?

Scoppiai a piangere, ero umiliato, sentivol’ingiustizia di quello che stava succedendo.Ma mia mamma era una donna forte, avrebbetrovato una soluzione.

Però, la questione non era solo la scuola.Quei mesi avevano in serbo altre brutte sor-prese.

Qualche giorno dopo era sabato, il sabatofascista. La mamma era una donna rigorosa erazionale e, davanti all’incertezza se dovessi-mo andare all’adunata, pensò che, visto chenon c’era stato alcun divieto esplicito, anche gliebrei potessero, e anzi dovessero partecipare.

Remo e io ci andammo, forse un po’ per-plessi. Il comandante della Milizia volontaria fe-ce il solito discorso di esaltazione del fascismo,ma quella volta aggiunse: “Dovete essere de-gni di essere fascisti. E gli ebrei sono indegni diessere fascisti”.

Remo e io ci guardammo negli occhi, e cifacemmo coraggio. Alla fine dell’adunata an-dammo a parlare con il comandante, e un po’imbarazzati gli chiedemmo: “Noi siamo ebrei:dobbiamo venire alle adunate?” Ora sembravaimbarazzato anche lui. Forse pensava che gliebrei non fossero persone in carne e ossa,bambini in calzoncini e fez come quelli che glistavano davanti. Andò a parlare con un altro uf-ficiale, e poi tornò con il verdetto: “Andate a ca-sa e non tornate più”.

da Ugo Foà, Il bambino che non poteva andare a scuola

Ugo Foà

Il bambino che non potevaandare a scuolaStoria della mia infanzia durante le leggi razziali in Italia

pp. 88 - t 12,00

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I NUOVI LIBRI MANNI 39

Adelio FuséLe direzioni dell’attesa

Walter è uno scrittore che, dopo aver rinun-ciato alla letteratura per senso di inadeguatez-za, si abbandona a un’esistenza girovaga; Ali-na è un’attrice caparbia che interpreta la vita inunico modo, sulla scena di un teatro come nel-la quotidianità.

La vicenda ha inizio in una Parigi inconsue-ta, dove il ventenne Walter assiste al repenti-no naufragio delle proprie ambizioni e anchealla prima dirompente apparizione di Alina.

Nell’arco di due decenni i protagonisti si in-contrano più volte, in un gioco a perdersi per ri-trovarsi, mentre i loro percorsi si snodano indi-pendenti fra il Lago Maggiore e Amsterdam,Roma e Edimburgo, Lisbona e Marrakech, Ber-lino e un’isola greca. Sempre si lasciano senzafissare appuntamenti, certi di rivedersi ancora.E sempre si rivedranno, pronti a trovare la giu-sta direzione in cui orientare l’attesa.

1.

Rue de la Frontière. La via faceva proprioper lui, ne aveva tutta l’aria. Il nome, appropria-to come nessuno, era inciso sopra la sua testacome una promessa. Si era lasciato alle spalleNotre-Dame: se si fosse voltato, avrebbe scor-to le celle campanarie delle due torri. QuartiereLatino! Non si stava sbagliando. Aveva mossopassi zigzaganti seguendo i capricci delle stra-dine per scovare la tana giusta per lui e si erapermesso di storcere il naso di fronte a unbuon numero di alloggi che aveva poi scartato.

Intanto là, all’imbocco di rue de la Frontière,non aveva alcunché da dichiarare. Le ambizio-ni sono il preludio, niente affatto certo, della so-stanza. E le sue dovevano ancora fruttificare.Mentre sostava compiaciuto alla sua persona-le frontiera, prima di varcarla, quelle rimaneva-no prive di forma e consistenza. Nemmenoerano vendibili a basso prezzo o in saldo oelargibili come un dono. Non che le sue mani fi-no ad allora avessero oziato, anzi. Quelle stes-se mani erano disposte a qualunque sacrificioper difendere il lavoro accumulato. Ma si erarecato a Parigi proprio per esprimere qualcosache fino ad allora aveva pulsato dentro di luicome un dovere rimasto nell’angolo delle soleintenzioni. Doveva ancora scrivere il capolavo-ro a cui candidamente aspirava e lo avrebbescritto lì. Per ora niente da dichiarare, dunque.

A una qualunque frontiera cosa è più vantag-gioso di una simile condizione, per usufruire diun facile salvacondotto?

L’hotel su cui fece cadere la scelta era sem-plicemente l’hotel, nient’altro. Una sorta diidentità neutra eppure assoluta, anonima e nel-lo stesso tempo universale. La facciata era bru-ciacchiata, palesemente scampata per un peloa un incendio. Le fiamme l’avevano ferita concarezze grevi ma la struttura aveva retto. Il fuo-co aveva lasciato un marchio indelebile di sé:macchie allungate e linguacciute, che avevanoattecchito come una pianta rampicante. Se luifossi salito su, tenacemente, di ramo in ramo,dove sarebbe arrivato? Quale picco avrebbeconquistato? Pregustava uno spettacolo di pu-ra magnificenza. Lassù, sul tetto di un hotelche non aveva la stazza di un gigante, sareb-be comunque stato sul punto più elevato di Pa-rigi. Parigi! La quale, per lui, era la Città.

Imbambolato, contemplava i finti rami, i loroghirigori che si combinavano con i raggi che ilsole appiccicava alla facciata. Rami e raggi vi-bravano dentro al suo occhio, ancora ballerinoper le oscillazioni della notte in treno. Aveva ri-nunciato al viaggio in vagone letto: era talel’eccitazione che gli risultava intollerabile dor-mire. Voleva vegliare su ogni metro risucchiatodal treno, eppure aveva ceduto e si era addor-mentato. Lo aveva svegliato la mano del con-trollore sulla spalla: il treno, fermo su un bina-rio della gare du Lyon, si stava già svuotando.

Non si arrampicò e nell’hotel entrò nel piùconsueto dei modi: attraverso il portoncino d’in-gresso. E fu subito profumo di lavanda. Anzi ilsimulacro di tale profumo, diffuso a man bassae per accumulo.

da Adelio Fusé, Le direzioni dell’attesa

Adelio Fusé

Le direzioni dell’attesa

Romanzopp. 252 - t 20,00

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I NUOVI LIBRI MANNI40

Bianca GabrielliLatte di fico verde

La Seconda guerra mondiale è appena finita.Haim, ebreo tunisino, si imbarca per Parigi

con una borsa di studio, molte speranze e no-stalgia. In Francia scopre la militanza politica, ilsuccesso professionale, il dolore.

Sotto un altro cielo, nata da un’ebrea emilia-na e un nobile calabrese, Marta, creatura soli-taria, si adatta come può ad una vita di costan-te non appartenenza – religiosa, sociale, geo-grafica.

Un giorno le strade di Marta e Haim si in-contrano, e anche se il tempo delle promessee delle conquiste sembra lontano, c’è un altroscintillio di speranza.

«Stasera si vedono le montagne» avevamormorato Marta passando davanti alla fine-stra «a volte anche Milano è bella».

Chissà in quanti sarebbero stati. Carlo eraincerto, come sempre. Laura non sapeva l’oraperché «Sai, se mi chiamano in teatro, col casi-no che c’è in ballo…» Guido aveva detto di sì,sempre che non gli venisse una crisi d’ansia.Luisa aveva una conferenza stampa, poi dove-va subito scrivere il pezzo, sarebbe arrivata ap-pena possibile, ma suo marito «Non so perchésiamo in rotta». Sara e Giorgio avevano accet-tato felici: non si parlavano da una settimana,sarebbe stato un modo per riacquistare l’usodella parola. Lia sì, «Ma non so se sola o ac-compagnata». Vanda sì, ma di Fabrizio non sa-peva. Dipendeva dall’umore della moglie legitti-ma. Avrebbe cucinato per quindici, pronta a sur-gelare le eccedenze.

Aveva aperto la porta del bagno. In piedidavanti allo specchio si guardava con cattive-ria. Il suo volto era stato bellissimo. Oggi le di-cevano ancora che era bello. Seguendo il con-torno degli occhi con la matita nera, contava lerughe appena accennate. Il seno si sarebbepresto afflosciato, le gambe erano sempre sta-te bruttine, il culo un po’ basso, piatto… Si truc-cava con rabbia.

“Gli occhi, poi basta. Tanto chi se ne frega…se non mi muovo mi trovano in mutande”.

E guardava nello specchio quei suoi occhichiari. Gli occhi del nonno… Era un ebreo pic-colo, calvo, con gli occhi azzurri. Si faceva labarba in canottiera col rasoio elettrico. E sorri-deva. Gli occhi del nonno sorridevano sempre.

Del giudeo aveva il culto della solidità fami-

liare: millenni di erranza restringono i confininella sicurezza delle mura domestiche. Del-l’emiliano aveva l’ironia. Del nonno aveva ladolcezza. Ma, soprattutto, aveva la nonna.

«Guarda come è bella!» le aveva detto ungiorno, commosso.

E Marta aveva sognato di diventare bellacome lei.

«Non l’ho mai tradita. E neppure ne ho maiavuto voglia. Sono un uomo fortunato» le avevadetto un’altra volta.

E Marta aveva sognato un uomo come lui.Tenendosi stretti avevano affrontato due

guerre e la persecuzione. Di quel periodo nonamava parlare. Diceva solo: «Ho ritrovato tutti imiei cari. Sono stato fortunato» e guardava lanonna accarezzandola.

Se ne erano andati per mano. Chiusi persempre in quel loro amore esclusivo, assoluto,di un altro tempo. La nonna aveva avuto un ic-tus e si spegneva nell’incoscienza.

«Senza di lei non posso stare» aveva dettoil nonno guardandola.

E il suo cuore, accogliendo la preghiera, siera fermato di colpo.

Li avevano portati via insieme. Il campanello. Marta aveva aperto la porta

allacciandosi la camicia.«Ciao Carlo. Non sapevo se saresti venuto».«E invece ci sono. Livia è già arrivata?»«No, sei il primo».«Ti do una mano. Cosa posso fare?»«Stappa il vino, io accendo il camino».Era entrata Laura. Si era buttata sul divano,

sfinita. Sempre un po’ alternativa nell’abbiglia-mento, portava una lunga gonna scura. I capel-li cortissimi e neri, dritti come spilli sulla testa ledavano un aspetto attraente.

da Bianca Gabrielli, Latte di fico verde

Bianca Gabrielli

Latte di fico verde

Romanzopp. 96 - t 13,00

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I NUOVI LIBRI MANNI 41

Daniele GorretDelle verità

Dalla verità più arcaica all’alétheia dei Gre-ci, dalla veritas cristiana all’arido vero leopar-diano fino alla babele di verità del pianeta glo-balizzato, questo libro tenta di dire come l’uo-mo abbia sempre prodotto visioni del mondotra loro contrastanti e come con esse sia co-stretto a convivere e a modellare la propria esi-stenza. E questo tentativo è fatto narrando inversi le tappe del cammino storico, dagli alboridell’umanità all’epoca a noi contemporanea.

Daniele Gorret però non racconta di Storiase non per riportare ogni “verità” alla propria li-mitatissima vicenda personale. Così che gli en-decasillabi del libro accostano esperienze col-lettive abissali a banali accadimenti di vita quo-tidiana.

È in questa convivenza-scontro tra minimoed enorme che il testo scatena una sua specia-le tempesta e su questa tempesta fonda la pro-pria poesia.

La Primigenia

Sul libro illustrato dono dello zio guarda il nipote l’uomo primitivo: Europa è tutta ingombra di foresta ed in foresta si muovono animali: lupi orsi e – aggiunta fantasia – qualche pantera a fare più paura.

È alba indubbia sul pianeta Terra,tutto comincia e tutto è nuovo e raro; e alba (quasi felice) è pure nel bambino.

Gli inizi son sovente fantastici e contorti, e questo, da inizio degli inizi, il più contorto. Bene, tra l’altro, non si può sapere neppure sia davvero un iniziale o invece un punto qualunque della corsa vecchio di tempo stanco di millenni già con le spalle cariche di storie. Certo, a pensarlo da qui, da quest’istante in cui il bambino ha soli cinque inverni, un poco è tenerezza, un poco nostalgia: il sapore forte e chiaro è d’un’aurora e d’ogni aurora ha la malìa e l’attesa.

Uomo-animale fresco ed assetato, impaurito-affamato-scatenato, bello trovare acqua cibo gioia

allettante è dominio sulla terra!in selva o savana su monte ed in pianura uomo s’adatta, uomo è l’adattante! sperimenta le mani (bellissima invenzione) prova con gli occhi, piega il suo cervello, ogni cosa nel corpo è proprio al posto giusto manco un paterno da qualche parte ascoso avesse fatto, e fatto a scopo certo... Tanto che lì, talvolta, a cielo oscuro dopo quel lampo, quasi selce in cielo, e poi quel chiasso orrendo (un roor brutale) ad uomo, tra grotta ed aperto, può accadere di pensare che lì, tra monte e cielo, sieda un avo gigante ora benigno altre volte impassibile o furioso. Bisognerà – fa congettura l’uomo – un giorno andare il più vicino al cielo e assistere da lì se mai si mostri questo signore che avrà pur volto e corpo e zampe a correre e unghie per graffiare... Proficuo sarà allora farselo compagno: dono per dono, il sovrappiù sia suo. Non tanto diverso sarà dall’animale ora nemico ed ora un alleato: ora colpisce ed ora invece abbraccia, pronto a colpire e pronto a festeggiare. Le bestie son così: son carne buona ma anche schiavi ed anche protettori...

da Daniele Gorret, Delle verità

Daniele Gorret

Delle verità

Poesiapp. 160 - t 17,00

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I NUOVI LIBRI MANNI42

Vittorio OrsenigoL’oltraggiosa sopravvivenza

Un’ironia sottile è la cifra essenziale di unmonologo che si confronta con il tempo di pri-ma per cavare dal buio in cui erano sepolte lenecessarie differenze.

A interrogarsi in forme spietate è il protago-nista, ma lo sono anche gli altri personaggi, esenza molti riguardi: cosa succede a un uomodi novantaquattro anni che vive con la moglieTilda, ancora musa ispiratrice, e che senzapropriamente desiderarlo è ancora vivo, scrive,racconta?

Ripiegato sul particolare, analizza la quoti-diana fatica del vivere aspettando una fine chesa dietro l’angolo, e imprime una perfida e te-mibile serietà ad ogni atto della giornata; eppu-re lo lascia in sospeso, come se fosse l’ultimapagina di scrittura della vita.

Capitolo primo

Quando mi sono definitivamente convintod’essere soltanto un vecchio, un vecchio cometanti altri vecchi che, volto barbuto o decente-mente rasato, si assomigliano tutti, ho comin-ciato avidamente e con umiltà ad ascoltare lagente senza mai fare il difficile come avevopervicacemente fatto per tantissimi anni.

Il progresso della chirurgia e in subordinedella medicina hanno, con spinta irresistibile,colmato il pianeta anche per altri versi disa-strato, di forme acciaccate ma ancora viventidi tipi del mio stampo. Un tempo, diciamo sinoa dieci anni fa, me la sarei presa da morire maora è come se la luttuosa circostanza m’impo-nesse una mentale sfregatina di mani. Il mioonnivoro tendere le orecchie si estende anchealla vista: curiose sono le orecchie (soffici dipeli bianchi), curiosi i bulbi oculari che spessomi danno l’impressione di agire in proprio, co-me se quanto fanno fossero loro a deciderlo enon l’onnipotente satrapo dei loro circuiti cere-brali.

Di solito non affronto libri troppo gonfi di pa-gine, ricchi di storie ben vertebrate con tanto dicapo e di coda. I lettori di quei libri comincianoa corteggiare un corpo a loro completa dispo-sizione cominciando dalla testa. Giorno dopogiorno s’inoltrano a grandi passi nell’abbon-dante resto: il collo, ad esempio: poco contaquanto eburneo. In questo mondo non ci sono

appena la bellezza femminile e la tenera car-ne. Ecco, finalmente le scapole sulle quali cer-ti lettori di lungo corso più che addentrarsi siavventano.

Chi compera e legge libri di cinquecento pa-gine – mi dico – è pari al veterano di molteguerre, sempre più forte, virile malgrado le am-putazioni, le cicatrici capaci di deturparne i trat-ti attizzandone il fascino. Uomini sfregiati, cri-minali o eroi di guerra sono, per la sensibilitàfemminile e per quella di ogni giovane maschioo giovane femmina, calamite alla cui forza d’at-trazione smisurata è inutile opporsi. Tanto,quelle calamite umane stravissute al di là dellafrigida anagrafe, farebbero sempre quanto vo-gliono: da morte e sepolte i loro poteri non si at-tenueranno: anzi!

Ognuno di noi, tuttavia e quando gli è con-sentito, fa quel che preferisce e così, ancorauna volta, tengo fra le mani il magro volumettodi settanta, ottanta pagine.

Dopo una ventina di minuti, prima sosta: mitrovo improvvisamente di fronte alle seguentiparole:

“Ricordava soltanto che la creatura era dap-prima un giapponese, poi un italiano, infine uncanguro”.

Il protagonista raccontava quel sogno allamoglie che l’avrebbe fra breve e perfidamentericambiato raccontandogli cosa aveva penetra-to senza tanti complimenti il suo sonno. Leg-gendo, mi sono fermato nel punto dove l’auto-re sgranava, tutte di fila, le inapparenti raziona-lità del sognatore.

da Vittorio Orsenigo, L’oltraggiosa sopravvivenza

Vittorio Orsenigo

L’oltraggiosa sopravvivenza

Romanzopp. 224 - t 18,00

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I NUOVI LIBRI MANNI 43

Junio RinaldiUn padre, un figlio

Un figlio accompagna l’anziano padre mala-to nell’ultimo tratto di strada.

Non può esserci dialogo, c’è però un cumu-lo di ricordi che riescono a tenere a bada l’an-goscia del presente e si trasformano in con-fronto continuo.

Attorno ai due uomini, come in una danzatra le stanze di casa che assume sempre piùl'aspetto di un ospedale, si muovono la madreaffetta da demenza senile, la sorella, i due ba-danti, i medici.

Un racconto puntuale e analitico, pieno diamore e consapevolezza, in cui emerge unpercorso interiore che dà la forza di guardare loscorrere dei giorni, anche se sono quelli finali.

Capitolo primo

Una frase dura, definitiva.Due realtà che si fronteggiano in una lotta

impari: a vincere sarà sempre la stessa.La prima volta che l’avevo letta, stavo

camminando a fianco di mio padre, diretto ascuola.

Era scritta con un gessetto bianco sul porto-ne di legno di una palazzina – transennata per-ché pericolante – del viale che percorrevamo,prima di prendere per una traversa il cui strettomarciapiede costringeva bambini e adulti acamminare in fila per due.

Mi era rimasta impressa non tanto per il si-gnificato (a sei anni avevo ben diritto a nonchiedermi cosa volesse dire), quanto perché misembrava fuori posto, circondata da cuori trafit-ti da una freccia, accompagnati da semplici “Tiamo” e “Ti voglio bene” e da viva e abbasso,seguiti dal nome delle due squadre di calcio cit-tadine.

Ogni mattina, anche se mi ripromettevo dinon farlo, gli occhi si posavano su quella stra-na frase e per un attimo ne ero ipnotizzato.

Solo sentendo una leggera stretta alla ma-no, silenzioso invito a rimettersi al passo conlui, tornavo al presente, alle ore da passare se-duto al banco, in attesa che mamma venisse aprendermi alla fine delle lezioni.

Con lei però rientravamo a casa seguendoun percorso diverso per passare dal panettiereche sfornava le michette croccanti e senza pe-so che accompagnavano i nostri pasti.

Così, fino al giorno seguente, la scritta rima-neva nascosta in qualche angolo della mia te-sta e il pomeriggio trascorreva tra tabelline,riassunti e soldatini, con una predilezione perquesti ultimi.

“Vita sei bella, morte fai schifo”.A cinquantasette anni la frase era ricompar-

sa all’improvviso, mentre riponevo il cellularenella tasca esterna dello zaino.

Solo per un attimo ero rimasto con il dubbiose parlarne a Paola, non appena salito sul pul-lman che ci avrebbe riportati in paese, ma ave-vo deciso di rimandare e mi ero seduto vicinoal finestrino, una fila dietro a quella occupatada lei e da Lorenzo.

Quando si era girata per chiedermi la bor-raccia, dal suo sguardo interrogativo avevo in-tuito che sul mio viso doveva essersi disegna-ta un’espressione preoccupata, che nulla ave-va a che vedere con la stanchezza per la fati-cosa escursione appena conclusa.

Una giornata strepitosa, senza nuvole.Il cielo, solcato da anarchiche scie lasciate

in quota dagli aerei – bianche linee rette che,incrociandosi, rapidamente si sfaldavano – sta-va virando dall’azzurro all’indaco, contribuendocosì a dare un risalto ancor più marcato alghiacciaio che si scorgeva in lontananza.

Ora però il paesaggio, fiabesco fino a pochiminuti prima, scivolava sui finestrini, come senon mi riguardasse più.

da Junio Rinaldi, Un padre, un figlio

Junio Rinaldi

Un padre, un figlio

Romanzopp. 48 - t 11,00

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I NUOVI LIBRI MANNI44

Paolo VismaraStoria interiore dell’universo

Un percorso imprevisto proietta il professorAmai nella fuga dall’omologazione terrena in-serendolo in un’altra dimensione, in un mondoparallelo, in una zona del cielo a cui si accedeper gradi, a seconda della capacità di allonta-narsi dal conformismo quotidiano.

Il protagonista è adatto e quindi è scelto percompiere il viaggio, per vivere in pienezza l’Ol-tre, insieme alle parole che trovano nello spaziola possibilità di vibrare pienamente generandogodibili paesaggi mentali in un flusso di infinito.

Anche nella zona onirica c’è un Re che spa-risce, che se non torna deve essere sostituito:le regole ci sono ovunque, ma qui si abbracciain un unico corso tutta la storia dell’universo.

Un romanzo filosofico, psichedelico, saga-cemente onirico che propone un immaginificopercorso di elevazione culturale e spirituale.

«Hai provato a dirmi di non aver trovato il ci-mitero».

«Mmm». «Tentando di convincermi del fatto che

l’avessero trasferito».«Questa volta ti sorprenderò Darkie. Dammi

una ventina di minuti e…»«Sicuro, i soliti venti».Era uscito così, con una gran voglia di di-

mostrare di poter raggiungere una destinazio-ne senza sbagliare strada, o almeno senzasmarrirsi quell’usuale, canonico, paio di volte,che in genere alla fine si traducevano in ventiminuti, sì, ma di ritardo.

“Mai amato guidare. Beh, ci sarà un filo ros-so da seguire sotto questa pioggia stasera”pensò tra il rosa dei pantaloni e l’azzurro deimocassini. “Le librerie saranno belle fino aquando esisteranno”.

Professor Vis Amai, insegnante a fine annoscolastico, scarpe bagnate, anche i piedi, el’idea che di libri fosse un piacere parlare. Disuoi libri no, non ne aveva che nel cassetto, madi quelli dei grandi australiani che hanno visioned’insieme, di quelli aveva molto da raccontare.

«Che sia l’Oceano a ispirare connessione?Vedremo di parlarne».

Intanto«Cimitero spostato di nuovo». Un sorriso prima di scendere dall’auto, pun-

tuale con i suoi diciassette

«Ora diciotto, minuti di ritardo. Niente da fa-re, gira gira, cerca cerca fili rossi, ma vincesempre Darkie».

«Ecco il nostro terzo uomo» disse Ad veden-dolo varcare la soglia della libreria Pandemonio,dove la presentazione dell’ultimo libro di Big Hi-story era già abbondantemente iniziata.

«Grazie professor Amai per averci raggiun-to». Glaciale. Libraio. Signore puntuale.

I primi due relatori stavano parlando e con-tinuarono a farlo durante i successivi quarantaminuti. Lenti. Minuti. Quaranta. Poi giunse ilmomento.

«Abbiamo ora il piacere di ascoltare il pro-fessor Amai, che ci ha finalmente raggiunto».

«Ancora…»«E che sul tema, sappiamo essere…»Amai balzò in piedi, e il profilo dello scatto

fu chiaramente quello di chi aveva dormito finoa quel momento. Era molto più divertente direqualcosa alzandosi in piedi, perché l’altezza

«L’altitudine innesca la rarefazione dei pen-sieri, un setaccio, una selezione delle paroleche dovrebbero autosopprimersi prima di na-scere, se subodorano la loro potenziale ener-gia annoiante. Qualora così non fosse, sentite-vi liberi di»

«Ma veniamo al tema professore».“Zecca di libraio” pensò Vis. “Il tema della

serata mi è molto caro”.Sulle sedie pieghevoli, quelle che destano

parecchie preoccupazioni ai genitori di figli pic-coli, una trentina di persone intorpidite, sembròscongelarsi per qualche secondo.

«Ho ascoltato con attenzione le relazionidegli amici che mi hanno preceduto e sono fe-lice di dirvi che… a mio parere…»

da Paolo Vismara, Storia interiore dell’universo

Paolo Vismara

Storia interiore dell’universo

Romanzopp. 96 - t 14,00

Page 47: ISSN: 2532-8387 Redazione: 73016 San Cesario di Lecce ...

I NUOVI LIBRI MANNI 45

Massimo ParizziIo

Il protagonista è un bambino che, nato nel1950, vediamo crescere fino a oggi. In questastoria, però, il tempo non segue il calendario.

Eccolo, così, ragazzino, ansioso di saliresulla tettoia del garage in cortile; anziano, com-prare un fiocco per la nascita del nipote; di nuo-vo bambino, chiedere a un’amica: “Tu sei io?”È la scoperta, decisiva, che “tutti sono io”.

Anche gli altri personaggi non compaionoqui per avere una storia, ma per mostrarneun’altra: quella dell’io di tutti. Fra di essi, i tantiche durante la Primavera araba affollano piaz-za Tahrir al Cairo; i giovani che nel Sessantot-to occupano il liceo; il bimbo che nel 2003prende a pugni a Baghdad la testa della statuadi Saddam Hussein; i partecipanti a una “caro-vana per la pace” nella ex Jugoslavia.

Un’audace biografia generale di eventi, do-mande e pensieri.

Capitolo primo

Sono nato che in mezzo al cortile c’era un grande ga-

rage, con quattro saracinesche, due davanti edue dietro, e sopra, una per angolo, quattrograndi pigne di cemento. Fra di esse, una spia-nata su cui quante volte ho desiderato arrampi-carmi. Ma era impossibile. Ancora adesso, tut-tavia, penso irragionevolmente che su quellaspianata, in alto, irraggiungibile, sotto gli occhida tutti i balconi, sarei stato felice.

Chi parla? Io.E chi è io?

Che cosa c’è, in alto?

È stata, si dice, una casa popolare. Ungrande rettangolo fra quattro vie, il perimetro lacasa, l’interno il cortile. I lati brevi, in cui siaprono i portoni, danno da una parte su una viadi scarso traffico, qualche negozio all’angolo, infondo piccole fabbriche. Dall’altra parte il traffi-co è più intenso, e Roberta, prima di attraver-sare, si fa il segno della croce.

Chi è Roberta?

Nel cortile i portoncini delle scale aggettanosu uno stretto marciapiede di cemento, e lui,per arrivare al portone sull’altra via, quella cheporta a scuola, deve percorrerlo tutto, girandoattorno a ogni portoncino. Ma qualche volta, al-l’ultimo, taglia per il vialetto diagonale fra leaiuole di palme e magnolie, e i ciottoli risuona-no sotto le sue scarpe.

Ssst... è proibito. Bisogna camminare sulmarciapiede. Se mi vedono...

Ma camminare sui ciottoli gli piace di più.

Perché?«Boh...» Si stringe nelle spalle.

Secondo me gli piace sentire i ciottoli scric-chiolare. È un bel rumore, quasi una musica.Criiic, creeec, croooc.

Ma la porta, io, non ce l’ho.

Secondo me gli piace sentire il rumore deisuoi piedi. Sul marciapiede non ne fanno qua-si. Come se non ci fossero.

Perché è bello sentire i piedi, che cammina-no, che corrono, che saltellano sulla sabbiabollente, ahi, come scotta, per arrivare prestodov’è umida e compatta, e fresca, di quel belgrigio più scuro, e lasciarci forme profonde enitide. Guarda. Si vedono tutte e cinque le dita.Oppure, quand’è freddo, infilarli in fretta nellecalze di lana o, ancora meglio, sotto il lenzuoloe le coperte, in fondo, e strofinarli l’uno control’altro, e intanto tirare su la coperta fino al men-to, fino al naso e alle orecchie se fa tanto fred-do. Finché si crea un bel tepore.

da Massimo Parizzi, Io

Massimo Parizzi

Io

Romanzopp. 208 - t 19,00

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I NUOVI LIBRI MANNI46

Fabio GuarnacciaMentre tutto cambia

È l’estate del 1989, il Vela e i suoi amicihanno 14 anni, si muovono ai margini di unacittà e di una generazione: non più bambini,adolescenti a stento, passano il tempo in unacasetta diroccata vicino a una discarica nellaperiferia di Milano.

In quel rifugio in cui possono fumare, sfo-gliare giornaletti e ascoltare musica, un giornodi giugno trovano un ragazzo morto di overdo-se. Hanno paura di perdere la loro tana, cosìdecidono di nascondere il cadavere.

Ma quella morte gli rimane attaccata addos-so: è l’odore che sale dal campo abbandonatoin cui hanno gettato il corpo, e il peso di un se-greto così grande e del senso di colpa che nondà tregua.

Il Vela passerà le vacanze ciondolando incasa, con un padre pieno di rabbia, una madreincupita persa dietro alle sue piccole abitudini,una nonna adorata con cui divide il divano let-to; e bighellonando in giro, tra il luna park delleVaresine e i cantieri della città che cresce, as-sieme al Best, Paolino e Ivan, ognuno con ilproprio mondo complicato e il proprio carico diinquietudini. La piccola banda si scontra con lapochezza degli adulti, con la prepotenza dei ra-gazzi più grandi e con una Milano che nell’in-cessante sviluppo urbanistico distruggerà l’uni-co posto in cui si sentono al sicuro.

È la storia di quattro ragazzi colti nel mo-mento più delicato della loro vita, e nel puntopiù delicato di una città.

L’intruso

L’estate del 1989 iniziò col Caballero diPaolino che saliva dalla prima alla terza nelbreve tratto a due corsie di via Guanella, tra ilbar all’angolo e casa mia, per poi scalare subi-to cupo. Quattro scoppi amplificati dai palazziche mi scagliarono alla finestra dove lo vidi sfi-lare con il Best e Ivan che gli tenevano in codacon le loro bici. Quanto morivo dietro a quellamoto, mi prendeva un’invidia da starci male:avrà avuto pure i problemi alla tiroide ma alme-no aveva il Caballero.

«C’è uno nella casetta», disse Mirko Bestet-ti, detto il Best, con quell’aria da adulto che mifaceva sentire indegno dei miei quattordici anni.

«Che facciamo?», mi chiese Ivan.Erano in sella con le gambe divaricate, tese

come i manici di uno schiaccianoci, in attesa diuna mia risposta, come se avessi davvero potu-to ritirare quella marea di curiosità e paura che liaveva già travolti, e che stava travolgendo an-che me. Ne approfittai per montare sul Caballe-ro di Paolino, che stranamente non ebbe nullada obiettare, e andammo a vedere l’intruso.

Lo aveva scovato Ivan mentre bighellonava,incapace di starsene in casa due ore di fila; erastravaccato sulla poltrona vicina all’ingresso,quella dove di solito mi sedevo io, immobile,con gli stivaletti neri che spuntavano di fuori.Parcheggiammo al cancello della nostra vec-chia scuola e ci infilammo nel campo invaso damontagnole di macerie che sorgeva proprio al-le sue spalle. Da una di queste il Best raccolseun tubo di piombo di qualche vecchia cucina agas e fece segno di armarci a nostra volta.Scelsi un traforato rotto in due con i bordi ta-glienti chiedendomi cosa ne avrei fatto seavessi dovuto servirmene davvero. Avanzam-mo in silenzio verso il filare di pioppi che corre-va lungo la cancellata della scuola dove pochianni prima c’eravamo conosciuti tutti, anche segià allora sembrava passato un secolo.

«Eccolo», disse Ivan.Era ancora lì, con quelle sue gambe da in-

setto strette dentro un paio di jeans neri, lepunte degli stivaletti aperte verso l’esterno.

Forse stava dormendo o forse era uno diquei tossici persi che venivano a farsi nella ca-setta. C’era già capitato di trovare siringhe estagnole, una volta persino uno stronzo nerocome lo spazio siderale mollato sul tappeto fru-sto raccolto dalla discarica.

da Fabio Guarnaccia, Mentre tutto cambia

Fabio Guarnaccia

Mentre tutto cambia

Romanzopp. 144 - t 14,00

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LE RECENSIONI 47

Franca Alaimo suDAVIDE PUCCINIAnimali diversi ed altri versiGiuliano Ladolfi 2021

Nell’usare quale esergo per il suo Animalidiversi e altri versi il dantesco “O animal gra-zïoso e benigno” (Inf., V 88), Davide Puccininon solo fa eco al titolo, ma ne sottolinea il sen-so positivo e riporta l’attenzione sull’etimo dellemma, in modo da aggiungere al palese con-cetto di essere vivente quello di essere dotatodi anima. Una tale lettura giustifica non soltan-to la presenza dei ‘diversi’ animali che affollanola prima delle undici sezioni in cui si divide il li-bro, ma li accomuna agli uomini stessi (autorecompreso), protagonisti di quasi tutte le altresezioni, facendoli partecipi di un unico progettodivino. Né ci sarebbe da stupirsene, dal mo-mento che tutta la produzione poetica di Pucci-ni appare caratterizzata da toni di una profon-da spiritualità che nel movimento della vita glifa scorgere una circolarità d’amore universale,tanto da chiamare “cara” una farfalla che si po-sa un attimo sulla sua spalla, scambiandolo perun fiore, e vedere negli occhi del suo cane “loscintillio esaltante d’un barlume / onnisciente diDio”.

Non mi sembra esagerato affermare che, atratti, i versi rivelano una sensibilità francesca-na, un verticalismo mistico che, generando co-me un alleggerimento di peso, trova la sua im-magine più significativa in quell’immersionenella liquidità del mare (soggetto della terza se-zione) in cui non è solo cantata un’esperienzaappagante di contatto fisico, ma la sacralità diun lavacro catartico, da cui sgorga la lode alcreato e a Dio. Perfino gli Epicedi della nonasezione, che raccontano sommessamente ladipartita di tante persone care, più che di tri-stezza sono imbevuti di tenera accettazione,nella convinzione che la cosa più importante èessere stati creature d’amore (“a chi molto haamato / molto sarà perdonato”).

L’amore per le creature, talvolta segno diun’adesione spontanea e intensa alla bellezza,spesso denota un’apertura anche verso tuttociò che ne sembra privo. Senza questa atten-zione, si cadrebbe nel descrittivismo, nella ri-produzione inerte. E invece Puccini loda “losmeraldo sul collo del piccione / con sfumatured’oro” come esempio dello stupore che pure sicela nel grigio delle cose più comuni; così co-me fa con uno scarabeo e un passerotto, la cui

Storia triste finisce con una preghiera per lasua “minima animula innocente”, figura dellasacralità di ogni creatura. Se, poi, nell’ultimasezione Dolci ricordi tutto sembra potersi leg-gere come una descrizione delle forme e deisapori dei dolcetti gustati nell’infanzia in occa-sione delle varie festività, la memoria non ha lafunzione di salvare dall’oblio cose non più esi-stenti, ma atmosfere, emozioni, gesti, affetti,sulla scia della madeleine proustiana. È la no-stalgia del mondo pulito dell’infanzia che fa ilsuo ingresso e, spezzando la distanza fra pas-sato e presente, lo rende vivo nel qui ed ora;ma, una volta esaurita la memoria del piacere,si trova a fare i conti con l’altro ‘sapore’ della vi-ta, quello che viene dall’esperienza, così che lacarruba se ne fa metafora definitiva, visto chesi tratta dell’ultima poesia e della sezione e dellibro: “Ma a me piaceva quel frutto legnoso /che a masticarlo sprigionava un dolce / ina-spettato, appena disturbato / da grossi semiduri come sassi: / in anticipo il succo della vita”.

Perché è vero, come scrive Giancarlo Pon-tiggia in prefazione, che nella poesia di Puccinicolpisce “l’atteggiamento fiducioso che l’autorenutre nei confronti del mondo”, ma senza checiò escluda la consapevolezza del male e del-la sofferenza, estesi a tutte le forme viventi, ese essi meno balzano agli occhi è perché ilpoeta si avvale di armi come l’ironia e l’autoiro-nia, la raffinatezza e la levità del dire, che po-trebbe a prima vista essere scambiata per su-perficialità ed è, invece, quella capacità di cuiparla Calvino di convogliare i significati “su untessuto verbale senza peso”. La ‘leggerezza’ diPuccini comincia da quel tessuto di endecasil-labi e settenari che sembrano scomparire tan-to sono ‘naturali’, in accordo con quel ritmo in-teriore acquisito attraverso una costante eamorosa lettura dei classici, che lascia nel suotessuto verbale impronte visibili ma delicate,consentendogli un’ampia libertà di variazionepersonale dei temi. L’architettura del libro ècertamente classica (metri, rime, figure retori-che) e, in più, vi si trova una qualità rara, che èquella di far corrispondere la qualità dei suoni aun’idea, come in La libellula: “Libera la libellulalibrata / nel fremito vibratile delle ali”. Se, tutta-via, Pontiggia trova la poesia di Davide Pucciniparadossalmente sperimentale “proprio nel-l’adesione ai nuclei espressivi o tematici di unagrande tradizione”, è perché l’autore si allonta-na da ogni scuola e, facendo parte per sé stes-so, nel dare voce con genuina verità ai proprimoti del cuore dimostra che quel che conta è

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LE RECENSIONI48

l’adesione a una personale e profonda voca-zione alla Parola.

Roberto Barbolini suDIEGO GABUTTISuperuomo, ammosciatiRubbettino 2020

A metterci in guardia, senza perdere ungrammo del suo aplomb, ci aveva già pensatoJeeves, l’impagabile maggiordomo di P.G. Wo-dehouse: “Su Nietzsche non c’è da fare affida-mento, signore” suggerisce infatti a BertieWooster in una memorabile battuta di Avanti,Jeeves!. Ma Diego Gabutti non è un maggior-domo e tantomeno un chinless wonder, un no-bile smidollato come Bertie. E con l’autore diCosì parlò Zarathustra può permettersi di an-dare giù pesante: “Zarathustra scende dallamontagna, per dirci che cosa c’è di nuovo nel-la condizione umana, in un’epoca oggi remota,quando gli aeroplani, la Coca Cola e le linee te-lefoniche ancora non esistono, quando nessu-no ha mai sentito parlare di DNA e la parola ‘re-latività’ […] non capita mai di sentirla pronun-ciare […] Zarathustra non sa cosa siano l’iPho-ne, il rasoio bilama e l’hula hop […], la cartaigienica morbida, il microchip, YouPorn, Ama-zon, i cruciverba, gli eBook”. Ineluttabile la con-clusione impietosa: “Zarathustra, sceso a valleper annunciare l’oltrepassamento dell’uomo, èuna figura del passato, non del futuro”. Una ve-ra tragedia per il ‘filosofo che sussurrava ai ca-valli’, sprofondato nella Walpurghisnacht dellafollia a Torino, città cara a quella ‘magia nera’che Karl Kraus identificherà con la stampa e isuoi guasti apocalittici (chissà che cosa direb-be oggi delle fake news via web). Del resto,Nietzsche stesso l’aveva profetizzato: incipittragoedia, incipit parodia. E così il suo Über-mensch, araldo di un superamento della condi-zione umana, si è trasformato in quel ‘Superuo-mo di massa’ che già Umberto Eco vedeva na-scere con gli eroi vendicatori del feuilleton otto-centesco, dai Misteri di Parigi al Conte di Mon-tecristo. Ma Gabutti va oltre fin dal sottotitolo diSuperuomo, ammosciati, così enciclopedica-mente esplicativo: Da Nietzsche a Tarzan, daNapoleone agli Avengers: la fabbrica dell’Über-mensch. Un percorso che, rendendo omaggioalle cento sfumature tutt’altro che grigie dellafuzzy logic da sempre al timone della storiaumana, salta come una pulce in una stanzavuota vagabondando da un secolo all’altro, da

un romanzo a un fumetto, dalle utopie socialco-muniste alle distopie orwelliane, dal nazismoalla fantascienza, da Frankenstein al Leviatanodi Hobbes, da Superman (“il supereroe origina-rio, il primo […] a portare le mutande sopra ipantaloni”) a Scientology e ritorno, con un briomalandrino e una verve intellettuale che tra-sformano perfino l’apocalisse continuamenteannunciata nella gaia scienza d’uno scanzona-to e però serissimo battitore libero, capace dipercorre le praterie dell’Avventura intellettualecome Michael Douglas le foreste pluviali all’in-seguimento della Pietra Verde, esplorando tut-ti i rigagnoli dello Zeit-Geist senza smettere(krausianamente) di metterli in rapporto con laVia Lattea.

Troppo entusiasmo? Aspettate di averlo let-to, questo libro che scappa da tutte le parti, ric-co d’impennate ingegnose, dove il saggio tra-passa in fiction e questa si fa di volta in volta fi-losofia, Kulturkritik, satira di costume. Soloconnettere, secondo il motto di E.M. Forster?La ricetta è quella, ma ciò che conta è l’esecu-zione, la capacità di tessere ragnatele degne diSpiderman creando nessi imprevisti e com-menti spesso amaramente sarcastici: “l’‘oltre-uomo’ è diventato la parodia di sé stesso, co-me in fondo era scritto fin dall’inizio della suaavventura, cominciata con Napoleone e il suobicorno carismatico”. E dunque, se Dio è mor-to, Ecce Superhomo. Ma si tratta magari d’unmostro morale come Hitler o d’un ‘superomet-to’ come Himmler, creatore nel 1933 delle SS,congrega di finti semidei ariani: “Un anno pri-ma, nel 1932, due ragazzini newyorchesi, Jer-ry Siegel e Joe Shuster, hanno scritto e dise-gnato le prime strisce a fumetti di Superman”.Non si tratta d’un rilievo innocente. È, anzi, unadelle chiavi del libro: l’idea che la storia spessoimita la fiction, o ne è potentemente influenza-ta, tanto che tra l’una e l’altra si crea un circoloforse più vizioso che virtuoso, fino all’apocalis-se virtuale prossima ventura ipotizzata nell’Epi-logo, su cui aleggia l’incubo di Skynet, l’imma-ginaria rete di supercomputer descritta nel ciclocinematografico di Terminator: “Non sul futurodell’umanità, […] di cui non sappiamo nulla, masull’idea del futuro coltivata dalle culture uma-ne, s’allunga l’ombra di Skynet, dell’Anticristodigitale […], della macchina pensante indiffe-rente e spietata, post umana o meglio disuma-nistica, con ‘occhi e artigli d’aquila’, al di là delbene e del male”. Già: la Macchina Pensante,The Thinking Machine: era il soprannome diAugustus F.S.X. Van Dusen, il prodigioso solu-

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LE RECENSIONI 49

tore di enigmi protagonista dei gialli di JacquesFutrelle. Come lo scrittore americano, scom-parso nel naufragio del Titanic, Gabutti se nesta sulla tolda, la sigaretta accesa, a osservarecol suo sguardo ironico il nostro naufragio po-stumano mentre l’orchestra di bordo continuaimperterrita a suonare. E quell’infame sorride.

Giancarlo Bertoncini su CARLO A. MADRIGNANIVerità e narrazioniETS 2020

Per le cure degli allievi Alessio Giannanti eGiuseppe Lo Castro e del più affezionato ami-co, Antonio Resta, ha visto la luce un poderosovolume di scritti di Carlo Alberto Madrignani,Verità e narrazioni. Per una storia materiale delromanzo in Italia, nel quale saggi, articoli e re-censioni coprono un lunghissimo arco tempo-rale (dal 1975 al 2009). Accanto a saggi digrande respiro in cui si trattano problematichedella riflessione sul narrare o temi di metodocritico (Filologia e/o psicanalisi, Il primo roman-zo italiano moderno – su Pietro Chiari –, Il Par-lamento nel romanzo italiano), si collocano in-terventi più puntuali d’interpretazione di singoliautori od opere, nonché recensioni. Partendodal Settecento e concentrandosi soprattuttosull’Ottocento, da Bini a Guerrazzi a Gualdo,Collodi, De Amicis, Fogazzaro Madrignanigiunge, attraverso Dessì, Bilenchi, Alvaro, aglialbori degli anni Duemila e ai contemporanei.Come sottolineano i curatori, il tradizionale te-ma marxista del rapporto tra ideologia e formaletteraria viene declinato con la messa in dub-bio dei rapporti tra l’ideologia dei romanzieri ele ideologie che i romanzi tramandano. Nellaprospettiva di reperire nella storia letterariaquanto sfugge all’ideologia dominante il ro-manzo, oggetto bachtinianamente pluripro-spettico, si fa tema prediletto di ricerca. Una ra-zionalità illuministica e scettica procede comea onde concentriche per pervenire ai significatipiù riposti delle opere; vi si accompagna unoschema metodologico aperto che muove daidati testuali attraverso il “vissuto” per arrivare alcontesto (società, culture, ideologie di un’epo-ca). La biografia, specificamente proposta co-me strumento d’indagine materiale sul retroter-ra della scrittura in un saggio dal fondo teorico(A proposito di critica letteraria e biografia), ri-torna in uno scritto riccamente documentatosulla malattia di Maupassant (Le mal de Mau-

passant). I testi si pongono sulla linea del pro-posito costante di Madrignani di un riesame deldisegno storico della letteratura italiana ope-rando “Un lavoro a sorpresa!”, come recita ilpuntuale e sollecitante titolo della prefazionedei curatori, a sua volta promanante da unospunto dello stesso Madrignani; lo studioso perquesta via mette in atto quanto egli ritiene unprincipio stesso del lavoro del critico: vale a di-re, di “storico letterario” quale “archeologo piùo meno fortunato”. Da questo fondamento de-riva uno dei principali conseguimenti di Madri-gnani, ovvero di rintracciare piccoli tesori o te-stimonianze significative che non solo consen-tono di valorizzare opere lasciate ai margini oconfinate dentro giudizi convenzionali, ma an-che di compiere un intento di completamentostorico della letteratura italiana. Un simile lavo-ro permette di ridare valore a opere ritenute mi-nori o ad autori trascurati dal canone, qual è ilcaso di Da fanciullo. Memorie del mio amicoTristano di Mario Pratesi e di Decadenza diGualdo, valorizzato quest’ultimo quale “primoesempio di romanzo esistenziale”. Nell’insiemeMadrignani fa emergere un nuovo disegno delromanzo italiano moderno, agendo sui sentierimeno battuti nella prassi critica e storiografica,allargando le maglie ristrette del letterario finoa considerare produzioni “più effimere”, come ilgiornalismo nei casi di Collodi e De Amicis. Daqui anche l’attenzione alle scritture “minori”.Sotto la scorza conformistica delle ideologie edelle scritture ufficiali si leggono le lacerazionie il rimosso di un’epoca e di una classe socia-le e intellettuale che la interpreta. Caso esem-plare in quest’ottica è quello delle opere di Fo-gazzaro, nelle quali lo scrittore, spinto dalla lo-gica narrativa anticonformista, rivela involonta-riamente un residuo perturbante: Madrignaniperviene così, per illustrare un fenomeno col-lettivo, a coniare il termine di “fogazzarismo”sulla falsariga di “bovarismo”. Al tempo stessoquest’analisi impregiudicata comporta giudiziseveri come per l’opera narrativa di Enrico Cor-radini o, in ambito contemporaneo, per Letterea nessuno di Moresco. Non di rado emergonoanche associazioni vertiginose, indice dellacultura non solo letteraria dello studioso, cometra Scuola di nudo di Siti e la pittura di Bacon.Talora la prosa si condensa in giudizi fulminei eincisivi: il “probo libertinismo” dell’ultimo Fogaz-zaro, gli “stilemi parossistici” di Piero Manni, il“vigoroso immoralismo di un Bel-Ami”. Una ric-ca ricerca documentale (erudizione, ricostru-zione biografica, attenzione agli epistolari, alle

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LE RECENSIONI50

informazioni paratestuali, alle varianti d’autore)precede il giudizio, spesso poco prevedibile etalora sorprendente. Madrignani non ignora lepeculiarità formali e strutturali delle opere (qua-li, ad esempio, le risultanze della moderna nar-ratologia, usate con acuta parsimonia), né pro-nuncia un severo e negativo giudizio aprioristi-co: quello di Madrignani è un procedimento cri-tico fondato su un saldo impianto esegetico, incui la rigorosa documentazione e la tenuta sto-riografica, unite alla piena disponibilità nella let-tura delle opere o dell’autore, conducono a in-terpretazioni innovative e a volte di radicalemutamento rispetto a valutazioni consolidate.

Marco Corsi suARRIGO LAMPUGNANI NIGRI“Questo e altro”Storia di una rivista e di un editoreStampa 2009 2020

Il Novecento, si sa, è stato più volte defini-to il ‘secolo delle riviste’ ed è proprio nel cuoredel Novecento che si colloca l’esperienza di“Questo e altro”. Un’esperienza breve, se vo-gliamo, che consta di soli sette numeri (di cuiuno doppio, il 6-7) pubblicati tra il luglio del1962 e il giugno del 1964, nata sulla scia deldibattito sul rapporto fra critica e scrittura cuihanno dato voce in quel periodo e negli anniappena precedenti, con segno spesso oppo-sto, diverse altre riviste. Basti pensare al “Poli-tecnico” e a “Menabò”, a “il verri” e a “Officina”,ad “aut aut”, a “Paragone”. Illustre il comitatodirettivo composto da Niccolò Gallo, DanteIsella, Geno Pampaloni, Angelo Romanò (daln. 4) e Vittorio Sereni; un ruolo importante fuinoltre svolto da Giovanni Raboni, sodale eamico di Arrigo Lampugnani Nigri che della ri-vista fu editore (come di “aut aut”, proprio inquegli anni). Nella sua introduzione, AlbertoBertoni scrive che questa antologia è “non so-lo uno strumento preziosissimo di memoria diun passato e di uno spaccato decisamente no-bili dell’attività letteraria compiutasi in Italia nelcuore del Novecento più maturo e gnoseologi-camente fondato, ma anche un libro perfinoinatteso e comunque gravido di una potenzia-lità didattica e comunicativa tutta da innescaree rielaborare con lo stesso acume che animòquel corpo redazionale d’eccezione”. È vero,c’è un messaggio evidente che passa attraver-so i ricordi e le lettere di Lampugnani Nigri (oda lui custodite, e qui curate con scrupolo e

passione, come l’intero volume, da ValeriaPoggi), che permea di sé sodalizi, contrasti oaffinità (come quella ben nota tra Fortini e Se-reni per cui si rimanda alle pp. 42-43): è l’ideadi una comunità intellettuale attiva e viva, ingrado di raccogliere gli stimoli di una società inevoluzione, che impara dalla storia a ricostrui-re un discorso sull’umano, una nuova forma diumanesimo che cuce punto a punto letteraturae vita, testimonianza e realtà. Dal regesto deisette numeri di “Questo e altro” emerge unavarietà non dissonante di temi che ruotano in-torno al ruolo dell’intellettuale (poeta, filosofo,scrittore) nel suo tempo (come, oltralpe, “LesTemps Modernes” di Sartre): testi creativi esaggi, corsivi e querelles, si avvicendano e tro-vano una reciproca consonanza. Ma c’è ancheun altro aspetto di carattere estetico, più preci-samente grafico-tipografico, ad opera di MarcoBorroni, che avvalora il significato di questapubblicazione: il tentativo di riprodurre sullapagina lo spazio dell’originale, come se l’anto-logia continuasse a dialogare con gli scritti nonpubblicati ma contigui sulla stessa pagina, ri-prodotti usando una scala di grigi che dà l’im-pressione di sfogliare le pagine intere dell’ori-ginale. Scorrendo l’indice del volume è impres-sionante leggere rubricati alcuni capisaldi dellanostra cultura poetica: tra gli altri, Presso il Bi-senzio di Mario Luzi, testo centrale della suaraccolta Nel magma, e Una disperata vitalità diPasolini, poi confluita in Poesia in forma di ro-sa. Altissimi esempi di sperimentazione che sipongono a confronto con la coeva esperienzadell’avanguardia e che, con strumenti diversi,ricercano un forte attrito con la realtà per pro-durre conoscenza. Perché questo – lo si evin-ce bene dall’“inventario” che apre il primo nu-mero della rivista – è stato lo scopo di questabreve ma vitale esperienza: “La letteratura puòessere, e qualcuno lo ripete anche in questofascicolo, una forma di conoscenza del mondo;ma è anche un aspetto, e dei meno trascurabi-li, del conoscibile, una ricchezza, un valore,della realtà, un itinerario che ciascuno ripercor-re dall’inizio, ma anche un punto di arrivo, unluogo della verità umana. In questo senso, nel-la misura di intensità spirituale che supera, neltempo, le determinazioni del gusto, sorte nellastessa sua storia, così legata del resto alla sto-ria civile, sociale, politica, la letteratura è, tra leimmagini umane, una delle più vicine alla fra-ternità. Alle scelte etiche o politiche che ognigiorno ci impegnano a discriminare in sensoesclusivo, verticale, tra le occasioni del bene e

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LE RECENSIONI 51

del male, la letteratura ci aiuta non ad opporrema ad aggiungere scelte non meno intransi-genti e tuttavia di segno diverso, nell’ordinedella qualità umana e intellettuale, secondol’infinita ricchezza del significato totale del no-stro destino. La forza con cui si saprà far vale-re questo tipo di ragioni, è la forza di una so-cietà letteraria, il suo contributo alla società ingenerale”. Un faro per tutti quelli che ancoraoggi intendono davvero confrontarsi con i valo-ri profondi della scrittura e del pensiero.

Annalucia Cudazzo suANTONIO LUCIO GIANNONEScritture meridianeLetteratura in Puglia nel Novecento e oltreGrifo 2020

Nel volume Scritture meridiane. Letteraturain Puglia nel Novecento e oltre, Antonio LucioGiannone delinea un dettagliato quadro dellavivacità artistica e culturale della Puglia delNovecento e degli ultimi decenni, in una pro-spettiva che mette costantemente in rapportolo scenario regionale con il panorama italiano.Il testo, articolato in cinque sezioni (I. Dal futu-rismo alla poesia visiva; II. Tra versi e prosa;III. Maestri e amici; IV. Occasioni di lettura; V.Epilogo), testimonia l’instancabile volontà diGiannone di riscattare la cultura pugliese dafalsi pregiudizi che su di essa hanno a lungogravato per via della sua posizione geografica-mente periferica. Tale aspetto si evince sin dalprimo saggio, in cui viene dimostrato che, alcontrario di quanto a lungo si è creduto, la Pu-glia non è stata estranea al futurismo, anzi hafornito un apporto considerevole ed esteso neltempo e ha visto il coinvolgimento, sia puremomentaneo, di alcuni fra i più autorevoli scrit-tori pugliesi, tra cui Michele Saponaro e Vitto-rio Bodini, che, nel 1932, fondò il Futurbloccoleccese.

L’autore allarga lo sguardo anche oltre iconfini italiani, indagando sui legami letteraritra il Salento e la Francia, a partire dalla consi-derevole attenzione che, già dalla fine dell’Ot-tocento, scrittori e critici salentini rivolsero allapoesia francese; tra i tanti, si ricordino: France-sco Muscogiuri, allievo di Francesco De San-ctis; Luigi Paladini, fra i primi traduttori di Mal-larmé; Girolamo Comi, che in Francia trascor-se alcuni anni della sua vita; Vittorio Pagano,che tradusse diversi poeti francesi, pubblican-do, nel 1957, l’Antologia dei poeti maledetti.

Pagano fu anche fra le personalità di spiccodi quella che Giannone definisce la “stagioned’oro” della cultura leccese, che egli colloca ne-gli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento,quando la crescita urbanistica di Lecce si in-trecciò con un grande fermento artistico che vi-de come protagonista indiscusso Bodini, che inquesto periodo fondò la rivista “L’esperienzapoetica” e diede alle stampe le sue prime rac-colte poetiche e le traduzioni di Lorca e di Cer-vantes. Un notevole contributo fu apportato an-che da altre riviste, quali “L’Albero”, fondata daComi, e “Il Critone”, dotata di un supplementoletterario affidato a Pagano.

L’ultimo saggio di questa sezione dimostraancora una volta l’apertura della Puglia alle no-vità artistiche e letterarie, come la poesia visi-va, che si sviluppò precocemente sul territoriograzie a Michele Perfetti, ai redattori del perio-dico leccese “Gramma”, che si ispirava alla ri-vista fiorentina “Tèchne”, fondata da EugenioMiccini, e ad altri operatori come Enzo Migliet-ta e Francesco Saverio Dodaro, fondatore di“Ghen”.

La seconda sezione del volume riunisce in-terventi dedicati ad alcuni scrittori pugliesi, co-me Giovanni Bernardini, Cristianziano Serric-chio e Luigi Scorrano, le cui opere vengono in-serite in un più vasto contesto letterario daGiannone, il quale, con stile limpido e preciso,ne sviscera temi e caratteristiche principali.

La terza sezione è dedicata a figure chehanno notevolmente contribuito alla crescitaculturale della Puglia; in modo particolare, i pri-mi due saggi, incentrati su Mario Marti e Dona-to Valli, scavano sulle origini del recupero deglistudi dedicati alla letteratura del Sud e in modoparticolare del Salento, un solco all’interno delquale si è spesso collocata anche l’attività di ri-cerca di Giannone. Marti, con la collana “Biblio-teca salentina di cultura”, diventata poi “Biblio-teca di scrittori salentini”, ricostruì per la primavolta, con rigore scientifico, la storia culturaledel Salento: si riscoprì così un profondo inte-resse per la “piccola patria” di cui si fece poi te-stimone Valli, che, tra i suoi svariati interessi, sidedicò allo studio della letteratura della sua re-gione, come se questa fosse una vera e pro-pria missione etica e civile.

Al barocco è riservata l’ultima sezione, incui l’autore ricostruisce sapientemente l’inter-pretazione letteraria dell’arte e dello stile archi-tettonico dominante nel territorio leccese. Do-po aver passato in rassegna i giudizi espressida vari intellettuali, Giannone fa emergere

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un’affascinante visione del barocco che divie-ne la chiave di lettura dell’anima di Lecce e deisuoi abitanti, sulla scia di quanto scritto da Bo-dini che arrivò a considerarlo una vera e pro-pria condizione dello spirito, nata dalla pauradel vuoto nutrita dagli uomini del Sud.

Giannone, con il suo infaticabile impegno econ la sua seria postura critica che da semprelo caratterizza, ha raggiunto brillanti risultatiche hanno già portato all’attenzione nazionalee internazionale alcuni nomi in passato ingiu-stamente trascurati dai più importanti dibattiti:grazie a questa nuova pubblicazione, egli hal’occasione di rimarcare, ancora una volta, co-me la Puglia si sia contraddistinta, in diverseoccasioni, per il suo fermento culturale e arti-stico.

Caterina Falotico Vitelli suGIULIA CAMINITOL’acqua del lago non è mai dolceBompiani 2021

Il romanzo di Giulia Caminito, L’acqua dellago non è mai dolce, colpisce per il suo carat-tere di rottura rispetto alla produzione letterariacorrente: l’autrice nella nota conclusiva prendele distanze dall’autobiografia e dall’autofiction.Né si tratta di un romanzo di formazione o rac-conto familiare, anche se il rapporto madre-fi-glia è centrale al punto da segnarne l’incipit(“Tutte le vite iniziano con una donna e così pu-re la mia”). La novità è nella durezza di unascrittura nata dalla convinzione che “le storienon bastano, non raccontano tutte la verità”,perché se lo facessero non ci sarebbero sal-vezza e riscatto, conversione e santità. Nellepagine finali ci viene suggerito un parallelismofra l’atto dello scrivere e quello della caccia cheha per bersaglio i lupi veri, non gli animali fia-beschi creati per “esorcizzare i bruti e gli sver-gognati, punirli, sciacquarne via i peccati”. I lu-pi veri sono la povertà e il gap sociale che im-plodono in un racconto incendiario e feroce chenon contempla il buonismo. Nell’episodio dellacaccia, di alto significato metaforico, la prota-gonista e alter ego – solo alla fine sapremo chesi chiama Gaia, nome che già dalla nascita èun inganno – cerca il mostro a due teste, fattodi indigenza e impossibile riscatto, e quell’altrocresciutole dentro, alimentato da rabbia, inade-guatezza alla vita, disamore. Perché la pover-tà, oltre i limiti di contenimento, abbrutisce egenera mostri.

C’è un romanzo quasi coevo che assomi-glia a questo della Caminito – misteriosa forzadei libri! – ed è Noi, i sopravvissuti dello scrit-tore malesiano Tash Aw, ambientato in un mi-nuscolo villaggio di pescatori vicino a KualaLumpur ma nei fatti lontano anni luce; comelontani, se non ignoti, sono per la famiglia diGaia, che vive nella periferia romana, il Colos-seo, Villa Borghese, il Vaticano. Lì c’è una ma-dre e un figlio che lavorano ai limiti delle forzeper conquistarsi un briciolo di benessere e didignità umana che li renda partecipi, sia pur inminima parte, del grande sogno malesiano;qui la madre di Gaia, Antonia Colombo, lottaper il diritto a una casa, lavora in nero nelleabitazioni dei ricchi per mantenere quattro figlie un marito spezzato per la caduta da un’im-palcatura mentre lavorava senza tutela. In en-trambi i casi quel riscatto che pareva possibilesi allontana per sempre facendo precipitarechi ci aveva creduto in una condizione di tota-le miseria, economica e morale. Ah Hock, ionarrante del romanzo di Tash Aw, come Gaiasi trovano a essere vittime e colpevoli – unol’omicidio lo compie, l’altra lo tenta – all’internodi un meccanismo di potere infernale ed etero-diretto che li usa e li stritola. Il mostro è il neo-capitalismo globale con il suo sviluppo abnor-me e perverso che si nutre di sfruttamento,razzismo, inquinamento, commercio di esseriumani.

Nel caso di L’acqua del lago non è mai dol-ce si aggiunge l’elemento generazionale che siriverbera nella condizione di un’intera fasciasociale, quella dei millennial, le cui aspettativedi vita e di lavoro sono state del tutto disattese,riproponendo in termini conflittuali il rapportofra giustizia e rabbia sociale.

Gaia ha agito in modo ligio, come si volevafacesse. Ha studiato fino all’esasperazione, fa-cendo dello studio un’arma e dell’impegno unaguerra. La madre Antonia – una forza della na-tura come nel neorealismo le eroine alla Ma-gnani o come le tante madri coraggio delle pe-riferie che vogliono a tutti i costi salvare i figlidalla droga e dal degrado – si batte fino alloscontro con la figlia affinché legga libri seri,prenda voti altissimi al liceo e consegua unalaurea che le consenta un ruolo e un lavoro so-cialmente accreditati. E Gaia lo fa, ma poi nontrova posto al mondo dove collocarsi, e si per-cepisce come un cratere vuoto da allagare, al-la stessa stregua della casa. Distrugge in unatto estremo di violenza tutti i suoi libri e so-prattutto il dizionario, “perché è stato lui il primo

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a mentirmi, a farmi credere che con le paroleavrei cambiato la mia vita, l’avrei riscritta, nar-rata in prima persona e invece no, sono sem-pre gli altri a raccontarci, sono loro che trovanole nostre definizioni, le nostre parentesi qua-dre, le radici da cui proveniamo”. Una genera-zione la separa dalla madre, ma è un abisso:una fa dell’arrangiarsi un’arte e dell’agire unprogetto, l’altra attende che la madre arrangi enell’attesa offende e distrugge.

La storia va dalla fine degli anni Ottanta alprimo decennio del nuovo millennio e si svilup-pa fra la periferia di Roma e il paese di Anguil-lara sul lago di Bracciano; le sue acque, a rileg-gere lo splendido libro di Angela Zucconi, Auto-biografia di un paese, sono state sempre ama-re per le popolazioni locali angariate prima daisignori feudali e poi dallo stato unitario e fasci-sta. Angela Zucconi si spese per la nascita del-la prima biblioteca comunale, dove il personag-gio della Caminito attinge libri da leggere com-pulsivamente. L’utopia del futuro non si è avve-rata e per giunta mancano nuovi profeti.

Andrea Giampietro suGIUSEPPE ROSATO, E dapò?Book Editore 2020

Nell’ultima fase della sua attività poetica, equesta nuova raccolta di versi lo conferma,Giuseppe Rosato ha rivestito la penna di bum-màsce (‘bambagia’ in dialetto frentano), sfu-mando le immagini del suo vissuto (sia nell’at-tualità dell’esperienza che nei reflussi della me-moria) e misurando il sentimento da trasporre,senza tuttavia rinunciare all’amarezza – a trattiaccidiosa – dell’ironia. Quella che potrebbe, inapparenza, sembrare una poesia ‘metereologi-ca’ (torna in modo prepotente il topos della ‘ne-ve’) è in realtà un tentativo estremo di riallac-ciarsi al corso delle stagioni e quindi all’esisten-za che pure manca di armonia: “stu mònneproprie ’n ce vô parà’ sénne / a fa’ remette’ a fi-le le staggiùne”. Il poeta crede sia triste guar-dare la vita da dietro una finestra (“Ccuscì, ccu-scì, gne a ’rrèt’ a la fenestre / a guardà’ se vônéngue’, s’arredùce / la vite...”) ma dimostra disapersi ancora incantare, penetrando quantoviene anche solo accennato dalla natura (comela delicatezza, pure melanconica, del nenguic-cijà’, ossia del ‘nevischio’). Immuni da ogni re-torica sono il ricorso ai ricordi dell’infanzia, leipotesi su cosa ci attenda nell’oltremondo (bel-li i versi che prendono spunto da Catullo) e le

riflessioni su quanto affligge la società (il com-ponimento antimilitarista “E nnù che ccòse pu-tavàme fa’...” è trasposto in versione italiana –non una semplice traduzione – in un’altra suaraccolta, Retrovie e altri imboscamenti, 2020).

Per quanto concerne il dialetto è interes-sante avventurarsi nella conoscenza della ‘lin-gua’ frentana che ha forgiato la disposizionemusicale del poeta alla vita. Parole come ‘pa-parùzze’ (nuvole), ‘frùvele’ (fulmini), ‘revultùre’(rivoltura), ‘lappetèlle’ (orlo), ‘spròvele’ (spolve-rata), ‘jètteche’ (sussulto) ed espressioni come‘parà’ sénne’ (mettere senno) o ‘tê ’spettà’’ (staaspettando) e ‘tê ccalà’ (sta scendendo) si pre-sentano all’orecchio con l’irruenza e il misterodella novità. In un articolo sul “Messaggero” (Ildialetto nell’area frentana: una singolare parti-colarità. Senza “futuro” né “passato”, 24 marzo1994) Rosato indica alcune peculiarità del fren-tano circa i tempi verbali: “Il mio dialetto preve-de solo il passato prossimo, anche per riferirsia fatti avvenuti anni o decenni o secoli prima,mentre fa un uso assai parsimonioso dell’im-perfetto. Il futuro invece non ce l’ha proprio eper sostituirlo ricorre a forme perifrastiche, cor-rispondenti in italiano ad espressioni introdotteda un devo o da un ho da... ‘Domani devo fa-re’, ‘Il mese prossimo ho da andare’, e via di-cendo”. Eppure questa “lampante povertà mor-fologica” rivela una connotazione psicologicapositiva, poiché “consente di scandirlo, il tem-po, in ogni sua minuta configurazione, senza ilrischio di sentirselo addosso come una cappadi piombo, nell’oppressività di un presente chepossiamo invece ridurre davvero al fugacissi-mo istante da soffrire a cuor leggero”.

L’esempio di coscienza poetica e linguisticadi Giuseppe Rosato resta un solido modello. Icosiddetti poeti ‘neodialettali’ dovrebbero leg-gere quasi come un monito l’introduzione al li-bro, Quando perfino i rumori erano dialettali...,in cui si sottolinea l’importanza di scoprire “ilsottofondo di cultura, radicalmente intesa, chequesta lingua porta” e le sue “leggi precise eobbliganti”, invitando a diffidare di “chi si mettaa tavolino eleggendo il dialetto a materia non diamore e di studio [...] ma di esercizi sperimen-tali a dir poco incongruenti con la sua natura”.In Poesia e popolo nell’opera di Modesto DellaPorta (CETI 1964) lo studioso Giuseppe Profe-ta mette in guardia gli autori dialettali non solodalla ‘trasposizione linguistica’ ma anche dalla‘trasposizione psicologica’ che, a suo dire,‘consiste nell’inserire nell’area generale di undato mondo, che si vuol rappresentare poetica-

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mente, espressioni, pensieri, sentimenti e vi-cende che sono di un mondo e di una mentali-tà diversi o peggio in contrasto con la mentali-tà e col tono dell’ambiente poetico che c’inte-ressa’.

Giuseppe Rosato si dimostra più che fedelenon solo al dialetto ma alla civiltà che esso rap-presenta.

Francesco Granatiero suGIOVANNI TESIONel buco nero di AuschwitzVoci narrative sulla ShoahInterlinea 2021

Un libro davvero necessario questa antolo-gia internazionale sulla Shoah, tanto più per-ché lungamente meditato, accuratamente in-trodotto e circostanziatamente inquadrato daun critico come Giovanni Tesio, alla cui pennasi devono curatele, convegni e saggi di specifi-ca pertinenza, come il ritratto critico su PrimoLevi per “Belfagor”, il primo saggio filologicoche sia stato scritto su Se questo è un uomo, ei recenti Primo Levi. Io che vi parlo, libro natoquasi alla vigilia della morte dello scrittore epubblicato dopo ventinove anni (Einaudi 2016),Primo Levi. Ancora qualcosa da dire (Interlinea2018) e Nell’abisso del lager. Voci poetiche sul-la Shoah (Interlinea 2018).

È appunto come pendant all’antologia poe-tica che nasce ora questa intensa, bella e do-lorosa sintesi in prosa sul genocidio del secolobreve. E vi si innesta con una voce sfuggita al-la prima ricognizione, quella di Günter Anders:“fintanto che i forni saranno negati / e le maci-ne che ci spezzarono, / fino ad allora a noi chesiamo cenere e ossa / non sarà concesso es-sere morti”.

Se la prima rispondeva all’interdizione diAdorno: “Dopo Auschwitz scrivere ancora poe-sie è barbaro”, la seconda si chiede con CarloLevi: “Che romanzi volete che ci siano, dopoAuschwitz e Buchenwald?” Il nuovo libro, chemutua il titolo da Primo Levi, è composto daquattro sezioni (Diari, Memorie e lettere, Testi-monianze orali e teatro, Romanzi e racconti) etrasceglie dall’universo enorme della Shoahuna sessantina di autori da quelli noti fin dallanostra adolescenza, come Anne Frank, PrimoLevi, David Grossman, Hanna Lévy-Hass edElie Wiesel, a quelli più o meno letterari di scrit-tori come Robert Antelme, Jorge Semprún, Et-ty Hillesum, Tadeusz Borowski, Lidia Beccaria

Rolfi, Edith Bruck, Giuliano Paietta e LilianaSegre. Ma vastissima è la bibliografia delle vo-ci citate e altrettanto degne di ascolto.

L’antologia raccoglie le pagine più belle, lepiù letterarie, perché – dice Tesio – la forza let-teraria è forza testimoniale: la letteratura resta,va al di là della testimonianza: tende alla clas-sicità e quindi al permanente. E il buco nero diAuschwitz è qualcosa che deve restare, inci-dersi nel cuore e nella mente, perché potreb-be inesorabilmente ripetersi. La testimonianzadi molti reduci è stata preceduta da un primotempo di mutismo, dominato dall’idea di nonessere creduti, a cui è seguita la necessità dirisarcire l’offesa e solo successivamente, conil contributo degli storici, si è cercato di capire,di orientare la complessità del fenomeno. Fon-damentali al riguardo – e di una profondità as-soluta – sono i capitoli sulla memoria e sulla“zona grigia” ne I sommersi e i salvati di PrimoLevi.

L’antologia di Tesio, con le sue oltre cin-quanta pagine introduttive, è un libro intensoed istruttivo, che sarebbe da adottare nellescuole, perché è un invito a non far tacere ilcuore, ma nello stesso tempo dà vita alla ne-cessità di riflettere – emblematico il serratodialogo tra Semprún e Wiesel sulla presenza oassenza di Dio nell’esperienza concentrazio-naria –, perché i testimoni sono sempre menoe perché paradossalmente, come scrive An-ders, “Se solo in tre levassimo la voce / – treaccusatori di un flebilissimo coro – / troverem-mo subito la via del vostro ascolto”, mentre latragedia di milioni di persone – come nel-l’odierna pandemia – diventa un fatto triste-mente normale, quando non alimenta negazio-nismo e revisionismo.

Per questo esso si incardina tra due scrittidi profonda semplicità: Auschwitz spiegato amia figlia di Annette Wieviorka, che dice la col-pa di essere ebrei e, per i nazisti, di essere se-miti – vittime con un senso di colpa simile aquello di una donna stuprata: la colpa di non ri-conoscere il Messia o, peggio, di essere i re-sponsabili della sua morte –, e La gioia fa pa-recchio rumore di Sandro Bonvissuto, dove unebreo solitario deve rispondere all’alter egobambino dello scrittore di oggi, che gli chiede“Chi sono gli ebrei?” Due cardini che rappre-sentano “un lascito necessario” perché la cu-riosità non si estingua, “una ragione di speran-za, una buona dose di fiducia nella necessitàdi mantenere la memoria, di rispettare il dettosempre attuale di Walt Whitman: che i beni

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culturali (e quale bene culturale è più grandedella nostra storia, della storia di noi umani?)non li ereditiamo dai nostri genitori, ma li pren-diamo in prestito dai nostri figli” o meglio – conTesio – “dai nostri nipoti”.

Vincenzo Guarracino suRAFFAELLA FAZIOTropaionPuntoacapo 2020

A scorrere la bibliografia più recente di Raf-faella Fazio, autrice di origine toscana (nata adArezzo, vive a Roma), si nota come una dram-matica accelerazione, un crescendo creativo eoperativo, che negli ultimi anni l’ha vista attivar-si su diversi fronti, tra studi iconografici, tradu-zioni e libri di poesia, come esito necessario diun bagaglio di interessi e studi molto ampio evariegato (tra lingue e diploma in Scienze reli-giose e master alla Gregoriana di Roma).

Nel primo ambito, quello dell’iconografia, lasua indagine s’è indirizzata verso una letturadella “foresta di simboli” costituita dall’icono-grafia cristiana delle origini, al di là dello strati-ficarsi del tempo e delle sue forme: una letturadunque del symbolon, del “volto” stesso dellaFede (e Face of Faith, si intitolava l’opera del2011), teso a dare visibilità a un messaggio es-senziale oltre i suoi codici, per trovare dai det-tagli conferme a intuizioni e inquietudini, nellaconvinzione, come si diceva una volta, che èproprio nei dettagli che si annida la verità (ad-dirittura, secondo il celebre architetto Mies VanDer Rohe, “Dio è nei dettagli”). Un discorsoquanto mai intrigante e necessario.

Ho indugiato su questa opera fondativa,non a caso: perché è, mi pare, il leitmotiv cheindirizza e accompagna il lavoro successivo,soprattutto poetico, della Fazio, come ricerca diun qualcosa che attivi e fondi, oltre l’antico, la“vita”, l’oggi di ogni possibilità e attesa attraver-so un franco confronto e dialogo.

È questo che si riscontra, per restare alledue raccolte più recenti, Midbar (Raffaelli2019) e Tropaion: il bisogno, nel primo caso, didare un “volto” al “deserto” (è il significato deltitolo) attraverso una parola come esperienzadi contatto tra Indicibile e umano, tra Eterno estoria. “L’Eterno / è silenzio sottile / che ti vuo-le e che non rivela / niente: solo / ti concede unrespiro / e un’ansia più mansueta”, dice in untesto, secondo me centrale, in cui si mette inscena “la voce del silenzio sottile” che reclama

una totale disponibilità, un “ecce ancilla” chedia inizio al miracolo; un’identica attesa, una di-sponibilità ai segni, alla “vita” (un testo dellaprima sezione è intitolato proprio La vita parla),anche nel secondo caso, che nel titolo Tropa-ion letteralmente allude a una battaglia e a una“conquista”, come esito di una riflessione sullemodalità di attivazione e coesistenza nell’esi-stenza umana delle forze contrastanti e diver-genti, anche in senso eracliteo, per approdarea una suprema armonia.

Un esempio di questa ansiosa domanda,eccolo nel testo Oratorio materno: un dialogoteso a tre voci, tra Madre, Figlio e Silenzio,quest’ultima commentante e tutt’altro che di-stante e distaccata. Si interrogano e chiedonoragioni, le tre, con quel “Dove sei?” e “Per-ché?”, che si ripete insistentemente nelle paro-le della Madre come un drammatico contrap-punto, di fronte all’impossibilità di una risposta.Il titolo, Oratorio, certo, ci indirizza verso la de-cifrazione della situazione, con quel che di sa-crale il termine comporta (ma ogni dolore econfronto ha sempre un che di sacro, nel sen-so più etimologico di “separato”, diverso): spa-zio di un’incessante attesa di una “fonte” e diuna “luce”, di invocazione di amorose corri-spondenze nel segno di una “voce” essenziale:tutto nel segno, oltre che esistenziali necessità,anche di sublimi modelli anche letterari (pensoa Jacopone da Todi).

Elisabetta Liguori su MARIO DESIATI, SpatriatiEinaudi 2021

Forse gli elementi fondativi di un’esistenza,i singoli eventi, accadono una prima volta e do-po continuano ad accadere. Sempre gli stessi,in maniera solo apparentemente diversa, cosìche niente di ciò che è, può mai morire, né tra-sformarsi, piuttosto si somma. Si stratifica. In-gigantisce e risplende. Il nuovo romanzo di Ma-rio Desiati è riuscitissima espressione letterariaproprio di un passato che accade e ritorna,stratificando. Un amore speciale e casto è alcentro della storia. Descriverlo mentre cambiacorpo, mentre si moltiplica adattandosi al movi-mento del tempo, mentre sentimenti, incontri,esperienze e punti di vista si sovrappongono èuna sfida che Desiati vince pienamente. È que-sto il più struggente tra i suoi romanzi ed è illu-minato da una grazia palpabile e contagiosissi-ma. Gli spatriati evocati nel titolo sono – spie-

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ga l’autore nelle ultime pagine del volume che,in omaggio a Robert Walser, chiama Note dal-lo Scrittoio o Stanza degli Spiriti, e che racchiu-dono il laboratorio segreto e alchemico ingom-bro di suggestioni, suoni, immagini, in cui na-sce ogni buona storia – gli incerti, i disorienta-ti, i raminghi, animali mai sazi che a quello delproprio territorio d’origine aggiungono altri bi-sogni, altre speranze. Sono coloro che sentonodi non avere più radici, uomini e donne all’iniziodi un viaggio di trasformazione, sempre un po’orfani e imparentati con tutto e tutti. Il tormentodella radice è dunque senza dubbio il tema delromanzo, ma non l’unico. Ma accanto a questotroviamo la famiglia, il tradimento, la scopertadell’identità. La grandissima la cura che l’auto-re destina sempre alla costruzione dei perso-naggi femminili, in questo nuovo romanzo di-venta fondante. L’intera visione del mondo nar-rato è femminile, fluida, gigantesca. Nonun’analisi generazionale, ma sociale, in sensoancor più ampio. Uno sguardo preciso e lun-ghissimo. Oserei dire di più: questo di Desiati èun romanzo femminista. Salta agli occhi, infat-ti, la sbilenca differenza tra lui e lei, capace disvelare sin dalla prima pagina la molteplicitàdell’essere al mondo: lui malmostoso, incerto,contraddittorio, mascherato da chierichetto contanto di turibolo e navicella, ma scuro comel’uva nera; lei spavalda, incompresa e incom-prensibile chioma rossa, mascherata da uomoper sentirsi indipendente. L’uno posto di fronteall’altra, simili per origini, per eventi, per con-venzione. Raccontare come e perché accada,alle volte, che il fuoco e l’acqua santa restinoavvinti, nonostante tutto, sembra esserel’obiettivo dell’autore. La struttura è quella ro-busta e intramontabile del romanzo classico.La storia è suddivisa in tre atti – il conflitto ini-ziale, il viaggio, il ritorno – all’interno dei quali idue personaggi principali, Veleno e Claudia,coppia armonica nata per errore, compiono i lo-ro passi. Eroi incontrastati e, nello stesso mo-mento, mentore l’uno per l’altra. I luoghi narra-ti sono iconici, personaggi vivi anch’essi: la Pu-glia di Martina Franca, con il suo lessico, e laBerlino che cambia, con il suo frenetico deside-rare. Proprio per questo, grande spazio è datoai suoni, oltre che ai sapori e ai colori. La mu-sica tecno, ad esempio, estranea e dirompen-te, diventa la chiave per aprire il varco. I violinidella Cavalleria rusticana, come una risacca,preparano alla fine. Il ritmo singhiozzante dellalettura dei versi dei poeti più amati scandisce laformazione emotiva dei personaggi. E, come in

tutti i viaggi importanti, ciò che conta veramen-te è il bagaglio. I suoni sono parte di quel ba-gaglio. Che sia leggero oppure pesante, non èaffatto irrilevante. Il romanzo di Desiati è pienodi scatole che viaggiano al seguito dei protago-nisti, scatole di memoria, di versi, di domandesenza risposta, scatole da aprire una per volta.L’arte di perdere le cose si apprende presto, ciinsegna Elizabeth Bishop. Bene. Gli eroi di De-siati sono veri e propri artisti della perdita. Laperdita della relazione con il padre, con la ma-dre, con la terra. Ruvido e leggero è il bagagliodegli spatriati. Un lusso per pochi. Le donnesoprattutto lo sanno, il loro bagaglio è semprepesantissimo, colmo di cura, relazioni, senso dicolpa, fiamme da tenere sempre accese.Quando liberate dalla zavorra sanno esprimeregrande luce, diventano guida, esploratrici,anello di congiunzione, ed è esattamente ciòche accade alla splendente Claudia, la viaggia-trice a cui Desiati ha voluto dar voce.

Anna Longoni suFRANCESCO PERMUNIANIl rapido lembo del ridicoloItalo Svevo 2021

Giorgio Manganelli, Amelia Rosselli e Ser-gio Quinzio: sono questi i nomi che accolgonoil lettore sulla soglia dell’ultimo libro di France-sco Permunian, una raccolta di testi brevi, ap-punti, poesie, che lo scrittore è venuto anno-tando in un lungo periodo di tempo (i più anti-chi appartengono agli anni dell’università), al-cuni già editi, ma tutti rivisti o, come scrive luistesso, “lucidati” per l’occasione. Manganelli(cui sarebbe certo piaciuto il nome della raffina-ta collana in cui il volume figura, “Biblioteca diletteratura inutile”) si affaccia dal titolo,un’espressione tratta da un suo intervento sul-la scrittura aforistica di Flaiano (un autore ca-pace di “oscillare fino sull’orlo del tragico e didistrarsene in tempo per conseguire il rapidolembo del ridicolo – o del risibile”); Rosselli eQuinzio dall’esergo, in quanto il libro è dedica-to alla loro memoria: ma di tutti e tre Permu-nian, in alcuni degli appunti qui raccolti, dise-gna, talora con ironica arguzia, talora construggente malinconia, anche rapidi ritratti chene restituiscono il profilo autentico e che so-prattutto raccontano il dolore dell’assenza.

Perché di nostalgie, di perdite, di allucina-zioni e di illusioni parlano, in un continuo oscil-lare tra testimonianza e immaginazione, questi

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fogli sparsi, riuniti in una raccolta che non ècerto il temuto gnommero di gaddiana memo-ria (“eccomi ancora qua a frugare come un os-sesso tra le sudatissime pagine di questo zibal-done che, più passano i giorni, più io temo pos-sa sfuggirmi di mano riducendosi a un confusognommero informe. Oppure, ben che vada, auno sgangherato garbuglio proliferante di vocie confidenze”, scrive Permunian in apertura):al contrario, il volume nella progressione deiframmenti rivela quella coerenza che è propriadegli autori che scrivono “con le unghie e con ilsangue”. Possono anche sperimentare generidiversi, possono cambiare accenti e coloriturestilistiche (Permunian si muove da anni trapoesia e romanzo, racconto e aforisma, risategrottesche e malinconici ripiegamenti, grida diindignazione e pensieri sussurrati), ma le os-sessioni e, soprattutto, le ferite rimangono lestesse, e così la loro scrittura sostanzia ognipagina (ogni riga, ogni parola) della medesimaverità (o menzogna) dell’esistere.

I primi tre capitoli sono dominati dal temadella morte e del nulla: vi sono le voci dei de-funti, quelli del presente e quelli che apparten-gono a un passato da cui lo scrittore non sa(non vuole) allontanarsi; gli spaesamenti del-l’infanzia accanto a quelli della vecchiaia; i fan-tasmi che assediano, senza tregua, la quotidia-nità, e occupano gli spazi della mente ma an-che i luoghi reali, in cui occhi e orecchie sonoaggrediti da presenze insieme familiari e miste-riose. Per difendersi da tali “spiazzanti e con-turbanti visioni” all’autore non resta che prova-re a riempire i vuoti, trovando dei talismani chepossano difenderlo dalla paura dell’ignoto: allafine del terzo capitolo si accenna a “quel leta-maio di pettegolezzi e porcherie che germo-gliano su certe riviste o quotidiani di provincia[…]. I soli scacciapensieri che mi distolgono,sia pur momentaneamente, da quell’horror va-cui che da sempre mi attanaglia la gola”. Eccocosì spiegato il cambiamento di tono dei duecapitoli successivi, nei quali la voce diventaquella di chi fruga nel letamaio, ricorrendo (perlo più, ma non solo) al tono della satira, per col-pire con scrittura tagliente e inesorabile, primadi tutto, la vuota società delle lettere, piegataalle logiche del mercato editoriale, assediatadalle scuole di scrittura, frequentata da autoriche raggiungono il successo con testi di irrime-diabile insignificanza; ma l’indignazione di Per-munian (che dichiara di condividere l’afferma-zione di Jules Renard “Ho l’anima anticlericalee un cuore da monaco”) qui, come altrove, col-

pisce anche il mondo cattolico, non solo ipocri-ta e bigotto ma, sul filo della cronaca recente,responsabile di violenze terribili. Dopo due brevi testi dedicati ad Amelia Rossel-li, cui fa da contrappunto un’altra follia, quelladi Alda Merini, si arriva all’ultima sezione, cheriporta circolarmente agli accenti e ai temi deiprimi tre capitoli: accanto a una rapida sfilata digrotteschi personaggi, gli stessi che il lettore hagià incontrato in altre pagine di Permunian, siripresentano infatti le visioni, i fantasmi, il bisbi-glio dei morti; torna il vocabolario che è cifra di-stintiva di questo scrittore (ombra, tramonto,polvere, cenere, illusione, notte, crepuscolo…);torna un bestiario inquietante, fatto di farfalleinsanguinate, larve, tarli, insetti (peraltro antro-pomorfi), topi, sciacalli, iene. Tornano i garbuglidi parole che tessono l’unica rete capace, co-me diceva Manganelli, di proteggere lo scritto-re dalla caduta (e con lui i suoi lettori); tornanole digressioni “curiose e strampalate”, le “più in-verosimili” eppure, sempre, “veritiere”.

Federico Milone suGIANLUCA RIZZO, Poetry on Stage: theTheatre of the Italian Neo-Avant-gardeUniversity of Toronto Press 2020

“Fu dunque naturale che i Novissimi e gliscrittori giovani più affini si mettessero a scrive-re per il teatro”. Questa frase di Alfredo Giulia-ni, estrapolata da un testo finora inedito e con-tenuto nel suo archivio, può essere l’esergoideale di Poetry on Stage, il volume di Gianlu-ca Rizzo che si occupa del legame fra i testi inversi dell’avanguardia e il palcoscenico, una“zona grigia” ancora non illuminata del tuttodalla critica. Il libro è voluminoso, ma non po-trebbe essere diversamente: infatti, l’arco cro-nologico è ampio – coincide perlopiù con glianni Sessanta, ma con frequenti puntate neldecennio successivo e oltre – e soprattutto èelevato il numero dei protagonisti, sia esponen-ti noti e ormai canonizzati, sia provenienti dascene che oggi diremmo underground. Unviaggio lungo, insomma, che non si può riassu-mere in poche righe. Si possono però indivi-duare alcuni punti di forza, che valgono anchecome coordinate orientative.

Il primo riguarda il ventaglio di fonti. Per lasua ricostruzione, Rizzo attinge infatti non sol-tanto ai testi e agli studi noti a chi si occupa diavanguardia, ma anche a giornali d’epoca, adocumenti talvolta inediti (segno di un certosi-

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no lavoro d’archivio) e persino alla voce direttadei protagonisti. Questa traspare in alcuni pia-cevolissimi aneddoti e soprattutto nelle quattrointerviste che chiudono il libro e dialogano coni capitoli precedenti. Il lettore sarà attratto irre-sistibilmente dal racconto di una pericolosapasseggiata oltre l’orario del coprifuoco di Gio-vanna Bemporad ed Elio Pagliarani nella Vene-zia occupata dai nazifascisti. Ma sarà catturatoanche dell’intervista fluviale a Giuliano Scabia,che ricorda nitidamente le diverse posizioni de-gli artisti del tempo (e glossa, sornione: “I washappier with the madmen than I had ever beenwith the literati”). Oppure, potrà godere del tim-bro diverso, più analitico, che trapela dalle pa-role del sempre lucido Nanni Balestrini mentespiega i limiti del poeta di fronte al teatro e per-ché è d’obbligo la collaborazione con registi,scenografi, musicisti e tecnici.

Il secondo pregio è l’adozione di uno sguardoa doppia direzione, l’uso di una “palpebra rove-sciata”, per dirla con Antonio Porta. Certo, il pun-to di partenza scelto da Rizzo è la poesia, che siavvicina alla scena per vari motivi: per ridurrel’ipertrofia dell’io lirico; perché le caratteristichefonetiche e ritmiche dei versi della neoavanguar-dia sembrano quasi richiedere una voce; perchéil contatto diretto con il pubblico permette dimettere alla prova queste ‘opere aperte’. Mal’autore fa anche, giustamente, il percorso inver-so, adotta cioè la prospettiva degli uomini di tea-tro. Ripercorre così la scena italiana degli anniSessanta attraverso i personaggi e i luoghi, finoal carnevalesco ‘Convegno per un Nuovo Tea-tro’ di Ivrea, del 1967. Le posizioni variegate deiteatranti vengono analizzate al microscopio,senza adottare etichette di comodo. Incontria-mo così Carmelo Bene che reinterpreta la tradi-zione italiana del grande attore, Mario Ricci conil suo teatro astratto e minimalista, Carlo Quar-tucci e le riproposizioni di Beckett, il già citatoScabia, il Living Theatre e tanti altri protagonistidella cantine romane e dei teatri più aperti allasperimentazione.

A legare i due mondi, teatro e poesia, è perRizzo ciò che Goldmann chiamerebbe omolo-gia, e cioè un comune desiderio, nato nel con-testo sociale in rapida evoluzione che segue glianni del boom economico, di costruire unanuova arte attraverso un nuovo linguaggio. Laverifica di questa affermazione passa dal con-fronto con i testi, difficile perché le opere teatra-li della neoavanguardia sono un mare magnumeterogeneo e in cui prevalgono le spinte centri-fughe. Per evitare di perdere l’equilibrio, Rizzo

trova un baricentro nel teatro di Pagliarani. Siparte così da Pelle d’asino, l’opera scritta aquattro mani con Giuliani, che riprende e ribal-ta la favola omonima di Perrault attraversoanacronismi, temi sociopolitici, misture di codi-ci e registri. Questa è la porta verso il lavoro diGiuliani, sondato soprattutto attraverso la lentedi Jarry, il patafisico francese che Rizzo avvici-na ad Artaud per l’influenza che ha avuto, conle sue marionette-maschere, sul teatro del-l’avanguardia. Troviamo da ultimo il Faust, nel-la doppia versione di Celli (Le tentazioni delprofessor Faust) e Pagliarani (Il Faust di Co-penhagen). Entrambi convergono nella sceltadel tema portante, cioè l’illusorietà della neutra-lità scientifica, ma divergono sul punto cardinedella scelta linguistica. Pagliarani infatti assaltafrontalmente il linguaggio con le armi delleavanguardie storiche, Celli al contrario agisceda spia, sabotandolo dall’interno. Due posturediverse, che, poste in chiusura del libro, sonoanche l’esempio più chiaro della pluralità di vo-ci che ha abitato la neoavanguardia.

Renato Minore su FRANCESCO BELLUOMINIIl mercato delle ideeDe Felice 2021

“Dentro la quantità sto ricercando / il mioperduto verso: non so dove si nasconde. / Locerco spesse volte / nel gruppo di parole prigio-niere / di barriere ristrette, ma può darsi lo sor-volo / sgranando righe come fossero le perlinedel rosario”. Sono versi di Francesco Belluomi-ni e si leggono nell’ultimo libro Il mercato delleidee. Endecasillabi narranti, che esce postu-mo. E sono anche una dichiarazione di poeticadi questo poeta e narratore scomparso settan-taseienne nel 2017, un poeta senza mode,senza direzioni precostituite, ma con un’im-mensa fedeltà a un’idea di poesia non irrigiditané ossificata. Come ben dice Vincenzo Guarra-cino, il libro è una sorta di autobiografia in ver-si di un “collezionista di viaggi ed esperienze,tra porti e mestieri, i più diversi, fedele all’esi-genza di dare espressione al proprio sentimen-to modulato di volta in volta nei diversi registridettati da argomenti e situazioni diverse”. Unafatica collocata al punto estremo dell’intera suavita che costituisce in un certo modo il suo “te-stamento morale” nel raccontare i montaliani“fatti” e “non fatti” della propria esistenza.

Si potrebbe dire un memoir poetico come

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una corda tenuta insieme non da una fibra chela percorra tutta, ma dal soprapporsi di molte fi-bre in un singolare romanzo in versi (la “vita inversi” la chiamava Giovanni Giudici, grandeamico di Belluomini), a suo modo anche lirico,nostalgico, appassionato. Con la sua schidio-nata di “endecasillabi narranti”, scivola in Bel-luomini il racconto con avventure disavventure,amori e perfino un naufragio da parte un “can-tastorie giramondo”, nomade per vocazione enecessità con la passione del mare, come con-tinua metafora di una irrequietezza mai pacata,che è continua ricerca, navigazione in mareaperto. Tutto ciò era stato raccontato nel libroprecedente, L’ultima vela, e qui torna comecondensato, illuminato in “un percorso da statod’emergenza” in uno “scrivere con foga com-pulsiva”. Nel flusso circolare di occasioni, im-magini, ricordi, diventa specchio per conoscer-si e riconoscersi, dolce ossessione a raccon-tarsi tra provvisori approdi e fulminee ripartitedi ogni tipo in un marinaio esperto che sa ren-dere aperto curioso e “appassionato” il viaggio.E ogni approdo è provvisorio, la posta in giocoè anche il senso del fare poesia (o dell’essercipoesia), secondo una disposizione che nasce“amando da profano di mandare / a memoriaOmero dell’Iliade, / Dante de La Commedia,San Francesco / delle Laudi per puro passa-tempo / prima di prender sonno sulle navi / neitempi dei riposi di cuccetta”. Belluomini riescea centrare il suo obiettivo anche per ciò che ri-guarda la pratica, la promozione, la diffusionedell’oggetto amato e vagheggiato con un’occa-sione pubblica, il Premio Camaiore, di cui èstato l’anima fino al 2017, portato avanti attra-verso gli anni dal suo contagioso entusiasmo edalla sua ostinata passione. Così sia in questolibro che nel precedente Ultima vela, un poemadi quasi 2.500 versi, in una veloce passerella,sono anche raccontate le vicende (discussioni,polemiche, recital, presenze memorabili) dellasua creatura. Sfilano in versi anche poeti e giu-rati colti in un flash o una postura, all’interno diun vero e proprio romanzo in versi.

Il racconto della propria esperienza è ancheuna sorta di commento/riflessione implicito inciò che si racconta. Ne Il mercante delle ideec’è – circola – una naturale, quasi implicita ora-lità che dà lo sprint, il ritmo a tutto. All’incontrovis-à-vis, alla voce e all’empatia diretta, a unafisicità che scandisce il ritmo della conversazio-ne, fatta anche di elusioni, fraintendimenti, diaperture improvvise. E Belluomini la inseguecon la sua costruzione narrativa ad apparente

mosaico, a puzzle, a dialoghi sciolti nella fluidi-tà del tema, nel giusto incrocio di temi, sugge-stioni, punti di provvisorio approdo. Quello piùinsistente sembra lo scontro doloroso con ilprincipio di realtà, la necessità di non scenderea compromessi, l’impossibilità di realizzare ipropri propositi nel contatto anche traumaticocon quella che Rimbaud chiamava la rugosarealtà.

Con il suo “mercato” Belluomini ci ricordache le nostre vite sono incessantemente intrec-ciate alle narrazioni e alle storie che raccontia-mo o che ci vengono raccontate, a quelle chesogniamo o immaginiamo o vorremmo poternarrare. Tutte vengono rielaborate nella storiadella nostra vita, che noi raccontiamo a noistessi in un lungo monologo, episodico, spessoinconsapevole, ma virtualmente ininterrotto.Così nasce l’esigenza di un confronto in cuiognuno mette in gioco le proprie idee, le pro-prie scelte, il proprio cammino esistenziale eprofessionale, le proprie fantasie, in una paro-la la storia della propria vita che si intreccia conil racconto che di quella vita ognuno comincia ocontinua a farsi. E di tutto questo FrancescoBelluomini ha saputo fare una preziosa materiapoetica.

Elio Pecora su MILO DE ANGELISLinea intera linea spezzata Mondadori 2021

Parmenide nel suo poema compie un viag-gio nel cielo della conoscenza, Ulisse scendenell’Ade a interrogare le ombre, altrettanto faEnea, prima di loro Orfeo, e prima ancora il su-merico Gilgames parla al fantasma dell’amatoEnkidu. Molte volte la poesia, e non solo lapoesia, s’è spinta di là della giornata umana,condotta da una forte nostalgia, da una malin-conia struggente, forse e soprattutto per avidi-tà di vita. Perché se nostalgia è dolore del ritor-no, dunque desiderio di rivivere quel che è sta-to, di riprovare quanto ci è appartenuto, un ta-le desiderio subito si fascia della malinconia dichi, sapendo l’impossibilità di quel ritorno, si la-scia alla strana dolcezza della perdita.

La poesia, come scrive Borges ne I quattrocicli, nel ritorno ha uno dei suoi temi maggiori.E che altro mai è il ritorno se non di chi cercal’estrema ragione dell’essere che lo porta ascontrarsi con il nulla e la morte? Pure la poe-sia di un simile ritorno, che prelude a un an-

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nientamento, si conclude in un’affermazione divita. Tanto vale per il nuovo libro di Milo De An-gelis in cui si compie una discesa, o meglio unritorno, che potrebbe essere solo purgatorialese non vi alitasse, in ogni frase e gesto e pagi-na, il cuore stesso di un’esistenza. Quel chepareva sfuggire e disfarsi si ricompone nei pas-si, nelle voci. Ne viene un pullulare di verità, uninverarsi di memorie mai perdute, mai lasciate.Ed è un libro d’amore se l’amore è vicinanza ecompassione, nel significato vivo e iniziale dicondivisione, di alleanza. È un libro che rac-conta il traversamento di una vicenda umana edi tante altre vicende che a quella si sono af-fiancate e intrecciate anche solo per una frase,per un gesto.

Subito e ancora, già nei primi versi, un’im-prendibilità concertata lascia insieme dolentied estatici, persi e trattenuti. Il verso lungo,dentro una cadenza litaniante, porta in terra esolleva, inquieta mentre commuove. Vi cogliuna lontananza di quel che pure si presentastagliato, e una risonanza di temi e di toni che,nella determinatezza, dice l’indeterminato. V’èuna città, Milano, ed è il luogo dell’esistere edel passaggio, lo spazio-tempo in cui il ricordosi sgomitola nel presente e ancora ne ascolti inomi, ne senti i fiati.

Un tu (montaliano), invece che distanziare,incorpora nell’agente il testimone e scopre glioggetti, i luoghi, i silenzi. Un teatro di appari-zioni, di luci, di ombre e un paradiso, nemme-no più promesso, ridotto all’appressarsi diun’attesa; e un sipario di nebbie, di cenni, “unconcilio segreto di secoli che si parlano sotto-voce”. L’io affiora per significare quanto sia in-stancabile e patito l’intendere e il guardare, co-me nello sgomento e nel silenzio cadono e siperdono le parole.

Le strade, i bar, le giostre, i bigliardi, le au-le, i cinema, le periferie, e le ore della sera edella notte, le stagioni delle nebbie e delle fio-riture, e una folla di uomini e di donne, chiama-ti per nome, fermati in un gesto, che si disfanodelle ombre e presto vi si ravvolgono (“moltitu-dine in cui sei immerso”), tutto e tutti più cheevocati sono visti, toccati, interrogati per unanuova attenzione, per un ultimo riconoscimen-to. “Un assedio di tutti i volti persi”, ed è unaperdita mai conclusa tanto nel cuore che nellaragione, piuttosto intesa come scelta e destino,ed è tema e sostanza del libro.

“Nella stanza della memoria smarrita” sirinnova e ripete un tempo che cancella il futu-ro per un presente come accolta di riverberi,

come straziante riconquista “negli anni che so-no rimasti / fuori della morte”. Il viaggiatore,che ancora respira la vita, è uomo e creaturadi nostalgia non per un’età innocente, ma perun tempo trascorso di affetti, di amori, di ami-cizie. E se l’esistenza riattraversata apparespoglia di certezze, specchio rifranto dell’in-gannevole felicità, il passato, più che sognodella mente, è parte del cammino ancora dacompiere per un’intesa, forse per una più sco-perta alleanza. In questa duplice e controver-sa possessione si innestano l’esilio e la pre-senza. Orfeo, fuori del mito – stretto in unamodernità accerchiata – non scende nell’Adeper risalirne sconfitto, ma si aggira nel possibi-le e nel dato, sapendo di “portare il destino inun esametro”, lasciandosi a un “trasalimentodi rime contro il nulla”. Così procede e incedela poesia, che veglia e accoglie “in un luogotremendo e solitario, dove nessuno resta intat-to”. Né valgono rassegnazione o rimpianto,ché tutto ancora si manifesta nella “casa delmassacro” comprese “le spine della bellezzarigorosa”. Dunque nella mancanza (“qualcosadi mai congiunto circola nel sangue”) perdurail trasalimento dell’accostare una più difficileragione, tale da “raccogliere i frutti dispersi”,da “costringere il nulla a svelarsi”. E una musi-ca di spossante elegia impregna la voce che,mentre va ascoltandosi, ascolta.

Cetta Petrollo Pagliarani suMARIA TERESA CARBONE, CalendiarioNino Aragno 2020

Maria Teresa Carbone, intellettuale attivadagli anni Ottanta, scrittrice, traduttrice, orga-nizzatrice culturale, coordinatrice della redazio-ne di “Alfabeta2”, animatrice delle varie edizio-ni di Romapoesia e componente del Comitatoorganizzativo del premio Elio Pagliarani, pub-blica per la raffinata collana de “I domani” il suoprimo libro di poesie (ma suoi versi sono statipubblicati negli anni su varie riviste).

Riflessione sulla vita, dalla nascita alla par-tenza, fissata in scatti hopperiani della stessaautrice, dove il paesaggio urbano e di internifamigliari si mischiano e triturano in un’accortametrica dei versi, Calendiario allontana dubbioe attesa della fine – conto alla rovescia che nonsi può omettere, con il gesto magico dell’affre-sco creativo, del manufatto, l’impronta perso-nale sulle connessioni di cui l’uomo tenta di es-sere controllore e padrone attribuendo signifi-

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cato e sensatezza riassuntiva ai capitoli dellapropria storia nel mondo.

E che lo sguardo sia, pur nella sua com-plessità e durezza, insieme nostalgico e dolo-rosamente riassuntivo, lo dimostrano le imma-gini, della stessa autrice, crudamente solitarieche accompagnano il riepilogo – dalla paretedella casa materna agli sguardi metropolitani,dalla monacale camera da letto, al cupo ingres-so domestico, dai giochi infantili all’interno delguardaroba e all’evanescente autoritratto daglierosi margini bruciati, in una campionatura dioggetti intimi molto vicini alle recenti esperien-ze delle artiste Favaretto e Kaari Upson espo-ste alla Biennale d’arte del 2019.

All’oggettistica degli ambienti corrispondenei versi un’oggettistica della parola, un’opera-zione di costruzione per blocchi linguistici cheprocede all’interno per microcitazioni desuntedal linguaggio letterario e dal parlare comune,entrambi facenti parti, così come le bambole oi quadri appesi alla parete, della vita vissuta.

Così il ricordo burchiellesco di “nominativifritti e mappamondi” diviene “frattaglie di ricor-di e piatti pronti”, la passeggiata palazzeschia-na viene evocata dalle insegne di questo no-stro ventunesimo secolo (“trovate l’oriente alnegozio di fronte”, “con una moneta comprate”,“pesce verdura tofu / uova di polli allevati al-l’antica”) dai messaggi pubblicitari (“restate connoi non partite”) e la visione esplodente e di-sperante dell’ultimo Balestrini di Caosmogoniae altro aleggia nel poemetto finale Cinquequarti, esercizi di cosmogonia quotidiana.

Qui in un perfetto intersecarsi di dimensionicarnali, spaziotemporali, letterarie e filosofiche,si costruisce un’architettura della fine – privata,collettiva – non immemore delle partizioni e deimontaggi del Doppio Trittico di Nandi di ElioPagliarani.

Primo, secondo, terzo, quarto e quintoquarto del poemetto finale tentano di esorciz-zare la conclusione di un’epoca ma non riesco-no a distaccarsene facendo balenare intensisquarci di dolore: “Apriamo il calendario e cipiace pensare che tutto senza dolore senza ce-dimento / lo spostarsi da un letto a un altro let-to / fra un sonno e un altro sonno / il rumoredell’acqua che cola”.

Perché se “è tempo di partire” e se “ricadiall’indietro all’inizio del gioco” Maria Teresa cifa sentire quanto non si sia mai pronti abba-stanza a lasciarlo questo gioco che un tempo ciappassionò e ancora ci trattiene anche se sia-mo tutti “sordi deboli ciechi / tutti diversamente

/ abili a fingerci diversi / così piccini che il cuo-re si stringe / moscerini dall’alto del cocchio /incitiamo i cavalli al galoppo”.

Pietro Sisto suGIROLAMO COMI, PoesieMusicaos 2019

Nel 1890 a Casamassella, un piccolo paesedel Salento, dal padre Giuseppe che vantava iltitolo baronale e dalla madre Costanza, sorelladel famoso economista e uomo politico lecce-se Antonio De Viti De Marco, nasceva Girola-mo Comi, destinato ad essere una delle vocipiù interessanti, ma al tempo stesso meno co-nosciute, della poesia del Novecento. A lui e aisuoi versi Antonio Lucio Giannone e SimoneGiorgino dedicano un libro che raccoglie i com-ponimenti più significativi di quell’impegno let-terario sempre sospeso tra sogni e bisogni, fraterra e cielo, tra provincia ed Europa.

Il volume in realtà aiuta il lettore a ripercor-rere un appassionato, per certi versi inquieto,itinerario umano e poetico iniziato in un collegiosvizzero, proseguito poi tra Parigi e Roma econclusosi tristemente nel sontuoso palazzo difamiglia a Lucugnano dove Comi conobbe an-che privazioni e stenti di ogni genere dopo averdato vita ad una iniziativa imprenditoriale tantomeritoria quanto fallimentare: un moderno olei-ficio messo a disposizione dei lavoratori e del-le famiglie più bisognose del paese.

In questo libro sono raccolte le più importan-ti opere in versi del poeta salentino (Spirito d’ar-monia, 1954; Canto per Eva, 1958; Fra lacrimee preghiere, 1966) introdotte da un interessantesaggio di Giannone sull’Itinerario di Comi e ac-compagnate da una esaustiva “nota” di Giorginosulla fortuna critica dello scrittore, attratto neglianni giovanili dai miti e dai temi del grande sim-bolismo francese e del dannunzianesimo non-ché dalle suggestioni dell’esoterismo e dell’orfi-smo prima di giungere a una laboriosa, aristo-cratica conversione al cattolicesimo. Idee, miti esuggestioni di una lunga, mutevole esperienzaintellettuale e poetica che, tuttavia, trovò semprenella forza e nel mistero della parola la dimen-sione più autentica e profonda, lo strumento piùefficace per approfondire i miracoli e i richiamidella natura, per “riprendere contatto, quotidia-namente e bene o male, con l’ordine magico emisterioso che governa il cosmo”.

I curatori non mancano inoltre di ricordareComi nelle vesti di ideatore e promotore del-

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l’Accademia Salentina di Lucugnano, un soda-lizio del quale fecero parte tra gli altri LucianoAnceschi, Michele Pierri, Maria Corti, MarioMarti, Enrico Falqui, Oreste Macrì, nonché del-la rivista “L’Albero”, all’ombra della quale scris-sero nomi illustri e importanti della poesia italia-na come Carlo Betocchi, Mario Luzi, GiuseppeUngaretti, Giorgio Caproni, Vittorio Bodini. Ver-si e parole, amici e scrittori tutt’altro che provin-ciali perché proiettati ben al di là di quelle ver-di piante di ulivi che lo scrittore non riuscì maia dimenticare perché simbolo di una terra anti-ca e leggera, riscaldata da un sole meridiano evivificata da una luce abbagliante che gli sem-brava provenire religiosamente da altri mondi eda “altre” realtà.

Del resto i primi suoi versi furono imprezio-siti dall’immagine del roseto e della rosa, unfiore inondato di luce splendente e di lussurio-si bagliori, simbolo di bellezza femminile e na-turale ma anche di sapienza e soprattutto direligiosità perché ossimorico “incrocio” di peta-li e di spine e perciò capace di emanare profu-mo e provocare sangue e che per questo pote-va aiutare il poeta e l’uomo a raccontare le gio-ie e i dolori, le speranze e i disinganni della vi-ta, ad inseguire un modo altro, trascendente distare al mondo. E le ultime liriche non feceroche sottolineare in maniera ancora più forte esentita il conforto della parola e riproporre l’im-magine di una poesia alla continua ricerca de-gli “spiriti puri” e magicamente disposta a riflet-tere l’incanto e la bellezza del paradiso: “Se date m’allontano, Amore, è per raggiungere / unpo’ prima che gli occhi mi s’oscurino / la fulgidasorgente / degli spiriti puri. / Se da te fuggo èperché la poesia / in noi rinasca inesauribil-mente / immagine e realtà del paradiso intatto/ di cui qualche bagliore è come fermo / sul ci-glio di un paesaggio dell’eterno”.

Una poesia, insomma, come “inno” e pre-ghiera, come testimonianza eccentrica, voluta-mente, perdutamente periferica rispetto allecorrenti dominanti della lirica novecentesca an-che perché lontana da qualsiasi tentazione dimercato o interesse commerciale (Comi fecequasi sempre ricorso ad eleganti edizioni auto-prodotte e a tirature limitate) e che perciò, co-me scrive Fabio Moliterni nella parte conclusi-va del volume, non “presta la sua voce all’idil-lio o all’elegia, al lamento privato o esistenzia-le ma allo sguardo partecipe e all’adesione ‘co-rale’ verso tutto il creato, all’esigenza di assolu-to e alla ricerca (alla celebrazione ansiosa) del-la Verità divina”.

Il volume è completato da una notizia bio-grafica curata da Lorenzo Antonazzo, da unabibliografia esaustiva delle opere e degli studicritici sulla poesia di Comi nonché da un utileIndice dei titoli e dei capoversi.

Gerardo Trisolino su GIACOMO ANNIBALDISOmbre di nuvoleEdizioni di Pagina 2021

Con questo quarto romanzo, Annibaldisconferma la sua predilezione per i ceti popola-ri che vivono con decoro e dignità nei tugurisottani di Bari vecchia. Un sottoproletariato ur-bano che lotta per la sopravvivenza, ai margi-ni della grande storia richiamata fugacementedallo scrittore giusto per offrire le coordinatenecessarie per situare le vicende dell’umile fa-miglia Biancofiore: tra Prima guerra mondialee immediato secondo dopoguerra. Della ma-crostoria giunge solo l’eco, ovvero gli eventiche coinvolgono da vicino alcuni personaggi diquesta grandiosa e corale epopea familiare:Leonardo, reduce di Caporetto, secondo mari-to della protagonista assoluta Maria Luigia (Gi-na), lavandaia a domicilio; Bastiano, fratello diGina, fascista della prima ora e convinto avan-guardista, che però rifiuta di diventare repub-blichino; il figlio Saverio, dapprima dato per di-sperso, che fa ritorno a casa provvidenzial-mente dopo l’armistizio; l’altro figlio Nicola chemuore sbrindellato nell’esplosione del pirosca-fo americano Charles Henderson, ormeggiatonel porto di Bari, mentre venivano svuotate lestive colme di materiale bellico (il tragico even-to del 9 aprile 1945, a cui l’autore dedica le pa-gine più drammatiche del libro, causò la mortedi centinaia di lavoranti e dell’intero equipag-gio); la strage badogliana di via Niccolò del-l’Arca, sempre a Bari, avvenuta il 28 luglio1943, quando un gruppo di dimostranti antifa-scisti si era recato davanti alle carceri perchiedere a gran voce la liberazione dei dete-nuti politici, tra cui Tommaso Fiore (che inquell’occasione perse il giovanissimo figlioGraziano), Cesare Teofilato, Guido Calogero,Guido De Ruggiero e altri esponenti del grup-po liberalsocialista pugliese.

Ma non una sola data ricorre nella narrazio-ne. I rimandi storici sono affidati a una soluzio-ne stilistica di grande efficacia, sia narrativache ideologica, contrassegnata da una gustosaironia dettata dalla pietas: “Sul balcone Musso-

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lini aveva deciso che l’ora delle decisioni irre-vocabili era scoccata”.

La “baresità” tanto cara a Annibaldis nonha nulla di folcloristico e di nostalgico. Cosìcome è lontana da ogni forma di populismo, invirtù dell’adesione a uno schietto e rigeneratorealismo, che non cede alla retorica e allacompassione paternalista. La soluzione mi-metica si rivela l’espediente più idoneo e piùconvincente sul piano stilistico: non solo loscrittore si confonde con i suoi personaggi, maraggiunge felicemente lo scopo di coinvolgereil lettore, attraverso il ricorso a espressionidialettali, solecismi, sentenze, proverbi, idio-matismi. Ma pur affidandosi a un repertoriopopolare ampiamente sperimentato da Verga(persino i nomi di Mena e Bastiano ammicca-no allo scrittore siciliano), la filosofia della vitadi Gina e vicinato è assai lontana dalla Wel-tanschauung verghiana: qui prevale la fiducio-sa convinzione che “sotto il guasto viene l’ag-giusto”. L’epilogo, dopo una incredibile seque-la di traversie e amarezze, non poteva espri-mere meglio la visione progressiva del narra-tore: Alfredo, nipote dell’eroina Maria Luigia,approda all’università.

Dario Voltolini suGILDA POLICASTRO, La parte di MalvasiaLa nave di Teseo 2021

Con La parte di Malvasia Gilda Policastroinaugura la sua seconda trilogia in prosa (laprima è quella composta da Il farmaco, Sotto eCella) e lo fa con un testo mirabolante.

È un giallo? Non lo è? È un thriller? È un ro-manzo non etichettabile? È sperimentale? È“per tutti”? (Sì).

Malvasia in prima istanza è una donna tro-vata cadavere e il libro, anche in prima istanza,è il resoconto dell’inchiesta su questa morte.Esiste un certo Gippo che è colui che principal-mente conduce tale inchiesta. Subito però lecose si complicano e diventano affascinanti so-pra e oltre la narrazione dei fatti, perché la gra-na con cui il libro è scritto prende il sopravven-to su tutto e trascina il lettore a perdifiato di pa-gina in pagina senza mai un cedimento, con unritmo e una velocità straordinari.

Questa grana della scrittura è fatta di molte-plici elementi, dialoghi secchi, voci che si me-scolano e stringono una sull’altra (chi è cheparla? ah ecco! o forse no?), una calibrata mi-scela di registri, prelievi linguistici attuali, enor-

me cultura alle spalle, echi di letture a raggioamplissimo.

Gilda Policastro compone una meditazionesulla vita, la morte, il dolore, l’opacità che ilmondo oppone alla nostra intelligenza di lui, lerelazioni tra noi umani (amicali, familiari, pro-fessionali, casuali), l’identità personale (unica?plurima? veramente “personale”?) e lo fa ai300 all’ora con arguzia, intelligenza e spieta-tezza, ma anche con dolcezza, pudore e gar-bo. A nutrire tutto il testo un singolarissimo sen-so dell’umorismo, un’ironia che nel dolore, nelgrottesco e nel mistero piazza sovente innestidi puro divertimento.

L’indagine diventa presto una ricerca nontanto dell’eventuale assassino (la morte di Mal-vasia potrebbe forse non derivare da un delit-to), nemmeno delle eventuali ragioni suicidariedi lei (no, dài, è evidente che l’hanno ammaz-zata), ma piuttosto su chi era questa donna, ar-rivata in paese da fuori, come un oggetto nonbanale da metabolizzare per l’ambiente che lariceve, umano e mentale.

A cerchi sempre più larghi l’indagine verrà avertere anche su chi è Gippo, l’investigatore dalnome genialmente buffo, su chi sono tutti i carat-teri convocati, più che in questura, sulla pagina,e infine a chi siamo noi, sbattuti in questo mon-do così carichi di vita e cecità. Ulteriormente,l’indagine gioca a scomporre i singoli esseri nel-le loro versioni, non sempre collimanti una conl’altra (non siamo fatti così?), e nella scomposi-zione sembra a volte che una parte dell’uno sci-voli dentro il nome dell’altro, in una farandola dagioco di prestigio letterario e narrativo.

Ma soprattutto, l’indagine si accolla un com-pito che non può essere concluso, e cioè trova-re la risposta alla domanda su cosa siano lenostre parti: quelle di cui siamo composti?quelle che recitiamo? quelle che rifiutiamo eper ciò stesso ci condizionano? quelle che nonriusciamo a interpretare?

Come figure frantumate, queste parti/scheg-ge, al roteare del caleidoscopio di Gilda Polica-stro, talvolta compongono figure perfette, talaltrasi scombinano in modo irrimediabile.

È un giallo? È un thriller? Be’ chi può dirlo?Al netto di una totale assenza (se ricordo bene)di inseguimenti in macchina, c’è però una buo-na dose di sesso. Disincantato, negato, raffaz-zonato, febbricitante, storto, vitale. Al netto diuna totale assenza di manette ci sono però in-dizi, file da riesumare da computer, sospetti, re-lazioni da scandagliare. Come è stato rilevatoda molti, alla fine l’indagine viene a installarsi

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LE RECENSIONI64

nella mente del lettore e a poco a poco l’intrec-cio di voci che la tramano e la ordiscono ci co-lonizzano al punto che ci si chiede se l’indagi-ne non riguardi in verità essenzialmente noiche stiamo credendo di stare semplicementeleggendola. Un’indagine serrata su chi siamo,come leggiamo, cioè come interpretiamo ilmondo, cosa speriamo e cosa temiamo, comeabbiamo – ciascuno di noi – ucciso Malvasia ocome non abbiamo potuto o saputo salvarla.

In questo pasticciaccio bello in cui si va co-sì velocemente da rimandare a lettura finita ilgodimento pieno delle emozioni che suscita,della vastissima gamma di tali emozioni, a di-spetto della continua e spietata macina cui tut-ti i suoi elementi narrativi vengono sottoposti(dai personaggi al plot, da dialoghi alle descri-zioni), ci affezioniamo a Malvasia e a Gippo,come se avessimo letto un romanzo di avven-tura, comodo, tradizionale, adolescenziale enon invece un libro strapazzagenere, spigolo-so, inventivo, senza età. Penso che ciò sia me-rito dell’autrice, che con una carica di umanapietà assoluta e con grandissimo affetto muovele sue pagine molto al di là di un mero e maga-ri anche coltissimo e intelligentissimo gioco af-fabulante e combinatorio. C’è tanta vita, c’ètanta aderenza alla vita, in questo romanzo, c’èuna specie di gioia a denti stretti. Come sull’ot-tovolante, anche.

AGLI ABBONATI A“l’immaginazione”

l’immaginazione rivista di letteratura anno XXXVII

diretta da Anna Grazia D’Oria

Iscritta il 2 aprile 1986 al Reg. Stampa, Trib. Lecce, n. 381

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per il 2021 un dono speciale

Marina MizzauSe mi cerchi non ci sono

RomanzoDozzina Premio Strega 2015 presentato

da Angelo Guglielmi e Umberto EcoVincitore Premio Feronia 2015 Finalista Premio Bergamo 2016

(Manni 2015)

Stefano Piva

Il mondo di qua

Poesiapp. 80 - t 13,00

Protagonista della raccolta poetica è una madrecon una malattia che procede incalzante.

Nell’analisi di stati d’animo, piccoli gesti, rim-pianti, emozioni, c’è la riflessione di un figlio cheosserva una vita non più vita, e il dialogo costantecon chi non può dare risposte.

I ricordi si mescolano alla quotidianità, e ognipoesia diventa un tassello di vita percepita su un du-plice binario.

Il cammino procede verso la fine, ma è pieno diamore e tenerezza.

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Giovanni GiudiciTrentarighe

La collaborazione con «l’Unità»tra il 1993 e il 1997

Introduzione di Simona Morando

Giovanni Giudici (1924-2011), fra i maggiori poeti italiani del Novecento e intellettuale dalla forte vocazione politica, accanto all’attività letteraria ha sempre portato avanti quella dell’impegno giornalistico.Tra le collaborazioni più fedeli a quotidiani e riviste, come «L'Espresso», il «Corriere della Sera», «Quaderni piacentini» e l’olivettiana «Comunità», si distingue in particolare quella con «l’Unità», prima dal 1977 all’89, e poi ancora – dopo una breve interruzione in cui scrive per «Il Secolo XIX» – dal ’93 al ’97, quando il giornale diventa voce del neonato PDS. In questa seconda e delicata fase, negli anni in cui la sinistra è alle prese con uno dei suoi travagliati esami di coscienza, Giudici è invitato dall’amica Grazia Cherchi a riprendere la parola sulle pagine culturali del quotidiano: nasce così la fortunata rubrica «Trentarighe».Per quattro anni, con quasi ininterrotta cadenza settimanale, Giudici firma più di centocinquanta articoli nei quali, in poche ma brillanti righe, commenta le pubblicazioni di autori noti ed emergenti, ricorda amici poeti e artisti, secondo «uno spirito di “beneficienza”, orientato a parlare di persone e cose o libri di cui nessuno (o quasi) avrebbe presumibilmente parlato»; ma interviene anche sull’attualità e talora ricorre alla narrazione di piccoli episodi autobiografici che, come in tante sue poesie, si fanno rivelatori delle trasformazioni e aporie del presente.La fedele “militanza” dei «Trentarighe» testimonia il pensiero civile di Giudici. Pensiero in cui siamo chiamati a stabilire nessi coriacei tra poesia, lingua, politica, società e religione, tutte tese ad un unico obiettivo, cioè dire l’indicibile.

pp. 336, € 18 • Pretesti

Giovanni Giudici (1924-2011),

fra i maggiori poeti italiani del

Novecento e intellettuale dalla

forte vocazione politica, accanto

all’attività letteraria ha sempre

portato avanti quella dell’impegno

giornalistico.

Page 68: ISSN: 2532-8387 Redazione: 73016 San Cesario di Lecce ...

IN QUESTO FASCICOLO

¤ 3,99

ISBN: 978-88-3617-123-1ISSN: 2532-8387

Le recensioni47. Davide Puccini, Animali diversi e altri versi (Franca Alaimo)48. Diego Gabutti, Superuomo, ammosciati (Roberto Barbolini)49. Carlo A. Madrignani, Verità e narrazioni (Giancarlo Bertoncini)50. Arrigo Lampugnani Nigri, “Questo e altro” (Marco Corsi)51. Antonio Lucio Giannone, Scritture meridiane (Annalucia Cudazzo)52. Giulia Caminito, L’acqua del lago non è mai dolce (Caterina Falotico Vitelli)53. Giuseppe Rosato, E dapò? (Andrea Giampietro)54. Giovanni Tesio, Nel buco nero di Auschwitz (Francesco Granatiero)55. Raffaella Fazio, Tropaion (Vincenzo Guarracino) Mario Desiati, Spatriati (Elisabetta Liguori)56. Francesco Permunian, Il rapido lembo del ridicolo (Anna Longoni)57. Gianluca Rizzo, Poetry on Stage (Federico Milone)58. Francesco Belluomini, Il mercato delle idee (Renato Minore)59. Milo De Angelis, Linea intera linea spezzata (Elio Pecora)60. Maria Teresa Carbone, Calendiario (Cetta Petrollo Pagliarani)61. Girolamo Comi, Poesie (Pietro Sisto)62. Giacomo Annibaldis, Ombre di nuvole (Gerardo Trisolino)63. Gilda Policastro, La parte di Malvasia (Dario Voltolini)

pollice versoIn copertinaAdriano Spatola, Z-SEGNOPOESIAPoesia1. Alberto Bertoni, Poesie2. Lorenzo Morandotti, L’amore terrestre4. Giovanni Angelini, PoesieNoterelle di lettura di Anna Grazia D’Oria3. “il verri”, Anna Malerba36. Angelo Andreotti, Marco Furia, Pino MongielloProsa6. Bruno Gambarotta, La città degli uomini spaiati 7. Marco Ferri, Le cose non sono più come prima 9. Chiara Pazzaglia, Quasi sorelle 11. Alberto Valentini, La donna trasparenteLe altre letterature12. Dmitrij Legeza, PoesieTraduzione e nota di Paolo Galvagni Per ricordare14. Bianca Battilocchi, Adriano Spatola. “Il gioco è l’unica speranza della poesia”Per un libro17. Su Prosa in prosa (Stefano Ghidinelli) 18. Su Renato Minore, O caro pensiero (Simone Gambacorta, Giulia Vantaggiato)Fra inediti e rari20. Ada Negri, Parole a mia figlia21. Il dinosauro di Piero Dorfles

Pollice recto/ di Renato Barilli22. Caminito, degna di un terzo posto allo Strega23. Falqui, una boccata d’aria frescaGammmatica24. Marco Giovenale, Causa-effetto26. Refrattari di Filippo La Porta27. Camera con vista di Sandra Petrignani28. Leggendo Rileggendo di Cesare Milanese29. Diario in pubblico di Romano Luperini30. Variazioni in reminore di Renato Minore31. Qualcosa e qualcuno di Angelo Guglielmi 32. Controcanto di Roberto Piumini e Monica Rabà33. La kasa dei libri di Andrea Kerbaker34. Il divano di Antonio Prete35. Visti e Rivisti di Ivo PrandinI nuovi libri Manni37. Sergio Armaroli, Atlante figurato di grammatiche fossili38. Ugo Foà, Il bambino che non poteva andare a scuola39. Adelio Fusé, Le direzioni dell’attesa40. Bianca Gabrielli, Latte di fico verde41. Daniele Gorret, Delle verità42. Vittorio Orsenigo, L’oltraggiosa sopravvivenza43. Junio Rinaldi, Un padre, un figlio44. Paolo Vismara, Storia interiore dell’universo45. Massimo Parizzi, Io46. Fabio Guarnaccia, Mentre tutto cambia