INVIATO SPECIALE

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XI Il 28 novembre del 1947, all’alba di un venerdì molle di fango e nebbia, Milano sfiora l’insurrezione. Il prefetto Troilo, già comandante della Brigata partigiana Maiella costituita in Abruzzo nel ’43 e decorata con la medaglia d’oro al valore civi- le, viene destituito dal ministro Scelba. Era stato nominato Prefetto di Milano dal precedente ministro dell’Interno, il socia- lista Romita, su designazione del Comitato di liberazione nazio- nale, ad affrontare la difficilissima situazione della città appena uscita dalla guerra. Milano deve essere ricostruita e riorganizza- ta. Gravi sono i problemi di ordine pubblico, di disoccupazione, di insicurezza. Ettore Troilo, stimato e apprezzato dai milanesi e dal sindaco Antonio Greppi, oltre a fronteggiare i principali pro- blemi legati all’alimentazione e alla crisi delle industrie, era riu- scito a far rinascere alcuni simboli della città. Il 12 maggio con il concerto di Toscanini la Scala aveva riaperto i battenti, e più in là riaprirà il Museo di Brera. Ma Ettore Troilo non era un Prefetto “di carriera”: avvocato e socialista, già collaboratore di Turati, era un prefetto “politico” e, in vista delle imminenti ele- zioni del 18 aprile, infastidiva la sua autonomia decisionale. La destituzione del Prefetto-partigiano ad opera di Scelba provoca, quel venerdì di novembre, qualcosa come un tumulto di popolo. L’inventario di quei giorni di Guido De Monticelli

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Una testimonianza eccezionale sulla storia di Milano e dell'Italia dalla Liberazione agli anni Ottanta. Gli stenti e le speranze, lo sviluppo e le illusioni, il teatro e la cultura, le generazioni nuove e vecchie, attraverso gli scritti, oggi spesso introvabili, di un maestro del giornalismo. Maestro due volte. Per la raffinatezza della scrittura. E per la convinzione profonda, radicata, che il giornalismo dovesse andare oltre l'informazione; e svolgere una funzione educativa. Per esprimere, nel giornalismo vero, una professionalità di cui "il potere non ha bisogno".

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Il 28 novembre del 1947, all’alba di un venerdì molle difango e nebbia, Milano sfiora l’insurrezione. Il prefetto Troilo,già comandante della Brigata partigiana Maiella costituita inAbruzzo nel ’43 e decorata con la medaglia d’oro al valore civi-le, viene destituito dal ministro Scelba. Era stato nominatoPrefetto di Milano dal precedente ministro dell’Interno, il socia-lista Romita, su designazione del Comitato di liberazione nazio-nale, ad affrontare la difficilissima situazione della città appenauscita dalla guerra. Milano deve essere ricostruita e riorganizza-ta. Gravi sono i problemi di ordine pubblico, di disoccupazione,di insicurezza. Ettore Troilo, stimato e apprezzato dai milanesi edal sindaco Antonio Greppi, oltre a fronteggiare i principali pro-blemi legati all’alimentazione e alla crisi delle industrie, era riu-scito a far rinascere alcuni simboli della città. Il 12 maggio conil concerto di Toscanini la Scala aveva riaperto i battenti, e più inlà riaprirà il Museo di Brera. Ma Ettore Troilo non era unPrefetto “di carriera”: avvocato e socialista, già collaboratore diTurati, era un prefetto “politico” e, in vista delle imminenti ele-zioni del 18 aprile, infastidiva la sua autonomia decisionale. Ladestituzione del Prefetto-partigiano ad opera di Scelba provoca,quel venerdì di novembre, qualcosa come un tumulto di popolo.

L’inventario di quei giornidi Guido De Monticelli

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Giancarlo Pajetta, allora segretario regionale del Pci, guida laprotesta degli esponenti socialisti e dei capi della Resistenza cheoccupano la Prefettura. A catena, si dimettono per protesta 156sindaci della Lombardia compreso il sindaco di Milano AntonioGreppi, mentre partigiani partono da Genova e Torino per unirsialla rivolta1.

Il 28 novembre del 1947, in quel venerdì molle di fango enebbia, un giovane cronista ripercorre, verso sera, alcune viesilenziose e deserte tra Porta Venezia e la Stazione Centrale. Inquelle vie il rumore del tumulto, e dell’imponente mobilitazioneche ne segue, non giunge che come un’eco lontana: è il rombosinistro degli autocarri, i «cavalli di frisia, i cannoncini, i carriarmati» che percorrono sordamente «le vie Monforte,Fatebenefratelli, Ciovasso, Santa Redegonda», «il sentiero delGrosso Pneumatico», come annota il giovane cronista sullecolonne del suo giornale: Il Tempo di Milano. Ma è un’altra lameta del giovane cronista, quella sera, su per le vie tra PortaVenezia e la Stazione Centrale: ecco, tre finestre che danno sulcortile, al primo piano di uno stabile in via San Gregorio nume-ro 40. Là dentro, nel piccolo appartamento, «non c’è dubbio, allesette di sera dell’ultimo venerdì di novembre, i mobili hannocantato fra le nude pareti: il comò della camera da letto, il tavo-lo della cucina. Ma si è certo trattato di un trasalimento leggeris-simo, una specie di sospiro. Com’era possibile udirlo?» Altrierano i rumori di quella sera dell’ultimo venerdì di novembre(«sparano, non sparano?»), altre le preoccupazioni: «lo sciopero,il Prefetto Troilo. I generali e i sottosegretari che stavano arri-vando da Roma», «il rombo degli autocarri». Che cosa andavacercando il cronista del Tempo di Milano al di là di quel portonedi via San Gregorio 40 dove tutto oggi sembrava silenzio? Nonaltro che l’eco sommessa e come contratta di un avvenimentotutto diverso dall’odierno subbuglio, un fatto di sangue che si era

1 La storia del prefetto Ettore Troilo e di quei giorni a Milano è raccontata in unlibro del figlio, uscito nel 2005: Carlo Troilo, La guerra di Troilo. Novembre 1947:l’occupazione della Prefettura di Milano, ultima trincea della Resistenza,Rubbettino, 2005.

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consumato esattamente un anno prima, il 29 novembre del 1946,e che fece salire al cielo il grido di un’intera città, un fatto «cheoccupò per mesi le pagine dei giornali e la cui terribilità richia-mava alle ecatombe delle antiche tragedie. Fu un momento dicoagulo di sentimenti, passioni e pensieri, la livida sostanza esi-stenziale del dopoguerra a Milano venne brutalmente rivelata».Sono, quest’ultime, le parole con cui il giovane cronista di untempo, ormai diventato critico teatrale del Corriere della Sera,tornava a parlare, nel 1975, della strage di Caterina Fort, in occa-sione della scarcerazione, trent’anni dopo, della giovane friulanadi allora, che aveva ucciso a colpi di spranga la moglie e i trefiglioletti del proprio amante.

Il delitto Fort fu per Milano una specie di spasimo collettivoviolento e arcano, una brusca lacerazione che si raggrumò inquel grido di pietà e furore («un grido che forse arrivò a piazzaOberdan e a Piazzale Loreto e alla Stazione Centrale, un gridoche fece tremare tutto il quartiere di Porta Venezia, come unascossa di terremoto») nel quale sembrò suggellarsi, col suo stra-scico di lutti e dolori, l’uscita della città dalla guerra. «C’eraqualcosa nella città, in quegli anni, all’uscita dalla guerra, qual-cosa di cupo e felice insieme, una vitalità in cui, come semprenei momenti di “scoppio”, di liberazione e di sfogo, si mescola-vano le componenti più diverse. Una generica speranza nel futu-ro si caricava di egoismi e di appetiti individuali, sulle tensionisociali rabbrividiva fragile ma tenace un velo di euforia».

E per quei bambini massacrati in via San Gregorio, quantialtri bambini popolavano, come piccoli randagi, le vie e i cortilie i campi incolti delle periferie! Ecco, se ci addentriamo, sul filodi questi antichi pezzi di cronaca recuperati alle vecchie paginedel Tempo di Milano, di Epoca, del Giorno, per l’intricato reti-colo di vie, «vie piuttosto strette e vecchiotte, con nomi di sapo-re medievale, nomi di antichi mestieri ed arti», o giù per i mer-cati rionali dove i prezzi esposti delle merci crescono comegiganti, come mostri favolosi di sapore disneyano, i «giganti del-l’inflazione», contro i quali si combatte la battaglia dell’alimen-

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tazione quotidiana, o passeggiamo tra gli squallidi caseggiatidelle periferie, ancora sbrecciati dalle pallottole, fino ai campidesolati su cui i ponti della ferrovia disegnano le loro arcate diferro e svettano le ciminiere degli ultimi stabilimenti, se ci inol-triamo in questa vera e propria toponomastica della Milano del-l’immediato dopoguerra che è il palcoscenico di queste crona-che, quanti bambini dagli occhi ombrosi e induriti, incontriamo,quanti fievoli adolescenti cresciuti come rami secchi nelle lorogiacchette infantili e inerpicati su zampe d’uccello, o ragazzettitarchiati con le mani già grosse e tozze per chissà quali occupa-zioni fortuite e occasionali! Addentrandoti nelle strade brulican-ti dei vecchi quartieri del centro, fino alle più ignote e solitarievie del suburbio, puoi seguire, tra un pezzo e l’altro di questecronache, un sentiero esilmente designato nella polvere: è il sen-tiero bianco dell’infanzia. Occhi di bambini, pieni di «pauraumiliazione dispetto o angoscia», «occhi vuoti o diffidenti» deipiù grandi, gli adolescenti, occhi rabbuiati ma in fondo anche«pieni di sentimento», ombre di ragazzi che si proiettano «sullepareti bianche di calce d’una stanza del Beccaria» ogni martedìpomeriggio, venuti qui, all’appuntamento con la Legge. Freschid’anni ma già gravati «da tristi eredità familiari, da un’atavicacondanna che portano nel sangue», con loro il Passato entra dallaporta.

Ma puoi incontrare anche, alle porte dell’inverno, «i ragazziche a mezzogiorno, con le cartelle sotto il braccio, percorrono ilviottolo dorato tornando da scuola. Per loro le foglie morte nonsono che il preludio a un altro inverno dell’infanzia, e gli inver-ni dell’infanzia sanno di caldarroste e di torrone natalizio, diinchiostro per i compiti, di neve per i giochi».

Già, il Natale, il Natale di quel lontano 1947. Sono ancora ibambini a portare avanti il filo e la croce di quel nuovo fragileinizio, a mettere tenere radici in quel passato di barbarie e vio-lenza di cui erano stati le prime piccole vittime. In piazzaCavour, davanti al palazzo dei giornali, il giorno di Natale del1947, fu collocato un grande albero alto più di dodici metri, «unpezzo di inverno puro, bianco e azzurro, neve, ghiaccio e odore

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di resina, una scheggia d’alta montagna». Era un’iniziativa bene-fica promossa dagli stessi “uomini del giornale” di cui il giova-ne cronista, ora impegnato a riferirne, faceva parte. Ai piedi del-l’albero addobbato «misero fotografie di bambini offesi dallaguerra, bambini cui la guerra aveva troncato le mani o le gambeo tolto la luce degli occhi o sfregiato il viso. Ecco, dissero gliuomini, quell’albero è per loro. Collocarono una cassetta dilegno sul marciapiede per raccogliere le offerte e aspettarono. Epoiché erano giornalisti misero queste cose sul loro giornale».Quante volte al giorno gli “uomini del giornale”, improvvisaticontabili, dovettero scendere e svuotare la cassetta che trabocca-va? «Gli uomini del giornale contavano e ricevevano le notizie,facevano i titoli […] e tornavano a contare. Salivano le cifre eintanto, dall’altra parte del mondo, Mao Tze-tung avanzava, simoltiplicavano gli zeri e agli antipodi gli olandesi occupavanoJakarta, a Palazzo Marino discutevano sulle tariffe tranviarie, unuomo si gettava dal terzo piano in viale Campagna 2». L’alberodei bambini offesi è forse, così conficcato com’è nel cuore dellecronache che leggiamo − come un picco svettante nel reticolatodi questa fitta peripezia di parole − la metafora più lancinante diquesto incrociarsi della vita del mondo e della cronaca di unacittà, con quel suo farsi misura del tempo, come i venti e le piog-ge delle quattro stagioni, radici profonde che fino a ieri hannoattinto sottoterra «acqua magra e astratto silenzio». «Una fanto-matica carta del mondo, uno spettrale planisfero, con gli oceani,i continenti, le isole, i poli» sembrano profilarsi tra ramo e ramo,mentre risuonano rombanti, come un torrente di alta montagna,le rotative frenetiche con le loro notizie di giornata, là dentro,nella “casa dei giornali”.

Carta-moneta, carta-moneta italiana, logora, sporca e di pocovalore, «tetro simbolo dei comuni bisogni assilli affanni», ibiglietti da mille, da cinquecento, e poi le cento, le dieci, le cin-que lire cascate dalle tasche dei padri, delle madri, dei bambinimilanesi, giù nella cassetta, a risarcimento di «tutto l’orrore e ilpianto degli anni che furono, impressi a fuoco sulla grazia minu-

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ta dei fanciulli»! Quella pioggia di spiccioli dovette risuonarecome un formicolio insieme euforico e doloroso, giù, finoall’imo dello stomaco, nel giovane cronista: quasi un’eco di piùantiche memorie. E le parole che appuntava ora sul taccuinodavanti all’albero dei bambini offesi ne avrebbero forse semina-te altre, che egli avrebbe raccolto in una più avanzata maturità.Parole non fruscianti come la carta-moneta lisa di quel giorno diNatale in Piazza Cavour, ma che sarebbero piuttosto risuonate inun tintinnio. Ecco, proprio così, «il barbaglio tinnulo delle mone-te»: quei «dischi vasti e pesanti di nichel, di rame, il pezzo d’ar-gento da cinque lire…»!

Forse proprio là, davanti all’albero dei bambini offesi, il gio-vane cronista, la cui penna di scrittore aveva già cominciato adisegnare i primi contorni del suo grande racconto, covava paro-le che sarebbero venute dopo, parole che affondavano in un’al-tra infanzia, parole che dicevano della «fame di una volta, deltempo adolescente, verde, magro, con la sua pelle da ramarro,buccia da buttare» e della «piccola risata» che mandava la mone-ta da cinque lire quando cadeva sul pavimento. Oh, «eranobagliori rari», lo ricordava, «perduti nel buio delle case, delleborse, dei vestiti». La moneta da cinque lire, la moneta d’argen-to di prima della guerra: a volte si materializzava nella Galleriaal centro della città dove «l’uomo dal passo solitario sui marcia-piedi di mezzogiorno», il vecchio viandante caro al cronista,andava a cercarla. E del quale un fanciullo arrampicato sullafinestrella di una mansarda di Vicolo Fiori nel vecchio quartieredi Brera, poteva seguire il ritorno. Una volta che l’uomo avessegirato l’ultimo spigolo delle case, naturalmente, figuretta rimpic-ciolita laggiù sulla via, piccola sagoma amata ed attesa. «E daquel passo millimetrico, dalla sua quasi impercettibile gradazio-ne d’euforia o di sfiducia», il bambino, aggrappato alle tegole,poteva indovinare se, affondata nella tasca del cappotto o dei cal-zoni o stretta nella mano chiusa, portasse la moneta d’argento.Oh, la fame favolosa delle antiche genti raminghe!

Roberto De Monticelli, colto in un momento di ipotetico tra-salimento davanti all’albero dei bambini offesi in Piazza Cavour,

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riandava alla sua infanzia. Lui era stato quel bambino, fra le dueguerre: quante volte aveva atteso il ritorno del padre (il fantasti-co viandante della Galleria) − che era attore, come anche lamadre − dai tetti di quella mansarda di Vicolo Fiori, nello stoma-co di ragazzo una «fame folta e umida, simile a una muffaavida»! Ma la sua vita era trascorsa anche, insieme col fratellinoPierpaolo, tra gli scuri arredi delle stanze ammobiliate in cuialloggiavano durante le fitte tournées su e giù per la penisola.Spesso i due fratellini venivano affidati alla cura delle grasse epremurose affittacamere. Crebbe ruzzolando tra scenari di carta-pesta ammonticchiati nei sottopalchi dei teatri, tra quinte e came-rini dove all’odore muffito dei vecchi assiti si assommava, ine-stricabile, il sentore dolciastro di antiche ciprie femminili. A quelrichiamo forte della sua infanzia e della sua adolescenza DeMonticelli tentò di sfuggire poi per i lunghi anni della giovinez-za, «anzi, feci in modo che le strade della vita mi portassero ilpiù possibile lontano da quel grumo di memorie familiari», comescriverà in seguito rievocando quei tempi. «Fuggivo dal teatrocome da un luogo chiuso e labirintico che mi aveva tenuto pri-gioniero per tutto il tempo dell’infanzia e dell’adolescenza. Manon si può scampare a un destino. E infatti nella giovinezzamatura tornai all’interno di un edificio teatrale; ora però stavonon più dietro le quinte ma in platea, seduto su una poltrona dicritico (o cronista)». Vi tornò non prima di aver completato i suoistudi e di aver rivelato la sua precoce predisposizione alla scrit-tura e l’amore profondo che, oltre che al teatro, lo legò per sem-pre alla letteratura e alla poesia.

Quelle parole, quelle parole tintinnanti come la moneta d’ar-gento dell’infanzia che avrebbe a lungo inseguito, quelle paroleche abbiamo immaginato germinare nell’animo del giovane croni-sta in una sera d’inverno del ’47, si sarebbero rivelate più tardi nelsuo libro, il romanzo che lo accompagnò per tutta la vita fino algiorno della sua malattia: L’educazione teatrale2. Ed è nel primocapitolo di quel libro che le abbiamo sparsamente racimolate.

2 Roberto De Monticelli, L’educazione teatrale, Garzanti, 1986.

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«Quando calarono le Schwartz, l’Italia sobbalzò».Un’incursione tenera e irresistibile nella Milano notturna deglianni ’30, vago, scintillante ricordo di quel ragazzo appena ado-lescente, la si ritrova nel grande reportage sulle «viennesine delCavallino Bianco», le bellissime ballerine calate da Vienna,Monaco, Berlino al Teatro Excelsior di Milano e al vecchioLirico, quello di prima dell’incendio, «quello con i palchi di vel-luto e la sbarra di metallo che correva lungo il parapetto del log-gione». L’inchiesta, che ai tempi fece molto scalpore, fu pubbli-cata su Epoca nel 1951. “Grandi Riviste Schwartz ore 21.15:Donne all’inferno, 16 Revue girls, 24 Vienna Girls, 24 BalletViennois”, gridavano le locandine rosse dai muri di Milano.Qualcosa come 60 ragazze, tutte alloggiate all’Ambasciatorisotto la Galleria del Corso, che allora si chiamava Imperiale. Loscompiglio che gettò tra la gioventù gaudente e nottambula del-l’epoca o tra quella che veniva chiamata jeunesse dorée, «quelladegli abbonamenti alle barcacce, dei grandi mazzi di fiori invia-ti al camerino delle ballerine, delle automobili ferme, dopo lamezzanotte, alla porta del palcoscenico», è tutta da godere nellalettura del lunghissimo articolo. Il quale prende a un certo puntola piega dell’inchiesta, quando il cronista, armi e bagagli, simette in viaggio, vent’anni dopo quella storica calata, per rin-tracciarle, le schwartzine, una per una nelle varie città italianedove, seguendo ciascuna la sua storia o il suo amore d’allora, leantiche ragazze hanno messo radice. Genova, Torino, Napoli,Roma, Milano… E un bel gruzzoletto ne ritrova: signore dimezza età, con i loro destini segnati di ricche borghesi o di pate-tiche emarginate dello spettacolo o del cinema.

E appartiene ancora a un sogno di giovinezza che non muorel’altro grande pezzo di questa sezione dedicato al Circo Togni. Lamagica parabola di una famiglia che abbraccia più generazioni,l’ascetica dedizione, la lotta contro le avversità e per la sopravvi-venza, l’incendio dello chapiteau, i grandi successi, gli episodi tra-gici, l’eccelsa scuola degli uomini volanti e dei clown, per un’ar-te che appartiene alla favola: «la sua immagine sta nell’aria, eter-na ed effimera, come un disegno sulle ali di una farfalla».

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E ancora un sapore di lustrini e levità di farfalla lo puoi trova-re in un paio di pezzi dedicati alle riviste con Wanda Osiris eMacario, sotto la sigla che divenne storica di Garinei eGiovannini. Sono gli anni in cui, alternati alla sua attività di cro-nista e di inviato speciale e ai suoi reportage dall’Italia e dalmondo, appaiono su Epoca i primi pezzi teatrali di De Monticelli.Allora il critico del periodico era Eugenio Ferdinando Palmieri, e,all’occorrenza, De Monticelli si occupava per lo più di rivista.Finché, all’abbandono di Palmieri, assunse la titolarità della criti-ca teatrale, che già aveva esercitato sulla Patria e successivamen-te, dalla sua fondazione, sul Giorno. Da allora incominciò la suastoria di critico teatrale a tempo pieno.

1947. Ancora quell’anno. Due giovanotti di ventisei e ventot-to anni si aggirano, in un pomeriggio di gennaio di freddo infer-nale, davanti al Palazzo del Carmagnola in via Rovello. Eranoalla ricerca di un teatro. Si ricordavano che lì c’era stato un cine-ma di terza visione, il Broletto. Ma ricordavano anche che quelpalazzo era stato la sede della Muti, la milizia repubblichina, unluogo di reclusione e torture. Il Piccolo Teatro di Milano nasce,come si sa, da un’effrazione. Il più “anziano” dei due giovanotti,Paolo Grassi, c’era stato, come ci ricorda Guido Vergani3, «pertentare di salvare l’amico Raffaele Giolli, denunciato come sov-versivo e, poi, spedito a morire nel lager di Mauthausen. Forse èanche per questo che aveva una forza rabbiosa il calcio con cuiscardinò la porta d’ingresso del palcoscenico alla sinistra del cor-tile». Quanto al ventiseienne Giorgio Strehler, raccontò moltianni dopo in un libro intervista di Ugo Ronfani4: «La visione nonera esaltante: impraticabile la piccola platea devastata dai soldati,nudo l’angusto palcoscenico che doveva fare sette metri di aper-tura e quattro di profondità, tirato a metà lo sbrindellato sipario.Su quel palcoscenico due o tre riflettori erano scampati al sac-cheggio e fu in quella poca luce che io dovetti vedere il primo

3 Paolo Grassi, Lettere 1942-1980, a cura di Guido Vergani, Skira, 2004.4 Ugo Ronfani, Io, Strehler, Rusconi, 1986

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guizzo di Arlecchino, Alioscia con la sua fisarmonicanell’Albergo dei poveri, la tetra scala delle Notti dell’ira, gli spet-tacoli che avrei voluto allestire. A poco a poco, mi persuadevoche avrei potuto rappresentare [...] tutto, tutto il teatro diun’ingorda giovinezza appena uscita dalla guerra».

Il 21 gennaio la giunta guidata da Antonio Greppi approva ilvaro del Piccolo Teatro, il primo teatro pubblico italiano.

«Scrivere del Piccolo Teatro, raccontandone la storia, è rifareil cammino della nostra vita di spettatori; più semplicemente edolcemente, ripercorrere l’itinerario della nostra giovinezza,prima, e della nostra maturità, poi, lungo i sentieri dell’immagi-nazione riflessa, proiettata cioè in quello specchio della finzionescenica che da sempre è stato il doppio (o l’alibi o l’alternativao il territorio di riserva) della nostra vita interiore». Si apre cosìil pezzo posto a chiusura della sezione dedicata in questo volu-me al Piccolo Teatro nel sessantesimo anniversario della sua fon-dazione. E veramente potrebbe essere, questo saggio, apparso suuna pubblicazione del Piccolo nel 1984, il nucleo di un “roman-zo teatrale” che ripercorra la storia di una generazione. Non acaso quando nel 1981 morì Paolo Grassi, sembrò che una partedi quella vita che si era formata sull’euforia vorace del dopo-guerra e aveva proseguito, per quei coetanei, sul filo di valoricondivisi, fosse realmente tramontata.

Del resto il percorso critico di De Monticelli si aggancia, conuna consonanza di vedute, una congenialità poetica e ideologicache sembra farsi, nei suoi momenti più intensi, specchio dellasua stessa storia personale, a quel teatro di regia che costituì,almeno nella sua prima fase, il momento più propulsivo, piùinnovativo, della scena italiana. Ed è indubbio che si instauròcon la figura più rappresentativa di quel teatro, con GiorgioStrehler, un rapporto di particolare sintonia critica e poetica, cuinon mancò mai, tuttavia, il sale di una costante dialettica.

In Strehler De Monticelli volle scorgere, nel ritratto che qui sipubblica, un singolare destino di solitudine, un aspetto a primavista paradossale, riferito ad un uomo come lui, sempre al centrodei riflettori, dei fragori della scena, dei successi e delle polemi-

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che. Era il segno della maniacale perseveranza con cui egli rima-se sempre fedele ai suoi temi, anche quando soffiavano tutt’in-torno i venti di nuove avanguardie, o, più spesso, i flussi mute-voli delle mode e dei gusti. «Questa ostinazione sui propri moti-vi, la fissità visionaria e febbrile sulle scelte, l’attaccamento aun’idea del teatro che gli era chiara (“Noi non abbiamo avutomaestri...”) fin dagli anni della giovinezza, fanno la solitudine diStrehler». Di questo isolamento, di questo volontario esilio(Paolo Grassi diceva di lui: «È un uomo che vive nelle grotte»)egli fece la materia stessa del suo teatro: «Strehler è un uomo diaddii, di congedi, di spettacoli-testamento. Quante volte hamesso in scena senza dichiararlo apertamente, solo alludendovicon le immagini, la fine del teatro, l’inizio di un suo personaleesilio? [...] Quante volte si è proiettato nei maghi, i maghi del-l’immaginazione che stringono in pugno la bacchetta della tea-tralità, Cotrone, nei Giganti, Prospero nella Tempesta [...]? C’èin tutto ciò, più che il gusto dell’autobiografia, più che un pizzi-co di narcisismo istrionico, la consapevolezza e come la subli-mazione, insieme lirica e figurativa, del sentimento della solitu-dine. I maghi sono soli, al centro di una sfera di immagini illu-sorie. Il teatro è solo».

E quella “solitudine” che De Monticelli andava indagandonel temperamento del “mago della scena”, rispecchiava, infondo, un nodo segreto e doloroso della sua stessa natura. Ilmago crea incantesimi e la sua bacchetta, sempre in procinto dispezzarsi a contatto con la rudezza della realtà, è una sola: laparola. La parola che svela e che ottunde, la parola che infliggeferite nel mondo e ne fa esalare i più segreti fantasmi, la parola,alveo di un’inesausta dialettica, come la lezione brechtiana inse-gna, la parola, che racchiude il germe dell’immagine e del gesto,la parola, dove son già segretamente depositati anima e respirodi ogni azione teatrale: il loro ritmo. La parola è l’ossessione e ilgioco e il segreto tormento del mago della scena, come del criti-co-scrittore. Ed è la grotta della loro solitudine. Così fu già perAlcandre, il mago dell’Illusion di Corneille, che nella sua grottaaveva condotto il vecchio Pridamant, per fargli vedere − fosse

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inganno dei sensi o realtà − le immagini in cui si era rappresa,lontano da lui, l’avventurosa vita del figlio fuggiasco:

Ce mage, qui d’un mot renverse la nature,n’a choisi pour palais que cette grotte obscure.

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