INVALIDITÀ CIVILE: DIFFICOLTÀ VALUTATIVE DELLA PATOLOGIA ...

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Dr. Gabriele Calcinai Medico Legale, Pisa INVALIDITÀ CIVILE: DIFFICOLTÀ VALUTATIVE DELLA PATOLOGIA ONCOLOGICA L'opinione di un Consulente Tecnico di Ufficio Introduzione Il presente contributo intende riproporre il tema delle difficoltà che sovente insorgono nella valutazione della patologia oncologica in ambito di invalidità civile. L'occasione ci viene offerta da un caso giunto alla nostra osservazione nell'espletamento degli incarichi da noi prestati presso la Pretura del Lavoro di Pisa in qualità di consulente tecnico dell'Ufficio (CTU), esempio da un lato dell'estrema difficoltà di applicare "sic et simpliciter" la tabella ministeriale (6) e dall'altro dell'enorme sperequazione cui si può giungere navigando nelle sue interpretazioni. Il caso L.D.S. nel dicembre 1993 avanza domanda di pensione di invalidità civile subito dopo essere stata operata di mastectomia radicale sinistra per carcinoma. L'esame istologico dimostra quattro linfonodi metastatici. La stadiazione patologica è ritenuta pT4N1Mx. Dopo tre mesi (marzo 1994), la Commissione USL riconosce per tale patologia un grado di invalidità civile pari al 67% con rivedibilità ad un anno. Trascorsi altri sette mesi (ottobre 1994), nonostante l'esecuzione di ben otto cicli di chemioterapia, vengono messe in evidenza metastasi polmonari e nel febbraio 1995, durante un ricovero resosi necessario Tagete n. 3-1997

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Dr. Gabriele Calcinai Medico Legale, Pisa INVALIDITÀ CIVILE: DIFFICOLTÀ VALUTATIVE

DELLA PATOLOGIA ONCOLOGICA

L'opinione di un Consulente Tecnico di Ufficio Introduzione Il presente contributo intende riproporre il tema delle difficoltà che sovente

insorgono nella valutazione della patologia oncologica in ambito di invalidità civile.

L'occasione ci viene offerta da un caso giunto alla nostra osservazione nell'espletamento degli incarichi da noi prestati presso la Pretura del Lavoro di Pisa in qualità di consulente tecnico dell'Ufficio (CTU), esempio da un lato dell'estrema difficoltà di applicare "sic et simpliciter" la tabella ministeriale (6) e dall'altro dell'enorme sperequazione cui si può giungere navigando nelle sue interpretazioni.

Il caso L.D.S. nel dicembre 1993 avanza domanda di pensione di invalidità civile

subito dopo essere stata operata di mastectomia radicale sinistra per carcinoma. L'esame istologico dimostra quattro linfonodi metastatici. La stadiazione patologica è ritenuta pT4N1Mx. Dopo tre mesi (marzo 1994), la Commissione USL riconosce per tale patologia un grado di invalidità civile pari al 67% con rivedibilità ad un anno. Trascorsi altri sette mesi (ottobre 1994), nonostante l'esecuzione di ben otto cicli di chemioterapia, vengono messe in evidenza metastasi polmonari e nel febbraio 1995, durante un ricovero resosi necessario

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per dispnea ingravescente, sono evacuati, mediante toracentesi, 1800 cc di liquido pleurico sieroematico e dimostrate anche metastasi ossee. Nel marzo 1995, a scadenza di rivedibilità, è riconosciuto il diritto alla indennità di accompagnamento. Il 21 luglio 1995 all'età di 56 anni, L.D.S. decede per cachessia neoplastica.

Nelle motivazioni del parere reso al Magistrato facemmo rilevare che secondo i più recenti studi, il carcinoma mammario localmente avanzato (T4) è quello in cui il trattamento chirurgico non risulta tecnicamente fattibile. Tuttavia la definizione di inoperabile non è ritenuta valida da alcuni chirurghi (21).

Essendo risultata una stadiazione in termini clinici ed anatomo-patologici molto grave (lo si ricorda, pT4N1), non v'erano dubbi che tale tumore avrebbe portato a morte L.D.S. nel volgere di un tempo facilmente prognosticabile. Le statistiche parlano del 25% di sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi (21).

Pertanto, fin dalla prima visita in Commissione USL, la malattia corrispondeva al codice 9325 (100%).

Poco tempo dopo, infatti, sono state scoperte metastasi polmonari ed ossee. Altri elementi di rilievo sono stati da un lato gli otto cicli di chemioterapia

che L.D.S. ha praticato nel corso del 1994. Ed è ben conosciuto l'impegno organico generale durante tali trattamenti. Dall'altro il ricovero del febbraio 1995 dovuto alla comparsa di dispnea: la toracentesi produsse quasi due litri di liquido pleurico. Segni clinici di tale importanza non possono essere sottovalutati sia ai fini prognostici, sia ai fini della stima della conduzione di una qualità di vita ormai ridotta ai minimi termini (deambulo e igiene personale se le forze lo permettono).

Quest'ultima annotazione sarà ben compresa da tutti coloro che hanno avuto la triste possibilità di osservare numerosi malati oncologici in fase preterminale.

Il caso descritto è stato da noi così concluso: L.D.S. era da considerarsi invalida civile al 100% a far luogo dalla domanda (dicembre 1993). Dal febbraio 1995 alla data del decesso (luglio 1995) inoltre, era da considerarsi abbisognevole di assistenza continua.

Le considerazioni Lo Stato italiano, superando le antiche forme di beneficenza a carattere

caritativo, ha assunto direttamente, mediante l'istituzione del sistema dell'assistenza sociale, la tutela dei propri cittadini affetti da minorazioni fisiche

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o psichiche. Tale sistema, che integra quello della Previdenza sociale, diretta invece alla tutela dei cittadini lavoratori, è attuato seguendo il principio solenne affermato dall'art. 25 della "Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo", ai sensi del quale ogni cittadino ha diritto al mantenimento in caso di perdita dei mezzi di sussistenza per cause indipendenti dalla sua volontà. Questo principio è ottemperato nella Costituzione italiana all'art. 38, il cui dettato è la base di quelle previsioni di intervento pubblico dirette al benessere dei cittadini (Sicurezza sociale, Welfare state) (18).

All'interno di questa articolata e difficile materia il caso sopra descritto ed i brevi spunti di riflessione anticipati, ineriscono un aspetto particolare della pratica medico-legale che pare non avere ancora trovato un comune indirizzo valutativo: la stima della patologia oncologica in tema di invalidità civile.

Numerose ed autorevoli voci hanno già tracciato il sentiero che oggi percorriamo, segnandolo di riferimenti dalla indiscutibile importanza scientifica e dottrinaria, talora proponendo suggerimenti che, seppure orientativi, hanno cercato di dare impulso positivo alla soluzione di questo delicato problema.

La nostra ottica certamente non produrrà nuove prospettive dell'argomento, ma ci sia consentito ugualmente di esprimere qualche considerazione, non tanto a fini risolutivi, ma riflessivi sulla reale difficoltà derivante dall'applicazione della tabella ministeriale.

Le principali perplessità nascono infatti dall'impostazione criteriologica che a questa è stata data: così recita il D.M.S. 5/2/92 (6) alla pg 11: "La nuova tabella fa riferimento alla incidenza delle infermità invalidanti sulla capacità lavorativa... Il danno funzionale permanente è riferito alla capacità lavorativa".

La circolare del 10/4/81 del Ministero della Sanità, esplicativa sulle modalità d'uso delle tabelle di cui all'art. 2 della legge 18/80 -(D.M.S. 25/7/80)-, specifica che la capacità lavorativa va intesa come "generica validità psico-fisica del soggetto". Non solo, ma aggiunge che "tale capacità... non presuppone peraltro che il soggetto debba necessariamente impiegare la propria efficienza in concreto, ma che possegga la stessa come fatto meramente potenziale e come parametro medio."

In base all'art. 3 del D.L. 509/88 (4) le competenti commissioni hanno la possibilità di variare le percentuali di invalidità fino ad un massimo di 5 punti in più o in meno "con riferimento alle occupazioni confacenti alle attitudini del soggetto". Una tale specificazione fa chiaramente intendere che l'ambito assistenziale è riconducibile, almeno nei suoi principi criteriologici generali, alla

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materia previdenziale. Molte sono state negli anni le dispute dottrinarie per definire la riduzione di

quale tipo di capacità lavorativa dovesse rappresentare criterio di riferimento, se generica, specifica o altro (20).

Sempre più insistenti però si stanno facendo le voci orientate verso una "ridefinizione ed un aggiornamento dei criteri sino ad oggi impiegati per l'apprezzamento di una capacità particolare, quella contenuta nelle varie disposizioni normative assistenziali e previdenziali, sempre intesa come valore negativo in quanto riduzione della capacità lavorativa." (24).

Al di là delle dispute e dei nuovi orientamenti, in ambito assistenziale il criterio di riferimento resta ancora oggi quello della capacità lavorativa. E l'unità di misura che lo deve rappresentare è la compromissione funzionale: "Ciò che interessa ai fini dell'invalidità non sono l'esito o il difetto anatomico in sé, ma la funzione" (16).

Alla base della stima valutativa adottata dalle nuove tabelle del 1992 troviamo dunque la <<compromissione funzionale>>.

La classificazione delle malattie riportata entro le tabelle ministeriali di cui trattasi, si rifà esplicitamente a quella adottata dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.), al cui interno, per merito del dr P.H.N. Wood, è nata l'International Classification of Impairment, Disabilities and Handicaps (I.C.I.D.H., 1980), una classificazione degli svantaggi sociali conseguenti alle malattie.

L'intento di svincolare il campo concettuale dell'invalidità dalla monodimensionalità lavorativa per interpretarlo secondo una prospettiva più aderente alla valorizzazione della globalità delle capacità (abilità) umane (tra cui anche quelle lavorative), nell'impostazione tabellare italiana -che privilegia invece proprio la compromissione funzionale (menomazione, impairment) in previsione del danno lavorativo-, a nostro avviso ha disatteso la matrice a cui si è ispirata.

In linea di principio generale possiamo affermare che il titolo diagnostico non è sempre e comunque determinante ai fini valutativi dell'invalidità civile (vedi per analogia il grado di autonomia personale da utilizzare per la indennità di accompagnamento), ma necessita che dalla malattia derivi un danno funzionale permanente incidente sulla capacità lavorativa. Che poi sia una capacità generica, specifica o semispecifica, in questo contesto non rileva.

Stabilita la priorità criteriologica del sistema valutativo tabellare ancora in uso, osserviamo come nell'applicarla al capitolo della "Patologia Neoplastica",

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(pg 108 del D.M. 5/2/92) si vada incontro a notevoli difficoltà. Lo scrivente, sull'esperienza della propria pratica peritale, può riferire

dell'imbarazzo sofferto ad ogni nuovo incarico inerente la materia di cui si scrive, per cercare di individuare le origini dei diversi orientamenti valutativi cui si è trovato di fronte. Diversi presidenti di Commissioni USL o ministeriali stimano infatti tumori di simili caratteristiche stadiative e cliniche ora con il 35%, ora con il 46% od il 67%, fino al 70%, 75% e 100%.

E' pur vero che la valutazione deve essere adattata alle peculiarità del singolo caso, ci pare però che quanto da noi sovente riscontrato rappresenti più il frutto dell'indifferenza ed arbitrarietà valutativa che non della neutralità. Comportamento forse da attribuire all'inconscio timore di cadere in una stima "pietosa".

E' innegabile del resto che la malattia tumorale sia ancora socialmente intesa come la più temibile delle malattie, quella per cui non esiste o quasi possibilità di guarigione.

La terminologia adottata ai codici del capitolo tabellare "Patologia Neoplastica" del D.M.S. 5/2/92 è la seguente:

- cod. 9322: neoplasie a prognosi favorevole con modesta compromissione funzionale (11%);

- cod. 9323: neoplasie a prognosi favorevole con grave compromissione funzionale (70%);

- cod. 9325: neoplasie a prognosi infausta o probabilmente sfavorevole nonostante asportazione chirurgica (100%).

Alcuni autori ritengono che il termine compromissione funzionale non

indichi il danno d'organo o di apparato in senso strettamente anatomico. Viene fatto notare infatti che esistono specifiche voci in altre parti della tabella che prevedono tale fattispecie, a prescindere dalla genesi della patologia (22).

Ma, in base alla priorità criteriologica sopra descritta ed alla specifica previsione di legge, il parere si deve basare "sull'entità della perdita anatomica o funzionale... di organi o apparati... sulla possibilità o meno di applicazione di protesi funzionali... sull'importanza che riveste, nell'attività lavorativa, l'organo o l'apparato sede del danno anatomico." (4).

La norma mette chiaramente in relazione la perdita anatomica alle parole "organo" ed "apparato" lasciando intendere che la malattia da valutare è quella del singolo organo od apparato. Tuttavia sottolinea che deve darsi importanza a quanto questa incida sulla capacità lavorativa. E poiché è l'intero organismo

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che rende operativa tale capacità, possiamo affermare con una certa tranquillità che ciò che deve essere valutato è il danno (ora compromissione) funzionale permanente che incide sulla capacità lavorativa della persona. Anche perché è espressamente prevista la valutazione delle potenzialità (lavorative) residue, sicuramente da riferire all'organismo in toto e non ad un rene o ad un polmone in quanto tali. Orbene, se realmente dovessimo adottare una tale impostazione alla lettera, assisteremmo ad un numero incredibile di "ingiustizie" valutative. Molte neoplasie francamente maligne, infatti, possono permettere per lunghi periodi la permanenza di potenzialità lavorative anche piene, che poi possono precipitare in breve tempo con il rapido progredire della malattia (vedi oltre). L'inadeguatezza di continuare a parametrare il valore dell'uomo sulla base delle sue potenzialità lavorative trova nella materia previdenziale ed assistenziale, nel capitolo in trattazione in particolar modo, motivo di evidenza. "Se si tiene conto delle prospettive aperte dalla introduzione della I.C.I.D.H., il tradizionale riferimento alla <<invalidità>>, basato sulla stima della riduzione della capacità lavorativa generica in rapporto ad una definizione diagnostica, appare ormai non solo anacronistico, ma altresì lesivo degli interessi di chi si trova in una condizione di handicap, consentendo nei suoi confronti solo una limitata tutela di natura prevalentemente economica, senza permettere alcuna evidenziazione e promozione adeguata delle sue potenzialità e conseguentemente senza fornire alcun contributo sostanziale ad un effettivo reinserimento della persona handicappata nella società." (24).

Facciamo infatti l'esempio dei tumori testicolari, dell'ovaio, della vulva. Questi sono organi facenti parte di un apparato: quello riproduttivo. Pertanto, l'isterectomia, la vulvectomia, l'ovariectomia ed orchiectomia bilaterali realizzano la perdita totale della funzione sostenuta da tali organi, cosa ben più grave della sola compromissione funzionale. In tali evenienze dunque, secondo la logica assunta due dovrebbero essere le condotte valutative: chi ritenesse che la compromissione funzionale sia da riferire al singolo organo dovrebbe applicare fin dalla prima diagnosi almeno il codice 9323 (70%); chi intendesse riferirla all'intero organismo, probabilmente dovrebbe procedere con stime "a crescere", magari dopo numerose revisioni. Ovviamente non può dirsi quale sarebbe la procedura migliore. In entrambi i casi si tratterebbe di tradurre in termini percentuali una valenza lavorativa che non pare appartenere a nessuno degli organi citati come esempio.

La falla delle discriminazioni valutative non si chiude allorché il raffronto si estenda ad organi od apparati di maggiore "peso" lavorativo, anzi. Si osservi la

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stima fissa del 70% dovuta alla perdita di due piedi (cod. 7428). Per quanto ci riguarda, potendo per assurdo scegliere tra il codice 9323 e 7428, noi preferiremmo portare due protesi mammarie o testicolari, che avere due protesi ai piedi. Altro esempio: il caso di un tumore benigno delle corde vocali che comporti a seguito di intervento o di complicanze una completa afonia. Nessuno negherà che la perdita della favella rappresenti un gravissimo danno funzionale incidente grandemente sulle capacità lavorative, da valutarsi quindi con il codice 9323. Non si capisce allora per quale motivo una "afonia completa e permanente con impedito contatto verbale" (codice 3101), esito perfettamente sovrapponibile a quello derivante dall'ipotesi sopra ammessa, debba invece valutarsi con una percentuale (45%) che non consente neppure il privilegio dell'iscrizione nelle liste di collocamento obbligatorio.

Altre e profonde questioni interpretative e soprattutto applicative suscitano i codici suddetti.

Le tabelle ministeriali talora offrono la possibilità di graduare il valore percentuale in base al livello di gravità della malattia. Per il capitolo in parola si noti invece la perentorietà del valore numerico, da esprimere in misura "fissa". Inoltre, mentre le definizioni dei primi due codici tabellari (9322 e 9323) fanno chiaro riferimento al concetto sin'ora illustrato del danno funzionale in previsione di tumori in linea generale "benigni", il terzo (9325) ne sembra totalmente svincolato. Dobbiamo forse ritenere che, eccezione che conferma la regola, a parità di danno funzionale, ove questo derivasse da patologia francamente maligna, basti il solo titolo diagnostico per vedersi riconosciuta una (maggiore) invalidità?

Da tempo la dottrina medico-legale ha ammesso "l'esistenza di una <<invalidità etica>>, anche nel paziente che, di fatto, continua a svolgere una attività lavorativa. Nell'accezione del Pellegrini con l'espressione in termini si intende quell'invalidità che emerge in seguito ad un processo morboso per sua natura gravissimo, ma di per sé non ancora invalidante, e che si considera tale in base ai principi dettati dalla solidarietà e dalla pietà umana, come nell'ipotesi, per l'appunto, di pazienti cancerosi intrinsecamente ancora validi al lavoro ma affetti da malattia certamente fatale..." (10).

Le implicazioni medico-biologiche di ordine prevalentemente psichico conseguenti alla diagnosi hanno costituito in numerosi casi la giustificazione morale per la concessione e permanenza dello stato invalidante parziale o totale.

La Corte di Cassazione ha più volte ribadito, specie in ambito previdenziale, il concetto sopra espresso ("Con l'espressione invalidità etica si

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definisce quella particolare forma d'invalidità prodotta da un collasso psichico di rilevante entità, che colpisce l'assicurato in conseguenza di una grave infermità tumorale o, in genere di altra malattia con prognosi letale", -Cassazione civile, sez. lav., 20/10/79, n° 5453-; "La cosiddetta invalidità etica, che è identificabile nel collasso psichico subito dall'assicurato per aver appreso di essere affetto da una grave infermità tumorale o da altra malattia con prognosi letale e che, in quanto sussistente malgrado la cessazione -contro le previsioni- della malattia prognosticata infausta, giustifica di per sé il riconoscimento della pensione d'invalidità..." -Cassazione Civile sez. lav., 9/3/92 n° 2821-).

Anche nell'ambito assistenziale il perturbamento psichico, in quei casi in cui non sia ancora intervenuto un interessamento generale d'organismo, quando raggiunge la soglia del "danno valutabile", rappresenta in definitiva un elemento irrinunciabile della stima. Si intuisce dunque l'importanza di ricorrere, in ceri casi, alla consulenza di uno specialista psichiatra.

Per i tumori a prognosi favorevole che comportino una grave compromissione funzionale l'incertezza, come si è visto, si amplia nel confronto tabellare con altre malattie non neoplastiche che procurino la stessa menomazione; nel caso di tumore maligno corrispondente al codice 9325 invece, l'ipotesi di un riconoscimento "etico" al di là del coinvolgimento psichico, alla luce di queste considerazioni, non appare più solo ipotetica.

Ipotesi permeata da un alone di dubbio interpretativo radicato in due parole, peraltro facenti parte anche degli altri due codici, ma che non si ritrovano espressamente scritte in nessun altro capitolo tabellare.

La prima si riferisce al rilievo che si è voluto dare alla "PROGNOSI" della malattia tumorale da valutare. Parola dalla indiscutibile importanza e delicatezza applicativa pratica. Con ogni verosimiglianza è la sua variabile interpretazione che ha ingenerato le difformi valutazioni da noi osservate. In realtà invece, come si è poco sopra fatto notare, il capitolo specifico ammette solo tre categorie di malattia oncologica, valutabili con percentuale fissa: 11%, 70%, 100%. Non sembrano dunque ammesse percentuali intermedie... o perlomeno, altro fatto curioso, pare che siano ammesse solo per il codice 6478 (tumore di Wilms, 95%) e per il codice 9319 (linfomi non Hodgkin, 60%).

Abbiamo sempre sostenuto l'utilità di valutazioni in compendio e fuori dai rigidi schematismi imposti dalle tabelle sottolineandone l'indicatività. In questo caso tuttavia, non si tratta di esiti di plurime patologie da sommare percentualmente, sul cui risultato si può discutere; ma quasi sempre di patologia unica tumorale che non sopporta indecisioni valutative od opinioni filosofiche

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sul punto. Come anticipato in apertura, il capitolo dell'invalidità civile è strutturato all'interno del sistema di Sicurezza sociale e riguarda la tutela di quelle categorie di cittadini non protette da altre normative, così come previsto dall'art. 38 della Costituzione, la cui finalità sociale e soprattutto assistenziale dovrebbe indirizzare, almeno nelle grandi linee, le stime valutative. Un po' di chiarezza od uniformità interpretativa dunque non guasterebbe. Sono al riguardo apprezzabili i suggerimenti proposti da alcuni autori nell'intento di colmare l'esigenza di una valutazione il più possibile individualizzata ma soddisfattiva anche dell'interesse dello Stato alla tutela dei propri cittadini (22, 23).

Parlare poi di prognosi implica inevitabilmente un richiamo alle sue varie tipologie. Le "Modalità d'uso della nuova tabella" non indicano a quale tipo di prognosi ci si debba riferire, cioè se deve intendersi prognosi "quoad vitam", "quoad valetudinem" od altro.

Sicuramente, come prospettato da Ronchi et al. (10), "elemento essenziale per l'invalidità etica è la prognosi quoad vitam della malattia che deve essere considerata infausta entro un tempo relativamente breve." In effetti, soprattutto in oncologia, parlare di prognosi implica un riferimento alla probabilità di sopravvivenza nel tempo. In realtà però, volendo seguire l'indirizzo generale che informa sul punto il decreto ministeriale del '92 (vd. sopra, danno funzionale permanente-->danno alla capacità lavorativa), dovremmo adottare, quantomeno per i primi due codici del capitolo neoplastico (9322 e 9323) così come per tutti gli altri in tabella, l'interpretazione della prognosi nel senso della "valetudo", quella cioè che maggiormente si riconduce alla capacità lavorativa. La carenza di un esplicito suggerimento non è minima ove si pensi che molte neoplasie a prognosi infausta, fin'anche a poche settimane dall'exitus consentono una condotta di vita normale, nel senso della conservazione dell'autonomia psico-fisica e molto spesso lavorativa. Parola dalla indiscutibile importanza pratica si diceva, anche perché è sull'aggettivazione della prognosi che si decide in definitiva la concessione o meno della prestazione economica richiesta dal cittadino: da negarsi se questa è "favorevole", da concedersi se essa è "infausta" od anche solo "probabilmente sfavorevole". E' comprensibile dunque che non poche Commissioni finiscano per graduare la percentuale di invalidità a seconda del significato di più o meno benignità o malignità attribuito all'aggettivo favorevole, piuttosto che valutare la realtà funzionale dell'organismo (in toto) e le sue reali potenzialità lavorative.

La seconda parola ("PROBABILMENTE"), da riferirsi alla "prognosi ...

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sfavorevole", apre l'ultimo e forse più delicato aspetto della problematica, quello statistico.

Questa parola fa parte del linguaggio medico-legale, in quanto catalizzatore tra l'opinabilità di molte tesi mediche e l'esigenza di certezza voluta dalla Legge.

Si parla spesso di sostituzione del criterio di probabilità a quello di certezza per ammettere talora la sussistenza del nesso causale. Il Fiori scrive che "La quantificazione probabilistica del giudizio positivo sul rapporto causale è largamente soggettiva, basata non certo su calcoli bensì sul grado di concordanza, ed è tradotta in aggettivi quali semplice probabilità, elevata o notevole probabilità, altissima probabilità" (17).

Non è certo il caso di dilungarci oltre sul concetto dottrinario medico-legale che l'avverbio esprime. E' ormai pacifico che con esso debba intendersi qualcosa in più della semplice possibilità che un evento si realizzi. Ma l'importanza che sul punto vi sia chiarezza rinnova la delicatezza del problema, in quanto, al pari della poco sopra citata aggettivazione della prognosi (favorevole o sfavorevole), sul più o meno alto valore numerico in termini percentuali, cioè probabilistici, che a tale avverbio si attribuisce, possono decidersi le concessioni e non concessioni di molte pensioni di invalidità civile.

E' importante dunque che il valutatore conosca sì la prognosi quoad vitam della malattia, ma anche quella quoad valetudinem: perché se è giustamente meritevole del 100% la malattia che porterà a morte quasi certa ("probabilmente sfavorevole") il cittadino in un tempo prevedibile, a maggior ragione lo meriterà quella che fino a quel momento farà "probabilmente" perdere la "valetudo" (buona salute come potenzialità lavorativa).

Di certo non è facile esprimere un parere sapendo che, al di là dell'apparente benessere mostrato, quel cittadino nel volgere di pochi mesi sarà sicuramente o probabilmente deceduto. Forse perché, come detto, ai fini tabellari assume maggior peso valutativo ciò che si riesce a vedere (il danno funzionale), rispetto a ciò che si può fondatamente presumere. Crediamo pertanto che l'aver svincolato, almeno nella terminologia, il codice 9325 da qualsiasi riferimento al danno funzionale, abbia il chiaro significato di togliere quell'imbarazzo di valutare una capacità lavorativa in molte persone per le quali ormai, a diagnosi fatta, ha scarso significato il senso stesso della vita.

La Giurisprudenza ha interpretato il concetto dell'invalidità etica nel senso di un rilevante danno psichico conseguente alla consapevolezza del proprio male ineluttabilmente fatale. Il concetto medico-legale espresso dal Pellegrini è

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più ampio. Noi lo preferiamo. Nella nostra pratica valutativa applichiamo pertanto all'espressione

"probabilmente sfavorevole", non a caso scritta subito dopo le parole "prognosi infausta" il seguente significato: non minima, ma elevata probabilità di morte almeno entro i primi cinque anni dalla diagnosi.

Così, come la dizione "prognosi favorevole", a nostro avviso, non è sinonimo di "guarigione certa", si dovrà ammettere l'esistenza di tumori ad alto grado di malignità -NAG-, tumori a medio grado di malignità -NMG-, tumori a basso grado di malignità -NBG-. Solitamente si parla di "guarigione" allorché un soggetto non manifesti segni di recidive entro cinque anni dall'inizio delle terapie mediche o chirurgiche (10).

Dopo la sola terapia loco-regionale, ad esempio, per i carcinomi mammari è prevista una sopravvivenza globale dei casi allo stadio T4 del 15%. All'altro estremo di una tale scala di valori (cod. 9322 = 11%) potremmo porre ad esempio il carcinoma mammario stadiato T1 che ha una prognosi eccellente con sopravvivenza globale a 15 e più anni >= 90/95% (21).

Non bisogna poi dimenticare che tumori stadiati inizialmente a prognosi buona o eccellente (leggi favorevole) possono richiedere l'esecuzione di numerosi cicli di terapia antiblastica. E la gran parte dei cittadini che giungono in Commissione di Prima Istanza, dopo pochi mesi dalla diagnosi, hanno in corso trattamenti con antiblastici associati e talora con radio-terapie. Tali cure, per gli effetti collaterali e la debilitazione organica generale che comportano, impegnano profondamente le capacità di resistenza dell'organismo, producendo sì talora "miglioramento", ma al prezzo di una qualità di vita difficilmente compatibile con una attività lavorativa, sicuramente almeno nel periodo di loro esecuzione. In una materia che deve ottemperare al dettato dell'art. 38 della Costituzione, seppure con alla base un criterio valutativo ormai da più parti ritenuto insoddisfacente (quello della capacità lavorativa), un modo di superare alcune difficoltà è quello di fare ricorso all'istituto delle revisioni, che nel campo valutativo oncologico trovano forse motivo di più utile applicazione. Con più chiarezza, nei primi anni dalla diagnosi, è per noi da privilegiare la stima della prognosi quoad vitam, salvo poi, con le revisioni, dare maggior peso valutativo alla valetudo. Se la prognosi è "probabilmente infausta", procediamo come da tabella, alla stima del 100%. Per i casi di dubbia interpretazione prognostica clinica non siamo certo in grado di permetterci suggerimenti. Si è fatto però intendere qual è il peso da noi dato all'avverbio "probabilmente". Tuttavia, sempre tenendo come punto fermo i primi cinque anni

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dalla diagnosi, a meno che non si tratti di prognosi "favorevolissima", la nostra opinione è di non scendere al di sotto del 70-75%.

La buona conoscenza clinica del caso, da acquisirsi mediante la stadiazione clinica e patologica se possibile, i responsi strumentali, la presenza o meno di metastasi linfonodali o a distanza, le indagini scintigrafiche, Rx grafiche, lo studio dei markers tumorali etc., è una prerogativa ineludibile della cognizione prognostica, sulla cui base potrà dirsi se una malattia è o no "probabilmente sfavorevole".

Quanto oggi esposto auspichiamo possa servire anche come ulteriore proposta di discussione per addivenire finalmente ad un orientamento valutativo comune in un capitolo dove pare siano troppi i personalismi interpretativi. Tra questi, sicuramente anche il nostro.

Riferimenti normativi e bibliografia 1)-Art. 38 della Costituzione della Repubblica: "Ogni cittadino inabile al

lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento ed all'assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili e minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi e istituti predisposti o integrati dallo Stato. L'assistenza privata è libera."

2)-Legge 30 marzo 1971, n. 118: Conversione in legge del decreto-legge 30

gennaio 1971, n. 5, e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili. 3)-Legge 21 novembre 1988, n. 508: Norme integrative in materia di

assistenza economica agli invalidi civili, ai ciechi civili ed ai sordomuti. 4)-Decreto Legislativo 23 novembre 1988, n. 509: Norme per la revisione

delle categorie delle minorazioni e malattie invalidanti... (omissis). 5)-Legge 15 ottobre 1990, n. 295: Modifiche ed integrazioni all'art. 3 del

decreto-legge 30 maggio 1988, n. 173 ...(omissis)... in materia di revisione delle categorie delle minorazioni e malattie invalidanti.

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6)-Decreto Ministeriale 5 febbraio 1992: Approvazione della nuova tabella

indicativa delle percentuali di invalidità per le minorazioni e malattie invalidanti. 7)-Pellegrini: "Trattato di Medicina Legale e delle Assicurazioni".

CEDAM, Padova, 1959. 8)-Barni M.: "Concezione unitaria del danno previdenziale", Atti del

Convegno nazionale su Disciplina degli aspetti previdenziali e relative competenze medico-legali art. 75 legge 833/78, Roma 15-16 aprile 1980.

9)-Canfora a. et al.: "Sulla prognosi di permanenza del danno biologico

invalidante." Med. Leg. Quad. Cam. 4/1-2:43, 1982. 10)-Ronchi E., Roncalli M., Morini O.: "Aspetti applicativi nella valutazione

medico-legale dell'invalidità pensionabile e dell'invalidità civile nel paziente neoplastico." Sic. Soc. 1:1, 1986.

11)-Barni M.: "L'invalidità civile nel SSN", Federazione Medica, 40, 76,

1987. 12)-Scorretti C., Rago C., Ciraso C.: "La valutazione degli esiti di

mastectomia in invalidità civile." Riv. It. Med. Leg., 9:103, 1987. 13)-Nardecchia E. et al.: "La neoplasia della mammella nell'ambito

dell'invalidità civile. Proposta valutativa." Atti del convegno nazionale di Medicina Legale, L'Aquila 14-16 maggio 1987.

14)-Martini M., Mattioli M. R.: "L'invalidità civile: aspetti medico-legali e

giuridici." SBM Edizioni, Noceto, 1987. 15)-Barni M.: "Postille medico-legali al D.Lgs. 509/88 in tema di invalidità

civile." Riv. It. Med. Leg., 11, 724, 1988. 16)-Introna F.: in atti del convegno "Invalidità civile e libertà dal bisogno"

-Comano Terme, 27-28 aprile 1990, l'Editore ed., Trento 1990.

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17)-Fiori A.: "Il criterio di probabilità nella valutazione medico-legale del nesso causale." Riv. It. Med. Leg. XIII:1, 1991

18)-Scorda M., Colucci A.: "L'invalidità civile nella vigente legislazione."

Edizione aggiornata al 1991. 19)-Martini M. et al.: "Le tabelle di cui al D.M. 5/2/92: ermeneutica e

metodologia." Ivrea, febbraio 1993. 20)-Scorretti C.: "Handicap ed invalidità civile." Liviana Medicina n° 12,

1993. 21)-Bonadonna G., Robustelli della Cuna: "Medicina oncologica". Quinta

edizione, Masson, 1994. 22)-Nardecchia E.: "La valutazione della patologia oncologica in invalidità

civile alla luce delle tabelle di cui al D.M. 5/2/92." In Atti del convegno Nazionale su "La tutela dell'invalidità. Aspetti giuridici e medico-legali" 16-18 giugno 1994, Edizioni Colosseum.

23)-Barocelli A.P. et al.: "La valutazione della patologia neoplastica in

invalidità civile." In Atti del convegno Nazionale su "La tutela dell'invalidità. Aspetti giuridici e medico-legali" 16-18 giugno 1994, Edizioni Colosseum.

24)-Scorretti C., Colafigli A. et al.: "L'analisi delle capacità. Implicazioni e

prospettive medico-legali." Riv. It. Med. Leg. XVIII, 1996.

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