Isabella Santacroce - Lovers

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Isabella Santacroce LOVERS piccola biblioteca Oscar Mondadori

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Italian book about two girls that fall in love.

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Isabella Santacroce

LOVERS

piccola biblioteca Oscar Mondadori

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Virginia viveva nel fondo del cuore.Nel fondo del cuore respirava.Una notte nella sua stanza della finestra sul cieloguardò la sua stella migliore.Compiva diciott’anni il giorno a venire.Diciott’anni in quell’estate da ricordare.Nell’aria costellazioni come fuochi sospesi.Morbide labbra contro la luna.Non sapeva sarebbe diventata principessa da amaree guardava la notte cadere.Allontanò il sonno. Profondità del tempo davanti.Ciò che poteva. Cosa di ore.Lei che sbocciava.Lei come un fiore.

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Era Giugno nell’aria. Roma sudava. Si svegliò diventando un’Alice smarrita dal sorriso confuso da un sogno alla fine.Sua madre rideva di quel sorriso infantile. Lo faceva con grazia composta.Era Giugno nell’aria. Si festeggiava un compleanno in fami-glia. Poteva essere felice. Lo disse piano alle foglie e sem-brava fragile e quasi da soffiare.Diventava un’Alice smarrita senza nulla da inseguire se non ombre create dal sole.Lentamente si alzò chiudendosi in bagno.Specchiò al madonnina che era e nascose le dita per provare piacere.Così smarrita nella passione si chiese quante preghiere vales-se il rimorso di non aver attesoche il tempo le portasse l’amore.

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Chiusa nel bagno con un compleanno da onorare, guardò al-beri dalla finestra. Se ne stavano davanti oscurando il resto e così potevi immaginarti dentro una casa circondata dal bo-sco.Aveva provato ad arrampicarcisi da piccola.Erano platano lisci come plastica e nessuna nodosa presa l’a-veva aiutata a salire in po’ in alto e da lì osservare il mondo. Se era spesso domandata che effetto avrebbe fatto raggiunge-re la punta e fermarcisi come una stella di natale.Come un’improvvisa luce sospesa.Poteva essere felice.Lo disse piano alle foglie.Dalla finestra del bagno riusciva a toccarle.Allungava le braccia e le toccava.

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Suo padre in salotto canticchiava nell’odoredi pranzi da festa.Strani rumori quasi di vita.Sorpresa l’ascoltò esserci.Pieno di niente.La sua era una famiglia dalla tranquillità simile all’assenza di suono e questo da sempre l’inquietava.Era una specie di teatro dell’anestesia dei sensi che le aveva insegnato ad annullare ogni slancio quasi fosse follia gridare di gioia.Così Virginia cresceva nei sogni.Cresceva bei sogni cosciente che quel silenzionon le apparteneva e che presto sarebbe sbocciata.Come un fiore.

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Un pranzo qualsiasi addobbato da torte pastellole scivolò sotto il naso mentre moriva dalla voglia di sole.Dalla voglia di urlare.Desiderò stanze dai silenzi mancanti guardandoli esserci ap-pena.Di profilo i suoi genitori potevano sembrare innamorati, con-cluse posando il bicchiere mentre il destino già disegnava un incontro.In quel momento prese vita portandola al parco.Quasi una voce la condusse fino al verde e sapeva di nuovo.Virginia non aveva mai avuto un’amica miglioree le mancava una sorella dal sangue diverso. Da piccola gio-cava alle magie per farla apparire.In parco semideserto sapeva di nuovo.Virginia guardò una ragazza gridare.Ne seguì la corsa sul prato.Il giorno dopo l’avrebbe incontrata.Non per caso.L’avrebbe incontrata.Ancora.

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Il giorno dopo entrò in un parco.Attese quell’arrivo.C’erano nubi coperte di luce.Si disse che nemmeno la pioggia l’avrebbe fatta fuggire.Contò fino a mille.Contò infiniti passi cercando quel profilo.Poi chiuse gli occhi e quando li riaprì quella ragazza le era vicina e leggeva.Aveva il viso leggermente reclino e labbra mosse da un ven-to di seta.Sfidò timidezze terribili.Le regalò un sorriso.Ebbe inizio così.

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Elena. Così si chiamava. Aveva la sua stessa età.Come lei adorava sentire.La capì dal modo in si esponeva alla vita.Senza paure.Le piaceva ridere forte e quando la gente si girava a guardare sembrava provare piacere.«Vorrei mi pensassero pazza» le disse una voltadopo essersi rotolata nell’erba gridando.Sembrava cercasse di liberarsi di sé.Quasi qualcosa le imprigionasse la parte più vera.Passarono pomeriggi interi a parlare escludendo discorsi di libri e di esami. Studiavano altro sedute vicine.Studiavano se stesse per rendere visibile il loro passato.Virginia mentì più volte solo per la voglia di modificare con il pensiero anni della sua esistenza non degni di nota.Elena fece altrettanto per motivi diversi.Aveva un segreto.Come tutti un segreto.Da non svelare.

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Una mattina Elena la guardò puntandole addosso se stessa.I suoi occhi di un blu quasi perlatodiventarono specchio contro luce.Le disse: «Un giorno ti dimenticherò».Aveva espressioni d’amore sottratto.Le disse: «Il giorno in cui uscirai dalla mia vita lotterò per dimenticarti all’istante».Virginia provò un sentimento simile alla paura.Sfiorò iridi dai tanti riflessi.Intravide qualcosa di sconosciuto.Era come il segno di una ferita.Le chiese il perché di quelle parole.In risposta Elena abbracciò una colonna di pietra.Rimasse stretta a quel freddo uomo sporgentequasi cercasse riparo.Virginia ne imitò i gesti senza dir niente.C’erano due ragazze in un mattino di Roma abbracciate a un uomo di pietra.Elena aprì quegli occhi che catturavano il sole e sorrise.Disse: «Odio i ricordi».Disse: «Non voglio mai odiarti».

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Diventarono invisibili vite.Dal niente al tutto con un battito d’ali.Nemmeno un istante da respirare lontane.Sincronizzando il pulsare del cuore.

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Non c’erano stelle quando la invitò a cena.Si preparò con cura e dentro tremava. Quasi riuscisse a pre-dire il futuro. Quasi sapesse che avrebbe fatto i conti con sconosciute emozioni.Elena passò a prenderla.La condusse fin dentro casa.Alla tavola apparecchiata l’attendevano un uomo e una donna.Sembrava un film dall’inizio mancante.Quelli di cui non vedrai mai la finema l’attore principale le folgorò il cuore.Lo riconobbe subito.Le bastò uno sguardo.Era un uomo già incontrato in un sogno lontano.Elena lo presentò ridendo.Disse: «Lui è Alessandro, mio padre».

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Era un uomo già incontrato in un sogno lontano.Non ricordava la notte che l’aveva fatto arrivaree forse non esisteva nemmeno.Forse realmente quel viso era apparso fra tanti e la memoria l’aveva tenuto per farlo tornare.Ed era tornato.Ed Elena perdeva importanza.Diventava il tramite di una storia da iniziare.Pensò intensamente per capire quanto nulla accadesse per caso.Neppure un gesto nasceva senza un finale.

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L’inizio della passione ha della musica in sé.Fu così per Virginia colpita da un lampo che annullò tutto at-torno non lasciando che lui.Elena presentò suo padre quasi per caso. Alessandro doveva essere altrove quella sera e invece si ritrovò davanti a una ra-gazza dal viso più dolce di un sorriso che lo guardava timi-damente negli occhi cadendoci dentro.Mangiarono uno di fronte all’altra senza parlarsi mai.C’era una sorta di tensione tra loro ma nessuno la colse.Si ritrovò a fissare affascinata le sue mani.Come le muoveva.Sembravano carezze.Le immaginò sui suoi fianchi e le immaginò ancora mentre accanto a lui una splendida donna rideva.Quella donna era sua moglie.

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La notte non riuscì a dormire.Nascevano proiezioni dai suoi pensieri.Si liberavano dal centro delle pupille per animarle l’anima.Lì dentro appariva.La baciava.Si chiese se stesse dormendo abbracciato a quella splendida donna.Se stessero facendo l’amore.Accese luci al buio in quell’ignoto sentire.Illuminò il sonoro di voci provenienti dall’alto.Lì sopra abitava una giovano coppia di sposi. Erano arrivati il giorno prima. Incontrandoli ne aveva visto la felicità. Iniziò ad ascoltare rubando un’intimità fatta di lamenti dalle cadenza ritmica e soffocata.Alle loro voci sovrappose mentalmente la sua e quella di Alessandro creando visioni.Sperò di addormentarsi per portare tutto nel sonno ma senza riuscirci.Uscì dalla stanza.Scalza si diresse verso quella dei genitori.Era in fondo al corridoio.

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Verso il niente.

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Verso il niente.Verso Elena che lentamente diventava altra cosa.Comoda chiave di porte da aprire.Le bastava entrare in quella famiglia di cui adottò da subito il padre.Adorava fermarsi per cena a studiare l’atmosfera calda che un solo scambio di sguardi trasformava in roghi multipli più accecanti di soli d’agosto e una volta a casa si sfiorava con le dita per provare piacere mentre lentamente scivolava nel fondo del mare.Mentre lentamente le si chiudevano i petali anche in assenza di sole.

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Era sul finire la settimana. Un venerdì dal cielo di vetro.Nello scuro dell’aria crocifisse stelle di quarzo.La notte prima aveva sognato l’amica. Un sogno di Elena dalla trecce infuocate. Leggeva storie di mostri con voce ma-schile. Il viso appena girato catturava due raggi di sole e si trasformava. Diventava un muso di cane quel profilo d’in-fante. Il perché dell’orrore della notturna visione lo lasciò a invisibili streghe. Credeva abitassero nei sogni peggiori per farla stare male. Per trafiggerle il sonno con sgraziata violen-za. Nel pomeriggio ritrovando Elena quell’incubo era caduto lontano. Si era perso in un sogno di vetro. Tra stelle crocifis-se nello scuro dell’aria e quando Elena le aveva chiesto di trattenersi nel suo salotto in un’ora che avvicina la terra alla luna aveva risposto che ne era felice. Guardavano un film sedute vicine.Differenti gemelle dall’inquietudine affine.E poi quegli improvvisi violini.Nel silenzio un maestoso concerto da chiesa.Due gemelle divise da un suono che esplode.Le nacque musica nel buio del corpo sentendo Alessandro appoggiarsi al suo fianco. Furiosi demoni in quella stanza.

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Nascose nel polso potenti emozioni.Ciò che si illuminava davanti non lo vedeva.

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In penombra.La tv davanti.Sola luce nella stanza.Un divano.Tre persone sedute.Elena e Alessandro vicino.Una moglie appena lontana.E poi le mani.Mani di Alessandro che scoprivano il suo calore.Mani fino alla schiena.Sopra la pelle.Carezze ancora.Sfidando l’esser scoperto.E poi ancora.In penombra.

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Chissà dov’era con gli occhi se non altrove.Lontana dal marito sembrava sorridere agli angeli.Alessandro le strinse il polso.Diventò corpo sul suo polso.Corpo stretto in una mano.E poi ancora.In penombra.

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Uccise la coscienza.Un colpo preciso senza dolore.Lui non era più marito né padre.Non padre di Elena.Non marito di una donna che conosceva.Desiderò il seguito di un inizio inoltrato.E già si vedeva. Tutta in amore.Ma poi un pomeriggio. Uno dei tanti.Uno di quelli in cui contava i minuti che la separavano dall’emozione, Elena le mostrò una foto e non aveva sorrisi.Le disse: «Vorrei scappare».Le disse: «Vorrei farli finire».Parlava di grida, di litigi furiosi.Lacrime tutte nel viso.Le mostrò una foto e non aveva sorrisi.In quell’istante capì che soffriva.In quell’istante si sentì cattiva.Una ragazza da dimenticare.Una che tradisce anche l’amica migliore e addirittura ne so-gna il padre quasi fosse cosa del tutto normale.

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La sua coscienza resuscitò all’improvviso.Violentemente le mostrò il reale.C’era una foto nelle sue mani che la ritraeva con i genitori.Una foto recente fatta al mare. Erano sdraiati sulla sabbia.Uno accanto all’altro.Sui loro visi un’espressione innaturale.Come quando cerchi di ridere subito dopo aver pianto.

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Come se l’avesse fotografata con la mente quell’istantanea al sole perseguitò i suoi pensieri.In lei era ben visibile il dolore.Un dolore che odorava di fine e lei in quella fine aveva avuto il coraggio di provare passio-ne.Rientrando a casa guardò i suoi genitori.Li guardò da vicino.Sembravano libri che nessuno ha mai letto.Se la famiglia di Elena odorava di fine, la sua odorava di niente.Forse solo per lei.Forse per loro quel niente era tutto e da lontano potevi scam-biarli per innamorati.Questo se li osservi distrattamente.In verità quel connubio reso indivisibile dalla dipendenza alla quiete assomigliava alla morte.Li guardò avvolti da una pace crudele.Il divano che li ospitava aveva sembianze di gabbia.Disse buonanotte stonando.Salì in camera.

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Chiuse la porta dietro di séCercò il diario segreto. Era piccolo con pagine rosa.Le ultime erano decorate da cuori e da un nome.Il nome Alessandro ripetuto ossessivamente.Strappò pagine a una a una con furia.Il giorno dopo le gettò nel primo bidone lontano da casa.

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Nel primo che trovò lontano da casa gettò pagine rosa coper-te da cuori. Le teneva strette in mano. Racchiuse nel pungo. Carta fata a pezzi che lasciò cadere guardandosi attorno. Per-ché nessuno vedesse la ladra pentita che era.Come quando hai rubato qualcosa di cui vuoi disfarti.Per dimenticare. Farne passato. Pensare ad altro.La luce di un’estate le abbassava le palpebre.Cadevano raggi e Roma si scioglieva.E Virginia si illuminava di memoria da lasciare.Di ricordi chiusi in quella memoria illuminata.Maledì le iridi che l’avevano partorita, quasi fosse cosa saggia portarla in quella luce.Contò i passi che la dividevano dalla fermata del tram.Dal luogo che l’avrebbe sottratta a un passato ridotto a sottili strisce di carta rosa.Chiamò nubi perché oscurassero il cielo. Chiamò grandi om-bre a coprire la vergogna del sapersi capace di tradire.Pensò a una moglie sorridente. A Elena senza sorrisi. Pensò alla penombra di un salotto d’estate.Poi girò lo sguardo.Abbandonò l’altra se stessa.

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Salì sul tram.

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Visto dal finestrino di un tram sudato luglio brillava ma Virginia era altrove. In un mese con poca luce.Offuscato di turbamenti e ansie che per un attimo le tolsero il respiro. Le strinsero la gola serrandola e quasi si ritrovò a gridare quando successe una cosa strana che le vietò di farlo.Le apparve Elena in qualche angolo della mente annebbiata.All’improvviso.Dolcemente.Ne sentì la mancanza.

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Cambiò colore l’aria. Perse il suo chiarore. Arrivarono le stelle. Tutta quante brillarono e lei si sentì felice perché arri-vava l’ora in cui sarebbero state insieme.Elena e Virginia amiche nella sera.Lottò per deformare il profilo di Alessandro.Per deformare quel piacere.Ne fece vento che sa portarsi lontano. Che passa sconvolge e poi svanisce.Fissò le stelle in un sabato di luglio. C’era profumo di cena nell’aria. Apparentemente tutto era come sempre.Ma non lei. Per lei era l’estate delle rivelazioni.Della prima amica del cuore.Della prima passione per l’uomo che ne era il padre.Si prese il viso tra le mani.Lo lasciò lì.

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C’era profumo di cena nell’aria. Accese la tv per sentire voci parlare. Avrebbe mangiato sola. I suoi uscivano.Ogni sabato si concedevano la variante settimanale.Non sapeva dove andavano. Non lo aveva mai chiesto.Si lasciava sorprendere dalla discrezione che usavano nel prepararsi. Quasi si vergognassero nascondendo qualsiasi emozione. Fino alle venti diventavano invisibili.Venivano risucchiati da una ritualità consumata in una camera da letto. A volte ne immaginava i gesti. Quelli della madre intenta a truccarsi. Vedeva il suo viso specchiato e la mano accarezzarne i lineamenti sfocati che si diffondevano fino a sparire.Anche quella sera successe. La immaginò rapita dal suo riflesso. Sentendone i passi si rassicurò.Scendeva le scale. Le si avvicinò cercando conferme.Virginia ripeteva sempre la solita frase «Mamma sei bella»e allora lei si scioglieva. Era nervosa, lo si capiva. Lei si mise seduta vicino. Aveva un abito scuro leggermente scol-lato.Da festa. Sfiorò i suoi capelli. Le sembrò di toccare qualcosa di sconosciuto.

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Poi iniziò.«Mamma dove andate?»La guardò dentro.«Perché me lo chiedi amore?»La chiamava amore.«Perché lo vorrei sapere.»La vide arrossire. Allontanarsi. Disporre fiori.Sottrarsi al suo sguardo. Mettersi al sicuro.Poi rispose.Come se stesse svelando segreti.Come se stesse nascondendo verità.Con lo stesso sforzo e pudore rispose.«A cena e poi al cinema amore.»

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La chiamava amore ma l’amore chissà per lei cos’era.Dalla finestra la vide salire in auto con eleganza.Come un’attrice sull’ultimo set della sua vita. Le si rigarono gli zigomi a quel pensiero. Non cercò di asciugarli.Tratteggiò nell’aria quella madre lontana.Un segno sottile fino al soffitto.Un viso simile a un fiore.Riflesso nel vetro un viso bagnato. Vi si appoggiò contro as-sorbendone il freddo.Coprì l’altra se stessa. Quella specchiata. Raccolse prfili qua-si con pudore. Quasi fosse cosa da non vedere.Lei che piangeva.Avrebbe voluto tornasse senza preavviso.Avrebbe voluto sovrapporla a quel legno sottile dal viso simile a un fiore.

Suonò il campanello.Capovolse emozioni.Andò ad aprire.Dalla lacrime al sorriso.

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Elena arrivò con un orsacchiotto di peluche in mano.Abbastanza ubriaca glielo donò ridendo. Rideva isterica chiedendo altro vino per festeggiare in un posto fantastico che voleva farle conoscere per sognare. La sconcertava tanta euforia perché nascondeva qualcosa.Lei era l’equilibrista.Quando rischiava di stare male sfiorava la superficie un abi-lità da creatura da circo che non teme di scivolare. Che cono-sce il trucco per salvarsi in ogni momento.Ormai aveva capito che se lei rideva a quel modo in realtà non rideva. Utilizzava lo strattagemma.Quello migliore.Quando uscirono la notte era al suo inizio. Calda di vento le accarezzava. Percorsero in auto strade che non sapeva.Dai finestrini aperti entrava l’estate. Arrivava. L’avvolgeva.Lei si incollava addosso rendendo immortale il momento.Elena rallentò. Si fermò davanti a un vivaio in disuso.Entrarono del buio. Camminarono vicine senza parlare. Emozionate tra il verde lasciato crescere incolto.Bello e selvaggio ovunque le proteggeva dalla paura di essere lì.

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Seguì l’amica rimanendole accanto. Fino a sotto un albero. Il più grande che avesse mai visto.«Volevo lo conoscessi.»Elena sfiorò il tronco con le dita.«Vengo qui appena mi sembra che la mia vita non abbia sen-so e nel guardarlo capisco l’importanza di esserci per vedere anche solo una piccola parte di ciò che ha visto lui stando immobile.»Elena le presentò un albero.Lo fece con orgoglio.Un orgoglio che Virginia non aveva neppure per sua madre.

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E copriva il cielo.E potevi immaginarti in un cielo tutto di foglie.E come pioggia d’autunno guardarlo cadere.Elena rideva offrendole vino. Rideva isterica e Virginia sa-peva che le nascondeva qualcosa. Le prese il viso tra le mani.Disse smetti di ridere.Disse se vuoi raccontami.Il cielo tutto di foglie. Tra le mani il suo viso.Iniziò a singhiozzare. Come pioggia d’autunno che puoi guardare cadere lasciò il corpo scivolare sul prato.Nessun’ombra. Nessuna protezione. Solo una frase ripetuta a nessuno.Diceva «Io non sono ciò che credi». Lo ripeteva con dipinta sul viso una di quelle espressioni da non vedere.Virginia non chiese nulla.Strinse tra le braccia la disperazione. A quella disperazione accarezzò i capelli. Regalò voce. Raccontò favole.

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Senza muoversi mai. Con le labbra rivolte a un cielo di fo-glie rimasero a darsi voce. Fermarono il tempo.Senza toccare il presente sospesero realtà raccontandosi fa-vole. Tutte quelle che sapevano inventare.Virginia la fece entrare nel suo mondo sognato così.Chiedendole fiabe e poi continuando con altre nuove per dare spazio soltanto alla fantasia.Lo fece sapendo che tutte e due nascondevano un segreto che intimità diverse avrebbero fatto scoprire. E non voleva.Era tutto talmente magico e leggero.Perché non concedersi altro che pace.Pace e favole.Ancora un po’.Fino a quando il destino lo avrebbe permesso.

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Chiuse la porta della sua stanza. Erano le tre del mattino.A casa sembrava non ci fosse nessuno.Aveva trovato un fiore posato sulla ceramica biancadel lavandino. Unica traccia del ritorno dei genitori.Della loro presenza. Non se ne sentiva neppure il respiro.Si mise il fiore tra i capelli. Guardò dritto dentro di sé. Vide Alessandro nascosto nel ventre. Colpì con bacchette fatate quella visione. Sussurrò «Ti prego vattene»e poi iniziò a ballare.Muoveva il suo corpo. Lo liberava. Voglia ferocedi possederlo con il respiro.Concentrò sé sulla danza. Raccolse il gusto di ore passate sull’erba. Raccolse voci nel buio.Talmente assorta di tutto non si accorse di nulla.C’era chi la guardava.Non lo venne mai a sapere se qualcuno seguiva i suoi movi-menti da lontano. Lei che ballava davanti a una finestra sul cielo. Se solo si fosse affacciata avrebbe scoperto una figura immobile appena visibile nella notte. La figura di una ragaz-za che spiava una danza solitaria stando in strada protetta dal buio.

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Forse ne avrebbe riconosciuto il viso.Il viso di Elena.

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Si svegliò tardi. Aprì gli occhi e il silenzio la accolse.Si mosse in casa sfidando la perfetta solitudine che l’abitava. Fantasma impalpabile ne riempiva la stanze.Accese la tv per sentire voci parlare e poi iniziò a prepararsi rallentando ogni gesto. Le sembrava di essersi svegliata dopo una notte sbagliata e una sensazione fastidiosa l’accompagnò viaggiando verso la biblioteca.Elena forse era già arrivata. Avevano deciso di studiare in-sieme per un finale di esame.Scese alla fermata vicina. Iniziò a camminare.La gente attorno sembrava aver fretta di scappareda quel punto della città. C’era chi la sorpassava impaziente.Schegge impazzite dopo un’esplosione.Respirò profondamente lasciando cadere lo sguardo su un profilo conosciuto che si girò e le sorrise.Non fu romantico e neppure dolce l’istante che regalò un nuovo incontro con quel padre che la sconvolgeva.Le procurò panico unendola alle altre schegge impazzite.Come loro si animò di impazienza scappando via. Lontano da quel punto della città. Da Alessandro che forse sorpreso inseguiva la sua insolita fuga.

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Elena non la vide arrivare. Il suo rossetto vistoso risaltava nella piattezza sobria della biblioteca.Virginia immaginò la giusta colonna sonora per ciò che ve-deva. Violini.Una ragazza sedeva sola. Lo sguardo fisso.Il tipo di sguardo che osserva tutto ma non vede niente.È difficile da spiegare ma Elena possedeva l’arte dell’attesa e la usava con grazia di chi sa che un momento così non potrà che ripetersi infinite volte.

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Finsero di studiare. Arrivava fino a loro il sole annullando qualsiasi concentrazione. Elena disegnò due cigni. Le trema-va la penna tra le dita. Disegnò un lago che li abbracciava. Poi disse: «Se vuoi ascolta». Aprì un libro dalla copertina senza colore.Della sua poetessa preferita.Nacque la voce ed era più romantica della luna.Leggeva parole con sofferto pudore. Quando finì ancora tre-mava. Guardò Virginia ingenuamente felice.L’ascoltò complimentarsi per la lettura.Diceva: «Dovresti recitare». Diceva: «Riesci a trasmettere un’intensa emozione».Accolse il suo non capire. Lo rapì chiudendolo negli occhi con la luce. Scrisse sul palmo della mano: «Andiamocene sta diventando autunno qua dentro».Si alzarono contemporaneamente. Qualcosa di speciale le univa. Forse la bellezza di sapersi all’inizio di tutto.Si alzarono aprendo una danza che le avrebbe portate via.Fino a fuori. Verso un nuovo giorno da assaporare pienamente. Quasi non dovessero più tornare certi momenti.

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Quasi riuscissero a predire il futuro.

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Le separava un niente dall’immensa emozione.Dal sentimento che provò tra le sue braccia. Un sentimento senza fine di cui non conosceva nulla se non la potenza de suo arrivo.Successe per volere della pioggia che bagnava con furia Roma. Per colpa di un passaggio che non riuscì a rifiutare. Per quel suo odio d’amore a prima vista che mal-grado ogni sforzo non si trasformava.Era con Elena in cucina. L’orologio segnava ore da rientro.Troppo tardi per attendere la fine di un temporale maestoso.Troppo presto per avere la forza di negarsi desideri che anco-ra non aveva cancellato nel breve passato.Sentì Alessandro proporsi per accompagnarla a casa. Vide Elena annuire e in quel momento la odiò.E in quel momento desiderò non averla mai incontrata.Tremava Virginia in balia dei suoi sensi: Senza controllo le vietavano di reagire. Impotente e immobile davanti all’emo-zione.Quando si ritrovarono soli e a pochi millimetri nella sua auto la luna li guardava.La stessa che avrebbe assistito al loro primo bacio.

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La luna in alto come unica testimone di un segreto generato dalle loro labbra senza alcun suono.Quel bacio dava inizio alla vita di un segreto.E Virginia decise di non sentirsi in colpa.E si convinse nell’impossibilità di rinunciavi.Due giorni dopo se sarebbero rivisti.Per la prima volta avrebbero fatto l’amore.Elena sarebbe rimasta sola.

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Inventò una scusa. Apprese l’arte della menzogna perfetta.Le disse che quel pomeriggio studiava sola.Sentì la sua anima cadere nel fondo del mare. Vide da laggiù un’alba affilata spuntare. Pensava non nascesse dal sole quella lama tagliente pronta a uccidere morbide lune.Cercò di odiarsi con tutte le sue forze. Dannatamente. Dal buio del ventre Alessandro chiamava. Allargava le braccia.Pronunciava il suo nome.Capovolse emozioni ancora una volta. Uscì di casa e il vuoto l’accolse. Lame taglienti tutte nel cielo. Desiderò precipitare nel sonno. Se solo si fosse addormentata all’istante. D’improvviso via dal reale diventando un’ingenua dormiente.

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Dolcemente arrendersi.Senza peso. Senza fine.Colpe che si disintegrano.Accelerando battiti nel respiro.Respirando Alessandro.Dividendolo da Elena.

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Si consumava una cena apparentemente serena in famiglia.Le figure immobili sedute intorno al tavolo sembravano ricavate da un cartone spesso e rigido.Di quelli che il vento non potrà mai piegare.Virginia non sentiva il sapore del cibo tanto la sua bocca sa-peva di baci e non pensava che a lui.Nel pomeriggio si erano dati appuntamento in un luogo lon-tano. A fatica ricordava i particolari di quell’appartamento segreto. Le colorava la mente l’imma-gine specchiata dei loro corpi in amore. Era stata un’espe-rienza tutta dolce. Alessandro era riuscito ad annullare ten-sioni trasformandole in euforia con un solo sorriso. Era scivolata in un tempo leggero e lì era rimasta sospesa con grazia nel piacere. Come una danza in cui conosci alla perfezione ogni passo non fermandoti mai.

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Squillò il telefono. Virginia rispose. Rispose al silenzio. A lui disse pronto diverse volte senza ottenere alcuna risposta.«Virginia chi era?»Sua madre non la chiamò amore.Era bella quella sera come una donna innamorata.Le brillavano gli occhi. Occhi che non cercavano mai quelli del marito. Si chiese se realmente sul padre esisteva. Se non era un personaggio inventato dalla situazione.«Allora ci vuoi dire chi era?»Non la chiamò amore. Aveva il viso segnato da cose sconosciute.Virginia rispose.Rispose:» Era il silenzio».Fissò la loro aria sorpresa. Li lasciò in quell’espressione.Anche a lei sembrò assurda la risposta provocatrice ma da lontano sua madre sembrava un’altra.Come lei un’altra.Come lei innamorata.

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Dieci di sera nella sua stanza da bambina. Alessandro nel po-meriggio. Fumo di sigaretta che non si dissolve nell’aria.Vestiti a terra appoggiati alla memoria. La paura di sapere di sbagliare. La paura come scusa per non pensare.Elena non più figlia di Alessandro. Figlia d’altri ma non sua.Così voleva. Si sforzava. Alessandro solo un uomo negli incontri. Uomo arrivato dal deserto. Senza storia. Sen-za parentele sconvenienti.Coscienza telecomandata. Rincorrendo voluttà in pomeriggi che diventavano notte nella stanza del desiderio.Acquisivano tonalità di tende abbassate.Diventava tramonto a qualsiasi ora.E quando Alessandro si alzava per tornare alla vita.Quando apriva porte spalancando il reale, Virginia vedeva se stessa abbandonata da sé e allora correva in quel fondo del mare. Correva cercando di raggiungere le onde per respirare.

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Divise Alessandro da Elena. Divise in sue la sua vita.Chiese a sua madre com’era l’amore. Come agiva nel tempo tra due persone. Forse pensò a cose conosciute. Percorse a ri-troso vie già calpestate. Forse non la vedeva neppure mentre rispondeva. Le si apriva una storia mai capita.Si disegnava sul volto un passato che diventava parole.Un susseguirsi di frasi ordinate.Nel confuso riconoscersi appena sua madre parlava per cer-care conclusioni a quella domanda fatta di sera.Virginia la guardava negli occhi. In quei nuovi occhi diversi.Occhi cambiati.Cercava di spiegare l’amore. Cos’era stato per lei e suo padre. Cos’era. Le aveva detto che lui era il solo. L’u-nico uomo della sua vita. Senza aggiungere altro.Senza far seguire “l’unico uomo mai amato”. Parlava in modo incerto e il risultato finale odorava di poco. Diceva dell’amore tra due persone illustrandolo male. Come un viaggio in cui parti con tantissime cose che lasci cadere per strada e ti ritrovi all’improvviso con lo stretto necessario alla reciproca sopportazione.

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Quando una nuova alba affilata le graffiò il viso si ricordò che il giorno prima aveva avuto voglia di morire. Era durato un istante. Palpebre che si abbassano per ritornare alla luce.Frazioni di secondo più profonde di un taglio.Elena le aveva raccontato di un furioso litigio.Genitori arrivati alle mani.Eppure Virginia della madre conosceva solo il sorriso.Credeva non sapesse fare altro quella donna all’apparenza serena.Credeva realmente che il padre di cui parlava non fosse più suo. Lei ne piangeva. Diceva ci sarà un’altra vita.Diceva tu ci sarai. Devi rimanere.Magari vivremo assieme. Nella stessa casa.Elena troppo sincera. Insopportabile.Durò un istante. Una porta che sbatte e non si riapre.Stesso rumore. Desiderò morire.

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Quando una nuova alba affilata le graffiò il viso si ricordò di una morte pensata. Corse fuori di casa.Prese la bici e le strade le sembravano di zucchero nero.Pedalava con foga quasi scappasse da mostri. Sempre così fino al parco del suo destino. Quello in cui aveva contato cercando il suo viso. In cui l’aveva vista rotolarsi gridando sul prato.Si fece mostro in amore.Innamorata di chi a quell’importante persona aveva dato la vita.

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Era veramente nel fondo del mare e nel fondo del mare non c’è luce. Forse era tutto quel sole a farle credere di respirare aria.Sdraiata sull’erba con la bici accanto e un intero universo che le attraversava l’anima prese la sua identità tra le dita e la scosse affinché diventasse più forte dei tuoni.

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Roma tutt’attorno splendeva. Oro illuminato la sua città vista attraverso le siepi di un parco. Cercò di immaginare il futuro. Lei chissà come sarebbe stata tra dieci anni.Riprese la bici e a ogni pedalata le sembrava di raggiungere quel tempo lontano. Correva verso l’ignoto. Passavano i mesi che l’avrebbero vista crescere e non sapeva come.Si fermò a una cabina. Fermò una corsa verso il destino.In bocca il salato del mare. Respirava onde al posto dell’aria in quel fondo d’abissi.Digitò un numero che conosceva. La pregò di arrivare.Elena le chiese se era successo qualcosa. Mentì spudorata-mente. Guardò la gente passare.Rispose che non era nulla. Che era semplicemente felice.

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Un'ora dopo sedevano in un bar all’aperto. Nella piazza vici-na bambini giocavano. Lei era stata una di loro in anni lonta-ni.Il ricordo del suo respiro affannato. Dall’impatto dei piedi sull’asfalto. Quel rumore di corsa. Ritmo che finiva per sce-mare tra le risate infantili quando si arrendeva alle forze la-sciandosi raggiungere tutta ansimante.Quello che provava in quell’attimo ora lo riprovava stando seduta in un bar all’aperto con Elena accanto.Non era mai sconfitta l’essere presa. Il suo arrendersi le re-galava un avvicinarsi ai compagni sentendo il loro calore scaldare la sua fuga guerriera. Con Elena sentiva lo stesso calore dopo la solitudine cercata in un parco per ritrovare la potenza che della sua anima. Per avere con-ferma che quella potenza le avrebbe permesso di non arren-dersi mai. Alla vita.

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Parlarono di vacanza da passare insieme. Elena a Positano aveva una casa dal tramonto fantastico. Due settimane per starsene lì e divertirsi sempre. I suoi genitori andavano altro-ve quell’anno. Località esotiche per sciogliere il ghiaccio malato che li univa da troppo. Questo le aveva detto mentre al solo sentire il nome di quel padre Virginia si scioglieva d’altro e non era ghiaccio ma fuoco. Ancora dieci giorni e avrebbero raggiunto Positano e la sua casa nel tramonto.Un altro giorno. Altre ventiquattro ore e lei e Alessandro si sarebbero abbracciati in stanze profumate di loro.

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In stanze profumate di loro la guardò come se stesse seguen-do un film seduto nelle ultime file di un cinema pieno di gente.Quando Virginia gli chiese se per lui era amore la guardò così. Proiettò sé lontanissimo.Costruì pareti d’impenetrabili espressioni.Quando gli chiese se era amore lui non rispose.Si limitò a guardare. Costruì pareti.Poi disse cose del tipo: «Cerca di capire».Forse disse: «Non sono cose che puoi domandare».Disse solo: «Ciò che provo per te non lo so spiegare».Parlava male. Stonava nella voce. Voce senza potenza.Senza una sola emozione che fosse emozione.Usava quel tono che usava per un’amante occasionale dopo una notte di passione, quando alla fine se ne vuole andare per non rimane neppure a dormire.E Virginia allora capì.Lei era solo l’amante da amare senza amore.Seguì i suoi movimenti. Non ne dimenticò nessuno.Lui che si alzava. Che raccoglieva le cose. Che spalancava porte. Che ritornava al reale. Fuori da lei. Dal giovane corpo

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da sciupare. A cui non riusciva nemmeno a dire che si era sbagliato credendo che fremesse solo di piacere. La baciò e non sapeva di baci.Virginia l’odiò.L’odiò come l’aveva odiato da sempre.D’amore a prima vista.

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Nel teatro di famiglia rimaneva immutata la mancanza di dialogo. Si ritrovarono come da copione per cena.Ognuno di loro calato nella propria parte. Attori estranei, maldestri fra loro, quasi l’essere insieme creasse imbarazzo.La madre di Virginia si sforzava nel mantenere una decorosa dolcezza per concludere la sua recita annuale.Bella come una donna innamorata lasciava che la tv catturasse la sua attenzione.Virginia cercò di dirigere il suo interesse su di sé aprendo un dialogo:«Mamma com’eri alla mia età?»Si voltò piano il suo viso.Ora era per lei e anche se sorpresa rispose:«… com’ero alla tua età…»Alzò gli occhi cercando qualcosa di lontanissimo e Virginia sperò non dicesse “Assomigliavo a te”«Assomigliavo a te… ti assomigliavo tanto…»Si fissarono.Virginia stupita.Lei serena e quasi nostalgica.

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«In cosa mi assomigliavi così tanto?»Rispose acquisendo intensità di chi sa cose inimmaginabili.Di chi conosce tutto della persona a cui si sta rivolgendo.Stupendo ulteriormente Virginia che la credeva lontana ri-spose.«Nel coraggio… avevo il tuo stesso coraggio.»Non aggiunse altro.Avvicinò la forchetta alla bocca.Terminarono di cenare.Virginia si alzò timidamente.Salì in bagno e aprì la finestra.Toccò foglie con le mani,si promise che ne avrebbero parlato.Lei e sua madre.Da donna a donna.Di quel coraggio.

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Toccò foglie con le mani. Strinse il dolore in quell’ora di non luce. Allo specchio il suo viso le sembrò invecchiato.Segnato da invisibili rughe.Ricami fittissimi che non puoi cancellare. Non pagine di dia-ri rosa che strappi, che getti. Non carta coperta da cuori e da un nome. Segni indelebili che diventano storia e storia rimangono per sempre. Anche se gridi, se ti disperi, se chiamo Dio perché ti possa aiutare. Te ne dia il tempo.Tempo per tornare indietro. Per non commettere “l’errore”.

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Alessandro era l’errore. Il primo della sua vita.Non c’era perdono. Addirittura credeva che lui l’amasse. Si era illusa.Contava niente fino dal principio e nemmeno si era mai sof-fermata a chiedersi se ne valeva la pena.Tutta quella sofferenza. L’amica tradita. Menzogne al vento.Da farne un fuoco. Rogo oltre il cielo. Senza misura.Il deliro tragico della sua anima in una notte d’estate era la punizione. Sarebbe seguita. A tratti l’avrebbe torturata con meno foga ma sempre senza svanire.L’indomabile presenza. Continua.

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Scivolò in picchiata la settimana seguente.Un carillon impazzito. Da ballerina che gira.Virginia lo chiamò prima di partire.Disse: «Non ti voglio più vedere».Lui non capiva.Disse: «Domani parto non mi cercare».Tagli nel cuore. Sangue che cade.Avrebbe voluto averlo accantoAvrebbe voluto cancellargli il respiro.Lentamente appoggiare il suo ventre al suo viso aspettando il sonno.Avrebbe voluto soffocarlo così.Lentamente.Lui le chiese di aspettare.Non aspettò nulla.Intonò un addio senza eco.Interruppe la conversazione.Tagli nel cuore.Sangue che cade.Poi la partenza.

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Poi la partenza.Due amiche lasciavano Roma. Una felice cantava. L’altra guardava fuori dal finestrino. Allontanarsi. L’amore.Stava male mentre l’auto correva. Le faceva freddo il corpo.Sempre più gelido a ogni chilometro con il sottofondo di mu-sica ascoltata solo da Elena. La ringraziò mentalmente per il dialogo che non cercava. Desiderò non parlasse.Non le rivolgesse parola.Avvolta nel gelo si concentrava nel convincersi che la situa-zione con il passare delle ore sarebbe mutata.All’infinito in silenzio chiese perdono.Se avesse saputo.Se fosse stato noto anche un solo piccolo particolare di lei e suo padre. Se le avesse guardato le labbra non più all’oscuro. Le stesse con cui aveva ingannato.Si concentrò più che poteva per convincersi che un giorno quella tortura sarebbe finita e quando arrivarono a destinazione scese dall’auto e il mare le era davanti e con lui l’orizzonte.Alessandro era lì. Nella sua linea chiara e la guardava

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come si può guardare un film nelle ultime file di un cinema pieno di gente. A volte svaniva. Tornava.Non c’era di nuovo.Cercò Elena. Le sue mani che strinse.Iniziò così il primo giorno lontano da tutto.Risalì velocemente dal suo fondo di abissi inumani e sorrise respirando aria.

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Era ancora presto. Troppa luce ancora. Positano annegava di luce. Odore di sale bruciato. Onde impercettibili danzavano piano. Sarebbe sceso il sole. Decisero che allora si sarebbero avvicinate a casa. Per vederla come l’avevano pensata. Come Elena aveva voluto la conoscesse.Nel tramonto. Rimasero sulla spiaggia senza guardare nulla se non il colore dell’aria mutare. Parlando attesero la fine dei giorno. Quello strano attimo che lo sospende toccando l’oriz-zonte. Prima che arrivi il buio. Prima che sia già sera. Prima del salire sulla luna. Della lenta morte del sole e del suo creare una lenta emorragia di aloni che si dilatano attorno dissolvendolo.Prima di tutto questo parlarono mentre impercettibile come le onde l’aria cambiava chiarori addolcendosi.«Hai mai desiderato nuotare fino all’orizzonte?»Elena rise e subito diventò triste.«Ho provato a nuotare una sola volta in vita mia… ero molto piccola… mio padre adorava nuotare al largo… quando ve-nivamo qui, la maggior parte delle giornate le trascorrevamo dentro una barca a vela che sembrava fragilissima…»

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Si fermò paralizzata dai ricordi. Quasi la costrinsero a un mutismo irreale. Si fermò fissando farfalle invisibili. Farfalle senza ali. Virginia la immaginò seguire il volo di farfalle dal-le ali recise con fiori pronti a morire.Era così triste. Tutto triste.Durò minuti il silenzio. Riprese a parlare con voce diversa.Più adulta.«… sembrava fragilissima e quando mio padre si tuffava avevo l’impressione che lo seguisse per poi riaffiorare con lui cercando ossigeno… una volta mi chiese di nuotare con lui, disse “tutti i bambini sanno nuotare, tutti i bambini sono dei piccoli pesci ma non lo sanno”.Era tutto così triste. Tutto triste.Lasciai che mia madre mi affidasse alle sue braccia.Scesi nell’acqua e desiderai svenire per non oppormi alla sua voglia di volermi diversa da quello che ero. Di volermi una bambina pesce. Lo stringevo e lui rideva senza sapere che la testa mi girava e che mi sentivo morire dalla vergogna, dalla paura, lentamente perdevo lucidità con la testa appoggiata al suo petto… svenni tra le sue braccia…»Era così triste. Tutto triste.«Sì, ho sempre sognato toccare l’orizzonte…nuotare velocissima e toccarlo…»

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Dall’alto. Dopo gradini che non finivano mai.Raggiunsero una casa colorata da un sole caduto.Elena e Virginia spalancarono le finestre al vento caldo della sera. Entrava profumo di limoni nelle stanze.Dalla terrazza guardava il blu intenso del mare.Sembrava plastica sciolta.Una sottile plastica ricopriva una parte della terra che nessu-no sarebbe mai riuscito a vedere.

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Era come essere dentro a un piccolo presepe costruito senza natale. Tutte quelle case giocattolo dal tetto a cupola e il bianco della calce corroso dal tempo costruite sopra una roc-cia se ne stavano immobili chissà da quando. Chissà da quando si era calmato il vento. Pace che non è assenza di suono. Una terrazza dal tramonto concluso.Due ragazze in quel confine che porta a un nuovo colore.Profondo blu nello sfondo. Stelle che fanno brillare il profi-lo. Parlando di poco. Quando non serve la voce.Quando basta un leggero calore.Elena accese la radio. Sembrava sapere che stava male.Fece musica sulla terrazza. Accennò una danza leggera.Passi quasi spostati dall’aria. Braccia che disegnano curve di donna. Lentamente per catturare attenzione. Sensualmente si offriva. Sulle labbra parole. Ninna nanna d’infanzia.Muovendosi appena. Spostata dall’aria.Voleva far addormentare l’inquietudine che avvolgeva l’ami-ca. Così continuando fino a farla cambiare.Virginia abbandonò la sua sedia. Timidamente.Lasciandosi andare.

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Dormirono insieme. Nello stesso letto che aveva accolto il sonno di genitori che conoscevano bene si addormentarono. Stanche per il viaggio e per le emozioni scivolarono nel sono senza contare.Un volo piacevole verso il buio che la liberava dalle paure.Cadevano con lei trasformandosi in foglie di platano che l’accarezzavano.Sognava carezze di foglie di platano che da sempre adorava toccare. Quel contatto la purificava. Si cancellavano i segni invisibili che le invecchiavano il viso.Era talmente tutto reale che si svegliò.A volte le capitava di aprire gli occhi nel buio.Di essere svegliata da forti emozioni. Le procurava smarri-mento trovarsi all’improvviso dentro a un reale diverso da quello sognato.Doveva assomigliare alla nascita quel veloce uscire dal so-gno e almeno questo credeva. Se fosse stata capace di ricor-dare la sua prima emozione, quella provata appena uscita dal ventre, sarebbe stata come quella provata uscendo all’improvviso da un sogno.

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La stessa sensazione di smarrimento. Lo stesso ritrovarsi in un luogo sconosciuto.Aprì gli occhi e la luna attendeva.Sentì la mano di Elena stringerle il braccio ma non si mosse.Stava dormendo.Guardò la sua mano aprirsi.Non abbandonarla.Muoversi sulla pelle tracciando carezze.Come foglie di platano sognate, l’accarezzava.

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Di nuovo a occhi chiusi. Come correre in bici tenendoli così. Coraggiosamente. Sfidando il vento.Virginia abbassò le palpebre. Fino al mattino.

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Fino al mattino. Sfidando il vento.Fino al nuovo sole. Tenendoli così. Così chiusi. Può essere semplice non trovare parole. Dimenticare un gesto ripetuto nel sonno da un amica.Virginia riuscì a capovolgere l’ambiguità di un gesto ma contro il suo volere interrogativi si fermavano nella sua men-te.Interrogativi grandi come un’infinità di anni sommati che le chiedevano di essere presi in considerazione dalla coscienza. Coscientemente prendere atto che. Elena. La sua amicizia. Il suo modo di guardarla e viverla. Ambiguamente. Assomi-gliava all’amore.

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Scesero in spiaggia. Piccoli sassi creavano spiagge calde.Fatta di sole l’aria. Fatta di voci.Virginia accettò inviti. Si parlava di feste nel rumore del mare. Sorrise al ragazzo che le si sdraiò accanto.Le alleggeriva l’anima quell’intrusione. Le permetteva di prendere le distanze da quell’Elena sconosciuta che di notte l’accarezzava. La stessa che una sera in lacrime le aveva sussurrato un disperato«io non sono ciò che credi».

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Si capiva che cercava di non pensare. Lo capiva dall’assenza di espressione che le copriva il viso di ritorno dal mare.Verso case nel tramonto.Capì che Elena cercava di non pensare al fastidio provato nell’ascoltarla assecondare interessida parte di altre persone che non erano lei. Quasi onde in tempesta quella voglia di re-lazionare. Nel pomeriggio Virginia l’aveva lasciata sola. Si era appartata. In fondo quel giovane un po’ le piaceva. Si erano baciati e sapeva che Ele-na da lontano vedeva.La trascurò volutamente quel pomeriggio. Avvertiva la sua presenza divenuta morbosa. Un’ossessione.Mai prima d’ora così lucidamente capiva e ritornandole accanto si accorse che aveva lo stesso pallore di un amante abbandonato.Scappò nuovamente dalla situazione.Di nuovo con il giovane ad amoreggiare. Voleva picchiare lei e suo padre. Se stessa. Il desiderio di morire.Provava fastidio. Sperò di sbagliare. Incolpò il sole. Tutto quel caldo. Raggi impietosi. Troppo sudore.

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Corse nell’acqua. Lui l’abbracciava. Faceva cose che fanno tutti quando pensano che il momento sia quello giusto. Quello leggero per fare. Continuava. La faceva cade-re. Lei senza peso nel mare. La prese ancora. Strinse il suo corpo. Pelle bagnata. Tutto quel sole.Il suo respiro. Pensò che in quell’attimo lo desiderava.Lo sconosciuto. Lui che era nuovo. Di un’altra vita.Braccia bagnate. Stretta lì dentro.Sapeva che Elena vedeva. Voleva vedesse. L’odiasse.Sciupasse con l’odio l’amore.

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Si capiva che cercava di non pensare. C’era una festa nasco-sta nelle ore a venire. Era apparsa dopo un sì caduto dalle labbra di Virginia. Dopo una smorfia di disapprovazione sulla bocca di Elena. C’era una festa in cui entrare per poter uscire da un romanticismo cercato af-fannosamente da una sola delle due.La stessa che apparecchiò in terrazza sistemando candele accese come fuochi bruciati.Incandescenti lame. Elena la fissava. Giocava con il fuoco.Dita attraverso fiamme infinite volte. Fissando lei.Osservandola non cedere. Quasi una dichiarazione prima di perderla tra altri visi. Altre visioni.Virginia sostenne gli sguardi. Sostenne il silenzio.Disse: «Ci divertiremo». ascoltò il respiro dell’amica fermar-si. Guardò i suoi pugni stringersi.Stritolare l’impotenza di non poter gridare parole al vento.

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Se le avesse ascoltate quelle parole. Esistono parole che non hanno bisogno di voce ed erano quelle.Pur restando mute gridavano.Uccise dentro pugni chiusi. E nulla era più da capire ma da dimenticare.Dimenticare e fuggire.Se Virginia avesse potuto chiamare dall’alto dei cieli tappeti volanti ne avrebbe scelto uno, il primo.Si sarebbe stesa sopra lasciando il suo peso per alzarsi in de-serti di nuvole verso una vita leggera.Terminò di cenare senza assaporare nulla. Si alzò per chiu-dersi in bagno. Allo specchio la sua figura cercava forza. In-dividualità. Si nasce e si muore soli.Voleva occupare un punto qualsiasi di quello spazio solita-rio. Voleva pensarsi senza nessuno. Un’orfana che viaggia in esistenze simili a sport individuali.Correva Virginia davanti al riflesso. Correva con il fiato che le apriva i polmoni creando ali. Polmoni alati per essere tal-mente veloce da ritrovarsi solo aria attorno.Sola non era. Altro viso specchiato. Elena dietro nonostante tutto l’affanno d’atleta. L’aveva raggiunta.

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Le stava dietro. Parlava di alberi.«Ti ricordi il mio albero?»Parlava di alberi.«Vorrei essere sotto di lui.»Alberi.«All’ombra delle sue foglie come quella notte e raccontare favole e ascoltarle ancora.»favole.«Quella notte avrei voluto baciarti.»Favole.«Stringerti all’improvviso e baciarti.»Baci.Aveva una voce più romantica della luna. Allo specchio mise la sua figura vicina. Abbassò il volto. Lo avvicinò.Si mosse appena verso il collo per appoggiarvisi.Quella visione di loro specchiate. Di cigni abbracciati da un lago. Virginia capì cosa voleva farle ricordare.Un pomeriggio in biblioteca. Una poesia recitata.Si mise a correre. Via. Lontano per non vedere.Ci sono cose che non hanno bisogno di nessuno spostamento. Si può anche stare immobili e finire lontani.Quella era una corsa così.Così.Così.Così.

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Accese una sigaretta e la musica già si sentiva. Un niente di passi allontanava la folla.Alessandro aveva chiamato. Subito dopo la rivelazione di baci pensati. Squilli subito dopo. Una benedizione.Padre e figlia al telefono.L'amante davanti allo specchio.

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Iniziò a bere.Scivolava l'alcol. Diventava danza.Ballava Virginia.Con tutti.Sorrideva la nulla.

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Le labbra che baciava non avevano viso. Mancava il resto. Solo labbra vicino al mare. Stringeva. Si lasciava cadere. Fi-nalmente Elena lontana. Non le importava dove. Solo aria attorno e labbra senza viso.Aveva lasciato che le si muovesse il corpo davanti ad altri corpi sconosciuti. Aveva formulato l'ultimo pensiero.Era tutto sconvolgente. Provava rabbia per Elena e per il pa-dre. Sperò che se ne andassero da dove erano arrivati e li im-maginò apparsi da un romanzo sbagliato.Rivide Elena bambina dalle trecce infuocate.Il viso appena girato catturava due raggi di solee si trasformava. Diventava un muso di canequel profilo d'infante.Sperò arrivassero tappeti volanti e nell'attesasbronzò l'anima e quando braccia qualsiasi la strinserosi lasciò cadere. Assaporò labbra dal profilo mancantein riva alle onde. Non un sapore.“Voglio dimenticare, tornare indietro, non avervi più.”Formulò l'ultimo pensiero. Lo dedicò a loro. Li vide dentro una foto scattata al mare. Sui visi una espressione innaturale. Come quando cerchi di ridere subito dopo aver pianto.

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Fece l'amore. Sparò alla coscienza. Non resuscitò.Il ragazzo le aveva chiesto il nome. Le aveva preso il viso tra le mani. Sentiva il viso prigioniero nel caldo. Vedeva il viso di quelle labbra e la luna lo rendeva deforme.Guardò lineamenti distorti di luna. Non rispose. Sperò la pensasse pazza. Una da abbandonare. Di quelle che lasci pri-ma di conoscerne il nome.Lo spinse via. Un colpo preciso.Iniziò a camminare verso la luce. Se ne stava davanti e lonta-na.Il ragazzo non la seguì.Forse la guardò.Piena di niente.Verso una luce.

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Verso una luce.Camminava sfiorando le onde in arrivo.Quando all'improvviso nella quiete le grida.Grida di Elena più forti del tuono che pur non vedendo im-magino stesa in un prato.Cosa già vista.Lei che gridava.Nel verde creando una bizzarra visione sperata.“Vorrei mi pensassero pazza.”Quella frase arrivava racchiusa nelle onde fino ai suoi piedi.Si fermò.Iniziò a contare.Contò onde vicino a una luce.Vide Elena nuotare nel buoi.Avvicinarsi al chiarore.Elena usciva dall'acqua come una dea calpestata.Una bagnata dea impazzita che cercava di dimostrarle quanto grande fosse il suo amore e Virginia tanto impotente non si era mai sentita.Sembrava un film di cui conosci il finale.Un film disperato in cui le persone

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si abbracciano per il dolore.Contò passi sotto una luce.Sotto una luce strinse braccia bagnate.Poi contro il corpo come vento violento strinse un'amica che gridava ti amo.Come cadere.Come cadere a ogni ti amo.Lei che stringeva.Che non si fermava.Tutta una lacrima che non riusciva a calmare.Ci volevano baci.Questo chiedeva.Ci volevano baci.Per sedare il dolore.Avvicinò le labbra alle sue.Lo fece con rabbia perché sentiva il rifiuto.Sempre più forte contro la bocca e Virginia impazziva.Allontanò con furia quel corpo infuocato e allorasi sentì colpire sul viso.Elena picchiava la sua amica migliore e la sua amica miglio-re cadeva.Cadeva a ogni ti amo.

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Camminava sfiorando le onde in arrivo. Con il sole.Una nuova alba affilata sul viso. Di Elena aveva sentito il re-spiro fuggire. Respiro che corre fatto di pianto.Non lo aveva seguito. Era rimasta a guardare. Arrivare.Il sole. Sole di un'estate che poteva finire. Lasciare a metà.Dimenticare. Il pensiero di Elena e Alessandrole tagliava il cuore. Si sporcavano voglie. Diventava triste il sorriso e piangendo si domandava:“Com'è giusto amare?”.

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Al mattino tornò in una casa dal tramonto caduto e quando la vide un po' si sorprese. Si sorprese nel vedere che realmente esisteva. Prima di arrivare si era costruita un'illusione in cui nulla era mai accaduto e dove lei da Roma non era partita.Entrò nella penombra di una casa addormentata, il giorno fil-trava appena. Non si accertò della presenza dell'amica.La rasserenò quell'assenza di suono.Aprì le finestre e poi le richiuse. Nuovamente quell'estate non le apparteneva. Dentro di sé solo il buio. Era stato tutto così violento. Un lampo improvviso. Come il sonno che le fece chiudere gli occhi e dimenticare. Dormì per oree a un certo punto il telefono squillava. Si svegliò a fatica e quando rispose e udì la voce di Alessandro un po' si sorprese. Si sorprese nel sentireche realmente esisteva.Nel sonno si era costruita un'illusione dove lei tra le sue braccia non c'era mai stata.

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C'era sua moglie vicino. Ne sentiva le risa. Non poteva parla-re come voleva. Magari dirle che le mancava. Le chiese della vacanza con tono formale. Fece battute da padre. Mantenne quel certo rigore che non fa sospettare.Non lo riconosceva nemmeno. Si domandò addirittura chi era. Se era un'altra persona. Con altre mani. Non quelle che lei sapeva. Che l'avevano conosciuta. Studiata in penombra. Fatta godere. Altre mani di un corpo mai visitato.Corpo di un viso deforme. Labbra nuove. Un'altra voce. Nes-sun sospiro. Alessandro domandava.Luce contro la pelle. Ombra piegata. Virginia non voleva tre-mare. Lo colpì dritto senza paura.Disse: «Non ti amo, non ti voglio più vedere».Non ci fu silenzio neppure per un istante. La moglie rideva.Chiedeva della figlia lì vicino. Alessandro domandava.Disse: «In spiaggia o forse al mare». Disse: «Forse in mare»e poi iniziò a delirare. Disse: «Forse sta cercando di sfiorare l'orizzonte. Come una bambina pesce sta raggiungendo quel-la fine». Alessandro ascoltava. Si inventavafrasi da alternare. Camuffava la situazione.Ripeteva «Ok allora». Ripeteva «Dille di richiamare».

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Virginia continuava. Sussurrava una sola frase.«Non ti amo. Non ti voglio più vedere.»

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Richiamò subito dopo. La moglie lontana. Voleva parlare.Chiedeva spiegazioni. Diceva: «Ti voglio ancora».La supplicava di rimanere.Virginia chiuse parole.Telefono contro il muro.Nessun film da seguire.

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Passavano ore. Non ritornava. Quello che Virginia vedeva seduta in terrazza non aveva colore. Sbiadito panorama privo di vita. Passò una giornata d'automa. Fissò tutto ma non vide che una spessa plastica opalescente che copriva ogni cosa. Le si dimezzavano i sensi e lei li picchiava perché non sva-nissero e non la lasciassero sola.In balia del vuoto che ti sommerge quando hai tutto a cui pensare ma non vuoi niente si pizzicava la pelle rabbrividen-do per quell'indecifrabile umore. Si chiese cosa ci stava a fare sotto a quel tramonto che tardava a finire.Si alzò velocemente e cercò le sue cose. Pensò a sua madre e le nacque la voglia di rivederla. Da donna a donna. Di parlare. Ora freneticamente cercava di fuggire. Voleva riuscire a evitare un incontro. Il suo ritorno. Quel viso.Eppure non le sembrava possibile. La sua ingenuità la irrita-va. Come aveva potuto chiudere gli occhi davanti alla possi-bilità di capire? Cosa le era successo?Quale incantesimo strano l'aveva rapita?Usciva da una magia con violenza. Ripercorreva giorni con furia. Con una smania folle di quando vuoi ritrovare la cosa più preziosa che hai perso per errore.

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Il pensiero la riportò in famiglia. In una cenameravigliosamente stanca. E lì. Proprio dentroa tutto questo rasserenò la sua confusa e sconvolta esistenza. Con il pensiero si condusse in famiglia. Al punto di partenza. Salì nella sua stanza dalla finestra sul cielo ma non guardò nessuna notte caderee non sperò di sbocciare. Come un fiore.

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Uscì di casa. Da una magia. Tutt'attorno il pieno.Gente rilassata. Luci alle finestre. Voglia di abbandonare.Odore di limoni nel vento. In bocca quel sapore caldo.Negli occhi un arrivo. Elena quasi apparsa dal nulla. Caduta davanti. Sul viso un urlo silenzioso.Si guardarono. Senza musica. Nessuna colonna sonora.Una con la valigia in mano se ne andava.L'altra con un espressione fatta di bene la tratteneva.

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Scesero in spiaggia.Viste da dietro sembravano sorelle.Viste da davanti due estranee.

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Elena non parlava. Lo fece Virginia e aveva una voce simile a un eco. Come se arrivasse da lontano. Da un corpo che non si vedeva.«Ho sempre avuto paura del buio. Fin da piccola ho pensato al buio come a un enorme scrigno di cuinon possiederò mai le chiavi. Che non potrò mai spalancare e in cui sono contenuti tutti i misteri della mia vita.Mi terrorizza il sapere che rimarrò cieca davanti a ciò che mi appartiene ma mi verrà sempre negato... e sai cosa più mi rattrista? Che per mio volere rimarrò all'oscuro.Basterebbe poco. Ho già le chiavi. Nascoste dentro. So bene dove ma riesco a dimenticare. Mi regalo continue amnesieper rimanere in un ignoto che può far paura ma che fa meno male del coraggio di affrontarequello che la nascita mi ha riservato.C'eri anche tu chiusa in quella scatola segreta. Un'amica che mi avrebbe regalato un sentimento. All'inizio pensavo si trat-tasse dell'amicizia profonda che mi aveva travolto, poi ho ca-pito che dovevi portarmi questo smarrimento. Mi sono sem-pre sentita un'Alice smarrita ma ciò che provo ora è nulla a confronto. Tu hai cercato per me quelle chiavi.

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Violentemente mi hai svelato una parte affilatadel mio destino. Non mi hai neppure guardata in visoperché se lo avessi fatto saresti fuggita per non farmi soffri-re. Per non perdermi e non mi hai persa.Se lo vuoi non mi hai persa.»Virginia si fermò.Elena continuò a camminare.Il giorno dopo ci sarebbe stato altro sole.Virginia se ne sarebbe andata.Elena non l'avrebbe più trattenuta.

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Andarsene era lasciare che la scatola segreta si richiudesse per tornare nel buio che l'aveva partorita. Per ritrovare pace.In treno fissò il tessuto dei sedili di fronte per non guardare fuori. La gente attorno non esisteva.Un ragazzo al suo fianco le domandava cose. Rispose cer-cando di metterlo a fuoco. Rispose con il classico tono che invitava a lasciare. Con le giuste pause insensateper far cadere un discorso non cercato.E la nausea saliva. Si faceva liquido sotto le palpebre.Diventava lacrime che voleva rapprese perché non scendessero a riaccenderle il cuore.Lo voleva spento.Fatto di pietra.Da telecomandare.

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Entrò a Roma e la guardò sudare. Le si umanizzava la città.Diventava labirinto sospirante tutt'attorno.Un intricato labirinto a una sola uscita e che non poteva tro-vare facilmente. Roma rideva della smarrita Alice. Quasi avesse un pegno da pagare. Una piccola fatica da scontare prima di ritrovare la sua casa e il suo odore di niente.Quel niente ora le era indispensabile alla quiete. Diventava dolce come miele. Cosa avrebbe datoper ritrovarsi all'istante nel teatro di famiglia.Nel teatro dell'anestesia dei sensi.Con la smania folle di quando vuoi trovarela cosa più preziosa che hai perso per errore percorse strade con furia. Non prese neppure un mezzo per non aspettare.Uscì dalla stazione e iniziò a correre con la valigiache le pesava. Quasi la rincorressero mostri con artiglicorreva tra la gente facendosi spazio senza grazia. Mise le ali ai suoi polmoni perché le regalassero tutto il fiato che servi-va a non crollare. Aveva il viso rosso dallo sforzo e la gente allibita la guardava. E la gente diventava parete di un labirin-to da superare. Stampò nelle pupille l'uscita.L'avrebbe accolta un'assenza più silenziosa del silenzio

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e le sarebbe apparsa la sua casa.Continuò a correre e nemmeno la valigia le pesava.Le procurava un dolore piacevole. Diventava parte del prez-zo da pagare.Controllava la sua ombra avanzare e quando ritrovò un mar-ciapiede conosciuto sotto i piedi si arrese. Si arrese come quando da bambina lasciava che le forzel'abbandonassero per lasciarsi raggiungere da chi la rincorre-va e come allora non era sconfitta l'essere presa perchéle regalava un avvicinarsi ai compagni sentendo il loro calore scaldare la sua fuga da guerriera.Con la sua casa davanti provava la stessa cosa.Lo stesso calore dopo la solitudine cercata lontanodalla famiglia per ritrovare la potenzache la sua anima possedeva. Potenza che le avrebbe permes-so di a non arrendersi mai. Alla vita.

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Non aveva avvertito nessuno del suo arrivo anticipato.Si erano sentiti all'inizio di tutto e ora era già alla fine.Aprì la porta lentamente. Come una ladra pentitache torna a riportar le cose rubate.Forse non l'attendeva il piacere di ritrovare genitoristretti in divani delle sembianze crudeli.Forse non l'avrebbe accolta nessuna atmosferadominata dalla dipendenza alla quiete.Posò la valigia e sentì sospirare.Rimase in ascolto quell'ambiguo sonoro.Proveniva dall'alto. Dal soffitto che la sovrastava. Da una stanza da letto che conosceva. Quel sonoro troppo vicino.Troppo simile a qualcosa di familiare.Salì gradini con il fare di un gatto.La stessa leggerezza insidiosa di chi riesce a non farsi scopri-re. Si amplificavano poco a poco quei suoni.Riconosceva quello femminile. L'altro non poteva essere suo padre. Diceva frasi spezzate. Frasi di passione.Si avvicinò a loro con voglia dannata. Nuovamente si apriva lo scrigno ed era lei a spalancarlo. Senza paura.

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Senza guardare in viso nessuno. Se lo avesse fatto sarebbe fuggita per non soffrire.Abbassò la maniglia. Spinse piano scoprendo in penombra due corpi abbracciati.Non si accorsero che qualcuno li guardava.Non lo vennero mai a sapere ma c'era chi li osservava amo-reggiare sopra un letto che apparteneva solo a uno dei due. Se si fossero girati avrebbero scopertoquella figura immobile appena visibile da uno spiraglio di una porta socchiusa.La figura una ragazza che spiava una passione proibita.Forse ne avrebbero riconosciuto il viso.Quello di Virginia.

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Prese la valigia e ritornò all'aperto. Erano le cinquedi un pomeriggio d'agosto ma un'alba impietosa la colpì sul viso. La più terribile che aveva mai incontrato.Si fermò su una panchina. Fissò l'orologio per ore. Quando una delle due lancette si posò sulle sette di sera smise di aspettare. Cercò una cabina telefonica. La prima.In tutto quel tempo non aveva smesso mai di pensare.Aveva pensato a milioni di cose. A tutto ma nona sua madre. Se lo era imposta. C'era riuscita respingendo con forza ogni arrivo del suo viso in amore.Di profilo quel viso deformato dal piacere. Di profilo l'altro viso maschile delle labbra posate sulla sua fronte in amore.Eppure era la donna di cui aveva intravisto sconosciute emo-zioni. Eppure un po' sapeva che nascondeva qualcosa. Si ri-cordò delle sere in cui l'aveva vista mutare.In cui le era sembrata un'altra oltre a se stessa.Come lei un'altra.Come lei innamorata.

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Nella prima cabina telefonica alle sette di serachiamò una famiglia che non aveva più vogliadi riabbracciare.Chiamò per avvertire che era tornata.Squillò il telefono.Tre squilli appena.Rispose suo padre.Rispose al vuoto.

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Non le domandarono che poche cose mentre si cenava.Potava riassumere la sua esperienza familiare in una somma di cene. Se avesse girato un film sulla sua famiglia ne avrebbe ricavato un lungometraggiodi ripetizioni differenti di pranzi serali.Inventò bugie parzialmente vere parlando. Disse che aveva litigato con Elena per motivi insensati.Cercò sul viso di sua madre tracce di un tradimento appena consumato. Lei era felice e parlava di ferie già iniziate.Mancava solo un giorno a quelle del padre.Sarebbero partiti il sabato a venire.Località non esotiche per riposare.Lei era tuta una luce. Non riusciva neppure a recitare.Forse Virginia la vedeva così perché ora sapeva. Chissà da quanto durava. Se suo padre era all'oscuro. Se anche lui la tradiva. Se erano complici di una farsa a lei sconosciuta.Se quella vacanza l'avrebbero trascorsa lontani.Ognuno insieme al suo vero amore.Guardò un teatrino disintegrarsi.Li guardò ancora cenare composti.Li guardò per la prima volta mentire da sempre.

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Come succedeva solo in agosto. Solo in certi giorni di ferie.Cosa rarissima come la gioia. Loro in cucina al mattino.Le due donne di casa seduta davanti. Davanzalicoperti di luce. Virginia mosse le labbra per non parlare.Da donna a donna le aveva detto una volta.Se lo era promesso. Ed era il momento. Guardò dritta dentro di sé. Conficcò una lama affilata nel suo punto migliore.Nel punto in cui esistono solo verità da rapire.La guardò di profilo e non era in amore. Non come ieri.Non con l'amante. Era con una figlia partorita forse distrattamente. Trovò la forza che le serviva.Disse: «Mamma parlami di quel coraggio».Rispose sua madre: «Quale coraggio?».Disse: «Il coraggio che ci accomuna».Disse ancora: «Lo hai detto tu una sera».E ancora: «Che alla mia età mi somigliavi».E ancora: «Che avevi il mio stesso coraggio».E ancora: «Vorrei saperlo, vorrei lo spiegassi».Davanzali coperti di luce. Due donne in cucina. L'atmosfera invitava a parlare. Confidenze mai fatte. Scrigni da aprire.

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Rispose e non era neppure confusa. Non le tremava neppure la voce. Sembrava possedere quel cuoreche puoi telecomandare.Iniziò parlando di lei da bambina. Diceva coseche lei già sapeva. L'unico particolare veramente grandioso era la luce che la colpiva. Divideva il suo viso. Lo tagliava.Regalava alla pelle due differenti colori.Diventava una madre sdoppiata. Quello che era. Osservava quel doppio raccontare niente. Cercare una scusa. Rimanere mistero. Girare attorno a un vero discorso da fare.La interruppe con dolcezza. Posò una manosu quelle labbra bugiarde.Disse: «Non ora».Disse: «Troverai quel coraggio».Disse: «Ne sono sicura».Sua madre se ne sorprese. Spostò appena il visoschivando la luce. Ora solo ombra sul viso. Metà cancellate.Pelle dello stesso colore.Disse: «Fa sempre troppo caldo in agosto, è meglio partire da Roma».Lasciò cadere una frase qualsiasi. Non le tremava neppure la voce. Sembrava possedere quel cuoreche puoi telecomandare.

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Davanzali coperti di luce.Due donne in cucina.Da dietro potevano sembrare due estranee.Davanti una figlia e una madre.

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I suoi genitori partirono.Partirono il sabato.Nella stessa auto.Dentro storie diverse.

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Nel salotto di famiglia. Tra le mani solo foto. Albumche iniziava dal principio. Dalle nozze incoronate.Loro crocefissi sull'altare. Lei bianca e quasi austera. Lui ap-pena sorridente. Fiori in bianco e nero lì vicino.Decorazioni da matrimonio e il foglio dopo già finiva. Nelle pagine altre foto. Scatti da luna di miele. Palme e spiagge bianche. Immagini spensierate in costume. Si baciavano.Nuotavano vicino. Lei stesa sotto il sole. Lei che scriveva sulla sabbia il loro nome. La pagina dopo già finiva.Nuovi scatti non più il sole. Virginia tra le braccia.Virginia che cresceva e suo padre l'aiutava a camminare.La pagina dopo già finiva. Seguivano anni non documentati e poi sempre lei in vestiti da suorina prontaper la comunione. In quella foto non si piacque.Immortalata contro voglia. Un sorriso contratto sulle labbra.Girò pagine con disperazione. Trovò scene di compleanno.Gite al mare. Età sempre più vicine. Delle ultime istantanee studiò solo il sorriso.Sorriso sempre più incerto. Ostentato. Inventato.

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Gli squilli ebbero inizio subito dopo. Se ne stava in salotto.Tra le mani solo foto. Se fosse stata in gradodi predire il futuro qualche minuto prima il telefono lo avreb-be staccato.Si sarebbe concessa un gesto vigliaccamente egoista che le avrebbe permesso di arrestare momentaneamente il destino.

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L'inizio di una colonna sonora incessante di ripetuti squilli le saturò il sonoro per farla impazzire. Per farle rispondere pronto ogni volta con più esasperazione.E ancora squillava.Per tutto il giorno quel suono incessantemente presente.La chiamò diverse volte Alessandro. Era arrogante. Voleva sapere il perché della sua decisione.Le diceva: «Dobbiamo vederci ancora».Le diceva: «Smettila di sognare».Le diceva: «Sai parlare solo d'amore».Le diceva: «Mi manca il tuo corpo mi fa impazzire».Le diceva: «Forse è colpa di Elena, del vostro litigio».Le diceva: «Ho parlato con lei ed era molto arrabbiata».Virginia cercava di rimanere calma ma si sentiva scoppiare.Voleva chiudere in fretta. Dimenticare.Più le parlava più le diventava lontano il suo viso.Più implorava più le diventava indispensabile e necessaria la sua decisione. Basta. Basta. Basta.Le esplodeva nel cervello quella parola. Si sommava a un pensiero già formulato.“Voglio dimenticarvi, tornare indietro, non avervi più.”

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Voleva dimenticare, tornare indietro, non averli piùma il delirio vero doveva ancora iniziare.Se fosse stata in grado di predire il futurosi sarebbe concessa un gesto vigliaccamente egoista che le avrebbe permesso di arrestare momentaneamente il destino.

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Altri squilli. Nuovo risveglio di suoni.Si disse che avrebbe risposto con un “adesso basta”.A quel basta avrebbe dato voce.Gridò: «Basta ti supplico».Attese che finisse il silenzio.Attese il rumore di cornetta abbassata.Udì Elena chiederle se era lei.Poteva svenire. Lasciarsi crollare.«Virginia mi manchi da morire.»Non cercò di sapere per chi era quel “basta”.Iniziò a parlare con massacrante dolcezza.La stessa dolcezza che possiede chi ha già perdutola persona amata ma continua a lottare.«Vorrei tanto che fossi mia amica. Vorrei tantopoter essere quello che non sono, ma credimi Elena, non ci riesco, non mi appartiene. Non chiedermi niente. Non dire nient'altro. Lo sai che il bene che provo per te è differente. Non vorrei perderti ma ti ho già persa per sempre.»“Per sempre” il grande finale.Elena piangeva.Gridava ti amo.

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Poi all'improvviso scandì parole e iniziò a ripeterlecon rabbia soffocata.«Sei una puttana scopi con mio padre.»«Sei una puttana scopi con mio padre.»«Sei una puttana scopi con mio padre.»Non cercò di negare.Le si immobilizzò il cuore.Sparò alla coscienza.Un colpo preciso.Disse: «E' vero sono puttana».Disse: «E' vero scopo con tuo padre».Voleva farla finire.Voleva farsi odiare.Elena non sapeva nulla. Se l'era inventataquella rivelazione. L'aveva buttata a caso tra le parole.Cambiò il tono della sua voce. Divenne infantile.Le disse: «Mi fai schifo».Le disse: «Vorrei vederti morire».Interruppe la conversazione. Lasciò la cornetta cadere.Virginia rimase in ascolto. La sentiva camminare per casa.Ripetere una sola parola.«Per sempre, per sempre, per sempre.»

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E il vuoto l'accolse. Per mano dentro ricordi. In ginocchio te-nendoli piano. Elena continuamente. Alberie cieli di foglie. Cento favole e baci mai dati.Corse al telefono. Dava occupato.Doveva aver lasciato la cornetta dondolare.La pensò in quella casa. Un tramonto caduto.Lei picchiata da luci lunari. Ombre piegate sul muro.La vedeva impazzire. Pensare a lei con suo padre. Disgusto che è disperazione. Voleva gridarle bugie. Dirle che se lo era inventato. Uccidere con falsità il niente che era rimastodi quell'amore. Dell'errore.Perché essere sincera? Perché farla star male?Riprovò nuovamente. Dava occupato. Provò ancora.Per ore. Tremava. Girava per casa. Il viso tra le mani. Alcol per stordire quello strano sentore. Alcol per svenire.Cadde sul letto. A occhi chiusi sul letto.Come correre in bici tenendoli così.Coraggiosamente.Sfiorando il vento.Virginia abbassò le palpebre fino al mattino.

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Che era morta. Le dissero che era morta. Si chiese chi.Si chiese chi era morta pur sapendone il nome.Usciva dai sogni così. Forse era come ciò di cui non aveva memoria. Dal grembo di sua madre e poi all'aria apertacon il battito di un respiro che si fa grandeper annegare in un oceano di rumore.

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Un fragore simile a soffocati tuoni. Così il suo gridospezzato. Raccolse le gambe e ne morse la carne.Spezzò grida soffocando potenti suoni. Se solo fosse stato possibile illustrare nel cielo quel dolore.Multipli lampi dal tuono spezzato.

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Che era morta.Le dissero che era morta.Che nell'alba l'avevano vista galleggiare.Come.Un cigno.

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Aveva lasciato una lettera.Sopra c'era scritto il suo nome.C'era scritto a Virginia con infinito amore.Quando la lesse iniziò a gridare.Irrigidì il corpo e la bruciò nel cuore.

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A Virginia con infinito amore:“E noi, l'una dell'altroi colli reclini attorcigliammocome due cigni solitari”.