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ISPI

Quadrimestrale dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

n. 4 - Aprile 2007

Memoriae conflitti

ISPI Quaderni di Relazioni Internazionali

n.4 2007Quaderni di Relazioni Internazionali

Mem

oria e conflitti

Dossier - Memoria e conflittiGli usi della memoriadi Tzvetan TodorovEuropa e Islam nel Mediterraneodi Franco CardiniThe Collective Memory of Peace Making in Israel and Palestinedi Ilan PappeLa “memoria divisa” in un crocevia d’Europadi Alessandro VitaleMemory and Reconciliation in Post-Conflict Societiesdi Rhys Kelly

Osservatorio InternazionaleQuale futuro, dopo dieci anni, per il Trattato sulla messa al bando completa degli esperimenti nucleari?di Marco PedrazziL’America latina farà da sédi Ludovico Incisa di Camerana

Documentazione

9 788823 860568

ISBN 978-88-238-6056-8

Euro 10,00

cover 4/07 7-05-2007 10:59 Pagina 1

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Da Mnemosine, la dea della memoria, Zeus generò le nove muse: per primaCalliope, la protettrice della poesia epica, della filosofia e della retorica, subitoseguita da Clio. Dunque la verità, quella verità di cui è depositario il poeta, e lastoria. Una verità che rende efficace la parola attraverso la trasmissione del passatoe, quindi, la sua conservazione.

Ma questa trasmissione aveva dei chiari confini. Erodoto racconta che gli ateniesi,«poiché Frinico compose e mise in scena una tragedia sulla presa di Mileto, e il teatro tuttoscoppiò in pianto, lo condannarono con una multa di mille dracme per aver ricordato dellesventure a loro familiari e ordinarono che nessun altro utilizzasse più questa tragedia».Plutarco paragona questa prima censura democratica al decreto di amnistia adottato dopol’oligarchia dei Trenta tiranni: due vicende che, pur così diverse, sono accomunate daldivieto di “ricordare le sventure”. E l’amnistia adottata dai democratici rientrati ad Atenedopo la sanguinosa oligarchia ci presenta un caso di riconciliazione fondata sul divieto,sulla proibizione della memoria.

Non è certo questa l’attitudine che oggi abbiamo nei confronti della memoria. Lamemoria delle sventure è al centro della nostra attenzione e tendiamo a considerarladotata di poteri lenitivi o quanto meno pedagogici. È questo il caso delle Commissioniper la verità e la riconciliazione che negli ultimi anni il Sudafrica e altri stati di diversicontinenti hanno istituito, con l’evidente assunto che una verità a lungo occultata èsuscettibile – una volta portata alla luce – di generare, o quanto meno facilitare, unariconciliazione generale.

Tuttavia l’esperienza comune ci mostra come l’uso della memoria sia spesso ditutt’altro segno, non certamente conciliante. È difficile sfuggire alla sensazione che larelazione tra memoria e conflitti sia assai complessa e per nulla univoca. Potremmo perfinopensare che Ares stesso sia figlio di Mnemosine, quando uno spasmodico ricorso allamemoria finisce per alimentare i conflitti piuttosto che indurne la composizione.

Editorialedi Boris Biancheri

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editoriale

E l’interrogazione non riguarda soltanto gli usi della memoria, ma la memoria stessa, eforse sarebbe meglio dire le memorie, vista la pluralità di memorie tra loro noncomponibili che molti luoghi del mondo oggi evidenziano.

Dunque, la memoria stessa, la trasmissione del passato, è posta in questione, e in molticasi può sorgere il sospetto che ciò che è presentato come lascito del passato, cometradizione, sia assai incerto, sempre che non si tratti addirittura – come recita il titolo di unnoto libro – di una “invenzione della tradizione”. Non è forse per ricostituire un miticocaliffato che si combatte oggi una guerra “santa” rispondente in verità ad un progettopolitico del tutto contemporaneo? E gli esempi di passati mitici utilizzati per giustificareconflitti ben reali sono di tutte le latitudini. Il fatto che questi miti siano veri o falsi, oattendibili storicamente, finisce per perdere rilevanza rispetto agli usi cui essi sono piegati ealle reazioni ed emozioni che scatenano. Una prospettiva critica è perciò essenziale dalmomento che questi miti sembrano aver guadagnato grande importanza nella vitapubblica contemporanea.

Infine, non vi è forse un salto logico assai azzardato tra la cosiddetta memoriacollettiva e le memorie private, specie a proposito di conflitti e violenze? Soprattutto inquesti casi le memorie sono particolarmente ambigue e complesse; un divario assai ampiosi può aprire tra una “verità collettiva” e il modo in cui i singoli fanno i conti con le loroesperienze, se ne danno un senso, un’interpretazione. E in molti casi queste memorieprivate resistono alle influenze esterne, creando tensioni tra l’uso “terapeutico” e quello“pedagogico”, se non preventivo, della memoria.

Di fronte alla complessità di tali interrogativi, una riflessionepluridisciplinare come quella condotta in questo quarto numero di

Quaderni di Relazioni Internazionali, può aiutare il lettore a percepirnele molteplici implicazioni per le grandi questioni

di politica internazionale che oggi dobbiamoaffrontare.

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Memoriae conflitti

dossier

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dossier Memoria e conflitti

Quali scopi si perseguono, in generale, attraverso l’evocazione del passato? In-nanzitutto, essa è necessaria per affermare l’identità di chi lo rivendica, si trattidi un individuo o di un gruppo. L’uno e l’altro si definiscono anche, beninteso,dalla loro volontà riguardo il presente e dai loro progetti per il futuro; ma nonpossono sottrarsi a questa prima evocazione. Ora, senza un sentimento della no-stra identità, ci sentiamo minacciati nel nostro stesso essere, e paralizzati. Que-sta esigenza di identità è perfettamente legittima: l’individuo ha bisogno di sa-pere chi è e a quale gruppo appartiene. Se riceviamo una rivelazione brutale sulpassato, che ci obbliga a re-interpretare radicalmente l’immagine che ci siamocostruiti dei nostri famigliari e di noi stessi, non solo un segmento isolato delnostro essere viene alterato, ma la nostra stessa identità. Le offese involontariealla memoria non sono meno gravi. Chi di noi non ha mai conosciuto una per-sona colpita dal morbo di Alzheimer: perduta gran parte della propria memo-ria, essa ha smarrito anche la propria identità.

Non c’è niente da obiettare a questo bisogno di identità, anche se sarebbe piùgiusto concepirla come mutevole e multipla, piuttosto che unica e rigida. Ma gliesseri umani, come i gruppi, vivono in mezzo ad altri esseri umani, ad altri grup-pi, per questo non basta affermare che ciascuno ha diritto di esistere; bisognaanche considerare come questa difesa di sé influisce sull’esistenza degli altri. Gliatti che rafforzano l’identità dell’individuo, come del gruppo, possono essergliutili, ma non possiedono di per sé valore morale; soltanto quelli che giovano adaltri lo possiedono. La politica dell’identità non si confonde con la morale dellaalterità.

Osserviamo ora i ruoli riservati a ciò che potremmo definire la “memoria delmale”. Ricorderò anzitutto come gli avvenimenti che costituiscono il passato sipresentino a noi sotto forma di racconti, e come questi racconti adottino in ge-nere una forma simile.

Il racconto di un’azione non moralmente neutra può andare in direzione delbene o del male; e coinvolge almeno due protagonisti, chi fa l’azione e chi la su-bisce. Questo permette di distinguere, in ogni narrazione storica riguardante ivalori, quattro ruoli principali: posso essere stato il benefattore, o il beneficiariodell’azione, così come il criminale o la vittima. A prima vista, solo due di questiruoli sono chiaramente delineati sul piano dei valori – il benefattore e il crimi-nale – mentre gli altri due rimangono neutri in quanto passivi – il beneficiario ela vittima. In realtà questi ultimi due ruoli si trovano a essere, in virtù della rela-zione con i primi due, implicati moralmente: essere il beneficiario di un’azione èuna situazione molto meno gloriosa che esserne l’agente, poiché segna il mo-

Gli usi della memoriaTZVETAN TODOROVè stato direttore di ricercadel Centre national de la recherche scientifiqueed è attualmente direttoredel Centre de recherchesur les arts et le langage di Parigi

L’autore ha sviluppatoquesti temi nel suoMemoria del male,tentazione del bene.Inchiesta su un secolotragico, pubblicato in traduzione italiana da Garzanti.

Tzvetan Todorov

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Gli usi della memoria

mento della nostra impotenza; essere la vittima di un crimine è evidentementepiù rispettabile che esserne il responsabile. Si riconoscono così i due grandi tipidi costruzione storica: la narrazione eroica, che celebra il trionfo dei “miei”; e lanarrazione dal punto di vista delle vittime, che ne riporta la sofferenza.

Ci si potrebbe stupire di veder figurare qui le vittime accanto agli eroi – chetutti ammirano. Cosa ci sarebbe di piacevole nell’essere vittima? Niente, di cer-to. Ma se nessuno vuole essere vittima, in compenso sono molti quelli che pre-tendono di esserlo stati, senza esserlo più: aspirano allo status di vittima. La vitaprivata conosce bene questo scenario: un membro della famiglia si accaparra ilruolo di vittima perché così può attribuire a chi lo circonda il ruolo molto me-no invidiabile di colpevole. Essere stati vittime dà il diritto di lamentarsi, di pro-testare e di esigere; a meno di non rompere ogni legame con voi, gli altri sonocostretti a dare risposta alle vostre richieste. È più vantaggioso conservare il ruo-lo di vittima che ricevere una riparazione per l’offesa subita (posto che l’offesasia reale): invece di una soddisfazione puntuale, si conserva un privilegio per-manente, ci si garantisce l’attenzione e quindi il riconoscimento degli altri.

Ciò che è vero per gli individui, lo è ancor di più per i gruppi. Se si riesce astabilire in modo convincente che un certo gruppo è stato vittima di un’ingiu-stizia nel passato, questo gli apre nel presente un credito inesauribile. Poiché lasocietà riconosce che i gruppi, e non solo gli individui, hanno dei diritti, tantovale profittarne; ora, maggiore è stata l’offesa nel passato, maggiori saranno i di-ritti nel presente. Anziché dover lottare per ottenere un privilegio, lo si riceved’ufficio, per la sola appartenenza al gruppo prima svantaggiato.

Due di questi ruoli sono dunque favorevoli al soggetto, quelli dell’eroe bene-fattore e della vittima innocente, e due gli sono sfavorevoli, quelli del criminalee del beneficiario passivo. Se al momento dell’evocazione del passato del nostrogruppo noi lo identifichiamo con le figure positive, ci gratifichiamo direttamen-te attribuendoci il ruolo “buono”; lo stesso accade se, parallelamente, attribuia-mo agli altri il ruolo del beneficiario passivo dell’azione eroica o quello del cri-minale. Questa descrizione, tanto rituale quanto gentile, non produce evidente-mente alcun beneficio morale per chi la enunci.

Si sa che la storia è sempre statascritta dai vincitori, poiché il diritto discrivere la storia era uno dei privilegiaccordati dalla vittoria. Nel corso delsecolo appena concluso si è spesso chiesto che al posto, o almeno a fianco di que-sta storia dei vincitori, figuri anche quella delle vittime, dei sottomessi, dei vin-ti. Questa esigenza è più che legittima sul piano strettamente storico, poiché ciinvita a conoscere parti intere del passato prima ignorate. Ma sul piano etico ap-pellarsi alle vittime non ci conferisce meriti ulteriori.

In ogni narrazione storica riguardante i valori si possono distinguere quattro ruoli: benefattore,beneficiario, criminale, vittima

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dossier Memoria e conflitti

La sola opportunità che abbiamo di progredire sulla scala della morale con-sisterebbe nel riconoscere e combattere il male in noi stessi. Se oggi qualcuno di-chiara in pubblico di mettersi dalla parte giusta, di condannare come è d’uopo icattivi, di piangere i deboli e ammirare i forti, non aggiunge nulla al proprio va-lore: fare la morale agli altri non è mai stato un atto morale. La virtù dell’eroe,l’aureola della vittima non si estendono in realtà sui loro ammiratori, per quan-to questi possano sperarlo: non c’è niente di eroico nel fatto di ammirare un eroeuniversalmente riconosciuto. Al contrario: la buona coscienza neutralizza labuona azione. Godere del prestigio dei nostri progenitori-eroi o compatire lasofferenza dei nostri progenitori-vittime è normale e anzi lodevole per l’indivi-duo; ma non appena questi sentimenti siano espressi sulla pubblica piazza, essiacquistano un significato ulteriore: servono il nostro interesse, non la nostraeducazione morale. Se ci si ostina a invocare ritualmente i buoni, i cattivi e le vit-time del passato per servire gli interessi del proprio gruppo, si può sollecitarel’ammirazione dei propri membri, non quella della propria coscienza.

La pubblica evocazione del passato ci educa soltanto quando ci chiama per-sonalmente in causa mostrandoci che noi stessi (o coloro nei quali ci identifi-chiamo) non siamo sempre stati l’incarnazione del bene o della forza. Evocare ilfatto che i “miei” abbiano potuto a loro volta essere l’agente del male o il desti-natario passivo dell’altrui prodezza eroica, vedere questi altri come vittime o be-nefattori non apporta ora all’individuo alcun beneficio diretto; e tuttavia solo inquesto modo diventa possibile per lui impegnarsi in un esame critico della suaidentità collettiva. Egli mette così la felicità altrui e la propria perfezione al di so-pra dei propri interessi, e si impegna dunque in un’azione morale. Ricordarsi lepagine del passato in cui il nostro gruppo non sia né eroe puro né del resto pu-ra vittima sarebbe, per gli autori di questi racconti storici, un atto di valore mo-rale superiore. Non c’è beneficio morale possibile per il soggetto, se la sua evo-cazione del passato consiste nel collocarsi in un ruolo vantaggioso; ma solo se,al contrario, essa gli fa prendere coscienza delle debolezze o degli errori del suogruppo. La morale è disinteressata o non lo è.

Si potrebbe illustrare questa configurazione rievocando un episodio dellastoria recente: quello delle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasakie la controversia suscitata dal progetto di esposizione dell’Enola Gay, il bombar-diere di Hiroshima, allo Smithsonian Institute di Washington nel 1995. A se-conda che la storia sia raccontata dal punto di vista degli americani o dei giap-ponesi, essa è presentata e valorizzata in maniera completamente diversa, perquanto nessuno inventi fatti inesistenti o falsifichi le fonti: sono sufficienti la se-lezione e la combinazione dei dati iniziali.

Da parte americana, si fa di preferenza «un racconto eroico o trionfale, dovele bombe atomiche rappresentano il colpo finale contro un nemico aggressivo,

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Gli usi della memoria

fanatico e selvaggio» (J. Dower). Da parte giapponese, in compenso, predominaun “racconto di vittimizzazione” in cui «le bombe atomiche sono diventate ilsimbolo di una specie particolare di sofferenza – abbastanza simile all’olocaustoper gli ebrei». Anche al museo di Hiroshima ci si è compiaciuti nel ruolo esclu-sivo di vittima, senza sollevare la benché minima questione riguardante la re-sponsabilità del governo giapponese nell’avvio e nel proseguimento della guer-ra, o nei trattamenti disumani che i prigionieri di guerra e le popolazioni civilisottomesse subivano per mano dei giapponesi. Ciascuno sceglie il punto di vistache gli conviene: che ci si riconosca negli eroi o nelle vittime, negli aviatori chemettono fine alla seconda guerra mondiale o nella popolazione passiva che su-bisce l’inferno dell’annientamento atomico, si resta sempre dalla parte degli “in-nocenti” e dei “buoni”.

Quando si passa dalla sfera individuale e privata a quella dello spazio pub-blico, si scopre che l’azione politica viene a sua volta minacciata da ciò che si po-trebbe definire con la formula “la tentazione del bene”. A dire il vero, questa è in-finitamente più diffusa della “tentazione del male”, nonché, paradossalmente,più pericolosa. Basta esaminare la storia di una qualsiasi parte del mondo per ar-rendersi all’evidenza: le vittime dell’aspirazione al bene sono più numerose diquelle dell’aspirazione al male. Questa tentazione consiste nel percepire sé stes-si come un’incarnazione del bene e nel volerla imporre agli altri – non solo nel-la vita privata, ma anche nella sfera pubblica.

L’agente della Ceka o la Ss chemette a morte i “nemici” crede di con-tribuire al bene e di agire razional-mente. Come dice Rony Brauman,questi agisce «non tormentato da un’oscura sete del male ma spinto da un sen-so del dovere, un rispetto senza incrinature della legge e della gerarchia». L’au-tore del male si presenta sempre, ai propri occhi come a quelli del suo gruppo,come un combattente del bene. Anche Hitler, diventato ai nostri occhi l’incar-nazione del male assoluto, non l’ha mai rivendicato. Sulla strada per l’infernonon si trovano che buone intenzioni. In tale prospettiva, quella delle motivazio-ni psicologiche individuali, il nostro “male del secolo” non è poi così nuovo enon ha alcuna specificità; piuttosto sono nuove la struttura politica del totalita-rismo e la mentalità scientista a essa sottesa, nonché responsabili del fatto che lestesse disposizioni iniziali conducano a un risultato tanto più catastrofico. E, perquanto riguarda gli individui responsabili o meno del compimento del male, es-si non appartengono a specie differenti, ma gli uni hanno permesso ai loro sen-timenti di umanità di atrofizzarsi, gli altri no.

Se l’aspirazione al bene può così facilmente volgersi in realizzazione del ma-le, a quale principio di comportamento dobbiamo richiamarci? O sarebbe me-

Non c’è beneficio morale possibile per il soggetto,se la sua evocazione del passato consiste nel collocarsi in un ruolo vantaggioso

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dossier Memoria e conflitti

glio rinunciare a ogni principio e limitarci a fare quello che, di volta in volta, cipiace di più? Vorrei citare qui la via scelta da un grande scrittore sovietico del XXsecolo, Vassilij Grossman. Egli stesso ha subito il male del secolo sulla propriapelle: all’inizio dell’offensiva tedesca in Russia, nel 1941, dietro ai combattentiavanzano le unità mobili del massacro, il cui compito è di eliminare tutta la po-polazione ebraica. Tra i 20mila ebrei della città di Berdicev che saranno fucilatinell’agosto del 1941 si trova la madre stessa di Grossman. Il quale trascorre laguerra come corrispondente dal fronte. All’indomani della vittoria sulla Germa-nia, egli inizia un lavoro di analisi fondamentale che lo porta alla conclusioneche il suo proprio comandante, Stalin, non è poi migliore di Hitler. È per com-prendere più a fondo le conseguenze di una simile scoperta che scrive il roman-zo Vita e destino, nel quale tesse l’elogio della semplice bontà, del gesto in virtùdel quale, grazie alle nostre cure, un’altra persona diventa felice.

La pratica della bontà si contrappone alle dottrine del bene. Quest’ultimehanno tutte un difetto insopprimibile, ovvero di porre in cima ai valori un’a-strazione, non gli individui umani. Ora, gli uomini non compiono il male per ilmale, essi credono sempre di perseguire il bene; semplicemente, capita che stra-da facendo essi siano portati a far soffrire gli altri. È questa la tesi sviluppata inmaniera più circostanziata, in Vita e destino, dal personaggio di Ikonnikov, undetenuto in un campo di concentramento tedesco, che ha scritto un piccolo trat-tato sul tema. «Neppure Erode versava sangue in nome del male». Il persegui-mento del bene, proprio in quanto dimentica gli individui che dovrebbero es-serne i beneficiari, si confonde con la pratica del male. Le sofferenze degli uo-mini provengono più spesso dal perseguimento del bene che da quello del ma-le. «Là dove sorge l’alba del bene, bambini e vecchi muoiono, il sangue scorre».Questa regola si applica tanto alle antiche religioni quanto alle moderne dottri-ne di salvezza quali il comunismo. Pertanto val meglio rinunciare a ogni proget-to globale per sradicare il male dalla terra per farvi regnare il bene.

Grossman ha capito che bisogna mettere da parte le “grandi idee progressi-ste” e restare modesti: «Cominciamo dall’uomo, siamo attenti nei confronti del-l’uomo, quale che sia: vescovo, contadino, industriale milionario, forzato diSakhalin, cameriere in un ristorante». Questo richiamo al carattere irriducibiledell’individuo consente di schivare la deviazione dalla benevolenza verso il be-ne. I giusti non perseguono il bene ma praticano la bontà: aiutano un ferito an-che se è un nemico, nascondono gli ebrei perseguitati, trasmettono le lettere deidetenuti.

Torniamo al nostro punto di partenza. Certi avvenimenti del passato sonodunque tenuti in vita nel presente. Ma come distinguere tra usi e abusi, tra pra-tiche buone e cattive? La tesi che vorrei qui sostenere è la seguente: di per sé, esenza altre restrizioni di sorta, la memoria del passato non è né buona né catti-

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Gli usi della memoria

va. I benefici che si spera di trarne possono essere neutralizzati, e anzi deviati. Inche maniera? Attraverso l’uso del passato a nostro proprio vantaggio; ma ancheattraverso la forma che assumono le nostre reminiscenze, navigando costante-mente tra due scogli complementari: la sacralizzazione, ovvero isolamento radi-cale del ricordo, e la banalizzazione, ovvero assimilazione abusiva del presente alpassato.

La sacralizzazione è per principio una sottrazione, una delimitazione, un di-vieto di toccare (a volte anche tramite una parola, soprattutto se si tratta di unnome comune, quale “genocidio” o “totalitario”: la sofferenza estrema deve ri-manere indicibile). Tuttavia, che non si debba metterli in relazione con altri nondipende dal fatto che gli avvenimenti passati siano unici e che ciascuno di essiabbia un significato specifico – al contrario. La specificità non separa un avveni-mento dagli altri, lo collega a essi. Quanto più numerosi sono questi legami tan-to più il fatto diventa particolare (o singolare). Dio, invece, è sacro – ma assolu-to e onnipresente, non particolare, come un avvenimento che occupi un tempoe uno spazio unici.

Non è sufficiente tuttavia mettere in guardia contro gli effetti della sacraliz-zazione; altrettanto pericoloso è il processo inverso, la banalizzazione, dove gliavvenimenti presenti perdono ogni loro specificità, venendo assimilati a quellidel passato. Un male estremo come quello del XX secolo si trasforma allora fa-cilmente in un’arma retorica; ma ogni volta che ciò accade rinunciamo a ognirapporto con la sua identità e, in modo ben più grave, rischiamo di fraintende-re completamente il senso dei nuovi fatti.

Quando si usa il termine “fascista”come semplice sinonimo di “carogna”,si vanifica ogni lezione di Auschwitz.Il personaggio di Hitler, in particolare, è regolarmente servito in tutte le salse, losi ritrova dappertutto – e al contempo il genocidio degli ebrei è considerato uni-co. Nel 1956, i governi occidentali avevano già scoperto una reincarnazione diHitler: era Nasser, che aveva avuto la sfrontatezza di nazionalizzare il canale diSuez. Da allora le metamorfosi del dittatore defunto proliferarono.

Nella vita pubblica il ricordo del passato non è di per sé la sua propria giu-stificazione. Per esserci veramente utile, esso richiede, come la reminescenza per-sonale, un lavoro di trasformazione. Trasformazione che consiste nel passare dalcaso particolare a una massima generale, un principio di giustizia, un ideale po-litico, una regola morale – i quali devono essere legittimi in sé stessi, e non per-ché provengono da un ricordo che ci è caro. La singolarità del fatto non impe-disce l’universalità della lezione che se ne trae. La memoria del passato può es-serci utile se consente l’avvento della giustizia nel suo senso più generale, che vaben oltre l’ambito dei tribunali – il che vuol dire, oltretutto, che il particolare de-

Di per sé, e senza altre restrizioni di sorta,la memoria del passato non è né buona né cattiva

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dossier Memoria e conflitti

ve sottomettersi al precetto astratto. La giustizia è a questa condizione, e non èun caso che essa non sia applicata da coloro stessi che hanno subìto l’offesa: èappunto la de-individualizzazione, se così si può dire, che permette l’avventodella legge.

Vorrei illustrare queste tesi rievocando il destino di un individuo che, a mioavviso, ha avuto un rapporto esemplare con la memoria del passato: si tratta diGermaine Tillion. Il suo destino è abbastanza singolare. Dopo aver iniziato unacarriera da etnologa in Algeria negli anni Trenta, si unisce, sin dal 1940, alla re-sistenza contro l’occupazione tedesca. Arrestata due anni più tardi, passa un an-no in prigione, prima di essere mandata a Ravensbrück, il campo di concentra-mento tedesco riservato alle donne. Vi resta per due lunghi anni; ha la sventuradi vedervi morire sua madre, arrestata insieme a lei. Lascia il campo con la con-vinzione che gli ex deportati abbiano diritti non meno che doveri: mettere a pro-fitto la propria esperienza e il proprio prestigio per combattere tutte le nuovemanifestazioni del male – per forza di cose differenti e tuttavia confrontabili.Aspirare a essere giusti non significa considerarsi investiti della missione di do-ver fare la morale agli altri. Colui che si dà a questo afferma implicitamente cheegli stesso non ha niente da rimproverarsi; detto altrimenti, “il gruppo umanopeggiore è quello che si sente perfetto”. Per questa ragione Germaine Tillion hadeciso una volta per tutte di non dare lezioni né di morale né di politica; e nem-meno ama firmare a ogni piè sospinto petizioni o appelli.

Il giusto al quale aspira Germaine Tillion si riconduce in fin dei conti a un’i-dea: quella del valore irriducibile dell’individuo umano. Anche se si è costretti,per esigenze di conoscenza, a classificare le persone a seconda della loro origine,classe, professione, convinzione, quando si tratta di un giudizio si deve partiredal principio che l’individuo non è riducibile ad alcuna categoria. Germaine Til-lion scopre questa esigenza dopo la sua liberazione da Ravensbrück, percependodolorosamente la differenza tra ogni sofferenza e morte particolare e la loro in-tegrazione in una statistica. Ma questa unicità irriducibile non vale solo per lamorte, riguarda anche la vita; per questo Germaine Tillion relega in secondo pia-no tutte le altre classificazioni degli esseri umani a beneficio di una sola: gli indi-vidui di cui è possibile o non è possibile fidarsi. Già nella deportazione, dice, «cisi è resi conto che il valore personale non ha nulla a che vedere con una catego-ria. Ciò che importa è poter contare su qualcuno, ciò che io chiamo affidabilità».

Questo principio etico imparato al campo di prigionia Germaine Tillion loapplicherà poi in tutte le circostanze. Per questo non aderisce ad alcun partito,ad alcuna ideologia, se non a quella che la induce a curarsi degli individui piùche delle loro appartenenze politiche o nazionali. «Non posso non pensare chele Patrie, i Partiti, le cause sante non sono eterni. Eterna (o quasi) è la povera car-ne sofferente dell’umanità».

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Gli usi della memoria

Appena uscita da Ravensbrück, Germaine Tillion inizia a visitare le carceri –dove pure non marciscono più gli esponenti della resistenza. Quando, nel 1950,David Rousset, anche lui ex deportato, organizza una Commissione internazio-nale contro il regime concentrazionario, lei si unisce e partecipa alla giuria in-ternazionale riunita nel 1951 a Bruxelles. Nell’ambito della Commissione, pro-prio lei va in Algeria per indagare sulla tortura nelle carceri e nei campi france-si. Germaine Tillion aveva condotto il suo lavoro di etnologa nell’Aurès algeri-no. Quando, nel 1954, decide di dedicarsi di nuovo – ma in tutt’altra maniera –all’Algeria, non è solo motivata dal suo passato di etnologa ma anche dalla suaesperienza di deportata. Proprio come gli ex deportati hanno i titoli migliori, se-condo l’idea di Rousset, per indagare sui campi ancora in attività, gli ex paria deicampi hanno la loro da dire sulla miseria dei colonizzati.

Durante i suoi interventi in Algeria (e non solo quando indaga sulla torturanelle carceri), Germaine Tillion ha ben presente in mente la sua esperienza di re-sistente e di deportata. Se le esecuzioni dei combattenti algerini condannati amorte come “terroristi” la fanno soffrire fin nella carne, è perché dieci dei suoicompagni della rete del Musée de l’Homme sono stati fucilati nel febbraio 1942,nonostante le sue innumerevoli iniziative per salvarli (e che non hanno avuto al-tro risultato se non di compromettere lei stessa). Come era prevedibile, questoavvicinamento tra la gloriosa epopea della resistenza e le azioni “terroriste” de-gli indipendentisti algerini provoca all’epoca incomprensione, se non indigna-zione.

Non basta dunque ricordare; restaancora da vedere a che cosa andrà aservire il ricordo. La memoria dellepassate sconfitte può nutrire il pa-triottismo, quella delle vittorie il pacifismo; tutte e due insieme possono con-durre a nuove guerre. È noto come in Francia molti abbiano vissuto la secondaguerra mondiale e la guerra d’Algeria in una reciproca continuità. Nel 1945 mol-ti ex resistenti si arruolano nell’esercito francese; si ritrovano al comando di di-verse unità in Indocina nel 1953, in Algeria nel 1954. Hanno l’impressione dicontinuare la stessa battaglia: difendere la patria; sono pronti a sacrificare tuttoper la vittoria. Obbediscono a un dovere imposto dalla memoria: la patria nondeve essere di nuovo umiliata, saranno loro i più forti questa volta. In nome diuna guerra che giudicano giusta, gli ex resistenti diventati capi dei paracadutistiuccidono, torturano e bruciano i campi del nemico.

Da una stessa circostanza iniziale – la resistenza – Germaine Tillion trae unalezione affatto diversa rispetto ai resistenti convertiti alla caccia ai fellagha: siconcentra sugli individui più che sulle parole d’ordine collettive. Di conseguen-za le sue reazioni non saranno identiche nel corso di questi due momenti stori-

Quando si tratta di un giudizio si deve partire dal principio che l’individuo non è riducibile ad alcuna categoria

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dossier Memoria e conflitti

ci. Nel 1940 Germaine Tillion non esita un solo giorno, e nemmeno un istante,prima di lanciarsi nella resistenza: si trattava, dice, di «un nemico totalmenteinaccettabile». Nel 1957, confrontata con gli abitanti dell’Algeria, “pieds noirs” earabi musulmani o berberi, si sente «incapace di maledire o insultare una qual-sivoglia categoria», perché capisce gli uni e gli altri, compatisce insieme agli unie agli altri, compiange tutti coloro che sono esposti alla sofferenza. Invece del ne-mico “totalmente inaccettabile”, lei vede ora, come dice il titolo del suo libro de-dicato alla guerra d’Algeria, dei “nemici complementari”. E proprio per questo,nel corso della guerra d’Algeria, rifiuta di scegliere fra quelli che bisogna salva-re, come le raccomandano i soliti che hanno l’abitudine di dare lezioni. Si ac-contenta di proteggere e di salvare: «Ho deliberatamente salvato tutti quelli cheho potuto, algerini e francesi quali che fossero le loro opinioni». L’esercito fran-cese uccide in nome della difesa della patria, i combattenti algerini uccidono innome della libertà e dell’indipendenza; nondimeno, da una parte e dall’altra, sitratta di singoli esseri umani che muoiono.

Allo stesso modo questo principio si applica a coloro che, in passato, hannominacciato la vita di altri e che, nel presente, sono perseguiti dalla giustizia deitribunali: bisogna sempre “distinguere il crimine dal criminale”, essere senzapietà verso i delitti e avere pietà per chi li commette. Non si può davvero perdo-nare il male che ha distrutto definitivamente una vita che è insostituibile; ma sipuò provare compassione anche per coloro che lo hanno compiuto.

Germaine Tillion ci istruisce dunque su un uso esatto della memoria. Da unlato, evita la tentazione di sacralizzare il passato, ovvero di mantenere l’avveni-mento che ha conosciuto in uno splendido isolamento, di considerarlo incon-frontabile con quanto è accaduto altrove o in seguito, di percepire come un sa-crilegio ogni tentativo di istituire una relazione tra tale avvenimento e il resto delmondo. Il passato è chiamato a servire, non a essere coltivato per se stesso. Madall’altro lato, sfugge anche al difetto della banalizzazione: gli avvenimenti nonsi ripetono, non si può semplicemente proiettare i comportamenti del passatosul presente, senza interrogare i grandi principi da cui sempre i nostri passi do-vrebbero essere guidati, giustizia e compassione.

Affermare la propria identità è, per chiunque di noi, legittimo. Nessuno devearrossire per il fatto di preferire i “suoi” a degli sconosciuti. Se vostra madre ovostro figlio sono stati vittime della violenza, questi ricordi vi fanno soffrire piùche la morte di persone sconosciute, e ancor più vi impegnate a mantenerne vi-va la memoria. E tuttavia vi sono dignità e merito più grandi quando si passadalla propria sventura, o da quella dei propri cari, alla sventura degli altri.

La commemorazione rituale, una pratica sempre più frequente nelle nostresocietà, non è solo di scarsa utilità per l’educazione della popolazione quando cisi limiti a confermare nel passato l’immagine negativa degli altri o la propria im-

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magine positiva; essa contribuisce anche a sviare la nostra attenzione dalle ur-genze presenti, al tempo stesso procurandoci una buona coscienza a vil prezzo.La ripetizione ossessiva del “mai più” all’indomani della prima guerra mondia-le non ha affatto impedito che vi fosse la seconda. Il fatto che ci vengano oggiminuziosamente raccontate le passate sofferenze degli uni, la resistenza degli al-tri, forse ci rende vigili verso Hitler e Pétain, personaggi della seconda guerramondiale, ma ci aiuta anche a ignorare i pericoli attuali – poiché essi non mi-nacciano gli stessi soggetti e non assumono le stesse forme. Il passato funge al-lora da schermo calato davanti al presente, anziché condurre a esso, e diventauna scusa per l’inazione.

Al giorno d’oggi si indulge a direche la memoria ha diritti imprescritti-bili e che si deve ergersi a paladini del-la memoria. Ma occorre rendersi benconto che quando sentiamo questi appelli contro l’oblio o per il dovere della me-moria, non siamo per lo più invitati a un lavoro di recupero della memoria, diaccertamento e di interpretazione dei fatti del passato (niente e nessuno, in unpaese democratico, impedisce a chicchessia di compiere un tale lavoro), ma piut-tosto siamo sollecitati a difendere una selezione di fatti tra altri fatti, quella cheassicuri ai suoi protagonisti di mantenersi nel ruolo di eroi, di vittime o di mo-ralizzatori, in contrasto con ogni altra selezione passibile di attribuire loro altriruoli meno gratificanti. Per questa ragione bisogna evitare di “cadere nella trap-pola del dovere della memoria”, e dedicarsi invece al lavoro della memoria.

Se non si vuole che il passato ritorni, non è sufficiente farne una declama-zione. Chi non conosce la formula frusta del filosofo americano George San-tayana, secondo cui coloro che dimenticano il passato sono condannati a ripe-terlo? Ora, in questa forma generale, la massima è o falsa, o priva di senso. Il pas-sato storico, non diversamente dall’ordine naturale, non ha senso di per sé, nonsprigiona da solo alcun valore; senso e valore gli derivano dai soggetti umani chelo interrogano e lo giudicano. Lo stesso fatto può ricevere interpretazioni oppo-ste e servire da giustificazione a politiche reciprocamente opposte. Il passato po-trà contribuire tanto alla costituzione dell’identità, individuale o collettiva chesia, quanto alla formazione dei nostri valori, ideali, principi – purché noi accet-tiamo che questi ultimi siano sottoposti all’esame della ragione e alla prova del-la discussione, piuttosto che volerli imporre semplicemente perché sono i nostri.

Il buon uso della memoria è quello che serve una giusta causa, non quello chesi limita a riprodurre il passato.

La commemorazione rituale non è solo di scarsa utilità:essa contribuisce anche a sviare la nostra attenzionedalle urgenze presenti

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“All’armi, all’armi, la campana sòna,li turchi so’ sbarcati alla marina”;

“Li saracini adorano lo sole,e li turchi la luna co’ le stelle”.

Ecco due distici che ci richiamano immediatamente a una “realtà” ben cono-sciuta e al tempo stesso avvolta nelle brume indistinte della leggenda e del folk-lore. Il primo di essi, d’età e d’origine imprecisabile (lo trascrivo accettandone lakoinè romanesca), è celebre ed è diventato proverbiale, come il “Mamma li tur-chi!”: ed esistono eventi terribili, come il massacro di Otranto del 1480, che ci ri-cordano fino a che punto un pericolo sul quale oggi si scherza poteva esserdrammatico e presente; il secondo appartiene a una canzone napoletana del Sei-cento e ci rinvia al topos medievale del “moro” come “pagano”. Il “turco” (o il“barbaresco”) che sbarca infuriando sulle nostre coste difese dalle arcigne torrid’avvistamento; le molte feste e saghe popolari che ancor oggi si celebrano (oche oggi si sono riscoperte? o che si sono inventate di recente?) in ricordo di que-sto o di quell’episodio eroico o sanguinoso o commovente o favoloso1; e le sto-rie di corsari, di rinnegati, di belle rapite e di ricchi riscatti pretesi e talvolta pa-gati. Torquato Tasso si portò per sempre negli occhi le scene terribili del sac-cheggio barbaresco della sua Sorrento, quand’era ancora ragazzo; e memorie delgenere continuano ad animare i teatrini dei “pupi” siciliani.

Dal canto mio, vorrei avviare queste brevi pagine dedicate al rapporto fra sto-ria e memoria nel Mare nostrum dal “mio” Mediterraneo: dallo specchio di ma-re tirrenico, stretto tra costa versiliana e costa maremmana, tra Elba, arcipelagotoscano, Corsica e Sardegna; permettetemi di rievocare il suo splendore estivo,le sue burrasche di mezz’agosto, i suoi ferrigni riflessi invernali, i pini i lentischie gli oleandri del suo litorale; e le sue spiagge bionde, le sue cale a picco, le suetorri di guardia.

Cominciamo quindi proprio da qui: da quelle vecchie arcigne torri brune dipietra o rosse di mattoni; e dai ricordi, dalle leggende, magari da un paio di no-velle di Giovanni Boccaccio che sembrano romanzi d’avventura e che forse so-no invece più cronache di vita vissuta di quanto non si creda.

Quand’ero bambino e ragazzo, cinquanta-sessant’anni fa, io e i miei s’anda-va quasi tutte le estati un paio di settimane “in villeggiatura”, come allora si di-ceva, verso Castiglion della Pescaia, il bel porto della Maremma grossetana. E là,sotto le mura della vecchia fortezza, c’era ancora il piccolo antico cimitero “sa-

Europa e Islam nel MediterraneoFRANCO CARDINIè Professore ordinario di Storia Medievale pressol’Università degli Studi di Firenze

Franco Cardini

1 Cfr. R. PERRICONE (a cura di), Mori e cristiani nelle feste e negli spettacoli popolari, Palermo 2005.

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raceno”, con le sue stele di pietra rozzamente lavorate che culminavano nella ca-ratteristica protuberanza a forma di turbante. Lì, si raccontavano ancora le vec-chie storie delle incursioni dei corsari turchi e barbareschi, a segnalar l’avvici-narsi delle cui navi si ergevano appunto, su tutta la costa, le “torri della sarace-na”. Il gatto della nostra vicina di casa si chiamava Musetto, un grazioso nomeper un felino: ma la sua padrona ci ripeteva che c’era poco da scherzare, chequello era stato il nome d’un feroce pirata musulmano. E in effetti, il nome Mu-settus era l’ingentilita ma anche storpiata forma latina del malik di Denia e del-le Baleari, il laqab del quale, il nome onorifico, era al-Mujahid, “il combattentedel Jihad”, come ormai ai giorni d’oggi tutti sappiamo ma allora non sapeva qua-si nessuno. Mujahid aveva imperversato nel secondo decennio del secolo XI traLerici, la foce dell’Arno, la Sardegna e la Corsica, e c’erano volute le forze con-giunte di pisani e genovesi per aver ragione di lui. Anche le storie paurose delGatto Mammone, chissà quale razza di mostruoso felino, ci piacevano: ma nonsapevamo che quel nome era a sua volta la storpiatura di quello di un altro cor-saro arabo-barbaresco, al-Khaid Meimun. E si narrava, ancora, l’avvincente e unpo’ piccante storia della Bella Marsilia, che i pirati avevan preso prigioniera evenduta o regalata al sultano, e ch’era diventata potente e vendicativa regina. Piùtardi, mi sarei lasciato affascinare – insieme con l’Odissea e con i racconti di pe-ripezie oceaniche del marinaio Sinbad delle Mille e una Notte e con quelli di Sal-gari, di Conrad, di Melville e di Hemingway – dalle grandi novelle della “fortu-na di mare” secondo la Seconda Giornata del Decameron; la Quarta, dove il ra-vellese Landolfo Rufolo impoverito si fa corsaro, vien catturato dai genovesi, fanaufragio salvandosi a cavalcioni d’un forziere pieno di gioielli, approda a Corfùe da lì torna ricco a casa2; la Sesta, dove madama Beritola con i suoi figli navigada un’isola sconosciuta alla Lunigiana e di lì in Sicilia; la Settima, con le lunghee molteplici esperienze erotiche di Alatiel, la bellissima figlia del “soldano di Ba-bilonia”, cioè del Cairo, inviata sposa al “re del Garbo” e per quattro anni passa-ta di terra in terra, d’isola in isola, di naufragio in naufragio e di letto in letto daAlessandria a Maiorca alla Romània a Chio a Cipro fino a raggiungere il regnodel suo promesso sposo, riuscir a farsi credere illibata e convolare felicemente anozze con lui. Più tardi ancora, ed ero ormai studente universitario, la testimo-nianza scandalizzata del monaco benedettino Donizone – il quale scrivendo inversi, nell’XI secolo, il suo poema in onore della sua signora, Matilde duchessa-margravia di Toscana, riferiva compunto del corrotto porto di Pisa, sui moli delquale si potevano incontrare quegli infedeli dalla pelle scura provenienti dall’A-frica. Dove si sarebbe andati a finire continuando su quella strada?, si chiedevail buon religioso. A me invece, un millennio dopo di lui, l’idea di quei marinai-mercanti-pirati pisani, che assalivano i porti saraceni dell’Africa settentrionale,della Sicilia, della Siria e delle Baleari e che con le spoglie delle loro incursioni

2 Cfr. S. ROMAGNOLI, La novella di Landolfo Rufolo, Amalfi 1979; su queste e altre storie, AA.VV., La let-teratura del mare, Roma 2006.

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dedicavano alla gloria di Dio la loro cattedrale rivestita di antichi, splendidimarmi romani ed ellenistici provenienti da quei litorali lontani, procurò un’e-mozione talmente intensa da spingermi a dedicar a quelle cose un’intera vita distudi. A quella vocazione di quasi mezzo secolo fa sono rimasto, sia pur con mol-ti occasionali tradimenti, sostanzialmente fedele.

L’intero specchio del Mediterraneorisuona di queste storie: corsari turchie barbareschi, ma anche genovesi e ca-talani; schiavi cristiani, povera carne

battezzata che languiva nelle prigioni e remava sulle galee di Tangeri e di Algeri,poi della stessa Istanbul; schiavi musulmani, povera carne circoncisa che langui-va nelle prigioni e remava sulle galee di Genova e di Rodi, poi di Malta e di Li-vorno; e rinnegati e fuggiaschi, dall’una e dall’altra parte; e cupe arcigne torri diguardia, dalla Spagna all’Italia alla Turchia all’Egitto al Maghreb, a spiar l’arrivod’incursori che a sua volta tipologicamente in fondo si somigliavano, erano en-trambi pii predoni come da parte musulmana i mujahiddin, i combattentidell’“impegno gradito a Dio”, e da parte cristiana i Cavalieri di Rodi poi di Mal-ta o più tardi quelli di Santo Stefano, guerrieri-marinai stretti in un Ordine re-ligioso. Ma le spedizioni crociate, gli assalti ai porti e l’endemica reciproca “par-tita di giro” corsara, alla quale corrispondeva una fiorente attività di esazione edi pagamento di riscatti da entrambe le parti garantita da pietose confraternitee da austeri Ordini religiosi quali i Mercedari e i Trinitari, erano soltanto – fraXII e XVI secolo, e oltre – parte di un vivissimo contesto fatto di pellegrinaggi,di santuari marittimi ai quali ci si rivolgeva prima d’imbarcarsi per implorar unfelice ritorno e dopo aver messo di nuovo piede sulla terraferma per ringraziardello scansato pericolo, di attività portuali, cantieristiche e creditizie, di scambiculturali e diplomatici, di fortunose e fortunate carriere politiche ed economi-che consumate tra viaggi e pellegrinaggi e tra rinnegamenti e conversioni, di cir-colazione di merci d’uomini e d’idee.

Tuttavia, nelle mie memorie d’infanzia e d’adolescenza, quelle d’un bambinoe poi d’un ragazzo avido di ascoltare belle storie senza poi troppo curarsi, allo-ra, della differenza che corre tra stories e history, non esiste la registrazione di ri-cordi tramandati con certezza. Leggende, si diceva della Bella Marsilia e dei pi-rati barbareschi. Oggi, a percorrer di nuovo il litorale tirrenico segnato dalle tor-ri saracene, è abbastanza facile imbattersi in persone che assicurano come la me-moria e la paura di quegli antichi eventi si siano tramandate intatte da allora inpoi fino ad oggi, e che nessuno abbia dimenticato. E lo stesso accade dall’altraparte del mare, sulle coste palestinesi o tunisine, dove ancor oggi vegliano le tor-ri erette per avvistare le flotte di Malta e di Santo Stefano, e dove si assicura chela gente non abbia mai dimenticato, da allora in poi, e ancora ricordi le incur-

L’intero Mediterraneo risuona di storie di corsari,schiavi, rinnegati e fuggiaschi; e torri di guardia,a spiar l’arrivo d’incursori

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sioni dei crociati. Ma tra la mia adolescenza degli anni Cinquanta e oggi sonosuccesse molte cose: l’incrudelirsi della crisi israeliano-palestinese, la fondazio-ne della Repubblica Islamica dell’Iran, il diffondersi delle varie forme di fonda-mentalismo, le due guerre del Golfo, l’11 settembre 2001. E da allora le cose so-no appunto molto cambiate perchè, come diceva Lucien Febvre, l’uomo non ri-corda nulla: ricostruisce, sempre e di continuo. È questo il nostro effettivo e ne-cessario punto di partenza, nel rapporto fra storia e memoria.

Ma insomma, allora, che cos’è stato, che cosa continua a essere o magari piùpienamente può tornar ad essere, il nostro Mediterraneo? Anzitutto, potremmocominciar col rispondere esso è appunto un mediterraneo, il mediterraneo pereccellenza: il mare circondato da terre, più caldo e più protetto dalle intemperiedi quanto non siano gli oceani aperti; quel tipo appunto di mare sulle rive delquale la storia c’insegna che regolarmente nascono e prosperano le civiltà “su-periori”, intendendo tale aggettivo nel senso non certo razziale, bensì rigorosa-mente ed esclusivamente socioantropologico del termine: quelle che riescono asviluppare sistemi articolati e raffinati di governo degli uomini, di sviluppo isti-tuzionale, di equilibrio tra realtà politiche, economiche, produttive e religioso-culturali accompagnato da un adeguato immaginario, da un sistema coerente divalori in grado di fondare una visione identitaria del mondo e una tradizioneche le caratterizza e che al tempo stesso è in grado di vivere dinamicamente, diadeguarsi alle mutate circostanze storiche e di accogliere gli apporti di civiltà “al-tre”, di mondi diversi e lontani.

La vita sulla terra della specieumana, dell’homo sapiens, data comesappiamo da un tempo incerto e lon-tano, che oscilla tra i quattro e un mi-lione di anni fa, e gli studiosi non hanno al riguardo mai raggiunto un definiti-vo accordo; tuttavia la sua “storia” vera e propria, intesa come coscienza criticadel proprio passato, come capacità di organizzare e di articolare la memoria col-lettiva disciplinandola e tramandandone sistematicamente il ricordo, pertantodi affidare al futuro monumenti e documenti che non siano più semplici, casualie involontarie tracce del proprio passaggio sulla terra, quella storia non data a ol-tre seimila anni or sono circa, e non si è davvero criticamente sistematizzatatroppo prima di appena due millenni e mezzo or sono. Ebbene, le civiltà “supe-riori” – nel senso che abbiamo or ora assegnato a tale aggettivo – e quindi la sto-ria, che di esse è aspetto e funzione, nascono e prosperano regolarmente e, si di-rebbe, esclusivamente attorno alle sponde di un mare mediterraneo3, di unospecchio d’acque in comunicazione con l’oceano ma circondato da terre e ma-gari punteggiato da isole che permettano una praticamente costante navigazio-ne “a vista”. In ordine cronologico, il primo mare chiuso ad assistere alla nascita

3 Cfr. AA.VV., Los Mediterráneos. Visiones contrastadas/The Mediterraneans. Comparative Visions, in «Qua-derns de la Mediterrània», 2003, 4.

Ma allora cos’è stato, cosa continua a essere il nostro Mediterraneo? Anzitutto, esso è appunto un mediterraneo, il mediterraneo per eccellenza

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di queste civiltà è stato appunto, più o meno seimila anni fa, il nostro mediter-raneo, il “Mediterraneo” per eccellenza e per definizione. Altre civiltà superiorisono nate più tardi, in tempi diversi, incentrate tutte sugli altri “mediterranei”presenti nel pianeta, pochi in fondo: il sistema Mar Giallo-Mar del Giappone-Mar Cinese Orientale, il Mar Cinese Meridionale con l’annesso indonesiano, ilMare Arabico percorso dai monsoni con il suo parallelo Golfo del Bengala, il si-stema Golfo del Messico-Mar dei Caraibi-Mar delle Antille, il Mar Baltico.

E veniamo quindi al nostro caro Mediterraneo4: a un mare temperato, dalleacque tiepide, dal regime climatico variabile e capriccioso magari ma nel com-plesso clemente, dai venti e dalle correnti che i popoli rivieraschi da millenni co-noscono; un mare sviluppato prevalentemente nel senso della longitudine – trail quinto meridiano ovest e il quarantaduesimo est, ma che pure, dal suo estre-mo nord del Mar d’Azov al suo estremo sud del Golfo della Sirte, raggiunge an-che una buona estensione latitudinaria, compresa tra il quarantasettesimo e iltrentesimo parallelo nord. Un mare ben distinto in tre ampi bacini – l’occiden-tale, l’orientale e il Mar Nero – comunicanti tra loro attraverso due sistemi distretti: il Canale di Sicilia e lo Stretto di Messina, che pone in comunicazione ibacini occidentale e orientale; e il sistema Dardanelli-Mar di Marmara-Bosforo,che collega il Mediterraneo orientale al Mar Nero. Oltre alla grande porta stori-ca aperta verso l’Atlantico, le Colonne d’Ercole-Stretto di Gibilterra, il Mediter-raneo era collegato al mar Rosso e quindi all’Oceano Indiano anche prima chesi scavasse il Canale di Suez, dal momento che le merci provenienti via mare dal-la lontana Asia, cioè dal subcontinente indiano e dal sud-est indonesiano, risali-vano la Penisola Arabica lungo la cosiddetta Via dell’Incenso o delle Spezie sino

4 La bibliografia al riguardo è immensa: tuttavia è doveroso citare anzitutto il classico di F. BRAUDEL, Ci-viltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, vol. 2, Torino 19914 (edito nell’originale francese, ri-cordiamolo, nel 1949), sempre attuale per la famosa introduzione dedicata alla definizione e all’identitàdel Mediterraneo; si veda anche la bella sintesi di IDEM, Il Mediterraneo. Lo spazio, la storia, gli uomini,le tradizioni, trad. it., Milano 199910 (ma si veda anche, in opposizione alle tesi braudeliane, P. HORDEN- N. PURCELL, The Corrupting Sea. A Study of Mediterranean History, Oxford 2000); quindi P. MAT-VEJEVIC, Breviario mediterraneo, trad. it., Milano 20045; G. CHALIAND - J.-P. RAGEAU, Atlas historiquedu monde méditerranéen, Paris 1995. Inoltre: J. CARPENTIER - F. LEBRUN, Histoire de la Méditerranée,Paris 1998; R. RAGIONIERI - O. SCHMIDT DI FRIEDBERG, Culture e conflitti nel Mediterraneo, Trieste2003; S. BONO, Il “Mediterraneo” in un mondo globale, in A. BALDINETTI (a cura di), Società globale eAfrica musulmana. Aperture e resistenze, Reggio Calabria 2004, pp. 35-50; J.M. TOLEDO JORDÁN (ed.),Mediterráneo. Puentes para una nueva vecindad, Sevilla 2005; A. VANOLI, Le parole e il mare. Tre conside-razioni sull’immaginario politico mediterraneo, Torino 2005; M. HADHRI (éd.), Dialogue de civilisationset Mediterranée, Cetima 2005. Esistono anche molte riviste dedicate al Mare nostrum: a titolo d’esempioricordiamo «Civiltà del Mediterraneo», edita a Napoli presso Guida, e «Mediterranea», edita a Palermo acura della Cattedra di Storia Moderna dell’Università degli Studi; «Levante», la bella rivista dell’IstitutoItaliano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO) che naturalmente dedica al Mediterraneo un’attenzione del tut-to particolare. L’Associazione Meeting del Mediterraneo, con sede in Catania, dedicò nel 1985 il suo pri-mo «Quaderno» a La riscoperta del mediterraneo. Alla ricerca di una cultura dell’incontro. Il World Politi-cal Forum, il prestigioso sodalizio fondato da Mikhail Gorbachev, tenne nel 2005 a Granada un semina-rio internazionale sul tema Mediterranean. Meeting and Alliance of Civilizations i cui Atti sono stati editia cura di A. GRACHEV e C. BLENGINO per i tipi de L’Harmattan-Italia, Paris-Torino 2006. Il CNR de-dicò nel 1995 un Progetto strategico coordinato da A. Biagini a Il “sistema” mediterraneo: radici storiche eculturali, specificità nazionali. La realizzazione del programma della Société Internationale des Historiensde la Méditerranée (SIHMED), valorosissimamente coordinata da Salvatore Bono, segna in questo mo-mento il passo a causa di fondi di ricerca promessile e mai pervenuti.

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agli empori siriaci, o raggiungevano il delta del Nilo anche percorrendo via ter-ra le piste carovaniere che dai porti della costa occidentale del Mar Rosso, attra-verso il cosiddetto “Deserto orientale” a est del Nilo là dove, più o meno all’al-tezza delle antiche Tebe e Luxor – che difatti non a caso in quell’area vennerofondate – la distanza tra il fiume e il mare era più breve e la navigazione fluvia-le, a nord della prima Cateratta, agevole. A loro volta, agli empori siriani facevancapo gli itinerari terrestri della Via della Seta, che giungevano peraltro anche alGolfo Persico/Arabico e all’Oceano Indiano5 ma che, verso ovest, servivano at-traverso i diverticoli anatolico, armeno e curdo-azerbaigiano anche i porti me-ridionali del Mar Nero e del Mar Caspio: due mari “interni” questi ultimi sepa-rati sì dall’area caucasica, ma collegati attraverso i bassi corsi entrambi naviga-bili del Don e del Volga, che si avvicinano fino a restar separati solo per un cen-tinaio di chilometri, una distanza questa che si colmava con relativo agio ancheprima che nel 1952 venisse definitivamente aperto quel Canale del Don che ful’ultima grande opera del maresciallo Stalin ma che realizzava un sogno già cul-lato dal sultano Solimano il Magnifico.

Se il nesso Mar Nero-Mar Caspio“prolunga” longitudinariamente ilMediterraneo fin quasi al cinquanta-cinquesimo meridiano est, spingen-dolo pertanto addentro fin alla profonda Asia centrale, il sistema dei grandi fiu-mi russi permette la navigazione quasi ininterrotta dal Mar d’Azov al Golfo diFinlandia. Fu questa la strada della cosiddetta Via dell’Ambra, percorsa a parti-re da circa il X secolo dai navigatori-mercanti-predoni variaghi provenienti dal-la Svezia che, convertiti al cristianesimo e uniti se non proprio fusi con le cultu-re slave a ovest degli Urali, fondarono le fortezze-emporio-santuario della Rus’,giunsero sino a Costantinopoli dove i variaghi si alternavano ai normanni occi-dentali come scelta guardia imperiale e più tardi entrarono in un complesso rap-porto feudale-antagonistico con i tartari dell’Orda d’Oro. Lungo la Via della Se-ta correvano anche altre merci preziose: dalle pelli alla cera alla resina al miele allegname, che inondavano i mercati bizantini e musulmani, mentre dal sud alnord risaliva la corrente dei metalli preziosi, oro e argento, in parte frutto di raz-zie in parte provento di quei ricchi commerci. Un Mediterraneo dunque “allar-gato”, dal Corno d’Africa e dal Sudan fino al Baltico e alle steppe turkestane, co-me ben sapevano i viaggiatori e i geografi “arabi” – in realtà magari persiani oaltaici o maghrebini, comunque musulmani e arabofoni – che appunto almenodal X secolo, sfruttando il miglioramento climatico dell’emisfero boreale cheaveva sciolto i ghiacci, viaggiarono fino al Settentrione europeo. E qui il “conti-nente liquido” di braudeliana memoria si dilata fino a interessare, attraverso ilsistema della navigazione delle “acque interne”, tutta l’Europa, l’intera Asia occi-

5 Cfr. V. PIACENTINI FIORANI, Le radici antiche dell’oggi. Viaggio nella storia e nella cultura persiana: laVia della seta. I grandi imperi mercantili del Golfo Persico/Arabico fra il 10° e il 16° secolo d.C., in «Civiltàdel Mediterraneo», 6-7, dicembre 2004-giugno 2005, pp. 13-66.

Un Mediterraneo “allargato”, che si dilata a interessaretutta l’Europa, l’intera Asia occidentale, il continenteafricano fino al Niger e al Sudan

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dentale, il continente africano fino al Niger e al Sudan: questi gli immensi con-fini dell’irradiazione culturale e commerciale mediterranea e di un sistema me-diterraneocentrico che attrae e ridistribuisce la seta e le spezie dell’Asia estrema,l’oro, l’avorio e gli schiavi del Sudan, l’ambra proveniente dalle oscurità setten-trionali del Mare concretum, là dove secondo la scienza antica e meridionale ilghiaccio eterno si trasformava lentamente in cristallo.

“Continente liquido” appunto, secondo la bella e famosissima definizione co-niata da Fernand Braudel; ma, come tutti gli altri continenti, ben lungi dal co-noscere una sua sostanza unitaria e, al contrario, profondamente articolato. Erastata la compagine imperiale romana che, accogliendo la cultura della koinè dià-lektos ellenistica ed ereditando la sintesi ellenico-afroasiatica nata dalla travol-gente esperienza di Alessandro Magno, aveva potuto imprimere un sigillo uni-co, ancorché non uniforme – al contrario, profondamente rispettoso delle di-versità – alle molte civiltà e alle molte potenze che aveva sottomesso o con lequali era entrata in un rapporto segnato dalla propria imposizione egemonica.

Ma nei secoli tra il VII e il XVI – quindi il millennio entro il quale va com-preso il convenzionale “medioevo” entro i limiti cronologici proposti da HenriPirenne – il Mediterraneo è senza dubbio, com’è stato detto di altri soggetti geo-storici e geopolitici, “uno e divisibile”. Si tratta di ben altro che di un semplici-stico e astratto problema di periodizzazione. In realtà la celebre tesi pirennianad’una “rottura dell’unità mediterranea” dovuta all’irrompere dell’Islam sullascena del mondo e ai diretti e indiretti contraccolpi ch’esso aveva determinato èstata più volte, a più riprese e per più versi contestata: al punto che in moltepli-ci successive occasioni se n’è annunziato il superamento e l’accantonamento.Giovi qui il richiamare a titolo esemplificativo, quanto meno, la dimostrazione– merito di Maurice Lombard – di quanto limitata, contenuta e parziale fossestata quella “rottura”, sopravvenuta in realtà ad aggiungersi a una crisi demogra-fica e socioeconomica profonda che si era già avviata fin dal III-IV secolo d.C. eche aveva conosciuto la sua fase di depressione più profonda proprio tra VI e VIIsecolo, ragion per cui la straordinaria espansione dell’Islam che tra la metà diquel secolo e quella del successivo giunse alle Colonne d’Ercole e all’Indo Kush,al Caucaso e al Corno d’Africa, segnò non già il punto di rottura e di crisi d’unequilibrio civile e socioculturale, ma semmai, al contrario, proprio il momentod’avvio di una nuova e definitivamente positiva fase, che tra la fondazione deicaliffati abbaside a nord e umayyade ispanico a ovest nel mondo musulmano equella dell’impero carolingio e quindi ottoniano in quello cristiano occidentaleavrebbe presieduto al dialogo-duello cristiano-musulmano, la posta del qualesarebbe stata appunto l’egemonia sul Mediterraneo, con alterne fasi fino al defi-nitivo mutamento di scenario determinato dalle conseguenze della scoperta delNuovo Mondo, della stagione delle grandi navigazioni, scoperte e conquiste da

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parte d’una Europa che da allora si è irradiata al di là dei suoi confini geostoriciavviando la cosiddetta “economia-mondo”: la quale ha sostituito il precedentemillenario sistema di civiltà “a compartimenti stagni”, scarsamente ed episodi-camente collegate tra loro; e con la quale l’Occidente ha imposto al resto delmondo il sistema dello “scambio asimmetrico”, uno dei connotati di fondo del-la Modernità e della globalizzazione che ad essa è funzionale.

Gli eventi recentissimi e il successodelle tesi di Samuel P. Huntington edei suoi numerosi esegeti, continua-tori e seguaci ha imposto molte pub-blicisticamente e massmedialmente parlando inevitabili – per quanto obiettiva-mente e scientificamente parlando pleonastiche se non svianti e dannose – di-scussioni sulle “linee di faglia” tra Occidente e Islam. Dal canto mio, riprenden-do un’osservazione a sua volta alquanto banale già proposta nel sottotitolo di unlibro pubblicato alcuni anni or sono, ho avuto modo di richiamare più volte almalinteso, tanto grave quanto duro da eliminarsi, sottostante alla considerazio-ne diffusa dei rapporti tra Cristianità occidentale e mondo islamico non sololungo tutto il cosiddetto medioevo, ma altresì nei primi secoli dell’età moderna,quindi finché la civiltà europea ha potuto venir considerata nel suo complessoappunto una “Cristianità”; un malinteso che peraltro ha mutato in parte di con-notati concettuali, ma si è perpetuato anche nell’Europa investita dal “processodi laicizzazione” e – al di là del peraltro ormai divenuto a sua volta spinoso pro-blema delle sue “radici” – non più concepibile tout court come Cristianità, inquanto erede senza dubbio della cultura e in gran parte altresì dell’etica cristia-na, ma non più portatrice di un sistema civile, giuridico e sociale dipendente dauna fede, da una teologia e da una disciplina ecclesialmente controllabili. Unmalinteso, dicevo, consistente in sostanza nel corto circuito tra un immaginariodiffuso ma non corrispondente alla realtà storica e una realtà storica evidente eperentoria ma costantemente ignorata, o sottovalutata, o addirittura magariistericamente negata.

Da una parte, quindi, l’immaginario diffuso – sia pure attraverso mezzi e conforme d’intensità differenti – in area sia europea e occidentale sia musulmana:secondo il quale i rapporti tra le due civiltà, concepite e affrontate come diverse,si sono distesi in tredici-quattordici lunghi secoli di ostilità (guerre, crociate,jihad, conquiste espansive o coloniali, reciproche incursioni corsare, reciprochecampagne di riduzione in schiavitù e di pressione missionaria) punteggiati sol-tanto da più o meno lunghi periodi di pace o di sopravvenuta reciproca indiffe-renza. Dall’altra la realtà storicamente obiettiva, del tutto facile da verificarsi etanto più stranamente dunque negletta: stando alla quale questi più o menoestesi episodi di ostilità reciproca, fonte inesauribile di propaganda talora assur-

L’espansione dell’Islam tra VI e VII secolo segnò l’avvio del dialogo-duello cristiano-musulmano, la cui postasarebbe stata l’egemonia sul Mediterraneo

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ta al livello di testimonianza letteraria e artistica, nonché formidabile riserva digiacimenti folklorici, sono stati il costante per quanto non uniforme epifeno-meno che ha coperto con una sottile ancorché vivacemente colorata superficieuna sostanza profonda e intensa fatta di scambi economici e commerciali, dirapporti diplomatici, di reciproche esperienze scientifiche, intellettuali e tecno-logiche, di circolazione d’uomini e di merci, inclusa quella “circolazione” del tut-to particolare che è il meccanismo della conversione, interfaccia del quale è il fe-nomeno dei “rinnegati” e tutto l’ambiguo mondo delle spie e dei border fighters.

Naturalmente, come sempre accade nella storia, questa circolarità-reciprocitànon è mai stata né può essere stata o essere suscettibile di divenire del tutto equi-librata e paritaria: in un mondo d’intensa interinfluenza reciproca, v’è sempreuna parte che in prevalenza cede e una che in prevalenza accoglie: la bilancia so-cioculturale, e ancor più quella dei cosiddetti “valori immateriali”, è come quel-la commerciale, mai cioè in perfetto equilibrio. Ed è anche ovvio che le sue oscil-lazioni accompagnino e seguano quelle dell’egemonia nei rapporti di forza, la-sciando in questa sede da parte il giudizio sul fatto se tale egemonia sia o menocausante e determinante rispetto ad altre forme di superiorità o di prevalenza, einsomma badando a non cadere nel tranello del post hoc, ergo propter hoc pursenza nasconderci che quel dato di fatto, quando è davvero tale, ha dal canto suoun non certo inaggirabile significato.

Nessun dubbio quindi sul fatto che i rapporti cristiano-musulmani ed euro-afroasiatici nel Mediterraneo, tra VII e XVI secolo, siano passati attraverso suc-cessive fasi di quelle che Arnold Toynbee non avrebbe avuto esitazioni nel defi-nir di “proposta” e di “risposta”: la grande espansione islamica dei secoli VII-X,accompagnata alle successive ridefinizioni confessionali e califfali e alla straordi-naria capacità di rielaborazione, metabolizzazione, sintesi e adattamento da par-te islamica delle forme civili, artistiche, filosofiche e culturali incontrate e maga-ri anche sottomesse; la crisi e la battuta d’arresto, il momento di ristagno nellesocietà musulmane tra X e XI secolo, coeva al contrario all’avviarsi della lungafase dell’espansione demografica, socioeconomica, commerciale, coloniale e tec-nologica dell’Occidente europeo6 egemonizzato dagli esiti culturali della “rivo-luzione pontificia romana”, della nascita della dialettica e del sistema di pensie-ro scolastico, della “rivoluzione commerciale” del Duecento con quello che Ro-berto Sabatino Lopez ha definito il “ritorno dell’Occidente alla coniazione au-rea”, esito della raggiunta egemonia economica7. Quindi, dalla prima metà del

6 Va comunque sottolineato con forza che la nozione moderna di Occidente – un termine che aveva già,evidentemente, una lunga storia – nasce tra Sette e Ottocento «come una proiezione dello spazio euro-peo nella direzione dell’ “emisfero occidentale” americano. Sia per Hegel che per Carl Schmitt l’Occi-dente tende a identificarsi come il “nuovo mondo” che incorpora e porta a compimento la modernitàeuropea, che ne universalizza i valori e le tensioni interne ... È merito di Carl Schmitt l’aver tracciato, inNomos della Terra, la genesi dell’uso politico globale – atlantico e oceanico – della nozione di Occiden-te», D. ZOLO, recensione su «Il Manifesto», 15 ottobre 2004, a G. PRETEROSSI, L’Occidente contro sestesso, Roma-Bari 2004; Preterossi è, fra l’altro, fortemente critico nei confronti della contrapposizioneneocon tra “vecchia Europa” e “altro Occidente” che sarebbe costituito dalla giovane, forte e bellicosaAmerica.

7 Anche per il basso medioevo e l’inizio dell’età moderna, la bibliografia è molto vasta. Ci limitiamo per-tanto ad alcuni lavori di sintesi recente: S. GENSINI (a cura di), Europa e Mediterraneo tra medioevo e

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Trecento, una nuova crisi avviata e annunziata da un mutamento climatico diportata emisferica e culminata sia nella pandemia del 1346-1352, sia negli esitiimmediati e remoti del frammentarsi della pax Mongolica e nel parallelo chiu-dersi dell’Asia profonda a quella penetrazione religiosa ed economico-commer-ciale che gli europei avevano inaugurato nella seconda metà del secolo prece-dente. Infine, il sorgere e il dilagare in tutto il bacino orientale del Mediterraneodella nuova potenza unificatrice, l’ottomana, determinava la necessità di un rias-setto generale degli equilibri mediterranei e di un loro riorientamento sul nuo-vo asse di Costantinopoli divenuta Istanbul e della potenza egemonica navale ca-talano-aragonese divenuta parte d’una nuova compagine avviata nel secolo XVIa fornire una componente essenziale nel dominio degli oceani e nell’elaborazio-ne dello stato assoluto moderno. All’interno di questa nuova e irreversibile svol-ta, centro non solo simbolico della quale è la scoperta del Nuovo Mondo e lospostamento dell’asse dei traffici e degli equilibri a ovest, al di fuori ormai del-l’area geostorica mediterranea, si situa la casuale forse, certamente significativasincronicità della rottura dell’unità confessionale europea e dell’affermarsi defi-nitivo dell’impero sultaniale ottomano attraverso la fagocitazione di quello ma-melucco d’Egitto, eventi entrambi del secondo decennio del Cinquecento. Ne sa-rebbe emersa una realtà nuova e diversa, caratterizzata da un decentramento diquel grande mare interno che per millenni era stato centro e fulcro della dina-mica della civiltà.

Ma uno degli eventi centrali e qua-lificanti di quel periodo che conven-zionalmente definiamo medioevo, egli esiti del quale ancora perdurano, èstato quello degli immensi “prestiti” scientifici e culturali che – attraverso i tra-miti iberico e, in modo meno intenso, anche siro-anatolico-egiziano e siciliano– hanno caratterizzato i secoli XII e XIII, allorché – in piena età “delle crociate”,che secondo qualche incauto osservatore contemporaneo avrebbero dovuto al-lontanare e contrapporre Cristianità e Islam – la scienza ellenistica antica, ac-cresciuta e corroborata da massicci apporti iranici, indiani e cinesi, dall’Islamper il tramite delle traduzioni dall’arabo e dall’ebraico passò al mondo latino,non solo sostanziando di sé quel che Charles Homer Haskins ha definito il “Ri-nascimento del XII secolo”, ma anche e soprattutto consentendo all’Europa, gra-zie all’importanza qualitativa e quantitativa degli apporti nei mondi della logi-ca, della matematica, della scienza della costruzione, dell’astrologia-astronomia,dell’alchimia-chimica, della fisiologia e della medicina, quel decollo scientifico,intellettuale e tecnologico che ha dischiuso le porte della Modernità, figlia diret-ta quindi dell’incontro tra Cristianità, scienza ebraica della diaspora e Islam an-

prima età moderna: l’osservatorio italiano, Pisa 1992; M. MOLLAT DU JOURDIN, L’Europa e il mare,trad. it., Roma-Bari 1993; G. AIRALDI (a cura di), Le vie del Mediterraneo. Idee, uomini, oggetti (secoliXI-XVI), Genova 1994; M. TANGHERONI, Commercio e navigazione nel medioevo, Roma-Bari 1996; P.MATVEJEVIC, La Méditerranée et l’Europe, Paris 1998; M. GUIDETTI, Il Mediterraneo e la formazionedei popoli europei, Milano 2000; D. ABULAFIA, I regni del Mediterraneo occidentale dal 1200 al 1500,trad. it., Roma-Bari 2001; J. AURELL (ed.), El Mediterráneo medieval y renacentista, espacio de mercadosy de culturas, Pamplona 2001; P. HATEM AKKARI (éd.). La Mediterranée médiévale, Paris 2002. Natu-ralmente alcuni di questi studi sono importanti anche per l’età successiva al debutto dell’età moderna.

Dalla scoperta del Nuovo Mondo, la rottura dell’unitàconfessionale europea e l’affermazione dell’imperoottomano è emerso un decentramento del Mediterraneo

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cor prima di esserlo della rivoluzione umanistico-rinascimentale del XV-XVI se-colo.

Uno studioso illustre come Rémi Brague8 ha senza dubbio avuto buon giocoe ottime ragioni per ricordare a tutti noi che lo sviluppo dell’Europa moderna èstato larghissimamente e magari perfino essenzialmente amediterraneo, extra-mediterraneo e magari antimediterraneo per eccellenza: ma ciò non diminuisceper nulla il peso e il valore di quelle radici, di quei presupposti, nel Mare nostrumprofondamente radicati. Ancora, il Brague ci ha richiamati al dato innegabileche i “prestiti” non sono veri e propri “scambi”, quando nell’àmbito della loro di-namica manca o è carente la reciprocità: e che non possono pertanto esser néconfusi con il “dialogo”, né esser presentati come un segno della presenza di es-so. Ciò è senza dubbio vero nella misura in cui si accetta la prospettiva dalla qua-le il Brague si pone, ch’è peraltro quella esclusiva – e restrittiva – dello studiosodelle discipline filosofiche e scientifiche. Un contributo, quello suo e delle sue di-scipline, fondamentale e necessario, anzi indispensabile: non tuttavia sufficien-te, in quanto la presenza reale d’un lungo, profondo e proficuo dialogo tra le dif-ferenti sponde e le diverse culture compresenti nel Mediterraneo emerge evi-dente e perentoria quando si collocano i “prestiti” filosofici e scientifici dell’I-slam alla Cristianità occidentale nel contesto degli scambi – quelli sì, veramentee intensamente tali – economici, commerciali, finanziari, tecnologici (dalla mec-canica alla nautica alla cartografia alle pratiche militari), infine anche diploma-tici, politici e perfino religiosi, come dimostra la tensione problematica di pen-

8 Su «Vita e Pensiero», 6, 2005, lo studioso ha espresso un giudizio molto rigorosamente limitativo sul-l’importanza del Mediterraneo come luogo d’incontro e di dialogo tra culture, ch’egli tende a minimiz-zare per il passato mentre si dimostra cautamente e ipoteticamente aperto alla possibilità che tale area –il “continente liquido” di Fernand Braudel – possa divenire area di dialogo per il futuro. Il giudizio delBrague assume toni taglienti, qua e là addirittura sprezzanti: si parla di «leggende, per lo più rosee», di«slogan tanto in voga presso le belle anime mediatiche» e via discorrendo. Un linguaggio del genere, perla verità, sorprende in uno studioso, docente alla Sorbonne: un tono così risentitamente polemico sem-bra spiegarsi alla luce più d’una scelta politica – nonostante appaia oggi, se non maggioritaria, quantomeno molto forte e diffusa tanto negli Stati Uniti d’America quanto in Europa – che non dei risultati diuna pacata ricerca scientifica. Le conclusioni di Brague, certo, appaiono in fondo condivisibili: il dialo-go fra civiltà «...non è compito del passato ma del futuro. È un fattore che deriva non dalla memoria madalla volontà». Ciò non significa che sia tuttavia vero che noi “non abbiamo modelli”. Essi ci sono, ecco-me. Certo, possono scomparire dalla memoria se si accetta il metodo “alla Brague”: non parlarne, igno-rarli, fingere che non ci siano mai stati. In sintesi, dopo aver lanciato alcuni strali alla cultura letteraria emediatica che, da Camus a Trigano, avrebbe elaborato la leggenda dello “spirito mediterraneo”, il Bragues’impegna nel sottolineare qualcosa che, francamente, era ben nota: che cioè, se è vero che la ripresa deicommerci e degli scambi dopo la – del resto mai totale – stasi dei secoli VI-VIII partì dal Mediterraneo,essa fu soltanto l’origine d’un’espansione verso gli oceani e i continenti che ebbe altre direzioni: il MarNero e le pianure russe, l’Atlantico, il Pacifico. E, d’altro canto, quel vigoroso scambio culturale e intel-lettuale che nel corso dei secoli XII-XIII avrebbe ricondotto in Europa (partendo dall’epicentro siculo e,soprattutto, iberico) il sapere aristotelico consentendo la fondazione della rivoluzionaria cultura scola-stica, alla quale avrebbe aggiunto i portati delle civiltà persiana, indiana, addirittura cinese (l’astrolo-gia/astronomia, l’alchimia/chimica, la medicina), fino alla davvero sconvolgente adozione dei numeri in-diani e dello zero, che rivoluzionò la matematica non meno che l’economia e la scienza delle finanze, tut-to ciò è sbrigativamente ridotto dal Brague alla dimensione di un equivoco lessicale: non si sarebbe trat-tato di “scambi”, ma “prestiti”, dal momento che essi seguirono un itinerario quasi esclusivamente dalsud e dall’est verso il nord e l’ovest, vale a dire dal mondo musulmano a quello europeo, accompagnatoperaltro da un’ignoranza e un’indifferenza quasi totale dei musulmani per le culture e le genti dell’Eu-ropa centrale e settentrionale.

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satori quali Raimondo Lullo e Nicola Cusano – entrambi peraltro sostenitoridella crociata e dei suoi ideali – tesi appunto a edificare ponti di comprensionee di fratellanza con l’Islam, a proporre itinerari futuri fondati sul rispetto e sul-la comprensione reciproca. Una dimensione che non sarebbe maturata, e cheoggi da tante parti non si considererebbe così necessaria e perentoria, se non sifondasse su alcuni grandi esempi, alcuni indimenticabili modelli.

Alla base e al centro dell’attrazione reciproca, dell’interesse reciproco, vi èdavvero quel grande secolo che sta a cavallo tra XII e XIII e che reca alcuni no-mi emblematici. Anzitutto Yussuf ibn Ayyub Salah ed-Din, il principe curdo emusulmano che l’Occidente, tra il Boccaccio e il Lessing, ha scelto a simbolostesso della più occidentale tra le virtù, la tolleranza; quindi Francesco d’Assisi eil sultano ayyubide al-Malik al-Kamil, con il loro misterioso e commovente in-contro; e ancora lo stesso al-Kamil, pochi anni dopo, con la soluzione del pro-blema dei Luoghi Santi avviata insieme con l’imperatore Federico II anche sedurata purtroppo solo pochi anni; e quindi Federico II stesso, nei lunghi decen-ni del suo saggio e costante lavoro di organizzazione dello scambio d’informa-zioni e della ricerca scientifica tra mondo cristiano e mondo musulmano; eAlfonso X re di Castiglia, Alfonso detto dagli spagnoli el Sabio, “il sapiente”, allacorte del quale il nostro Brunetto Latini ha forse conosciuto quel Kitab al-Miraj,“il Libro della Scala” che, recato in traduzione latina a Firenze, ha contribuito al-l’ispirazione del capolavoro di colui che, del Latini, è stato il più grande e genia-le allievo.

Vero è tuttavia che, dal Quattrocento al Settecento, l’equilibrio mediterraneofu turbato e costretto a ridefinirsi dalla presenza minacciosa dell’impero sulta-niale ottomano e dei suoi turbolenti vassalli, i corsari barbareschi. Ma, anchequi, bisogna intenderci. Il Turco, per l’Europa cristiana, non era soltanto un in-cubo; o meglio, non era necessariamente tale per una gran parte d’Europa9. Dal-la Francia all’Inghilterra al mondo protestante, non mancò fra Cinque e Seicen-to chi ad esso guardava, magari di nascosto, come a un alleato quanto meno po-tenziale, a un “nemico del nemico”. V’era inoltre – specie sulle coste del “conti-nente liquido”, il Mediterraneo – chi da un lato si sentiva particolarmente espo-sto alla minaccia dei turchi o dei loro sudditi-alleati, i corsari barbareschi, madall’altro guardava ad essa come a un male minore o addirittura a una possibilechance. I poveri, i deboli, i sudditi privi di beni di fortuna e di risorse nel tropporigido sistema politico e istituzionale della Cristianità – che si sfondava, in par-te, solo col danaro – guardavano al mondo dell’infedele come a un ambiente nelquale si poteva nascere pescatori calabresi o montanari albanesi e – se si evitavail remo o ci si liberava in qualche modo dai banchi delle galee – diventare viziro ammiraglio. Qualcuno – qualche eretico, qualche perdente rancoroso o so-gnatore, qualche diseredato – pare arrivasse fino a sperarla, una vittoria degli in-

9 Cfr. G. MOTTA (a cura di), I turchi, il Mediterraneo e l’Europa, Milano 1998.

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fedeli sulla sua ingrata e ingiusta patria cristiana10. In Europa si andava sul rogose si manifestava un troppo libero spirito religioso; ma il crudele Turco, che purimpalava e scuoiava, lasciava liberi di adorare il Dio di Abramo come si volesse– quando si appartenesse ai “popoli del Libro” – col semplice atto di sottomis-sione e il pagamento d’una mite imposta. Esser catturati dalle navi di Malta o diSanto Stefano durante un’incursione corsara cristiana sulle coste del dar al-Islamportava ordinariamente a remare nelle galee o a languire nei sotterranei di Li-vorno o di Tolone; esser catturati invece da un vascello battente mezzaluna po-teva sì condurre ad analoga sorte, ma – se si era abbastanza giovani e belli, o in-traprendenti, o tanto fortunati da imbattersi in un padrone misericordioso e au-terevole – era possibile salir i gradini d’una ripida scala sociale magari fin allaSublime Porta, fino ai piedi del Gran Signore.

Esser fatti prigionieri dai musul-mani era un incidente di percorso chepoteva capitare spesso, se si apparte-neva a una popolazione rivierasca op-pure se si faceva il mercante o si anda-

va in pellegrinaggio, o se si stava onorando il voto crociato: nella Cristianità era-no nati Ordini religiosi speciali, come i Trinitari e i Mercedari, per riscattare ifratelli in Cristo ridotti in ceppi11.

Sono molte, le storie mediterranee di ragazzi, di ragazze, d’uomini e di don-ne catturati dai turchi o dai barbareschi12. Molte le storie che conosciamo: anco-ra di più quelle che resteranno per sempre ignote. Storie tragiche molto spesso,ma talvolta avventure a lieto fine. A volte, la realtà soverchiava i toni del roman-zo: altre, provocava memorie scritte o diari-romanzo magari “falsi” sul pianodell’evento specifico che narravano, ma costruiti sulla base di autentiche testi-monianze. Come nel caso del medico segoviano Andrés Laguna, ben noto per isuoi lavori scientifici, autore presunto13 d’un Viaje de Turquía edito nel 1557 chenarra – pseudoautobiograficamente – le avventure di Pedro de Urdimalas, cat-turato nell’agosto del 1552 al largo dell’isola di Ponza e costretto alle dure espe-rienze del galeotto e dello schiavo a Costantinopoli prima di liberarsene primafingendosi medico – grazie al provvidenziale aiuto di alcuni libri – e curando co-sì prima il pasha suo padrone e poi la stessa sultana14. Ma se un romanzo potevaservir da testimonianza indiretta per avventure più mirabolanti dei racconti let-terari che le richiamavano, poteva accadere anche il contrario: dietro la narra-

10 Su un “lamento anonimo” veneziano, composto verso il 1570, nel quale due poveri pescatori esasperatidal malgoverno della repubblica di Venezia auspicano una vittoria del sultano turco, cfr. J. DELUMEAU,La paura in Occidente (secoli XIV-XVIII), trad. it., Torino 1978, pp. 406-407.

11 G. CIPOLLONE, Cristianità-Islam. Cattività e liberazione in nome di Dio, Roma 1996.12 A proposito di viaggi per mare, corsari, battaglie, schiavitù ecc., cfr. almeno: E. GIANNETTI - L. TOSI

(a cura di), Turchi e barbareschi in Adriatico, Ortona 1998; G. FIUME (a cura di), La schiavitù nel Medi-terraneo, in «Quaderni storici», 36, 2001, 2; L. LO BASSO, A vela e a remi. Navigazione, guerra e schia-vitù nel Mediterraneo (secc. XVI-XVIII), Ventimiglia 2004; IDEM, Uomini da remo. Galee e galeotti delMediterraneo in età moderna, Milano 2004.

13 La tesi dell’attribuzione è stata autorevolissimamente sostenuta da M. BATAILLON, Le dr. Laguna, au-teur d’un “Voyage en Turquie”, Paris 1958.

14 Cfr. A. LAGUNA (a cura di C. ACUTIS), Avventure di uno schiavo dei turchi, Milano 1983.

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Il Turco, per l’Europa cristiana, non era soltanto un incubo: nel mondo protestante non mancò chi ad esso guardava come a un alleato potenziale,“nemico del nemico”

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zione letteraria, poteva celarsi un’esperienza reale. Come accadde al più celebreschiavo dei barbareschi, quel Miguel de Cervantes che nel 1569 – per ragioni cheignoriamo – si era trasferito in Italia, si era arruolato come soldato semplice inun tercio di Sua Maestà Cattolica, aveva partecipato nel ‘71 alla battaglia di Le-panto dov’era rimasto mutilato e nel ‘75 (aveva allora ventott’anni) fu catturatodurante il viaggio di ritorno da Napoli in Spagna dai pirati barbareschi che lotrascinarono in catene ad Algeri. Dopo aver tentato più volte inutilmente la fu-ga, fu liberato in seguito a riscatto nel 158015. Della sua esperienza egli avrebbelasciato una toccante testimonianza nei capitoli 39-41 del Don Chisciotte, la “no-vella” del cautivo. Come si era comportato, in tale occasione? Certo non si con-vertì all’Islam, non divenne “rinnegato”, come invece accadde a molti di quelliche lungo l’arco d’oltre un millennio – tra VII e XIX secolo – condivisero la suaavventura. Tuttavia, nell’ansietà con cui prima di andarsene da Algeri raccolsetestimonianze per scagionarsi dalle accuse che gli provenivano dall’ambiguo emalevolo ecclesiastico Juan Blanco de Paz – aver avuto rapporti amichevoli coni musulmani, esser colpevole di comportamenti sessuali “viziosi” – si capiscenon solo che queste cose erano abituali, ma anche ch’era molto verosimile ri-guardassero anche lui.

Ma l’aspetto più straordinario dell’avventura del cautivo Miguel de Cervan-tes fu il suo rapporto col bey di Algeri, Hassan Pasha, al quale era stato presen-tato in catene dopo il suo ultimo tentativo di fuga e che stranamente non l’ave-va fatto né impalare né frustare ma l’aveva anzi tenuto presso di sé. Il punto èche la posizione del galeotto-schiavo (insomma del prigioniero) cristiano equella del rinnegato, sovente l’una conseguente all’altra, non si possono consi-derare tuttavia opposte o alternative: esiste anzi fra esse non solo una frequentecontinuità fenomenologica, ma anche una sorta di affinità. Nessuno forerà maiil velo del silenzio antico di quattro secoli che ci separa del mistero della reci-proca simpatia fra Miguel e Hassan16. Il fatto è tuttavia che il bey era un rinne-gato “veneziano”, anzi più precisamente dalmata: e come lui erano gente che s’e-ra “fatta turca”17 i precedenti governatori di Algeri, dallo stesso Barbarossa al sar-do Hassan Agà, ad Hassan “còrso”, fino al calabrese Eudj Ali che finì grande am-miraglio della flotta sultaniale18; e molti erano, ancora, i rinnegati finiti rais del-la flotta e caid governatori dei territori interni. Ad Algeri, quelli che avevano fat-to più carriera erano genovesi e veneziani; ma c’erano anche calabresi, siciliani,napoletani, albanesi, greci, francesi e qualche ebreo. Pare che il fenomeno dei

15 Cfr. le finissime pagine di R. ROSSI, Sulle tracce di Cervantes, Roma 1997; per il contesto politico, di-plomatico e quotidiano della prigionia, E. SOLA - J.F. DE LA PEÑA, Cervantes y la Barbería, Madrid1995.

16 Comunque, Miguel de Cervantes nelle sue conoscenze relative al mondo musulmano andava oltre gliorizzonti andalusi e maghrebini ch’erano propri ordinariamente delle persone di cultura del suo paese.La traduzione dell’opera del Giovio, nel 1543, aveva familiarizzato il mondo colto iberico anche alla sto-ria e alla civiltà ottomana: questo il background dell’opera teatrale tra fine Cinquecento e primo Seicen-to dedicata da Lope de Vega a Othman, il fondatore della dinastia che da lui prese nome, e recentemen-te scoperta, cfr. LOPE DE VEGA (L. BECCARIA ed.), El Otomano famoso, Barcelona 1996.

17 Cfr. L. ROSTAGNO, Mi faccio turco, Roma 1983.18 B. BENNASSAR - L. BENNASSAR, I cristiani di Allah, trad. it., Milano 1991, p. 359 ss. e 477-484, l’e-

lenco degli italiani passati all’Islam secondo le fonti dell’Inquisizione (1560-1700).

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rinnegati divenisse meno massiccio nel XVII secolo, forse perché globalmentediminuirono anche i cristiani presi prigionieri da turchi e barbareschi a causadella già incipiente decadenza della talassocrazia musulmana (ma anche, global-mente, dei traffici) nel Mediterraneo: tuttavia resta celebre il ligure Osta Mora-to, che divenne bey di Tunisi nel 1637 e dette origine addirittura a una dinastia– i mouraditi – rimasta al potere fino ai primi del Settecento19. E famoso ancheAlì “Piccinino”, d’origine veneziana, un comandante della flotta che tra 1638 e1645 governò sostanzialmente Algeri. È stato tuttavia notato che dopo la metàdel XVII secolo la fortuna dei rinnegati d’origine mediterranea cominciò a farsisempre più rara, in parte tuttavia sostituita da altri rinnegati, soprattutto ingle-si e fiamminghi, detti “ponentini”. Il prestigio dei rinnegati era legato con la co-stanza della loro presenza nel ceto dirigente ottomano e barbaresco: per questociascuno dei gruppi etnici fra loro presenti s’ingegnava ad alimentarsi inducen-do o obbligando i connazionali cristiani a rinnegare a loro volta la fede per unir-si a loro. Tuttavia la decadenza dell’impero comportò anche, fatalmente, l’inari-dirsi progressivo del ruolo dei rinnegati. A parte, s’intende, casi speciali comequello del nobile francese conte Claude-Alexandre de Bonneval, che merita for-se qualche parola. Nato nel 1675, proveniente da una grande famiglia e impa-rentato col Fénelon, il conte era colonnello dell’esercito francese; disertò nel1706 (i francesi lo condannarono a morte) per passare dalla parte degli impe-riali, dove ottenne il grado di tenente generale; per molto tempo fu collaborato-re di Eugenio di Savoia finché si pose in contrasto anche con lui. Accusato di al-to tradimento e internato allo Spielberg, ne era fuggito; ormai disgustato dallasocietà cristiana aveva trovato riparo a Istanbul dove fu messo a capo dell’eser-cito del sultano e divenne protagonista delle riforme militari del sultano Mah-moud I, non senza riavvicinarsi alla sua patria d’origine grazie all’amicizia conl’ambasciatore di Luigi XV a Istanbul, il marchese di Villeneuve20.

Ma anche qualche altra avventuramediterranea, caratterizzata da esitidifferenti, vale la pena di esser breve-mente richiamata. Orazio PaternòCastello, della famiglia catanese dei

marchesi di san Giuliano, nel 1783 aveva ucciso per gelosia – ventisettenne – lamoglie, sei anni più giovane di lui, e fuggiasco su un vascello era stato catturatodai corsari di Tripoli: convertito e assunto il nome di Hamad, divenne “drago-manno” (interprete) e poté raccontare le sue avventure a Miss Tully, sorella delconsole inglese della città africana. Alcuni anni dopo un altro aristocratico sici-liano, il principe Giovan Luigi Moncada, navigando nel luglio 1797 da Palermoa Napoli, fu intercettato dai tunisini ch’erano forse d’accordo col comandantedella nave e – nonostante l’intercessione del re di Napoli e dello stesso sultano –

19 L. SCARAFFIA, Rinnegati, Roma-Bari 1993, pp. 8-9.20 Cfr. A. VANDAL, Le pacha Bonneval, Paris 1885.

La guerra di corsa, che era alla base del sistema dei prigionieri e degli schiavi, e dei gruppi di pressionedei rinnegati, andò irreversibilmente restringendosi a partire dal Seicento

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recuperò qualche mese dopo la libertà solo dietro impegno al pagamento d’unsostanzioso riscatto. Ma, una volta rientrato in Sicilia – dopo la consueta qua-rantena a Malta – il principe non volle sentir ragioni, provocando una lunga li-te giudiziaria giacché il bey di Tunisi si rivolse al regio tribunale per tutelare lesue ragioni. E la causa si trascinò per parecchi decenni21.

Naturalmente, dopo un periodo più o meno lungo, molti rinnegati – qual-cuno circonciso, qualcun altro avendo evitato il rito – tornavano in patria e sot-tostavano alla disciplina inquisitoriale per farsi perdonare l’apostasia e riam-mettere nella Chiesa. È difficile capire caso per caso quanto sincera e profondafosse stata la loro conversione, quanto sincero e profondo il loro ritorno alla fe-de avìta. E, per ognuna di queste storie che le carte ci hanno conservato, resta l’e-nigma del silenzio dei secoli per infinite altre, inghiottite per sempre dal passa-to22.

L’attività della guerra di corsa, che stava alla base del metabolismo dei grup-pi di pressione dei rinnegati sui vertici della società ottomana e alla base del si-stema dei prigionieri e degli schiavi di ambo le parti, andò irreversibilmente re-stringendosi a partire dal Seicento, per quanto ancora un secolo dopo perfino legrandi città, in Sicilia e in Sardegna, continuassero a temere incursioni; e perquanto i corsari algerini, dopo il 1610, fossero riusciti a esportare la loro guerradi corsa a est dello stretto di Gibilterra, sull’Atlantico.

L’incubo durò comunque a lungo. Ancora nel 1798 un’incursione tunisinanell’isola di san Pietro presso il litorale sardo faceva un migliaio di prigionieri.Una recrudescenza dell’attività corsara musulmana si ebbe nel biennio 1815-16e continuò per alcuni anni, colpendo il Meridione d’Italia, la Toscana, le duegrandi isole tirreniche23. Ma ormai, evidentemente, il clima delle stesse prospet-tive della prigionia in terra d’infedeli si era – tra Sette e Ottocento – molto di-steso. La Entführung aus dem Sarail di Wolfgang Amadeus Mozart e l’Italiana inAlgeri di Gioacchino Rossini non sarebbero mai nate, se il dramma dei prigio-nieri cristiani non fosse intanto andato svanendo. E d’altra parte non sarebberomai state scritte, se esso non avesse per secoli costituito un incubo per la Cri-stianità.

Il diminuire delle attività corsare turche e barbaresche – in parte causato an-che dall’incipiente decadenza dell’impero ottomano – provocò il contraccolpod’un contrarsi delle attività marinare e corsare sia dei Cavalieri di Malta e di San-to Stefano24 sia dei corsari privati cristiani nel Mediterraneo: un’attività ch’erastata molto forte, specie nel trentennio 1580-1610. A parte la necessità di ri-

21 Cfr. S. BONO, Siciliani nel Maghreb, Mazara del Vallo 1989; IDEM, Un principe di Paternò schiavo a Tu-nisi, in IDEM, Lumi e corsari. Europa e Maghreb nel Settecento, Perugia 2005, pp. 229-38.

22 Cfr. i casi di apostasia e di penitenza rintracciati nei Registri della Penitenzieria dell’Archivio VaticanoSegreto tra 1451 e 1568 in F. TAMBURINI, Santi e peccatori, Milano 1995, pp. 61-64.

23 Una tardiva avventura in prigionia dei barbareschi toccò al padre barnabita Felice Caronni, catturatodai corsari barbareschi e condotto a Tunisi nel giugno del 1804, da dove poté rimpatriare dopo qualchemese, cfr. F. CARONNI (a cura di S. BONO), Ragguaglio del viaggio in Barberia, Cinisello Balsamo 1993.

24 Per Malta, altro argomento immenso, ci limitiamo al libro di sintesi di P. JARDIN - Ph. GUYARD, Leschevaliers de Malte, Paris 2002; per Santo Stefano, cfr. AA.VV., L’Ordine di Santo Stefano e il mare, Pisa2001, e C. SODINI, L’Ercole tirreno. Guerra e dinastia medicea nella prima metà del ‘600, Firenze 2001.

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spondere colpo per colpo agli attacchi musulmani con ritorsioni appropriate, ilpunto è che c’era bisogno di manodopera schiavistica per remare sulle galee eper lavorare alle fortificazioni costiere. Si razziavano prigionieri sia dal Levantesia dal Maghreb: famosi il saccheggio di Hammamet, nell’agosto del 1602, dadove le galee degli stefaniani prelevarono dalle quattro alle settecento persone, equello di Bona nel settembre del 1607, che fruttò circa millecinquecento schiavie fu celebrato ohimè, alla fine del secolo, perfino da un noiosissimo poema, laBona espugnata di Vicenzo Piazza25. Ancora tra 1708 e 1715 corsari cristiani – adesempio livornesi, protetti da una “patente di corsa” del granduca di Toscana –razziavano il litorale palestinese, creando parecchi grattacapi alle autorità con-solari francesi che il sultano riteneva “protettrici” (e quindi responsabili) deglioccidentali in quell’area: anche perché spesso i legni corsari si facevano passareper innocue navi da trasporto di pellegrini diretti ai Luoghi Santi. I cristiani delluogo, attaccati per ritorsione dai musulmani esasperati, facevano in questi casida capro espiatorio di tale sconsiderato comportamento26.

Le vicende dei prigionieri musulmani in terra cristiana furono comunquemediamente meno varie e – sia pure rispetto a casi limitati – meno fortunate deiloro omologhi cristiani. Non vi fu un apprezzabile fenomeno di “rinnegati” dal-l’Islam al cristianesimo: non sapremmo dire quanto e fino a che punto la fedeislamica fosse più radicata che non la cristiana, e da che punto in poi, più sem-plicemente, nessuna pressione (non parliamo d’apostolato) veniva fatta sui pri-gionieri affinché si convertissero. Del resto, la conversione sarebbe stata antieco-nomica: lo schiavo divenuto cristiano avrebbe dovuto esser liberato. I pochi ca-si di conversione venivano celebrati come grandi avvenimenti: il che ne confer-ma la rarità. D’altro canto, si preferiva tener gli schiavi in serbo per eventualiscambi di prigionieri. Nel 1543 Paolo III aveva istituito in Roma un Collegio deiNeofiti che avrebbe dovuto ospitare cristiani convertiti d’origine ebraica e mu-sulmana: ma la sua popolazione non fu mai particolarmente densa. Fonti cri-stiane – di rado confermate da notizie musulmane – parlano invece di occultesimpatie da parte di molti musulmani nei confronti del cristianesimo. Il fattoche nel dar al-Islam l’apostasia fosse punita con la morte faceva sì comunque checasi del genere – se e quando c’erano – restassero rigorosamente segreti.

Eppure, nel “continente liquido”mediterraneo, le occasioni d’incontropacifico e di condivisione culturaleerano molte. Area di confine, esso eraanche area di scambio e in certo senso

di fusione. Santuari frequentati da cristiani e musulmani erano frequenti: già nelXII secolo, l’emiro siriano Usama ibn Munqidh aveva testimoniato come i tem-plari, che avevano all’epoca il loro quartier generale nella moschea gerosolimi-

25 S. BONO, Corsari nel Mediterraneo, Milano 1997, pp. 154-163.26 I documenti relativi a queste e ad altre vicende, studiati da Salvatore Bono, sono tutti raccolti in G. GO-

LUBOVIC (a cura di), Biblioteca bio-bibliografica della Terra Santa e dell’oriente francescano, nuova se-rie, tomi III-V, Firenze 1924-1925.

Nel “continente liquido” mediterraneo le occasioni di incontro pacifico e condivisione culturale eranomolte: area di confine, esso era anche area di scambioe di fusione

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tana di al-Aqsa, permettessero agli amici musulmani di compier la loro preghie-ra canonica in un oratorio adiacente. I due culti s’incontravano e s’incrociava-no, pur senza fondersi, in santuari quali San Giorgio a Lydda in Palestina, SantaCaterina sul Sinai, il santuario mariano di Mataryya presso il Cairo (da doveproveniva il famoso balsamo), Nostra Signora del Buonconsiglio a Scutari in Al-bania, la grotta della Madonna a Lampedusa. Era soprattutto la profonda devo-zione mariana dei musulmani a favorire queste forme d’incontro, che non com-portavano peraltro veri e propri fenomeni di sincretismo.

Declinata lentamente ma irreversibilmente, dalla fine del XVII o dall’iniziodel XVIII secolo in poi, la potenza ottomana, quattro principali eventi segnaro-no una fase profondamente nuova nella storia del Mediterraneo: l’acquisizioneinglese della rocca di Gibilterra, conquistata nel 1704 durante la guerra di suc-cessione spagnola e legittimata dalla pace di Utrecht del 1713, che mise nelle ma-ni di Sua Maestà Britannica la chiave d’accesso a quel mare; la campagna del ge-nerale Bonaparte in Egitto e in Siria tra 1798 e 1801, che aprì un’età nuova an-che nella storia dell’Islam vicino-orientale e del suo atteggiamento nei confron-ti dell’Occidente27; la conquista francese dell’Algeria, con quella campagna del1830 che René de Chateaubriand salutò come una nuova crociata28; infine l’a-pertura del canale di Suez, che dette nuovo vigore al traffico mediterraneo con-vogliando sulle sue rotte tutte le navi che fino ad allora, tra Atlantico e IndieOrientali, erano state costrette a circumnavigare l’Africa. L’Ottocento e il primoNovecento assisterono al definitivo crollo dell’impero ottomano, “l’uomo mala-to”, e all’assalto coloniale e neocoloniale (sotto forma dei “mandati” ricevuti al-l’indomani della prima guerra mondiale) soprattutto inglese e francese, ma an-che italiano e spagnolo, dei paesi rivieraschi delle coste asiatica e nordafricana.

I movimenti di liberazione e la fine (o quanto meno la trasformazione) delsistema coloniale, la nascita d’una Turchia “laica”, il sorgere e l’affermarsi del na-zionalismo arabo e del panarabismo, la questione ebraico-araba e poi israelo-palestinese, la progressiva scoperta di nuovi bacini petroliferi nell’area mediter-ranea o in quelle ad essa prossime, infine l’avvìo dei vari movimenti a caratterefondamentalista sono stati gli elementi costitutivi d’un’ulteriore fase nella storiadei rapporti tra Europa e mondo islamico, apertasi già con la fine del primo con-flitto mondiale ma complicatasi progressivamente con le guerre tra Israele e ilmondo arabo circostante, il cronicizzarsi della questione palestinese, la crisi diSuez del 1956, la lunga guerra d’Algeria, il radicamento dell’estremismo islami-sta che peraltro ha molti aspetti e molti volti. Né va dimenticato che, a partiredal 1944, gli Stati Uniti d’America hanno stabilito in vari punti del Mediterra-neo le loro basi militari, o sono comunque presenti nel bacino di quel mare at-traverso le installazioni della Nato. L’Unione Europea, che a lungo è sembrataorientare la sua politica in una direzione prevalentemente atlantica e continen-

27 Cfr. F. KÜNZI, Bonaparte et l’Egypte, Genève 2005.28 Di estremo interesse, al riguardo, il resoconto che Alexis de Tocqueville ebbe a redigere delle sue due

missioni in Algeria: A. DE TOCQUEVILLE (éd. S. LUSTE BOULBINA), Sur l’Algérie, Paris 2003.

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tale, ha dato segno negli ultimi anni di essere a sua volta interessata a una suaqualificata presenza unitaria – e non solo mediata attraverso i paesi euromeri-dionali che sul mare si affacciano – e a promuovere atti e accordi che preludonoa una vera e propria comunità economica mediterranea; ha preso forza, in altritermini, la scelta di considerar il Mediterraneo uno spazio politicamente, eco-nomicamente e culturalmente complementare a quell’Europa di cui, in unaqualche misura, esso fa comunque parte. I prossimi anni diranno se tale interes-se si svilupperà in un senso “occidentalista” e “atlantista”, cioè secondo linee dicostante o prevalente accordo con gli Stati Uniti, o se invece le iniziative europeenel settore sceglieranno un cammino orientato in senso più prettamente “euro-peista”, cioè progressivamente indipendente rispetto alla superpotenza, e maga-ri concorrente – nel quadro non certo d’una qualunque forma d’ostilità, bensìd’una politica multilateralista che molti auspicano si affermi in tutto il pianeta– rispetto ai suoi interessi. A queste scelte politiche ed economiche non sarannoestranei né l’attuale sviluppo demografico, né il progredire (o il ristagno) deldiffondersi dell’Islam nel continente europeo sotto forma non solo di radica-mento di migranti bensì anche di conversioni, né il movimento migratorio dasud e da est rivolto verso i paesi europei, che negli ultimi anni ha costituito unproblema di ardua gestione. Questo complesso domani è già oggi29.

29 Per un orientamento di massima su questi temi: Mediterraneo. L’Arabia vicina, «Limes», 2, 1994;AA.VV., Verso un nuovo scenario di partenariato mediterraneo, Fòrum Civil Euromed, Laboratorio Me-diterraneo – Institut Català de la Mediterrània, Napoli 1997; F. HORCHANI - D. ZOLO (a cura di), Me-diterraneo. Un dialogo fra le due sponde, Roma 2005.

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Collective memory is by now a very useful and known term in the sociology ofknowledge and is used here in its more common and accepted definition as amode of social, political and cultural behaviour. The term was first coined byMaurice Halbwachs who pointed out the need for a definition of recollectionthat is different from the individual memory (in his Les cadres sociaux de la mé-moire, 1925).

We can trace back the construction of collective memory through the modeof selection in various media: textbooks in schools, scholarly works, literature,films and of course exhibition halls of museums. The choice of what to memo-rialize is highlighted most importantly in the research field under the generaltheme of “collective memory” – the national collective memory.

So we know that our memories, very much like our identities, are not entire-ly individual. In a very strong national environment they are even less so. Butcollective memory can also bridge over gaps in our personal memories of trau-mas that affected a group of people to which we belong. Experimental andethnographic evidence indicates that recall improves when two or more peopleare asked to recall together a particular memory. That is, a single person at-tempting to recall an event will be able to retrieve less information less accu-rately than two or more persons working on the same retrieval task. Thus, there’ssome indication that actual memory storage is, at least in part, a social, not pure-ly psychological, phenomenon.

The other side of the coin is the constant invention, and maintenance of theinvention of the collective memory to the point of fictionalizing, indeed fabri-cating history. The tools of maintenance are highly powerful: mainstream me-dia, national educational system and, in the case of Israel, the army.

Because collective memory is so fundamental to national identity and unity,in cases of national conflicts it is crucial in determining the chances of peace andwar. At times, groups that are victims of a conflict or generally victims of na-tional collective memory, demand a new place in it, which can also change itsfabric and role in the conflict. As we shall see such a challenge to the collectivememory was attempted in Israel but failed, and the conflict thus continues.

This article focuses on the role collective memory plays in the history of thepeace process in Palestine and claims that the collective memory of one side, the

The Collective Memory of Peace Making in Israel and Palestine

ILAN PAPPEis Senior Lecturer in the Department ofPolitical Science at HaifaUniversity and Chair of theEmil Touma Institute forPalestinian Studies, Haifa

Ilan Pappe

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Israelis, has dictated the attempts to solve the conflict since 1948 and the othercollective memory, the Palestinian one, is ignored. I further contend that this isthe main reason for the failure of the process up to now.

It all begins with the attitude towards the past in peace attempts, wheneverthey commenced. A natural inclination among political scientists, as well aspoliticians, involved in peace making is to look at the past and memory as an ob-stacle to peace. Liberating oneself from the past is recommended by such peopleas a requisite for attaining peace. This view is entrenched in a wider context ofreconciliation and mediation policies, emerging in the United States after theSecond World War. This school of thought was based on a business-like ap-proach that treats the past as an irrelevant feature in the making of peace. Thenthere is a looser approach, but no less important link with modernization theo-ries, which regards tradition and the past as obstacles to a better future, so thata party involved in a conflict insistent on rectification of past evil can be easilydepicted as representing not only intransigence but also backwardness. This wasin fact, the fate of the Palestinian partner in the history of peace making in theprevious century as well as in the current one.

The “progressive” way towards peace is elimination of the past; hence thebusiness-like peace makers consider only the contemporary situation – with itsbalance of power and realities on the ground – as a starting point for a reconcil-iation process.

This perception also affects the process of “learning”, so crucial in the studyof peace making. It means that even when a blatant failure is registered in sucha peace effort, the renewed effort restarts from a similar point of view: namely,one that ignores the lessons of the previous phases’ failure. Noam Chomsky, whonoticed such a tendency in the Middle East peace process, concluded that the re-sult was a never-ending “peace process” which was not meant to bring peace, butrather provided jobs and preoccupations for a large group of people belongingto the peace industry1.

This philosophy has informed the peace process in Palestine ever since 1948and in particular after 1967. I will argue in this article that this approach has de-stroyed the chances of peace in Israel and Palestine and that only the re-intro-duction of the historical dimension can save this peace effort.

The starting point that was totallyignored for reasons that are explainedlater in the article is the year 1948.

The events of this year were not only excluded from the peace making process,but their role and significance in the making of the conflict were ignored, thusthe article begins with a short survey of the 1948 ethnic cleansing in Palestine.

The second part presents the formulation of the guidelines that have under-

1 N. CHOMSKY, Powers and Prospects, London 1996, pp. 159-201.

Only the re-introduction of the historical dimension can save the chances of peace in Israel and Palestine

dossier Memoria e conflitti

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The Collective Memory of Peace Making in Israel and Palestine

lined the peace process since 1967 and their a-historical orientation, while thelast part suggests possible ways of re-introducing the past into the reconciliationeffort.

The Ethnic Cleansing of 1948: The Crucial Starting Point

In February 1947, the British Empire ceased to rule on Palestine and referredits future to the United Nations. For thirty years, the British government tried toreconcile an impossible contradictory pledge it had made to both the Zionistmovement and the Palestinians. In the 1917 Balfour Declaration, the Britishgovernment promised to reconcile the natural rights of the indigenous popula-tion of Palestine with a pledge to turn the country into a Jewish homeland. Thisproved an impossible mission. After endless efforts and several cycles of blood-shed, the decision came to leave the future of that troubled country in someoneelse’s hands.

The international body was a very young and inexperienced outfit in thosedays, and those in it chosen to find a solution to the conflict were at a total losswhere to begin and how to proceed. A more experienced team was ruled out be-cause Cold War politics guided the superpowers of the day to appoint memberstates outside the realm of the known Eastern and Western blocs and hence withno prior involvement or knowledge in the question of Palestine. Not surprising-ly the deliberations of these member states in the framework of an ad hoc in-quiry committee (UNSCOP) soon reached a deadlock2.

The Jewish Agency, the unofficial government of the Jewish community inPalestine, gladly filled the vacuum and exploited to full Palestinian disarray andpassiveness in the face of a crucial historical juncture. In May 1947, the JewishAgency handed a map and a plan to UNSCOP. The opening positions of the twosides were diametrically opposed: each wishing to control the whole of thecountry in the post-Mandatory era, promising to protect the rights of the othergroup. Palestinian representatives talked in the name of the native populationregarding the Zionist movement as a colonialist one, but nonetheless allowingmost of its members to stay on, and the Zionist movement depicted itself as anational movement redeeming an ancient homeland taken by strangers whononetheless would be allowed to remain on it in a separate enclave. This last po-sition was articulated as the partition of Palestine in a way that would safeguardthe Jewish survival and plans.

The Palestinian community rebelled against the British for three years, 1936-1939, and in the struggle lost its leadership that was exiled and fragmented. Theleaders remaining inside Palestine were not of the same caliber, but were confi-

2 I. PAPPE, The Making of the Arab-Israeli Conflict, 1947-1951, London-New York 1992, pp. 16-46.

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dent enough of providing their community with a vision for the future. Thesepoliticians regarded Palestine as they regarded Egypt or Iraq: an Arab countrythat would be eventually transferred to its people. As so many other Arab coun-tries had already been granted independence, there seemed to be no need for ap-prehension. This perception, and other reasons, planted indifference and lack ofpreparation in the face of the diplomatic struggle in the UN. The Jewish Agency,on the other hand, had an assertive leadership that had taken all the necessarysteps – recommended in the book of international relations in those days – toensure UN and global support for a peace plan that was tailored to the needs ofthe Zionist newcomers and disregarded the ambitions of the indigenous popu-lation3.

The May 1947 plan of the Jewish Agency suggested the creation of a Jewishstate over 80% of Palestine – more or less the Israel of today without the occu-pied territories. UNSCOP reduced in November 1947 the Jewish State into 55%of Palestine and formulated the plan as UN General Assembly resolution 181.The Palestinian rejection of the plan, which did not surprise anyone as they hadbeen opposed to partition ever since 1918, and the Zionist endorsement of it,which was foretold since partition was after all a Zionist solution to the prob-lem, were in the eyes of the international policeman a solid enough base forpeace in the Holy Land.

Imposing the will of one side on the other was hardly a productive move to-wards reconciliation and indeed rather than bringing peace and quiet to the tornland, the resolution triggered violence on an unprecedented scale in the historyof modern Palestine. The American State Department felt this way in April 1948after months of bloodshed triggered by the resolution and suggested anotherfive years for deliberations, but the Jewish lobby in the US succeeded in con-vincing President Truman not to withdraw his support for a plan that served sowell the Zionist movement’s aspirations in Palestine4.

In the wake of the general Araband Palestinian rejection of the UNPeace Plan, the Jewish leadership feltfree to return to its May 1947 map; if

the Palestinians refused to go along with the Zionist idea of partition, it was timefor unilateral action. The map showed clearly which parts of Palestine were cov-eted as the future Jewish state. The problem was that within the desired 80% theJews were a minority of 40% (660,000 Jews and one million Palestinians). Butthis was also a passable hurdle. The leaders of the Yishuv had been prepared eversince the beginning of the Zionist project in Palestine for such an eventuality.They advocated in such a case the enforced transfer of the indigenous popula-tion so that a pure Jewish state could be established.

3 Ibidem.4 See A. SHALIM, Collusion Across the Jordan: King Abdullah, the Zionist Movement, and the Partition of

Palestine, Oxford 1988, p. 151.

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Imposing the will of one side on the other was hardly a productive move, and the resolutiontriggered violence on an unprecedented scale

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The Collective Memory of Peace Making in Israel and Palestine

Transfer and ethnic cleansing as means of Judaizing Palestine had been close-ly associated in Zionist thought and practice with “historical opportunities”;namely appropriate circumstances such as an indifferent world or “revolution-ary conditions” such as war. This link between purpose and timing had been elu-cidated very clearly in a letter David Ben Gurion had sent to his son Amos in1937. This notion re-appeared ever after in Ben-Gurion’s addresses to his MA-PAI party members throughout the Mandatory period, up to the moment whensuch an opportune moment arose – in 19485.

The Actual Ethnic Cleansing

A civil war of a kind began a day after the UN resolution suggested dividingPalestine and authorizing the creation of a Jewish state. In such cases, it is diffi-cult and quite unimportant to establish who fired the first shot, what is clear isthat the UN “peace plan” triggered, a day after it had been accepted, a bloodbaththat overshadowed all the violent events in the land before. The Palestinian re-sponses were angry and sporadic, which exposed their lack of leadership, man-power, weapons or a plan. The Jewish side was better equipped, far superior innumber of fighting men and purposeful.

Commencing on December 21, 1947 and until March 10, 1948, Jewish forcesattacked a limited number of Palestinian villages and Bedouin settlements in afirst “cleansing” operation in the areas vital for Jewish communication and ad-ministration (the coastal plain north of Tel-Aviv). Around the mixed Arab-Jew-ish Palestinian towns, but not in them, major villages were taken, and in somecases massacres took place as in the village of Balad Al-Shaykh, near Haifa,where more than 60 civilians were murdered at the beginning of January 1948.

But these were still limited operations that sowed terror among the more welloff and rich Palestinians (roughly 70,000 people) who fled the country in Janu-ary and February 1948. By that month, others joined them as refugees. About100,000 villagers and city dwellers were expelled by the Jewish forces. And yetthis did not create a “valid” Jewish state as predicted by Ben Gurion.

The sense therefore among the Jewish leaders was that something more sys-tematic was called for. On March 10, 1948, the Hagana, the main Jewish under-ground in Palestine, issued a military blueprint for the expected British evacua-tion from Palestine, scheduled for May that year. The plan dealt with two issues,how to protect the 80 percent of Palestine designated unilaterally by the JewishAgency as the future state from the threats of neighboring Arab states to attackit and what to do with the million Palestinians living within these 80 percent.The plan was called Plan D as the previous plans A, B and C had been similar

5 N. MASALHA, The Expulsion of the Palestinians: The Concept of “Transfer” in Zionist Political Thought,1882-1948, Washington 1992, pp. 93-141.

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blueprints in the past, formulating Zionist strategy vis à vis an unfolding andchanging reality.

The Plan evaluated correctly, so it seems in hindsight, the inability of theArab states to fulfil their pledge to save Palestine, although it envisaged toughfighting on several fronts, especially where isolated Jewish settlements existed onthe frontiers. Indeed these are the parts of Palestine where an actual war tookplace. As for the rest, the area within the coveted state, there was no real militaryforce that could oppose the Jewish troops. And plan D ordered the army tocleanse the Palestinian areas falling under their control. The Hagana had sever-al brigades at its disposal and each one of them received a list of villages it hadto occupy. Most of the villages were destined to be destroyed and only in veryexceptional cases were the forces ordered to leave them intact.

When taken together, the demolition and expulsion campaign left behindmore than 400 villages and 11 towns in ruins, thousands of massacred civilians,a catastrophe the memory of which would feed the Palestinians’ national move-ment ever after, and a historical event the denial of which would become themain cause for the ongoing conflict in Palestine.

First Attempts at Peace

Only in the first two years after the Nakbah (the “Catastrophe”), was thereany energy left in the United Nations to produce a diplomatic effort to pacify thecountry, which culminated in the convention of a peace conference in Lausannein the spring of 1949. It was a conference based on UN resolution 194 which al-so did not refer to the past as a feature in the making of peace. The events of thepresent were dramatic enough to draw its attention to the refugee community asthe major issue at hand. In the eyes of the UN mediation body (the PalestineConciliation Commission), the body that drafted resolution 194, the uncondi-tional return of the refugees was the basis for peace in Palestine. It was meant tobe one of three major features of a solution for post-Mandatory Palestine; theother two were division of the country in a more or less equal manner and theinternationalization of Jerusalem.

The peace proposal totally avoidedhistorical questions such as the Jewishpast connections and claims to Pales-tine, the colonialist nature of Zionismor the loss of Palestine as a homeland,

space and civilization. But at least it dealt directly with the human tragedy un-folding in Palestine. This was the last time the international effort focused on

Loyal to a concept that disregarded the past and its evils, every peace effort has been based on the balance of power and the interests of the peacemakers

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The Collective Memory of Peace Making in Israel and Palestine

this issue. Loyal to a concept that disregarded the past and its evils, every peaceeffort since has been based on the balance of power and the more hidden inter-ests and agenda of the peacemakers (in most of the cases American diplomats).

This comprehensive approach was accepted by every one: the US, the UN, theArab World, the Palestinians and by the Israeli Foreign Minister, Moshe Sharett.But the Israeli Prime Minister, David Ben-Gurion, and King Abdullah of Jordan,wishing to partition Palestine between their two respective countries, won theday. An election year in America and Cold War in Europe, allowed these two tocarry the day and bury the chances for peace as well as nip in the bud one of thefew attempts at a comprehensive approach for peace in Israel and Palestine6.

Thus, post-Mandatory Palestine was divided between the Egyptians (in theGaza Strip), the Jordanians (in the West Bank) and the Israelis who received thelion’s share (78% of historical Palestine). Much of the country was destroyedand most of its indigenous people expelled. The expulsion and the destructionhave kindled the conflict ever since. The PLO emerged in the late 1950s as anembodiment of the Palestinian struggle for return, reconstruction and restitu-tion. But it was not a particularly successful struggle. The refugees were totallyignored by the international community and the regional Arab powers. OnlyGamal abd al-Nasser seemed to adopt their cause, forcing the Arab League toshow at least concern for their case. As the ill-fated Arab manoeuvres of the June1967 war showed, this was not enough or efficient. Against this background thepeace process in Palestine began.

Towards Pax Americana

The June 1967 war ended with total Israeli control over ex-mandatory Pales-tine. The peace process began immediately after the six-day war ended and wasmore overt and intensive than the one following the 1948 war. The early initia-tors of the process came from the British, French and Russian delegations in theUN, but soon enough it was transferred to the hands of the Americans as partof an overall, successful attempt to exclude the Russians from Middle Easternagendas.

The basic assumption underlying the American effort was an absolute re-liance on the balance of power as the principal prism through which the possi-bilities of solutions should be examined. Within this balance of power, Israel’ssuperiority was unquestioned after the war and hence what even came from thisside in the form of a peace proposal served as a basis for the Pax Americana.

This attitude meant that it was left for the Israeli Peace Camp to produce thecommon wisdom of the peace process and to formulate its guidelines. The

6 I. PAPPE, The Making of the Arab-Israeli Conflict, 1947-1951, cit.

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essence of the peace proposals were thus programs that catered to that camp,namely the one that presented ostensibly the more moderate face of the Israeliposition towards a prospective peace in Palestine.

These guidelines were drafted in a clearer form after 1967 and were born inresponse to the new geopolitical reality that emerged after the June war. It crys-tallized in a process that paralleled the internal debate inside Israel between theright wing, the Greater Israel people, and the left wing, the Peace Now move-ment. The former were redeemers, namely people who regarded the areas occu-pied by Israel in 1967 as the regained heartland of the Jewish homeland, and thelatter custodians, who believed the territories could be used as bargaining chipsin future peace negotiations. The redeemers controlled Israel until 2001, morethan 35 years after the occupation, but the custodians continued to dominatethe peace agenda. In the last five years a new consensus emerged between themof redeeming half of the West Bank, while allowing the second half and the GazaStrip to become Bantustans under Israel’s control.

After these guidelines were adopted by the American apparatus responsiblefor shaping the US policy in Palestine, they were described with very positive ad-jectives such as “concessions”, “reasonable moves” and “flexible positions”. Butthese guidelines catered for the internal Israeli scene and as such totally disre-garded the Palestinian point of view – of whatever nature and inclination.

The Exclusion of the Past in the Name of Peace

The first guideline was that the Israeli-Palestinian conflict began in 1967 andhence the essence of its solution is an agreement that would determine the fu-ture status of the West Bank and the Gaza Strip. In other words, as these areasconstitute only 22% of Palestine, such a solution was confined to this 22%, overwhich a compromise should be found according to a business-like approach.

The second guideline is thateverything visible in those areas isdivisible and that such divisibilityis the key for peace. Therefore the

peace plans were based on the idea that the area, its people and its natural re-sources should be divided.

The third guideline is that anything that happened before 1967, including theNakbah and the ethnic cleansing, is not at all negotiable. The implications of thisguideline are clear. It removes totally the refugee issue from the peace agendaand moreover treats the Palestinian right of return as a “non starter”.

The last guideline is a total equation between the end of Israeli occupation

The Intifada led to Jordan’s removal as a partner from future negotiations and convinced Israel to acceptthe Palestinians as partner for a future settlement

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The Collective Memory of Peace Making in Israel and Palestine

and the end of the conflict. This is a natural conclusion from the previous guide-line.

These guidelines were activated once a potential partner for such a peace wasfound. At first, these principles were offered to King Hussein of Jordan, with thehelp of the mediation skills of the American Secretary of State, Henry Kissinger.The Israeli peace camp, led by the Labor party, regarded the Palestinians as non-existent and preferred to share the occupied territories with the Jordanians. Butthe share offered to the King, who coveted the area as a whole including EastJerusalem, was not enough.

This offer, known later as the Jordanian option, was endorsed by the Ameri-cans until 1987, the year of the first Intifada, the uprising in the occupied terri-tories. While the failure of the Jordanian avenue in the first years was due to lackof Israeli generosity, the one in the last years was the result of Hussein’s ambiva-lence and inability to negotiate on behalf of the Palestinians, while the PLO en-joyed pan-Arab and global legitimacy.

A parallel path was offered by the Egyptian president Anwar Sadat in his 1977peace initiative and the right-wing prime minister Menachem Begin (in powerbetween 1977 and 1982). This was the idea of allowing Israeli control over theoccupied areas while granting internal autonomy for the Palestinians. It was inessence another version of a partition that left Israel in direct control over 80%of Palestine and indirectly over the rest.

The uprising squashed the idea of the autonomy as it led to Jordan’s removalas a partner from future negotiations. These developments convinced the Israelipeace camp to accept the Palestinians as partner for a future settlement. At firstIsrael tried, with the help of the Americans, to negotiate peace with leadershipof the occupied territories, which became an official peace delegation in 1991 inthe Madrid peace conference. The conference was a prize given by the Americanadministration to the Arab states for their backing of the American military op-eration against Iraq and it led nowhere.

The guidelines of peace were re-articulated once more during the days of theOslo accord which began in 1993. The new move had a novel component. TheIsraelis were looking for Palestinian partners, for the first time, in the search fortheir kind of peace in Palestine. And they aimed for the top – to the PLO lead-ership sitting in those days in Tunis. The latter were lured into the process by anIsraeli promise, incurred in clause 5, sub clause 3 of the Oslo accord, that afterfive years of catering for Israeli security needs, the main Palestinian demandswould be put on the negotiation table in preparation for a final agreement. Inthe meantime the Palestinians would be allowed to play with independence.They were offered a Palestinian Authority decorated with the insignia of sover-eignty that could remain intact as long as it clamped down on any resistance

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movement against the Israelis. For that purpose, the PA employed five secretservices, whose conduct added to the occupier’s abuse of human and civil rightsthose of the indigenous administration.

It took seven years for all concerned to realize that since 1967 two new in-gredients had to be considered that reduced the chances of getting an agreementunder these premises: Jewish and Islamic fundamentalist movements.

The first began already in 1967 and gradually dotted the occupied territorieswith Jewish settlements, located in such a way that prevented any Palestinian ge-ographical continuity or access to water resources. The second radicalized Pales-tinian public opinion and introduced terrorist tactics against Israel that were re-ciprocated with a brutal repertoire of collective punishments.

Apart from this quasi autonomy, the occupation continued in force. It wasdone in some areas – notably the famous areas A – in an indirect manner and inothers directly. The daily harassment of occupation was felt everywhere andmore Jewish settlers flowed into the areas. When the Palestinian opposition re-taliated with the deadly weapon of suicide bombs – the Israelis enriched therepertoire of collective punishment in a way that doubled weekly the support forthe suiciders and their senders. This cycle of violence prevented the emergenceof any serious peace camps on both sides of the divide.

Six years after the Oslo signing, the stormy Israeli political scene brought topower once more the “Peace Camp” and Ehud Barak at its head. A year later, hewas facing electoral defeat for being over ambitious in almost every field of gov-ernmental policy. A peace with the Palestinians seemed to be the only salvation.

The Palestinians expected thepromise made in Oslo to be the basisfor the new negotiations. As they sawit, they agreed to wait so long because

now was the time to discuss the problem of Jerusalem, the fate of the refugeesand the future of the settlements. The Israelis once more provided the plan.More academics and “professional” experts than before devised the scheme now.The fragmented Palestinian leadership was unable to do the job itself and wasseeking advice for counter plans in unlikely places such as the Adam Smith In-stitute in London. No wonder that it was the Israeli plan, endorsed by the Amer-icans, that was exclusively on the negotiating table in Camp David in the sum-mer of 2000. It offered withdrawal from most of the West Bank and the GazaStrip – leaving as Palestinian about 15 per cent of original Palestine in the formof detached and distanced cantons bisected by highways, settlements, armycamps and walls. No capital in Jerusalem, no solution to the refugee problemand total abuse of the concept of statehood and independence. Even a fragileArafat, who had seemed hitherto to be happy with the salata (the perks of pow-

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Two new ingredients had to be considered that reducedthe chances of getting an agreement: Jewish andIslamic fundamentalist movements

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The Collective Memory of Peace Making in Israel and Palestine

er) and did not exercise sulta (actual power) could not sign such a dictate thatemptied any Palestinian demand.

President Arafat embodied for more than half a century a national move-ment whose sole aim was to rectify the 1948 ethnic cleansing. The meanings ofsuch rectification changed with time, as did the strategy and definitely the tac-tics. But not the overall objective, especially since the demand for the refugees’right of return was internationally acknowledged by the UN already in 1948. Hecould not have signed the 2000 proposals and was immediately depicted as a warmonger.

This depiction coupled with the provocative visit of Ariel Shraon to theHaram al-Sharif in Jerusalem triggered the second uprising. A militarizedprotest that represented a decade of frustration from a peace process that lednowhere, fully and effectively exploited by the Islamists on the ground.

Three years into it, the peace effort resumed once more, the last time so far.The same formula at work: an Israeli initiative catering to Israeli public andneeds disguised as an American honest brokering. But a new component wasadded: the end of occupation was linked to the creation of an independentPalestinian state. This became part of the guidelines since it was accepted by theIsraeli peace camp and even by the political center. This seemingly conceptualchange within the Zionist polity has very little to do with ideological shifts in Is-rael, and much more with the slight fluctuations in the local balance of power.

The uprising in 1987 persuaded the peace camp in Israel of the need to dis-tinguish between discourse and realities on the ground. Hence, the discourse ofa Palestinian state, once totally tabooed in Israel, became then a means of sellingto the Americans, and through them to the world, a solution which offered a mi-ni-state to the Palestinians. Even a cursory examination of the details of the pro-posals exposes an offer not for a state, but rather a Bantustan with no inde-pendent polices, no territorial integrity, on just half of the West Bank, withinhuge walls surrounding its fragmented cantons, no viable economic or social in-frastructure and no capital. Under such circumstances it was possible to equatethe end of occupation with the creation of an independent Palestine. Moreover,there were the other guidelines, such as the elimination of past chapters in theconflict, notable among them the formative history of the 1948 ethnic cleansing,that helped to sell to the Israeli peace camp the need to acknowledge an “inde-pendent” Palestine next to Israel.

As I noted before, these guidelines fitted a more general American outlook onpeace making, of which the salient feature is the absence of any reference to pastfailures in the making of peace. Hence the obvious failures of the peace processin Palestine until today are not an integral part of the contemplation accompa-nying the next stage in the same process. The reasons for the total collapse of the

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Rogers and Yarnig initiatives of 1971, the Kissinger proposals in 1972, the Gene-va conferences of 1974 and 1977, the 1979 Camp David initiative, the Oslo ac-cord and all the last gambits are clear. They all stem from the attempt of thepeace makers to remove the ethnic cleansing in 1948 from the peace agenda andabsolve Israel from its responsibility for the Nakbah. But the absence of a learn-ing process ensures that this obvious reason would not be calculated in the at-tempt to analyze the failure – the tendency is rather to cast the blame on thePalestinians and depict them as war mongers and intransigent people who donot wish to end the conflict.

The Collective Memory of Peace Making

What all these guidelines have in common is a consensual Israeli insistenceon excluding the refugee issue and the Nakbah from the collective memory ofthe peace making. In other words, the principal victims of the conflict, whosemisery and predicament fuelled the conflict ever since 1948, are totally absentfrom the peace agenda.

The reason for this bewilderingabsence is rooted in the political psy-chology as much as it is caused by thepolitics of power behind the peace

making in Palestine. The Israeli position on the conflict and its solution, the onethat determined the peace agenda hitherto is fed by fears, psychoses and trau-mas much more than by “security” interests and concerns which are presentedby the Israelis as the basis for their opening gambits in every round of negotia-tions.

At the heart of that fear is the knowledge that, despite years of denial, a peaceprocess that would put the right of return of the refugees at the focus of the rec-onciliation effort would open a Pandora’s Box. Out will come inevitable ques-tions about the moral foundations of the Jewish State and the essence of theZionist project. These would be accompanied by a host of questions relating torestitution rights – from financial compensation to war crime tribunals.

The perception of peace is connected in Israel to the construction of Israelinational identity and the institutionalization of a particular hegemonic dis-course in social and popular culture entailed the constitution of a Palestin-ian/Arab self as its demonized “other”; it is therefore useful to focus on the im-plications of presenting Arab identity as the “other” of Israeli national identityfor potential reconciliation in contemporary Israeli society7. Such a connectionhighlights the relationship between victimhood, justice and the prospective so-

7 I. PAPPE, Zionism in the Test of the Theories of Nationalism and the Historiographic Method, in P. GI-NOSSAR - A. BAREL (eds.), Zionism: Contemporary Controversy, Beersheba 1996, pp. 223-224.

Israeli position on the conflict and its solution is fed by fears and traumas much more than by “security” interests

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The Collective Memory of Peace Making in Israel and Palestine

lution. As I have shown elsewhere, the rootedness of this discourse of othernessand its prevalence in Israeli popular culture formed a key obstacle to an equi-table solution to the current conflict8.

As critical theories of nationalism have taught us, the negation of the “other”for the construction of the collective identity is part of the critical means em-ployed for the imposition of a hegemonic national identity. In the particularcase of Israel, this formulation took on an added significance that was painfullyexposed in the early 1950s. Beginning in the 19th century, and elaborated uponmuch more significantly following the creation of the state of Israel in 1948,Arab identity came to be constructed as the “hated other” of Israeli nationalidentity, symbolizing everything that Jewishness was not. This juxtaposition raninto trouble when Israel encouraged about one million Arab Jews to immigrate.There was a conscious effort to de-Arabize these Arab immigrants: they weretaught to scorn their mother tongue, reject Arab culture and make an effort tobe Europeanized.

This approach to identity – that is of constructing an “other” as the negativepole of oneself – was further reinforced through Israeli historiography specifi-cally in the ways it dealt with Jewish terrorism in the Mandatory period or withJewish atrocities in the 1948 war. Given that terrorism is a mode of behavior thatIsraeli Orientalists attribute solely to the Palestinian resistance movement, itcould not be part of an analysis or description of chapters in Israel’s past. Oneway out of this conundrum was to accredit a particular political group, prefer-ably an extremist one, with the same attributes as the enemy, while exoneratingmainstream national behavior. As such, Israeli historians and Israeli society atlarge were able to admit to the massacre in Dir Yassin, committed by the rightwing Irgun, but covered up or denied other massacres carried out by the Hagana– the main Jewish underground from which the future Israel Defense Forces wasformed9.

In the same vein, this dilemma is further exemplified in the Israeli treatmentof the issue of victimhood in the context of a reconciliation process. Acknowl-edging the “other’s” victimhood, or much more than that, recognizing yourselfas the victimizer of the “other” is unthinkable for most Israeli Jews.

For the Israelis, recognizing the Palestinians as victims of Israeli actions isdeeply traumatic. This form of acknowledgment, which recognizes the injus-tice involved in the death and displacement of the land’s native inhabitants, notonly questions the very foundational myths of the state of Israel and its mottoof “A land without a people for a people without a land”. It also raises a panoplyof ethical questions with significant implications for the future of the state. Inother words, this fear of recognition is deeply rooted in the Israeli perceptionof what had happened in 1948, the year Israel was founded as independent na-

8 I. PAPPE, Fear, Victimhood, Self and Other’s Images: Fear in One Own Country, Zurich 2000, pp. 65-78.9 I. PAPPE, Post-Zionist Critique: Part I: The Academic Debate, in «Journal of Palestine Studies», 26, 1997,

2, pp. 29-41.

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tion state on part of Mandate Palestine and where, according to mainstreamand popular Israeli historiography, early Zionists settled an empty land mak-ing “the desert bloom”. Here, this fear of recognition is also profoundly con-nected to one of the founding myths of Israeli society; that of David fightingthe Goliath in a hostile environment. More importantly, the inability to ac-knowledge Palestinian trauma is also vitally connected to the manner in whichthe Palestinian narrative tells the story of that year, the year of the Nakbah inthe Palestinian national narrative where the loss of lives and homes continuesto be lived. Had this victimhood been related to the natural and normal con-sequences of a long-lasting bloody conflict, Israeli fears of allowing the otherside to become a victim of the conflict would not have been so fierce. Fromsuch a perspective both sides would have been victims of “the circumstances”or any other amorphous, non-committal concept which absolves human be-ings and particularly politicians from taking responsibility. But what the Pales-tinians are demanding, and which in fact has become a condition sine qua nonto many of them, is that the Palestinians be recognized as the victims of an Is-raeli evil. Losing the status of victimhood in this instance has both politicalimplications on an international scale, but more critically existential repercus-sions for the Israeli Jewish psyche. It implies recognizing that they had becomea mirror image of their worst nightmare.

There are similar fears on thePalestinian side, but there is an im-balance between Palestinians and Is-raelis in the twin process of other-vic-

timization and self-vilification which I have explored elsewhere10. This is whythese processes are dreaded more on the Jewish Israeli side.

Educators, historians, novelists and cultural producers in general haveimbedded this fear in national narrative, ethos and myths of Israeli society dur-ing times of war, or warlike times. This approach manifests itself in the tales toldto children on Independence Day and Passover, in the curriculum and textbooks in elementary and high schools, in the ceremonies of freshmen and thegraduation of officers in the army, in the historical narrative carried in the print-ed and electronic media as well as in the speeches and discourse of the politi-cians, in the way artists, novelists and poets subject their works to the nationalnarrative, and in the research produced by academics in the universities aboutIsraeli reality in the past and the present11.

Fear therefore plays a motivating role in the way the peace concept is shapedon the Israeli side. Victimizing the other and negating its right for the positionof a victim are intertwined processes of the same violence. Those who expelledPalestinians in 1948 deny the ethnic cleansing that took place. And so the self-

10 I. PAPPE, Fear, Victimhood, Self and Other’s Images: Fear in One Own Country, cit.11 I. PAPPE, Post-Zionist Critique: Part I: The Academic Debate, cit.

Losing the status of victimhood in this instance implies recognizing that Israeli Jews had become a mirror image of their worst nightmare

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The Collective Memory of Peace Making in Israel and Palestine

declaration of being a victim is accompanied by the fear of losing the positionof the Jew as the ultimate victim in modern history.

History as a Liberator

The paradox has to be settled: the recognition that the refugee problem is atthe heart of the conflict while acknowledging that for the stronger party in theconflict it is a non starter in any future peace negotiations. Solving the paradoxnecessitates coping with Israeli Jewish fears of the past.

The most difficult part of Israel’s encounter with history is the Jewish State’sneed to recognize the cardinal role it played in turning the Palestinians into acommunity of suffering. The next step would be to consider the means to acceptthe implications of such a step. How can it be done?

I will suggest here three possible ways, out of probably many others throughwhich the violent element in the relationship between the two communities canbe extricated. I looked in a comparative way for guidance and advice in therealm of civic and international law, sociological theories of retribution andrestitution, and finally cultural studies so as to better articulate the dialectical re-lationship between collective memories and their manipulation.

The very idea of considering the 1948 case in the realm of law and justice isan anathema to most Jews in Israel. In fact this mere suggestion would sow pan-ic and horror among this particular community. However I do believe that toachieve some form of actual reconciliation, this step has to be taken. Whatwould most frighten Jewish society in Israel in the very association of its pastconduct with such procedures and theories is the probable implication and in-clusion of some of its members in the category of war criminals.

Such associations and insinuations would quite likely antagonize visually andacoustically many Jews in Israel and it is understandable how little would be theincentive to ride that ghost train in the land of fear back to the past. Given thepresent imbalance of power between the Palestinians and the Israelis, where theIsraeli government effectively controls territorial access as well as all vital re-sources, any potential incentive to face up to this past diminishes considerably.

But it is worthwhile to find out what component of the legal process can beattempted in this context. One promising area is that of litigation arising fromthe ethnic cleansing operations. Assessing the destruction and breaking down toits various aspects: social fabric, careers, culture, real estate and so on. Some ofthese aspects can be quantified. One of the best means of approaching thisquantification of suffering was offered by the Israelis and Germans in their repa-ration agreement. An agreement that included pensions calculated according to

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inflation across the years, estimation of real estates and other aspects of individ-ual loss. A different set of agreements was concluded about translating intomoney, in the form of grants to the state of Israel, the collective human loss. Inhis writings Salman Abu Sitta has begun using this approach to estimate the re-al value of assets lost in the Nakbah.

Another avenue to explore in this context is examining the existing public tri-bunals that handle such litigation and lawsuits. This should be examined to-gether with the question of international intervention in local conflicts, in thewake of evidence on atrocities or crimes.

One has to admit that this first avenue introduces the Nakbah of 1948 amongthe case studies of ex-Yugoslavia, Rwanda and Chile as the subject matter fordiscussing the procedures necessary for the rectification of past evils and humanatrocities. Only an insignificant minority of Jews in Israel are willing to consid-er the conflict in such a context, but there are some and hence this should bekept in mind.

The road forward on the legalplain is to look for non-retributivejustice. The Rwandan author BabuAyindo, in his article Retribution or

Restoration for Rwanda published in January 1998 in the journal «Africanews»,elaborated upon one possible strategy. In this article Ayindo deals with the In-ternational Criminal Tribunal for Rwanda (ICTR) and writes:

suffice it to say that the retributive understanding of crime andjustice, upon which the ICTR is founded, is discordant with theworld view of many African communities. To emphasize retribu-tion is the surest way to poison the seeds of reconciliation. If any-thing, retribution turns offenders into heroes, re-victimizes the vic-tims and fertilizes the circle of violence.

Ayindo here is inspired by Howard Zher’s book, Changing Lenses12, in whichhe comes out strongly against the pro-punishment judicial system. One of thequestions Zher raises and that is picked up by Ayindo in his discussion of theRwandan case is relevant to our contemplation of the means by which Jews inIsrael could overcome their fear of facing the past. He asks: should justice focuson establishing guilt or should it focus on identifying needs and obligations? Inother words can it serve as a re-regulator of life where life was once disrupted?Ayindo states clearly that justice cannot be made to inflict suffering on victim-izers, let alone their descendents, but to cease suffering from continuing. Thisclaim that Zher considers revolutionary, explains Ayindo, is easily understood by

12 H. ZEHR, Changing Lenses: A New Focus for Crime and Justice, Ontario 1990.

The idea of considering the 1948 case in the realm of law and justice is an anathema to most Jews inIsrael, but it is a necessary step

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many people in Africa, as the only reasonable way of dealing with victimhood.Even if one cannot compare the genocide committed in Rwanda with the crimeof 1948 Palestine, and its continued aftereffects, the mechanism of reconciliationitself is relevant.

Ayindo distinguishes between two models in this context. The tribunal inRwanda which deals only with the past, and does not enable a reconstruction ofrelationships there, and the truth commission of Bishop Desmond Tutu inSouth Africa, which he prefers, because it pays attention to the future. The pow-er underlying the truth commission, according to Ayindo, lies both in its disin-clination to inflict heavy penalties, and in its insistence on discussing future re-lationships between different communities in South Africa. In contrast the firstmodel, the Rwanda tribunal, is the fastest and surest way of turning the victimsinto victimizers themselves.

A second way of overcoming this fear to face the past is offered by the Amer-ican psychologist Joan Fumia who focuses her work on the transformation of at-titudes in conflictual situations13. She bases her work on the relationships whichdevelop between offenders and victims in the American legal system, based on arecently introduced new procedure, which offers victim-offender mediation.This method involves a face-to-face meeting between offender and victim (ob-viously unsuitable for murder cases and thus not appropriate for genocidal cas-es, but rather more adaptable to the Palestine case). However, the most impor-tant part of the procedure is the readiness of the offender to accept responsibil-ity for the crime. Thus, the deed itself is not the focus of the process, but its con-sequences. The search in this method is after restorative justice, which is definedas a question of what the offender can do to ease the loss and suffering of thevictim. It is not a substitute for criminal proceedings and, in the case of Pales-tine, it cannot be an alternative to actual compensation or repatriation, but asupplement to any final solution. Fumia claimed that in South Africa this mod-el was successfully implemented.

Israeli responsibility for the Nakbah, if it were to be discussed, which at thepresent stage is unlikely, as part of the attempt to reach a permanent settlementfor the conflict, would obviously not reach the international court, as did thecases of Rwanda and ex-Yugoslavia. Or at least, this is what one can assess giventhe way the Nakbah is perceived by governments in the USA, Canada and Eu-rope. These political actors have so far accepted the Israeli peace camp perspec-tive on the conflict, as elaborated above. However, governments in Africa andAsia have different views on this, and the situation may change. But as long asthe balance of power remains as it is now, one doubts the possibility of estab-lishing a truth commission à la South Africa. But the demands of the 1948 Pales-tinian victims would remain in a very dominant position on the peace agenda,

13 J. FUMIA, Restitution versus Retribution: The Case for Victim-Offender Mediation, published for the firsttime in October 1988, reporting the Victim-Offender Program in the US Legal System.

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whether or not this procedure is followed. This outcry would continue to facethe offenders. Moreover, the fear of the offender would have to be taken into ac-count in order that the settlement of the conflict can move from the division ofthe visible to the restoration of the invisible.

The third route is educational andintellectual; hence it can only be ameans of creating an atmosphere ofreconciliation, rather than the process

itself. This would consist of a dialectical recognition of both communities ascommunities of suffering; the demand that Israel recognize its role in theNakbah can be accompanied by a parallel request that the Palestinians showtheir understanding of the importance of Holocaust memory for the Jewishcommunity in Israel. This dialectical connection has already been envisaged byEdward Said:

What Israel does to the Palestinians it does against a back-ground, not only of the long-standing Western tutelage over Pales-tine and Arabs... but also against a background of an equally long-standing and equally unfaltering anti-Semitism that in this centuryproduced the Holocaust of the European Jews… We cannot fail toconnect the horrific history of anti-Semitic massacres to the estab-lishment of Israel; nor can we fail to understand the depth, the ex-tent and the overpowering legacy of its suffering and despair thatinformed the postwar Zionist movement. But it is no less appro-priate for Europeans and Americans today, who support Israel be-cause of the wrong committed against the Jews, to realize that sup-port for Israel has included, and still includes, support for the exileand dispossession of the Palestinian people14.

The universalization of the Holocaust memory, the deconstruction of thismemory’s manipulation by Zionism and the state of Israel, and the end of Holo-caust denial and underrating on the Palestinian side can lead to the mutual sym-pathy Said talks about15. However, it may need more than this to convince the Is-raelis to recognize their role as victimizers. From the start, the self-image of thevictim has been and continues to be deeply rooted in the collective conduct ofthe political elite in Israel. It is seen as the source for moral international andworld Jewish support for the state, even when this image of the righteous Israelon the one hand and the David and Goliath myth on the other became quiteridiculous after the 1967 war, the 1982 invasion of Lebanon and more recentlythe Intifada. And yet the fear of losing the position of the victim remains close-

14 E. SAID, The Politics of Dispossession, London 1994, p. 167.15 P. NOVICK, The Holocaust in American Life, Boston 1999; N. FINKELSTEIN, The Holocaust Industry,

Reflections on the Exploitation of Jewish Suffering, London 2000.

The end of victimization and the recognition of the roleof Israel as victimizer are the only useful means of reconciliation

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The Collective Memory of Peace Making in Israel and Palestine

ly intertwined with the fear of facing the unpleasant past and its consequences.This is further compounded by the fear of being physically eliminated as a com-munity, consistently nourished by the political system and substantiated by Arabhostility.

Israel’s nuclear arsenal, its gigantic military complex, its security service oc-topuses, have all proved themselves useless in the face of the Intifada or the guer-rilla war in South Lebanon. They are useless as means of facing an ever frustrat-ed and radical million Palestinian citizens of Israel, or the local initiatives ofrefugees unable to contain their dismay in the face of an opportunist Palestinianauthority or a crumbling PLO. None of the weapons, nor the real or imaginaryfears that have been produced can face the victim and his or her wrath. Moreand more victims are added daily to the Palestinian community of suffering, inthe occupied territories, Israel itself and in south Lebanon. The end of victim-ization, with all its political implications, the admission of the Other into a na-tional discourse, and the recognition of the role of Israel as victimizer are theonly useful means of reconciliation.

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1 Il “peso” della memoria culturale di Leopoli (Lwów) per la cultura nazionale polacca è paragonabile aquello che rappresenterebbe per la cultura italiana una Venezia oggi inglobata in Austria o in Slovenia.

Uno dei casi più emblematici in cui in Europa la memoria storica continua a farsentire il suo peso sulla dinamica delle relazioni internazionali, in un’area speci-fica e nell’ambito geografico-politico limitrofo, è quello dell’exclave russa di Ka-liningrad, al contempo enclave dell’Unione Europea, rimasta incastonata fra Po-lonia, Lituania e Mar Baltico. Di casi simili a quello della regione-città di Kali-ningrad ne esistono in realtà a distesa nella complessa struttura etnopolitica eculturale dell’Europa Orientale, per sua natura plurale, composita e carica dimemorie storiche: da quello di Leopoli, “pesante” punto di riferimento per lacultura polacca1, oggi inglobato nell’Ucraina post-sovietica e a lungo oggetto diincomprensioni-tensioni fra i due paesi, a quello della Transdnistria/Bessarabiaoggetto di spartizioni internazionali e oggi ancora fonte di attriti e di caoticherelazioni internazionali fra Russia, Ucraina, Moldavia e indirettamente Roma-nia, a quello dei Paesi Baltici, nei quali è in atto una “guerra dei monumenti” del-la seconda guerra mondiale (Estonia e Lettonia), un conflitto freddo sui simbo-li gravido di tensioni con la Russia, ai casi innumerevoli dei Balcani contrasse-gnati dalle imponenti minoranze esterne magiare o a quelli nei quali la lungapresenza tedesca, sradicata con violenza dopo la seconda guerra mondiale, ha la-sciato un’ombra di memoria permanente (Danzica, i Sudeti, Memel/Klaipeda, laregione russa dei Volgadeutsche, ecc.).

Kaliningrad possiede tuttavia una serie di peculiarità derivanti dalla suacomplessa storia di dominazioni e di incontro-scontro fra etnie e culture. La pa-tria di Kant (Königsberg) rimane “caricata” del peso di contrastanti “memoriestoriche che non passano”, sovrappostesi a più riprese nel corso del processo sto-rico. Nonostante la superficie delle relazioni internazionali contemporanee nel-l’area, la regione di Kaliningrad continua a essere considerata per forza di coseun’anomalia non solo dai paesi confinanti (Polonia e Lituania), i quali hanno“perso il treno” del recupero territoriale nella fase di indebolimento russo post-sovietico, ma anche dalla Germania e dalla sua lunga tradizione prussiana e per-sino dalla stessa Ue, che ha parzialmente risolto, facendo buon viso a cattivo gio-co, il contenzioso con la Russia, esacerbatosi con l’allargamento a est. Da que-st’ultima però continua a derivare, proprio mediante Kaliningrad, non solo unapresenza inquietante per la sicurezza baltica e nei confronti dei paesi che si af-facciano su quel mare, ma anche l’affronto della “sfacciata frattura” della conti-

La “memoria divisa” in un crocevia d’Europa:l’enclave/exclave di Kaliningrad/Königsberg/Królewiec/Karaliaucius

Alessandro Vitale

ALESSANDRO VITALEè Ricercatore in ScienzaPolitica e docente di Studi Strategici presso l’Università degli Studi di Milano

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La “memoria divisa” in un crocevia d’Europa

nuità territoriale dell’Europa istituzionale, nella quale l’enclave russa costituisceun’isola territoriale extracomunitaria.

Le memorie che si giustappongono di fronte a Kaliningrad vanno da quellaprussiana a quella polacca (che nonostante quattro secoli di storia di Confede-razione polacco-lituana vede la Polonia odierna divisa dalla Lituania da un con-fine che è in lunghezza la metà rispetto a quello con la regione russa di Kalinin-grad) e a quella lituana, che considera l’occupazione sovietica post-secondaguerra mondiale della regione e la sua ratifica a Potsdam (1945) una fase con-clusa e un insediamento dalla legittimità ormai erosa, a fronte di consistenti pre-senze storiche lituane nella regione, denominata anche Mazoji Lietuva (PiccolaLituania) e di una storia pienamente “baltica”, sottomessa e sradicata con la vio-lenza a partire dalle origini storiche del Drang nach Osten. Questa regione russaancora militarizzata, nonostante i vani tentativi che alla fine del periodo bipola-re hanno cercato di cambiarne appartenenza e status, ricostruendone una legit-timità perduta, costituisce per Mosca un avamposto politico-militare e strategi-co irrinunciabile (per quanto ridotto quantitativamente negli anni Novanta: da100.000 a 25.000 effettivi), con la sua base navale libera dai ghiacci nel Baltico,antico obiettivo geopolitico primario da Pietro il Grande in poi. Ma proprio inquanto fonte di memoria storica diversificata in continua sovrapposizione, cari-ca di aspetti storico-simbolici tipici della memoria culturale, rimane una sor-gente di contrasti latenti e di possibili, ulteriori e future tensioni. Al contempotuttavia si dimostra anche, a una visione “dall’interno”, dal lato degli abitanti, ingenere trascurata nell’analisi delle enclaves, un luogo di sperimentazione di fat-tori singolari, potenzialmente disinnescanti i “conflitti della memoria” e che de-rivano in parte proprio dalla sua storia più antica e in parte dalla natura “ano-mala” dell’exclave/enclave. Il contrasto fra queste tendenze contrapposte deci-derà il destino di questo crocevia d’Europa.

Memoria storica, legittimità e relazioni internazionali nell’Europa nord-orientale

Il recupero della memoria storica, legata inscindibilmente a luoghi geogra-fici e simbolici di radicamento, è stato un momento determinante del proces-so di trasformazione (e di liberazione) dal passato sovietico nell’est europeo.La sovietizzazione si era largamente basata sulla rimozione della memoria esulla sua forzata riformulazione. Il risveglio etnonazionale ha svelato invecetutta l’importanza della geografia storica, dei luoghi di formazione di una co-scienza comune e dell’identità, carichi di aspetti simbolici e legati all’immagi-nario in forme dalle consistenti ricadute politiche. La reazione uguale e con-

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traria alla rimozione forzata della memoria e alla speculare costruzione artifi-ciale di una falsa memoria, tuttavia, non è stata priva di conseguenze per le re-lazioni internazionali nell’area e continua a produrre effetti di grande portata.I “luoghi della memoria contesa” (spesso identificati con castelli, rovine, chie-se – non a caso a lungo sistematicamente abbattute), fonti di “comunità mne-moniche” 2, rivelano il sottostante e sempre vivo passato, in continua evoluzio-ne ma non avulso dalla storia, oggetto di lotta politica internazionale e fonte diconflitti latenti.

Con la fine del sistema sovietico so-no emerse dimenticate “fonti di me-moria disputata”, luoghi che si costrui-scono, acquistano senso e spesso molti

sensi simultanei, proprio attraverso le contese che stimolano. Del resto i mecca-nismi della memoria e la paura di un “vuoto” improvviso di memoria storica so-no sempre a doppio taglio, in particolare se legati a mitologie nazionali, comedimostra la lentissima rimozione della figura leniniana in Russia, identificataspesso con il patriottismo tout court, anche se il regime creato dal primo capo distato sovietico è stato quello che ha eliminato fisicamente più russi (e ne ha mag-giormente devastato la cultura) di qualsiasi altra tirannia della storia di quelpaese. La memoria nell’Europa orientale del resto corrisponde alle linee di frat-tura che ricalcano confini immaginari o materiali, prodotti da guerre perse evinte, da dominazioni successive, ma spesso non derivante da uno spazio defi-nito solo dalla geopolitica, bensì anche da referenti culturali e storici, da fanta-smi del passato e da conseguenti “guerre della memoria”, tutti temi a lungo ri-mossi dagli studi di Relazioni Internazionali.

La posta messa in gioco dalla memoria in quest’area dell’Europa nord-orientale è estremamente pesante, soprattutto perché le questioni di legitti-mità legate alla memoria storica si rivelano in quell’ambito geografico-politi-co ancor più cogenti che in altri e più attuali che mai. La stessa natura dei con-fini (luoghi della memoria per antonomasia), variabili e instabili, mutevoli,stabiliti dal susseguirsi di guerre e di paci imperiali emerse da conferenze in-ternazionali quali ratifiche dell’avanzata di eserciti, si rispecchia in una caren-za permanente e strutturale di legittimità, continuamente cercata attraverso ilristabilimento della memoria da classi politiche statali e locali o da gruppi et-nonazionali spesso sradicati, trasferiti, reimpiantati in “luoghi altrui”. L’artico-lazione della memoria però può presentare modalità molto differenti. Le ri-vendicazioni storiche degli uni possono venire esercitate a detrimento degli al-tri, nel tentativo di riparare ingiustizie storiche provocate dall’espandersi e ri-tirarsi di stati, etnie e culture politiche contrapposte. Tuttavia, se questa è la re-gola più diffusa nell’Europa orientale, non è detto che non possano formarsi

2 E. ZERUBAVEL, Social Memories: Steps to a Sociology of the Past, in «Qualitative Sociology», 19, 1996, 3,pp. 283-300; D. BARTHEL, Historic Preservation: Collective Memory and Historical Identity, in «TheAmerican Journal of Sociology», 103, 1998, 4, p. 1099.

Il risveglio etnonazionale ha svelato l’importanza della geografia storica, dei luoghi di formazione di una coscienza comune e dell’identità

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La “memoria divisa” in un crocevia d’Europa

interessanti eccezioni, ad esempio nei casi nei quali la memoria ufficiale deglistati non corrisponda alle complesse intersezioni di quella locale, di fronte al-le quali un semplice ricorso alla memoria nazionale (ampiamente costruitadagli stati stessi) non è in grado di compensare i deficit di legittimità e le vo-ragini che rispetto a quest’ultima lascia aperto il diritto di conquista. La me-moria allora diventa fonte di “scarti” rispetto a binari prestabiliti dagli Stati edati per scontati.

La giustapposizione di memorie di fronte alla Prussia orientale

Questo è tanto più vero in un crocevia storico-politico d’Europa di estremacomplessità, qual è quello della Prussia orientale. In questa regione si giustap-pongono, sia al suo interno che al suo esterno, memorie stratificate. Il primostrato è quello sedimentato dalla “memoria anseatica”. Il ricordo della città com-merciale libera ha sempre accompagnato la storia di un’aggregazione urbana co-me questa, fondata nel 1255 in una baia protetta che era già nell’XI secolo uncentro di attivo commercio con i vichinghi e che su base contrattuale entrerà afar parte nel XII secolo dell’Hansa germanica. A questo strato è sempre rimastoaffiancato quello della regione di cultura baltica, abitata da popolazioni antico-prussiane pagane non germaniche, con lingua e cultura estinte nel corso dellagermanizzazione3 e che erano sorelle di quella lituana e lettone attuali. Quindi sisono intrecciate la memoria polacco-lituana – basata sulla perdita della regioneda parte dell’Ordine teutonico, a lungo sentito come dominatore estraneo, no-nostante la libertà goduta da nobili e contadini e sulla prosperità della città, di-venuta più grande di Berlino, garantita dal governo liberale della Polonia dell’e-poca4 – con quella prussiana – radicata nel periodo 1525-1756, che va dalla crea-zione del Ducato di Prussia alla intitolazione di Königsberg al re Ottokar diBoemia e al suo grande impegno nella Crociata del Nord, alla nascita di Kant eallo splendido periodo di una successiva fioritura culturale, all’incoronazione diFederico I a Königsberg, che diventa il punto focale dell’unificazione prussiana.A questo periodo è legata anche una ricca memoria di tolleranza interetnica ereligiosa, che vedrà l’accoglienza offerta a molti rifugiati da tutta l’Europa, com-presi gli ebrei5.

Anche nell’intermezzo di dominazione russa (cinque anni seguiti alla con-quista successiva alla Guerra dei Sette Anni del 1756-63) non si esaurirà la me-moria della prosperità cittadina, sviluppata da una buona convivenza con gliabitanti locali, che vedevano la loro condizione complessiva migliorare sotto ilgovernatore russo, il barone Korff, rispetto alla dominazione precedente di Fe-derico II. Tuttavia i conflitti alimentati dai nazionalismi post-napoleonici (la

3 W. URBAN, Baltic Crusades, DeKalb (Ill.) 1975.4 S. HAFFNER, The Rise and Fall of Prussia, London 1980, p. 13; F.L. CARSTEN, The Origins of Prussia,

Oxford 1958, pp. 6-8.5 S. HAFFNER, The Rise and Fall of Prussia, cit., p. 37.

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conquista e l’occupazione francese è del 1807) assumeranno un volto molto di-verso e di ben altra aggressività, i cui echi, ancora oggi gravidi di conseguenze,percorreranno le guerre mondiali del XX secolo. Le memorie differenti e tutta-via rispettose della storia regionale, dato che tutte vi avevano contribuito in mi-sura diversa, finiranno nel deadlock del nazionalismo esclusivista, prima dellacostruzione del Reich bismarckiano e poi dell’occupazione polacca interbellica,nelle contemporanee frustrazioni tedesche post-Versailles e nella violenta con-troffensiva sovietica dell’aprile del 1945, con l’accerchiamento di Königsberg, lemigliaia di morti fra la popolazione civile e le successive deportazioni dei tede-schi nell’impero interno e/o la loro cacciata a ovest, rimpiazzata da un’immigra-zione sovietica solo parzialmente spontanea, dal 17 ottobre del ’45, quando laPrussia orientale diventerà provincia dell’Urss e Königsberg diventerà Kalinin-grad.

Il periodo sovietico cercherà in se-guito, grazie al ripopolamento e allacancellazione forzata delle altre me-morie6, di far partire la storia di Kö-

nigsberg dal 1945, dato che non era possibile fondare la legittimità dell’occupa-zione sovietica su basi differenti rispetto al diritto di conquista, moralmentepuntellato dalla compensazione per gli sforzi e le immani perdite sovietiche nelcorso della seconda guerra mondiale. Tuttavia questa operazione verrà minatasia dalle memorie nazionali sopravvissute all’esterno, che dal revival interno del-la storia locale, alimentato dalla cultura materiale (luoghi della memoria, chiesein stridente contrasto con il paesaggio forzatamente sovietizzato), fatta propriaprima dalla dissidenza antisovietica (soprattutto negli anni 1966-68) che vivevacontro voglia in loco, e lasciato in eredità poi alla nuova generazione russa (laterza) che è nata e che vive oggi nella regione. La popolazione attuale sente cheil passato sovietico non è la vera base del radicamento locale, fondato invece sulrapporto spontaneo e quotidiano con una terra dotata di un passato incancella-bile e da riscoprire, sentendosi cittadina di un luogo dalle insospettate potenzia-lità, per gran parte riaperte dalla globalizzazione.

La Kaliningrad post-sovietica nella Baltosfera

Dal 1991 a oggi non solo sono esplose localmente le critiche verso il centromoscovita in merito alla forzata inclusione della regione nella “memoria nazio-nale” (statuale) costruita dal 1945 in poi nell’area strategica del distretto milita-re, ma anche quelle nei confronti delle sbrigative soluzioni architettoniche e pae-saggistiche, indifferenti alla storia più nobile della città e della sua regione, e

6 R. MISIUNAS - R. TAAGEPERA, The Baltic States: Years of Dependence, 1940-1990, London 1993; I.OLDBERG, The Emergence of Regional Identity in the Kaliningrad Oblast, in «Cooperation and Conflict»,35, 2000, 3, pp. 269-288; P. WÖRSTER, From Germany’s East Prussia to the Soviet Union’s KaliningradOblast. A Case of Sequent Occupation, in «Soviet Geography», 27, 1986, 4, pp. 233-247.

dossier Memoria e conflitti

Le memorie differenti e tuttavia rispettose della storiaregionale, alla quale tutte avevano contribuito, finirannonel deadlock del nazionalismo esclusivista

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La “memoria divisa” in un crocevia d’Europa

l’opposizione alle pretese centralizzanti e “coloniali” del governo moscovita. Lacattedrale, simbolo della città libera e fonte naturale di “monumentalizzazionedel passato” è diventata già nel periodo sovietico il punto di riferimento di unanarrativa storica alternativa, basata sulle immagini visive che le strutture fisichestesse impongono e che non hanno nulla a che fare con la storia nazionale degliattuali abitanti7. La crisi di legittimità dell’attuale “memoria di fondazione” vie-ne risolta dalla popolazione locale con una rivendicazione crescente della me-moria più antica dell’exclave, condivisa anche all’esterno: quella anseatica, spe-culare alla riaffermazione dell’orgoglio di costituire un ponte fra Russia ed Eu-ropa occidentale8, inserito pienamente nella Baltosfera post-bipolare. Questo re-cupero della memoria è stato potenziato dalla celebrazione, nel 2005, del 750°anniversario della città, in occasione del quale le radici anseatiche e germanichedella regione, nella quale la popolazione locale è a grande maggioranza russa(78,5%), sono riemerse con forza. Ad esso ha da tempo contribuito però anchela creazione nel 1991 di una Zona economica speciale (Sez) – che ha permessoad attutire il collasso del 1998 – con privilegi nel commercio estero, nella politi-ca doganale e valutaria, nonostante la successiva abolizione dell’autonomia nel-le relazioni estere dell’exclave. Sullo sviluppo economico della regione conta ilrecupero della memoria più legata alla collocazione di tipo marittimo al centrodel Baltico. Oltre all’importanza degli investimenti stranieri, la memoria ansea-tica sottolinea la volontà di più intensa europeizzazione della Russia, trasfor-mando Kaliningrad in una sorta di Hong Kong del Baltico e mitigando la sua or-mai obsoleta funzione esclusivamente militare. È indubbio che i fattori econo-mici funzionali alla rinascita della regione, arretrata di circa dieci anni rispettoalla confinante Lituania, uniti a una prevalenza etnica che ingenera una sicurez-za ormai scarsamente attaccabile, stimolino la fusione fra una memoria storicalocale da riscoprire (anche se altrui) e gli interessi attuali. La regione è fra le cin-que della Russia che vedono il maggior numero di imprese con capitale stranie-ro in Europa e necessita sempre più di investimenti provenienti dall’estero. LePmi sono 14.000 e la regione occupa il terzo posto in Russia nel rapportoPmi/abitanti. Le banche svolgono un ruolo trainante, nonostante l’influenzadell’arretrato sistema bancario della Russia post-sovietica.

Le potenzialità di ripresa sono enormi, nonostante la complicata situazioneattuale. Tuttavia Mosca è posta di fronte al dilemma: favorire lo sviluppo eco-nomico regionale e l’apertura a occidente, con il rischio di una immigrazione dimassa dal resto della Russia e di alimentare le aspirazioni indipendentiste, op-pure irrigidire il controllo e il ruolo strategico della città e della sua regione.

7 Unico monumento gotico germanico del XIV secolo sul territorio della Russia, la cattedrale rappresen-ta per gli abitanti di Kaliningrad un punto di riferimento identitario. Già nel 1992 l’intelligentzija loca-le aveva rigettato con dure proteste i progetti di Mosca per il suo restauro, visti localmente come in-competenti ed estranei alla storia medievale della città. Fra il 1991 e il 1994 è iniziata la frattura fra sto-riografia nazionale russa e ricerche di storia locale.

8 I. OLDBERG, Contribute to Identity-Building in the Kaliningrad Oblast, in H.M. BIRCKENBACH - C.WELLMANN (eds.), The Kaliningrad Challenge. Options and Recommendations, Münster 2003, pp. 234-246.

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I fattori di disinnesco dei conflitti potenziali “della memoria”

Il difetto di legittimità alimenta anche le memorie nazionali “giustapposte”,che potenzialmente possono ancora trasformarsi in “contrapposte” e sfociare intensioni e conflitti internazionali, caldi o freddi, derivanti da rivendicazioni ter-ritoriali. Non che l’esistenza di Kaliningrad quale enclave/exclave russa venga mi-nacciata dai paesi limitrofi o più lontani (Germania riunificata), ma il problemadella legittimità, sentito anche dalla popolazione locale, consapevole della natu-ra eteronoma di quei confini, provoca una sospensione permanente, informalee tacita, del riconoscimento del diritto alla sua attuale esistenza e un’insofferen-za latente per quegli stessi confini che nelle popolazioni limitrofe dura da Pot-sdam, in occasione della quale gli attori regionali non erano riusciti a giocare al-cun ruolo significativo, come accadrà anche nel 1991. Kaliningrad balza agli oc-chi dei vicini e delle loro memorie storiche come spazio imperiale “residuale”.Per la memoria polacca, la più sensibile alla questione-incubo dei “corridoi”(non solo per i movimenti nazionalisti che ogni tanto agitano il problema di Ka-liningrad), l’exclave risulta “indigesta”. Sia l’ex ministro degli Esteri, BronislawGeremek, che l’ex presidente Kwasniewski alla fine degli anni Novanta hanno at-tirato l’attenzione su Kaliningrad quale fonte di insicurezza per la Polonia e l’Eu-ropa. L’ingresso della Polonia nella Nato ha riaperto la questione, rimasta laten-te fino al 2005 e alle tensioni russo-polacche9, mentre ancora oggi, sebbene lacooperazione transfrontaliera e confinaria sia aumentata, rimane una latentefonte di tensioni.

I tedeschi discendenti degli elimi-nati o espulsi hanno la possibilità diviaggiare nella regione e di iniziare aindagare cosa accadde delle vite e del-

le proprietà dei loro avi e questo comporta inevitabilmente rivendicazioni la-tenti che possono diventare attuali. È inevitabile che gli antichi territori tedeschicontinuino ad essere la spina nel fianco del dibattito sull’identità nazionale ger-manica10. Gli sponsor tedeschi del restauro di chiese ed edifici storici vengonosospettati da Mosca di preparare la via al reinglobamento nello spazio germani-co, iniziando dal supporto al referendum per il recupero del nome di König-sberg. In realtà però è solo la destra nazionalista (del Junge Freiheit) a puntaresul diritto storico tedesco di ingerenza e di controllo della regione.

La Ue considera l’enclave un “ibrido politico” che spezza la continuità terri-toriale dell’Unione, “anomala” e pericolosa non solo per i problemi politici, mi-litari ed ecologici che comporta. L’unico paese che nelle relazioni internazionaliattuali sembra estremamente lontano dall’innescare rivendicazioni è attualmen-te la Lituania, pur se supportata da imponenti ragioni storiche contrarie, legate

9 A. VITALE, L’Europa centrale e orientale: Ucraina, Polonia, Bielorussia e Russia fra tensioni, cambiamento,stagnazione e continuità, in A. COLOMBO - N. RONZITTI (a cura di), L’Italia e la politica internaziona-le, Bologna 2006, pp. 199-210.

10 S. BERGER, Inventing the Nation: Germany, London 2004.

dossier Memoria e conflitti

Il problema della legittimità provoca una sospensionepermanente, informale e tacita, del riconoscimento del diritto alla sua attuale esistenza

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La “memoria divisa” in un crocevia d’Europa

all’idea (storicamente fondata)11 della Mazoji Lietuva. Angosciata piuttosto dal-la vicina Bielorussia avvitatasi in una spirale di sottosviluppo e di autoritarismo,la sua dirigenza ha relegato a un piano di distensione, pur percependone tuttal’incertezza, la questione dell’exclave russa. Con Mosca esistono accordi ad hocsull’abolizione dei visti per i cittadini lituani che frequentano l’exclave, limitatiaccordi di transito militare, accordi di scambio commerciale con Klaipeda e sipunta allo sviluppo della cross-border cooperation.

È significativo però che le memorie nazionali giustapposte su Königsberg sitrovino oggi spiazzate dal recupero nella regione dell’identità anseatica, rivita-lizzata in forme creative e originali, adatta all’epoca contemporanea, funzionaleal tentativo degli abitanti locali di definire la loro posizione in Russia e in Euro-pa12. Questi ultimi sentono perfettamente infatti non solo quanto essa possariavvicinare Kaliningrad all’Europa, della quale costituisce un’enclave, ma addi-rittura quanto essa sia meno gravida di contrasti internazionali, riuscendo adabbattere le tensioni interetniche e interculturali interne (molto scarse), ma so-prattutto scaricando il peso della sacralità di memorie nazionali esclusiviste, po-liticizzate e quindi disinnescando gli “scontri di memoria” potenzialmente cari-chi di “sacralità patriottica”. L’apertura verso una “storia locale altrui”, fatta pro-pria in risposta al profondo vuoto di legittimità che il diritto di conquista o lamemoria nazionale di stato non possono più riempire, si rivela un fattore digrande importanza, capace di disinnescare i potenziali “conflitti della memoria”.La carenza di legittimità di fondazione della regione attuale, che si rispecchianella crisi della legittimità statale-imperiale lasciata dall’eredità sovietica, risiedeinteramente nella storia vista quale semplice prodotto del “trionfo della forza” epuò essere tamponata dalla formazione di un’identità locale basata piuttostosulle percezioni diffuse e sul consenso su quale debba essere la propria storia.Tanto più che l’orizzonte di questo recupero per la popolazione locale è oggil’integrazione di pieno diritto nella storia e nel futuro europeo, non più fatto dispostamenti di popolazioni e di rivendicazioni territoriali basate su memoriegravide di violenza e sul semplice “diritto di conquista”, ma su un nuovo appor-to dato dalle potenzialità economiche e culturali. Il recupero della memoria an-seatica, supportato anche dalla classe politica locale, non deriva però solo dalfatto che la storia europea è ormai un punto di riferimento irrinunciabile per lapopolazione locale, simultaneamente parte di un’exclave russa e di un’enclaveeuropea, in quanto base del recupero della propria rispettabilità e dignità, maanche dal fine pragmatico di ottenere una forma di rilegittimazione locale daparte della comunità euro-occidentale. La storia della regione viene utilizzatacome risorsa locale e il suo carattere straniero fa da catalizzatore della riscoper-ta di una differenza locale che distanzia dalla storia nazionale-statale. La perdita

11 Nel 1925 solo un terzo della popolazione era russa; nel 1930 ancora più di 60.000 abitanti erano lituaniche dopo il 1945 finiranno vittime di un genocidio e della deportazione. Dopo il 1991 il Presidente li-tuano Vytautas Landsbergis rivendicò la Lituania Minore. AA.VV., Potsdamas ir Karaliauciaus Krastas,Vilnius 1996.

12 Vanno confrontati i due testi: Y. KOSTJASHOV, Vostochnaja Prussija glazami sovietskich pereselentsev.Pervye gody Kaliningradskoj Oblasti vo vospominanijach i dokumentach, St. Petersburg 2002 e O. SEZ-NEVA, Living in the Russian Present with a German Past: Problems of Identity in the City of Kaliningrad,in D. CROWLEY - S. REID (eds.), Socialist Spaces in Central and Eastern Europe, Oxford 2002.

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di Kaliningrad sarebbe un enorme colpo all’orgoglio russo13, ma il significatoche assumerebbe non sarebbe identico a Kaliningrad e a Mosca. Nella prima, ilpassato pre-sovietico viene percepito oltre la ristretta cerchia dell’intelligentzijalocale14 e risalendo a una fase di molto precedente al dominio imperiale russo sulBaltico.

Lo sviluppo di un’identità storicaregionale a Kaliningrad15, distinta daquella statale ex imperiale16, è un fat-tore dalle vaste possibilità di disinne-sco dei potenziali conflitti della me-

moria. Tuttavia il timore di Mosca, pur consapevole della necessità di converti-re la regione in “zona-pilota” nelle relazioni Russia-Ue17 – è che la conversionedel passato pre-sovietico in storia locale possa funzionare da supporto non soloper le rivendicazioni anticentralizzatrici dell’amministrazione regionale18 ag-giungendo alla crisi di legittimità locale quella del controllo centrale, dato che ilrecupero della storia pre-bellica significa una fuoriuscita dalla memoria storica“pilotata” dallo stato (imponendo un più vasto riordino delle idee su quest’ulti-mo, sulla sua autorità e legittimità) – ma anche per un futuro sganciamento dal-l’orbita russa, preludio al riaffiorare di vecchie rivendicazioni nazionali esterne,finalizzate a una sua “restituzione” ad altri Paesi. Di qui la riaffermazione delruolo strategico della regione e la politica di mantenimento della base navale19.

Le potenzialità delle enclaves

Le enclaves, diffuse a pelle di leopardo anche nell’Europa occidentale (pre e po-st-Westphalian enclaves) fino al XVIII secolo, epoca della loro quasi completa eli-minazione da parte degli stati territoriali, sebbene nel mondo oggi si siano nuo-vamente moltiplicate (post-colonial e post-soviet enclaves) e siano abitate da milio-ni di persone, possiedono caratteristiche che le differenziano strutturalmente da-gli stati ai quali sono legate. Quando, come in questo caso, non siano apertamen-te minacciate dagli stati limitrofi (al contrario delle enclaves in Bosnia – Bihac, Sre-

13 T. FORSBERG (ed.), Contested Territory: Border Disputes at the Edge of the Former Soviet Empire, Alder-shot 1995.

14 V.N. ABRAMOV, Formirovanie partiinoj sistemy Rossiiskoj Federatsii. Partiino-politicheskaja sfera Kali-ningradskoj Oblasti, Kaliningrad 2000.

15 P. HOLTOM, A Baltic Republic in the Russian Federation or the “Fourth Baltic Republic”? Kaliningrad’sRegional Programme in the 1990s, in «Journal of Baltic Studies», 24, 2003, 2, pp. 159-179.

16 P. HOLTOM, Detached Regions and their Role in Return to Empire Discourses: the Cases of East Prussiaand Kaliningrad, in S. BERGLUND - K. DUVOLD (eds.), Baltic Democracy at the Crossroads: An ElitePerspective, Kristiansand 2003, pp. 219-250.

17 L. D. FAIRLIE - A. SEGOUNIN, Are Borders Barrier? EU Enlargement and the Russian Region of Kali-ningrad, Helsinki-Berlin 2001, p. 152.

18 Nel 2000 le autorità locali hanno protestato per la subordinazione di Kaliningrad al Distretto federalenord-occidentale di S. Pietroburgo, storica rivale sul Baltico, aspirando invece alla creazione di un otta-vo distretto autonomo.

19 L. D. FAIRLIE - A. SEGOUNIN, Are Borders Barrier? EU Enlargement and the Russian Region of Kali-ningrad, cit., p. 144.

Lo sviluppo di un’identità storica regionale a Kaliningrad,distinta da quella statale ex imperiale, è un fattore di vaste potenzialità per il disinnesco dei conflitti di memoria

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brenica, Zepa –, del Nagorno-Karabach, Nakhichevan, Ossetia meridionale,Abkhazia, valle di Fergana, ecc.), visto che il dato di fatto della maggioranza russaviene ritenuto ormai scontato, tendono a sviluppare potenzialità che vanno dal re-cupero di culture differenti da quelle statuali-nazionali di riferimento, al ricono-scimento di memorie locali, a una percezione differente del confine (non barrier,ma contact zone), allo sviluppo delle maggiori possibilità economiche e di integra-zione regionale, nonché dello spostamento di uomini, risorse e capitali.

La ricerca di radici culturali nelle enclaves/exclaves, in particolare in carenzadi legittimità di fondazione, come spesso accade nell’Europa orientale, seguepercorsi che finiscono di frequente per incappare in forme di sincretismo chemescolano origini composite. I sentimenti di appartenenza politici e quelli cul-turali non necessariamente coincidono. Nonostante il fatto di costituire l’ogget-to di tensioni interstatali, le diversità etniche e religiose tendono a essere inco-raggiate in compagini come queste, dato che le enclaves rispecchiano e/o com-portano un allentarsi delle relazioni egemoniche interne agli Stati, derivanti dal-la centralizzazione e responsabili di omogeneizzazioni e integrazioni forzate, an-che sul piano della cultura e della memoria. Nel caso di Kaliningrad il rifiuto lo-cale della costruzione di una memoria legittimante, tipica del periodo sovietico(visto ormai come “barbarie culturale”), è significativo e si accompagna allacontinua ricerca di apporti culturali esterni, che in quest’area d’Europa è sem-pre stata la regola. Qui l’identità deriva dall’enclavity/exclavity e coincide scarsa-mente con quella russa, di tipo largamente statuale-imperiale. Il 32% degli abi-tanti di Kaliningrad descrive la propria identità come “locale” e il 28% sceglie l’i-dentità regionale come quella più importante20.

Sul piano economico, a causa delle loro ridotte dimensioni e la loro economicincapability-vulnerability, le enclaves sono incapaci di sostenere la loro industria esono costrette ad aprirsi verso l’esterno, agli scambi, agli investimenti stranieri e adipendere dall’import/export. Le dimensioni del mercato interno elevano infatti ilcosto dell’autarchia a livelli insopportabili. L’integrazione economica regionale e lapartecipazione alla divisione internazionale del lavoro, arricchita dagli scambi in-fraterritoriali, si rivela in questi casi l’esatto opposto dell’integrazione politica. L’a-pertura è inoltre la risposta a politiche economiche paternalistiche che tendono acreare dipendenza dalle capitali. Nel caso in cui le enclaves ricalchino aree già do-minate da storiche entità di tradizioni economiche e commerciali, come accade aKaliningrad, la memoria storica stessa funziona da catalizzatore dell’attività eco-nomica. Inoltre le enclaves, pur prive di connotati sovrani, tendono a gestire con-dizioni fiscali differenti, non riuscendo a sostenere quelle dello stato di riferimen-to (special tax regime), e a premere per una minimizzazione dell’influenza del po-tere governativo sulla loro economia, in particolare in relazione a misure prote-zionistiche, che per esse diventano distruttive. Questo è tanto più vero nel caso di

20 A. V. CHABANOVA, Razlichija v kaliningradskom sociume: rezul’taty sociologicheskogo issledovanija, inA.P. KLESHMEV (ed.), Kalinigradsky socium v evropejskom kontekste, Kaliningrad 2002.

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Kaliningrad, che vede il forte allentamento dei legami economici ex sovietici in-terrepubblicani e il parallelo proiettarsi verso un’area economica nord-occidenta-le. È soprattutto l’esigenza di aprirsi verso l’esterno che stimola gli attuali tentati-vi di inclusione di Kaliningrad in un’area di libero scambio con la Ue, che integrialtri ambiti che godono di uno status speciale nelle loro relazioni con l’Europacomunitaria (Isole Åland, Groenlandia, Isole Færøer). Il supporto della memorianord-europea e anseatica a queste tendenze è crescente.

Conclusioni

Nella fase storica attuale, sulla questione di Kaliningrad pesano non solo lememorie dei popoli che vi hanno vissuto e delle dominazioni successive, ma an-che una combinazione ibrida fra elementi russi, sovietici, tedeschi e anseatici21,che a una visione più ravvicinata si presentano come separati fra un’identità re-gionale che tende a recuperare il passato pre-sovietico e un’identità maggior-mente “di stato”, che fa riferimento al centro moscovita, con il quale permango-no relazioni critiche in rapporto alla storia locale. La memoria più singolare èquella della città anseatica, a lungo gelosa dei suoi privilegi, che ha conservato lasua straordinaria originalità e prosperità fino alla fase statale moderna prussia-na di Federico Guglielmo, che le impose, in seguito imitato fino ad oggi, unamassiccia presenza militare e la sottomissione sotto forma di una tassazione im-ponente e di un controllo delle sue libertà22.

Nell’ultima fase, quella post-sovie-tica, si vanno ancora scontrando lamemoria dei nazionalismi contrap-posti e limitrofi (esplosi nel XIX seco-

lo), sempre latenti, ma con un indebolimento tendenziale, con il recupero di unamemoria storica di molto precedente da parte della popolazione odierna, a stra-grande maggioranza russa. I fattori che favoriscono una possibile affermazionedi quest’ultima tendenza sono la progressiva de-militarizzazione iniziata nel pe-riodo gorbacioviano e proseguita in quello eltsiniano, l’insofferenza per il cen-tralismo moscovita da una parte e dall’altra per le pretese macro-statuali dellaUe, portatrice di un’altra – e forse opposta – “memoria” dell’Europa, l’appariredi vaste potenzialità nell’attuale zona economica speciale e i buoni rapporti conle popolazioni limitrofe, che spesso contrastano con le dichiarazioni ufficiali econ la politica intergovernativa. Il profondo deficit di legittimità di fondazionedella Kaliningrad russificata con la forza dopo Potsdam contribuisce parados-salmente a stimolare la ricerca di radici storiche molto lontane, di una tradizio-ne avulsa dal nazionalismo, fatta propria con una sorta di “patriottismo locale”

21 W. SPOHN, Die Osterweiterung der Europäischen Union und die Bedeutung kollektiver Identitäten. EinVergleich west-und osteuropäischer Staaten, in «Berliner Journal für Soziologie», 10, 2000, pp. 219-240.

22 F.L. CARSTEN, The Origins of Prussia, cit., p. 220.

Il profondo deficit di legittimità della Kalinigradrussificata dopo Potsdam stimola paradossalmente laricerca di radici storiche lontane

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storicamente orgoglioso, basato su un’antica storia negata nel periodo sovietico(in cui le memorie sovrapposte erano state represse e irrigidite ma, così facendo,per reazione stimolate a rinascere) e oggi riscoperta e sull’abbandono di un na-zionalismo da grande potenza, foriero di contrasti insolubili. Queste potenzia-lità, che disinnescano il potenziale conflittuale nonostante la continua lotta conle risorgenti rivendicazioni nazionaliste limitrofe o neoimperiali russe, derivanoanche dalla natura di exclave di Kaliningrad, in cui la re-identificazione macro-nazionale delle popolazioni e la loro ri-territorializzazione sono molto più com-plesse di quanto non accada in uno stato nazionale territorialmente continuo.Non è una semplice coincidenza se vi sono innumerevoli conflitti connessi conl’esistenza delle enclaves, autentici fuochi di conflitto potenziale. Esistono peròin certe condizioni, come quelle di Kaliningrad, anche fattori di freno. È come sequi il desiderio di passato dovuto alla necessità di far fronte al deficit di legitti-mità seguisse ben poco le regole del nazionalismo statuale moderno. Si affacciainfatti una sorta di ricerca, basata sul passato regionale, di un “tempo nuovo”,una voglia di “voltare pagina”, indifferente persino alla ricorrente mobilitazionenazionalista delle emozioni o al richiamo ai “morti per nulla” nella secondaguerra mondiale, che invece innerva la “guerra dei monumenti” fra Russia e Pae-si Baltici. Al processo di erosione della legittimità dell’exclave russa, seguita allafine del confronto bipolare e basata esclusivamente sul diritto di conquista, si ri-sponde scendendo a patti con differenti tradizioni, anniversari, commemorazio-ni, memorie sovrapposte e persino altrui. La prima impressione per i russi chevi si insediano oggi è quella di una città europea, di un luogo simbolico nel cuo-re della cultura occidentale passato in eredità ai russi stessi per fatalità storica edel quale essi sono chiamati a far tesoro preservandolo, come avevano già fattocontro la “barbarie della dimenticanza” storica dell’amministrazione sovietica.

La riscoperta attuale di Kant, simbolo stesso della città e della sua grandezzaculturale e del resto non estraneo nemmeno alle relazioni storiche europee del-la cosmopolita letteratura russa23, non è solo uno scendere a compromessi conaltre memorie, ma un cercare di farle proprie quali basi di nuove forme di “coa-bitazione della memoria”, di estrema importanza per le ricadute che possonoavere sulla dinamica delle relazioni internazionali. L’“accerchiamento” territo-riale della regione operato dalla Ue allargata ha aumentato il senso di distinzio-ne regionale rispetto alla Russia, facendo riscoprire un passato “non nazionale”,europeo e anseatico, recuperato anche a causa dell’indebolimento della legitti-mità basata sul diritto di conquista. È come se maturasse, in particolare nellanuova generazione di Kaliningrad (che spesso non è nemmeno mai stata a Mo-sca, mentre ha viaggiato in Polonia e Germania), la coscienza antinazionalistache non si può radere al suolo il profondo (e glorioso) passato di una regionestorica d’Europa, per sostituirvi semplicemente i segni della propria potenza.

23 Si vedano le pagine di uno dei maggiori storici russi, N. Karamzin, dedicate al suo incontro con Kant aKönigsberg nel 1789 in: N. KARAMZIN, Pis’ma russkogo puteshestvennika, Mosca 1803 (trad. it: Incontrocon Kant, Milano 1995). Anche Karamzin descriveva con ammirazione il passato anseatico di Königsberg.

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dossier Memoria e conflitti

Tra le molteplici sfide da affrontare all’indomanidella firma di un accordo di pace, quella della ricon-ciliazione nazionale è decisiva e, al tempo stesso,estremamente difficile, perché richiede di saldare iconti con il passato evitando di riaprire ferite su-scettibili di avvelenare il futuro. Senza riconciliazio-ne, per usare le parole di Desmond Tutu, “la gentenon ha il senso della sicurezza, non ha fede, non hafiducia nel futuro”1.

È convinzione diffusa che i processi di riconcilia-zione debbano essere concepiti e attuati dalle isti-tuzioni e dai cittadini dei paesi usciti dai conflitti, masarebbe sbrigativo affermare che gli attori esterninon hanno alcun ruolo da svolgere, pur nel rispettodella ownership locale.

In particolare nelle situazioni in cui la comunitàinternazionale ha assunto un ruolo di rilievo nellagestione del conflitto – dalla mediazione al peace-keeping, all’intervento armato – essa si è spessofatta carico di importanti responsabilità nei proces-si di riconciliazione, sia pure con modalità estrema-mente diverse e variabili.

Un ruolo particolarmente significativo in questoambito è quello assunto dalle Nazioni Unite, nellesue molteplici articolazioni. Da un lato, le istanze“politiche” (Consiglio di Sicurezza, Assemblea Gene-rale, Commissione/Consiglio dei diritti umani, ecc.),nell’esaminare la situazione nei paesi in conflitto opost-conflitto, dibattono e deliberano su temi cru-ciali per i processi di riconciliazione. Dall’altro il Se-gretariato Onu e diverse agenzie, fondi e programmi(Unhcr, Undp, ecc.) elaborano e gesticono iniziativea sostegno dei processi di riconciliazione nazionalein molti paesi.

Un ulteriore contributo viene poi da special rap-

porteur, rappresentanti personali del Segretario Ge-nerale, o ancora inviati e advisor speciali, comequelli per i diritti umani degli sfollati e per la pre-venzione del genocidio.

In taluni casi gli interventi delle Nazioni Unite as-sumono rilevanza e profilo politico di primissimopiano: si pensi alla Commissione di compensazionedelle Nazioni Unite – organo sussidiario del Consi-glio di Sicurezza – istituita per indennizzare i dannisubiti a seguito dell’invasione irachena del Kuwait,la cui rilevanza è espressa da alcune cifre: 1,55 mi-lioni di richieste di risarcimento accolte, per un va-lore complessivo di 52,4 miliardi di dollari.

Determinante si è spesso rivelato il sostegnodella Nazioni Unite nel settore della giustizia, nonsoltanto quando il Consiglio di Sicurezza ha istituitotribunali speciali internazionali (come per il Ruandae per l’ex Jugoslavia), ma anche quando l’istituzioneha sostenuto la creazione di meccanismi di accer-tamento della verità non giudiziari (Truth and Re-conciliation Commissions – Trc), corti miste interna-zionali-locali (come il tribunale speciale per la SierraLeone) e altri meccanismi paragiudiziali, spesso ispi-rati alle tradizioni locali (come la Gacaca in Ruanda).

Un altro settore che spesso viene gestito dalleNazioni Unite – in particolare quando opera nel pae-se una missione di peacekeeping – è quello del di-sarmo degli ex combattenti e del loro reinserimen-to, nell’esercito e nella polizia nazionali, ovvero inattività civili. L’impatto di tali programmi sulla for-mazione di istituzioni che godono del sostegno ditutta la popolazione ha un’enorme valenza per lacreazione di un futuro comune; tuttavia si pensi al-la percezione di ingiustizia che tali processi posso-no assumere agli occhi di chi ha subito violenze da

Il ruolo delle Nazioni Unite nei processi di riconciliazione nazionaleAlberto Cutillo*

*Diplomatico italiano, si è occupato di recente di assistenza umanitaria, post-conflict e migrazioni, è autore di diverse pubblicazionisu questi temi.1 Prefazione a Reconciliation after Violent Conflict, International Institute for Democracy and Electoral Assistance, Stockholm 2003.

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Il punto di vista di un diplomatico

parte di truppe regolari o di ribelli, e che li vede “as-solti e ricompensati” tramite questi programmi.

L’azione delle Nazioni Unite in materia di assi-stenza alla riconciliazione nazionale si è svolta finoad oggi in una molteplicità di forme e sotto la guidadi una pluralità di soggetti, senza che si identificas-se un organismo responsabile del suo coordina-mento generale. Questa risposta “diffusa” ha impe-dito il consolidamento delle competenze in una ma-teria tanto delicata, competenze che, almeno perdeterminati aspetti tematici, sono ricercabili piutto-sto all’esterno del sistema Onu, ad esempio in alcu-ne organizzazioni non governative (si pensi al Cen-ter for Transitional Justice di New York o all’Institutefor Justice and Reconciliation di Città del Capo).

Oggi, tuttavia, il sistema onusiano appare final-mente in grado di agire in maniera più organizzata eincisiva in questa materia, a seguito della creazionedella Commissione per il consolidamento della pace(Peacebuilding Commission). Istituita congiunta-mente dall’Assemblea Generale e dal Consiglio diSicurezza nel dicembre 2005, la Commissione ha vi-sto la luce nel corso del 2006 e ha tenuto le sue pri-me riunioni, dedicate al Burundi e alla Sierra Leone,lo scorso ottobre.

In attuazione del proprio mandato, la Commis-sione ha iniziato a mettere a punto una “Strategiaintegrata di consolidamento della pace” per i duepaesi sopra citati, con l’obiettivo di completarla en-tro giugno 2007. In entrambi i casi, un settore iden-tificato come prioritario è quello della riforma del si-stema giudiziario, con esplicito riferimento, in parti-colare, al ruolo della Trc. Su tale argomento, la Com-missione ha tenuto due riunioni informali (una per ilBurundi e l’altra per la Sierra Leone) a febbraio2007, aperte anche a organizzazioni internazionali,esponenti della società civile ed Ong. Si è trattato di

un’opportunità non comune, in un dibattito al Palaz-zo di Vetro, per apprezzare quanto sia complessoaccertare la verità e fare giustizia e, soprattutto, in-quadrare tali processi nel più ampio scenario dellesituazioni post-conflittuali.

La Commissione è affiancata da un Fondo per ilpeacebuilding, il cui compito principale consistenell’assicurare che le attività giudicate prioritarienelle strategie di consolidamento della pace sianoadeguatamente finanziate. Il Fondo potrebbe quindirendere possibili programmi a sostegno dei proces-si di riconciliazione nazionale per i quali mancanoaltre fonti di finanziamento.

Il mandato della Peacebuilding Commission pre-vede inoltre che essa sviluppi “best practices”, e atal fine si è riunito per la prima volta a febbraio ungruppo di lavoro. Anche se è prematuro anticiparegli esiti di tale iniziativa, si può ragionevolmente au-spicare che essa favorisca la definizione di una sor-ta di “prontuario” per le situazioni post-conflittuali,che individui, tra l’altro, i settori sui quali – pur conle specificità che accompagnano ciascun contesto –dovrebbe concentrarsi l’attenzione della comunitàinternazionale

È proprio questo il “valore aggiunto” che ci si at-tende dalla Commissione: la capacità di ricomporrein un unico schema concettuale e operativo tutte lecomponenti necessarie per accompagnare un pae-se sulla strada della pace sostenibile; schema nelquale la riconciliazione nazionale richiede di esserepresa in carico, con tutte le sue articolazioni e con-traddizioni, come una componente essenziale dellestrategie di consolidamento della pace.

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1 D. BLOOMFIELD et al. (eds.), Reconciliation After Violent Conflict, Stockholm 2003.2 J.P. LEDERACH, Building Peace: Sustainable Reconciliation in Divided Societies, Washington 1997.

Introduction

Reconciliation has emerged as a central topic in peace and conflict researchin recent years. This prominence stems from recognition that addressing thepsychological and relational dimensions of violent conflict may be the most im-portant and challenging parts of a peacebuilding process. Understanding howpeople might deal with the legacies of violence, and how people divided by vio-lent conflict might imagine coexistence and a shared future have become keyquestions. Although reconciliation itself is a contentious concept, there is never-theless an identifiable discourse of reconciliation, and a broad consensus onwhat reconciliation entails1. Efforts to foster understanding about the past, toidentify victims and perpetrators, and to work through the myths and traumasengendered by war are seen as integral elements of reconciliation processes.

Reconciliation is thought to involve some elements of truth-seeking, uncov-ering the facts about violence, and bringing the perspectives of conflict partiesinto the same universe of comprehensibility. This is an acknowledgement of thefrequent denials and distortions which accompany violent crimes, and of thecontested, politicised nature of discourse in post-conflict societies. An emphasison truth-seeking also contains the idea that truth about the past can liberate itsvictims from their trauma or the corrosive effects of hatred and resentment. Atthe root of this presumption is the idea that an unexamined past is likely tohaunt the future. That is, with no effort to “work through” memory, particular-ly those memories that are repressed or unconscious, individuals and groupsmay continually re-experience or even “act-out” the past. Remembrance thenbecomes the means through which repetitive cycles of damaging behaviours canbe broken, and new futures imagined.

Finally, there is an understanding that what people remember about the pasthas a profound bearing upon identity and the dynamics of inter-group relations.Memory is often deeply politicised in the context of violent conflict and its af-termath, a resource in the definition and mobilisation of ethnic or nationalcommunities. Reconciliation involves a focus on the relationships at the heart ofconflict, and the ideas and assumptions – contained in the social memory – thatsustain divisions. Reconciliation therefore involves what Lederach calls “mercy”,or a willingness to let go of some elements of blame, anger or resentment in theinterest of a common future with the other2. This acknowledges that change is

Memory and Reconciliation in Post-Conflict Societies

RHYS KELLYis Lecturer in theDepartment of Peace Studies at theUniversity of Bradford

Rhys Kelly

dossier Memoria e conflitti

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Memory and Reconciliation in Post-Conflict Societies

at the heart of reconciliation processes, and that reconciliation is not possiblewithout acknowledgement of responsibility, without a critical re-examination ofdeeply held beliefs or the recognition of the perspectives of others3.

Clearly, then, there is a significantrelationship between memory andreconciliation. While the past can bean obstacle to reconciliation, remem-brance is seen as a condition for its achievement. In this paper my aim is not torehearse debates about the meaning or process of reconciliation in post-conflictsocieties, debates which are amply covered elsewhere4. I will focus instead ondrawing across some insights from social memory studies and related fields thatmight help us to understand the nature and dynamics of memory in post-warsocieties, and which perhaps complicate discussions about reconciliation. Ibriefly present research which purposefully takes a long perspective on post-warmemory, exploring how people have come to terms with the experience ofWorld War II and other conflicts. I concur with Crocker, who suggests that the“fashionable focus” on new democracies in the reconciliation literature poten-tially limits our understanding. There may be much to learn from attempts todeal with histories of violence in “mature democracies”5. Even though these so-cieties have been largely peaceful in the sixty years since the Second World Warended, the legacies of this experience continue to exert an influence on the pres-ent. At individual, community and societal levels, memories from and storiesabout this period remain active and influential. I suggest that studying the mem-ories of those who witnessed or participated in the war, and the “postmemory”of subsequent generations has much to tell us about life in the aftermath of con-flict and about how people deal with a violent history, particularly in the absenceof interventions to assist people in dealing with the past. Further, since many ofthe studies explored here are based around oral history and life story research,they bring us much closer to the realities of life in wartime, a corrective to thegeneralising tendencies of some theoretical work. Through this presentation anddiscussion, I aim to generate some relevant questions about the assumptionsand expectations in reconciliation discourse.

The paper briefly presents research on memory in post-conflict societies attwo levels – the small community level and the family level. Key themes fromthis research are then identified, and the implications of these findings discussedin relation to the topic of reconciliation. Given that this is a short paper, there isobviously much more to be said on each theme. My aim is not to be compre-hensive, but to raise some relevant questions for further debate.

3 This “memory work” can be undertaken in a number of ways, through the work of truth commissions andcriminal tribunals, to trauma counselling, memorial projects, education and art. For a full discussion of“memory work” in post-conflict societies see the forthcoming volume: R. KELLY, Memory and ConflictResolution, London 2007.

4 See for example: A. RIGBY, Justice and Reconciliation: After the Violence, London 2001; C.A.L. PRAGER -T. GOVIER (eds.), Dilemmas of Reconciliation, Ontario 2003; J.P. LEDERACH, Building Peace: SustainableReconciliation in Divided Societies, cit.

5 D.A. CROCKER, Reckoning With Past Wrongs: A Normative Framework, in C.A.L. PRAGER - T. GOVIER(eds.), Dilemmas of Reconciliation, cit., p. 40.

There is an understanding that what people rememberabout the past has a profound bearing upon identityand the dynamics of inter-group relations

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Memory in the Community

The volume Memory and World War II6 offers an interesting perspective onthe local dynamics of memory and forgetting, and a useful starting point for thisdiscussion. The relevance of this work lies, in part, in its focus on small com-munities caught up in war and their efforts to deal with the aftermath of vio-lence at this “grassroots” level. Attention to the local and personal enables us torecognise the intensity and complexity of peoples’ everyday experiences duringwartime, and therefore what it means to live with the knowledge of extreme vi-olence. As Cappelletto suggests, «the small community approach enables us toget closer to people’s actual life and thus see the victims of violence as activeagents in their own story»7. Arguably, this provides a necessary corrective tomainstream conflict research since, as Ken Plummer argues, «most social sciencein its quest for generalisability imposes order and rationality upon experiencesand worlds that are more ambiguous, more problematic and more chaotic in re-ality»8. This surely describes the conditions that obtain in much contemporaryconflict, the “new wars” described by Mary Kaldor and in recent ethnographiesof violence9. Oral and life history research is particularly suited to discoveringthe confusions, ambiguities and contradictions that are played out in everydayexperiences, and to revealing the complex and contradictory nature of wartimeexperiences. Furthermore, attention to the strategies for dealing with the pastwithin local communities reveals «the different ways of dealing with violence»10,and supplements the more common focus on the public, “grand” political nar-ratives of memory in post-war societies and the role of large-scale mechanismslike criminal tribunals and truth commissions in dealing with the past.

To begin, Rudolph Bell’s research on memory in an Istrian village shows howcollective memory functions differently in small communities, being a muchmore significant component of everyday life than in larger, more diverse com-munities11. In a small village, «collective memory is everything»12. Villagers’ livesare closely intertwined, gossip abounds, and this shared knowledge of commu-nal life creates and re-affirms identity. This has particular consequences whensuch communities become caught up in war and the normal social, moral andlegal order is suspended. War – and the fear that it generates – tests loyalties, of-ten putting pressure on relationships within a community as people take sides,freely or by coercion, as they decide to collaborate or inform, or to become oth-erwise involved. Opportunities also arise to avenge petty disagreements or re-sentments under the cover of chaos and a presumption of wartime impunity.

6 F. CAPPELLETTO (ed.), Memory and World War II, Oxford 2005.7 F. CAPPELLETTO, Introduction, in F. CAPPELLETTO (ed.), Memory and World War II, cit., p. 6..8 K. PLUMMER, Documents of Life: An Invitation to Critical Humanism, Thousand Oaks 2002, p. 40.9 M. KALDOR, New and Old Wars: Organized Violence in a Global Era, Cambridge 1999; A. KLEINMAN et

al. (eds.), Social Suffering, Berkeley 1997; V. DAS et al., Violence and Subjectivity, Berkeley 2000; J. BOY-DEN - J. DE BERRY (eds.), Children and Youth on the Front Line, Oxford 2004.

10 F. CAPPELLETTO, Introduction, in F. CAPPELLETTO (ed.), Memory and World War II, cit., p. 21.11 R.M. BELL, World War II Comes to an Istrian Village: Atrocities and Memories, in Ibidem.12 Ibidem, p. 95.

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Memory and Reconciliation in Post-Conflict Societies

But when war ends and outsiders retreat, the knowledge of what people havedone remains. Perpetrators and collaborators, friends and enemies, victims andopportunists are all identifiable, a “living presence within”. In a small communi-ty, there is little chance of escaping the attention of others, and many people car-ry knowledge that could make relationships with others difficult to sustain.

So how did people deal with thispast once the war had ended? Theconclusion Bell draws from his studyis that

[a]t the local level, the health of a collective psyche capable ofnurturing daily activities depends on forgetting. Conscious effortsto avoid memory cues, concentration on retellings of happier pre-war stories, flat denials and refusals to discuss, all contribute to dis-sociated memories of war trauma13.

In other words, the villagers employed various strategies of forgetting in or-der to accomplish the basic task of living their everyday lives. This does notmean that the events of the past were not known, but rather that individualsmade a pragmatic choice to ignore or overlook the past within the context ofcommunity life. Because this was a social system that could not function with-out a significant degree of collective identification, and without people assistingeach other in the struggle to survive (e.g. helping with the harvest), dwelling onthe past would have made collective life and individual survival more difficult.

To illustrate his argument Bell recounts a number of personal stories collect-ed as part of his anthropological research in the village. He describes “Maria”,whose attempt to visit her husband who is working away from home during thewar is frustrated by a neighbour (or so she believes). This visit is a difficult anddangerous endeavour, requiring forged documents and travel through areascontrolled by Nazis and Partisans. Maria is prevented from making her visit, be-ing arrested, interrogated and jailed briefly during her journey. She blames herneighbour for informing on her and for revealing details of her intended trip.(Her neighbour was the only person aware of the trip and had even helped heracquire a travel pass). Maria bears this knowledge throughout her life, makingher forever anxious about discussing this part of her life and making sleep diffi-cult. Maria still feels anguish when she visits her old village. Interestingly, dur-ing visits her neighbour brings her presents and Maria feels compelled to recip-rocate. Such an act has to be understood within the particular social economy ofthe village. Bell also recounts the story of “Pietro”, who kills a woman as part ofPartisan raids to collect food from the local population. Pietro brags about his

13 Ibidem, p. 96.

War tests loyalties, often putting pressure on relationships within a community as people take sides,freely or by coercion, and become involved

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killing within his community, but is never punished nor openly condemned.Despite wide local knowledge of his crime and the sworn vengeance of the mur-dered woman’s husband, Pietro is not ostracised from the community, is allowedto marry his local sweetheart and after leaving the village maintains strong con-nections with his family left behind.

These examples indicate what is true in many contemporary conflicts, fromthe Balkans to Rwanda: violence is often highly localised, with victims and per-petrators frequently known to each other. When the fighting stops, communitiesare left to sort through the emotional damage and the bitter memories, oftenwith little support14. In Bell’s case-study, the community chooses forgetting asthe best or only way of dealing with the past. Bell does not comment explicitlyon whether this is a good or a bad thing, though the reference to «dissociatedmemories of war trauma» would suggest that it has negative implications forpsychological health, particularly over the long term. Nevertheless, his case-study raises an interesting question about the ability of individuals and com-munities to survive violence, and the strategies that are employed to accomplishthis. It perhaps also raises questions about the need for and possible conse-quences of interventions aimed at reconciling or “healing” communities, a pointI return to below.

On some levels, Bell’s study contrasts quite sharply with Cappelletto’s re-search in three Tuscan villages15. During the period of German occupation from1943, following the collapse of the Fascist regime, Nazi forces engaged in nu-merous acts of violence against local populations, often as reprisals for the ac-tions of Partisan resistance forces. In the three villages in Cappelletto’s study, themajority of the men, women and children were executed, with only a handful ofpeople surviving in each case. These survivors and their descendants now forma distinct “mnemonic community”, or community of memory, bound togetherby the shared recollection of this catastrophe and their shared identification assurvivors. Here, seemingly, there is no forgetting; the past casts a long shadowover the present. The inhabitants recount their past with some frequency – onthe anniversary of the killing, at funerals and family gatherings. As one inhabi-tant put it: «no matter how you go about it, you end up there. In one way or an-other we end up talking about the massacre or something related to it»16. A “cultof death” hangs over the villagers, with some buildings and spaces being pre-served as memorials to the killing17. Children are inducted into the communityof memory, inheriting not only knowledge of the past, but also the obligation toremember18.

14 On this theme see: K. PERVANIC, The Killing Days. My Journey Through the Bosnian War, London 1999.15 F. CAPPELLETTO, Public Memories and Personal Stories: Recalling the Nazi-fascist Massacres, in F. CAP-

PELLETTO (ed.), Memory and World War II, cit.16 Ibidem, p. 106.17 Ibidem, p. 105.18 Some of the children take their identification with the past to quite an extreme level, able to narrate the

memory of the atrocity with terrible accuracy and with the perspective of a first hand witness, as thoughthey were themselves present. Ibidem, p. 110.

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Memory and Reconciliation in Post-Conflict Societies

There are various explanations forthis refusal to forget. Most obviously,it is borne from the radical traumathat befell these villages and the needsof the survivors to know what happened, a need satisfied in large part throughshared recollection. Cappelletto’s study illustrates how memories are created in-tersubjectively, highlighting the fragmented and incomplete nature of individualmemory, and its dependence on shared frameworks of memory19. Each person,even if they have witnessed the violence directly, has only witnessed it in part. Soit is through recounting their stories with others that each survivor is able toachieve a fuller understanding of the events in question. Over time, memory inthe villages becomes a composite of the various pieces of memory possessed byits individual members. Thereafter, individual and public memories intertwineand blend together, with each individual drawing on the publicly available stockof knowledge to fill out and legitimate their own memory20.

Remembering with others has other functions too. It is a way to deal with thefact and ambiguity of survival: «It is as if the story, repeated within the group,reassures and reminds the group’s members that they had in fact escaped thetragedy»21. Escaping the tragedy is of course what defines the group, but thisknowledge is also a source of guilt feelings. Remembering together is a way thatthe group can “make sense” of the non-sensical. Finally, memory becomes a ve-hicle through which the community – its commonality and distinctiveness fromthe wider culture – is defined and asserted22. In turn, because memory and iden-tity are interdependent, the identity that initially derives from collective recol-lection of the past acquires a status of its own, becoming in turn a reason to re-member. That is, the existence of a particular identity itself creates a need to re-member, and a vantage point from which the past is recollected23.

Yet memory, and the stories told about it, is not static. In the decades follow-ing the war, there are periods during which the desire to forget, to put the pastout of mind, is stronger than the desire to remember. For example, as theyounger survivors reach adulthood (many were children at the time of the mas-sacre) and begin their own families, there is a greater preoccupation with thepresent, and a wish to protect children from their trauma24. The interpretation ofthe past also undergoes changes over time, in what might be termed an “inter-pretive” forgetting. This refers to the ways in which the meaning of rememberedevents changes, obscuring or silencing other possible interpretations. In the samevolume, Stuart Woolf also discusses memory in Civitella (one of the three Tus-

19 M. HALBWACHS, On Collective Memory, Chicago 1992; D. MIDDLETON - D. EDWARDS (eds.), Col-lective Remembering, London 1990.

20 F. CAPPELLETTO, Public Memories and Personal Stories: Recalling the Nazi-fascist Massacres, in F. CAP-PELLETTO (ed.), Memory and World War II, cit.

21 Ibidem, p. 107.22 Ibidem.23 This point is made well by John Gillis: J.R. GILLIS, Memory and Identity: The History of a Relationship, in

J.R. GILLIS (ed.), Commemorations: The Politics of National Identity, Chichester 1994.24 S. WOOLF, Historians: Private, Collective and Public Memories of Violence and War Atrocities, in F. CAP-

PELLETTO (ed.), Memory and World War II, cit.

Violence is often highly localised: when the fighting stops,communities are left to sort through emotional damagesand bitter memories

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can villages in Cappelletto’s study), describing how the narrative adopted by thesurvivors changes in the years following the war. In the immediate post-war pe-riod, grieving takes precedence over blaming25. Later there is more of an interestin assigning responsibility for the slaughter. As with the forgetting in Bell’s Istri-an village, the narrative constructed by the villagers represents a pragmatic ap-proach to memory, rather than a commitment to truth. Their shared memoryexternalises responsibility for the violence, and makes the issue of local complic-ity a taboo subject26. A clear distinction is made between the period before theatrocity, when life was peaceful and harmonious, and the rupture caused by theviolence. Divisions and conflicts that may have existed within the community areglossed over, and responsibility for the violence is assigned firmly to outsiders.Recalling Primo Levi, Woolf suggests the villagers’ narrative answers a «privateneed to find a way of living with the unspeakable, to atone for the irrational butreal sense at being one of the survivors… But the reasons are also intimately andprofoundly related to the tacit search for common ground which would avoidlacerating accusations of responsibility and recriminations»27. In other words,this small community of survivors, already decimated by atrocity, has a prag-matic need to foster cohesion and solidarity, to minimise or conceal divisionswhich might have emerged from disagreement about the past, or from attentionto the different sympathies or actions of village members during wartime. Thecloseness and interdependence of life in a small community again necessitatesforgetting, simply to enable those who remain to live together.

Interestingly, the determination toremember reported by Cappelletto isreinforced later on by a feelingamongst local people that they have

been forgotten by the wider society. They believe that their experience has notbeen acknowledged in the public commemoration of the war. This reinforces asense of isolation and the specificity of their trauma. As Cappelletto writes,

[t]he sense of a lack of justice and their own powerlessnessmade the communities retreat into silence for long periods. Sur-vivors did not want to tell their story to outsiders. It belonged tothem, among whom the practice of narration continued28.

So in part it is the lack of acknowledgement of and redress for past crimesthat prevents this community from moving on from the past. But this is linkedto a dynamic of group identification/differentiation between the local and na-tional levels, a dynamic in which practices of remembering and forgettingplayed a central part.

25 F. CAPPELLETTO, Public Memories and Personal Stories: Recalling the Nazi-fascist Massacres, in F. CAP-PELLETTO (ed.), Memory and World War II, cit., p. 113.

26 S. WOOLF, Historians: Private, Collective and Public Memories of Violence and War Atrocities, in F. CAP-PELLETTO (ed.), Memory and World War II, cit., p. 182.

27 Ibidem.28 F. CAPPELLETTO, Public Memories and Personal Stories: Recalling the Nazi-fascist Massacres, in F. CAP-

PELLETTO (ed.), Memory and World War II, cit., p. 105.

The interpretation of the past often undergoes changes over time, in what might be termed an “interpretative” forgetting

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Memory and Reconciliation in Post-Conflict Societies

Memory in the Family

I turn now to explore memory within families. The family, as Halbwachsshowed, is perhaps the most significant community of memory to which we be-long. It is where we acquire much of our social and cultural inheritance – our“borrowed memories” – and plays a vital role in socialising new generations29.For this reason, studies of intergenerational memory within the family can con-tribute important insights about the primary and secondary effects of trauma,and about the role of families as agents of memory or forgetting, two issueswhich have an important bearing on reconciliation processes.

Leonhard’s study of intergenerational memory in German families is con-cerned with the role of the family in shaping awareness of and attitudes towardsthe Nazi past, and the private terms of acknowledgement or denial within thespecific confines of the family30. Through biographical interviews with families,covering three generations, Leonhard finds a clear separation between public,national history and the private realm of memory within the family. Interest-ingly, despite the wide attention to remembrance of the Nazi period in recentdecades, she finds that the family is, very often, a site of near-silence about thepast; many families do not openly discuss the Nazi era, or are selective in theirrecollection. The reasons for this are complex, but they mostly stem from a con-cern to maintain solidarity between family members. Thus, echoing the discus-sion of community above, the pragmatic and relational needs within the familytake priority over truthful remembrance, structuring communication about thepast and establishing the limits of possible discourse. Leonhard also finds thatthere are important differences across the generations in how the relationship tomemory is enacted. The greater distance between the third generation and theNazi past enables more openness and questioning about the past, whereas thegreater closeness of first and second generations inhibits discussion, and criticaldiscussion in particular.

For example, in one family the grandfather occupies a privileged position inthe family hierarchy, dominating his wife and children and enforcing an “agree-ment of silence” about the past between first and second generations. Any ques-tions about his possible role in the National Socialist regime are suppressed, andthe third generation (a granddaughter) grows up unaware of her grandparents’past attitudes and actions. Instead, the family construct and maintain a narra-tive emphasising their independence and autonomy during the war, and theirnon-involvement in politics; according to this narrative, the grandparents sim-ply concentrated on running their business and kept a distance from politicalmatters. Any reference to suffering is restricted to the difficulties faced by thefamily, rather than any wider acknowledgement of wartime suffering or Nazi

29 M. HALBWACHS, On Collective Memory, cit.30 N. LEONHARD, Family Memories of World War II and the National Socialist Past: Change and Continuity

within Three Generations, paper presented at the conference: Using the War: Changing Memories of WorldWar Two, Oral History Society, London, July 3-5 2005.

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crimes. This apolitical attitude allows the family to draw boundaries aroundmemory, preventing any self-questioning that would threaten family relation-ships or the family’s self-image. However, public memory does intrude on thefamily when the granddaughter, learning about the history of the Nazi period atschool, begins to question her grandmother about the past. Nevertheless, hergrandmother evades the questions, talking only about her youth and only aboutsubjects she wishes to discuss. As noted above, Leonhard argues that this rela-tionship to history is quite typical within German families, though there is awell-established public culture of remembrance at national level. This raisesquestions about the process of attitudinal change across generations, and aboutthe conditions for successful transformation of memory.

In a related piece of research, alsofocused on intergenerational memoryin German families, Rosenthal ob-serves the long-term effects of trauma

and guilt, and the processes of memory transmission in the families of both sus-pected perpetrators and Holocaust victims31. In Rosenthal’s sample, the parents’or grandparents’ experience remains largely untold, shrouded in secrecy or de-nial. Attempts by the children to discover more about the parents’ or grandpar-ents’ past are often prevented, and a particular discourse of memory is “institu-tionalised” within the family. The reasons for this silence again differ in differentfamilies, but the protection of others within the context of a family relationshipis a key factor. Survivors desire to protect their children from their trauma, andchildren seek to protect their parents from their own feelings or questions. In thecase of perpetrators, they may seek to protect themselves from accusation or fa-milial rejection, but their children are equally reluctant to admit their fears orconcerns. Again, the greater relational distance between grandparents and grand-children enables change in the dynamics of remembrance within the family.

Despite its suppression, traces of memory and experience are neverthelesstransmitted to descendants, through subliminal messages or subtle hints. Thus,Rosenthal suggests that even though later generations may claim that they haveno knowledge of the family past, they do nevertheless have a subconsciousawareness of it32. Eva Hoffman is one of the most eloquent writers on this sub-ject. The child of Holocaust survivors, she notes the fundamental presence ofher parents’ trauma in her childhood, but felt as a silence and difficult burden,rather than a fully articulated memory33. She also notes her parents’ profounddifficulties in speaking about and coming to terms with their experience, andtheir desire to shield their children from their suffering. Her understanding ofher parents’ past was therefore pieced together as much from their silence asfrom their speech:

31 G. ROSENTHAL, Veiling and Denying the Past: The Dialogue in Families of Holocaust Survivors and Fam-ilies of Nazi Perpetrators, in «History of the Family», 2002, 7.

32 Ibidem.33 E. HOFFMAN, After Such Knowledge, London 2004.

dossier Memoria e conflitti

The greater relational distance between grandparentsand grandchildren enables change in the dynamics of remembrance within the family

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Memory and Reconciliation in Post-Conflict Societies

What we children received, with great directness, were the emo-tional sequelae of our elders’ experiences, the acid-etched traces ofwhat they had endured. … The legacy they passed on was not aprocessed, mastered past, but the splintered signs of acute suffer-ing, of grief and loss34.

Children are very often sensitive to their parents’ emotional states, even ifthey cannot yet recognise their origin or cause. Children may perceive their par-ents’ anguish, sadness, despair, guilt or anger long before they can fully grasp itsmeaning. As Hoffman’s writing shows, this can have a profound effect on achild’s self-identity and the relationship they form with their parents. It maysometimes manifest itself in mental health problems as the child matures, andin some cases, the children of survivors have themselves needed therapy in or-der to address their own relationship to the tragedy in their family, and themeaning it has acquired for them.

A Complex Phenomenon

The purpose of the preceding discussion was to explore the character ofmemory in post-conflict societies, focusing on the characteristics of memorywithin small communities and within the family as they emerge and evolve overtime. From such a small sample of cases, there are obviously limits to what canbe claimed. Nevertheless, three themes can be highlighted.

Firstly, at each level, we have seen that the negotiation of memory in the af-termath of violence is a complex process, shaped by a range of psychological,contextual and cultural-political factors. There is no single way of responding toviolence or dealing with its effects, nor is there a straightforward relationship be-tween knowledge about the past and a process of coming to terms with it. Pre-sent needs strongly determine what of the past is remembered and how the pastis interpreted. As Veena Das writes, «traumatic memory is constantly mediatedby the manner in which the world is being presently inhabited»35. We saw at eachlevel a more or less conscious process of negotiation undertaken in the contextof, and often for the sake of, social relationships and personal survival36. In somecases, memory was a strong presence, and the act of collective remembering wascentral to the affirmation of identity. In other cases a collective denial of the pastallowed individuals to maintain relationships with others. Even where this wasobviously dysfunctional in its effects, disrupting the established framework of

34 Ibidem, p. 24.35 V. DAS, The Act of Witnessing: Violence, Poisonous Knowledge and Subjectivity, in V. DAS et al. (eds.), Vio-

lence and Subjectivity, cit., p. 221.36 This point can be reinforced if we consider that a pragmatics of forgetting is a feature of normal every-

day life. How often do we decide to overlook an insult or a small betrayal, or decide to keep some aspectof our lives secret, simply for the sake of our relationships with family, friends or colleagues? This capac-ity for everyday denial is also what enables abuse to flourish within relationships, or for addictions to betolerated over many years. See for example: S. COHEN, States of Denial: Knowing about Atrocities and Suf-fering, Cambridge 2001; E. GOFFMAN, The Presentation of Self in Everyday Life, London 1959.

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dossier Memoria e conflitti

memory was perceived as being worse, or too risky. The literature suggests thatthe closer the proximity of individuals – in a family or community – the strongerthe pressure to put aside questions about the past, and to remember in a waythat did not upset a necessary or desired solidarity within the group. Thus, so-cial and situational factors are as important as psychological influences onmemory and forgetting.

Second, the research suggests thattrauma does not always simply over-whelm, but is one part of a person’s orcommunity’s larger experience. Thisis a point that also emerges strongly

both from recent ethnographic studies of violence and related critiques of thetrauma paradigm37. Assertions about the legacies of violent conflict for individ-uals and societies are often derived from a particular discourse about “traumat-ic” memory, a discourse rooted in the diagnostic and therapeutic framework of“Post-Traumatic Stress Disorder”. This promotes a one-dimensional and highlyindividualised view of war experience, one in which victims and their sufferingoccupy a central place. Critics suggest that there is a need to balance recognitionof the profound impact of violence and loss with an awareness that

catastrophe neither erases nor invalidates life’s other struggles.… Even after catastrophe there is still room to hope for better days,for love, and for a life that is more free38.

Again, there is an issue here of agency, of people’s capacity to find ways of liv-ing with the past. Necessity may be a driving factor, but people also retain «thecreative wherewithal to re-create the worlds war has destroyed»39. They are notsimply prisoners of a traumatic history, as some versions of trauma theory sug-gest. At the same time, paradoxically, we have also seen (in the discussion offamily memory) the subtle ways in which symptoms of trauma persist and in-fluence not only survivors, but their children too.

Third, the research suggests a degree of separation between the public andprivate realms of memory, and the persistence of wartime memories over thelong term within families and communities. Whatever the character of publicremembrance or forgetting, the private realms of memory operate according totheir own needs and logic, not unaffected by public narratives, but not con-sumed by them either. This indicates that, as Robben explains, «chapters of his-tory cannot be turned by decree»40. This was true particularly where there had

37 J. BOYDEN - J. DE BERRY (eds.), Children and Youth on the Front Line, cit.; S. WEINE, Testimony AfterCatastrophe: Narrating the Traumas of Political Violence, Evanston 2006; P.J. BRACKEN - C. PETTY (eds.),Rethinking the Trauma of War, London 1998.

38 S. WEINE, Testimony After Catastrophe: Narrating the Traumas of Political Violence, cit., p. 97.39 C. NORDSTROM, War on the Front Lines, in C. NORDSTROM - A.C.G.M. ROBBEN (eds.), Fieldwork

Under Fire: Contemporary Studies of Violence and Survival, Berkeley 1995, p. 137.40 A.C.G.M. ROBBEN, The Politics of Truth and Emotion among Victims and Perpetrators of Violence, in C.

NORDSTROM - A.C.G.M. ROBBEN (eds.), Fieldwork Under Fire: Contemporary Studies of Violence andSurvival, cit.

There is no single way of responding to violence or dealing with its effects, nor a clear-cut relationshipbetween knowledge of the past and coming to terms with it

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Memory and Reconciliation in Post-Conflict Societies

been no public acknowledgement of past suffering and no attempt to provideredress for the past. Individuals and families remembered intentionally as a formof private justice, or as a form of resistance towards public forgetting. This sug-gests a limit to the impact of public initiatives to foster a particular relationshipto the past, including public or national narratives of reconciliation. Indeed, onelesson from research on memory after World War II is precisely that the quitedramatic transformations of public memory that occurred in many post-warsocieties only delayed a process for dealing with the past41. However malleablememory might be, however open to manipulation and revision, memory is alsoquite resilient. Shifting attention towards the more private realms of memoryhelps us to understand how and why people have reason to remember or forget,despite or in reaction to public memory.

Negotiating Memory and Reconciliation

So what conclusions can be drawn from the above discussion that might berelevant to reconciliation in post-conflict societies? I argue that the research sug-gests some support for the general assumptions in the reconciliation literature,but also that a more nuanced approach is needed, one that is properly sensitiveto the particularities of each context and the real dilemmas facing those who aretrying to negotiate the demands of memory within the bounds of communityand family life.

First, while there is widespread acknowledgement that reconciliation is a longprocess, the research cited above suggests that the work of dealing with the pastfar exceeds the normal time frames of peacebuilding, with the process of work-ing through the past continuing even when peace has been established. Wemight conclude therefore that some distance from the past is needed before acritical re-examination of history is truly possible. As noted above, second andthird generations are often more able to confront the difficult implications oftheir family’s past, and it is perhaps only those with no direct experience of warwho can engage in critical questioning of history. If this argument is plausible,it would suggest that we should modify our expectations of reconciliation workin post-conflict societies. If chapters of history cannot be turned by decree, thenneither can reconciliation be willed or imposed on an unwilling population.Given the gap between public and private memory noted in this paper, dis-courses of reconciliation are unlikely to penetrate very far unless people havegenuine reasons to accept them. This does not mean that the important work ofdocumenting and investigating the past should not happen, or that trials, truthcommissions, or related initiatives have no value in the immediate post-conflict

41 For useful discussions of memory at state/national level see: J. WERTSCH, Voices of Collective Remem-bering, Cambridge 2002; J. OLICK, States of Memory, Durham 2003.

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dossier Memoria e conflitti

era. Rather, we should not burden them with unrealistic expectations. The trans-formation of attitudes, the questioning of deeply held beliefs, the critical scruti-ny of memory – these may be processes that can only be initiated and encour-aged, to be continued as the social, psychological and political context allows.

In a second and related point, wemight need to ask if it is always neces-sary, or even acceptable, to disturb theexisting and often delicate economyof memory that emerges in the imme-

diate aftermath of conflict, even if it is with the intention of promoting truth,understanding and reconciliation. There are numerous examples of communi-ties – large and small – that choose to prioritise, if not outright forgetting, thenat least the immediate tasks of survival and rebuilding a life. Does this lead to theconclusion that a period without an intense focus on the past is needed, thatcommunities should be allowed to put some distance between experience andmemory? Such a claim would be very contentious, no doubt. We could easily an-ticipate the objections raised against it – that forgetting is mostly appreciated byperpetrators keen to avoid identification or punishment, that reconciliationcannot prosper without a truthful foundation. But perhaps this does not have tobe framed as a stark choice between remembering and forgetting. It may simplysuggest a need for ways of working with communities that are more carefully at-tuned to their internal needs and dynamics, and that again recognise the impli-cations of either confronting or avoiding the past within a specific context. Atthe very least, the research helps us to understand what might occur when in-terventions are limited in their reach and scale, with many communities andfamilies unsupported in a process of dealing with the past.

In turn, then, there may be a need to re-think what reconciliation means inpractice and at different stages of a post-conflict peacebuilding process. Interna-tionally-sponsored reconciliation programmes often conceptualise reconcilia-tion in a particular, rather abstract manner, drawing their inspiration and mean-ing from religious or philosophical sources. This can result in inappropriate orineffective programmes, unresponsive to the realities of post-conflict society.For example, as Ranck argues with reference to “community reconciliation” ef-forts in Rwanda:

The idea of community in these programs generally is viewed asinnocuous: defined through spatiality, devoid of power relationsand undifferentiated by gender, class, clan or ethnicity. The fact thatvirtually every community in Rwanda was the site of massacres anddisplacement dramatically complicates what the idea of communi-

42 J. RANCK, Beyond Reconciliation: Memory and Alterity in Rwanda, in J.SIMON et al. (eds.), Between Hopeand Despair: Pedagogy and the Remembrance of Historical Trauma, Boulder 2000, p. 210.

Given the gap between public and private memory,discourses of reconciliation are unlikely to penetrate very far unless people have genuinereasons to accept them

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Memory and Reconciliation in Post-Conflict Societies

ty means …. What happens to the social idea of “community” whenneighbours, priests, nuns, doctors, and children have taken part inkilling hundreds of thousands of individuals42?

Reconciliation arguably needs to be a process defined and owned by those af-fected by it, not something implanted from outside. Similarly, initiatives for therecovery and negotiation of memory should be informed not only by an under-standing of social realities within a given area, but by an understanding of mem-ory itself. What we gain from the preceding discussion is an understanding ofthe more complex, ambiguous relationship between memory and dealing withthe past in post-conflict societies.

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osservatorio internazionale

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* Paper presentato in occasione della Tavola rotonda The Comprehensive Test Ban Treaty 10 Years After,tenutasi presso l’Ispi il 14 dicembre 2006 e realizzata in collaborazione con il Ministro degli Affari Esteri.

1 Cfr. Decisions and Principles of the 1995 Review and Extension Conference of the Parties to the Treaty on theNon-Proliferation of Nuclear Weapons, in «International Legal Materials», 34, 1995, p. 961, nonché G.DEN DEKKER, Forbearance is no Acquittance: The Legal Status of the Comprehensive Nuclear Test BanTreaty, in «Leiden Journal of International Law», 13, 2000, pp. 669-680, p. 673.

2 Cfr., per tutti, J. GOLDBLAT, The Nuclear Non-Proliferation Regime: Assessment and Prospects, in «Recueil descours de l’Académie de droit international», 256, 1995, The Hague-Boston-London 1997, pp. 9-192, p. 30.

3 Secondo l’art. IX.3 del Tnp, sono Stati nucleari solo quelli che abbiano costruito o esploso un’armanucleare o altro ordigno nucleare prima del 1° gennaio 1967, vale a dire i cinque grandi.

4 Cfr. P. TAVERNIER, L’adoption du traité d’interdiction complète des essais nucléaires, in «Annuaire françaisde droit international», 42, 1996, pp. 118-136, a p. 124 e M. ROSCINI, La sesta conferenza di riesame delTrattato sulla non proliferazione delle armi nucleari, in «La Comunità internazionale», 55, 2000, pp. 661-685, alle pp. 676-677. Sul Trattato, e sui lavori preparatori del medesimo, cfr. altresì J. GOLDBLAT, TheNuclear Non-Proliferation Regime: Assessment and Prospects, cit., pp. 49-73; C. SALVETTI - L. BUCAIONI,Il regime di non proliferazione nucleare: il nuovo trattato per la proibizione completa dei test, in «LaComunità internazionale», 52, 1997, pp. 256-277; A. DI LIETO, Attività nucleari e diritto internazionale,Napoli 2005, pp. 66-71; K.A. HANSEN, The Comprehensive Nuclear Test Ban Treaty. An Insider’sPerspective, Stanford 2006, ove in appendice sono riportati il testo del Trattato e tutti gli altri testipertinenti. Questi sono altrimenti reperibili sul sito della Ctbto PrepCom, <http://www.ctbto.org>.

La Conferenza di riesame ed estensionedel Trattato sulla non proliferazionedelle armi nucleari (Tnp) del 1° luglio1968, svoltasi a New York nel 1995, de-cretò l’estensione a tempo indetermi-nato del medesimo: essa venne appro-vata dagli Stati non nucleari in cambio,tra l’altro, dell’impegno a che si adot-tasse «non più tardi del 1996» un trat-tato (in fase di negoziazione alla Confe-renza del disarmo) di messa al bandocompleta degli esperimenti nucleari1.

Il 25 settembre 1996 veniva in effettiaperto alla firma a New York il Com-prehensive Nuclear-Test-Ban Treaty(Ctbt), testo destinato a inserirsi qualetassello importante nel quadro deglistrumenti tesi a prevenire la proliferazio-ne non solo orizzontale, ma anche verti-cale, dell’arma nucleare: la prima riferen-dosi a una espansione del numero deipaesi in possesso dell’arma nucleare, la

seconda alla crescita degli arsenali nu-cleari delle potenze nucleari2. Il Trattato,infatti, nel vincolare ogni Stato parte anon effettuare alcuna esplosione a fini disperimentazione di armi nucleari o alcu-na altra esplosione nucleare e a proibire eprevenire tali esplosioni in ogni luogosottoposto alla sua giurisdizione o con-trollo (art. I), da un lato rafforza il regimedi non proliferazione orizzontale deri-vante dal Tnp, nel quale già è implicito ildivieto di sperimentare armi nucleari pergli Stati ufficialmente “non nucleari”.Dall’altro, non proibisce, ma rende quan-tomeno più difficile il rinnovo degli arse-nali e la produzione di nuove tipologie diarmi nucleari, da parte degli Stati nuclea-ri3: per quanto non siano vietati tutti gliesperimenti, ma solo quelli che compor-tano una “esplosione”, rimanendo inveceleciti i test sub-critici in laboratorio e lesimulazioni4.

Quale futuro, dopo dieci anni, per il Trattato sulla messa al bando completa degli esperimenti nucleari?*

MARCO PEDRAZZIè Professore ordinario di Diritto Internazionalepresso l’Università degli Studi di Milano

Marco Pedrazzi

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osservatorio internazionale

5 Cfr. la Legge di autorizzazione alla ratifica ed esecuzione n. 484 del 15 dicembre 1998, in «Gazzetta ufficiale»n. 10, 14 gennaio 1999 (suppl. ord.). Per lo stato delle firme e delle ratifiche cfr. il sito della CtbtoPrepCom, cit.

6 Il decimo anniversario del Segretariato tecnico provvisorio è caduto il 17 marzo 2007: cfr. il sito dellaCtbto PrepCom, cit.

Il fatto è che il Ctbt, per quanto ra-tificato da 138 Stati, tra i quali l’Italia5,non è ancora entrato in vigore ed èdubbio, per come stanno le cose, chepossa entrare in vigore nel prossimo fu-turo. Per di più, questa situazione eraprevedibile, e annunciata, nel momen-to stesso in cui il Trattato è stato adot-tato, dipendendo dalle disposizioni delmedesimo. Tuttavia il testo non può es-sere lasciato cadere nel dimenticatoio,sia per la sua importanza, non solo ai fi-ni della non proliferazione, ma ancheper il contributo che esso darebbe allatutela dell’ambiente e della salute ditutti; sia per il fatto che l’adozione delTrattato ha comunque dato luogo alsorgere di un’organizzazione interna-zionale, per quanto provvisoria, incari-cata di predisporre i sistemi di verificae controllo che dovrebbero essere suc-cessivamente ereditati dalla Organizza-zione per la messa al bando completadegli esperimenti nucleari (Ctbto), cheentrerebbe in funzione con l’entrata invigore del Trattato. L’organizzazioneprovvisoria, cioè la Commissione pre-paratoria (PrepCom), esiste, ha or orafesteggiato il suo decimo compleanno6,funziona, e… verifica. Il problema diciò che si vuol fare di questa strutturavivente e operante, nella realtà e alla lu-ce dell’ordinamento internazionale, èdunque un problema serio, che deve es-sere affrontato.

La questione insolubile dell’entratain vigore del Trattato

Come si è detto, l’origine della man-cata entrata in vigore del Ctbt sta nel te-sto stesso del Trattato. L’art. XIV, infatti,stabilisce una condizione di per séestremamente difficile da realizzarsi aifini dell’entrata in vigore, disponendoche questa avverrà 180 giorni dopo ildeposito della ratifica da parte di 44paesi, nominativamente indicati in unalista annessa al Trattato. Trattasi, sostan-zialmente, dei paesi in possesso di tec-nologie nucleari, sia militari sia civili: adoggi, hanno ratificato in 34, tra i qualitre dei cinque Stati nucleari “ufficiali”(Francia, Regno Unito e Federazionerussa). Naturalmente nessuno può ne-gare che dietro questa scelta vi sia statauna motivazione seria: cioè quella per laquale un bando di tutti gli esperimentinucleari può funzionare pienamentesoltanto se tutti gli Stati che potenzial-mente siano in grado di accedere agliusi militari dell’energia nucleare vi ade-riscono. Ma richiedere la ratifica di 44Stati significa esporre l’intera comunitàinternazionale al possibile ricatto diuno o di pochi paesi che, per i motivipiù vari, si rifiutino di cooperare al rag-giungimento dell’obiettivo comune.Del resto, l’universalità di un trattato sipuò raggiungere in modo graduale, do-po che questo abbia già iniziato a pro-durre i suoi frutti. E ancora, il Ctbt nonlascia senza tutela gli Stati parte che invirtù di una emergenza dovuta al com-portamento di uno Stato non parte sen-tissero di doversi proteggere imboccan-

Il Ctbt, sebbene ratificato da 138Stati, non è ancora entrato in vigoreed è dubbio che possa entrare invigore nel prossimo futuro

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Quale futuro, dopo dieci anni, per il Trattato sulla messa al bando completa degli esperimenti nucleari?

7 A proposito della recente dichiarazione di recesso nord-coreana in relazione all’analoga clausola del Tnpsi rimanda a C. PONTI, Il recesso dai trattati in materia di disarmo. Il caso della Corea del Nord e il futurodel regime di non proliferazione nucleare, in corso di pubblicazione a cura dell’ISPI.

8 Per un’ampia analisi cfr. J. GOLDBLAT, The Nuclear Non-Proliferation Regime: Assessment and Prospects,cit. Le disposizioni dell’art. XIV del Ctbt sono criticate da pressoché tutti gli autori.

9 Cfr., tra gli altri, P. TAVERNIER, L’adoption du traité d’interdiction complète des essais nucléaires, cit., pp.121 e 127.

10 Cfr. le dichiarazioni finali delle conferenze, reperibili sul sito della PrepCom, cit.11 Sul rigetto del Trattato da parte del Senato degli Stati Uniti cfr. K.A. HANSEN, The Comprehensive

Nuclear Test Ban Treaty. An Insider’s Perspective, cit., pp. 50-52.

do nuovamente la via degli esperimentinucleari: essendo prevista a tal proposi-to la clausola di recesso di cui all’art. IX,che, in conformità di quanto stabilito daanaloghi trattati, prevede la possibilitàdi recedere, con preavviso di sei mesi,per quello Stato che decida che eventistraordinari relativi all’oggetto del Trat-tato abbiano pregiudicato i suoi supre-mi interessi7.

Non per nulla, diverso è stato l’ap-proccio seguito dal Tnp, che richiedeva,al fine dell’entrata in vigore, la ratificadi 43 Stati, tra i quali erano nominati-vamente indicati soltanto i tre deposi-tari del Trattato: gli Stati Uniti, il RegnoUnito e l’Unione Sovietica. È vero chequesto Trattato è oggi in crisi, in virtùdelle attività nucleari effettuate o pro-grammate da alcuni Stati, taluni deiquali, peraltro, vincolati (o già vincola-ti) dal Tnp. Ma va anche ricordato cheesso ha contribuito in modo importan-te per alcuni decenni ad arginare laproliferazione nucleare8.

L’errore più grande, d’altra parte, èstato forse quello di procedere comun-que alla adozione del Trattato, art. XIVcompreso, in sede di Assemblea Gene-rale delle Nazioni Unite, nonostante larigida opposizione dell’India, uno dei44 Stati, dovuta anche, tra l’altro, al tro-varsi inserita nella lista di quelli che do-vevano ratificare. L’India, comunque,annunciava che non avrebbe ratificato,motivando la sua avversità al Trattatocon ragioni di fondo, legate alle inade-

guate garanzie che il Ctbt costituisse, insostanza, un passo effettivo in direzionedel disarmo nucleare delle cinque gran-di potenze nucleari9. Il Trattato venivadunque concepito sotto una cattivastella, con la consapevolezza di tutti isuoi padri che esso avrebbe rischiato dinon vedere mai la luce.

Nessun passo concreto, al di fuoridi appelli alla ratifica e attività promo-zionali, è del resto emerso dalle benquattro conferenze convocate (neglianni 1999, 2001, 2003 e 2005) inconformità dell’art. XIV.2 del Trattato,a partire dal terzo anniversario dalladata di apertura alla firma, e cheavrebbero dovuto decidere per consen-sus «quali misure compatibili con il di-ritto internazionale possano essere in-traprese per accelerare il processo diratifica in modo da facilitare l’entratain vigore» dello stesso10.

In questi anni, per di più, oltre allapersistente opposizione dell’India, laquale contribuisce a tenere fuori dalTrattato il Pakistan, altri ostacoli si so-no aggiunti: dal rifiuto del Senato degliStati Uniti, nell’ottobre 1999, di proce-dere alla ratifica (e l’assenza americanaparalizza la ratifica cinese) alla recen-tissima nuova crisi nord-coreana e aquella iraniana, in pieno svolgimento11.Per quanto la situazione internazionalesia sempre suscettibile di evoluzione,nulla lascia presagire che in tempi bre-vi possano esservi cambiamenti radica-li atti a risolvere lo stallo attuale.

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Quaderni di Relazioni Internazionali n. 4 Aprile 200784

osservatorio internazionale

12 Il Trattato che proibisce i test con armi nucleari nell’atmosfera, nello spazio esterno e sott’acqua è statoaperto alla firma a Londra, Mosca e Washington l’8 agosto 1963 ed è entrato in vigore il 10 ottobre dellostesso anno. Cfr. il sito <http://disarmament.un.org.>.

13 Cfr., in senso analogo, M. ROSCINI, Le zone denuclearizzate, Torino 2003, pp. 276-277 e, ivi, nota 70.14 Cfr. in particolare G. GAJA, Quali effetti ha la firma del Trattato per il divieto totale degli esperimenti

nucleari?, in «Rivista di diritto internazionale», 79, 1996, pp. 973-975.15 Cfr., a contrario, G. DEN DEKKER, Forbearance is no Acquittance: The Legal Status of the Comprehensive

Nuclear Test Ban Treaty, cit., p. 676.

D’altro canto, per quanto le nume-rose ratifiche che, nonostante tutto,continuano a giungere costituiscanoindubbiamente un elemento impor-tante ai fini del consolidarsi di una opi-nio juris degli Stati favorevole alla illi-ceità degli esperimenti nucleari tramiteesplosione, in qualunque ambiente essisi producano, e mentre il successo delTrattato per la messa al bando parzialedegli esperimenti nucleari del 5 agosto196312 e la prassi degli Stati sembranoconfermare l’illiceità, alla luce del dirit-to consuetudinario, dei test effettuatinell’atmosfera e nello spazio extra-at-mosferico e di quelli sottomarini, sem-bra ancora prematuro affermare la cor-rispondenza al diritto internazionalegenerale del divieto dei test sotterranei,nonostante le condanne internazionaliattratte dai test condotti nell’ultimo de-cennio, peraltro da Stati non nucleariai sensi del Tnp13. Controversa è anchela questione se un divieto di effettuaretali esperimenti possa già gravare sui177 Stati firmatari del Ctbt e sui 138che lo hanno ratificato, in virtù dell’art.18 della Convenzione di Vienna sul di-ritto dei trattati, secondo cui gli Statiche hanno firmato un trattato devonoastenersi da atti che privino il Trattatostesso del suo oggetto e del suo scopofino a che non manifestino l’intenzione

di non divenirne parte, e lo stesso pre-cetto vale per gli Stati che lo abbianoratificato, a condizione che l’entrata invigore non sia indebitamente ritardata.Parte della dottrina sottolinea, infatti,come tale obbligo presupponga, pro-prio in virtù dell’art. XIV del Trattato,una situazione di uguaglianza tra tutti i44 Stati della lista e dunque come essopossa sorgere solo a seguito della firmada parte di tutti e 4414. Peraltro, se a unoStato firmatario è sufficiente dichiararela propria volontà di non aderire persottrarsi a qualunque obbligo, il rischioè che taluni Stati che hanno ratificatopossano iniziare, a più di dieci anni dal-la apertura alla firma, a invocare l’inde-bito ritardo nell’entrata in vigore, qua-lora dovessero essere tentati dal ripren-dere i test atomici sotterranei15.

Natura, funzioni e fondamento giuridico della PrepCom

Il Trattato prevede, all’art. IV e inun apposito Protocollo, un complessomeccanismo di verifica e controllo sulrispetto delle sue disposizioni da par-te degli Stati che ne siano vincolati,che fa capo, come si è detto, alla Orga-nizzazione per la messa al bando com-pleta degli esperimenti nucleari. Ilmeccanismo poggia principalmente sudue pilastri: da un lato il Sistema in-ternazionale di monitoraggio, dall’al-tro le ispezioni in situ. Il Sistema inter-nazionale di monitoraggio, posto sot-

Il Trattato veniva concepito sotto unacattiva stella, con la consapevolezzadi tutti i suoi padri che esso avrebberischiato di non vedere mai la luce

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n. 4 Aprile 200785

Quale futuro, dopo dieci anni, per il Trattato sulla messa al bando completa degli esperimenti nucleari?

16 In merito al possibile ruolo del Consiglio di Sicurezza si rinvia alle considerazioni svolte in M.PEDRAZZI, Proliferazione come minaccia alla pace e ruolo del Consiglio di Sicurezza, in corso dipubblicazione a cura dell’ISPI.

to la responsabilità del Segretariatotecnico della Ctbto, si fonda sostan-zialmente su quattro reti di stazionisparse in vari punti del globo, e predi-sposte rispettivamente al rilevamentosismico, idroacustico, a ultrasuoni e alrilevamento di radionuclidi; sui ri-spettivi sistemi di comunicazione; esul Centro internazionale dati, collo-cato presso il Segretariato tecnico, nel-la sede di Vienna. Le ispezioni in situpossono essere richieste da ogni Statoparte che voglia verificare se un’esplo-sione nucleare sia stata effettuata inviolazione del Trattato e identificare ilresponsabile: ogni richiesta deve esse-re approvata dal Consiglio esecutivodella Ctbto, organo composto da 51Stati parte e dotato di importanti po-teri di decisione. Sono previste sanzio-ni nei confronti dello Stato parte cheeffettui richieste di ispezione frivole oabusive. Quanto alle sanzioni che pos-sono essere adottate, in caso di viola-zione del Trattato, nei confronti delloStato responsabile, l’art. V prevede chela Conferenza degli Stati parte, organodi base dell’Organizzazione definitiva,composto da tutti gli Stati parte delTrattato, possa raccomandare a questiultimi l’adozione di misure collettiveconformi al diritto internazionale. Maè ovvio quanto il Trattato faccia inrealtà affidamento sull’interventoesterno del Consiglio di Sicurezza del-le Nazioni Unite (lo stesso art. V pre-vede che tanto la Conferenza quanto,in caso di urgenza, il Consiglio esecu-tivo possano portare la situazione al-l’attenzione dell’Onu)16.

La predisposizione di tale meccani-smo richiedeva una lunga e articolataopera preparatoria e proprio a questo fi-ne veniva costituita la Commissionepreparatoria e l’art. XIV del Trattato sta-biliva che il Trattato non entrasse in vi-gore prima di due anni dalla data dellasua apertura alla firma. Le commissionipreparatorie costituiscono uno stru-mento utilizzato ai fini della preparazio-ne dell’entrata in vigore dei più dispara-ti accordi internazionali, essendo, tral’altro, comuni anche tra gli strumentimultilaterali in materia di disciplina de-gli armamenti: basti pensare alla Prep-Com della Organizzazione per la proibi-zione delle armi chimiche, che ha fun-zionato per quattro anni prima della en-trata in vigore della Convenzione di Pa-rigi del 13 gennaio 1993. La PrepComdella Ctbto presenta peraltro talune ca-ratteristiche, e non solo in virtù della suadecennale esistenza, che la rendono me-ritevole di considerazioni particolari.

La PrepCom è stata istituita con unarisoluzione adottata dagli Stati firmata-ri del Trattato il 19 novembre 1996. Larisoluzione contiene in allegato il “Testosulla costituzione di una Commissionepreparatoria per l’Organizzazione per lamessa al bando completa degli esperi-menti nucleari”, articolato in 22 para-grafi. Il Testo stabilisce che la PrepCom

Le commissioni preparatorie sono strumenti utilizzati per la preparazione dell’entrata invigore degli accordi internazionali,specialmente in materia di disciplina degli armamenti

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17 Cfr. la Press Release del 15 marzo 2007 sul sito della Ctbto PrepCom, cit.18 Cfr. in particolare N. RONZITTI, La Convention sur l’interdiction de la mise au point, de la fabrication, du

stockage et de l’emploi des armes chimiques et sur leur destruction, in «Revue générale de droit internationalpublic», 99, 1995, pp. 881-926, a p. 924, ove richiama, in alternativa alla tesi dell’accordo in formasemplificata, quella che fa leva sull’art. 18 della Convenzione di Vienna.

19 Cfr. analogamente A. AUST, The CTBTO Preparatory Commission – Legal Status and Responsibilities, in«CTBTO Spectrum», 4, July 2004, pp. 10-11 (disponibile sul sito della Ctbto PrepCom, cit.).

20 Cfr. la Press Release del 29 marzo 2007 sul sito della Ctbto PrepCom, cit.

è un’organizzazione internazionale, de-stinata a rimanere in funzione fino allaconclusione della prima sessione dellaConferenza delle parti della Ctbto (par.21). La Commissione è composta datutti gli Stati firmatari e ha sede a Vien-na, presso la sede della futura Organiz-zazione. Essa nomina un Segretario ese-cutivo e costituisce un Segretariato tec-nico provvisorio, il quale a marzo del2007 conta su un personale compostodi 254 individui17. Dispone di un bilan-cio alimentato dai contributi obbligato-riamente versati dagli Stati firmatari(par. 5). Adotta le sue decisioni ove pos-sibile per consensus, ma se necessariocon un voto a maggioranza sempliceper le questioni di procedura e a mag-gioranza di due terzi dei membri pre-senti e votanti per le questioni di so-stanza (par. 6). Tra i compiti principalidella PrepCom vi sono quello di intra-prendere le necessarie attività prepara-torie per garantire l’operatività del regi-me delle verifiche al momento della en-trata in vigore (par. 13); di coordinare lasperimentazione tecnica delle compo-nenti del sistema e la messa in funzionein quanto necessario del Centro inter-nazionale dati e del Sistema internazio-nale di monitoraggio (par. 14); di pre-parare in quanto necessario il supportoalle ispezioni in situ a partire dalla en-trata in vigore del Trattato (par. 15).

Dal punto di vista giuridico, perquanto siano date varie spiegazioni inmerito al fondamento giuridico degliatti costitutivi delle commissioni pre-paratorie18, risulta difficile, almeno in

questo caso, ritenere che la risoluzionedel 1996, con l’annesso Testo istitutivo,sia altro rispetto a un accordo in formasemplificata tra gli Stati firmatari delTrattato19: un accordo istitutivo di unavera e propria organizzazione interna-zionale, dotata di competenze non irri-levanti. L’art. 18 della Convenzione diVienna sul diritto dei trattati, anzichécostituire la sola base giuridica dell’ob-bligo degli Stati firmatari di supportarela Commissione, contribuisce tutt’alpiù a rafforzarlo, poiché è chiaro cheogni atto diretto a sabotarne l’esistenzae il funzionamento metterebbe in peri-colo il raggiungimento dell’oggetto edello scopo del Trattato.

Per quanto sia chiaro che la Prep-Com non possa applicare integralmen-te il Ctbt in attesa della sua entrata invigore, né mettere in atto tutti gli stru-menti da questo predisposti, a partiredalle ispezioni in situ, la Commissioneha svolto, nei dieci anni trascorsi dallasua costituzione, e sta svolgendo, inconformità con il suo Testo istitutivo,un’attività degna di rilievo. In partico-lare, essa sta infatti predisponendo il Si-stema internazionale di monitoraggio,oggi costituito al 60%, attraversoun’ampia rete di stazioni stabilite innumerosi Stati, tramite accordi stipula-ti tra questi e la Commissione20. Il Siste-ma, per di più, è già operativo ed è ingrado di rilevare dati relativi a qualsia-si esplosione nucleare, a prescindere dalfatto che questa avvenga o meno sulterritorio di uno Stato firmatario. Tan-to i dati grezzi quanto quelli elaborati

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n. 4 Aprile 200787

Quale futuro, dopo dieci anni, per il Trattato sulla messa al bando completa degli esperimenti nucleari?

21 Cfr. M. CROWLEY, Ten Years of CTBT: Achievements and Challenges ahead, in «CTBTO Spectrum», 9, Jan.2007, pp. 10-11; North Korea: A Real Test for the CTBT Verification System?, ibidem, pp. 24 e 28.

sono trasmessi attraverso il Centro in-ternazionale dati a tutti gli Stati firma-tari. Ciò è avvenuto nell’immediato se-guito dell’esperimento nucleare nord-coreano del 9 ottobre 2006, un test an-che per le capacità di funzionamentodella organizzazione provvisoria. Il 13ottobre i delegati dei vari Stati firmata-ri, già in possesso delle informazioni ri-levanti, si sono riuniti in una sessionespeciale della PrepCom, che ha dura-mente condannato l’episodio21. LaPrepCom costituisce dunque oggi unarealtà nel panorama internazionale:una realtà concreta che dà il suo contri-buto effettivo in termini di strutture edi capacità di vigilanza nel quadro delcontrollo internazionale degli arma-menti, una realtà anche dal punto di vi-sta dell’ordinamento internazionaledella quale, nel decidere i passi che do-vranno essere compiuti nel futuro, nonè possibile non tenere conto.

Quali soluzioni possibili per il futuro?

Gli ostacoli, tuttora in apparenza in-sormontabili, a che si realizzi in tempibrevi la condizione che permetta l’en-trata in vigore del Ctbt sollecitano a ri-cercare possibili soluzioni alternative,qualora tale condizione dovesse conti-nuare a essere paralizzata. D’altra partenon sembra possibile continuare a nonfar nulla, poiché l’attuale provvisorietàè precaria e non si può pensare che inassenza di entrata in vigore essa possaperpetuarsi all’infinito. È chiaro come

qualunque passo necessiti della volontàpolitica degli Stati firmatari, o quanto-meno di quelli contraenti, cioè di quel-li che già si sono vincolati attraverso laratifica. Ma la volontà politica potràformarsi soltanto su una tra varie solu-zioni concepibili sul piano tecnico-giu-ridico. È dunque necessario riflettere suqueste ultime.

Una prima possibilità consisterebbenella stipulazione di un nuovo accordotra gli Stati firmatari sulla applicazioneprovvisoria del Ctbt. L’applicazioneprovvisoria di un trattato è spesso con-cordata dagli Stati in pendenza dell’en-trata in vigore. Ciò consentirebbe unamessa in atto integrale degli strumentiprevisti dal Trattato, tra gli altri le ispe-zioni in situ, e non soltanto parziale,quale è possibile oggi nel quadro dellaPrepCom. Ciò che lascia perplessi diquesta soluzione è la sua natura “prov-visoria” per definizione: si tratterebbedunque di sostituire alla provvisorietàattuale una nuova provvisorietà, nonsuscettibile comunque di tradursi inuna stabilità sufficiente.

Una seconda ipotesi potrebbe vede-re il ricorso a una soluzione ingegnosa,e anche discutibile sotto il profilo giuri-dico, sul modello di quella adottata nel1994 per modificare un trattato che siapprestava a entrare in vigore: ci si rife-risce all’Accordo (New York, 28 luglio

Gli ostacoli all’entrata in vigore del Ctbt sollecitano a ricercarepossibili soluzioni alternative,qualora tale condizione dovessecontinuare a essere paralizzata

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22 Cfr., per tutti, T. TREVES, L’entrée en viguer de la Convention des Nations Unies sur le droit de la mer et lesconditions de son universalisme, in «Annuaire français de droit international», 39, 1993, pp. 850-873.

23 Si rinvia in proposito a M. PEDRAZZI, Proliferazione come minaccia alla pace e ruolo del Consiglio diSicurezza, cit.

1994) per l’attuazione della parte XIdella Convenzione di Montego Bay suldiritto del mare del 10 dicembre 1982.Visto che la Convenzione stava per en-trare in vigore con l’apporto pressochéesclusivo dei paesi in via di sviluppo, ein una forma non gradita ai paesi occi-dentali che contestavano alcuni aspettidel regime dello sfruttamento delle ri-sorse dei fondali oceanici, l’Accordo del1994 introduceva di fatto alcune modi-fiche a tale regime e stabiliva al con-tempo che qualunque nuovo strumen-to di ratifica della Convenzione avreb-be comportato allo stesso tempo il con-senso a vincolarsi all’Accordo22. Analo-gamente, gli Stati firmatari del Ctbt po-trebbero stipulare un accordo che sta-bilisca l’entrata in vigore immediata, ocomunque a condizioni molto sempli-ficate, del Trattato, di fatto modificandol’art. XIV di quest’ultimo, al contempoprevedendo che qualunque nuovo stru-mento di ratifica del Trattato comportianche l’accettazione dell’accordo stes-so. La soluzione potrebbe funzionaresoltanto se sorretta da un ampio con-senso e sarebbe naturalmente criticabi-le dal punto di vista della sua confor-mità al diritto dei trattati così come lo èquella incorporata nell’Accordo del1994. Rispetto alla precedente, essaavrebbe peraltro il pregio della stabilità.

Una terza ipotesi è quella che gli Sta-ti firmatari decidano di salvare le strut-ture del Sistema internazionale di mo-nitoraggio, e possibilmente altri aspettidel Ctbt, quali in primo luogo il divie-to di effettuare esperimenti nucleari,pur sacrificando l’organizzazione inter-

nazionale esistente, stipulando un pro-tocollo allo Statuto dell’Agenzia inter-nazionale per l’energia atomica (Aiea),che affidi le strutture di cui sopra, com-preso il Centro internazionale dati, e ilSistema nel suo insieme, alla gestionedell’Agenzia stessa, in modo da evitareil disperdersi di un patrimonio prezio-so. Certo questa soluzione, al di là delsacrificio di una struttura organizzativaesistente e funzionante (che, peraltro,potrebbe anche essere almeno in parteassorbita all’interno dell’Aiea quale set-tore autonomo) implicherebbe la defi-nitiva rinuncia alla prospettiva dell’en-trata in vigore del Ctbt.

Infine, una quarta possibilità sarebbequella che il Consiglio di sicurezza adot-tasse una nuova risoluzione “legislativa”,sul modello della risoluzione n. 1540 del28 aprile 2004 in tema di non prolifera-zione delle armi nucleari a beneficio diattori non statali, con cui facesse proprioil regime incorporato nel Ctbt, impo-nendone il rispetto a tutti gli Stati mem-bri e, al contempo, istituisse un organosussidiario cui affidasse i compiti asse-gnati dal Trattato alla Ctbto. Anche lascelta di questa via comporterebbe ov-viamente il sacrificio della struttura or-ganizzativa esistente e la rinuncia defini-tiva alla prospettiva della entrata in vi-gore del Trattato. Essa peraltro, oltre cheal momento poco probabile dal puntodi vista politico, sembra anche poco au-spicabile sia per la dubbia legittimità al-la luce della Carta che continua a cir-condare il ricorso a risoluzioni di questotipo da parte del Consiglio di sicurezza23,sia perché nel caso concreto la scelta di

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Quale futuro, dopo dieci anni, per il Trattato sulla messa al bando completa degli esperimenti nucleari?

questo mezzo rischierebbe di alimenta-re le tensioni a livello internazionale, an-ziché di sopirle, e di creare pericolosefratture in seno alla massima organizza-zione mondiale.

Conclusioni

Si sono ipotizzate sopra alcune, noncerto tutte, tra le possibili vie da segui-re per tentare di salvaguardare il patri-monio rappresentato da un trattatoche, nonostante sia oggi stato ratificatoda più dei due terzi degli Stati e firma-to dalla quasi totalità, rischia di non en-trare mai in vigore. Un trattato che hacomunque contribuito in questi annialla rarefazione degli esperimenti nu-cleari, in particolare di quelli sotterra-nei, se non purtroppo alla loro scom-parsa, e comunque alla stigmatizzazio-ne degli stessi da parte dell’intera co-munità internazionale; e che, grazie al-la costituzione di una organizzazioneprovvisoria, e alla messa in piedi di unimportante sistema internazionale diverifica, facente perno su reti di stazio-ni di rilevamento sparse per il globo e

su un centro di raccolta ed elaborazio-ne dei dati, ha dato un apporto signifi-cativo alla rilevazione e alla diffusionedelle informazioni riguardanti gli even-tuali test nucleari.

Ciascuna delle soluzioni ipotizzatepresenta vantaggi e svantaggi. Nessunaè priva di difetti e di pericoli. Certa-mente, l’obiettivo maggiormente au-spicabile rimane quello della entrata invigore del Ctbt. A questo fine, risultainnanzitutto essenziale convincere gliStati Uniti: nessuna via d’uscita è pen-sabile senza il loro contributo. Ma unavolta che questo si ottenga, e l’obiettivonon è irraggiungibile, anche lo studiodelle soluzioni alternative qui menzio-nate potrebbe costituire, oltre che unascappatoia nel caso in cui l’entrata invigore rimanesse un miraggio, ancheun utile stimolo per spronare gli ultimiStati refrattari (in particolare, l’India) aentrare nel Trattato.

L’obiettivo maggiormenteauspicabile rimane quello dellaentrata in vigore del Ctbt. A questofine risulta innanzitutto essenzialeconvincere gli Stati Uniti

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Un Piano Marshall al contrario

L’America latina farà da sé: è una deci-sione meno velleitaria del famoso pro-gramma risorgimentale “L’Italia faràda sé”. Applicandola all’America latinaodierna, la frase ha un significato im-perativo perché riflette effettivamentel’avvio di un fase più autonoma, anziinevitabilmente autonoma, e perché si-gnifica la fine di un lungo periodo diattese e di promesse non realizzate.

Le attese e le promesse erano notefin dal periodo immediatamente suc-cessivo alla fine della seconda guerramondiale quando gli Stati Uniti deci-sero di aiutare i paesi europei su dueversanti: la ricostruzione e la moder-nizzazione. Il Piano Marshall obbe-dirà a questi due obiettivi con un suc-cesso straordinario, un’eco che si faràsentire anche nei paesi che ne furonoesclusi. Il film spagnolo BienvenidoMister Marshall (1952) del registaLuis Berlanga ne è la dimostrazione ailivelli più umili, nel caso un villaggiotagliato fuori dal mondo modernoche aspetta l’arrivo di Marshall inpersona. Comunque, dopo la conclu-sione l’anno seguente degli accorditra la Spagna di Franco e gli StatiUniti, che agiscono nel quadro delcontainment, dello sbarramento con-tro l’espansionismo sovietico, perfinola Spagna avrà gli aiuti americani.

Anche i governi latinoamericani

vorrebbero avere un Piano Marshall,ma a questo punto c’è un malinteso: gliStati Uniti non intendono “costruire”ma “ricostruire”. Sarà lo stesso Mar-shall a escludere l’estensione del suoPiano all’America latina, e a stipulareal suo posto il 2 settembre 1947 a Riode Janeiro un trattato di assistenza re-ciproca contro aggressioni esterne(Trattato di Rio)1.

I paesi europei beneficiari del PianoMarshall sono già paesi industriali. Ac-cade così qualcosa di imprevedibile:terminata la ricostruzione lungo il de-cennio dei ’50 i gruppi industriali deipaesi sconfitti, italiani, tedeschi, giap-ponesi, contribuiranno all’industria-lizzazione di paesi come l’Argentina, ilBrasile, il Venezuela dove già esisteva-no colonie e industrie italiane2, tede-sche, giapponesi.

Si realizzeranno così dei minipianiMarshall peraltro non inquadrati instrategie organiche “nazionali”. Nel ca-so dell’Italia non vi sarà un raccordopolitico tra l’emigrazione di élite e l’e-migrazione di massa, tra l’altro avviatein direzioni diverse (i paesi latinoame-ricani la prima, i paesi europei, il Ca-nada, l’Australia la seconda) e sotto eti-chette diverse (la Pirelli, per esempiofigura come società svizzera).

I punti di arrivo non sono moltodistinti da quelli dell’Europa meridio-nale, semmai sono più promettenti.Un viaggiatore inglese di origine ma-

L’America latina farà da sé

LUDOVICO INCISA DI CAMERANAè stato Ambasciatored’Italia in Argentina e Venezuela e Segretariogenerale dell’Istituto Italo-Latinoamericano di Roma

Ludovico Incisa di Camerana

1 Gli aiuti ai paesi latinoamericani non supereranno il 4,8 per cento del totale (Cfr. F. PARKINSON, LatinAmerica, the Cold War & the World Powers 1945-1973, Beverly Hills-London 1974, pp. 13-14).

2 Già nel 1887 gli italiani (55 per 100 del totale tra imprenditori e operai) erano predominanti in Argenti-na (A. DORFMAN, Historia de la industria argentina, Buenos Aires 1970, p. 282).

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n. 4 Aprile 200791

L’America latina farà da sé

3 T. MENDE, L’Amérique Latine entre en scéne, trad. francese, Paris 1952, p. 9.4 Y. LACOSTE, Géographie du Sous-Développement, Paris 1965, p. 21.5 C. BEALS, Rio Grande to Cape Horn, New York 1943, pp. 132, 137, 176, 178.

giara, Tibor Mende, scrive dopo unviaggio sul posto nel 1952:

Le potenti repubbliche del-l’America latina acquistano agrandi passi la maturità che glipermetterà di svolgere il proprioruolo di Grandi Potenze. La loropopolazione, che s’accresce rapi-damente, le loro risorse, le loroindustrie li alzeranno poco a po-co al livello degli Stati Uniti deiquali potranno un giorno egua-gliare la potenza. Chiunque siassicura il loro aiuto e guadagnala loro simpatia ha in mano unadelle leve della nostra era3.

Sono previsioni molto ottimiste.Tuttavia, tredici anni dopo in un qua-dro comparativo sul prodotto naziona-le lordo per abitante due paesi latinoa-mericani (Uruguay e Venezuela) sononella stessa categoria dell’Italia (più di500 dollari a testa); Argentina, Cuba,Colombia, Brasile nella categoria se-guente, quella della Spagna (più di 250dollari a testa), mentre il Messico, ilPerù, l’Ecuador, il Cile, il Paraguay so-no con il Portogallo nella categoria conpiù di 100 dollari a testa4.

Da allora grazie all’assimilazionedella modernità e all’allargamento del-l’area produttiva, i paesi membri dellaComunità Europea hanno distanziato iconfratelli latinoamericani che, oltretutto, a causa di un’autentica rivoluzio-ne demografica, hanno raddoppiato oquasi triplicato (Brasile, Messico) lapropria popolazione.

Il primo populismo

Nel 1942, poco tempo dopo l’entra-ta in guerra degli Stati Uniti, un gior-nalista americano, Carleton Beals,pubblica le impressioni riportate da unsuo giro nei paesi latinoamericani.

I giudizi sono piuttosto brutali. IlMessico è «un paese di socialisti milio-nari e di cavalieri erranti del capitale».Cuba «un paese di gente scura vestitadi bianco». La Colombia, dopo una se-rie di cortesie da parte degli Stati Uni-ti, che le strappano Panama, la zona delfuturo canale, è al primo posto nelcontrobattere la penetrazione dell’As-se, e «può assumere un ruolo comemembro maturo del consesso dell’emi-sfero occidentale». Il Venezuela è il re-gno del petrolio, ma «sta leccando lesue ferite, ancora cercando di dimenti-care l’incubo della dittatura del gene-rale Gómez»5.

In Brasile il dittatore Vargas, dopoaver fondato «uno Stato pseudo fasci-sta», cerca di liberarsi dei fascisti veri,le Camicie verdi, e ha egualmente unprogramma di modernizzazione: hacostruito migliaia di chilometri di stra-de, elettrificato le ferrovie, aperto nuo-ve miniere, rafforzata la difesa nazio-nale. Ma il punto importante è che ilBrasile è la chiave sudamericana dellerelazioni internazionali con il VecchioMondo. «Perché – come ammette l’a-mericano Beals – sia geograficamentesia culturalmente il Brasile è più vicinoall’Europa che agli Stati Uniti». Tutta-via la maggiore facilità di comunica-zione con l’America del nord e il bloc-

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6 Ibidem, pp. 208-210.7 Ibidem, p. 299.

co navale stabilito nell’Atlantico dallaflotta britannica finiranno per indurreVargas a schierare il Brasile dalla partedegli Stati Uniti nella seconda guerramondiale, anche per prevenire movi-menti secessionisti nel Brasile meridio-nale, dove a quell’epoca vivono più dimezzo milione di tedeschi, un milionee un quarto di italiani e duecento cin-quantamila giapponesi6. D’italiano ri-marranno in Brasile il corporativismoe una certa forma di populismo.

Situazioni analoghe si trovano, se-condo Beals, anche in altri paesi lati-noamericani. In Paraguay il capitaleamericano è assente: sul terreno simuovono i capitali argentini, inglesi,italiani; i militari, occupato il governo,instaurano testualmente uno «stato to-talitario»; viene introdotto egualmenteun sistema corporativo copiato daquello italiano. In Bolivia l’originariasimpatia per l’Asse del settore militarerivoluzionario viene contestata dalladiplomazia americana. In Cile s’instal-la uno strano governo di Fronte popo-lare al quale aderiscono, insieme ai co-munisti, anche elementi fascisti e nazi-sti nello spirito degli accordi tedesco-sovietici del 1939, ma lo stesso governodeciderà di rompere le relazioni conl’Asse7. In Uruguay un governo se-miautoritario obbedirà alle pressioniamericane. In Argentina sia un gover-no conservatore sia un governo milita-

re nato da un colpo di stato resisteran-no alle insistenze americane di dichia-rare guerra alla Germania, al Giappo-ne, all’Italia. Solo pochi mesi primadella fine della guerra si formalizzerà larottura con le prime due potenze. L’I-talia invece continuerà a mantenere re-lazioni normali con l’Argentina. Unufficiale argentino, reduce da un sog-giorno di addestramento in Italia, il te-nente colonnello Perón, farà con il go-verno militare una carriera rapida chelo porterà alla presidenza della Repub-blica grazie all’appoggio popolare.

Intanto si possono ricavare dalla te-stimonianza di Beals i seguenti riferi-menti validi anche nel periodo succes-sivo, il secondo cinquantennio del XXsecolo.

In primo luogo, i paesi latinoameri-cani si servono del sistema istituziona-le americano come di un modello ap-pena formale. Al bipartitismo si sosti-tuisce di fatto un pluripartitismo. Laparte ideologica è importata dall’Euro-pa e non dal mondo anglo-sassone. Lacultura politica viene egualmente dal-l’Europa. E nel contesto di un’epoca,quella tra le due guerre mondiali, la ve-ra cultura politica non è il liberalismoo il socialismo o il cristianesimo politi-co, ma il populismo, sia pure inteso co-me rischio.

In secondo luogo, il rapporto congli “americani del nord” non ha unfondo ferocemente ostile. C’è ammira-zione, come registrava Beals, per quelloche era un paese di contadini-pionieri,diventato in un secolo una superpoten-za, anzi ormai un’iperpotenza. Ma in

I paesi latinoamericani si servonodel sistema istituzionalenordamericano come di unmodello appena formale

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realtà si è consapevoli che gli obiettivinon sono in molti casi comuni.

In terzo luogo, nel periodo conside-rato da Beals, non si è classificato l’in-tervento militare con il conseguentetemporaneo esproprio del potere civile.Il governo militare si autogiustifica peril ruolo fondazionale assunto daglieserciti e dai loro capi nelle guerre d’in-dipendenza. Ma i generali non duranomolto e valgono nella misura in cui glieserciti li seguono. Il condottiero del-l’indipendenza Bolívar, quando non hapiù un esercito, non è più nessuno: nongli resta che la morte o l’esilio.

In quarto luogo, la titubanza e lamancanza d’immaginazione delle bor-ghesie nazionali e il loro distacco dalmondo intellettuale determinano avolte un allineamento su posizionimobili, su un ribellismo talora eroico,senza sapere dove si arriva, senza valu-tare i risultati anche trionfali.

In sintesi, per la valutazione delpresente latinoamericano, occorre farecostantemente i conti con un’ideologiasfuggente, ma sempre sulla porta di ca-sa: il populismo.

America latina: l’importazione del-le idee europee è finita?

In un biennio due eventi, nel 1954 ilsuicidio di Vargas in Brasile, nel 1955 lacaduta di Perón in Argentina, hannouna ripercussione straordinaria nelmondo politico europeo. S’interpreta-no tali eventi come il possibile inizio diuna fase di collaborazione tra i partiti

latinoamericani e quelli europei dianaloga ispirazione ideologica. Il com-pito sembra facilitato dalla completamancanza di interesse per i movimen-ti latinoamericani da parte dei partitinordamericani, troppo impegnati nelproprio paese e comunque poco inte-ressati ad avventurarsi nel groviglio la-tinoamericano.

Le Internazionali europee, in parti-colare quella democratica cristiana equella socialdemocratica, dovevanostabilire collegamenti con i partiti lati-noamericani più affini. S’impegnavanoa tal fine le due Internazionali, l’Inter-nazionale democristiana e l’Interna-zionale socialdemocratica e socialista.

L’operazione affrontò al principiouna certa difficoltà. In Argentina i se-guaci di Perón non aderiranno a unaminuscola Democrazia cristiana (Dc)locale, per nulla decisiva sul piano po-litico nazionale. In Brasile si giungeràcon difficoltà a inserire la Dc in alcunistati del sud (San Paolo e Paranà). Si ri-porterà un successo pieno in Venezue-la, dove si realizza in via elettoraleun’alternanza al potere tra la Dc vene-zuelana e il Partito d’azione democra-tica (classificabile internazionalmentecome un partito socialdemocratico).Santiago e Caracas diverranno le metedi autorevoli politici tedeschi e italianicome, per i socialdemocratici, l’ex can-celliere tedesco Willy Brandt e, per idemocratici cristiani, l’ex presidentedel Consiglio italiano Mariano Rumor.

L’avvento alla presidenza del Cile diun notabile di sinistra, Allende, e il suosuicidio nel 1973 in seguito al solleva-

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8 Dal Canto general, riportato da M.L. PRADO, O populismo na América Latina (Argentina e México), SãoPaulo 1981, p. 6.

9 Ibidem, p. 9.10 G. HERMET, Le populisme dans le monde, Saint-Amand-Montond 2001, p. 205.

mento delle forze armate cilene noncausano una revisione della simmetriache si era creata tra i partiti italiani equelli cileni, condannati all’esilio deiloro capi. Il dialogo riprende ovvia-mente dopo la restaurazione democra-tica, ma solo più debolmente date dueragioni, da un lato la polarizzazione sulMedio Oriente dell’attenzione interna-zionale, dall’altra una certa incapacitàdi comprendere un’America latinaprofondamente cambiata e ideologica-mente più fiduciosa in sé stessa conl’avvento di una nuova generazione dileader carismatici.

È ovvia la difficoltà negli approccicon classi dirigenziali del tutto nuove,ma questa volta occorre comprendereche le simmetrie ideologiche non sonoautomatiche come prima: vanno crea-te del tutto. Non ci sarà una festosasimbiosi tra l’una e l’altra costa dell’A-tlantico. Le idee europee sono troppovecchie, le idee latinoamericane sonotroppo giovani.

Il nuovo populismo: “la Terra d’ele-zione”

Ho visto quanti eravamo,quanti stavano al mio fianco, non eranonessuno, erano tutti gli uomini,non avevano viso, erano popolo,erano metallo, erano strade.E camminai con i miei passidalla primavera per il mondo8.

Questi versi del poeta cileno PabloNeruda spiegano il populismo meglio

di un saggio di scienza politica. Più chele idee nel populismo va ricercata lagente, vanno ricercati gli uomini, van-no ricercati i capi, che non mancano, sesi tiene conto che la storica brasilianaMaria Ligia Prado ne enumera settenell’America latina9; peraltro gli uniciancora vivi nella memoria, nei riflessipolitici, sono due, l’argentino Perón e ilbrasiliano Vargas. Tuttavia la gara è an-cora aperta perché, come afferma lostorico francese del populismo GuyHermet, «se l’Europa e l’America delnord sono state le culle del populismonascente, l’America latina è per il popu-lismo la “terra d’elezione”». Hermetnon ha dubbi. Scaduto apparentementenelle grandi società industriali, il popu-lismo rappresenta qualcosa nell’Ameri-ca latina e non solo nell’America latina:

[l]a democrazia assorbitanella routine dei regimi costitu-zionali ritmati dalle elezioni econfusa con il governo dei parti-ti e dei professionisti della poli-tica non ha mai cessato di veder-si opporre un modello rivale al-meno altrettanto attraente pergran parte degli abitanti10.

Il populismo nasce come antagoni-smo rispetto a sistemi democratici conuna decrescente o nulla capacità di go-verno, con un establishment corrotto o

Se l’Europa e l’America del nordsono state le culle del populismonascente, l’America latina è per il populismo la “terra d’elezione”

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11 E. BAILBY, Gauche latino-américaine, version Uruguay, in “Le Monde diplomatique”, février 2007.

non funzionante efficacemente, abi-tuato a dissipare e non a costruire, pri-vato in politica estera e in politica in-terna dell’ipotesi di un “nemico”, diuna rivoluzione svanita come un fan-tasma. Una classe dominante che nonha più alibi.

Insomma un terreno ideale perriformisti e uomini nuovi nell’annoelettorale, il 2006, con la conferma inVenezuela di Hugo Chávez e in Brasiledi Lula (Luiz Inácio da Silva), che riba-dirà da un lato la sua alleanza con laborghesia industriale di San Paolo, dal-l’altro la lotta contro la povertà. Nuovoè il presidente della Bolivia, Evo Mora-les, il primo indio a ricoprire la carica,rappresentante dei coltivatori di coca enazionalista intransigente. L’altro nuo-vo è il presidente dell’Ecuador RafaelCorrea, ex ministro delle Finanze, conun curriculum universitario in Belgio(Lovanio) e Stati Uniti e infine pressol’Università Cattolica di Guayaquil,molto vicino ai Salesiani. Correa suc-cede, dopo un interregno, a un milita-re, il colonnello Lucio Gutiérrez, a suotempo insediato alla presidenza da uncolpo di stato dell’esercito, caduto inerrori come il blocco dei risparmi inbanca, senza riuscire a ripararli adot-tando il dollaro come moneta naziona-le, defenestrato, costretto a salvare lapelle rifugiandosi nell’ambasciata delBrasile, a sconto anche di un’eccessivaesibizione di filoamericanismo (si eradichiarato il miglior amico di Bush).Correa ha l’appoggio delle comunitàindiane, di un’entità ancora incerta (il25 per cento della popolazione secon-

do l’Unesco). Ha avuto la fortuna diavere come rivale un ricchissimo ma-gnate, Noboa, che, come informa ilgiornale spagnolo El País, durante lacampagna elettorale è ricorso a Bibbie,miracoli, invocazioni alla fede cristianadi una popolazione che oscilla tra l’ira,la disperazione, l’ansia di emigrare. Ilrischio maggiore per Correa non è da-to ora da simili personaggi ma dall’ec-cessivo zelo dei seguaci, che hanno pre-so il parlamento chiedendo il suo scio-glimento, essendo di centro destra, ecacciando i deputati.

In Nicaragua riemerge dalle elezio-ni presidenziali un esponente dellaguerriglia degli anni Settanta, che ap-profitta della divisione dei candidati didestra. Ma Daniel Ortega, reso man-sueto dall’esperienza, non esibisce mo-tivi di rivincita, a differenza del presi-dente dell’Uruguay, il socialista TabaréVázquez, che in due anni dall’insedia-mento, dopo aver lanciato un pro-gramma d’urgenza contro la povertà,si trova in difficoltà con l’Argentina edè costretto a mettere da parte il Merco-sur e a puntare su un trattato di liberoscambio con gli Stati Uniti11.

In Perù fallisce una faccia nuova, unufficiale, Ollanta Humala, mezzo in-dio, mezzo italiano (di madre), vince ilredivivo Alan García, nonostante a suotempo una presidenza stentata. Nel Pa-raguay si prepara per le elezioni presi-denziali del 2008, sfidando il partitoegemone da sessant’anni al potere, ilPartido Colorado (il Partito rosso), unpersonaggio, Fernando Lugo Méndez,già vescovo della Chiesa cattolica nella

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12 S. BABB, Managing Mexico – Economists from Nationalism to Neoliberalism, New Jersey 2001, pp. 171 ss.13 Cfr. A. DORNA, Le populisme, Paris 1999, pp. 71, 75.14 Così G. ARCINIEGAS, Entre la libertad y el miedo, Buenos Aires 1958, p. 213.

zona più povera del paese, con un pro-gramma di riscatto per la maggioranzaindigena, i guaraní, analogo a quello diEvo Morales in Bolivia, rafforzandocosì il fronte populista.

Nel Messico la sconfitta del Partitorivoluzionario istituzionale, ormai ob-soleto, e la riconferma del primato delPartito d’azione nazionale infondononel successore di Vicente Fox, Cal-derón, una forte carica tecnica con lanomina alla testa dell’economia nazio-nale di sei esperti, ricuperando così unfilone tecnocratico, avviato già tral’Ottocento e il Novecento dal genera-le-dittatore Porfirio Díaz con i suoicientíficos12. Altro obiettivo è negoziarecon gli Stati Uniti qualcosa di menomercantile del trattato di libero scam-bio in corso, mentre si guarda con osti-lità alla migrazione dei messicani nelgrande paese vicino. Calderón miracon queste iniziative a ottenere il soste-gno della nuova borghesia tecnica. Alnuovo presidente messicano spetteràrilanciare il Piano Puebla-Paranà, unmegaprogetto di sviluppo che, insiemeal Programma d’integrazione energeti-ca, dovrebbe coinvolgere l’Americacentrale e il Messico del sud-ovest conl’appoggio degli Stati Uniti.

Un populismo incalzante

I risultati del 2006 hanno dimo-strato il carattere semplicistico delmodo europeo di vedere e interpreta-re l’America latina, negando la legitti-mità del populismo. Eppure populi-

sta è stato in Europa e naturalmentein Francia il generale de Gaulle, tantoè vero che il politologo franceseAlexandre Dorna propone una cate-goria speciale, il populismo eroico,impersonato dal generale stesso emunito di altri componenti: inter-classismo, statalismo, carisma, misti-cismo13, che in fondo sono gli stessiingredienti dei tre personaggi più si-gnificativi del populismo latinoame-ricano: Getulio Vargas, Juan Domin-go Perón ed Eva Duarte, con tre di-verse provenienze – dal padronatoagrario del Brasile del sud Vargas,dall’esercito Perón, dalla vita la Duar-te – ma capaci di adottare uno stilepersonale che entusiasmerà il popoloe troverà eredi più o meno legittimi.

Sono personaggi e idee che esiste-vano già prima in Italia con il Mussoli-

ni degli anni Trenta, preso a modello,nella capacità di mobilitare i lavorato-ri, da un leader assassinato, il colom-biano Gaitán, reduce da studi in Italia,dotato di «uno straordinario dominiodelle masse»14, da un politico scaltro,Vargas, e da un ufficiale argentino,Perón. La stessa Italia repubblicana hatuttora una sua versione populista, bendescritta da Marco Tarchi nel saggioL’Italia populista, in un arco di tempoche va dal qualunquismo postbellicodel commediografo Guglielmo Gian-

I pilastri veri del populismo si estendono in una linea storicae potenzialmente mitica,non temporanea e generalmenteinterclassista

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15 M. TARCHI, L’Italia populista – Dal qualunquismo ai girotondi, Bologna 2003, p. 75.16 A. VALLEJO, Autoritarismo populista, in «Tendencia», 2 marzo 2005.17 Riportato da un articolo di B. HERNANDEZ SAN JUAN in K. WEYLAND et al., Dialogos – Releer los po-

pulismos, Quito 2004, p. 6.18 G. ABOY CARLES, Repensando el populismo, in K. WEYLAND et al., Dialogos – Releer los populismos, cit.,

p. 88.19 L. INCISA DI CAMERANA, Populismo in N. BOBBIO et al., Il dizionario di politica, Torino 2004, pp. 735-

739 (trad. sp. El Populismo, in «Disenso», 4, 1977).20 M. O’DONNELL, El descubrimiento de Europa, Buenos Aires 1992, pp. 11-12.

nini agli esercizi più recenti di destra odi sinistra15.

Questa persistenza spiega comel’avvento al potere del populismo, pre-sentato sul piano pubblicistico comeuna novità, è già previsto e discusso daintellettuali attenti, particolarmente inEcuador, dove la Fondazione socialde-mocratica tedesca, la Ebert, incoraggiail rafforzamento e l’efficacia dei mo-delli politici locali. È appunto su unarivista edita dalla Ebert, a un anno dal-l’elezione di Correa, che un esponentedella sinistra democratica, Andrés Val-lejo, mette in guardia contro il rischiodi un autoritarismo populista16. In ge-nere peraltro il populismo è messo inrelazione con atteggiamenti tempora-nei: viene, per esempio, consideratocome «un sinonimo di governi che, difronte a tensioni sociali, cercano di op-tare almeno nel discorso ufficiale per lanon applicazione di riforme (aggiusta-menti) economiche»17. Si tratta in talcaso di un populismo ottimista maprecario, simile a quello del presidentebrasiliano Fernando Collor, del primoGarcía e di Fujimori in Perù, allargatocome “stile di comando” a personaggieterogenei come la Thatcher, Reagan,Le Pen, Menem18.

Viceversa i pilastri veri del populi-smo si estendono in una linea storica epotenzialmente mitica, non tempora-nea e generalmente interclassista, comenel caso di leader tipo Chávez e FidelCastro. Da parte mia confermo la defi-nizione data a suo tempo:

[p]ossono essere definite po-puliste quelle formule politicheper le quali fonte precipua d’i-spirazione e termine costante diriferimento è il popolo conside-rato come aggregato socialeomogeneo e come depositarioesclusivo di valori positivi, spe-cifici e permanenti19.

Populista non è solo un leader, pos-sono essere populisti partiti e movi-menti. Rimanendo in America latinabasta menzionare il Partito rivoluzio-nario istituzionale messicano e, in Ar-gentina, il movimento peronista senzaPerón.

L’Europa eterna fidanzata

Nel 1992 un esperto argentino, re-duce da un soggiorno in Europa, pre-vedeva che nell’anno successivo l’Eu-ropa sarebbe stata la maggiore potenzadel mondo e invitava l’America latina,che «ha un bisogno urgente di una so-luzione per i suoi problemi», di tener-ne conto20.

Invece l’accoppiamento tra l’Ameri-ca latina e l’Europa dell’Unione non èfinora riuscito. Si celebrano ogni dueanni i vertici dei capi di Stato delle dueregioni senza risultati concreti. Neanchegli accordi tra l’Unione Europea e le suenipoti, le comunità regionali latinoa-mericane, funzionano: basta pensare altrattato di Madrid del 1995, tra l’Ue e il

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Mercosur, ancora dopo dieci anni allostato nascente. Né appare una scusa va-lida l’impegno assunto da Bruxelles conl’incorporazione dell’Europa dell’est,dal momento che non esistono proble-mi di concorrenza tra i paesi baltici, bal-canici e danubiani da una parte e dal-l’altra i paesi latinoamericani di mag-giore presenza etnica europea.

Il IV vertice di Vienna si è limitato aconstatare che le buone intese concor-date due anni prima al vertice di Gua-dalajara (ridurre le disuguaglianze; in-tensificare i rapporti commerciali, in-dustriali, economici e finanziari; acce-lerare i processi d’integrazione subre-gionali) erano cadute nel vuoto. Tral’altro le Comunità subregionali vannopiù indietro che avanti. La simmetria,che doveva subentrare tra l’Unione e iregimi latinoamericani sul piano mul-tilaterale, non si rafforza, ma tende aridursi premiando il bilateralismo.

In effetti si moltiplicano visite, in-contri, manifestazioni di simpatia so-prattutto a livello bilaterale tra deter-minati paesi latinoamericani, quellidella costa atlantica e alcuni del settorepacifico, e soprattutto i paesi europeimediterranei. Per quanto riguarda i di-versi gruppi europei, i meno interessa-ti all’America latina sono i paesi nordi-ci, compresa la Gran Bretagna che haceduto agli Stati Uniti la posizione do-minante mantenuta fino alla secondaguerra mondiale e in parte agisce nel-l’America latina via Canada nel settorefinanziario e bancario.

Tra i paesi euro-occidentali la Fran-cia sta abbandonando l’impero africa-

no, e potrebbe migliorare nell’Americalatina una forte presenza culturale, ac-compagnata da posizioni notevoli nelcampo finanziario. L’Italia, quando loha chiesto, ha sempre ottenuto l’ap-poggio diplomatico dei paesi latinoa-mericani, in virtù della presenza di col-lettività italiane, già inserite localmen-te negli strati alti e medi. Nei momentipiù favorevoli ha stipulato sostanzialialleanze, come nel 1987 con la firma diun trattato che creava una relazione as-sociativa con l’Argentina, costituendoun modello per accordi analoghi conaltri paesi latino-americani.

Il Portogallo in primo luogo comemadrepatria del Brasile, e la Grecia, co-me paese mercantile e marittimo, han-no interessi specifici. La Spagna, comeho già indicato, durante l’intelligentegoverno negli anni Ottanta e nei primiNovanta del socialista Felipe González,imitato dal successore di destra Aznar,ha conquistato posizioni strategichenel settore dei servizi privatizzati. Que-sti successi tuttavia hanno suscitato inseguito, nel caso degli impianti di pub-blica utilità, critiche per il seguito datoo meno sul piano del funzionamento.C’è stato poi il caso di compagnie aereedi bandiera privatizzate e scomparse.

Attualmente le imprese spagnolehanno subito un primo atto ostile con

La simmetria, che dovevasubentrare tra l’Ue e i regimilatinoamericani sul pianomultilaterale, non si rafforza,ma tende a ridursi premiando il bilateralismo

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21 E. MENÉNDEZ DEL VALLE, Una América Latina integrada, in «El Pais», 17 gennaio 2007.

la nazionalizzazione da parte del boli-viano Morales del gas naturale, settoredove erano stati impegnati investimen-ti spagnoli. Inoltre Chávez ha annun-ciato la futura nazionalizzazione dellacompagnia telefonica, dove sonoegualmente presenti capitali spagnoli.

Si paventa che l’esaltazione del so-cialismo da parte del leader venezuela-no preluda a progetti rivoluzionari. Maper ora si stanno realizzando quattroriforme, le “missioni”: scolarizzazionedegli adulti (imparare a leggere e scri-vere); scuola primaria per tutti i bam-bini; apertura della scuola secondaria;ammissione di tutti all’università. Unprogramma certamente non sovversi-vo, ma generosamente umanitario. Euno dei punti di forza del Venezuela èdi aver imitato Cuba, seminando neipaesi vicini nuclei di medici, insegnan-ti, assistenti sociali in diretto contattocon gli organismi locali.

Integrazione o disintegrazione

Se il momento non è buono perl’Unione Europea non è buono egual-mente per l’America latina. Il 2006 hafunzionato bene come anno elettoralee come prova del buon funzionamentodella democrazia. Si è votato ma non sisono affrontati i problemi pendenti e ilprodotto nazionale lordo complessivova avanti come una lumaca.

Il pericolo sta nel quadro generalelatinoamericano dove si registrano se-gni di disgregazione come il distaccodel Venezuela dalla Comunità Andina

delle Nazioni (Can), organismo inno-cuo forse, ma interlocutore ascoltatonel dialogo con l’Europa e gli StatiUniti. Questa defezione è stata com-pensata dall’adesione alla Can del Cile,un esordio benvenuto, anche se gli in-teressi del Cile si adatterebbero più chealla Can al Mercosur su cui pesa il sec-co giudizio del presidente uruguaianoTabaré Vázquez: «il Mercosur non ser-ve». Il tutto a causa di un litigio conl’Argentina per l’installazione di unfabbrica di cellulosa con conseguenzenegative per le acque uruguaiane.

Un ex diplomatico spagnolo,Menéndez del Valle, deputato europeo,mette il dito nella piaga, menzionandoil trio della povertà, Bolivia-Perù-Ecuador. Paesi peraltro gelosi dellapropria indipendenza. Correa non hamancato di sottolineare l’amicizia conChávez, ma non si è peritato di aggiun-gere: «A casa mia non comandano imiei amici. Qui non comanderanno néBush né Chávez, solo gli ecuadoriani».Ma Menéndez ricorda che senza l’aiu-to esterno non si risolvono problemidrammatici e, dopo la seconda riunio-ne nel dicembre del 2006 a Cochabam-ba di un nuovo organismo, la Comu-nità Sudamericana delle Nazioni, si au-gura l’integrazione tra Can e Merco-sur21.

Il partito dell’integrazione sarebbeformato dal brasiliano Lula, dal boli-viano Morales, dal peruviano García,dalla cilena Bachelet, più negativi Chá-vez e Tabaré Vázquez. Il presidente ve-nezuelano ha però accettato, nella se-conda riunione della Comunità Suda-

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mericana delle Nazioni, di discutere nel2007 a Caracas il tema dell’integrazio-ne energetica. Si sceglierebbe in tal ca-so l’avvio di un percorso iniziale simileall’Alta Autorità europea per il carbonee l’acciaio, percorso peraltro che nondovrebbe, come l’Unione Europea, la-sciar passare cinquant’anni di tempoper raggiungere la meta, perché, comeha affermato Lula, «non ne abbiamo iltempo», ma non per le usuali accuse diprevaricazioni, ma perché agli StatiUniti di George W. Bush l’America lati-na rischia di non interessare più. Unamancanza di iniziativa confermata daun frettoloso e inconcludente viaggiopresidenziale che ha toccato, tra il 6 e il17 marzo, cinque paesi latino america-ni (Brasile, Uruguay, Colombia, Guate-mala, Messico), subito controbattutoda Chávez con un periplo che ha inclu-so Argentina, Bolivia, Nicaragua e,stranamente, Haiti e Giamaica.

Il distacco tra le due Americhe

Per più di mezzo secolo, dalla poli-tica di buon vicinato inaugurata daRoosevelt negli anni Trenta del secoloscorso all’adesione dei paesi latinoa-mericani alla guerra contro l’Asse, al-l’Alleanza per il Progresso, il PianoMarshall di Kennedy, i paesi latinoa-mericani hanno ciascuno alla sua ma-niera ravvisato nel rapporto con gliStati Uniti il modo migliore per diven-tare come loro sicuri e prosperi. I ten-tativi di staccare l’America latina dagliStati Uniti sul piano politico portava-

no all’isolamento, come nel caso diCuba. Sul piano economico anche irapporti con i paesi europei più ami-chevoli e fattivi mancavano di quellacontinuità che doveva servire a contro-bilanciare la preponderanza yankee,donde rapporti diplomatici a sussulti enell’ambito istituzionale sgradevoliesibizioni del protezionismo europeo.

Come mito, l’Europa non rimpiaz-zava neanche nei momenti migliori ilmito americano. Solo alcuni intellet-tuali di valore internazionale avevanouna visione favolosa del mondo euro-peo, ma le loro opere avevano semprel’America del nord come termine diparagone e non luoghi francesi, spa-gnoli, italiani, salvo momenti di graziama in quanto tali momentanei, pocodurevoli.

Da parte loro gli americani annette-vano giustamente un’importanzastraordinaria a eventi come l’installa-zione dei missili sovietici a Cuba, chesono stati risolti senza scontri armati.Viceversa strumenti massicci venneroimpiegati anche contro ribellioni peri-feriche incapaci di sopravvivere fisica-mente, com’è stato il caso del CheGuevara in Bolivia.

La situazione attuale cambia com-pletamente questo scenario, perché gliinteressi politici americani sono con-centrati nel Medio Oriente e nell’Asia

La situazione attuale cambiacompletamente questo scenario,perché gli interessi politiciamericani sono concentrati nelMedio Oriente e nell’Asia orientale

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L’America latina farà da sé

22 M. NAIM, The Lost Continent, in «Foreign Policy», November/December 2006.

orientale: i due scacchieri dove si gio-cano i destini del mondo. Scacchieri dacui sono venuti coloro che hanno at-taccato le Due Torri di New York. Laseconda Pearl Harbour degli Stati Uni-ti non è stata provocata dalla vicinaCuba, ma da un nido di fanatici ac-quattati nelle montagne asiatiche, for-se pochi ma per ora imprendibili per-ché trovano complici sia in zone im-pervie sia in certe incontrollabili peri-ferie europee.

L’America latina non è più il cortiledegli Stati Uniti. Come scrive MoisesNaim, direttore di «Foreign Policy»,«di colpo è diventata l’Atlantide, ilcontinente scomparso. Quasi in unanotte è scomparsa dalle carte geografi-che di investitori, generali, diplomaticie giornalisti». L’America latina non de-sta interesse, non fa nulla per attirarel’attenzione. Non desidera gli ordigninucleari. Come osserva Naim, l’armadi distruzione di massa di cui disponeè la cocaina. La sua posizione econo-mica è ormai superata dalla Cina e dal-l’India.

Ciò che accade in America latinanon ha risonanza nel mondo esterno.Nessuno si è preoccupato, salvo i ri-sparmiatori privati, della tragedia fi-nanziaria argentina del 2001. I magna-ti degli istituti finanziari internaziona-li se ne lavarono le mani. Perfino l’A-frica ha superato nell’interesse esternol’America latina, che non ha le carestie,i genocidi, la pandemia dell’Aids, la di-sgregazione di stati e divi del rock cheadottano le sue tragedie. «Bono, BillGates e Angelina Jolie si preoccupano

del Botswana, non del Brasile», com-menta Naim22.

Anche l’occupazione del potere daparte dei leader populisti si è dimo-strata cauta e prudente: la politica deigoverni populisti si è rivelata meno ri-voluzionaria e meno colorita del previ-sto. Basta pensare alla strategia cauta eortodossa seguita da Lula nel suo pri-mo mandato in campo economico. InVenezuela Chávez polemizza con Bu-sh, trattato da somaro, ubriacone, as-sassino, ma continuano con gli StatiUniti gli scambi commerciali e le for-niture del petrolio in tacito accordo. Ipropositi dei nuovi non sono meno ac-cesi: Evo Morales promette a Bush diessere la sua “nausea”, ma i paesi piùdanneggiati dalle sue prime misure so-no stati il Brasile e la Spagna.

L’incognita cinese

Negli anni Settanta la meraviglia el’invidia consacravano il futuro trionfodel Giappone. Vent’anni dopo il Giap-pone aveva limitato la sua posizioneindustriale all’estero anche con fretto-lose ritirate. Oggi ha una situazionenon migliore di quella italiana, nel tas-so di crescita del prodotto interno lor-do, un debito estero superiore al no-stro e senza velleità di protagonismo.Anche la Cina affronterà prima o poiuna pausa o un declino?

Certamente sia la Cina sia l’Indiasono in fase di espansione e la Cina piùdell’India è già diventata un ottimocliente per alcuni paesi dell’America

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osservatorio internazionale

23 Z. BIJIAN, El “ascenso pacifico” de China a la condición de superpotencia, in «Foreign Affairs en español»,6, 2006, 1.

24 S. CESARIN, China y el espejo latinoamericano, in «Foreign Affairs en español», 6, 2006.

latina grazie alle sue importazioni disoia. Certamente la Cina non era statacon le braccia conserte quando sulleAnde si accendevano i fuochi dellaguerriglia. Negli anni Ottanta la Cinaaveva spaccato in due i paesi latinoa-mericani, divisi tra quelli rimasti fede-li alla Cina di Formosa, soprattutto ipaesi centroamericani e il Paraguay, egli altri.

Negli anni Novanta e nei primi an-ni del 2000 la Cina sembra il modellodi un sistema, che concilia lo statali-smo con lo spirito di iniziativa privato,un sistema che sorregge il sempre piùdecadente “consenso di Washington”.Esistono insomma le condizioni, ingran parte già in atto, per una presen-za cinese nell’America latina simile aquella degli Stati Uniti o addirittura al-ternativa a quella degli Stati Uniti e de-gli altri paesi?

La domanda è prematura perché,come è stato spiegato da un esperto ci-nese, la Cina è ancora un paese in viadi sviluppo: si calcola che occorreaspettare cinquant’anni di “ascesa pa-cifica” per arrivare al traguardo del pie-no sviluppo23.

Sussistono inoltre problemi spino-si, suscettibili di tensioni e crisi non so-lo per situazioni incancrenite come ilproblema di Taiwan, ma anche perscoppi eversivi nelle zone di frontiera enelle regioni cinesi con folta presenzaislamica.

In questo quadro è difficile pensarea una concorrenza della Cina con gliStati Uniti e con l’Europa sul piano po-litico. In effetti, secondo l’esperto ar-

gentino Sergio Cesarin, mentre da par-te latinoamericana si pensa alla Cinaprescindendo ormai dal contesto poli-tico, in Cina l’America latina, compresaCuba, rappresenta con le sue transizio-ni e le sue crisi un autentico laboratoriosperimentale24. Per l’America latina in-vece la Cina non è un modello, è uncliente. Ma in Brasile si ricordano gliinvestimenti giapponesi, entrati e parti-ti in silenzio. In Messico c’è un allarmeper il trasferimento da tempo in atto difabbriche in Cina a causa dei costi mi-nori. Inoltre la forte componente com-merciale delle esportazioni cinesi, ac-compagnata da consistenti migrazioni,suscita preoccupazioni e diffidenze. In-somma Cina e India non sono l’ancoradi salvezza, né tanto meno esempi daimitare. Ed ecco il dilemma: riavvici-narsi agli Stati Uniti o fare da sé, o me-glio fare due cose in due tempi?

Ritorno a Washington e poi in casa

Il ridimensionamento del ruolo la-tinoamericano della Cina da una partee dall’altra la latitanza dell’Europa in-durranno prima o poi l’America latinaa rinnovare il proprio modus vivendicon gli Stati Uniti.

I primi gesti in questo senso ven-gono paradossalmente da Cuba. Gli

Il ridimensionamento del ruolodella Cina, la latitanza dell’Europa,le diverse priorità degli Stati Unitiindicano che l’America latina dovrà fare da sé

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L’America latina farà da sé

25 S. PINHEIRO GUIMARAES, Desafios brasileiros na era dos gigantes, Rio de Janeiro 2006, p. 188.

approcci del fratello di Fidel Castro,che sopravvive ma non interferiscenella condotta politica del successore,la richiesta rivolta agli americani ditrattare i problemi esistenti, le acco-glienze fatte a una missione di parla-mentari democratici indicano che Cu-ba potrebbe rinunciare alla guida diun fronte dei paesi populisti. L’unicoostacolo è costituito dal peso dell’elet-torato latino della Florida, decisivonelle ultime elezioni presidenziali, mapronto a bloccare qualunque segno dipacificazione con il governo castristacubano.

È comunque difficile che il fratellodi Fidel assuma un ruolo carismatico,su cui invece punta Chávez, sempreche i paesi interessati aderiscano. Inrealtà i populisti hanno già nemici al-l’interno: quattro stati boliviani, tra iquali il più ricco Santa Cruz, pretendo-no che nella nuova costituzione pro-mossa da Evo Morales venga previstoper loro uno statuto d’autonomia.

Per ora il solo paese in grado disvolgere un ruolo guida nell’Americameridionale è il Brasile. Lo riconosce-rebbero anche gli Stati Uniti. Giàtrent’anni fa il presidente Nixon avevadetto al presidente brasiliano dell’epo-ca, generale Medici, una frase rimastafamosa: «Dove andrà il Brasile, andràl’America latina». È probabile che gliStati Uniti cerchino di mantenere nellapropria orbita il Messico e l’Americacentrale e caraibica, ma cedano a sud ilprimato politico al Brasile.

Unico paese latinoamericano cheha avuto un lungo passato imperiale

(in Messico l’impero è durato poco piùdi un anno), presenta credenziali con-vincenti: occupa praticamente metàdel territorio dell’America meridiona-le, è l’unico paese in grado di coloniz-zare vaste aree di frontiera ancoraescluse dal circuito produttivo e di as-sorbire gli ultimi residui coloniali (leex Guyane che non sanno che farsenedella propria indipendenza e, compre-sa quella francese, soffrono di sottosvi-luppo cronico)25.

I problemi diplomatici che il Brasi-le incontra sono due: primo, a nordnella zona amazzonica sostituire il Pia-no Colombia, che permette agli StatiUniti controlli nell’area contro il con-trabbando di stupefacenti e in partico-lare della coca, da risolvere con un de-ciso programma repressivo del gover-no colombiano, peraltro di là da veniredal momento che un terzo del territo-rio è occupato da un’endemica, pluri-decennale guerriglia.

Il secondo problema è il rapportocon l’Argentina, paese cresciuto demo-graficamente con minore ritmo delBrasile nonostante le previsioni (la po-polazione attuale non arriva ai quaran-ta milioni di abitanti mentre i prono-stici erano di 100 milioni al principiodel secolo XXI), ma con livelli cultura-li e di vita da grande potenza. Della de-licatezza del problema è persuasa la di-plomazia brasiliana come ha scritto unsuo alto esponente:

la politica brasiliana in rela-zione all’Argentina (e all’Ame-rica del sud) deve avere come

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osservatorio internazionale

26 Ibidem, p. 267.

fondamento la profonda e se-rena consapevolezza delle riva-lità storiche di ogni genere checaratterizzano le relazioni tra idue paesi (e tra gli altri paesidella regione) e del fatto che ilBrasile, da una situazione dichiara inferiorità economica edi relativo equilibrio nell’in-fluenza politica nella regione,

ha oltrepassato l’Argentina apartire dal 195526.

La priorità data con insistenza dagliStati Uniti ad altri scacchieri indica chel’America latina ha un’unica via d’usci-ta, quella di fare da sé, sull’asse Brasi-lia-Buenos Aires, a meno che l’Europasi accorga sul serio che l’America latinaè un’altra Europa.

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Nel contesto dei processi di transizione democratica in seguito a traumi storici legati a periodi di guerra ci-vile, tragedia umanitaria o più semplicemente governo autoritario, in genere caratterizzati da fenomeni diviolenza generalizzata e terrore istituzionalizzato, nonché da gravi violazioni di diritti umani fondamentali,emerge spesso una contraddizione tra necessità di giustizia e di tutela della memoria storica, da un lato, e ri-conciliazione nazionale, dall’altro. Negli ultimi decenni è gradualmente emerso il timore che un atteggia-mento intransigente e punitivo nei confronti dei responsabili (spesso organi dello stato) delle violazioni pos-sa compromettere non solo il completamento della transizione, ma anche le possibilità di riconciliazione trale varie componenti (sociali, politiche, etniche) di una nazione. Di conseguenza, non è inusuale che i prin-cipali soggetti politici coinvolti arrivino ad accettare un compromesso che consenta ai responsabili delle vio-lazioni di non essere perseguiti in cambio del loro appoggio alla transizione e alle nuove istituzioni, senzatuttavia che tale compromesso finisca per minare alla base la legittimità del nuovo ordinamento, ma piutto-sto riesca a far sì che la comunità nazionale si confronti con le tragedie passate e che le stesse istituzioni ri-conoscano e assumano su di sé la responsabilità (sociale, più che giuridica) di quanto avvenuto.A partire dagli anni Ottanta, uno strumento ampiamente utilizzato (con esiti più o meno apprezzabili) perfar luce sul passato recente senza ricorrere ad azioni legali contro i responsabili delle violazioni è costitui-to dalle cosiddette Commissioni di verità e riconciliazione. Tali Commissioni sono in genere incaricate diaccertare e rendere pubbliche le violazioni dei diritti umani commesse in uno stato in relazione a un de-terminato periodo di tempo o a un particolare conflitto attraverso la testimonianza resa dalle vittime o dailoro famigliari in una cornice ufficiale. Per quanto possano variare notevolmente rispetto a mandato, du-rata della loro attività, struttura organizzativa e procedure operative, esse producono in genere un rappor-to finale che contiene le conclusioni della Commissione riguardo alle violazioni commesse, in particolaredalle autorità pubbliche, e, spesso, eventuali raccomandazioni al fine di evitare il ripetersi di simili trage-die, nonché di contrastare possibili tendenze al revisionismo storico.Alcune Commissioni sono state istituite a seguito di un cambiamento di regime avvenuto al termine di unprocesso di transizione più o meno pacifica da una forma governo autoritario a una forma di governo de-mocratica. Tale è ad esempio il caso del primo esperimento di Commissione di verità, ovvero la ComisiónNational sobre la Desaparición de Personas, istituita nel 1983 dall’allora presidente argentino Raúl Alfonsínper far luce sul destino di migliaia di persone scomparse e su altre violazioni di diritti umani commesse du-rante la dittatura militare degli anni 1976-1983. Sullo stesso modello anche altri paesi latino-americanihanno istituito proprie Commissioni di verità1.Il più noto esempio di Commissione è costituito dalla Truth and Reconciliation Commission (Trc) istituitanel 1995 in Sudafrica dal parlamento eletto dopo l’abolizione del regime di apartheid. La struttura della Trcè simile a quella di una vera e propria corte giurisdizionale: i suoi 18 membri (tra i quali l’arcivescovo De-smond Tutu è stato nominato Presidente), divisi in tre comitati, hanno ricevuto il mandato di «promuo-vere l’unità e la riconciliazione nazionale in uno spirito di concordia… attraverso la ricostruzione di unquadro il più completo possibile sulle cause, la natura e le dimensioni delle gravi violazioni dei diritti uma-ni commesse dal 1° marzo 1960 [al 1994]…; favorire la concessione dell’amnistia alle persone che forni-ranno rivelazioni complete di tutti i fatti rilevanti riguardanti atti associati a obiettivi politici…; accertaree rendere noto il destino… delle vittime, restaurare la dignità umana e civile di tali vittime concedendo lo-ro l’opportunità di rilasciare un proprio resoconto delle violazioni di cui sono state fatte oggetto e racco-mandare misure di riparazione nei loro confronti; stilare un rapporto contenente un resoconto il più com-pleto possibile delle attività e dei risultati della Commissione… e contenente raccomandazioni di misurevolte a prevenire future violazioni dei diritti umani»2.Un primo comitato si è occupato di accertare le violazioni di diritti umani commesse nel periodo indica-to, raccogliendo migliaia di testimonianze rese dalle vittime o dai loro famigliari in udienze pubbliche te-nutesi in tutto il paese. A differenza di quanto avviene nell’ambito di vere e proprie istanze giurisdizionalipenali, in cui l’attenzione è in genere concentrata su un particolare imputato, il tratto distintivo della Trc èproprio costituito dalla priorità assegnata alle vittime e ai loro racconti. Essendo lo scopo della Trc quellodi accertare i fatti per far emergere la verità su quanto accaduto in passato, in particolare cercando di evi-tare di apparire come l’organo incaricato di amministrare la “giustizia dei vincitori”, la Commissione ha in-coraggiato la partecipazione delle vittime di violazioni commesse da tutte le diverse parti in lotta, compre-si l’African National Congress e gli altri movimenti di liberazione.Un secondo comitato, meno conosciuto, si è incaricato delle riparazioni e della riabilitazione delle vittime:la limitata attenzione ricevuta da questo comitato è dovuta alla convinzione emersa sull’importanza del la-

Le Commissioni di verità e riconciliazione

documentazionea cura di Silvia Tosi

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voro della Trc per far conoscere la verità dei fatti, conservarne la memoria e prevenirne la ricorrenza, piut-tosto che per fornire una riparazione materiale alle vittime.Al terzo comitato è stato invece affidato il potere di concedere l’amnistia agli individui responsabili delleviolazioni di diritti umani, valutando le singole richieste (più di 7mila, di cui circa 850 sono state accolte)alla luce di specifici requisiti. I presupposti indispensabili per la concessione dell’amnistia riguardano i de-stinatari della concessione, che devono essere individui; l’ampiezza della confessione, che deve essere pie-na, e l’entità delle rivelazioni fatte davanti alla Commissione, che devono essere utili ad accertare i fatti av-venuti; la motivazione del crimine commesso, che deve essere esclusivamente politica; la proporzionalitàdella violazione rispetto a tale motivazione. Nel caso in cui il comitato non conceda l’amnistia, peraltro, latestimonianza resa dal responsabile delle violazioni non può essere riutilizzata nell’ambito di un successi-vo processo penale a suo carico.Quest’ultimo comitato è stato da più parti criticato in quanto tenderebbe a favorire un processo di “ricon-ciliazione senza giustizia”: tali critiche tuttavia derivano da un fondamentale fraintendimento degli obiet-tivi e del mandato della Trc, che non comprendono la punizione dei colpevoli, ma solo la promozione diun processo di riconciliazione attraverso la conoscenza della verità dei fatti, inserendosi nell’ambito di unagiustizia “restaurativa” (restorative justice) piuttosto che semplicemente punitiva.Altre Commissioni sono state istituite come parte degli accordi di pace che hanno posto fine a situazionidi guerra civile, spesso con l’intervento e la mediazione delle Nazioni Unite, come nel caso della Commis-sion for Reception, Truth and Reconciliation, istituita a Timor Est nel 2001, o della Comisión para el Esclare-cimiento Histórico (Ceh), istituita in Guatemala nel giugno 1996 in esecuzione dell’accordo di pace firma-to, con la mediazione delle Nazioni Unite, dal governo guatemalteco e dai rappresentanti dell’Unità Rivo-luzionaria Nazionale Guatemalteca, al termine di 36 anni di conflitto armato. In quest’ultimo caso, la cre-scente importanza delle Nazioni Unite nell’istituzione delle Commissioni di verità è testimoniata tra l’al-tro dal fatto che l’accordo stesso che prevede l’istituzione della Ceh dispone che il rapporto finale dellaCommissione sia trasmesso anche al Segretario Generale dell’Onu. Le Nazioni Unite hanno inciso anchesulla composizione della Ceh, formata da tre membri, dei quali il Presidente, il giurista tedesco ChristianTomuschat, è stato designato dal Segretario Generale dell’Onu.L’attività della Ceh è stata caratterizzata da alcuni tratti peculiari. Il mandato affidatole dall’accordo di pacedel 1996 è stato piuttosto “debole”: in base ad esso la Ceh avrebbe dovuto accertare le violazioni dei dirittiumani «…connesse con lo scontro armato»3 e redigere un rapporto finale, privo di effetti legali, contenenteraccomandazioni al fine di conservare la memoria storica di tali eventi e di favorire la riconciliazione nazio-nale. Tuttavia, nell’adempimento del proprio mandato, alla Ceh non è stato concesso il potere di tenereudienze pubbliche, né, all’interno del rapporto finale, di citare i testimoni, acquisire e pubblicare documen-ti, o attribuire responsabilità individuali per le violazioni accertate4. In realtà tale mandato è risultato piut-tosto ambiguo, non essendoci un’indicazione precisa dell’arco temporale cui l’indagine della Ceh debba es-sere riferita, né una precisa definizione delle violazioni da accertare e del metodo da utilizzare.Questa ambiguità ha consentito alla Ceh di ampliare di fatto il proprio mandato e di combinare un meto-do di indagine storico-sociologico con il classico metodo giuridico: diversamente da altre Commissioni,che avevano in genere accertato crimini e attribuito responsabilità individuali, la Ceh, collocando le viola-zioni dei diritti umani verificatesi durante gli anni della guerra civile alla fine di un processo storico le cuiorigini sono fatte risalire all’epoca coloniale, ha finito per rafforzare le responsabilità delle istituzioni sta-tali in merito a tali violazioni. Attraverso un’attenta interpretazione della Convenzione delle Nazioni Uni-te sul genocidio del 1948, e ponendo l’accento sull’intenzione (colpire la popolazione maya) quale requisi-to indispensabile indipendente dal movente (colpire la popolazione maya in quanto partecipante al movi-mento insurrezionale) affinché si possa parlare di genocidio, la Ceh ha considerato la violenza politica de-gli anni della guerra civile come una conseguenza diretta della “violenza strutturale” tipica della storia gua-temalteca, e ha attribuito alle istituzioni statali la responsabilità della quasi totalità delle violazioni accerta-te, tra le quali il crimine di genocidio contro la popolazione maya. Nonostante fosse privo di effetti legali,il rapporto finale della Ceh ha invocato l’applicazione integrale della Legge sulla riconciliazione nazionaledel 1996, che prevede la concessione dell’amnistia per i responsabili individuali delle violazioni dei dirittiumani commesse durante la guerra civile, ad esclusione dei crimini di genocidio, tortura e sparizione for-zata. In tal modo la Ceh ha inteso impedire che una giustificazione contro-insurrezionalistica potesse mi-tigare le responsabilità dell’esercito regolare per le atrocità commesse.Le conclusioni della Ceh sono molto distanti dai toni concilianti solitamente assunti dalle Commissioni diverità e riconciliazione, mettendo in effetti sotto accusa non solo le istituzioni statali, ma la stessa storia ecultura nazionale, e sono state per questo motivo respinte dalle istituzioni guatemalteche.Un esempio originale di Commissione di riconciliazione può essere considerato l’Instance d’Equité et Ré-

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conciliation (Ier) istituita nel 2004 in Marocco con decreto del sovrano Mohamed VI allo scopo di «…ac-certare le gravi violazioni dei diritti umani di carattere sistematico e/o di massa», che hanno avuto luogo trail 1956, anno dell’indipendenza marocchina, e il 1999, anno in cui Mohamed VI è succeduto al precedentesovrano Hassan II (nel complesso un periodo di 43 anni, il più lungo indagato da una Commissione di ve-rità e riconciliazione); «…contribuire al chiarimento di certi avvenimenti storici… e determinare le respon-sabilità degli organi dello Stato»; ed elaborare un rapporto finale contenente «…proposte di riforma al finedi… restaurare e rafforzare la fiducia nelle istituzioni e il rispetto dello stato di diritto e dei diritti umani»5.L’Ier è il primo (e finora unico) esempio di Commissione di verità e riconciliazione creata in un paese ara-bo, e costituisce quindi un precedente incoraggiante per il processo di democratizzazione di tale regione,soprattutto alla luce del mandato complessivamente ampio da essa ricevuto (la mancata definizione preci-sa delle violazioni dei diritti umani da prendere in considerazione permette di fatto di ricondurre al man-dato dell’Ier una grande varietà di crimini commessi dalle autorità statali nell’ambito della politica repres-siva attuata in Marocco nei cosiddetti “anni di piombo”). Tuttavia la sua originalità è costituita soprattut-to dal fatto di essere l’unico esempio di istanza di questo genere non creata a seguito di un cambiamentodi regime, ma istituita per decreto dal regime stesso, che ha mantenuto una continuità quantomeno for-male rispetto al periodo oggetto dell’indagine della Commissione: non solo il decreto istitutivo promanadirettamente dal sovrano, ma lo stesso re Mohamed ne ha nominato i membri e il bilancio dell’Ier gravainteramente sul bilancio della Corona.La sostanziale continuità di regime rispetto al periodo sotto indagine è anche alla base delle principali cri-tiche mosse all’Ier e al suo mandato. A differenza di molte altre istanze simili in cui le Commissioni isti-tuite e le leggi di amnistia promulgate parallelamente a esse scaturivano dalla necessità di arrivare a uncompromesso tra vincitori e sconfitti a seguito di un cambiamento di regime più o meno traumatico e disalvaguardare il successo del processo di transizione democratica, parallelamente all’istituzione dell’Ier nonè stata adottata alcuna legge di amnistia per i responsabili delle violazioni in esame. Nel caso dell’Ier, tut-tavia, l’impossibilità di accertare le responsabilità individuali scaturisce dal mandato stesso della Commis-sione (che prevede l’accertamento delle sole responsabilità “dello Stato”).Se è vero che proprio in questa disposizione è evidente l’intento essenzialmente storico e di riconciliazionenazionale – e non giuridico/penale – dell’Ier (intento che è stato perseguito con un discreto successo: sonostate più di 22mila le testimonianze raccolte e quasi 17mila i dossier aperti, che sono stati messi a disposi-zione degli archivi storici, mentre circa 10mila sono state le violazioni accertate, che hanno fatto l’oggetto dicinque audizioni pubbliche trasmesse dalle reti televisive nazionali), la mancata individuazione pubblica deiresponsabili e dunque l’impossibilità di perseguirli penalmente ha finito per porsi in contrasto con quellaparte del mandato che affida alla Commissione il compito di formulare proposte di riforme legislative e co-stituzionali che favoriscano la democratizzazione del paese. Questo contrasto sembra minare alla base quel-la “Strategia nazionale di lotta all’impunità” che costituisce proprio una delle proposte formulate dall’Ier.Nell’ambito della funzione propositiva prevista dal suo mandato, tuttavia, l’Ier non ha limitato la sua atti-vità alla questione della lotta all’impunità, e nel suo Rapporto finale ha avanzato numerose proposte diriforma volte a favorire la separazione dei poteri e la superiorità del diritto internazionale e dei diritti uma-ni sul diritto interno, il rispetto di principi giuridici fondamentali in ambito giurisdizionale quali l’equoprocesso e la presunzione d’innocenza, il controllo di costituzionalità sulle leggi nazionali, l’adesione allaCorte Internazionale di Giustizia.

Note

1 Per un elenco completo delle Commissioni di verità e riconciliazione istituite fino ad oggi vedi: UNITEDSTATES INSTITUTE OF PEACE, Truth Commissions Digital Collection, <http://www.usip.org/library/truth.html>.

2 PARLIAMENT OF THE REPUBLIC OF SOUTH AFRICA, Promotion of National Unity and Reconcilia-tion Act, n. 95/34, 26 July 1995, art. 3, <http://www.doj.gov.za/trc/legal/act9534.htm>.

3 Acuerdo sobre el establecimiento de la Comisión para el Esclarecimiento Histórico de las violaciones a los de-rechos humanos y los hechos de violencia que han causado sufrimientos a la población guatemalteca, Oslo, 23junio 1994, <http:// www.congreso.gob.gt/Docs/PAZ>.

4 G. GRANDIN, La storia, il movente, la legge, l’intenzione. Combinando metodo storico e metodo giuridiconel comprendere il genocidio degli anni 1981-1983 in Guatemala, in R. GELLATELY – B. KIERNAN (a cu-ra di), Il secolo del genocidio, trad. it. Milano 2006, p. 427.

5 INSTANCE D’ÉQUITÉ ET RÉCONCILIATION, Synthèse du rapport final (résumé), 15 décembre 2005,<http://www.ier.ma>.

documentazione

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Nel corso del XX secolo si è gradualmente affermata la necessità, a seguito di conflitti particolarmentecruenti e come presupposto indispensabile per avviare il processo di peacebuilding e di riconciliazione trale parti coinvolte, di affrontare la questione dei crimini particolarmente gravi commessi nell’ambito di ta-li conflitti, in genere configurabili come gravi violazioni dello jus in bello, attraverso l’istituzione di Tribu-nali penali internazionali ad hoc, che consentissero a un tempo di accertare i fatti, onorare la memoria del-le vittime e punire i principali responsabili.All’idea di giudicare davanti a una corte internazionale gli individui responsabili di gravi violazioni del di-ritto umanitario commesse in tempo di guerra può essere ricondotta quella clausola del Trattato di Ver-sailles del 1919, che prevedeva l’istituzione di un tribunale speciale per giudicare il Kaiser Guglielmo II, ac-cusato di aver violato la moralità internazionale e la santità dei trattati per aver scatenato una guerra d’ag-gressione. Al termine della seconda guerra mondiale furono poi effettivamente istituiti due Tribunali inca-ricati di giudicare quelli che proprio in quel frangente furono definiti come crimini individuali rilevantiper il diritto internazionale (crimini di guerra, crimini contro l’umanità e crimini contro la pace). I Tribu-nali internazionali militari di Norimberga (istituito come parte dell’Accordo di Londra stipulato l’8 agosto1945 dalle quattro potenze occupanti della Germania) e di Tokyo (creato il 19 gennaio 1946 con decisioneunilaterale del Comandante supremo delle forze alleate in Giappone) hanno indubbiamente portato con-tributi fondamentali allo sviluppo del diritto internazionale per quanto riguarda la definizione e la sanzio-ne dei cosiddetti “crimini internazionali”. Tuttavia in entrambi i casi si è trattato di istanze giurisdizionalidi carattere sostanzialmente interno (sebbene istituite da potenze straniere), gestite dalle potenze occupantie come tali incarnanti il classico paradigma della “giustizia dei vincitori”.Viceversa, nel caso dei Tribunali penali internazionali veri e propri, la possibilità per un’intera comunità diconfrontarsi con le scelte politiche e le atrocità compiute dalle autorità istituzionali, militari e paramilita-ri, accertando le violazioni gravi di diritto umanitario e gli atti di genocidio e portando i responsabili ingiudizio davanti a un’istanza potenzialmente percepita, grazie al suo carattere internazionale, come impar-ziale e indipendente, consente di soddisfare alcune esigenze imprescindibili per un efficace processo di ri-conciliazione. Da un lato, oltre a confermare in maniera inequivocabile l’intransigenza della Comunità in-ternazionale verso le gravi violazioni del diritto umanitario e a svolgere quindi una funzione deterrente peril futuro, il fatto stesso di giudicare i presunti responsabili davanti a un’istanza giurisdizionale super partesspezza il circolo vizioso di violenza e impunità e offre un’alternativa alla semplice giustizia sommaria, ingrado di rafforzare la rule of law, favorire il processo di transizione democratica post-bellica e prevenire ilriemergere del conflitto. Non solo: il tipico contesto di giurisdizione concorrente in cui operano i Tribuna-li internazionali (contesto nel quale a essi spetta il compito di processare i senior leader e i responsabili del-le violazioni più gravi e generalizzate, mentre alle istanze giurisdizionali nazionali spetta il compito di ac-certare le violazioni minori e punire i responsabili di grado inferiore) può dare luogo a una fruttuosa col-laborazione tra i due livelli giurisdizionali, fondamentale per rafforzare o anche ricostruire il sistema giu-diziario locale sconvolto dal conflitto.Dall’altro lato, i Tribunali penali internazionali assolvono l’importante compito di soddisfare le esigenze digiustizia come pre-requisito per la riconciliazione nazionale. In particolare, l’accento posto dai Tribunalisulle responsabilità individuali per i crimini commessi su vasta scala esorcizza il rischio che un’intera com-ponente della società (sia essa etnica, religiosa o politica) venga assimilata ai responsabili di tali violazionie aiuta dunque a sovvertire il meccanismo di colpevolizzazione collettiva e di vendetta. Va detto, tuttavia,che di per sé l’esistenza di un Tribunale penale internazionale non risolve le cause sottostanti al conflitto,né elimina il rischio che, nel caso di società multietniche particolarmente divise, l’istanza internazionalevenga percepita da alcune componenti come imposta dall’esterno e come “giustizia dei vincitori”, finendoquindi per esacerbare i conflitti esistenti.Negli anni Novanta, a fronte di gravissime situazioni di emergenza, il Consiglio di Sicurezza delle NazioniUnite è intervenuto istituendo tramite risoluzioni vincolanti due Tribunali penali ad hoc, il Tribunale pe-nale internazionale per la ex Jugoslavia (Tpij) e il Tribunale penale internazionale per il Ruanda. La loroparticolarità e il loro carattere innovativo dal punto di vista del diritto internazionale consistono nel fattodi non essere stati creati attraverso un trattato internazionale (come l’Accordo di Londra), ma per mezzodi una decisione collettiva vincolante promanante (e imposta) da un’organizzazione internazionale: in que-sto senso essi possono essere considerati i primi veri Tribunali penali internazionali.Il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia è stato istituito dal Consiglio di Sicurezza con la ri-soluzione n. 827 del 25 maggio 1993, allo scopo di «perseguire le persone responsabili di gravi violazionidel diritto internazionale umanitario commesse nel territorio della ex Jugoslavia» a partire dal 19911, ha se-

I Tribunali penali internazionali

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de all’Aja, è composto da tre Camere di prima istanza e una Camera d’appello, che assicura un doppio gra-do di giudizio, ed è affiancato da un Procuratore indipendente (nominato dal Consiglio di Sicurezza) cheha facoltà di iniziare l’azione penale d’ufficio o sulla base delle informazioni ricevute da una qualunquefonte esterna. Il Tpij dovrebbe concludere i lavori entro il 2010; finora ha rinviato a giudizio oltre 160 in-dividui, di cui solo 6 non sono ancora stati catturati, ha concluso 85 procedimenti, nell’ambito dei quali 43individui sono stati condannati (tra i quali, per la prima volta, figura un capo di stato, l’ex presidente ser-bo Slobodan Milosevic) e 8 sono stati assolti (6 sono deceduti nel frattempo e 25 procedimenti sono statiarchiviati).Lo Statuto del Tpij definisce in termini molto precisi i limiti della giurisdizione del Tribunale. Ratione ma-teriae, il Tpij è competente ad accertare e punire le gravi violazioni delle quattro Convenzioni di Ginevradel 1949, le violazioni delle norme e delle consuetudini di guerra, gli atti di genocidio e i crimini contro l’u-manità2, commessi nel territorio della ex Jugoslavia a partire dal 1991; ratione personae, la giurisdizione delTpij è limitata ai soli individui, ed esclude la possibilità di processare intere organizzazioni, partiti politicio enti amministrativi3.La risoluzione istitutiva del Tribunale individua quattro obiettivi:

� portare davanti alla giustizia i responsabili delle violazioni accertate;

� rendere giustizia alle vittime;

� fungere da deterrente per ulteriori violazioni attraverso la lotta all’impunità;

� contribuire alla restaurazione della pace e al processo di riconciliazione.

Nel perseguimento della giustizia come presupposto per la pace e la riconciliazione, un ruolo fondamen-tale è stato finora svolto dalla presenza di regole procedurali strettamente rispettose dei principi fonda-mentali dell’equo processo. In particolare, la previsione di una giurisdizione concorrente tra Tpij e tribu-nali nazionali (ferma restando la possibilità per il Tribunale dell’Aja di avocare a sé un particolare procedi-mento nell’interesse della giustizia) e la cooperazione tra i due livelli sono indispensabili affinché la lottaall’impunità possa essere efficacemente sostenuta e il sistema giudiziario locale possa essere effettivamentericostruito.Inoltre, la necessità di accertare i fatti oltre ogni ragionevole dubbio, in accordo con i principi dell’equoprocesso, da un lato dà voce alle vittime delle violazioni attraverso la raccolta delle loro testimonianze,mentre dall’altro lato offre un apporto fondamentale al processo di ricostruzione della memoria storica. E,d’altro canto, l’obbligo di processare unicamente gli individui sulla base della loro responsabilità personaleconsente per l’appunto di individualizzare la colpa per le violazioni commesse, impedendo quindi la col-pevolizzazione e la stigmatizzazione dell’intero gruppo (etnico, religioso o politico) nel nome del quale ta-li violazioni sono state compiute e favorendo quindi il processo di riconciliazione tra le diverse popolazio-ni dell’ex Jugoslavia. Tuttavia, proprio quest’ultimo aspetto dell’opera di riconciliazione posta in essere dalTpij è stato messo in discussione soprattutto dalla componente serba, alla luce della sproporzione numeri-ca esistente tra imputati serbi e imputati di altre etnie (circa i tre quarti degli individui indagati dal Tpij so-no serbi, mentre pochissimi sono gli individui indagati per violazioni commesse contro tale gruppo etni-co) e, soprattutto, alla luce del fatto che nessun soldato della coalizione Nato è stato indagato a seguito delcoinvolgimento dell’Alleanza nel conflitto in Kosovo.Molte delle osservazioni fatte in riferimento al Tpij possono essere estese al Tribunale penale internazio-nale per il Ruanda (Tpir), istituito anche esso con risoluzione del Consiglio di Sicurezza (risoluzione n. 955dell’8 novembre 1994) e avente sede ad Arusha. La struttura del Tpir è del tutto simile a quella del Tribu-nale dell’Aja, con il quale tra l’altro condivide la Camera d’appello e fino al 2003 ha condiviso anche il Pro-curatore (la svizzera Carla Del Ponte), così come simili sono le regole procedurali volte a garantire un equoprocesso.Il Tpir è competente a giudicare gli «individui responsabili di gravi violazioni del diritto internazionaleumanitario commessi nel territorio del Ruanda e i cittadini ruandesi responsabili delle medesime viola-zioni compiute nel territorio degli stati vicini tra il 1° gennaio 1994 e il 31 dicembre 1994»4. Ratione mate-riae, la giurisdizione del Tpir si estende dunque, come specificato dagli articoli 2-4 dello Statuto, agli atti digenocidio, ai crimini contro l’umanità, commessi a prescindere dall’esistenza di una situazione di guerra, eai crimini di guerra intesi come «violazioni dell’articolo 3 comune alle Convenzioni di Ginevra e del II Pro-tocollo addizionale»5, relativi alle violazioni del diritto bellico in situazioni di conflitto interno.Lo scopo principale dell’istituzione del Tpir, oltre naturalmente a quello di assicurare alla giustizia i re-sponsabili di crimini internazionali particolarmente efferati, è quello di favorire il processo di riconcilia-

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zione nazionale in Ruanda e il mantenimento della pace nell’intera regione. In questo senso, l’accertamen-to dei fatti soprattutto riguardanti il genocidio avvenuto nel paese è indispensabile per conservarne la me-moria e fungere da deterrente contro il ripetersi della tragedia anche in altre regioni del continente africa-no. D’altro canto, l’attività del Tpir, nel cui ambito sono state emesse le prime sentenze di condanna inter-nazionale in relazione proprio al crimine di genocidio, e la cooperazione degli stati africani con il Tribu-nale di Arusha, in particolare per ciò che riguarda l’esecuzione delle sentenze, possono contribuire in mi-sura consistente al processo di democratizzazione e alla soluzione del problema della diffusa impunità nelcontinente.L’operato del Tpir tuttavia non è stato esente da critiche, tra le quali la principale riguarda la sua lentezzaprocedurale: a tre anni dalla prevista conclusione di tutti i lavori (stabilita per la fine del 2010), nonostan-te circa 45.000 individui siano stati incriminati per le violazioni commesse, solo 32 processi sono stati av-viati, dei quali solo 21 possono considerarsi conclusi; 28 persone sono state condannate a varie pene de-tentive e 14 sono detenute in attesa di giudizio.L’importanza della giustizia come presupposto per il ristabilimento della pace e per la riconciliazione in se-guito a violazioni su larga scala delle norme fondamentali del diritto internazionale umanitario è stata ul-teriormente accentuata con l’istituzione della Corte penale internazionale (Cpi): laddove i due Tribunalisono istituzioni ad hoc e temporanee, create tramite risoluzioni vincolanti del Consiglio di Sicurezza, la Cpiè un organo permanente, istituito grazie a un trattato multilaterale aperto, e indipendente dal sistema Onu(anche se il Consiglio di Sicurezza mantiene alcuni poteri riguardo all’esercizio della giurisdizione dellaCorte). Lo Statuto della Cpi è stato approvato a Roma nel 1998, è entrato in vigore il 1° luglio 2002, a se-guito del deposito della sessantesima ratifica, e conta al momento 104 stati parte.Come recita il Preambolo dello Statuto, tra gli scopi della Corte figura esplicitamente quello di «porre fineall’impunità degli autori … e quindi contribuire alla prevenzione di nuovi crimini»6. In particolare, la Cpiè competente «nei confronti dei crimini più gravi riguardanti la Comunità internazionale nel suo insie-me»7, individuati dall’articolo 5 dello Statuto come genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra,aggressione (ma in riferimento a quest’ultimo crimine la Corte potrà esercitare la propria giurisdizione so-lo dopo che gli stati parte avranno raggiunto un accordo sulla sua definizione); la Conferenza di revisionedello Statuto prevista per il 2009 potrebbe rivedere la lista dei crimini compresi nella giurisdizione dellaCpi, non solo arrivando finalmente a una definizione del crimine di aggressione, ma anche, potenzialmen-te, arrivando a includere in tale lista il crimine di terrorismo. La giurisdizione della Corte si applica, comenel caso dei Tribunali ad hoc, solo agli individui direttamente responsabili dei crimini o che hanno favori-to con comportamenti attivi o omissivi il loro compimento, e solo ai crimini commessi dopo l’entrata invigore dello Statuto, nel rispetto del principio di irretroattività. Presupposto per l’azione penale della Cor-te è che l’accusato sia cittadino di uno stato parte o di uno stato che ha altrimenti accettato la giurisdizio-ne della Cpi, ovvero che il crimine sia stato commesso sul territorio di uno stato parte (o di uno stato cheha accettato la giurisdizione della Corte per il caso specifico). In mancanza di tali presupposti, la Corte puòessere attivata solo su richiesta del Consiglio di Sicurezza, qualora esso ritenga di trovarsi in presenza di unaminaccia alla pace. In presenza di tali presupposti, la Cpi può esercitare le proprie competenze se:

� uno stato parte richiede il suo intervento;

� uno stato non parte accetta la sua giurisdizione e richiede il suo intervento;

� il Consiglio di Sicurezza deferisce un caso alla Corte;

� un panel di tre giudici autorizza il Procuratore ad avviare il procedimento motu proprio.

I limiti posti all’esercizio della giurisdizione della Corte si giustificano soprattutto alla luce del principio dicomplementarità rispetto alle istanze giurisdizionali nazionali, che dovrebbero in prima battuta interveni-re e perseguire i responsabili dei crimini sopra menzionati: la Cpi, in questo contesto, dovrebbe interveni-re solo se lo stato interessato non è in grado o non vuole processare i responsabili.Secondo alcuni critici la Cpi può ostacolare i negoziati per porre fine a situazioni di conflitto e l’avvio delprocesso di democratizzazione e riconciliazione, che viceversa sarebbe maggiormente favorito se ai re-sponsabili delle violazioni fosse concessa un’amnistia. Tuttavia, tanto il potere spettante al Consiglio di Si-curezza di chiedere il rinvio di un’indagine ai sensi dell’articolo 2 dello Statuto, quanto il potere discrezio-nale del Procuratore di non avviare un’indagine qualora ritenga che essa «non favorisca gli interessi dellagiustizia» ai sensi dell’articolo 53 consentono alla Corte di mantenere un ruolo importante nei processi ri-conciliativi.Ad oggi quattro “situazioni” sono state sottoposte all’attenzione del Procuratore della Cpi: tre stati parte

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(Uganda, Repubblica democratica del Congo e Repubblica centrafricana) hanno richiesto l’intervento del-la Corte per violazioni compiute sul proprio territorio, mentre il Consiglio di Sicurezza ha deferito allaCorte il caso di uno stato non parte (il Sudan, per le violazioni commesse in relazione alla crisi del Darfur).Per tre di queste situazioni (Uganda, Congo e Darfur) il Procuratore ha già avviato le indagini, e nel luglio2005 ha emesso il primo mandato d’arresto per il caso ugandese.

Note

1 UN SECURITY COUNCIL, Resolution n. 827, 25 May 1993, <http://www.un.org/icty/legaldoc-e/basic/statut/S-RES-827_93.htm>; lo Statuto del Tpij è disponibile all’indirizzo <http://www.un.org/icty/legaldoc-e/index.htm>.

2 Statute of the International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia, artt. 2-5.3 Ibidem, artt. 6 e 7.4 Statute of the International Criminal Tribunal for Rwanda, art. 1, <http://69.94.11.53/ENGLISH/basicdocs/

statute/2004.pdf>.5 Ibidem, art. 4.6 Statute of the International Criminal Court. Preamble, 17 July 1998, <http://www.icc-cpi.int/library/

about/officialjournal/Rome_Statute_120704-EN.pdf>.7 Ibidem.

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ISPI

Quadrimestrale dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

n. 4 - Aprile 2007

Memoriae conflitti

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n.4 2007Quaderni di Relazioni Internazionali

Mem

oria e conflitti

Dossier - Memoria e conflittiGli usi della memoriadi Tzvetan TodorovEuropa e Islam nel Mediterraneodi Franco CardiniThe Collective Memory of Peace Making in Israel and Palestinedi Ilan PappeLa “memoria divisa” in un crocevia d’Europadi Alessandro VitaleMemory and Reconciliation in Post-Conflict Societiesdi Rhys Kelly

Osservatorio InternazionaleQuale futuro, dopo dieci anni, per il Trattato sulla messa al bando completa degli esperimenti nucleari?di Marco PedrazziL’America latina farà da sédi Ludovico Incisa di Camerana

Documentazione

9 788823 860568

ISBN 978-88-238-6056-8

Euro 10,00

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