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Sede Amministrativa: Università degli Studi di Padova Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche SCUOLA DI DOTTORATO DI RICERCA IN SCIENZE MEDICHE, CLINICHE E SPERIMENTALI: INDIRIZZO: FISIOPATOLOGIA CLINICA CICLO XXIII° IPERPARATIROIDISMO SECONDARIO PERSISTENTE DOPO TRAPIANTO DI RENE FATTORI EZIOPATOGENETICI E POSSIBILI INTERVENTI TERAPEUTICI Direttore della Scuola : Ch.mo Prof. Gaetano Thiene Coordinatore d’indirizzo: Ch.mo Prof.ssa Elena Ossi Supervisore :Ch.mo Prof. Sandro Giannini Dottorando: Dott. Matteo Ciuffreda

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Sede Amministrativa: Università degli Studi di Padova

Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche

SCUOLA DI DOTTORATO DI RICERCA IN SCIENZE MEDICHE, CLINICHE E SPERIMENTALI:

INDIRIZZO: FISIOPATOLOGIA CLINICA

CICLO XXIII°

IPERPARATIROIDISMO SECONDARIO PERSISTENTE DOPO TRAPIANTO DI RENE

FATTORI EZIOPATOGENETICI E POSSIBILI INTERVENTI TERAPEUTICI

Direttore della Scuola : Ch.mo Prof. Gaetano Thiene

Coordinatore d’indirizzo : Ch.mo Prof.ssa Elena Ossi

Supervisore :Ch.mo Prof. Sandro Giannini

Dottorando : Dott. Matteo Ciuffreda

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INDICE Pagina RIASSUNTO 1 ABSTRACT 2 Capitolo 1: INTRODUZIONE

1.1 Metabolismo osseo

3

1.1.1 Formazione e riassorbimento osseo

5

1.2 Regolazione del rimodellamento osseo

8

1.2.1 Fattori locali

8

1.2.2 Fattori sistemici

8

1.2.2.1 Estrogeni

8

1.2.2.2 Paratormone

9

1.2.2.3 Vitamina D

10

1.3 Fisiopatologia dell’osteoporosi

14

1.3.1 Osteoporosi

14

1.3.2 Polimorfismi genetici ed osteoporosi

15

1.3.3 Il recettore della vitamina D (VDR)

16

1.3.4 Polimorfismo VDR ed osteoporosi

17

1.3.5 Il Calcium Sensing Receptor (CaSR)

19

1.3.6 Polimorfismo CaSR ed osteoporosi

21

1.4 Trapianto d’organo

22

1.4.1 Generalità

22

1.4.2 Metabolismo del Calcio e dell’osso pre e post-trapianto

23

1.5 Osteoporosi nel trapianto d’organo

27

1.6 Trapianto di rene e rischio di frattura

29

1.7 Polimorfismo del CaRS ed iperparatiroidismo

30

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Capitolo 2: SCOPO DELLA TESI

31

Capitolo 3: STUDIO TRASVERSALE

3.1 Materiali e metodi

33

3.1.1 Pazienti

33

3.1.2 Metodi

34

3.1.2.1 Esami di laboratorio

34

3.1.2.2 Determinazione dei genotipi del CaSR

34

3.1.2.3 Densitometria ossea

35

3.1.2.4 Radiografia del rachide dorsolombare

35

3.1.2.5 Statistica

36

3.2 Risultati

37

Capitolo 4: STUDIO LONGITUDINALE

4.1 Materiali e metodi

41

4.1.1 Pazienti

41

4.1.2 Metodi

42

4.1.2.1 Esami di laboratorio

42

4.1.2.2 Statistica

42

4.2 Risultati

43

Capitolo 5: TABELLE E FIGURE

5.1 Studio trasversale

45

5.2 Studio longitudinale

54

Capitolo 6: DISCUSSIONE

61

Capitolo 7: CONCLUSIONI 69

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BIBLIOGRAFIA 71

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RIASSUNTO

Il trapianto di rene è gravato da numerose complicanze cliniche. L’osteoporosi è

una delle più frequenti e rilevanti. La patogenesi dell’osteoporosi dopo trapianto

di rene è multifattoriale e la persistenza di iperparatiroidismo secondario (SHPT)

costituisce un ulteriore fattore di rischio di danni scheletrici di tipo osteoporotico.

La presente tesi si compone di due parti.

Nella prima parte (STUDIO TRASVERSALE) scopo dello studio è stato indagare

i parametri clinici, metabolici e genetici, con particolare riguardo allo stato

vitaminico D ed al polimorfismo del recettore sensore del calcio (CaSR), che

possono influenzare l’SHPT in una popolazione di 125 pazienti (87 M, 38 F, età

51±11) trapiantati di rene da 1 a 120 mesi, con creatininemia ≤227 µmol/L. Il 40

% dei pazienti è risultato carente di vitamina D (25OH-D3 ≤ 30 nmol/L). I livelli

di 25OH-D3 rappresentano un fattore predittivo significativamente associato a

persistenza di iperparatiroidismo secondario. Il polimorfismo del CaSR non

sembra giocare un ruolo centrale nella patogenesi della persistenza di

iperparatiroidismo.

Nella seconda parte (STUDIO LONGITUDINALE) scopo dello studio è stato

quello di valutare come si modificano i livelli di PTH dopo terapia con

colecalciferolo (30 gocce settimanali pari a 7500 U.I./settimana) in un sottogruppo

di 51 pazienti (39 M, 12 F, età 53±11). Dopo 8 mesi di terapia solo 11 pazienti

(22%) hanno raggiunto un valore di 25-idrossicalciferolo maggiore di 80 nmol/l,

indicativo di un quadro di sufficienza. Per quanto riguarda i livelli di PTH sono

state osservate lievi ma significative riduzioni dei valori ematici.

Questi risultati dimostrano che l’ipovitaminosi D risulta estremamente frequente

nei pazienti trapiantati di rene e costituisce un ulteriore fattore di rischio per la

persistenza di alti valori di PTH. La supplementazione con colecalciferolo riduce i

livelli sierici di PTH.

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ABSTRACT

A number of complications can occur after renal transplant and among them, post-

transplantation bone disease is one of the most frequent. Post-transplantation bone

disease is influenced by multiple factors. An important risk factor is represented

by secondary hyperparathyroidism (SHPT).

In the first part of the present study (CROSS-SECTIONAL STUDY) the clinical,

metabolic and genetic factors, in particular vitamin D status and Calcium Sensing

receptor polymorphism (CaSR), that can influence the persistence and severity of

SHPT in 125 patients (87 males and 38 females, age 51±11), who had undergone

kidney transplantation 1 to 120 months before and with serum creatinine ≤ 227

µmol/L, were investigated. Vitamin D deficiency (25OH-D3 ≤ 30 nmol/L) was

found in 40 % of the patients. 25OH-D3 levels were significant predictors of PTH

levels. CaSR polymorphisms cannot play any central role as a risk factor for

SHPT.

The aim of the second part of this study (LONGITUDINAL STUDY) was to

evaluate the effect of a vitamin D therapy (cholecalciferol, 30 drops once a week

corresponding to 7500 IU) on PTH levels in a sample of the above-mentioned

population. We studied 51 patients (39 males and 12 females, age 53±11) After 8

months of therapy only in 11 (22%) patients 25OH-D3 levels had normalized (>

80 nmol/L). As far as PTH levels were concerned, we observed a slight but

significant decrease. These data show that hypovitaminosis D is extremely

frequent in kidney-transplanted patients and it represents an important risk factor

for the persistence and severity of secondary hyperparathyroidism and thus for

skeletal morbidity. Vitamin D supplementation decreases PTH levels in this

setting as well..

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Capitolo 1

INTRODUZIONE

1.1 METABOLISMO OSSEO

Lo scheletro è un organo complesso, lo sviluppo del quale dipende dall’intergioco

dei tessuti osseo, cartilagineo, fibroso ed emopoietico. La particolare struttura

dell’osso, compatto e spugnoso, unisce caratteristiche di resistenza e di

compattezza ideali per il movimento. Inoltre è una riserva di calcio, magnesio,

fosforo, sodio ed altri ioni necessari per il mantenimento dell’omeostasi di molte

funzioni dell’organismo. L’osso infatti costituisce un enorme deposito di calcio,

che può essere mobilizzato quando le esigenze omeostatiche lo richiedano.

La fisiologia dell’ormone paratiroideo e quella della calcitonina sono strettamente

correlate con il metabolismo del calcio-fosforo, con la funzione della vitamina D e

con la formazione dell’osso.

Gli ormoni citati regolano la concentrazione degli ioni calcio, stabilita

dall’assorbimento intestinale, dall’escrezione renale e dall’assunzione o cessione

di calcio dall’osso.

L’omeostasi del calcio e del fosforo sono strettamente correlate.

Il calcio gioca un ruolo fondamentale in situazioni fisiologiche quali la

formazione ossea, la contrazione muscolare, la stabilizzazione del potenziale di

membrana cellulare delle cellule neuronali, la coagulazione del sangue. Nel corpo

umano adulto è presente circa 1-2 Kg di calcio, il 99% del quale risiede nei denti e

nell’osso sotto forma di cristalli di idrossiapatite, che conferisce allo scheletro le

sue proprietà meccaniche e lo rende adatto a svolgere le sue funzioni di sostegno,

di supporto alla locomozione, di protezione agli organi interni. Del rimanente,

approssimativamente l’1% è intracellulare, e una piccola frazione, meno dello

0,1%, è presente nel liquido extracellulare. E’ questa piccola frazione

extracellulare di calcio che è omeostaticamente regolata dagli ormoni e da cui

dipende il bilancio del calcio.

Il range del calcio plasmatico è pari a 2-2,6 mmol/L, sebbene solo 1 mmol/L

esista come calcio libero ionizzato; solo il calcio onizzato è biologicamente attivo,

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ed è questo che ha importanza per la maggior parte delle funzioni che esso svolge

(Nussey S.S., 2001).

Nel plasma infatti il calcio è legato per il 46% alle proteine circolanti e quindi non

può diffondere attraverso la parete dei capillari, per l’8% è complessato con vari

ioni (fosfato, citrato di calcio), e per il 46% è presente in forma ionizzata (Guyton

A. C., 2006).

Oltre al calcio, nello scheletro sono contenuti altri ioni. Un adulto contiene circa

25 g di magnesio di cui 2/3 sono presenti nello scheletro ed 1/3 nei tessuti molli.

Nell’osso il magnesio è localizzato sulla superficie cristallina dell’idrossiapatite.

Solo una piccola frazione del magnesio dell’osso è scambiabile con quello

extracellulare. Il magnesio è il catione bivalente intracellulare più importante ed è

un cofattore per diverse reazioni enzimatiche. Infine un adulto contiene circa 60 g

di fosforo, di l’80% è presente nello scheletro in forma cristallina e un 15% si

trova nel liquido extracellulare sotto forma di ioni , e nei tessuti molli nella forma

di esteri di fosfato, coinvolti in molti processi biochimici (Broadus A., 1990).

Il calcio e il fosforo vengono assunti entrambi in misura da 1000 mg al giorno.

Normalmente i cationi bivalenti come gli ioni calcio vengono scarsamente

assorbiti attraverso la mucosa intestinale. In assenza di vitamina D solo il 10% o il

15% del calcio assunto con la dieta e del fosforo è assorbito. L’interazione dell’

1,25(OH)2-D3 con il recettore per la vitamina D incrementa l’efficienza

dell’assorbimento intestinale di calcio del 30-40% e del fosforo

approssimativamente dell’80% (Holick M.F., 2007).

A livello renale, sia il calcio non legato alle proteine plasmatiche sia il calcio

ionizzato viene filtrato e poi riassorbito a livello dei tubuli prossimali, dell’ansa di

Henle e della parte prossimale del tubulo distale. Quando la concentrazione è

bassa il riassorbimento del calcio aumenta, quando invece la concentrazione

aumenta, anche se di poco, l’escrezione renale di calcio aumenta rapidamente.

Il fattore più importante che controlla il riassorbimento di calcio nelle porzioni

distali del nefrone è l’ormone paratiroideo, che aumenta il riassorbimento tubulare

di calcio e stimola il rene a produrre 1,25(OH)2-D3 (Holick M.F., 2007).

Il fosfato possiede una soglia renale. La sua escrezione renale viene fortemente

aumentata per l’azione dell’ormone paratiroideo, che svolge perciò un importante

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ruolo nella regolazione della concentrazione plasmatica sia del calcio che del

fosforo.

Le proprietà dell’osso dipendono dalle sue componenti extracellulari; la sua

struttura è costituita da due fasi: una solida minerale e una organica, in stretta

associazione tra loro. La fase organica è formata da una matrice, costituita per il

90% di fibre collagene tipo I e per la restante porzione da altre proteine non

collageniche (albumina ed α2-HS glicoproteine), osteocalcina, osteonectina,

osteopontina ed altre ancora, che formano un mezzo omogeneo detto sostanza

fondamentale (costituita da liquido extracellulare contenente proteoglicani,

specialmente condroitin-solfato e acido ialuronico). Le fibre collagene sono

disposte principalmente lungo le linee delle forze di tensione alle quali l’osso è

sottoposto. Queste fibre conferiscono all’osso la sua elevata resistenza alla

tensione.

La fase minerale è costituita da calcio e fosfato e può essere paragonata ad una

idrossiapatite poco cristallizzata [Ca10(PO4)6(OH)2]. I Sali di calcio, le cui

proprietà fisiche sono simili a quelle del marmo, offrono all’osso una grande

resistenza alla compressione.

Oltre al calcio, nell’osso sono contenuti anche altri ioni come il sodio, il potassio,

il carbonato ed il magnesio. Questi ioni sono presenti nei Sali dell’osso, e sono

coniugati ai cristalli di idrossiapatite.

1.1.1 Formazione e riassorbimento osseo

L’osso è costantemente sottoposto a turnover attraverso il rimodellamento osseo.

Questo processo include la distruzione (riassorbimento) dell’osso pre-esistente,

una funzione esercitata da cellule specializzate, gli osteoclasti, seguita dalla

formazione de novo dell’osso, una funzione di altre cellule specifiche dell’osso,

gli osteoblasti. Normalmente riassorbimento e formazione ossea avvengono

sequenzialmente ma in modo bilanciato per mantenere una massa ossea costante

durante la maggior parte dell’età adulta (Rodan G.A., Martin J., 2000).

L’osso infatti consta anche di diverse componenti cellulari. Gli osteoblasti, di

origine mesenchimale, sintetizzano e secernono la matrice organica. Vi sono due

popolazioni di osteoblasti:

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1) Quelli che si trovano nel midollo osseo, che si differenziano direttamente in

cellule che formano osso, e che sono atti a formare il microambiente stromale nel

quale le cellule ematopoietiche sono collocate; essi hanno un ruolo chiave nella

funzione del microambiente osteomidollare, ed insieme alle proteine della matrice

extracellulare e ai Sali minerali, concorrono a formare una entità particolare

designata come nicchia. Il concetto di nicchia, elaborato da Schofield nel 1978,

può essere visualizzato come uno spazio ben distinto nel quale risiedono le cellule

staminali che possono andare incontro ad automantenimento e, per

differenziazione, produrre una serie numerosa di discendenti.

2) Della seconda popolazione di osteoblasti fanno parte quelli che si trovano nei

tessuti non ossei e che vengono indotti a differenziarsi in osteoblasti.

Il primo stadio nella formazione dell’osso è la secrezione, da parte degli

osteoblasti, della sostanza fondamentale (in particolare una fosfatasi alcalina

specifica per il tessuto osseo e l’osteocalcina) e delle fibre collagene tipo I. Ne

risulta un tessuto osteoide, simile a cartilagine, da cui differisce per il fatto che vi

precipitano Sali di calcio. Appena questo tessuto si forma, in esso restano

intrappolati alcuni osteoblasti che, a questo punto, si possono definire osteociti.

Pochi giorni dopo che si è formato il tessuto osteoide, i Sali di calcio cominciano

a precipitare sulla superficie delle fibre collagene. Lungo ciascuna di queste fibre i

precipitati compaiono ad intervalli secondo il periodo delle fibre stesse, formando

minuscoli nuclei, che rapidamente danno luogo ad un prodotto finito, i cristalli di

idrossiapatite.

Quindi l’osso viene continuamente depositato ad opera degli osteoblasti e

continuamente riassorbito ad opera degli osteoclasti, grandi cellule fagocitarie,

polinucleate che derivano da monociti o cellule monocito-simili formate nel

midollo osseo. La fase di assorbimento osseo è svolta principalmente dagli

osteoclasti, che appaiono spesso accolti in fossette scavate sulla superficie delle

trabecole ossee, definite fossette o lacune di Howship, che si formano proprio per

l’azione erosiva degli osteoclasti. Gli osteoclasti emettono proiezioni a guisa di

villi verso la matrice ossea, a da questi villi secernono due tipi di sostanze: enzimi

proteolitici, liberati dai loro lisosomi; vari acidi, tra cui l’acido citrico e l’acido

lattico, liberati principalmente dai mitocondri.

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Normalmente, tranne che durante l’accrescimento, la quantità di osso che si forma

corrisponde a quella che viene assorbita, cosicché la massa totale rimane costante.

Il processo di neoformazione ossea e riassorbimento osseo continua durante tutta

la vita. Circa il 5-10% dell’osso di un individuo adulto viene sostituito ogni anno

di vita. L’osso si adatta alle linee di tensione determinate dal peso corporeo

rimodellando la sua struttura; ciò implica che l’erosione e la deposizione siano

continuamente controllate. I fattori di crescita e l’osteocalcina intrappolati nella

matrice vengono liberati quando l’osso è degradato o danneggiato in modo

inappropriato, come nel caso di fratture ossee.

La continuità della formazione e del riassorbimento osseo serve a numerose

funzioni fisiologiche importanti. Le ossa si ispessiscono se sono soggette a

notevoli carichi; per far fronte alle sollecitazioni meccaniche la forma dell’osso

può essere modificata mediante il processo di formazione e riassorbimento, a

seconda delle caratteristiche delle forze sollecitanti.

La crescita e il modellamento osseo sono due processi associati allo sviluppo

osseo e si svolgono solo nello scheletro in via di sviluppo. La riparazione, invece,

avviene in qualsiasi momento della vita, in caso di fratture ossee. Quando si ha

una frattura, tutti gli osteoblasti del periostio e dell’interno dell’osso si attivano

nella sede colpita. Inoltre si formano numerosissimi nuovi osteoblasti dalle cellule

osteoprogenitrici, che sono cellule staminali dell’osso. Perciò tra i due capi della

frattura si sviluppa una grande massa di tessuto osteoblastico e di nuova matrice

organica , cui segue in tempi molto rapidi la deposizione di Sali di calcio. Si

forma così ciò che viene definito “callo osseo” (Guyton A. C., 2006).

Nei giovani il riassorbimento e la sintesi ossea sono in equilibrio, ma con l’età la

capacità degli osteoblasti di sostituire l’osso che viene riassorbito declina e si

assiste ad una progressiva perdita ossea.

Il rimodellamento, infine, è quel processo scheletrico correlato all’omeostasi

minerale e serve probabilmente a rimuovere e a sostituire l’osso vecchio e non più

vitale.

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1.2 REGOLAZIONE DEL RIMODELLAMENTO OSSEO

1.2.1 Fattori locali

Non sono stati ancora completamente chiariti i meccanismi di accoppiamento tra

riassorbimento ad opera degli osteoclasti e neoformazione ad opera degli

osteoblasti nel turn-over osseo. I fattori in grado di stimolare la maturazione e

l’attivazione degli osteoclasti sono numerosissimi; molti dei fattori sistemici e

delle citochine che influenzano il processo di riassorbimento osseo mediato dagli

osteoclasti esercitano il loro maggiore effetto nelle fasi più precoci di formazione

e crescita dell’osteoclasta (Nancy E.L., 1994). Tra questi fattori vi sono: le

prostaglandine della serie E, i fattori di crescita epidermica (EGF), i transforming

growth factor alfa e beta (TGFs); l’interleuchina 1; l’interleuchina 6;

l’interleuchina 11; i tumor necrosis factor α e β (TNFs).

Molti di questi fattori, in particolare le citochine, agiscono per attività

intermediaria svolta da cellule della linea osteoblastica.

Tra i fattori stimolanti la formazione di osso vanno annoverati numerosi fattori di

crescita: l’ormone della crescita (GH), che agisce verosimilmente tramite l’azione

delle somatomedine (IGF-1); bone morfogenetic protein (BMP), che è contenuta

nella matrice organica dell’osso; il bone-derived growth factor (BDGF) che

stimola la sintesi del DNA e del collagene dell’osso (Girasole G., Passeri G. et al.,

1994).

1.2.2 Fattori sistemici

L’entrata e l’uscita degli ioni calcio (Ca) e fosforo (P) nella fase minerale

dell’osso sono sotto il controllo di tre principali ormoni: gli estrogeni, il

paratormone, i metaboliti della vitamina D.

1.2.2.1 Estrogeni

E’ largamente accettato che gli estrogeni giocano un ruolo critico nel mantenere

l’omeostasi ossea (Manolagas S.C., 2000), e che alla base della perdita ossea nel

periodo post-menopausale risulta esserci una sottrazione ai meccanismi inibitori

di controllo omeostatico dello sviluppo degli osteoblasti ed osteoclasti, causata

dalla carenza estrogenica. Esistono diverse teorie riguardo il meccanismo con cui

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gli estrogeni bloccano il riassorbimento osseo. E’ stata riportata in alcuni studi la

presenza di recettori per gli estrogeni nelle cellule precursori degli osteoblasti.

Inoltre le risposte fisiologiche di queste cellule in coltura sono state descritte

attraverso esperimenti in cui queste cellule sono state incubate con concentrazioni

biologicamente significative di estradiolo. Queste risposte includevano l’aumento

della secrezione di IGF-1 e la crescita di GF-β, ognuno dei quali potrebbe essere

un fattore inibente il reclutamento o la funzione degli osteoclasti. Infatti gli

estrogeni sembra che inibiscano il rilascio di IL-1 e IL-6 dalle cellule

mononucleate. Queste interleuchine sono potenti citochine del riassorbimento

osseo. Con lo sviluppo della carenza di estrogeni, aumenta il riassorbimento osseo

a causa dell’aumentata responsività dell’osso all’azione del paratormone e per

altre ragioni. L’evidenza dell’aumentato turn-over osseo comprende un aumentata

calcemia nel siero, un incremento della calciuria ed un aumento dei markers del

turn-over osseo quali la fosfatasi alcalina e l’osteocalcina nel siero e la

idrossiprolina nelle urine. Il transitorio aumento della calcemia fa diminuire la

secrezione di PTH. Sia la riduzione del PTH sia il risultante incremento del

fosfato nel siero fa diminuire la velocità di produzione di 1,25(OH)2-D3, e di

conseguenza diminuisce il riassorbimento intestinale di calcio (Nancy E.L., 1994).

In conclusione, la fisiopatologia dell’osteoporosi post-menopausale consiste

nell’iperproduzione di osteoclasti, relativa all’incremento dell’osteoblastogenesi,

un processo che facilita il sostegno dello sviluppo degli osteoclasti (Martin and

Ng, 1994; Citron et al., 1995).

1.2.2.2 Paratormone

E’ un ormone proteico sintetizzato a livello delle cellule principali della ghiandola

paratiroidea. Il paratormone (PTH) è il regolatore primario dell’omeostasi del

calcio nel sangue e del metabolismo osseo. Il PTH agisce primariamente con il

legame al suo recettore PTH1R presente a livello renale e nell’osso (Muller M.,

Gagiannis S., 2009). La sua formazione e rilascio oltre ad essere controllata dalla

calcemia, il cui aumento porta ad una riduzione del PTH, viene inibita dalla

1,25(OH)2-D3. L’innalzamento della fosforemia, quale si verifica nel corso di

insufficienza renale, determina un aumento della secrezione di PTH; il

meccanismo che sottende a questo fenomeno non è ancora chiarito: si ipotizza

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comunque un effetto indiretto a livello paratiroideo, mediato dalla diminuzione

della calcemia del calcitriolo sierico (Heaney RP. et al., 1996).

Gli organi su cui agisce il PTH sono, come già accennato sopra, il rene, l’osso e

l’intestino.

A livello intestinale, il PTH agisce tramite la 1,25(OH)2-D3.

A livello osseo, l’azione del PTH è complessa. Questo ormone infatti è attivo sul

turn-over osseo in quanto è in grado di stimolare sia gli osteoblasti che gli

osteoclasti, questi ultimi sia in modo diretto che indirettamente tramite la

liberazione di fattori da parte degli osteoblasti.

Sul rene, il PTH agisce a livello del tubulo prossimale, dove diminuisce il

riassorbimento tubulare di fosfato, calcio, sodio, sia a livello distale dove, al

contrario, aumenta il riassorbimento di calcio e probabilmente anche di magnesio;

sempre a livello tubulare il PTH attiva la 1α-idrossilasi, l’enzima catalizzante la

idrossilazione della 25OH-D3 con formazione di 1,25(OH)2-D3.

Il PTH infine rallenta il catabolismo della 1,25(OH)2-D3 riducendo l’attività della

24-idrossilasi.

1.2.2.3 Vitamina D

La vitamina D gioca un ruolo importante nell’omeostasi del calcio e del fosfato ed

è essenziale per lo sviluppo e l’integrità ossea. Con il termine “vitamina D”

vengono indicate due sostanze liposolubili: il colecalciferolo o vitamina D3 e

l’ergocalciferolo o vitamina D2. La vitamina D viene sintetizzata attraverso

l’esposizione solare, viene assunta dalla dieta e dagli integratori.

I raggi solari ultravioletti di tipo B penetrano la pelle e convertono il 7-

deidrocolesterolo in previtamina D3, che rapidamente viene convertita in vitamina

D3. Ogni eccesso di previtamina D3 o vitamina D3 viene distrutta dalla luce solare ,

di conseguenza l’eccessiva esposizione alla luce solare non causa intossicazione

da vitamina D3.

L’ergosterolo è la provitamina della vitamina D2, ed è presente nei lieviti e nei

funghi; entrambe differiscono rispettivamente dal 7-deidrocolesterolo e dalla

vitamina D3 per il fatto di avere un doppio legame fra i due atomi di carbonio in

posizione C22 e C23 e per il fatto di possedere un gruppo metilico in C24.

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La vitamina D2 e la vitamina D3 assunte dalla dieta vengono incorporate

all’interno dei chilomicroni e trasportate attraverso il sistema linfatico, nella

circolazione venosa. In circolo la vitamina D è legata ad una proteina, la vitamin

D -binding protein, che la trasporta al fegato, dove viene metabolizzata in 25OH-

D3; essa è la forma di vitamina D maggiormente presente in circolo, e viene usata

per determinare i livelli di vitamina D nei pazienti (i valori che definiscono il

range di normalità sono i seguenti: 30-60 ng/ml o 75-100 nmol/L). La 25OH-D3

viene metabolizzata a livello renale dall’enzima 25OH-D-1-αidrossilasi

(CYP27B1) nella sua forma attiva, 1,25(OH)2-D3. La produzione a livello renale

della forma attiva della vitamina D è strettamente regolata dai livelli plasmatici

dell’ormone paratiroideo o PTH, dai livelli sierici di calcio e fosforo e dal fattore

di crescita fibroblast growth factor 23 (FGF-23). Le ghiandole paratiroidi hanno

attività 1α-idrossilasica, e la locale produzione di 1,25(OH)2-D3 inibisce

l’espressione e la sintesi dell’ormone paratiroideo. La vitamina D attiva prodotta a

livello renale entra in circolo e può diminuire la produzione di renina nel rene e

stimolare la secrezione di insulina nelle beta-cellule del pancreas.

L’FGF-23 viene secreto dall’osso e causa l’internalizzazione del co-trasportatore

di sodio-fosfato dalle cellule del rene e del piccolo intestino, ed inoltre sopprime

la sintesi di 1,25diidrossivitamina D. L’efficienza del riassorbimento del calcio a

livello renale e del calcio e fosforo a livello intestinale è aumentata dalla presenza

di 1,25(OH)2-D3. L’FGF-23 induce l’espressione dell’enzima 25OH-D-24-

idrossilasi (CYP24), che catabolizza sia 25OH-D3 sia 1,25(OH)2-D3 nelle loro

forme biologicamente inattive.

La forma attiva della vitamina D incrementa l’assorbimento intestinale di calcio a

livello del piccolo intestino per mezzo dell’interazione con il complesso costituito

dal recettore per la vitamina e dal recettore per acido retinoico (Vitamin D

receptor-retinoic acid x-receptor complex VDR-RXR), attraverso l’aumento

dell’espressione del canale epiteliale del calcio (transient receptor potential cation

channel, subfamily V, member 6 [TRPV6]).

A livello osseo gli effetti della 1,25(OH)2-D3 causano un aumento del

riassorbimento osseo; tale azione si esplica sinergicamente con quella del PTH. La

1,25(OH)2-D3 viene riconosciuta dai recettori presenti sugli osteoblasti, causando

un aumento dell’espressione del recettore RANKL (receptor activator of nuclear

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factor-kB ligand). RANKL si lega a RANK, un recettore presente sui

preosteoclasti, stimolando la loro maturazione e inducendoli quindi a diventare

osteoclasti maturi. Gli osteoclasti maturi rimuovono il calcio e il fosforo dall’osso,

mantenendo adeguati livelli plasmatici di calcio e fosforo. Adeguati livelli di

calcio e fosforo promuovono la mineralizzazione dello scheletro.

A livello renale, l’azione della vitamina D si esplica nell’aumentare il

riassorbimento del calcio e nell’accelerare il trasporto dello ione PTH dipendente

a livello dei tubuli distali, dove i recettori per la vitamina D sono espressi in

grande quantità.

La vitamina D quindi esplica i suoi effetti a livello renale, intestinale ed osseo, ma

vi sono anche cellule di altri organi ed apparati che hanno recettori per la vitamina

D, quali il cervello, la prostata, la mammella e altri, che rispondono alla forma

attiva della vitamina D. Inoltre, alcuni di questi tessuti esprimono l’enzima 25OH-

D3-1α-idrossilasi.

Direttamente o indirettamente 1,25(OH)2-D3 controlla più di 200 geni,

responsabili della regolazione di proliferazione cellulare, differenziazione

cellulare, apoptosi e angiogenesi. Essa diminuisce la proliferazione cellulare sia di

cellule normali sia di cellule cancerogene e induce la loro terminale

differenziazione.

La vitamina D è un potente immunomodulatore. Monociti e macrofagi esposti al

lipopolisaccaride o al Micobatterio della tubercolosi regolano il gene per il

recettore della vitamina D e il gene per la 25OH-D3-1α-idrossilasi, aumentandone

l’espressione. L’incremento della produzione di 1,25(OH)2-D3 intracellulare porta

alla sintesi di catelicidina, un peptide capace di distruggere il Micobatterio della

tubercolosi e in ugual modo anche altri agenti infettivi.

Persone che vivono alle alte latitudini hanno un incrementato rischio di linfoma di

Hodgkin e di neoplasie del colon, pancreas, prostata, ovaia, mammella e altri

tumori. Studi epidemiologici prospettici e retrospettivi indicano che livelli di

25OH-D3 inferiori a 20 ng/ml sono associati ad un incremento del 30-50%

dell’incidenza e della mortalità per queste neoplasie (Holick M.F., 2007).

Recentemente il gene per il recettore della vitamina D (VDR) è stato correlato alla

densità minerale ossea ed alcuni studi hanno suggerito l’ipotesi che esso possa

essere coinvolto nel determinismo dell’osteoporosi (Carling T. et al., 1995).

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E stato, infatti, identificato un polimorfismo del VDR nella porzione 3’ del gene

contenuto nel cromosoma 12 e sono stati individuati due alleli chiamati B o b

sulla base rispettivamente dell’assenza o della presenza del sito di restrizione

dell’endonucleasi BSM-I. Il genotipo BB sembra essere associato con livelli di

densità minerale ossea significativamente più bassi rispetto al genotipo bb e si sta

attualmente studiando la correlazione con l’andamento degli altri parametri

densitometrici o bioumorali del metabolismo osseo (Brown E.M. et al., 1999).

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1.3 FISIOPATOLOGIA DELL’OSTEOPOROSI

1.3.1 Osteoporosi

L’osteoporosi è una malattia sistemica dell’osso che provoca una riduzione della

sua densità e alterazioni microarchitetturali dello stesso, rendendolo suscettibile

all’insorgenza di fratture. L’osso è un tessuto vivo che è in un costante stato di

rigenerazione. Verso i 25-30 anni nella maggior parte della persone comincia

gradualmente la perdita ossea, tale per cui si ha uno shift della bilancia tra

riassorbimento osseo e neoformazione, così che viene perso più osso di quello

che viene sintetizzato. Il rapporto tra il contenuto minerale e matrice organica è

conservato e perciò l’osso risulta qualitativamente normale. E’ interessato

precocemente il tessuto spugnoso: il numero e lo spessore delle trabecole

diminuiscono, la resistenza meccanica dell’osso si riduce e aumenta il rischio di

fratture.

L’osteoporosi può essere generalizzata e coinvolgere tutto lo scheletro, oppure

essere distrettuale e interessare solo alcuni segmenti ossei.

Vengono distinte varie forme di osteoporosi generalizzata: la forma post-

menopausale e quella senile sono molto comuni nella popolazione, mentre quella

idiopatica giovanile è rara. L’ osteoporosi distrettuale comprende la forma da

immobilizzazione o da disuso, quella da algodistrofia, quella secondaria a flogosi

articolare, e la cosiddetta osteoporosi migrante. Tra le numerose cause che

possono causare osteoporosi (osteoporosi secondaria), vi sono endocrinopatie,

patologie gastrointestinali, emopatie e patologie causa di acidosi. Anche la

malnutrizione, i trapianti d’organo e la somministrazione protratta di alcuni

farmaci (corticosteroidi, eparina) possono determinare osteoporosi secondaria

(Todesco S. et al., 2007).

Fattori determinanti nella patogenesi dell’osteoporosi sono il picco di massa

ossea, il quadro ormonale e le abitudini di vita. Il picco di massa ossea è

condizionato soprattutto da fattori genetici: sono stati descritti polimorfismi dei

geni che codificano i recettori della vitamina D, degli estrogeni, dell’IL-6, del

TGF-β. Influenzano il picco di massa ossea anche l’alimentazione, in particolare

l’introito di calcio, vitamina D e proteine, il fumo, l’abuso di alcool, l’attività

fisica, l’insorgenza di patologie osteopenizzanti in età giovanile.

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La limitata attività fisica, la ridotta esposizione al sole, con scarsa attivazione

della vitamina D a livello cutaneo, l’introito insufficiente di calcio e vitamina D

con la dieta, e il calo degli ormoni sia estrogeni sia androgeni sono i principali

fattori determinanti l’osteoporosi senile (Todesco S. et al., 2007).

1.3.2 Polimorfismi genetici ed osteoporosi

I polimorfismi sono variazioni casuali di una singola base nel genoma umano che

possono essere riconosciute da diversi enzimi di restrizione: quest’ultimi in

presenza della mutazione “tagliano” il DNA, generando dei frammenti che sono

indicati con la lettera minuscola dell’enzima. In assenza del sito di restrizione la

sequenza di DNA rimane intatta ed è rappresentata dalla lettera iniziale maiuscola

dell’enzima. Le due possibilità (assenza e presenza del sito di restrizione) si

definiscono “alleli” e le loro combinazioni costituiscono i genotipi dei

polimorfismi dei frammenti di restrizione (RF LP).

Negli ultimi anni sono state condotte numerose ricerche basate sugli RFLP volte

ad identificare le caratteristiche strutturali dei geni coinvolti nel metabolismo

osseo. Gli alleli del polimorfismo del gene del VDR nella regione 3’ non sono in

grado da soli di predire una bassa massa ossea e quindi il rischio di osteoporosi. I

polimorfismi allelici per il recettore degli estrogeni sono stati considerati possibili

marcatori di osteoporosi poiché sono espressi dagli osteoblasti e dagli osteoclasti

ed il deficit di estrogeni si associa ad un aumento del turnover e della perdita della

massa ossea. Tuttavia mentre si è dimostrata l’associazione positiva tra genotipo e

massa ossea in un’analisi condotta su 238 donne giapponesi in post-menopausa

(Yanagi H. et al., 1996), un’indagine condotta su un campione di 426 donne

italiane in post-menopausa non ha invece rilevato una significativa relazione tra le

due variabili (Gennari L., Masi L. et al., 1998). Il recettore della calcitonina

(CTR) è stato oggetto di interesse poiché presente sulla membrana degli

osteoclasti; in uno studio condotto su 307 donne in post-menopausa è stata

dimostrata una correlazione significativa tra il genotipo TT e bassi livelli di massa

ossea (Gennari L., Masi L. et al., 1998). Un altro studio su 215 donne caucasiche

in post-menopausa conferma l’esistenza del polimorfismo del recettore ed

attribuisce una maggiore densità di massa ossea agli eterozigoti TC ed agli

omozigoti TT rispetto agli omozigoti CC (Taboulet et al., l998). Il transforming-

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growth-factor beta (TGF-B) é un fattore di crescita nella regolazione del

rimodellamento osseo; in una popolazione femminile danese sono state

individuate due varianti alleliche nelle regioni codificanti del gene correlate ad un

aumento del rischio di osteoporosi (Langdhal BL. et al., 1997). Tali varianti,

tuttavia, non sono molto frequenti nella popolazione caucasica, gravata invece da

un’elevata prevalenza dell’osteoporosi, e ciò rende poco probabile il loro ruolo di

marcatori di patologia. Maggiore attenzione ha ricevuto il polimorfismo del sito di

riconoscimento del fattore di restrizione Sp1 nel gene del collagene tipo 1alfa1

(COLIA1), poiché uno studio inglese (Grant SF. et al., 1996), condotto su donne

in menopausa, ha dimostrato che i genotipi Ss e ss sono associati ad una ridotta

massa minerale ossea della colonna lombare ed ad un aumento della prevalenza di

fratture vertebrali. Uno studio olandese su 1778 donne in post-menopausa

confermava il ruolo cruciale dell’allele s evidenziando però una netta riduzione

della massa minerale ossea vertebrale solo nei soggetti ss ultrasettantenni, che

tuttavia rappresentavano solo l’l% della popolazione indagata; in quest’ultimi,

inoltre, vi era una correlazione tra polimorfismo del COLIA1 e densità minerale

del collo femorale (Uitterlindem AG. et al., 1997). Da questi dati si può dedurre

come sia difficile individuare un marcatore di rischio per l’osteoporosi; ciò e in

parte dovuto alla complessità della componente genetica della malattia ed in parte

alla capacità dei geni di interagire tra loro e con fattori ambientali che possono

influire sull’associazione genotipo-massa ossea.

1.3.3 Il recettore della vitamina D (VDR)

La maggior parte degli effetti dell’1,25(OH)2-D3 sui tessuti bersaglio è dovuta al

legame della vitamina con un recettore intracellulare ad alta affinità che agisce

come fattore di trascrizione attivato dal ligando. Studi sul gene clonato da animali

(topo, pollo) e dall’uomo hanno permesso di definire la struttura e le funzioni del

VDR che risulta costituito da: a) una porzione situata a livello dell’estremità

carbossiterminale che riconosce specificatamente la molecola del calcitriolo, b) da

siti collocati nelle due regioni zinc finger all’estremità aminoterminale,

responsabili della formazione di un eterodimero con il RXR, c) una sequenza

ripetuta nel dominio di legame con la vitamina D, ed infine, d) un motivo, molto

simile in tutti i recettori di ormoni steroidei e tiroidei, rappresentato dalle stesse

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dita di zinco che interagiscono con sequenze specifiche del DNA nelle regioni

promotrici della trascrizione dei geni regolati dall’1,25(OH)2-D3.

Il VDR, legatesi alla vitamina D, si associa al RXR e subisce una modificazione

allosterica che gli consente di interagire con le proteine nucleari del complesso

d’inizio della trascrizione e di regolare in tal modo la RNA polimerasi II che ne è

parte integrante (Haussler MR. et al., 1997). Il ruolo del VDR come mediatore

dell’1,25(OH)2-D3 può essere influenzato da numerosi fattori tra i quali la

disponibilità di vitamina D, che dipende dal bilancio tra dieta, processi di sintesi e

catabolici, il contenuto dei recettori nelle cellule, che è regolato dai ligandi del

VDR e da altri ormoni e fattori di crescita; le modificazioni pretrascrizionali del

VDR indotte dal ligando, quali la fosforilazione di residui di serina che riduce

l’attività del recettore stesso; il livello dei componenti del complesso di

trascrizione nel nucleo (Brown AJ. et al., 1999).

1.3.4 Polimorfismi del VDR ed osteoporosi

Il gene del VDR è stato ampiamente oggetto di studi nel tentativo di spiegare i

meccanismi coinvolti nella ereditarietà della massa ossea e di individuare i

soggetti predisposti ad una maggiore perdita di tessuto. Tali conoscenze, infatti ,

potrebbero avere utili implicazioni in termini di profilassi dell’osteoporosi e di

trattamento dei pazienti che presentano un aumentato turnover osseo e rischio di

frattura (immobilizzazione, malattie croniche, menopausa, trapianto). I principali

polimorfismi individuabili nel VDR sono quattro: la maggior parte di essi è

collocata in regioni del gene non codificanti (introni) e di per se non modificano la

struttura aminoacidica del recettore, ma possono interferire con la trascrizione

delle regioni codificanti (esoni) o con la stabilità dell’ mRNA. Gli enzimi di

restrizione impiegati sono stati: BSM I, APO I, Taq I e FOK I; il primo sito

polimorfico descritto è stato quello riconosciuto da BSM I, collocato tra l’esone

VIH e la regione non codificante 3’: l’enzima taglia l’allele b ma non l’allele B.

Nel 1992 Morrison et al. osservarono una correlazione tra il genotipo BB del gene

per il VDR ed elevati livelli di osteocalcina in un gruppi di soggetti sani, maschi e

femmine, non vincolati da legami di parentela, fatto più significativo in donne in

post-menopausa (Morrison NA. et al., 1992). Nel 1994 lo stesso Morrison ed i

suoi collaboratori indagarono la distribuzione dei due alleli del gene VDR in

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gemelli monozigoti (MZ) e dizigoti (DZ): i MZ risultavano avere una maggiore

concordanza per la massa minerale ossea rispetto ai soggetti con alleli diversi (è

utile ricordare che i MZ condividono tutti i geni mentre i DZ solo il 50%). Da

questo studio emerse che il VDR poteva rendere conto fino al 75% del totale

effetto genetico sulla massa ossea in individui sani, che il genotipo era

significativamente correlato alla BMD ed, in particolare, che l’allele B era

associato ad una minore BMD e b a valori più elevati di BMD sia tra i gemelli sia

nella popolazione generale. I soggetti BB, quindi, risultarono sfavoriti in termini

di BMD e tale genotipo poteva rappresentate un fattore prognostico negativo per i

cambiamenti individuali della BMD nell’arco della vita. Questi risultati furono

confermati da studi condotti in Giappone su un campione di donne sane

(Yamagata Z. et al., 1994) ed in Inghilterra (Spector TD. et al., 1995). Una serie di

lavori successivi basati su studi di linkage in gemelli (linkage è la presenza di

ereditarietà associata tra polimorfismi e fenotipo massa ossea) e di associazione in

popolazioni più o meno ampie, nei quali si valutava la prevalenza degli alleli del

gene in questione tra soggetti non familiari e correlazione tra frequenze

genotipiche e fenotipo massa ossea, sono giunti a conclusioni opposte sulla

relazione tra polimorfismo VDR e la BMD (Peacock M. et al., 1995). Le cause

vanno ricercate nei criteri di selezione non uniformi, nella bassa numerosità delle

casistiche, nella diversa distribuzione delle frequenze genotipiche nella razza

caucasica ed in quella asiatica, in fattori di ordine metodologico e nella possibile

influenza di altri fattori endogeni ed esogeni, come l’età, l’esercizio fisico, la

menopausa, l’assunzione di calcio e la presenza di malattie ossee di tipo

degenerativo. In particolare, per quanto riguarda l’età, Riggs BL. et al. (1995)

hanno osservato un’associazione più stretta tra effetto genetico e BMD nelle

giovani donne rispetto a quelle più anziane; tale dato è stato confermato da una

metanalisi condotta da Cooper GS. et al. nel 1996 con il risultato che il

polimorfismo VDR 3’ presenta un modesto effetto sulla massa ossea che tende a

ridursi con l’avanzare degli anni. Il fatto che la massa minerale ossea sia

condizionata dal rapporto tra fattori genetici ed ambientali appare sempre più

chiaro dallo studio di Krall EA. et al. (1995) che ha esaminato l’influenza

dell’introduzione di calcio e degli anni trascorsi dall’inizio della menopausa sulla

relazione tra alleli VDR e perdita di massa ossea; i dati indicavano un tasso di

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perdita più elevato nelle donne in menopausa BB rispetto a quelle bb quando la

dose di calcio assunta era bassa. Anche Ferrari SL. et al. (1998) mostrarono che

l’introduzione di calcio ed genotipo Bb erano significativamente correlati alla

riduzione della massa ossea a livello della colonna lombare nell’anziano. Inoltre,

in quanto malattia poligenica, l’osteoporosi riconosce il contributo di tanti geni,

tra cui il VDR, ognuno dei quali esercita un effetto modesto singolarmente e

interagendo con gli altri. Tra gli altri polimorfismi del VDR è stato descritto T/t

riconosciuto dall’enzima Taq I nell’esone 9 che è strettamente associato a BSM I

per quanto riguarda gli alleli t e B; un altre sito di restrizione è quello per l’enzima

Apa I nell’introne 7 tra BSM I e Taq I, i suoi alleli sono A/a; infine, una

mutazione a carico del primo codone d’inizio traduzione del VDR nell’esone 2

rappresenta il bersaglio dell’enzima Fok 1: la presenza della sequenza mutata

comporta l’inizio della traduzione in secondo codone a valle e ne risulta un

recettore più corto; se la mutazione non c’è l’enzima non taglia e viene

sintetizzata una proteina più lunga a partire dal primo codone. Il polimorfismo è

caratterizzato dagli alleli FM , dei quali f corrisponde al recettore più grande,

mentre F e quelle più piccole. Il genotipo ff è stato associato ad una BMD della

colonna lombare più bassa rispetto a FF in una popolazione di donne messice-

americane-caucasiche in menopausa ( Gross C. et al., l996).

1.3.5 Il Calcium-Sensing Receptor (CaRS)

La relazione tra calcio sierico e livelli di PTH è mediata dal CaSR, una

glicoproteina costituita da 1078 amminoacidi, che appartiene alla famiglia dei G

Protein-coupled receptors. E’ composto da un ampio dominio extracellulare, da un

dominio transmembrana e da una coda intracellulare. Esso regola la secrezione di

PTH da parte delle cellule paratiroidee ed il riassorbimento di calcio da parte delle

cellule tubulari renali (Brown EM., 1999). E’ attivato dall’aumento della

concentrazione di ioni calcio extracellulare, che si legano al domino

extracellulare. Attraverso il suo dominio intracellulare, il CaSR stimola una G

Protein, che inibisce la produzione di PTH (Brown EM., 1993) ed il

riassorbimento tubulare di calcio (Riccardi D. et al., 1995). Il CaSR, inoltre,

influenza l’assorbimento intestinale di calcio (Chattopadhyay N. et al., 1998) ed il

rimodellamento osseo (Yamaguchi T. et al., 2001). Il gene che codifica per il

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CaSR è localizzato sul braccio lungo del cromosoma 3, alla posizione 3q13.3q21.

Mutazioni inattivanti il gene causano ipocalcemia ed ipercalcemia; gli eterozigoti

sviluppano un’ipercalcemia ipocalciurica familiare benigna, mentre gli omozigoti

sono affetti da severo iperparatiroidismo neonatale (Pollak MR. et al., 1993). Al

contrario, mutazioni che incrementano l’attività del CaSR causano ipocalcemia e

ipercalciuria (Pearce SHS. et al., 1996). Tre polimorfismi SNPs (Single

Nucleotide Polymorphism), determinanti variazioni aminoacidiche

nonconservative, codificanti il dominio intracellulare del CaSR, sono state

descritte a livello dell’esone 7 (Cole DEC. et al, 1998). ll polimorfismo più

comune consiste nella sostituzione di una guanina con una timina al codone 986,

che porta alla variante Ala986Ser. Gli alti due polimorfismi sono meno frequenti:

una sostituzione adenina/guanina al codone 990 determina la variante Arg990Gly;

la sostituzione citosina/guanina al codone 1011 determina la variante

Gh11011Glu.

Il polimorfismo A986S è piuttosto frequente nella popolazione generale e sembra

avere un ruolo determinante nel controllo della concentrazione di calcio

extracellulare. Cole et al. (1998) hanno dimostrato come tale polimorfismo sia

associato a più alti livelli sierici di calcio totale e ionizzato e possa predisporre

donne adulte sane a patologie ossee o del metabolismo minerale, nelle quali la

concentrazione di calcio extracellulare svolge un ruolo prominente. Alcuni autori

hanno confermato questi effetti in pazienti caucasici (Lorentzon M. et al, 2001,

Vezzoli G. et al, 2002), altri non li hanno confermati (Cetani F. et al., 2002,

Miedlich S. et al., 2001, Bollerslev J. et al., 2004). Alcuni studi su soggetti umani

(Pollak MR. et al, 1993) e su cellule tubulari canine hanno evidenziato un effetto

inibitorio del CaSR sul trasporto cellulare di calcio, suggerendo che esso giochi

un ruolo chiave nella regolazione dell’escrezione di calcio. Sulla base di queste

osservazioni Vezzoli G. et al. (2002) hanno indagato la possibile associazione tra

il CaSR e l’escrezione urinaria di calcio in pazienti calcolotici normocalciurici, in

pazienti calcolotici ipercalciurici e in soggetti sani nomocalciurici. Da questo

studio è emerso che il polimorfismo A990G sembra produrre un’incremento della

funzione del CaSR che comporta un aumento dell’escrezione urinaria di calcio e

una maggiore suscettibilià all’ipercalciuria idiomatica. Scillitani A. et al. (2004)

hanno valutato la frequenza dei tre polimorfismi e la loro associazione con il

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calcio sierico ionizzato in un’ampia popolazione adulta. Hanno confermato

l’associazione tra l’aumento del calcio sierico ed il polimorfismo A986S e il ruolo

dei polimorfismi R990G e Q10l1E quali fattori predittivi significativi.

1.3.6 Polimorfismo del CaSR ed osteoporosi

E’ ben noto come la densità minerale ossea sia fortemente influenzata da fattori

genetici e come essa rappresenti il maggior determinante del rischio fratturativo.

Numerosi studi sono stati condotti al fine di indagare la possibile associazione tra

diversi polimorfismi genetici e BMD. In particolare Lorentzon M. et al. (2001)

hanno studiato l’associazione tra il polimorfismo A986S del CaSR e la BMD in

adolescenti sane caucasiche. Da questo studio é emerso che le adolescenti

portatrici dell’allele S hanno livelli più elevati di calcio plasmatico e più bassa

BMD al rachide lombare ed alla valutazione total body. Tale polimorfismo, però,

non si mantiene fattore predittivo significativamente associato alla densità

minerale ossea una volta corretto per altre variabili, quali età, peso e attività fisica.

Risultati simili sono stati ottenuti da Takacs I. et al (2002) in donne ungheresi e da

Cetani F. et al. (2003). In quest’ultimo studio gli autori hanno indagato l’effetto

dei polimorfismi A986S, R990G e Q1011E sulla densità minerale ossea e sulle

fratture in donne italiane in post-menopausa. L’attenzione degli autori si è

concentrata sul primo dei tre polimorfismi, essendo quello più frequente nella

popolazione in esame. Dal lavoro è emerso che questo polimorfismo non è un

fattore predittivo indipendente di densità minerale ossea, né di fratture da fragilità.

Alla stesse conclusioni sono giunti gli autori di uno studio condotto su donne

anziane australiane (Bollerslev J. et al., 2004), e su donne cinesi in pre-menopausa

(Mo XY. et al., 2004).

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1.4 TRAPIANTO D’ ORGANO

1.4.1 Generalità

Il trapianto d’organo rappresenta attualmente una valida e concreta opzione

terapeutica nella cura di diverse malattie acute o croniche. Introdotto all’inizio

come una sorta di “ultima spiaggia”, il trapianto ha guadagnato progressivamente

dignità nell’ambito delle strategie terapeutiche trasformandosi sempre più da una

metodica di ricerca clinico-sperimentale in un vero e proprio mezzo curativo. Tale

prospettiva ha fatto rinascere le speranze di molti pazienti altrimenti condannati a

morte sicura. Di conseguenza, la richiesta del trapianto d’organo sta crescendo in

maniera molto significativa negli ultimi tempi, alimentata dall‘aumento della

sopravvivenza a lungo termine dei riceventi, dalla capacità degli agenti

immunosoppressivi di prevenire il rigetto e dalla mancanza di concrete alternative

terapeutiche (Epstein S., 1996).

Attualmente si effettuano quasi 100.000 trapianti di organi solidi all’anno in tutto

il mondo e la domanda cresce continuamente secondo l’Osservatorio Globale e il

Database sulla Donazione e il Trapianto d’organo (Global Observatory and

Database on Donation and Transplantation, GODT) (Matesanz R., 2009).

Per quanto riguarda il trapianto di rene esso rappresenta la terapia d’elezione per

molti pazienti nello stadio finale dell’insufficienza renale cronica, ed è superiore

alla dialisi in termini di mortalità a lungo termine. Infatti i risultati ottenuti dopo il

trapianto di rene hanno dato sempre più risultati incoraggianti ed il numero di

pazienti con malattia in stadio terminale candidati al trapianto è andato

aumentando.

Il recente aumento di donazione di rene da cadavere si è avuto principalmente da

donatori più vecchi o da coloro che presentavano altre caratteristiche associate ad

un incremento dell’incidenza di rigetto d’organo. Nel 2002 il termine “i criteri

espansi per il donatore” è stato codificato per i donatori deceduti di età maggiore o

uguale a 60 anni e per quelli di età compresa tra 50 e 59 anni con almeno due

delle seguenti caratteristiche: storia di ipertensione, livelli di creatinina maggiori

di 1.5mg/dL, e cause cerebrovascolari di morte. Il rischio di rigetto dopo trapianto

da donatore deceduto è del 70% più elevato rispetto ad un trapianto effettuato da

un donatore vivente (Merion MR., 2009).

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La sopravvivenza dei pazienti trapiantati di rene è sostanzialmente migliorata

negli ultimi anni. Oggi in Europa, il sistema di assegnazione degli organi dei

donatori sotto i 65 anni di età dipende principalmente dalla compatibilità HLA e

dalla durata del tempo di attesa; gli organi che provengono dai donatori sopra i 65

anni vengono assegnati ai pazienti riceventi con età maggiore di 65 anni senza

badare alla compatibilità HLA (Steiner T., 2009).

Nel Nord Italia, quando vi è la disponibilità di un rene, questo viene assegnato

secondo regole definite dai centri di trapianto del NITp. L’assegnazione dei reni

prevede che il gruppo sanguigno sia identico fra donatore e ricevente. L’unica

eccezione è per il paziente immunizzato di gruppo B che può ricevere un rene di

gruppo 0, ed il paziente immunizzato di gruppo AB che può ricevere un rene di

gruppo A. Dopo la compatibilità AB0 ed il cross-match, il requisito più

importante è la compatibilità HLA A, B, DR. (NITp, Nord Italia Transplant,

Report 2008).

Per i trapiantati di organi diversi dal rene, la sopravvivenza dei pazienti dal

trapianto è più bassa. La sopravvivenza dei pazienti trapiantati di pancreas a 2

anni è dell’86.4%, quella dei trapiantati di cuore a 3 anni è dell’84%. La

sopravvivenza dei trapiantati di polmone ad 1 anno è pari al 60% (NITp, Nord

Italia Transplant, Report 1994). Per quanto riguarda il fegato, attualmente si

effettuano circa 250 trapianti all’anno. La sopravvivenza a 3 anni dei pazienti

trapiantati è del 63%. Dopo 3 mesi dall’intervento chirurgico oltre il 90% dei

pazienti è in condizioni cliniche eccellenti (NITp, Nord Italia Transplant, Report

1994).

1.4.2 Metabolismo del calcio e dell’osso pre e post-trapianto di rene

Nei pazienti affetti da nefropatia cronica il filtrato glomerulare diminuisce

progressivamente e decresce la possibilità del rene di eliminare fosfato;

conseguentemente ciò determina un’iperfosfatemia, che è in grado di stimolare la

secrezione di FGF-23, il quale grazie al suo effetto fosfaturico mantiene normali i

livelli plasmatici di fosfato fino agli stadi più tardivi della nefropatia cronica.

L’1,25-diidrossivitamina D, attraverso un feedback negativo regolato dalla

vitamina D, diminuisce la sua stessa sintesi e diminuisce inoltre la sintesi e la

secrezione dell’ormone paratiroideo dalle ghiandole paratiroidi.

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Nei pazienti con nefropatia cronica, la progressiva diminuzione della disponibilità

dell’enzima alfa1-idrossilasi porta ad un calo della sintesi di calcitriolo quando la

clearence della creatinina scende sotto i 50 mL/min. Bassi livelli di 25OH-D3, il

substrato del calcitriolo, sono spesso osservati in questi pazienti, e contribuiscono

ai bassi livelli di calcitriolo.

Il deficit di calcitriolo riduce l’assorbimento intestinale di calcio, favorendo

l’ipocalcemia. Attraverso il recettore del sensore del calcio, presente sulle cellule

paratiroidee, una riduzione della concentrazione del calcio ionizzato è il più

potente stimolo per la sintesi e secrezione di PTH ed eventualmente per la

proliferazione delle ghiandole paratiroidi. Inoltre la carenza di calcitriolo

incrementa la resistenza scheletrica all’effetto calcemico del PTH.

Nelle fasi più tardive della nefropatia cronica, la diffusa iperplasia delle ghiandole

paratiroidi è associata ad una regolazione in senso soppressivo sia del recettore

sensore del calcio sia del recettore per la vitamina D, rendendo le paratiroidi più

resistenti all’azione del calcio e del calcitriolo.

Successivamente si sviluppa un iperparatiroidismo autonomo, spesso associato ad

ipercalcemia.

L’ipocalcemia comporta un aumento del calcitriolo conseguente ad una maggiore

stimolazione PTH dipendente della alfa-idrossilasi renale, mentre pazienti

ipoparatiroidei presentano bassi livelli di 1,25(OH)2-D3 malgrado una ipocalcemia

persistente (Neveen AT., 2007).

La nefropatia cronica si associa a significativi disturbi dell’osso e del

metabolismo minerale dell’osso, che rappresentano una causa sostanziale di

morbilità scheletrica e cardiovascolare, particolarmente nella fase finale della

nefropatia cronica.

Un trapianto di rene riuscito corregge la maggior parte di questi disturbi, ma il

grado di miglioramento è spesso incompleto e i disordini del rimodellamento

osseo possono persistere o addirittura peggiorare dopo il trapianto. La funzionalità

del rene trapiantato diminuisce con il tempo, e le disfunzioni, di cui sopra

accennato, ricompaiono dopo 10-12 anni dal trapianto.

La patogenesi di questi disordini è complessa e multifattoriale.

Al centro dell’evoluzione di questi sconvolgimenti vi è lo spostamento del

meccanismo omeostatico che controlla le concentrazioni sieriche di calcio e

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fosfato dal range fisiologico, portando conseguentemente ad un’ ipersecrezione

dell’ormone PTH, ad un aumento della sintesi del PTH e ad una iperplasia delle

paratiroidi.

La ritenzione di fosfato conseguente alla nefropatia contribuisce

all’iperparatiroidismo, poiché stimola direttamente la trascrizione dell’mRNA del

pre-pro-PTH. Sebbene controllare i livelli di fosfato prima del trapianto sia un

obiettivo importante, è spesso difficile da realizzare e un numero significativo di

pazienti presentano livelli plasmatici elevati di fosfato prima del trapianto.

Nella nefropatia cronica è presente un largo spettro di disordini del metabolismo

scheletrico che insieme prendono il nome di “osteodistrofia renale”.

Nella malattia ossea da iperparatiroidismo, elevate concentrazioni di PTH

incrementano il numero e l’attività di osteoclasti ed osteoblasti, e la maggior parte

della superficie dell’osso trabecolare viene occupata dall’attività di riassorbimento

e formazione ossea. Il rapido turnover osseo porta ad una casuale deposizione di

tessuto al posto della matrice lamellare ossea. In casi severi vi può essere

sostituzione fibrosa nelle cavità osteomidollari, che si riconosce nel pattern

istologico dell’osteite fibrocistica, e il subentro di tessuto fibroso può portare a

sopprimere l’attività osteomidollare, contribuendo all’anemia cronica e alla

potenziale resistenza al trattamento con eritropoietina.

L’iperfosfatemia è spesso presente, e l’ipercalcemia si sviluppa quando

l’iperparatiroidismo diventa autonomo.

L’elevato turnover ha significativi effetti sul flusso di calcio dall’osso, che è

proporzionale al turnover osseo e conduce alla perdita di massa ossea e

all’osteoporosi. La definizione di osteoporosi strettamente legata alla densità

minerale ossea non è applicabile ai pazienti con nefropatia cronica, perché la

qualità dell’osso è alterata e il rischio di frattura aumenta attraverso lo spettro

dell’osteodistrofia. Altri fattore che contribuiscono al rischio di frattura sono l’età

avanzata, la menopausa, l’uso di glucocorticoidi, lo stato nutrizionale e lo stile di

vita sedentario.

L’iperparatiroidismo secondario persistente può essere presente nel 75% dei

pazienti un anno dopo il trapianto, conseguente al fallimento dell’involuzione

dell’ipertrofia delle ghiandole paratiroidi. Un importante determinante

dell’iperparatiroidismo persistente dopo il trapianto è la severità

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dell’iperparatiroidismo nel momento del trapianto, che corrisponde ai livelli di

PTH in epoca pre-trapianto. Un altro determinante dell’iperparatiroidismo dopo il

trapianto è il numero di anni trascorsi in terapia dialitica.

Il periodo subito dopo il trapianto è caratterizzato da una drammatica perdita di

osso, dal 4 al 9% a livello del rachide lombare e del 5-8% a livello dell’anca,

attribuibile in modo predominante all’uso di glucocorticoidi.

Nel periodo più tardivo dal trapianto di rene si ha una perdita di osso più lenta o

addirittura un recupero della massa ossea tra i 6 e i 18 mesi dopo aver diminuito o

aver reso discontinua la terapia con glucocorticoidi. Nonostante questo, molti

studi dimostrano una diminuzione della massa ossea anche dopo 20 anni dal

trapianto. (Neveen AT., 2007)

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1.5 L’OSTEOPOROSI NEL TRAPIANTO D’ORGANO

Anche il trapianto d’organo può costituire una causa di osteoporosi. I pazienti

sottoposti a trapianto sono esposti a numerosi fattori che possono compromettere

il metabolismo osseo. Per esempio, tutti i pazienti con una malattia cronica che

porta ad una prolungata immobilizzazione a letto sono a rischio di osteodistrofia

da disuso (Katz I.A., Epstein S., 1992). lnoltre molti farmaci, somministrati ai

pazienti prima del trapianto, come steroidi, metotrexate, anticoagulanti, sono

associati ad osteopatia rarefacente. Differenti malattie specifiche trattate con

trapianto d’organo predispongono allo sviluppo di malattie metaboliche dell’osso

come, per esempio, l’insufficienza renale cronica, la cirrosi biliare primitiva, la

colangite sclerosante (Maddrey W.C., 1990; Porayko M.K. et al., 1991),

l’emocromatosi ed alcune malattie polmonari croniche. A questi possono

associarsi altri fattori di rischio che contribuiscono alla perdita di osso e al rischio

di fratture, quali la menopausa, l’età, l’ipogonadismo, la storia familiare di

osteoporosi, il fumo, l’alcool, la ridotta attività fisica, l’insufficienza d’organo,

dosi elevate di prednisone, la carenza di calcio e vitamina D. L’insufficienza di

vitamina D è prevalente tra i pazienti riceventi sottoposti a trapianto di rene: in più

del 95% dei pazienti sono stati trovati bassi valori di 25OH-D3 (Stein E. et al.,

2007). Esiste, di conseguenza, la probabilità di una densità minerale ossea bassa

già prima del trapianto, ciò che rende, in alcuni casi, difficile l’interpretazione

degli studi post trapianto (Katz I.A., Epstein S., 1992). Il periodo più critico della

perdita ossea dopo trapianto sembra essere quello dei primi sei mesi, con una

maggiore riduzione della densità scheletrica nei primi tre. L’osso trabecolare della

colonna sembra quello più a rischio e le fratture vertebrali sono le più frequenti

(Lukert B.P., Raisz L.G., 1990; Eastell R. et al., 1991; Horber et al., 1994). La

causa principale di ciò sembra essere la terapia immunosoppressiva. Le dosi di

glucocorticoidi usate durante i primi sei mesi dopo il trapianto sopprimono

profondamente la formazione ossea. I marcatori sierici di formazione ossea, in

particolare l’osteocalcina, sono quasi completamente soppresse nel periodo più

precoce dopo il trapianto. I marcatori urinari del riassorbimento osseo sono

persistentemente elevati durante questo periodo. Questo incremento è relativo agli

effetti soppressivi su diversi sistemi: sintesi da parte degli osteoblasti di

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osteoprotegerina, trasporto del calcio attraverso le membrane cellulari

dell’intestino, dei tubuli renali e delle cellule paratiroidee, e l’asse ipotalamo-

ipofisi-gonadi. CsA e FK506 hanno effetti nefrotossici, e ne risulta un declino

della funzione renale e una riduzione della sintesi di 1,25OH-D3, che porta ad una

diminuzione del trasporto di calcio a livello intestinale. Attraverso questi

meccanismi, sia gli inibitori della calcineurina sia i glucocorticoidi hanno il

potenziale di causare un incremento secondario della secrezione di PTH e

conseguentemente di aumentare il riassorbimento osseo mediato dagli osteoclasti.

Inoltre la CsA e l’FK 506 possono aumentare il riassorbimento osseo anche

attraverso un meccanismo diretto. Conseguentemente la perdita ossea è rapida

durante le primissime fasi dopo il trapianto.

Nei pazienti trapiantati di cuore l’osteoporosi è prevalente nel lungo termine; la

più rapida perdita di massa ossea avviene durante il primo anno dopo il trapianto,

e le fratture vertebrali sono state riportate con una prevalenza che va dal 22% al

35% dei trapiantati nel lungo termine. Anche nei trapiantati di fegato l’osteoporosi

è comune dopo il trapianto; in contrasto con la diminuita formazione ossea il

basso turnover osservato prima che questi pazienti fossero sottoposti a trapianto,

uno stato di alto turnover osseo è stato invece riscontrato successivamente al

trapianto. L’aumento del turnover può essere il risultato della risoluzione della

colestasi o dell’ipogonadismo, dell’incremento della secrezione di PTH, o della

somministrazione di farmaci immunosoppressivi (Stein E. et al., 2007).

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1.6 TRAPIANTO DI RENE E RISCHIO DI FRATTURA

La patologia ossea dopo trapianto di rene é ascrivibile a questi fattori principali:

l’osteodistrofia preesistente, la persistenza di iperparatiroidismo, la terapia

immunosoppressiva e le alterazioni della funzione renale conseguenti al trapianto.

Anche l’ipogonadismo secondario ad uremia o a terapia steroidea ha effetti

negativi sulla massa ossea e sul metabolismo minerale. Nei primi mesi dopo il

trapianto i pazienti subiscono un’accelerata perdita di massa ossea ed hanno un

alto rischio di frattura a causa delle alte dosi di steroidi e ciclosporina che

provocano un disaccoppiamento del turnover osseo con prevalenza dei fenomeni

di riassorbimento (Cohen A. et al, 2004). Nonostante il recupero della funzionalità

renale, alterazioni clinicamente rilevanti del metabolismo scheletrico tendono a

permanere dopo il trapianto. Circa il 50% dei pazienti trapiantati mantiene livelli

elevati di paratormone, anche in presenza di una normale funzione renale.

L’eccesso di paratormone è responsabile di un’osteopenia ad elevato turnover che

può causare fratture da fragilità soprattutto a carico del distretto corticale (femore,

radio prossimale)(Giannini S. et al, 2001); anche le ossa dei piedi possono essere

sede di frattura secondo quanto descritto da Goldman RR. et al, 1999. La

prevalenza di fratture da fragilità dopo il trapianto è compresa tra l’11% ed il 43%

e riconosce diversi fattori di rischio: l’età avanzata, il basso BMI, la menopausa,

la presenza di pregresse fratture, il diabete mellito, una dialisi protratta (Ball AM.

et al, 2002) la dose cumulativa e di mantenimento degli steroidi, una pregressa

paratiroidectomia. Meno frequenti risultano le fratture dello scheletro assiale (3-

29%), nel qual caso la ridotta densità minerale ossea (BMD) sembra avere un

valore predittivo (Nan JH. et al, 2000). Infine, parallelamente alla persistenza di

una perdita ossea nel lungo termine dopo il trapianto, anche l’incidenza di fratture

tende a crescere in modo progressivo a distanza dal trapianto (Vautour LM. et al,

2004).

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1.7 POLIMORFISMO DEL CaSR ED IPERPARATIROIDISMO

Le cellule paratiroidee, attraverso il CaSR, localizzato sulla membrana plasmatica,

risentono delle variazioni di concentrazione del calcio ionizzato, modificando la

secrezione di PTH in modo inversamente proporzionale ai livelli di calcio.

Pregressi lavori hanno documentato come lo sviluppo clinico di

iperparartiroidismo primitivo sia associato a fattori genetici, in particolare a

polimorfismi del VDR (Carling T. et al, 1995). Sulla base di tali osservazioni

alcuni autori hanno indagato il possibile ruolo dei polimorfismi del CaSR nel

determinismo dell’iperparatiroidismo. Yano S. et al (2000) hanno dimostrato

come il polimorfismo R990G del CaSR sia associato ai livelli sierici di PTH in

pazienti emodializzati con iperparatiroidismo secondario. Yamauchi M. et al

(2001) hanno studiato lo stesso polimorfismo nell’ambito dell’iperparatiroidismo

primitivo, dimostrando come esso condizioni la severità clinica della malattia.

Scillitani A. et al. (2007) hanno condotto uno studio da cui é emersa una stretta

associazione tra l’aplotipo SRQ del CaSR e lo sviluppo della patologia. La

variante A986S , che é la più frequente nella popolazione italiana affetta da

iperparatiroidismo primitivo, non sembra avere un ruolo nel determinismo della

malattia (Cetani F., 2002). Sembra, tuttavia, rappresentare un fattore di rischio per

lo sviluppo di neoplasia delle paratiroidi nel sesso maschile. E’ quanto è emerso

da uno studio di Miedlich S. et al (2002), che ha inoltre evidenziato come la

presenza del genotipo Q1011E possa influenzare il decorso clinico della malattia.

Per quanto concerne l’iperparatiroidismo secondario ad uremia, recenti studi

clinici e sperimentali hanno suggerito un importante ruolo del CaSR e del VDR

nella regolazione del rilascio di PTH da parte delle ghiandole paratiroidee e nella

proliferazione delle cellule paratiroidee. L’espressione di tali recettori è ridotta nei

pazienti uremici con severo iperparatiroidismo secondario. Il trapianto di rene

corregge le anormalità del metabolismo minerale che, durante l’uremia, causano

iperparatiroidismo secondario e osteodistrofia renale. Nonostante ciò la diminuita

espressione del CaSR e del VDR mRNA persiste suggerendo un loro possibile

ruolo nel determinismo dell’iperparatiroidismo secondario persistente dopo

trapianto di rene.

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Capitolo 2

SCOPO DELLA TESI

La presente tesi si divide in due parti.

Scopo della 1a parte

Lo scopo della prima parte di questa tesi (STUDIO TRASVERSALE) è l’analisi

dei parametri clinici, metabolici e genetici, con particolare riguardo allo stato

vitaminico D ed al polimorfismo del recettore sensore del calcio, che influenzano

l’iperparatiroidismo secondario persistente in pazienti trapiantati di rene per

insufficienza renale cronica in fase terminale. L’intento è riuscire ad identificare

precocemente i fattori di rischio di iperparatiroidismo ed individuare i soggetti

con una predisposizione genetica alla patologia, in modo da proporre efficaci

misure di prevenzione degli effetti dei livelli elevati di paratormone così da

ridurre l’incidenza di fratture osteoporotiche.

Scopo della 2a parte

Nella seconda parte della tesi (STUDIO LONGITUDINALE) lo scopo è quello di

valutare gli effetti della terapia con colecalciferolo nei pazienti trapiantati di rene,

stabilendo se sia in grado di ridurre i livelli sierici di PTH ed in quale misura sia

in grado di ridurli.

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Capitolo 3

STUDIO TRASVERSALE

3.1 MATERIALI E METODI

3.1.1 PAZIENTI

E’ stata selezionata una popolazione di 125 soggetti caucasici (BMI 24±4 Kg/m2,

87 maschi, età media 50±11 anni, e 38 femmine, età media 52±11 anni) da una

più ampia coorte di pazienti che sono stati sottoposti a trapianto di rene nel nostro

Ospedale Universitario. I criteri di inclusione sono stati: età 25-65 anni, tempo

trascorso dal trapianto da 1 a 120 mesi (media di 44±23 mesi), e la creatinina

sierica ≤227 µmol/L. I pazienti sono stati esclusi dallo studio se presentavano

livelli sierici di creatinina ≥228 µmol/L, se avevano avuto una storia di diabete

mellito prima del trapianto, o se erano stati trattati con supplementi di calcio,

vitamina D (incluso calcitriolo), estrogeni, o farmaci antiriassorbitivi dopo il

trapianto. Le patologie che avevano portato al trapianto erano: glomerulonefrite

cronica (45.6%), la nefropatia policistica (17.6%), cause sconosciute (12%), la

nefropatia da reflusso (9.6%), la nefropatia ipertensiva (8.8%), la nefropatia da

tossici (3.2%), la nefropatia ostruttiva (1.6%), e la nefrolitiasi (1.6%). Dei pazienti

88 erano stati sottoposti ad emodialisi per una durata media di 33±81 mesi, 28

sottoposti ad una dialisi peritoneale per una durata media di 8±22 mesi, e 9

pazienti sottoposti ad entrambe, prima del trapianto di rene (Tabella 1, Cap. 5.1).

Tutti i pazienti al momento dello studio erano in trattamento con differenti

combinazioni di terapie immunosoppressive orali. 44 pazienti assumevano una

combinazione di ciclosporina A, micofenolato mofetile, a metilprednisolone; 26

pazienti erano trattati con una combinazione di tacrolimus, micofenolato mofetile,

e metilprednisolone; 9 pazienti con una combinazione di CsA e

metilprednisolone. I rimanenti 46 soggetti erano stati trattati con diverse

combinazioni dei farmaci sopra menzionati e/o con rapamicina e azatioprina. La

dose cumulativa media assunta era di: ciclosporina A (CsA) 171±225 g,

metilprednisolone 8±7 g, tacrolimus 3±21 g, mofetil micofenolato 881±1039 g,

rapamicina 0.16±0.75 gr.

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3.1.2 METODI

3.1.2.1 Esami di laboratorio

Tutti i soggetti sono stati sottoposti, dopo digiuno notturno, a prelievi ematici. Il

calcio sierico, il fosfato, e la creatinina sono stati analizzati da un Analizzatore

Automatico (Tecon Instruments Corp., Tarrytown, NY, USA). La fosfatasi

alcalina ossea (BAP) è stata determinata con metodo immunoenzimatico

monoclonale (OCTEIA, Ostase BAP, IDS Inc.;EOS, Cervarese S. Croce, PD). Il

range di riferimento è 2.7-22.4 µg/L. La determinazione quantitativa del PTH è

stata ottenuta con metodo immunoenzimatico con sistema di rivelazione in

chemiluminescenza a sandwich (N-tactTM PTH DiaSorin S.p.A. Saluggia, VC,

Italy). Il range di riferimento per questo metodo è 10-65 pg/ml. Tuttavia, in questa

specifica popolazione ed in accordo con Messa et al., noi consideriamo indicativi

di iperparatiroidismo, valori di PTH superiori a 80 pg/ml. La 25OH-D3, è stata

dosata con uno strumento automatico (LIAISON 25OH-D3 total Assay, DiaSorin,

Saluggia. Vercelli, Italy) con metodo immunoenzimatico e con sistema

rivelazione in chemiluminescenza. Pazienti con livelli sierici di 25OH-D3 <30

noml/L sono stati definiti come pazienti con carenza di vitamina D. Pazienti con

livelli sierici di vitamina D compresi nell’intervallo 31-80 nmol/L sono stati

definiti come pazienti con insufficienza di vitamina D.

3.1.2.2 Determinazione dei genotipi del CaSR

Il DNA genomico di 87 soggetti nefrotrapiantati è stato estratto da sangue

periferico, utilizzando la digestione standard con proteinasi K-SDS ed estrazione

con fenolo-cloroformio. I campioni di DNA sono stati mantenuti a -20°C fino

all’utilizzo. Un frammento dell’esone 7 del CaSR contenente i 3 polimorfismi,

A986S, R990G, e Q1011E, è stato amplificato tramite PCR con i seguenti

primers: forward 5’TCCCGCAACACCATCGAGGA, and reverse 5’

TCTTCCTCAGAGGAAAGGAG. Alla fine le due differenti amplificazioni

eseguite tramite PCR dal DNA genomico sono state sequenziate su doppia elica

con primers senso e antisenso. La PCR è stata eseguita in un volume finale di 50

microL contenente 1 microg di DNA, 50mM KCL, 10mM Tris-Cl, pH 8.3, 1mM

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MgCl2, 0.2mM dNTP, 0.5 U Taq polimerasi (Ceus), e 10 pmol di ogni primer. La

temperatura era 54°C. Il prodotto PCR era poi rutinariamente sottoposto al 10% e

12% in gel di poliacrilamide, contenente il 5% di glicerolo e visualizzato dopo

essere stato macchiato di argento. Estrazione di DNA e reazioni pre-PCR sono

state eseguite in diverse stanze rispettando le reazioni post-PCR.

3.1.2.3 Densitometria ossea

La densitometria ossea (BMD) è stata eseguita tramite raggi-X dual-energy X-ray

absorptiometry Hologic, Inc. QDR 4500 A (Hologic, Inc., Waltham, MA, USA)

del rachide lombare (L2-L4) e del femore prossimale. I risultati sono stati espressi

come densità minerale ossea (BMD, g/cm2) e come T-score (numero delle

deviazioni standard di cui il valore del soggetto in esame si discosta dalla media

dei giovani adulti normali). In accordo con le raccomandazioni dell’

Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), l’osteoporosi è definita da valori di

T-score <-2.5 DS.

3.1.2.4 Radiografia del rachide dorso-lombare

102 pazienti sono stati sottoposti a radiografie convenzionali laterali e antero-

posteriori della colonna dorso-lombare. Al fine di differenziare i diversi tipi di

deformità, una accurata valutazione visiva della radiografia del rachide è stato

fatta da uno specialista esperto. Le vertebre sono state identificate e valutate

mediante l’uso di software dedicati alla morfometria quantitativa (MorphoXpress,

P&G Pharmaceuticals, Egham, UK). Le caratteristiche e le performances di

MorphoXpress sono riportate in dettaglio in un articolo recente. In breve, le

MorphoXpress utilizzate sono le seguenti: le radiografie originali vertebrali

laterali sono state digitate usando uno scanner TWAIN (UMAX Power Look

1000, Techville, Dallas, TX, USA). Le altezze anteriori, medie e posteriori di ogni

vertebra tra la quarta vertebra toracica e la quinta lombare sono state misurate con

un morfometro digitale. Le fratture analizzate nel nostro studio sono state definite

lievi, moderate, severe in base alla classificazione semiquantitiva di Genant (lieve,

grado 1 con riduzione dell’altezza vertebrale del 20-25%; moderata, grado 2 con

riduzione dell’altezza vertebrale dal 25 al 40%; grave, grado 3 con riduzione

dell’altezza vertebrale oltre il 40%).

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3.1.2.5 Statistica

L’analisi statistica è stata eseguita utilizzando SPSS per Windows versione 15.0. I

risultati sono stati espressi come M±DS (media e deviazione standar). L’analisi

della regressione multipla e logistica sono state adoperate per valutare la presenza

di correlazioni tra variabili. Il Modello Lineare Generalizzato (GLM), corretto per

le covariate, è stato utilizzato per confrontare le medie. Un valore di P<0.05 è

stato considerato come significativo.

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3.2 RISULTATI

I principali parametri considerati in questo studio sono stati riportati in Tabella 1

(Cap. 5.1). Dal momento che non sono state riscontrate differenze significative tra

i gruppi di pazienti suddivisi per il loro stato dialitico, i pazienti sono stati

analizzati come un gruppo omogeneo. I livelli sierici di calcio erano più alti dei

limiti normali in 13 pazienti (10,4%).%). I livelli medi di fosfato tendevano ad

essere bassi, con 39 pazienti (31,2%) sotto i limiti normali. Il livelli di PTH erano

diminuiti dopo il trapianto, tuttavia rimanevano alti in più del 50% dei pazienti.

Per quanto riguarda lo stato vitaminico D, i livelli di vitamina D erano normali in

soli 4 pazienti, mentre il 97% dei soggetti mostrava livelli di vitamina D più bassi

di 80 nmol/L. (Tabella 1, Cap. 5.1). In particolare, circa il 50% della popolazione

di questo studio presentava livelli di vitamina D compatibili con uno stato

carenziale. L’ALP ossea era nel range di normalità, con soli 10 pazienti che

mostravano livelli elevati. Gli 87 pazienti che erano stati sottoposti a

genotipizzazione del CaSR non differivano dall’intera popolazione con

riferimento all’età, distribuzione del sesso, durata dell’insufficienza renale, tipo di

dialisi (emodialisi 73%, dialisi peritoneale 22%, 5% entrambe), tempo trascorso

dal trapianto, dose cumulativa di farmaci immunosoppressivi, livelli di PTH prima

e dopo il trapianto, creatinina sierica, e livelli di vitamina D. Il polimorfismo

A986S era uno dei più comunemente osservati (35%), mentre gli altri due

polimorfismi del CaSR, R990G e Q1011E, erano presenti in un minor numero di

casi (11 e 1% rispettivamente). La distribuzione allelica dei tre polimorfismi è

riportata in Tabella 2 (Cap. 5.1).

La densità ossea del rachide lombare (T-score) era -1,4±1,4 SD, con il 26% dei

pazienti che mostravano valori uguali o inferiori a -2,5 SD. La densità minerale

ossea del femore prossimale e del collo femorale erano -1,3±0,9 SD e -1,7±0,9

SD, rispettivamente. Il 16 % dei pazienti mostrava osteoporosi del collo femorale.

Il 58% dei pazienti presentava almeno una frattura alla morfometria vertebrale.

Due o più fratture vertebrali erano presenti nel 32% dei pazienti e il 17% mostrava

tre o più fratture. Sulla base della classificazione di Genant, non sono state

evidenziate fratture di grado severo, mentre un 30 % erano moderate e il 70%

erano lievi.

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Predittori clinici e biochimici dei livelli elevati di PTH

Accanto all’analisi di regressione univariata, è stata condotta un’analisi di

regressione lineare multipla includendo il PTH come variabile dipendente e un

numero di fattori predittivi. Età, dose cumulativa di metilprednisolone, e livelli di

25OH-D3 sono risultati predittori significativi (Tabella 3, Cap. 5.1).

Risultati sostanzialmente sovrapponibili sono stati ottenuti usando le stesse

variabili in una regressione logistica multipla nella quale si consideravano come

cut off valori di PTH sopra i 65 pg/ml. Età (OR 1.07, C.I. 1.01-1.14), dose

cumulativa di metilprednisolone (OR 1.18, C.I. 1.01-1.40), e livelli di 25OH-D3

(OR 1.18, C.I. 1.01-1.40) rimanevano predittori significativi. Considerando come

cut off valori di PTH superiori a 80 pg/ml, il dosaggio cumulativo di

metilprednisolone non era più significativo (Tabella 4, Cap. 5.1).

Anche dopo correzione per possibili fattori confondenti (Figura 1, Cap. 5.1),

pazienti con livelli di 25OH-D3 <30 nmol/L mostravano livelli di PTH che erano

di 30 pg/ml più elevati rispetto ai soggetti che avevano livelli di 25OH-D3 >30

nmol/L.

Per quanto riguarda il polimorfismo del CaSR, i livelli di PTH non differivano

quando venivano considerati i genotipi, né quando i pazienti venivano raggruppati

per differenti aplotipi, secondo l’analisi di Scillitani et al. (Tabella 2, Cap. 5.1).

Predittori dei livelli di vitamina D

In un modello di regressione lineare multipla in cui il livello sierico di vitamina D

veniva considerato la variabile dipendente, soltanto l’età (β Coefficient -0.203;

P=0.016) e la durata del trapianto (β Coefficient 0.369; P=0.002) erano predittori

significativi dei livelli di vitamina D, dopo aver corretto i risultati per la durata

dell’emodialisi, la dose cumulativa di metilprednisolone, il dosaggio cumulativo

di CsA ed il peso.

Predittori di turnover osseo, densità ossea, e fratture vertebrali

I livelli sierici di ALP ossea aumentavano all’aumentare dei valori di PTH e del

dosaggio di CsA, e diminuivano con l’aumentare del dosaggio cumulativo di

metilprednisolone (Tabella 5, Cap. 5.1).

Nessuna delle variabili considerate era associata alla densità ossea lombare e

femorale.

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I livelli di PTH e la durata del trapianto risultavano seppur modestamente, ma in

modo statisticamente significativo, fattori di rischio per fratture vertebrali, mentre

il dosaggio cumulativo di CsA e mofetil micofenolato risultavano fattori protettivi

(Tabella 6, Cap. 5.1). Dalla stratificazione dei pazienti sulla base del numero di

fratture vertebrali, livelli di PTH erano significativamente più elevati in quei

pazienti con due o più fratture, essendo del 50% più elevati dopo aver corretto per

possibili fattori confondenti (Figura 2, cap. 5.1).

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Capitolo 4

STUDIO LONGITUDINALE

4.1 MATERIALI E METODI

4.1.1 PAZIENTI

Abbiamo studiato una popolazione di 51 soggetti, di cui 39 maschi (78%) e 12

femmine (24%), con BMI medio di 24±4 Kg/m2 ed età media di 53±11 anni. I

criteri di inclusione sono stati: età 25-65 anni , tempo trascorso dal trapianto da 1

a 120 mesi (media di 41±55 mesi), e la creatinina sierica ≤227 µmol/L. I pazienti

sono stati esclusi dallo studio se presentavano livelli sierici di creatinina ≥228

µmol/L e se avevano avuto una storia di diabete mellito prima del trapianto. I

pazienti sono stati sottoposti a wash-out farmacologico di calcio e calcitriolo per

un periodo di quattro settimane.

Le patologie che avevano portato al trapianto erano: nefropatia ipertensiva (18%),

glomerulonefrite cronica (16%), malattia di Berger (8%), nefropatia policistica

(6%), nefrolitiasi (4%), glomerulonefrite membranosa (4%), glomerulosclerosi

segmentale focale (4%), nefrite lupica (2%), sindrome di Alport (2%), nefropatia

diabetica (2%), sconosciute (34%).

Prima del trapianto 26 pazienti erano stati sottoposti ad emodialisi (durata media

34±22 mesi), 21 pazienti a dialisi peritoneale (durata media 24±13 mesi), mentre

4 pazienti non avevano fatta alcuna dialisi.

Al momento dello studio tutti i pazienti erano in trattamento secondo vari

protocolli di terapia immunosoppressiva, con associazioni di glucocorticoidi,

ciclosporina, micofenolato mofetile, FK 506.

Tutti i pazienti sono stati sottoposti a trattamento con colecalciferolo (30 gocce

settimanali pari a 7500 U.I).

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4.1.2 METODI

4.1.2.1 Esami di laboratorio

Tutti i soggetti sono stati sottoposti, dopo digiuno notturno, a prelievi ematici per

il dosaggio sierico di 25-idrossi-colecalciferolo (25OH-D3), paratormone (PTH),

calcio, fosforo, creatinina, al basale (t0), dopo 4 (t1) e dopo 8 (t2) mesi di terapia

con colecalciferolo. Il calcio sierico, il fosfato, e la creatinina sono stati analizzati

con un analizzatore automatico (Tecon Instruments Corp., Tarrytown, NY, USA).

La determinazione quantitativa del PTH è stata ottenuta con metodo

immunoenzimatico con sistema di rivelazione in chemiluminescenza a sandwich

(N-tactTM PTH DiaSorin S.p.A. Saluggia, VC, Italy). Il range di riferimento per

questo metodo è 10-65 pg/ml. In questa popolazione di pazienti, per definire

l’iperparatirodismo sono stati considerati come cut off livelli superiori a 100

pg/ml; è stato scelto questo valore perché tutti i pazienti in studio (100% dei

soggetti) presentavano, al momento della misurazione, valori di paratormone

superiori a 80 pg/ml La determinazione quantitativa di 25OH-D3, (LIAISON

25OH-D3 total Assay, DiaSorin, Saluggia. Vercelli, Italy) è stata fatta con uno

strumento automatico con metodo immunoenzimatico e con sistema rivelazione in

chemiluminescenza. Pazienti con livelli sierici di 25OH-D3 <30 nmol/L sono stati

definiti come pazienti con carenza di vitamina D. Pazienti con livelli sierici di

vitamina D compresi nell’intervallo 31-80 nmol/L sono stati definiti come

pazienti con insufficienza di vitamina D. Pazienti con livelli sierici di vitamina D

>80 nmol/L sono stati definiti come soggetti con valori normali di vitamina D.

4.1.2.2 Statistica

L’analisi statistica è stata eseguita utilizzando SPSS per Windows versione 15.0. I

risultati sono stati espressi come M±DS (media e deviazione standar). L’analisi

della regressione multipla e logistica sono state adoperate per valutare la presenza

di correlazioni tra variabili. Il Modello Lineare Generalizzato (GLM), corretto per

le covariate, è stato utilizzato per confrontare le medie. Un valore di P<0.05 è

stato considerato come significativo.

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4.2 RISULTATI

I principali parametri clinico-demografici sono stati descritti nel paragrafo

precedente.

Al basale t0 il 49% (25 soggetti) dei pazienti presentava livelli di 25OH-D3

<30nmol/L, compatibili con un quadro di carenza (M±DS 21±5), il 51% (26

soggetti) presentava livelli di 25OH-D3 compresi nell’intervallo 30-80 nmol/L

indicativi di un quadro di insufficienza di vitamina D (M±DS 41±8), mentre

nessuno dei pazienti mostrava livelli normali di vitamina D >80 nmol/L.

Considerando come cut-off di iperparatiroidismo per questi pazienti livelli di PTH

superiori a 100 pg/ml, al basale t0 l’80% dei soggetti (41 pazienti) presentava

livelli di paratormone >100 pg/ml con una media di 190±68 pg/ml, mentre il 20%

dei soggetti (10 pazienti) presentava livelli di PTH ≤100 pg/ml, con una media di

90±8 pg/ml (Tabella 1, Cap. 5.2).

In corso di terapia, i parametri sierici misurati al basale e dopo un periodo di 4 e 8

mesi, si sono modificati nel seguente modo: la calcemia variava rimanendo

sempre nei limiti della norma; la fosforemia non si modificava in modo

significativo; la funzione renale peggiorava modicamente, come peraltro da

attendersi (tutti i parametri sono stati riportati in Tabella 2, Cap. 5.2).

In Figura 1 (Cap. 5.2) è rappresentato graficamente l’andamento dei livelli di

25OH-D3 e di PTH dopo 4 e 8 mesi di terapia rispetto al basale: si osserva come

all’incremento dei livelli sierici di vitamina D corrisponda una riduzione dei

livelli di PTH che a 4 mesi è del 22% e ad 8 mesi è del 26%.

Analizzando in dettaglio come si modifica lo stato vitaminico D dopo terapia con

colecalciferolo in questi pazienti si sono ottenuti i seguenti risultati: dopo 4 mesi

di terapia nessun paziente presentava valori compatibili con una carenza di

vitamina D, l’88 % dei pazienti (45 soggetti) presentava valori di 25OH-D3

compatibili con una insufficienza vitaminica D con una media di 60±11, mentre il

12% dei pazienti (6 soggetti) presentava valori di sufficienza di vitamina D con

una media di 86±4 nmol/L. Dopo 8 mesi di terapia solo il 22% dei pazienti (11

soggetti) aveva raggiunto lo stato di replezione con un valore medio di 91±11

nmol/L (Tabella 3, Cap. 5.2).

Per quanto riguarda i livelli sierici di PTH: dopo 4 mesi di terapia la percentuale

di pazienti con PTH>100 pg/ml scendeva dall’80% al 63% (32 soggetti), con un

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valore medio di 158±53 pg/ml; la percentuale di pazienti che dopo 4 mesi di

terapia presentava livelli di paratormone ≤100 pg/ml è aumentata dal 20% al 37%

(19 soggetti).

Dopo 8 mesi di terapia la percentuale di pazienti con valori di PTH>100 pg/ml si

è arrestata sul 63% con un valore medio di 146±44 pg/ml, ed anche il numero di

pazienti con PTH≤100 pg/ml si è arrestato a 19 soggetti (37%) per un valore

medio di 78±11 pg/ml (Tabella 4, Cap. 5.2). Predittori biochimici dei livelli di

paratormone dopo 8 mesi di terapia sono risultati: il valore basale di PTH

(P=0.000) e la variazione dei livelli di 25-idrossicolecalciferolo (P=0.036)

(Tabella 5, Cap. 5.2).

Lo scopo di questo studio longitudinale è stato quello di valutare l’effetto della

terapia con colecalciferolo (30 gocce settimanali pari a 7500 U.I/settimana) sui

livelli di PTH in questi 51 pazienti. La terapia ha indotto una piena sufficienza

vitaminica D solo nel 22% dei pazienti; nonostante questo dato, la terapia con

colecalciferolo ha ridotto i livelli sierici di PTH del 22-26%. Il valore basale di

PTH è risultato il fattore predittivo più potente delle modificazioni dei livelli

serici di PTH nel tempo.

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Capitolo 5

TABELLE E FIGURE

5.1 Studio trasversale

Tabella 1. Parametri clinici, biochimici e scheletrici in pazienti trapiantati di rene,

in relazione ai diversi tipi di dialisi (HD: emodialisi, PD: dialisi peritoneale,

HD+PD: entrambe)

ALL(125) HD(88) PD(28) HD+PD(9) P*

Age (years) 51±11 51±11 51±11 53±10 n.s.

Weight (Kg) 69±11 69±10 68±10 75±17 n.s.

Months since transplant 44±23 50±34 28±25 27±23 0.002

s-Creatinine (53-115 µmol/L) 146±32 148±31 139±31 148±36 n.s.

s-Calcium (2.10-2.60 mmol/L) 2.4±0.2 2.4±0.2 2.4±0.2 2.4±0.1 n.s.

s-Phosphate (0.87-1.45 mmol/L) 0.9±0.2 0.9±0.2 0.9±0.3 0.8±0.2 n.s.

PTH (10-65 pg/ml) 113±83 114±88 100±67 146±69 n.s.

PTH before renal transplantation

(10-65 pg/ml) 304±316 297±293 302±391 374±242 n.s.

25OH-D3 (>80 nmol/L) 40±22 41±24 35±17 38±20 n.s.

BAP (2.7-22.4 µg/L) 11±4 11±4 12±5 9±3 n.s.

PTH >65 pg/ml (%) 68 67 64 72 n.s.

PTH >80 pg/ml (%) 54 52 50 62 n.s.

Vitamin D insufficiency (%) 57 58 54 60 n.s.

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ALL(125) HD(88) PD(28) HD+PD(9) P*

Vitamin D deficiency (%) 40 37 40 35 n.s.

Lumbar spine T-score (SD) 1.4±1.4 1.4±1.5 1.5±1.2 -1.3±1.9 n.s.

Total hip T-score (SD) 1.3±0.9 1.3±0.9 1.3±0.9 -1.1±1.2 n.s.

Femoral neck T-score (SD) 1.7±0.9 1.7±0.9 1.6±1.0 -1.6±1.1 n.s.

Mean daily intake of

Cyclosporine A (mg) 145±179 154±192 120±148 135±136 n.s.

Mean daily intake of

Methylprednisolone (mg) 9±13 8±9 14±22 10±5 n.s.

Patients with vertebral fractures

(%) 57 55 60 57 n.s.

* HD vs PD

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Tabella 2. I livelli di PTH (M±SD) distinti per genotipi e aplotipi del CaSR in 87

pazienti trapiantati di rene (GLM corretto per funzione renale, mesi dal trapianto,

livelli di PTH pre-trapianto, calcio sierico, età, durata dell’emodialisi, dose

cumulativa di metilprednisolone, 25OH-D3)

Locusb Genotipo Na PTH (pg/ml) P

A986S AA 56 124 ± 101 n.s.

AS 29 129 ± 59 n.s.

SS 2 97 n.s.

R990G RR 77 123 ± 90 n.s.

RG 10 144 ± 112 n.s.

GG 0 - n.s.

Q1011E QQ 86 126 ± 91 n.s.

QE 1 68 n.s.

EE 0 - n.s.

Allele Aplotipo Na PTH (pg/ml) P

ARG X/X 2 97 ± 45 n.s.

X/ARQ 39 129 ± 75 n.s.

ARQ/ARQ 46 126 ± 100 n.s.

SRQ X/X 56 127 ± 100 n.s.

X/SRQ 29 128 ± 70 n.s..

SRQ/SRQ 2 97 ± 47 n.s.

AGQ X/X 77 123 ± 90 n.s.

X/AGQ 10 144 ± 110 n.s.

ARE X/X 86 126 ± 90 n.s.

X/ARE 1 67 n.s.

a Numero di pazienti b Nessuna evidenza è stata trovata per il disequilibrio Hardy-Weinberg in ognuno

dei tre loci

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Tabella 3. Predittori clinici e biochimici dei livelli di PTH

Variabile Coefficiente β P

Età 0.233 0.036

Dose cumulativa GC 0.438 0.001

25OH-D3 -0.302 0.003

aRegressione lineare multipla: R2=0.38, P< 0.001. Corretta per funzione renale,

durata dell’emodialisi, mesi dal trapianto, livelli di PTH pre-trapianto, calcio

sierico.

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Tabella 4. Variabili cliniche e biochimiche associate a valori di PTH ≤ vs > 80

pg/mla

Variable OR C.I.

Età 1.10 1.03-1.18

25OH-D3 0.96 0.93-0.99

Durata Emodialisi 1.02 1.01-1.03

aRegressione logistica multipla corretta per sesso, funzione renale, mesi dal

trapianto, PTH pre-trapianto, calcio sierico, dose cumulativa di metilprednisolone.

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Tabella 5. Variabili cliniche e biochimiche associate ai livelli sierici di fosfatasi

alcalina (BAP)a

Variable Coefficiente β P

PTH 0.36 < 0.001

Dosaggio cumulativo di Ciclosporina A 0.29 0.017

Dosaggio cumulativo di Metilprednisolone -0.45 0.001

aRegressione lineare multipla: R2 = 0.23, P < 0.001. Corretta per età, mesi dal

trapianto, livelli plasmatici di 25OH-D3, peso.

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Tabella 6. Variabili cliniche e biochimiche associate a fratture vertebrali.a

Variabili OR C.I.

Mesi dal trapianto 1.04 1.01-1.08

Dosaggio cumulativo di Ciclosporina A 0.99 0.99-1.00

Dosaggio cumulativo di Mofetil Micofenolato 0.99 0.99-1.00

PTH 1.02 1.01-1.02

aRegressione logistica lineare multipla corretta per età, sesso, durata

dell’emodialisi, livelli di PTH pre-trapianto, dose cumulative di

metilprednisolone, livelli plasmatici di 25OH-D3, densità ossea lombare e

femorale.

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Figura 1. Livelli di PTH in pazienti nefrotrapiantati con 25OH-D3≤30 vs >30

nmol/L. GLM corretto per età, funzione renale, mesi dal trapianto, livelli di PTH

pre-trapianto di rene, calcio sierico, dosaggio cumulativo di metilprednisolone,

durata dell’emodialisi.(F= 4.80, P< 0.0001).

a P< 0.05

60

80

100

120

140

160

PT

H (

pg/m

l)

25-OH-vitamin D levels > 30 nmol/L

25-OH-vitamin D levels < 30 nmol/La

-

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Figura 2. Livelli di PTH in pazienti nefrotrapiantati senza fratture vertebrali

(VFx=0), con 1 frattura vertebrale (VFx=1) e con 2 o più fratture vertebrali

(VFx=2+). GLM corretto per età, funzione renale, mesi dal trapianto, livelli di

PTH pre-trapianto, calcio sierico, livelli di 25OH-D3, durata dell’emodialisi (F=

3.64, P= 0.032).

a P< 0.05 vs VFx = 0

60

80

100

120

140

160

PT

H (

pg/

ml)

VFx = 0VFx = 1VFx = 2+

a

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5.2 Studio longitudinale

Tabella 1. Livelli basali (t0) di PTH con cut-off di paratormone di 100 pg/ml.

PTH ≤100 pg/ml PTH >100 pg/ml

N(%) 10(20) 41(80)

Valore 90±8 190±68

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Tabella 2. Parametri sierici al basale, e dopo 4 e 8 mesi di terapia con

colecalciferolo.

t0 t1 t2 p

Ca (mmol/l) 2.40±0.11 2.39±0.12 2.45±0.09 0.002

Pi (mmol/l) 1.02±0.22 1.01±0.22 1.04±0.19 n.s.

Cr (mg/dl) 1.37±0.42 1.50±0.48 1.49±0.46 0.003

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Tabella 3. Livelli sierici di 25OH-D3 al basale e dopo 4 e 8 mesi di terapia con

colecalciferolo.

t0 t1 t2

25OH-D3 ≤30 nmol/l

N (%) 25 (49) 0 0

Valore sierico 21±5

25OH-D3 >>>>30 ≤≤≤≤80 nmol/l

N(%) 26 (51) 45 (88) 40 (78)

Valore sierico 41±8 60±11 62±10

25OH-D3 >>>>80 nmol/l

N (%) 0 6 (12) 11(22)

Valore sierico 91±11

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Tabella 4. Livelli sierici di PTH al basale e dopo 4 e 8 mesi di terapia con

colecalciferolo

t0 t1 t2

PTH ≤ 100 pg/ml

N(%) 10(20) 19(37) 19(37)

Valore sierico 90±8 80±12 78±11

PTH > 100 pg/ml

N(%) 41(80) 32(63) 32(63)

Valore sierico 190±68 158±53 146±44

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Tabella 5. Predittori biochimici dei livelli di PTH dopo 8 mesi di terapia. a

Variabile Coefficiente beta P

PTH (t0)

∆ 25OH-D3 (t2)

0.832

-0.201

0.000

0.036

aRegressione lineare multipla: R2 = 0.72, P < 0.001. Corretto per età, funzionalità

renale, calcio sierico, variazione della calcemia.

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Figura 1. Livelli di PTH e 25OH-D3 al basale e dopo 4 e 8 mesi di terapia con

colecalciferolo.

0

20

40

60

80

100

120

140

160

180

200

220

t0 t4 t8

PTH (pg/ml)25OHD (nmol/l)

* *

* *

-22%

-26%

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Capitolo 6

DISCUSSIONE

L’iperparatiroidismo secondario persistente è molto comune nella maggior parte

dei pazienti trapiantati di rene (Dumolin G., 1997; Messa P., 1998; Giannini S.,

2002; Akaberi S., 2006), sia nel breve che nel lungo termine dopo l’intervento

chirurgico, anche nei pazienti con buona funzione renale (Akaberi S., 2006;

Giannini S., 2001). Diverse cause sono state identificate e, tra queste, un

importante ruolo è giocato dalla persistenza dell’iperplasia delle ghiandole

paratiroidi, specialmente quando è presente un pattern nodulare (Messa P., 1998).

L’espressione del VDR e del CaSR rimane sostanzialmente down-regolata nei

pazienti trapiantati di rene con iperplasia nodulare ghiandolare (Taniguchi M.,

2006), confermando così la loro cruciale importanza nella persistenza dell’ HSPT

dopo il trapianto. Alcuni lavori inoltre indicano che il polimorfismo del VDR può

essere associato ad alti livelli di PTH dopo il trapianto di rene (Messa P., 1998;

Giannini S., 2002). Allo stato attuale non si conosce se i differenti genotipi del

CaSR possano essere associati ad un incremento della prevalenza di SHPT nei

pazienti trapiantati di rene. E’ stato riportato che il polimorfismo del CaSR gioca

un ruolo nella patogenesi e severità dell’iperparatiroidismo primitivo (Scillitani

A., 2007; Yamauchi S., 2000), indicando quindi che la sua influenza genetica può

essere importante nello sviluppo e mantenimento dell’iperfunzione ghiandolare

paratiroidea. Nel nostro studio la valutazione del polimorfismo del CaSR è stata

ottenuta nei 2/3 di un’ampia popolazione di pazienti trapiantati di rene. L’analisi è

stata condotta sia per genotipo che per aplotipo. Nel nostro lavoro non si è trovata

alcuna associazione tra il polimorfismo del CaSR e i livelli di PTH, neanche dopo

aver corretto per le più importanti variabili correlate ai livelli dell’ormone

paratiroideo. Inoltre, i differenti polimorfismi del CaSR non sono risultati

predittori significativi né della densità ossea né di fratture vertebrali nella

popolazione studiata. Si può quindi concludere che il polimorfismo del CaSR non

sembra giocare un ruolo centrale come fattore di rischio per l’iperparatiroidismo

persistente in questi pazienti. Tuttavia non si può escludere che altre condizioni in

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grado di modificare la funzione ghiandolare paratiroidea in modo più robusto,

possano in parte mascherare il contributo del polimorfismo del CaSR.

Negli ultimi anni diversi autori hanno riportato bassi livelli di 25OH-D3 nei

pazienti trapiantati di rene, interessando fino al 70-95% dei soggetti (Lomonte C.,

2005; Querings K., 2006; Boudville NC., 2006; Sadler DM., 2007; Stavrolopoulus

A., 2007; Ewers B., 2008). Nel nostro studio, solo 4 soggetti avevano livelli

sierici normali di vitamina D, il 97% aveva livelli inferiori a 80 noml/L, mentre il

40% rientrava nel range di chiara carenza di vitamina D. I risultati del nostro

studio sono perfettamente in accordo con quelli ottenuti da lavori su popolazioni

di nefrotrapiantati che vivono nei paesi nordici, quali la Danimarca (Ewers B.,

2008), UK (Stavrolopoulus A., 2007), USA (Sadler DM., 2007), Canada

(Boudville NC., 2006), e Germania (Querings K., 2006). Considerando

l’importanza dell’esposizione solare per lo stato vitaminico D, questi risultati

potrebbero apparire piuttosto sorprendenti alla luce del maggiore effetto del sole

alle nostre latitudini. Tuttavia, è ben noto che ai pazienti trapiantati è fortemente

raccomandato di evitare l’esposizione solare, a causa di un aumentato rischio di

sviluppare tumori della pelle (Adorini L., 2005). Nel nostro lavoro non sono stati

specificatamente valutati parametri correlati alla quantità di esposizione solare,

tuttavia, è già stato dimostrato che evitare l’esposizione al sole è una pratica molto

comune nella maggior parte dei pazienti trapiantati di rene; questo spiega i loro

bassi livelli di vitamina D sierica (Ewers B., 2008). Inoltre un’aumentata

conversione del calcidiolo a calcitriolo dovuta agli alti livelli di PTH non può

essere invocata come causa dei bassi livelli di vitamina D riscontrati in questi

pazienti, dal momento che i valori di 1,25(OH)2-D3 sono stati riportati essere

normali-bassi nei pazienti trapiantati di rene (Holick MF., 2007; Ewers B., 2008).

La proporzione e la severità dell’ipovitaminosi D in questo studio sembra essere

più marcata di quella osservata nella popolazione generale anziana italiana (Cayco

AV., 2000). Lo stato vitaminico D non interessa esclusivamente il metabolismo

scheletrico, ma è probabilmente coinvolto nella genesi di malattie cardiovascolari,

oncologiche, metaboliche e immunologiche (Pietschmann P., 1991), che sono

abbastanza comuni tra i pazienti trapiantati di rene. Gli sforzi per ottenere la

replezione di vitamina D in questi soggetti dovrebbero quindi essere almeno tanto

importanti quanto quelli fatti per la popolazione anziana. Come è già stato

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suggerito (Heaf J., 2003), per esempio, lo stato vitaminico D sembra ridurre il

rischio di rigetto nei pazienti trapianti di rene.

Nel nostro studio la carenza di vitamina D è risultata uno dei maggiori fattori

predittivi degli alti livelli di PTH. Questo è di grande importanza, perché

l’iperparatiroidismo secondario persistente è attualmente riconosciuto come uno

dei principali fattori di danno osseo dopo il trapianto di rene. Alti livelli di PTH si

sono dimostrati responsabili dell’incremento del turnover osseo dopo il trapianto

di rene e quindi causa di perdita ossea (Giannini S., 2002; Akaberi S., 2006;

Giannini S., 2001; De Geronimo S., 2006). Il presente studio documenta una

relazione tra la severità dell’ iperparatiroidismo secondario persistente e la

prevalenza di fratture vertebrali su un campione relativamente ampio di pazienti,

inclusi sulla base di criteri clinici e di laboratorio omogenei. E’ stato inoltre

osservato che pazienti con due o più fratture vertebrali avevano livelli di PTH più

alti del 50% rispetto ai pazienti che non presentavano fratture. Il disegno

trasversale di questo studio può limitare la forza di questa relazione causa-effetto,

dal momento che alcune di queste fratture potevano essere presenti già prima del

periodo di osservazione. Tuttavia, questi risultati sono in linea con l’aumentato

rischio di fratture vertebrali e non vertebrali riscontrato in pazienti con

iperparatiroidismo primitivo (Smets YF. 2004; Durieux S., 2002). Inoltre, è stato

dimostrato che l’iperparatiroidismo secondario persistente si associa ad un

incremento del turnover osseo e ad un progressivo declino della densità ossea in

studi longitudinali anche su pazienti trapiantati di rene (Akaberi S., 2006; De

Geronimo S., 2006). Un precedente studio longitudinale su pazienti trapiantati di

pancreas-rene riportava anche un legame tra alti livelli di PTH e l’incidenza di

fratture (Bergua C., 2008). Infine, è possibile che questa associazione non sia stata

riscontrata in altri studi sui pazienti trapiantati di rene a causa dell’esiguo numero

di pazienti nei quali sono state osservate fratture vertebrali (Braga Junior JW.,

2006; Rolla D., 2006; Mazzaferro S., 2006; Wissing KM., 2005). Nel complesso

la persistenza di alti livelli di PTH può essere considerata un importante fattore di

rischio per fratture anche nel lungo termine dopo il trapianto. Ridurre i livelli di

PTH potrebbe quindi essere utile anche in questo contesto. A questo scopo l’uso

di calcio-mimetici potrebbe rappresentare una promettente strategia anche dopo il

trapianto, poiché questo trattamento porta ad una sostanziale diminuzione del

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PTH e del calcio sierico ed ad un incremento della densità ossea (Sahin G., 2008).

Tuttavia questi farmaci sono indicati in caso di ipercalcemia, che può essere

presente in una minoranza di questi pazienti. Inoltre essi non sono in grado di

risolvere il problema dell’insufficienza/carenza di vitamina D, la cui correzione è

utile per ridurre i livelli di PTH, come dimostrato in questo e altri studi (Querings

K., 2006; Ewers B., 2008). In questo ambito è stato ipotizzato che una piena

replezione vitaminica D potrebbe non fare sostanzialmente decrescere i livelli di

PTH nei pazienti trapiantati di rene, considerata la patogenesi multifattoriale della

persistenza dell’iperparatiroidismo (Boudville NC., 2006). In contrasto, numerosi

studi prospettici hanno dimostrato che il trattamento con calcio e vitamina D può

ridurre marcatamente i livelli di PTH nei pazienti trapiantati di rene (Wissing

KM., 2005; Sahin G., 2008). Anche se l’effetto del colecalciferolo nell’abbassare

il PTH necessita di ulteriori valutazioni, questa terapia sembra essere un’opzione

promettente.

La prevalenza delle fratture vertebrali riportata in questo studio è più elevata

rispetto a quella riportata in altri lavori in cui le fratture sintomatiche erano

confermate dal referto radiologico (Bergua C., 2008; Braga Junior JW., 2006), ma

in accordo con la percentuale del 32-50% osservata mediante morfometria

vertebrali, anche in assenza di qualunque segno clinico (Bergua C., 2008; Rolla

D., 2006). A causa del disegno trasversale di questo studio, noi non possiamo

escludere che qualcuno di questi eventi possa essere accaduto diverso tempo

prima del periodo di osservazione. Tuttavia, un aumento progressivo del rischio di

frattura è stato osservato in uno studio di follow-up a 15 anni dopo il trapianto di

rene (Vautour LM., 2004). Smets YF. et al., nel loro studio di follow-up di 4 anni

su pazienti trapiantati di pancreas-rene, hanno anche dimostrato che tutte le

fratture avvengono più di un anno dopo il trapianto (range 1.3-4.0 anni). In

accordo, abbiamo osservato che il tempo trascorso dal trapianto era un predittore

significativo del rischio di frattura vertebrale. Questi dati non erano sorprendenti,

dal momento che molti fattori di rischio per frattura tendono a persistere oltre il

corso della vita clinica di questi pazienti.

Nonostante il suo effetto dannoso sull’osso, il trattamento con glucocorticoidi è

necessario per molti pazienti anche nel lungo termine dopo il trapianto. Come

osservato in studi precedenti (Vautour LM., 2004), anche nel nostro lavoro non è

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stata trovata alcuna associazione tra la dose cumulativa di steroidi e fratture.

Tuttavia l’effetto negativo di questi farmaci sull’osso è ben noto (Manolagas SC.,

1999). In accordo, si è osservato che il dosaggio cumulativo di metilprednisolone

era negativamente associato con la fosfatasi alcalina ossea, che indica un effetto

negativo del farmaco sull’attività osteoblastica. Uno sproporzionato incremento

del rischio di frattura in rapporto ad una densità ossea non particolarmente

compromessa può anche essere considerato come una possibile espressione di

danno osseo indotto da glucocorticoidi (Braga Junior JW., 2006; Mazzaferro S.,

2006), anche se non si può escludere che l’assenza di correlazione tra la densità

ossea e la prevalenza di fratture possa essere dovuta a fattori quali il disegno dello

studio trasversale e l’alterazione nella qualità dell’osso. Per quanto riguarda la

terapia immunosoppressiva, è emerso che la ciclosporina A è associata ad un

incremento della fosfatasi alcalina ossea (BAP) e ad un decremento delle fratture

vertebrali. Sebbene questo studio non fosse specificatamente designato per

indagare questa problematica, è interessante notare che l’effetto favorevole della

ciclosporina A sia già stato riportato (Yeo H., 2007; Westeel FP., 2000). Tutti

questi dati suggeriscono che il periodo di osservazione per verificare la morbidità

dovrebbe essere esteso anche nel lungo termine dopo il trapianto di rene.

In conclusione, si conferma che l’iperparatiroidismo secondario persistente è

comune nel lungo termine nei pazienti trapiantati di rene, e risulta coinvolto nella

patogenesi delle fratture vertebrali. Mentre il polimorfismo del CaSR non ha

effetto sui livelli di PTH in questo contesto, il basso livello di vitamina D è un

determinante ben stabilito di questo disordine funzionale paratiroideo.

Sulla scorta di queste osservazioni, nella seconda parte del lavoro (studio

longitudinale), sono stati indagati i potenziali benefici della supplementazione di

colecalciferolo in questa tipologia di pazienti.

L’iperparatiroidismo secondario persistente si conferma estremamente frequente

anche in questa popolazione, interessando più dell’80 % dei soggetti. La

prevalenza di ipovitaminosi D è risultata altissima in questi pazienti. Nessun

paziente, al basale, presentava livelli di vitamina D riferibili ad una condizione di

normalità (>80 nmol/L). L’ipovitaminosi D si conferma tra i fattori predittivi

significativi dei livelli elevati di PTH, assieme ai livelli di PTH al basale.

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Dati recenti in letteratura hanno dimostrato come il raggiungimento di livelli

sierici di vitamina D superiore ai 75-80 nmol/L permetta un calo dei valori di PTH

nei pazienti non trapiantati (Holick MF., 2007; Chapuy MC., 1992; Holick MF.,

2005; Thomas MK., 1998). Le recenti linee guida della National Kidney

Foundation raccomandano la supplementazione con colecalciferolo, piuttosto che

con calcitriolo, nei pazienti con ipovitaminosi D ed insufficienza renale cronica

allo stadio 3 e 4 al fine di migliorare lo stato vitaminico D e ridurre i livelli di

PTH (National Kidney Foundation, 2003; Kooienga L., 2009; Chandra P., 2008).

Nel nostro studio i livelli di PTH, dopo 8 mesi di trattamento con colecalciferolo,

si sono ridotti modestamente (del 26 %). Sicuramente questo risultato è stato

condizionato dal fatto che solo il 22 % dei nostri pazienti ha raggiunto la piena

sufficienza vitaminica D, nonostante il dosaggio utilizzato (>1000 UI/die) sia

stato quello raccomandato dalle più recenti linee guida per la popolazione

generale. Anche in altri studi su soggetti nefrotrapiantati in cui si sono utilizzati

dosaggi più elevati rispetto al nostro (Priè D. et al., 2009), la dose è risultata

insufficiente a mantenere i livelli di vitamina D sopra 75-80 nmol/L. Questo fatto,

di cui non si conoscono le cause, è di particolare rilievo e merita sicuramente

ulteriori studi. L’incremento vitaminico D osservato si è confermato un predittore

significativo del decremento del PTH. Tuttavia è verosimile che, in questa

tipologia di pazienti, siano necessari dosaggi più elevati di colecalciferolo al fine

di indurre un più marcato controllo del PTH. Non si può escludere che fattori

genetici possano condizionare l’entità del decremento del PTH . Abbiamo visto

come un dato polimorfismo del recettore della vitamina D influenzi i livelli di

PTH post-trapianto (Messa P., 1998; Giannini S., 2002). E’ possibile che

particolari polimorfismi del VDR modulino la risposta del PTH alla terapia con

colecalciferolo.

Il fattore predittivo più importante dei livelli di PTH è risultato il valore di PTH al

basale ed è possibile che la quota di PTH sopprimibile dalla terapia con

colecalciferolo sia inferiore nei pazienti con PTH al basale più elevato. Si tratta di

pazienti con forme di iperplasia nodulare in cui, come è noto, si osserva una

down-regulation dei VDR e del CaSR (Yano S., 2002).

Anche il certo grado di insufficienza renale, che spesso in questi pazienti persiste

dopo il trapianto, può, in parte, spiegare la mancata soppressione della risposta

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paratiroidea, principalmente mediata dall’effetto dell’1,25(OH)2-D3, metabolita

attivo del sistema endocrino della vitamina D, sintetizzato nel rene.

Un’altra ipotesi risiede nel riscontro, non infrequente in questa tipologia di

pazienti, di livelli aumentati di FGF-23. Si tratta di una fosfatonina che esercita un

ruolo fondamentale nella regolazione del metabolismo del fosforo, in particolare

nella genesi dell’ipofosfatemia. L’FGF-23, inoltre, inibisce la conversione renale

della 25OH-D3 in metabolita attivo. E’ possibile che una certa quota dei nostri

pazienti avesse livelli elevati di FGF-23 e quindi richiedesse dosi maggiori di

colecalciferolo per ottenere una produzione di calcitriolo tale da ridurre il PTH.

Purtroppo lo studio non prevedeva il dosaggio dell’1,25(OH)2-D3 né dell’FGF-23.

Questo rappresenta sicuramente un limite del lavoro.

Il trattamento con colecalciferolo si è associato ad un lieve incremento dei livelli

di calcemia, sempre rimasti nel range di normalità e ad un lieve peggioramento

della funzionalità renale, tuttavia difficilmente ascrivibile alla terapia con

colecalciferolo. La mancanza di un gruppo di controllo ci impedisce di valutare a

fondo questo aspetto circa le sue possibili cause (naturale progressione della

patologia renale di base, terapia immunosoppressiva).

I dati emersi dal nostro studio sono sicuramente interessanti, ma preliminari. Si

tratta di questioni estremamente attuali e dibattute e nuovi studi si rendono

necessari per trarre ulteriori conclusioni.

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Capitolo 7

CONCLUSIONI

L’iperparatiroidismo secondario persistente si conferma essere molto frequente

dopo il trapianto di rene; anche l’ipovitaminosi D è estremamente comune nei

pazienti trapiantati di rene, ed essa rappresenta un ulteriore fattore di rischio per la

persistenza di alti valori di PTH.

Per quanto riguarda il ruolo del polimorfismo del CaSR nella patogenesi della

persistenza dell’iperparatiroidismo secondario persistente, i dati ricavati da questo

studio sembrano escludere correlazioni significative tra i polimorfismi del CaSR e

i livelli di PTH sierico.

La terapia con 7500 UI/settimana di colecalciferolo ha indotto una piena

sufficienza vitaminica D, a 4 mesi, solo nel 12 % dei pazienti, mentre a 8 mesi di

terapia, solo nel 22% dei pazienti. Per quanto riguarda l’effetto della terapia sui

livelli sierici di PTH, essi si sono ridotti del 22% dopo 4 mesi e del 26% dopo 8

mesi di terapia.

Il valore basale di PTH è risultato essere il fattore predittivo più potente nel

predire le modificazioni a 8 mesi dei livelli sierici di PTH.

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BIBLIOGRAFIA

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