INVISIBILI

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Vivere e morire all'Ilva di Taranto. L’Ilva è carne viva, metafora di una condizione universale, piccolo spaccato di mondo. Una fabbrica non soltanto di acciaio ma di storia e storie. E sullo sfondo una città lontana assente, dai contorni sfumati come fosse di sabbia, la stessa sabbia che si indurisce nel naso e lo fa sanguinare. Invisibili di Fulvio Colucci e Giuse Alemanno è un lavoro a quattro mani che raccoglie e racconta storie di uomini la cui vita è indissolubilmente legata al lavoro, sospesa in aria come il braccio di una gru, operai del più grande stabilimento siderurgico d’Europa, l’Ilva di Taranto.

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traversamenti 01

collana diretta da Anna Chiriatti

Traversamenti sono incontri di creature, di pensieri, di luoghi, di storie,passioni, percorsi, progetti, memorie.

Traversamenti sono narrazioni di esperienze, avventure, nostalgie, de-sideri, partenze. Ritorni. Di fughe e di sogni a occhi aperti. Sentimenti eincanti di realtà.

Sono movimenti obliqui, in bilico sugli argini di cronaca e racconto. Inda-gano differenze. Scrutano orizzonti. Scavano le rocce. Scandagliano i fondali.

Traversamenti sono interrogazioni del tempo, sconfinamenti di spazi,oltrepassamenti di frontiere. Pietre di fionda che frantumano vetri.

Sono tensioni di futuro. Traversamenti.

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Fulvio ColucciGiuse Alemanno

InvisibiliVivere e morire

all’Ilva di Taranto

Introduzione di Lino Patruno

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Edizioni KurumunySede legaleVia Palermo 13 – 73021 Calimera (Le)Sede operativaVia San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le)Tel e Fax 0832 801528

www.kurumuny.it • [email protected]

ISBN 978-88-95161-48-8

I brani presenti in questo volume sono stati scritti tra il 2007 e il 2010.

© Edizioni Kurumuny – 2011

In copertina e all’interno illustrazioni di Christian [email protected]

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Questo libro è dedicato

a tutte le vittime

dell’Ilva di Taranto

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9 Introduzione di Lino Patruno

Fulvio Colucci

15 Ilva

24 Confessione

34 Angelo

38 Epilogo

41 La città non dimentichi

46 Si chiamava Antonio

49 Il funerale

52 Il dio degli operai

54 La favola del metalmezzadro

62 Intervista a Nino Aurora

65 Pescatore e operaio

71 Bambini

Giuse Alemanno

79 Ilva si comincia

84 L’Ilva non esiste

91 L’Ilva e Antonio

98 Il vuoto

101 Il silenzio dell’Ilva

104 Cinquant’anni d’acciaio

106 Racconto di Ferragosto

Indice

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IntroduzioneLino Patruno

Sono stato una sola volta nell’Ilva di Taranto, da gior-nalista. Ricordo che quando ne uscii luccicavo tutto comeun albero di Natale: mi dissero che non era polvere di stelle,ma polvere di ferro. Andando in giro nell’immane perdi-mento di strade e reparti e strutture minacciose, mi preseuna strana inquietudine. E mi vidi e sentii sempre avvoltoda una nuvolaglia che ti inghiotte e che inghiotti. Quindiposso almeno superficialmente capire il racconto che nefanno Fulvio Colucci da cronista e Giuse Alemanno da la-voratore. E quanto alle tute, ne so qualcosa di quegli odorie colori essendo io figlio di operaio e avendone viste sgoc-ciolare inchiostro e fatica. Non sapevo tutto il resto, ciò chenon si vede perché è custodito nell’animo di chi ogni giornolà dentro si guadagna la vita consumandosela.

Perché questo è il principale pregio del loro Invisibili, lanarrazione di un’umanità divisa fra la necessità e il rifiuto,la psicologia di chi ogni giorno varca quei cancelli aspet-tando il momento di uscirne, il malessere di chi sa che nonpuò farne a meno pur essendone sempre tentato, l’incubodella notizia drammatica che un giorno potrà riguardare tema che anche per questa volta non ti riguarda. Perché sifa presto a dire che l’Ilva è, come siamo abituati a sentirneparlare, il mostro che erutta fuoco e veleni, l’allucinazionedi tentacoli che sembrano artigliare la città, lo spettralescenario arrossato, l’immagine futurista di un pianeta diAvatar che un giorno ci divorerà tutti nell’apocalisse di ciòche resta dell’unica Terra che avevamo e non abbiamo sa-

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puto difendere. L’Ilva non è soltanto il peggiore o il miglioreromanzo di fantascienza o il peggiore o migliore film dellacatastrofe. L’Ilva è anche volti stanchi, epopea di pendolari,famiglie e figli, doveri e rancori, solidarietà e silenzi, veritàe menzogne. L’Ilva è carne viva, metafora di una condizioneuniversale, piccolo spaccato di mondo. Una fabbrica nonsoltanto di acciaio ma di storia e storie.

La ricordiamo, quando si chiamava Italsider e la manda-rono in Puglia perché fosse uno tra i capisaldi dello sviluppodel Sud, fiore all’occhiello della Cassa per il Mezzogiorno. Ilgrande stabilimento che non doveva cambiare soltantoun’economia ma addirittura una antropologia. Doveva far na-scere il metalmeccanico dove c’era stato sempre il contadino,doveva introdurre l’industria come il tempio profetico di unuomo nuovo da creare, di una religione da diffondere e di untempo diverso da inventare, doveva riscattare la campagnada un passato da dimenticare e proiettarla in un futuro dasantificare. Ciminiere da «magnifiche sorti e progressive».

Di quel sogno, o di quell’illusione, o di quell’inganno, diquei grandi stabilimenti è rimasta appunto soltanto l’Ital-sider anzi l’Ilva. E anche il cambio del nome, al di là delpassaggio dalla proprietà pubblica a quella privata, segnauna sorta di cesura verso scelte politiche simbolo di unastagione, emblema di una ennesima occasione perduta perle aspettative del Sud. Sono finite in macerie ancora da bo-nificare tutte le altre cosiddette industrie di base, dalla chi-mica al petrolio. Quelle che avrebbero dovuto creare unatradizione produttiva dove non c’era mai stata anzi erastata cancellata. Quelle che avrebbero dovuto creare un in-dotto che nel trionfalismo dei progetti si sarebbe dovuto al-largare a macchia d’olio. Quelle che innalzando ciminiereal cielo avrebbero dovuto farne scendere la benedizione.

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Nell’eterogenesi dei fini, cattedrali sono diventate, macattedrali nel deserto. Anzi è rimasto il deserto e sono spa-rite le cattedrali. I metalmeccanici restarono al massimometal-mezzadri, metà in fabbrica metà nei campi, una per-dita di identità che in verità non ne faceva più né metal némezzadri, né operai né contadini. E lo sviluppo auto-pro-pulsivo che centinaia di convegni avevano promesso e con-trabbandato non ebbe mai l’attesa forza di propulsione conquella strategia non si sa quanto troppo fiduciosamente equanto troppo dolosamente affidata a impianti inquinanti,ingombranti, devastanti. Impianti ad alta intensità di ca-pitale e a bassa intensità lavorativa: insomma una quantitàirrisoria di lavoro rispetto all’impiego di risorse, il contrariodi quanto al Mezzogiorno serviva e di cui tutti sapevano.Con prodotti intermedi come l’acciaio, la chimica o il pe-trolio che erano semilavorati per la solita industria del Norddove diventavano prodotti finiti con annesso profitto che ri-maneva lì invece che al Sud. Una beffa.

Perciò la salvezza solitaria dell’Ilva in un panorama me-ridionale in cui neanche Bagnoli ha resistito, il passaggiodall’inefficienza pubblica all’efficienza privata è avvenutocon un peccato capitale addosso. Quello che anzitutto fa diTaranto una fra le città più inquinate d’Italia. Col cielo piùplumbeo del Mediterraneo. Con l’adiacente quartiere deiTamburi, paradossalmente nato come quartiere operaio,sempre sommerso di polvere rossa. Con la denuncia di unnumero insostenibile di malattie ambientali, a cominciaredai tumori. Con la continua lotta alla diossina e una lun-ghissima battaglia legale e politica.

Ma la salvezza solitaria dell’Ilva si staglia anche in unpanorama umano che, lungi dal creare il progettato uomonuovo, ha sgominato la mitica classe operaia. L’ha sgomi-

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nata al punto che, come dicono Colucci e Alemanno, cisono stati casi di scioperi ai quali i padri hanno aderitomentre i figli sono andati a lavorare per conservare il posto:mito addio, è l’ora del bisogno. Dallo scontro di classe alloscontro familiare. Dall’«orgoglio siderurgico» a qualcosa «dachiudere dietro la porta di casa a fine turno». Figli contropadri, sembra il titolo di uno dei film di questi tempi. Padri,aggiungono i due autori in fulminante tono impressioni-stico, che bloccavano la fabbrica per un’inezia, che avevanoun linguaggio incendiario nelle assemblee, che passavanoil tempo libero nelle sezioni del Pci col «Manifesto» sotto ilbraccio. E figli che preferiscono la partita di calcio al dibat-tito politico (anzi al «dibbattito», come si diceva), frequen-tano gli ipermercati invece delle sezioni, privilegiano ilmicroonde al Capitale di Marx, hanno il torneo aziendalecome coscienza di classe. Figli che, soprattutto, sognano ladivisa da carabiniere per andar via di lì. Pur restandone ag-grappati con una frustrazione e un addio alle armi che iloro padri non avevano mai vissuto. Una de-sindacalizza-zione nel luogo in cui il proprietario Emilio Riva è stato con-dannato per mobbing a danno di sindacalisti confinatinell’inattività di una palazzina-lager.

Anche per questo stenta a ingranare il progetto tantoestremo quanto paradossale di chi si batte per un referen-dum a favore della chiusura totale dell’Ilva o almeno dellasua area a caldo, una chiusura totale camuffata. Una si-tuazione in cui ci sono già stati esodi incentivati di un mi-gliaio di dipendenti sui 13 mila del più grande stabilimentod’Italia e più grande stabilimento siderurgico d’Europa. Incui il ricorso alla cassa integrazione è pressoché continuoe fraziona, divide, spezza la solidarietà. E in cui i massicciinvestimenti hanno portato solo qualche anno fa a una pro-

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duzione record che la crisi mondiale ha reso ormai un ri-cordo, anche se i numeri ricominciano faticosamente a sa-lire. Perdereste il lavoro per una coscienza di classe?

Per fortuna da un paio di anni lì dentro non si perde piùla vita, non ci sono stati ulteriori incidenti mortali per i la-voratori dipendenti. Hanno inciso, inutile nasconderlo, ilcalo della produzione e la cassa integrazione. Ma anche lemisure di sicurezza aziendali, i controlli, le verifiche. Conla regola non detta di «tenere gli occhi aperti, sempre gliocchi aperti», di «guardare sempre la gru, mai darle lespalle». C’è però ancora molto da fare verso certi compor-tamenti individuali troppo superficiali e disinvolti, verso la«maledetta fretta». C’è però ancora molto da fare per il la-voro in appalto, con le aziende dell’indotto non altrettantocorazzate in queste vitali attenzioni, in grave crisi con laperdita di 5 mila posti di lavoro e la chiusura di molte diloro, troppe. E tuttavia dal 1993, ultimo periodo di gestionestatale, gli incidenti mortali sono stati una quarantina,prezzo comunque insopportabilmente alto pagato a un la-voro per vivere e non per morire. Con lentezza dei processie pene giudicate troppo miti. E sempre «la paura boia dinon tornare a casa»: perché, dicono Colucci e Alemanno,«come si fa a spiegare a un bambino che non rivedrà piùsuo padre solo perché è andato a lavorare»?

Questo mio secondo viaggio nell’Ilva attraverso le paginedi un libro mi lascia ancora la loro polvere ovunque «comeuna estrema unzione». Mi lascia il calore di là dentro, conle loro tute come pesanti corazze. Mi lascia il rumore, «con-tinuo, persistente, fisico». Mi lascia lo scoppio della ghisaliquida che prende fuoco, «una bomba che fa tremare tuttoin un raggio di sei chilometri, e ti stordisce, ti afferra, tisvuota». Mi lascia il loro incubo di dover lavorare affron-

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tando la notte, il freddo, la paura del primo turno. Ma milascia anche il rapporto difficile della sua gente con la città,tacciata di essere presente solo ipocriticamente ai funerali.E mi lascia la loro sensazione di essere al lavoro «solo conil corpo», invisibili. Di ragazzi attirati solo «da miti balordidi successo, denaro facile e puttanizio» perché «ora c’è piùricchezza ma siamo uomini persi».

I bambini di Taranto si sono messi a marciare armati dimatite e colori per disegnare un arcobaleno di speranzadove la gioia sembra essere smarrita, per scrivere lettere:«Vorrei che l’Ilva diventasse un parco giochi con i fiori chespuntano nell’erba». E c’è chi continua a parlare di «ricattooccupazionale», o così o niente. Ma ho trovato infine in que-sto libro di Fulvio Colucci e Giuse Alemanno una defini-zione dell’Ilva come «monumento del lavoro del Sud». È ciòche mi ha lasciato più convinto. E su cui, nonostante tutto,pianto anche la mia bandiera.

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Ilva

«Facciamo gli operai, ma sogniamo la divisa da ca-rabiniere. La speranza? Andare via, lontano da qui».A Taranto le tute blu dell’Ilva hanno cambiato pelleprima che altrove. La globalizzazione è anzitutto iltempo che non c’è più: per discutere, conoscere, trac-ciare una linea di demarcazione intorno alla propriaidentità. La generazione dei Cipputi è scomparsa conl’avvento della privatizzazione dello stabilimento side-rurgico, a metà degli anni ’90. Uno svecchiamento ra-pido e progressivo. La morte del metalmezzadro, lanascita dell’operaio-massa: senza volto, senza nome,senza qualità. Lontano mille miglia dal padre chebloccava la fabbrica per un’inezia, che alle assembleeinterveniva con parole di fuoco e la sera ciondolavanelle sezioni del PCI con la copia del «Manifesto» sottoil braccio. Un sondaggio, qualche anno fa, ha rivelatonon solo che la divisa da carabiniere è il sogno, mache i giovani operai preferiscono la partita di calcettoal dibattito politico, gli ipermercati agli incontri nellesezioni, il forno a microonde al Capitale di Carlo Marx.Il torneo aziendale come coscienza di classe.

Tutti in trincea, quando uno di loro cade divoratodal solito incidente, quando è un martello in testa aucciderli con la fredda, feroce, precisione di un cec-chino; o quando, allo scoperto, magari per verificareil maledettissimo fine corsa, ci pensa un tubo a tran-

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ciarli in due con la furia di una cannonata, allora èl’urlo del silenzio a parlare per quelli dell’Ilva. «L’in-fortunio mortale – raccontano – è come il mare. Nonfa differenza tra la tempesta e una bella giornata disole. Ti prende e ti porta via con sé».

I ragazzi d’acciaio non ridono. Sorridono semmai,di un sorriso acerbo, enigmatico. Basta guardare lefototessera dei loro compagni morti. Quando il cada-vere di un compagno giace all’obitorio, ammesso chesi cerchino parole, è più facile trovare la rabbia. Piùdifficile vincere la diffidenza e chiedere di capire ungiorno qualsiasi, un giorno come tanti, stretto fra laroutine del normalista – ingresso in fabbrica pocoprima delle sette, uscita alle 16 – e l’ottovolante deiturnisti che corre, vorticoso, lungo un arco diviso intre spicchi di otto ore con la notte in mezzo e la pauraboia di non tornare a casa. Sembra una banalità elen-care i turni all’Ilva. Invece è una contabilità preziosa.Perché dietro i numeri ci sono uomini, vite, raccontidi carne e sangue, storie di piccole e grandi meschi-nità, ma anche di gesti solidali rubati al fuoco e allapolvere. Perché normalisti e turnisti vivono vite paral-lele. Perché per alcuni la normalità dalle 7 alle 16 èuna conquista più grande, addirittura, dei mille e set-tanta euro in busta paga alla fine del mese. Perché«c’è chi fa il deejay o il pizzaiolo e arrotonda, allora ilturno gli fa comodo. Tutti devono sapere». Soprattuttochi chiude gli occhi, chi non parla, chi guarda altrove,chi fa finta di niente, immaginando solo un buco nerodove le ciminiere pungono il cielo.

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All’Ilva non c’è tempo per discutere. Le priorità re-stano la sicurezza sul lavoro, il dialogo tra proprietàe dipendenti, le relazioni stesse fra operai e sindacati,il rapporto tra fabbrica e città. Il modello fordista quiè tramontato prima che nel resto del Paese. Tarantoaveva ipotecato il futuro legando i suoi destini econo-mici (e sociali) alla produzione dell’acciaio. La centra-lità delle tute blu, la loro forza contrattuale e diinterdizione, sono solo un ricordo sbiadito. Tutto ènato nella seconda metà degli anni ’90, con la priva-tizzazione, l’avvento del gruppo Riva, lo sconvolgi-mento delle relazioni industriali. Il padrone fischiò lafine della ricreazione; insostenibile la posizione deisindacati perché inconciliabile con la ristrutturazioneglobalizzante del mercato. Tramontava il loro dominioall’interno dello stabilimento, un dominio in splendidasolitudine, generato dalle Partecipazioni Statali. Con-quistata progressivamente, a partire dagli anni ’60 e’70, l’egemonia sindacale era diventata orgoglio side-rurgico, influenzando anche culturalmente la città.«Oggi non è più così – spiegano i giovani lavoratori del-l’Ilva – e quando i sindacati cantano vittoria, parlandodi massicce percentuali di adesione agli scioperi, bi-sognerebbe guardare ai numeri con realismo. A scio-perare sono in pochi».

«Potremmo star qui a raccontare per ore, ma solochi fa il nostro lavoro ci capisce!». Giurare e spergiu-rare che si manterrà l’anonimato, tentando di spie-gare in maniera almeno netta quel che prova unragazzo dell’Ilva serve a poco. La diffidenza nei con-

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fronti di chi non è come loro, di chi non è uno di loro,sembra un marchio a fuoco. Te la senti addosso, in-delebile, sulla pelle.

Eppure aiutarli, aiutare quei ragazzi, significa, inqualche modo, dar loro voce con tutte le imperfezionie i limiti di un racconto. Usando quelle maledettis-sime parole che, proprio quando una vita si spezza,sembrano ancor più false nella loro diabolica caricaseduttiva. «Ci sentiamo abbandonati. La città? È lon-tana. Un miraggio, oltre il mare. Il sindaco, in Consi-glio comunale, ha detto che indossa la tuta daoperaio. Ma l’ha mai visto un treno nastri? E le coke-rie? Dovrebbe stare un giorno con noi. Dentro lo sta-bilimento siderurgico. Senza preavviso. Senza squillidi fanfare. Dovrebbe presentarsi ai cancelli della fab-brica, entrare, indossare il casco, la tuta pesante chequando fa caldo è peggio di una tortura. E lavorare.Correre, timbrando sei volte il cartellino con il timoredi far tardi, sentendo tutto il peso del tempo che è untiranno crudele; conoscere noi, le nostre ansie, lemogli appese al filo della TV, la paura di ascoltare –da un momento all’altro, da un giorno all’altro – la no-tizia: incidente mortale all’Ilva. E un nome, un co-gnome, che non vorrebbero mai sentire così».

Riva ha modificato profondamente le relazioni sin-dacali: imponendo a Fim, Fiom e Uilm una trattativaestenuante sulla riscrittura dei rapporti per contenerela loro influenza in fabbrica. Una rivoluzione. Senza te-mere di arrivare a punte di scontro drammatiche comenel caso della palazzina Laf, il reparto confino o reparto

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lager, dove sono stati spediti, alla fine degli anni ’90, isindacalisti riottosi al nuovo corso. E poi l’eterna de-bolezza del Mezzogiorno: il lavoro. Riva ha puntato suquesto, giocando una carta importante in coincidenzacon la ristrutturazione dello stabilimento di Taranto:l’assunzione dei figli dei dipendenti in prepensiona-mento. All’Ilva il ricambio generazionale è coinciso conuno scontro tra vecchi e giovani. I ventenni e trentenniimmessi nel ciclo produttivo, desindacalizzati attra-verso una paziente attività di persuasione aziendale eaggrappati al posto come unica risorsa per la soprav-vivenza, sono inevitabilmente finiti in rotta di collisionecon gli operai sopravvissuti alla rivoluzione in fabbrica:gli ultimi giapponesi nella giungla per i quali il sinda-cato era, ancora, l’estremo baluardo, lo scudo controil nuovo padrone. Ci sono stati scioperi, alla fine deglianni ’90, durante i quali non era raro vedere padri chenon andavano al lavoro e figli che invece entravano infabbrica per non rischiare il licenziamento. Non erararo assistere a episodi di tensione: lo scontro di classetrasformato in conflitto tra padri e figli. La nuova que-stione sociale già sotto gli occhi attoniti di una cittàprima che diventasse emergenza nel Paese. Frequentevedere padri che scioperavano, accompagnando i figlial lavoro in una biblica confusione dei ruoli tra Abramoe Isacco. Chi si disponeva al sacrificio?

Ai ragazzi dell’Ilva l’azienda appare un’entità vicina,vicinissima, eppure astratta. C’è, vede tutto, orga-nizza tutto: dalle mansioni ai budget di reparto perincentivare il lavoro, fino ai tornei di calcetto; prova

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persino ad alimentare lo spirito di corpo premiandosensibilità spiccate verso la fabbrica e record di pro-duttività; e a fine anno ci sono buoni acquisto per ipiù meritevoli: dal vestiario ai momenti di svago in di-scoteca. Ma a furia di finire sui giornali e in TV – trainquinamento e morti bianche – l’Ilva sembra diven-tare altro. In questo contesto si acuisce, anche psico-logicamente, il solco tra lavoro e produzione, ma sialimenta anche lo strappo avvertito dagli operai ri-spetto alla città. Mai un giovane lavoratore si lamen-terà perché l’azienda infrange le regole, anzi: «Adisposizione – raccontano – c’è tutto quello che lalegge prevede dal punto di vista della sicurezza per-sonale: dal casco, alla tuta, ai guanti». I ragazzi d’ac-ciaio citeranno, piuttosto, i giornali, spiegando chetutti additano l’Ilva per nascondere le proprie colpe.«Si sprecano i titoli sul gigante malato; tutti parlanodi morti bianche e ambiente. Tutti dicono che bisognarivedere gli accordi per la lotta all’inquinamento e perla sicurezza sul lavoro salvo poi lasciarci soli a pian-gere il prossimo compagno morto sul lavoro». Ecco ilpunto.

Oggi i ragazzi dell’Ilva non hanno più riferimenti.Verso i sindacati c’è diffidenza a meno che non si siadentro il meccanismo delle deleghe e della rappresen-tanza. Un club esclusivo. «Ma quello delle tessere diiscrizione – dicono – è un gioco, un Risiko. Ci sareb-bero i Cobas, sì. Quelli lo stabilimento lo blocchereb-bero, ma sono quattro gatti». Così la politica, con leparole, le promesse, e l’impotenza verso il ricatto oc-

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cupazionale. I limiti dell’azione dei soggetti istituzio-nali, che incarnavano gli interlocutori privilegiati delletute blu, si scontano soprattutto sul terreno acciden-tato e doloroso della sicurezza. I ragazzi dell’Ilva nonparlano. Hanno paura, chiedono, a giornali e TV,l’anonimato. Sanno che rischiare il posto è più peri-coloso, in una realtà depressa e dissestata come Ta-ranto, di un tubo che trancia in due o di un martelloche dal carroponte viene giù come un proiettile. Ep-pure la voglia di dire qualcosa c’è. Raccontare i proprisogni: «Timbriamo il cartellino un numero infinito divolte, corriamo sempre da un reparto all’altro. Da ungiorno all’altro possiamo trovarci a svolgere mansionidiverse. L’ambizione? Lavorare evitando la notte, ilfreddo e la paura».

A casa ci sono mogli, madri, figli molto piccoli cheaspettano. Ma questi giovani spesso sono costretti atener dentro le paure: «A casa della fabbrica non par-liamo, per parlare di cosa poi? I dialoghi, anche con icompagni di lavoro, sono una via di fuga. Un altroveche ci piacerebbe raggiungere in fretta, esiste: viadalla fabbrica alla fine della giornata lavorativa. Ilpensiero è fisso perché sappiamo di non avere la forzadi cambiare le cose. Chi pensa, tra noi, è in mino-ranza». Non manca l’atto d’accusa verso se stessi:«Generazione dei telefonini e delle fuoriserie acqui-state senza aver nemmeno ricevuto la prima bustapaga. Così ti sei già indebitato fino al collo. Genera-zione che riesce a raccogliere tremila firme per averepiù tempo durante la pausa pranzo in fabbrica, ma

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poi non riesce a imporre le proprie rivendicazioni perdebolezza e conformismo». Generazione che non hasaputo governare – per colpa di una città assente; percolpa del deficit di rappresentatività della politica edel sindacato – la quasi schizofrenica divaricazionetra l’Ilva che rispetta le norme e l’Ilva che finisce suigiornali additata come il mostro che sputa veleno in-quinando e divora le vite dei lavoratori sacrificatesull’altare degli incidenti in fabbrica. L’Ilva che orga-nizza la vita. L’Ilva che dovrebbero venire a conoscerei politici. Passassero un giorno in fabbrica capireb-bero perché città e stabilimento sono separati in casa.

L’orgoglio siderurgico dei padri è sepolto per sem-pre. L’Ilva era pubblica, si chiamava Italsider, e i no-stri Cipputi si permettevano il lusso di studiare,formarsi sul ciclo di produzione dell’acciaio, farne untutt’uno con i concerti di Giorgio Gaber al circolo Ital-sider o con le biblioteche popolari, stimolati dal genioincompreso di Peppino Francobandiera. Certo, c’erail Partito (comunista). E c’erano i sindacati. Ora l’Ilvaè qualcosa da chiudere dietro la porta di casa a fineturno, facendo calare il silenzio. «Non parliamo. Acasa non parliamo mai di lavoro perché dialogare nonè facile. E dialogare con chi poi? Tanti di noi avreb-bero sognato di fare il carabiniere. Essere fuori, esserealtrove. Di questo parliamo sì; oppure lo pensiamo ece lo teniamo dentro. Perché parlare può far male».

Nel finale di trama s’intrecciano interrogativi in-quietanti più delle morti bianche, più del solco frauomo e fabbrica, più del ricatto occupazionale, più del

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nero che colora la paura e la polvere, quanta polvere,tanta polvere. Cumuli e cumuli, che impregnano leossa, disegnando paesaggi lunari. I sindacati e la po-litica dove sono? Nei comunicati stampa post mortem

dopo il solito incidente? Nel Risiko delle tessered’iscrizione o nella tombola delle adesioni agli scio-peri? Perché lasciano l’iniziativa al drammatico al-trove, fatto di silenzi e rifiuti, in cui si barricano iragazzi dell’Ilva? A politica e sindacati tocca andarecontrocorrente per riavvicinare fabbrica, lavoratori ecittà nel segno della sicurezza e del rispetto dell’am-biente. Attraverso un riconoscimento vero, effettivo,non formale, delle posizioni reciproche. Qui non cisono intese da sottoscrivere, né rendite di posizioneda difendere, ma solo vite da salvare.

Nei giorni di sole, dal muro di cinta del contesta-tissimo parco minerali, che corrode la città con le suepolveri inquinanti, sale un piccolo arcobaleno. «È lospirito dei nostri compagni morti sul lavoro», hascritto un giovane operaio in una poesia. All’Ilva nonc’è tempo per discutere di vivi e di morti. «Quell’arco-baleno – spiegano i ragazzi citando i versi – è l’alito,la brezza, il respiro, di chi non c’è più». Una divinità,forse. Forse un demone. Al quale smettere di offriresacrifici.

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Cinquanta anni d’acciaio

Chissà come si chiamava il colatore che vide caderedalla siviera il primo zampillo incandescente dell’ac-ciaio dell’Ilva di Taranto.

Le ricorrenze, quando non sono esibizioni da Tar-

tufo, sono utili a fare il punto della situazione: da dovesi è partiti, dove si è, dove si vuole arrivare. I cin-quanta anni dell’Ilva di Taranto offrono agli analistidel settore, e ai tuttologi in servizio permanente effet-tivo del territorio, l’occasione di dare risposte. Chi,come colui che scrive, in quella azienda lavora, piùche prendere atto della data fatale non deve e, prag-matico come solo un metalmeccanico sa essere, puòsolo augurarsi che la solidità proveniente da una etàpiù che matura scongiuri in modo definitivo le nega-tività che investono il settore dell’acciaio da troppotempo.

Ma il pensiero ritorna a quell’anonimo colatore dicinquanta anni fa, e a tutte le migliaia e migliaia dilavoratori che, nel tempo, sono stati dipendenti primadell’Italsider poi dell’Ilva. Bisognerebbe chiedereanche a loro cosa pensano dei cinquanta anni dellostabilimento nel quale hanno passato tanta partedella loro vita perché, e credo sia giusto si ribadisca,senza i lavoratori acciaio non se ne produce, né unatonnellata, né un chilo, né un grammo. E quando suimedia riecheggiano le parole “centralità del lavoro” si

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dovrebbe costantemente avere presente che il lavoronon è una astrazione, è – invece – prodotto peculiaredell’umanità, magari nobile, volendo.

Quindi i cinquanta anni dell’Ilva sono interpretabilicome una ricorrenza del lavoro, argomento spinosoper questi tempi grigi, ma al quale bisogna dedicareogni sforzo e ogni energia positiva per venir fuori, tuttiinsieme, dalle sabbie mobili di una crisi che ci staestenuando e inghiottendo. Ritengo indecente un go-verno che si areni davanti alla legge sulle intercetta-zioni e non sappia esprimere prontezza, qualità equantità a favore del mondo del lavoro.

Nelle feste di compleanno la conclusione è dedicataalla torta e agli auguri.

Però, sapete com’è, io in Ilva ci lavoro e non mi vadi essere tacciato come servo del padrone: non lo sonomai stato e non appartiene alla storia della mia vita,quindi per me niente torta ma gli auguri, quelli sì,raggiungano sinceri tutti coloro che hanno fatto, siaora sia negli anni passati, dell’Ilva un monumento dellavoro del Sud.

Pubblicato dalla «Gazzetta del Mezzogiorno» il 10.04.2010

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