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1 INTRODUZIONE 1. LA GLOBALIZZAZIONE DELLECONOMIA. Con la fine della guerra fredda, crollando un assetto bipolare che aveva diviso il mondo per buona parte del XX secolo in due blocchi contrapposti, la parola globalizzazione è diventata l’ingrediente essenziale nel linguaggio di politici, imprenditori, giornalisti, intellettuali mediatici, per motivare decisioni, scelte, opinioni riguardo ai più svariati campi del vivere sociale, dando luogo ad una produzione editoriale quanto mai fertile 1 . A secondo del “sentiero tematico” privilegiato, si assiste alla descrizione di una globalizzazione culturale, una globalizzazione ecologica, una globalizzazione dei media e delle comunicazioni, una globalizzazione politica, ecc. Alcuni autori hanno inoltre preferito coniare il termine glocalizzazione 2 , trovandolo più adeguato per descrivere una realtà che sarebbe contraddistinta dalla fusione del globale e del locale. Base comune, al di là dell’interesse favorito, è il riconoscimento di una forza che tende progressivamente a “fagocitare” tutto ciò che precedentemente è stato di “competenza” nazionale. Quella che intendiamo suggerire, attraverso le pagine di questa antologia, è una lettura che colga il fenomeno nel suo complesso, distinguendo però, e a tale scopo è dedicato questo saggio introduttivo, l’ambito nel quale nascono le cause da quelli che ne subiscono gli effetti. Per chi scrive, la globalizzazione è innanzi tutto la tendenza dell’economia capitalistica ad assumere una diffusione mondiale, quindi un fenomeno di natura essenzialmente economica. Tenendo presente questo presupposto, un buon punto di partenza per introdurre l’argomento può essere la definizione che ne dà l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE): "Un processo attraverso il quale mercati e produzione nei diversi paesi diventano sempre più interdipendenti, in virtù dello scambio di beni e servizi e del movimento di capitale e tecnologia". Un “processo” dunque, e fin qui nel dibattito odierno esiste una pressoché generale condivisione. Controversa è invece la sua origine: gli anni ’90 del XX secolo (vale a dire all’indomani della fine del mondo bipolare), quando il termine si afferma prepotentemente nel linguaggio corrente, o invece di tradizione più consolidata? Questa è la prima quaestio cui cercheremo di dare una risposta in questa introduzione, attraverso la determinazione delle scaturigini storiche del fenomeno. Anticipiamo tuttavia già da ora la nostra “preferenza” per una data di nascita più indietro nel tempo. Questo comporterà, evidentemente, l’individuazione degli elementi di continuità che danno al processo di globalizzazione carattere, secondo noi, di “tendenza” all’interno del

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INTRODUZIONE

1. LA GLOBALIZZAZIONE DELL’ECONOMIA. Con la fine della guerra fredda, crollando un assetto bipolare che aveva diviso

il mondo per buona parte del XX secolo in due blocchi contrapposti, la parola globalizzazione è diventata l’ingrediente essenziale nel linguaggio di politici, imprenditori, giornalisti, intellettuali mediatici, per motivare decisioni, scelte, opinioni riguardo ai più svariati campi del vivere sociale, dando luogo ad una produzione editoriale quanto mai fertile1. A secondo del “sentiero tematico” privilegiato, si assiste alla descrizione di una globalizzazione culturale, una globalizzazione ecologica, una globalizzazione dei media e delle comunicazioni, una globalizzazione politica, ecc. Alcuni autori hanno inoltre preferito coniare il termine glocalizzazione2, trovandolo più adeguato per descrivere una realtà che sarebbe contraddistinta dalla fusione del globale e del locale. Base comune, al di là dell’interesse favorito, è il riconoscimento di una forza che tende progressivamente a “fagocitare” tutto ciò che precedentemente è stato di “competenza” nazionale.

Quella che intendiamo suggerire, attraverso le pagine di questa antologia, è una lettura che colga il fenomeno nel suo complesso, distinguendo però, e a tale scopo è dedicato questo saggio introduttivo, l’ambito nel quale nascono le cause da quelli che ne subiscono gli effetti.

Per chi scrive, la globalizzazione è innanzi tutto la tendenza dell’economia capitalistica ad assumere una diffusione mondiale, quindi un fenomeno di natura essenzialmente economica. Tenendo presente questo presupposto, un buon punto di partenza per introdurre l’argomento può essere la definizione che ne dà l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE): "Un processo attraverso il quale mercati e produzione nei diversi paesi diventano sempre più interdipendenti, in virtù dello scambio di beni e servizi e del movimento di capitale e tecnologia". Un “processo” dunque, e fin qui nel dibattito odierno esiste una pressoché generale condivisione. Controversa è invece la sua origine: gli anni ’90 del XX secolo (vale a dire all’indomani della fine del mondo bipolare), quando il termine si afferma prepotentemente nel linguaggio corrente, o invece di tradizione più consolidata? Questa è la prima quaestio cui cercheremo di dare una risposta in questa introduzione, attraverso la determinazione delle scaturigini storiche del fenomeno. Anticipiamo tuttavia già da ora la nostra “preferenza” per una data di nascita più indietro nel tempo. Questo comporterà, evidentemente, l’individuazione degli elementi di continuità che danno al processo di globalizzazione carattere, secondo noi, di “tendenza” all’interno del

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moto di sviluppo continuo del sistema capitalistico. Introdurremo il lettore, quindi, al meccanismo di funzionamento del modo di produzione capitalistico per mettere in evidenza le cause che istituiscono tale tendenza alla formazione del mercato globale. Sulla scorta di questa precisazione teorica individueremo i passaggi storici in cui il processo d’integrazione delle economie raggiunge forme “spinte”, grazie anche all’apporto del progresso tecnologico, rivelatosi, nel corso dei secoli, come vero e proprio «primum mobile della globalizzazione»3. Solo all’interno di questo “percorso” incontreremo i riferimenti alle implicazioni ambientali, culturali e, più generalmente, sociali, rispetto alle quali forniremo gli opportuni rimandi alla sezione antologica. Un’attenzione particolare sarà invece rivolta al “momento” politico-giuridico: questo tradizionalmente sancisce una determinata configurazione dei rapporti tra le classi sociali presenti a livello della struttura economica delle società, ma reagisce a sua volta su di essa, influenzandola, nella misura in cui, a livello “decisionale”, si operano delle forzature sui processi economici.

La lettura che proponiamo, condotta dal prioritario punto di vista storico-economico, è dunque finalizzata, in estrema sintesi, a dimostrare la continuità di “direzione” del processo di globalizzazione nella storia, quindi indirizzata a sfatare i numerosi luoghi comuni che hanno portato molti autori ad interpretare come segnali di un fenomeno del tutto nuovo, quelli che sono mutamenti quantitativi e qualitativi che, seppur grandi, sono riconducibili appunto all’itinerario delineato.

2. L’ITALIA, CULLA DEL CAPITALISMO. La borghesia ha sempre mostrato, fin dalla sua nascita, una natura

caratterizzata dalla tendenza ad esportare se stessa, quindi il suo “modello di relazioni”, il mercato, verso l’“esterno”. E’ così che storicamente rompe i vincoli feudali e instaura il proprio dominio di classe all’interno degli spazi nazionali in luogo dell’aristocrazia. Tale “spinta” la porta successivamente a varcare questi confini per realizzare un mercato di dimensione mondiale. In questo percorso, l’allargamento al globo si realizza, per la prima volta, all’epoca delle grandi “scoperte” geografiche. Sono queste che consentono al processo d’esportazione di un sistema economico di dispiegarsi su una superficie sferica grazie alla “sanzione” definitiva della rotondità della terra. Come afferma Peter Sloterdijk (→ Sezione Storia), a partire almeno dal 1522, quando i superstiti del viaggio di Magellano rientrano nel proprio porto di partenza, «ogni punto sulla superficie terrestre diventa un indirizzo potenziale per il capitale, il quale considera ogni luogo spaziale dal punto di vista della sua raggiungibilità in relazione a calcoli e misure di una strategia del profitto»4.

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Ma il processo di esportazione di questo “modello di relazioni” era iniziato già in precedenza, con l’apparire stesso del capitalismo. Un processo caratterizzato dalla tendenza al superamento d’ogni confine, d’ogni dimensione “locale”, che trova quindi i suoi natali nell’Italia dell’XI secolo5. Ed è importante sottolineare l’origine italiana, e medioevale, del modo di produzione oggi dominante per ribadire l’insostenibilità della tesi di Max Weber, simboleggiata nell’equazione “etica protestante-spirito del capitalismo”, secondo cui la Riforma avrebbe “inventato” il capitalismo. Questa tesi, pur venendo ancora oggi riproposta dai pedissequi “ripetitori” del sociologo tedesco, è stata definitivamente dimostrata falsa dalla prodigiosa opera d’indagine («venti anni di studi condotti direttamente sulle opere di oltre duecento autori dei secoli XI-XVIII e di letture di quelle di altri seicento circa») di uno studioso italiano, Oscar Nuccio ( → Sezione Storia). L’affrancamento del ragionamento economico dal dogma religioso era iniziato molto tempo prima che a tale problema si dedicasse il riformatore Giovanni Calvino e di questa “emancipazione” si trova traccia nel «pensiero giuridico dei secoli XI-XVI, che integrato con l’analisi del contributo di letterati, mercanti-scrittori, filosofi italiani consente di accertare la natura dei luoghi comuni prodotti da bugie che con il passare di libro in libro sono diventate verità»6. È nelle città medioevali italiane che il “vizio privato”, il profitto, si trasforma in una “pubblica virtù”, grazie all’apporto di un processo di pensiero cui va attribuito il merito di aver recuperato quello “spirito di ragione” che, dopo aver dominato nel mondo antico, era stato «bandito per secoli dai teologi cattolici»7. Un pensiero di matrice laica che, nella sua attenzione verso i concreti segnali provenienti dalla società civile, registra tutta una serie di trasformazioni che portano l’uomo d’affari italiano, «a partire dall’XI secolo», a essere « il protagonista di quella che è stata chiamata la “rivoluzione commerciale”. Aprì le porte al traffico interno (…) e le dischiuse a quelle del commercio internazionale (…) In seguitò segnò la ripresa delle manifatture, destinando ad esse una parte sempre più notevole dei capitali raccolti con gli scambi (…) Determinò poi la impostazione degli affari bancari, partendo dal cambio manuale delle monete e giungendo al trasferimento del denaro per lettera, muovendo dal mutuo a privati e arrivando al finanziamento dei principi e degli Stati»8. L’affermarsi di questi uomini portò infine le città italiane a primeggiare nel mondo fino allora conosciuto, dando così inizio, e con successo, all’impresa della mondializzazione dell’economia.: «In un rapido susseguirsi di fasi di sviluppo, il commercio italiano assunse dimensioni che furono, per l’epoca, universali. Nel ’300, i mercanti italiani erano ormai padroni incontrastati di un vasto sistema commerciale internazionale, alimentato da scambi multilaterali, estendendosi ai quattro punti cardinali. Gregorio Dati, mercante e scrittore fiorentino, esprimeva l’opinione corrente nel mondo italiano degli affari quando annotava che “non è

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reputato niente” colui il quale non è “mercatante e che non abbia” girato “il mondo e veduto l’estranie nazioni delle genti e tornato alla patria con avere”»9.

Mondializzazione (termine del resto preferito oggi dai francesi: mondialisation) ma non ancora globalizzazione, in quanto processo dispiegatosi su di un mondo ancora “piano”. In questo senso è giusto affermare che il processo deve il suo nome alla forma sferica della terra. Saranno, come abbiamo detto, le scoperte geografiche che, distruggendo «la supremazia commerciale dell’Italia settentrionale»10, costituiranno un mondo “sferico” che consentirà allo “spirito capitalistico” di espandersi sulle nuove e sconfinate superfici globali. Ed è interessante osservare, per ridimensionare le tante teorie “nuoviste” oggi presenti, che la spiegazione della decadenza dell’economia italiana è attribuita, nelle opere di alcuni scrittori della penisola tra la fine del ’500 e la meta del ’600, alla tendenza a dirottare i capitali dall’impiego produttivo e commerciale a quello speculativo. Dunque un orientamento verso la finanziarizzazione dell’economia (caratteristica oggi celebrata come la principale causa del recentissimo [sic!] processo di globalizzazione), resa tra l’altro possibile dal sopravvenuto perfezionamento delle tecniche commerciali e finanziarie11, rispetto alla quale gli autori dell’epoca ne individuano con lucidità le conseguenze e i rischi. Ad esempio Geminiano Montanari (fisico-matematico ed astronomo, 1633-1687) afferma: «[…] e vi sono pur troppo mercanti de’ più danarosi in tutta Italia, che sebbene si impiegano apparentemente in altre mercanzie, tutto il grosso però del loro traffico fanno sulle monete, col quale più presto e con più sicurezza si fanno ricchi. Ora io non so se sia mai stato ponderato abbastanza il danno grandissimo, che apporta agli stati questo traffico che fanno molti de’ più ricchi mercanti sopra le monete»12. Proprio come ai nostri giorni, anche se certo con ben altra dimensione quantitativa e qualitativa, per il volume dei capitali monetari interessati dal fenomeno e per la varietà degli strumenti disponibili, emerge come l’istanza alla massimizzazione del profitto porta i possessori di capitale liquido (che non hanno «obbligo di pensare se non al proprio profitto», afferma sempre Montanari) a prediligere infine, a causa dei maggiori profitti prevedibilmente ottenibili, le operazioni speculative rispetto agli investimenti in attività commerciali e produttive, provocando così la crisi delle «arti, che», aggiunge ancora lo scienziato modenese, «sono il vero nerbo delle repubbliche e il loro sostentamento».

Lo “spirito” che anima oggi il comportamento dei cosiddetti global players (gli investitori che muovono i capitali in base alle aspettative di profitto), spesso letto come frutto dell’esasperazione delle pressioni competitive della società, sulla scorta di un approccio storico al problema appare invece come il prodotto di una tendenza, storica appunto, alla massimizzazione dei profitti. Questa precisa “direzione”, che il capitalismo intraprende fin dalla sua nascita, troviamo oggi

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riproposta praticamente senza soluzione di continuità anche nella sua variante “speculativa”.

Certo, perché il neonato mondo sferico, ormai potenzialmente raggiungibile dal Capitale, diventi realmente integrato in un sistema capitalistico globale è necessario attendere la maturazione, che avverrà solo nell’’800, di due ulteriori requisiti: 1) lo sviluppo della grande industria moderna che, producendo merci a basso prezzo (vera e propria «artiglieria pesante con la quale [il Capitale] spiana tutte le muraglie cinesi»13), sviluppa la capacità di soddisfare la domanda di mercati sempre più allargati; 2) l’implementazione di una serie di innovazioni tecnologiche che, consentendo l’aumento della velocità delle comunicazioni e quindi l’abbattimento delle distanze tra le località, fanno sì che il globo diventi virtualmente più piccolo. Con il conseguimento di tale secondo requisito Friedrich Engels potrà affermare (nel 1894, quando viene pubblicato postumo il III libro del Capitale di Karl Marx) che, «con il colossale sviluppo dei mezzi di comunicazione – transatlantici a vapore, ferrovie, telegrafi elettrici, il canale di Suez – il mercato mondiale è divenuto una realtà operante»14.

E non è un caso che, a questo punto del nostro discorso, incontriamo i padri riconosciuti del comunismo scientifico. Sono proprio Karl Marx e Friedrich Engels ad essere oggi ripetutamente evocati, in convegni, articoli, libri, e, va sottolineato, indipendentemente dalle posizioni ideologiche e politiche di coloro che li chiamano in causa, come i profeti del mercato globale. Tale “investitura” è riferita ad alcune notissime pagine del Manifesto del partito comunista ( → Sezione Storia), dove le “necessità” che danno vita al processo di globalizzazione, e le conseguenze che questo crea sulle realtà nazionali, sono definite con chiarezza nella loro natura economica e, lette oggi, danno in effetti la sensazione di una profezia realizzatasi15: «Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni. Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi all’industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo nel paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All’antica autosufficienza e

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all’antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni»16.

Naturalmente, non di profezia si tratta ma della capacità di “leggere” scientificamente il meccanismo di funzionamento di un modo di produzione, quello capitalistico, e, grazie alla “scoperta” delle leggi che lo governano, di individuarne le linee di sviluppo. Tali leggi, che si mostrano vigenti anche oggi (mentre scriviamo un’altra antichissima, e italianissima, industria “nazionale” è ormai in procinto, dopo lunga agonia, di essere soppiantata: la FIAT), dimostrano come per precise ragioni intrinseche al suo funzionamento, il Capitale tende verso un allargamento continuo del suo raggio d’azione e quindi verso la creazione di un unico mercato mondiale o, per dirla come oggi va di moda, verso la globalizzazione.

Se già in un testo di propaganda politica come il Manifesto il processo di globalizzazione è chiaramente evocato, peraltro in termini quanto mai attuali, sarà nelle pagine del Capitale (queste molto meno note e studiate invece) che Marx, completando la sua analisi del modo di produzione capitalistico e quindi dei rapporti di produzione e di scambio che lo caratterizzano, formulerà le leggi che ne sanciscono il suo carattere intrinseco al capitalismo17. Un’analisi, quella marxista, che anche una delle figure più carismatiche del capitalismo contemporaneo, il finanziere George Soros (quindi certamente non un “comunista”), ha definito «eccellente» e «per certi aspetti migliore […] della teoria dell’equilibrio tipica dell’economia classica»18.

3. UNA TENDENZA INTRINSECA AL CAPITALISMO. La tensione del Capitale verso l’esterno, quindi la ragione del suo

orientamento verso il mercato mondiale, è determinata da due necessità: quella della realizzazione, ovvero della vendita delle merci prodotte, e quella della capitalizzazione, cioè dell’impiego produttivo del valore precedentemente realizzato. Entrambe queste “esigenze” trovano dei limiti naturali all’interno di uno spazio chiuso, “locale”. Per una buona comprensione di questo concetto, è necessario fare un breve cenno, senza pretesa di esaustività, anzi come invito ad un approfondimento, al meccanismo di funzionamento del modo di produzione capitalistico.

Investire un capitale in un’attività produttiva per ottenere alla fine del processo un profitto, un capitale più accresciuto: questo è il fine della produzione capitalistica. Nel processo di produzione delle merci si crea un surplus rispetto al valore dei mezzi di produzione (spese per impianti, macchinari, ecc.) e della forza-lavoro (spese per salari) impiegati. Il valore della merce, da realizzarsi nel prezzo di vendita, dovrà innanzitutto coprire il costo dei fattori produttivi immessi nel processo di produzione e restituire un qualcosa in più che è ciò che spinge il

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possessore di denaro a investirlo per produrla. Tale surplus costituisce, ma solo “in potenza”, il profitto del capitalista. Diciamo in potenza perché il valore di questo surplus, oggettivato nella merce prodotta, deve essere realizzato, ovvero le merci devono essere vendute. All’interno di uno spazio “chiuso”, le possibilità di realizzazione divengono progressivamente limitate: i bisogni vengono saturati dall’offerta sempre crescente di merci e diviene impossibile, sul mercato “interno”, “consumare” (quindi “realizzare”, dal punto di vista del capitalista) tutto il valore creato. «Il bisogno di uno smercio sempre più esteso» porta così alla necessità di conquistare nuovi sbocchi per le merci prodotte, quindi all’allargamento del mercato che fino ad un certo momento è stato quello “di riferimento” per una data produzione. Nello stesso tempo lo scambio con lo spazio esterno consente di entrare in possesso di merci nuove (o anche di nuove materie prime, che consentono a loro volta la produzione di nuove merci) che stimolano nuovi bisogni per i propri consumatori interni.

L’allargamento del mercato produce quindi un enorme «moltiplicarsi dei valori d’uso»19 i quali, essendo in regime capitalista anche e soprattutto “valori di scambio”, aumentano le opportunità d’investimento profittevole. Il commercio con l’esterno, «che costituiva la base della produzione capitalistica durante la sua infanzia, ne diventa un prodotto quando essa comincia a svilupparsi, in conseguenza della necessità intrinseca di questo modo di produzione, del suo bisogno di un mercato sempre più esteso»20. Ad un certo livello di sviluppo della produzione capitalistica, infatti, la necessità di trovare mercati di sbocco per le merci diviene una precisa necessità di ogni società a causa della contraddizione tra le potenzialità di sviluppo della produzione e le possibilità di realizzazione del valore prodotto: «le une sono limitate esclusivamente dalla forza produttiva della società, le altre dalla proporzione esistente tra i diversi rami di produzione e dalla capacità di consumo della società»21.

Per dirla in altri termini, la realizzazione del profitto trova un limite naturale nella differenza esistente tra il lavoratore in quanto produttore e il lavoratore in quanto consumatore. Il sistema capitalistico è infatti caratterizzato dalla contraddizione tra un vulcano della produzione in grado di eruttare merci senza soluzione di continuità e la palude del mercato, dove non tutte le merci riescono a essere vendute22. Il progresso tecnologico, con l’aumento di produttività che consente, non fa che rendere sempre più precarie tali basi di consumo perché, essendo necessario meno lavoro per l’impiego produttivo di una determinata massa di mezzi di produzione, la parte del valore creato che va a trasformarsi in salario (inteso qui come salario reale), categoria che esprime allo stesso tempo capacità di consumo, è sempre più piccola (e tale diminuzione di salario non è recuperata, anche a causa di situazioni di monopolio, con una proporzionale diminuzione del prezzo delle merci): «tanto più la forza produttiva si sviluppa e

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tanto maggiore è il contrasto in cui viene a trovarsi con la base ristretta su cui poggiano i rapporti di consumo»23.

Alla necessità realizzativa non può ovviare completamente neanche il consumo dei capitalisti. Questi sono inibiti dal consumare tutto il surplus prodotto: la loro propensione al consumo è infatti «limitata dall’impulso ad accumulare, ad accrescere il capitale» e quindi ad ottenere maggiori profitti. Emerge qui la seconda esigenza che porta il Capitale ad estendere il suo raggio d’azione: quella della capitalizzazione. Dopo che il surplus, o plusvalore, è stato realizzato, attraverso la vendita delle merci, in forma di denaro, esso deve essere immesso in un successivo ciclo del processo di produzione (quindi in nuovo processo di valorizzazione) acquistando altri mezzi di produzione e ulteriore forza-lavoro. Il perpetuarsi di questa accumulazione, la sua continuità, è la logica dell’esistenza del modo di produzione capitalistico. Il denaro non investito, andando incontro alla sua svalutazione, non è capitale, nell’accezione di valore che si valorizza.

Il possessore di capitale cerca di ottenere il massimo di valorizzazione possibile (quindi il maggior surplus, in altre parole il maggior rendimento differenziale tra costo di produzione e prezzo di vendita). Ora, con il progredire dell’accumulazione il surplus, in rapporto alla massa di capitale fino a un certo momento accumulata, diviene sempre più piccolo. Questo perché «il profitto è una grandezza relativa e [perché] la redditività dipende dalla grandezza del capitale, cioè dal rapporto fra la grandezza di aumento del profitto e quella del capitale»24. In questo stadio avanzato dell’accumulazione, il capitalista non ha quindi interesse ad estendere la scala di produzione. Si parla in questo caso di eccedenza di capitale. Perché questo capitale eccedente torni ad essere impiegato nel processo di produzione è necessario diminuire i costi andando alla ricerca di mezzi di produzione e forza-lavoro più a buon mercato. Tuttavia, anche qui, in uno spazio “chiuso” tale ricerca si rivela progressivamente infruttuosa. È necessario, di nuovo, rompere i confini per avere, come ben esprimeva Rosa Luxemburg (1871-1919), «sempre più a disposizione l’intero globo in modo da avere una possibilità quantitativamente e qualitativamente illimitata di scelta nei suoi mezzi di produzione»25.

Le due esigenze, di realizzazione e di capitalizzazione, non sono tra loro indipendenti, ma si tratta di due facce della stessa medaglia. La contraddizione tra l'aumento dell'offerta, vertiginoso e senza limiti teorici, e il calo drastico della domanda, dovuto alle dimensioni reali del mercato, si esprime in crisi periodiche (dove esiste una pletora di merci invendute ci sarà anche un’eccedenza di capitali che non trovano impiego) la cui causa è sempre la mancanza di formazione-realizzazione di surplus nel ciclo produttivo.

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Ora, mentre l’esportazione di merci, necessaria per ovviare al problema della realizzazione, può anche essere indirizzata verso paesi non capitalistici, l’esportazione di capitale, comportando l’insediamento della produzione nello spazio esterno implica la sussunzione di questo alle stesse logiche della società capitalistica. La fase in cui una società ha necessità di esportare capitale esprime, rispetto a una tensione verso l’esterno presente già agli albori del capitalismo, un passaggio storico in cui si rivela la maturità del processo di accumulazione e quindi l’arduità di ottenere un’adeguata valorizzazione del capitale investito. Qui, insieme con il capitale, è il “modello di relazioni” che deve essere esportato per consentire di ripristinare il livello di valorizzazione necessario e così perpetuare il processo di produzione capitalistico. È bene precisare che il blocco della produzione non avviene per ragioni intrinseche alla produzione stessa. Il processo di produzione capitalistico ha un carattere duplice in quanto è sia un processo di lavoro per la produzione di merci che un processo di valorizzazione per il conseguimento del profitto e, aspetto fondamentale, la seconda caratteristica “comanda” sulla prima. Infatti, come è ben espresso nell’analisi dell’economista marxista Henryk Grossmann (1881-1950), «solo quest'ultimo processo costituisce il fattore stimolante ed essenziale della produzione capitalistica, che decide della sua vita e della sua morte, mentre là produzione dei beni rappresenta per l'imprenditore soltanto un mezzo per lo scopo, un inevitabile malum necessarium. L'imprenditore proseguirà dunque la sua produzione e la estenderà soltanto se per mezzo di essa può aumentare il suo guadagno. L'estensione degli investimenti produttivi, l'accumulazione, è puramente una funzione della valorizzazione, della grandezza del guadagno. Anche il livello dei prezzi in sé è indifferente all'imprenditore. Non i prezzi in aumento determinano il suo comportamento, ma i guadagni. Questi risultano però dalla differenza di due fattori: i prezzi e i costi. Anche con prezzi stabili o addirittura decrescenti i profitti possono crescere, se la riduzione dei costi è più grande del decrescere dei prezzi»26.

Abbiamo visto che il Capitale (con la C maiuscola, inteso cioè come massa del complessivo capitale della società) ricerca continuamente mercati di sbocco, per le merci ed i capitali “eccedenti”. Tale espansione non avviene però sulla base di un piano: il capitale sociale complessivo è composto da molteplici capitali, e quindi altrettanti capitalisti, che si combattono tra di loro, nell’“arena” del libero mercato, per accaparrarsi le “occasioni” di investimento.

Questa concorrenza tra capitalisti genera un processo di concentrazione da cui traggono origine imprese sempre più grandi, monopoliste, che, consentendo l’allargamento della scala di produzione, permettono all’impresa concentrante di realizzare, a spese dei suoi simili, delle economie di scala che fanno aumentare la sua quota sul profitto sociale complessivo. Tali sovrapprofitti conseguiti dall’impresa monopolista, non smentiscono la vigenza della cosiddetta “legge

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della caduta tendenziale del saggio di profitto”, illustrata precedentemente in maniera semplificata. Anche in presenza di forti profitti di monopolio, la media del saggio di profitto complessivo dell’intero mondo capitalistico può decrescere, in quanto essa è rivelata solo dall’indice di crescita della produzione industriale. Gli extra-profitti derivano, in pratica, da una spartizione diversa della “torta” che si afferma quando la valorizzazione è diventata ardua e la concentrazione diviene quindi la forma in cui progredisce il ritmo di accumulazione (per le imprese che si espandono a spese di quelle che vengono assorbite).

La libera concorrenza, inizialmente elemento essenziale del capitalismo, genera dunque il suo opposto: il monopolio. Nello stesso tempo i monopoli, sorgendo dalla libera concorrenza, non la eliminano, ma coesistono al suo interno in quanto si combattono in un contesto di concorrenza oligopolistica.

L’epoca in cui il mercato mondiale diviene, alla fine del XX secolo, una realtà operante, grazie al colossale sviluppo dei mezzi di comunicazione, è anche quella in cui i monopoli, precedentemente presenti come fenomeni eccezionali, diventano una delle basi di tutta la vita economica.

Prendendo piede anche nel settore bancario, la concentrazione produce in questo caso la trasformazione delle banche da semplici imprese di intermediazione in detentrici monopolistiche del capitale finanziario. Concentrando nelle loro mani la massima parte dei capitali e delle entrate in denaro di tutto il paese, acquisiscono la caratteristica di oligarchie finanziarie che di fatto governano il processo di produzione capitalistico. L’epoca del mercato mondiale è così anche quella in cui si è operata la disgiunzione massima tra il possesso del capitale e il suo impiego nella produzione. Si consolida cioè l’affermazione di una classe che prospera grazie al percepimento dell’interesse sul capitale prestato (esasperandosi e consolidandosi, in questo senso, la tendenza, già presente periodicamente nella storia, alla trasformazione dell’economia da “reale” in “finanziaria”), e lo indirizza quindi indipendentemente dai bisogno dell’uomo o, per meglio dire, solo dove questi sono adeguatamente monetizzabili nella forma del “valore di scambio”, cioè di un “prezzo” da pagare. È quindi, in estrema sintesi, l’epoca dell’egemonia del capitale finanziario, storicamente definita con il termine imperialismo (→ § 4).

Ora, questa fase di sviluppo del capitalismo è la stessa che contraddistingue, a nostro avviso, la realtà odierna del processo di globalizzazione, dove l’egemonia del capitale finanziario si è ulteriormente consolidata grazie anche allo sviluppo delle tecnologie ICT (Information and Communication Technology) e ha inoltre reso, con la più recente esplosione dei movimenti di capitale a breve termine, più instabile il sistema acuendo le crisi che lo scuotono periodicamente. Il capitale finanziario oggi comanda la produzione, decide dove e cosa si produce in base alle possibilità dei dividendi ottenibili e si rappresenta, nella proprietà azionaria

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come nei fondi di investimento, come un coacervo di interessi, assumendo quindi un carattere spersonalizzato. Cessa, a questo punto, la funzione propulsiva sullo sviluppo delle forze produttive, a cui storicamente il capitalismo ha adempiuto. Il modo di produzione capitalistico si nega come processo produttivo e si appiattisce sulle esigenze del capitale finanziario, forma in cui la valorizzazione avviene senza passare per il processo di produzione e quindi è solo apparente. L’attività speculativa non dà infatti luogo alla creazione di nuovo valore. Nonostante il grande incremento del valore dei titoli, nel mercato d'azzardo il risultato è sempre a somma zero, c’è chi vince e c’è chi perde. L'indice vero di crescita di un'economia non è certo il movimento di capitale fittizio: è invece l'incremento della produzione e dei servizi vendibili un anno sull'altro. In questo contesto, la stessa economia politica diventa mediocre attività di gestione basata sulla speranza di ottenere, invece di un profitto industriale, un certo interesse.

Nelle parole di George Soros, uno dei più noti speculatori del capitalismo contemporaneo, si avverte tutta la natura anti-sociale e parassitaria che pregna ormai lo “spirito capitalistico” nell’epoca del dominio del capitale finanziario: «In quanto anonimo partecipante ai mercati finanziari, non ho mai dovuto vagliare le conseguenze delle mie azioni. Sapevo bene che, in certi casi, avrebbero potuto essere negative, ma mi sentivo giustificato a ignorarle dal momento che rispettavo le regole del gioco (…) La mia decisione di vendere o acquistare titoli o valute era guidata da un unico pensiero: massimizzare i profitti. Quelle decisioni riguardavano eventi le cui conseguenze sarebbero ricadute sul sociale (…) Quando, nel 1992, ho venduto sterline allo scoperto, la controparte delle mie operazioni commerciali era la Banca d’Inghilterra e io sottraevo denaro dalle tasche dei contribuenti inglesi»27.

4. L’EPOCA DELL’IMPERIALISMO, OVVERO: QUANDO IL MERCATO GLOBALE

DIVIENE UNA «REALTÀ OPERANTE». Dopo che, grazie alle scoperte geografiche, ogni punto del globo è diventato

«un indirizzo potenziale per il capitale», il processo di globalizzazione conosce essenzialmente due fasi “spinte”, entrambe contraddistinte da decisive innovazioni nel campo delle tecnologie di comunicazione (sul problema del nesso tra progresso tecnologico e progresso economico si veda il testo di Rosenborg e Birdzell → Sezione Tecnologia). La prima ha inizio intorno al 1870, quando «la riduzione dei tempi di percorrenza e dei costi, sia del trasporto su rotaia che di quello transoceanico, che della trasmissione delle informazioni via telegrafo, determinò quella accelerazione nei flussi commerciali internazionali, nei movimenti di capitale e nei flussi migratori che [affermano L. De Benedictis e R. Helg (→ Sezione Economia), e noi con loro] abbiamo chiamato prima fase di globalizzazione»28. Questa straordinaria accelerazione nella velocità delle

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comunicazioni, consentendo una drastica riduzione del tempo delle transazioni, fa sì che il mercato globale divenga, come affermava Friedrich Engels in quegli anni, una «realtà operante». La “rottura” successivamente operata dalla Rivoluzione bolscevica (1917) provocherà un’oggettiva restrizione alla globalizzazione dei mercati. Si formerà infatti un’area economica distinta, in quanto basata sulla pianificazione centralizzata dell’iniziativa economica, la proprietà statale del capitale produttivo e un uso limitato dei mercati, che conoscerà negli anni una sua espansione (allargandosi alla Cina, ai paesi dell’est Europa, ecc) fino ad arrivare ad interessare circa un terzo della popolazione mondiale. Sarebbero sicuramente da approfondire le caratteristiche dei paesi definiti classicamente socialisti o comunisti (tra l’altro, e a torto, in maniera indifferente) con riferimento al significato che tali concetti hanno nel patrimonio teorico del marxismo a cui, almeno formalmente, i paesi definiti “socialisti” si rifacevano. Ci limitiamo qui a ricordare che lo stesso Vladimir Ilic Uljanov Lenin (→ Sezione Storia), leader riconosciuto dei bolscevichi, nel 1921 afferma che «l’espressione “repubblica socialista sovietica” significa che il potere dei soviet è deciso a realizzare il passaggio al socialismo ma non significa affatto che riconosca come socialisti i nuovi ordinamenti economici»29. L’obiettivo dichiarato della classe dirigente bolscevica, almeno fino al 1924, anno della morte di Lenin, era quello di operare la transizione da un sistema economico basato sulla prevalenza della piccola proprietà contadina, come era appunto quello della Russia pre-rivoluzionaria, ad uno capitalistico (in particolare nella variante del “capitalismo di Stato”)30, considerando tale approdo come un passaggio necessario per la transizione al socialismo e, solo successivamente (in quanto si tratta di due fasi ben distinte sia per Marx che nel pensiero di Lenin), al comunismo.

La rivoluzione d’Ottobre venne infatti a prodursi in uno dei paesi più arretrati dell’epoca, dove non si era completato quel ruolo rivoluzionario, sullo sviluppo delle forze produttive, a cui la borghesia aveva adempiuto altrove. In questo senso è stata anche definita una rivoluzione contro il Capitale (in riferimento all’opera di Marx)31, intendendo, con tale affermazione, che la soggettività rivoluzionaria aveva anticipato la maturità dei processi economici, considerata questa, nel Capitale di Marx, come la base necessaria per operare il passaggio rivoluzionario anti-capitalistico. Ora, la questione da porre, anche se non può trovare risposta in questa sede, sarebbe la seguente: si è compiuta, successivamente alla morte di Lenin, la transizione verso “ordinamenti economici” di tipo socialista o comunista, nel senso marxista del termine?32

Pur dovendo lasciare insoluta tale importante questione, non è certo avventato affermare che la presenza dei paesi ad economia pianificata rappresentò comunque una rottura nella tendenza capitalistica alla costruzione del mercato

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globale33 (pur se non cessarono mai del tutto i rapporti di scambio tra le due aree economiche concorrenti, salvo il primo periodo post-rivoluzionario quando i paesi capitalisti cercarono di annientare militarmente la Rivoluzione bolscevica). Tale situazione bipolare sarà erosa gradualmente negli anni, a causa di fattori sia esogeni sia endogeni, fino a comportare il definitivo crollo del sistema sovietico, simbolicamente collocato nel 1989, anno della caduta del “muro” di Berlino. Dopo di allora anche la Cina ha finito di integrarsi progressivamente nel sistema capitalistico globale34, pur senza conoscere gli stessi traumi politici che hanno interessato l’ex URSS.

L’’89, riunificando il globo in un unico mercato capitalistico, determina l’inizio della seconda fase “spinta” del processo di globalizzazione. Il mercato mondiale torna ad essere una «realtà operante» e, in tale passaggio, un ruolo centrale è rivestito dalle tecnologie ICT, che contribuiscono a realizzare un ulteriore straordinario avanzamento nella velocità della trasmissione delle informazioni e, cosa nuova, anche in quella di scambio delle stesse merci, considerata l’importanza oggi acquisita dalla produzione di merci immateriali.

Un recente studio, condotto da due economisti della Banca Mondiale, Paul Collier e David Dollar (→ Sezione Economia), è aderente alla nostra periodizzazione pur individuando un’ulteriore fase nel periodo che va dal secondo dopoguerra fino all’inizio degli anni ’80. Questa “integrazione” risulta per noi discutibile in quanto, in tale periodo (pur sicuramente di forte sviluppo dell’economia capitalistica), il globo era ancora spezzato in due dalla presenza dell’anomalia sovietica e, come evidenziano ancora Rodolfo Helg e Luca De Benedictis, lo scambio di merci e di capitali conosceva sì alte progressioni percentuali ma limitatamente all’ambito dei paesi industrializzati occidentali. Ad esempio il flusso di esportazione dei capitali destinati all’impiego produttivo (i cosiddetti IDE35), pur in forte ripresa in senso assoluto, dopo le “rovine” provocate dal secondo conflitto mondiale, «assume le caratteristiche di uno scambio intra-industriale Nord-Nord. Gli IDE sia in entrata (75% del totale) che in uscita (97%) si concentrano nei paesi industrializzati e gli IDE verso i PVS passano dal 63% del 1914 al 25% del 1980»36.

Possiamo allora dire, in continuità con quanto affermato con riferimento alle scaturigini storiche del processo di globalizzazione, che il mondo fondato sul modo di produzione capitalistico, nel periodo della coesistenza con i paesi ad economia pianificata, era ritornato “piano”. A prescindere da questa differenza di periodizzazione, la rappresentazione grafica dei due ricercatori della Banca Mondiale (proposta in figura 1) ci consente di fare una prima comparazione tra le due fasi da noi individuate, in base alle tre variabili che vi sono rappresentate: flussi migratori, esportazioni, investimenti diretti all’estero nei PVS (Paesi in via di sviluppo). Rispetto a questi indicatori, è interessante il ridimensionamento che

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ne risulta per l’attuale fase del processo di globalizzazione. Questa appare infatti come un mero “recupero”, e neanche esaurito, del terreno perso nel periodo contraddistinto dai due grandi conflitti mondiali.

Figura 1. Fonte: Banca mondiale 2002.

È importante sottolineare che anche in occasione della prima fase “spinta” del

processo si assiste, in maniera simile all’odierno dibattito sulla globalizzazione, alla prepotente affermazione di un termine all’interno del linguaggio corrente, imperialismo37, e ad un proliferare di studi sul fenomeno che descrive,. L’analisi di Vladimir Ilic Uljanov Lenin, espressa nel celebre testo L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (→ Sezione Storia), pubblicato nel 1917, fa il punto del dibattito allora in corso, nutrendosi tra le altre delle importanti opere di John Hobson38 (1858-1940) e Rudolf Hilferding39 (1877-1941)40, e lo indirizza all’interno del patrimonio teorico marxista.

In particolare, all’interno di un dibattito dove il concetto di imperialismo era a volte utilizzato (cosa che avviene anche oggi) per esprimere una potenza soggettiva emanante dall’autorità politica degli Stati (è il caso di Karl Kautsky - 1854-1938 - leader della socialdemocrazia tedesca del tempo), Lenin precisa la natura dell’imperialismo, riferendola a un assetto economico materiale nel quale la componente finanziaria del capitale assume un ruolo dominante su tutte le altre forme e di conseguenza si viene a realizzare una forma esacerbata di disgiunzione tra economia “reale” ed economia “finanziaria”: «L'imperialismo, vale a dire l'egemonia del capitale finanziario, è quello stadio supremo del capitalismo, in cui tale separazione [quella del possesso del capitale dall’impiego del medesimo nella produzione] raggiunge dimensioni enormi. La prevalenza del capitale finanziario su tutte le rimanenti forme del capitale importa una posizione predominante del rentier e dell'oligarchia finanziaria, e la selezione di pochi Stati finanziariamente più "forti" degli altri»41.

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Preoccupato dell’insufficienza di tutte le definizioni troppo concise per descrivere i molteplici rapporti del fenomeno da definire, Lenin enuncia cinque «principali contrassegni» che contraddistinguono l’imperialismo nell’epoca a lui contemporanea:

«1) la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica;

2) la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo "capitale finanziario", di un'oligarchia finanziaria;

3) la grande importanza acquistata dall'esportazione di capitale in confronto con l'esportazione di merci;

4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo»;

5) la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche»42;

Già una lettura sommaria consente, a parere di chi scrive, di intuire l’attualità dei suddetti contrassegni. La concentrazione, la finanziarizzazione, l’esportazione di capitale, la crescente affermazione delle multinazionali sono sicuramente caratteristiche tipiche anche dell’attuale fase di sviluppo del capitalismo e quindi del processo di globalizzazione. Ma tale prima impressione “positiva” non ci deve esonerare dall’analizzare gli importanti mutamenti, quantitativi e qualitativi, cui i suddetti “contrassegni” sono oggi soggetti. Procediamo dunque alla verifica della loro attualità43, operazione che ci permetterà contestualmente di mettere in evidenza le caratteristiche principali dell’attuale fase del processo di globalizzazione.

Primo punto. La concentrazione della produzione e del capitale (realizzata

attraverso l’attività di assorbimento/fusione di/tra imprese) a partire dagli anni ’90 del XX secolo ha conosciuto uno sviluppo continuo. La rilevanza del fenomeno è segnalata anche dal proliferare diffuso delle normative indirizzate a disciplinare (ma non impedire) tale processo44. Rispetto all’ambito prevalentemente nazionale che le operazioni di fusione hanno nella prima fase “spinta” di globalizzazione, oggi «cominciano a emergere monopoli e oligopoli su scala globale» (Soros → Sezione Economia). Inoltre, una caratteristica nuova del processo, rispetto alla precedente tensione verticale (che si ha quando le imprese che si uniscono appartengono ad uno stesso ramo di produzione), è la direzione orizzontale che esso assume, caratterizzata dalla fusione e quindi dal controllo centralizzato di aziende differenziate. La possibilità di diversificazione del prodotto così ottenuta consente alle imprese di attenuare i rischi derivanti dagli umori di un mercato sempre più “paludoso”.

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Importanti sono le implicazioni di carattere sociale che tale “assetto” oggi comporta. Nel ritrovato ambito globale sul quale si dispiega, il processo di concentrazione dà luogo ad una nuova divisione internazionale del lavoro che esaspera e globalizza la classica separazione tra lavoro intellettuale e manuale. Le grandi multinazionali conservano in Occidente le attività di progettazione e di marketing, mentre la produzione materiale viene dismessa ed esternalizzata nei Pvs, con l’insediamento di filiali di diretta ed esplicita proprietà della società madre o, più spesso, da essa formalmente svincolate attraverso forme di sub-appalto. Il prodotto viene alla fine inserito nel complesso sistema di marketing della multinazionale che provvede alla sua commercializzazione. Questa nuova divisione del lavoro su scala globale è un preciso portato della strategia basata sul cosiddetto “orientamento al marchio” (Naomi Klein → Sezione Economia), che ha portato le grandi imprese multinazionali a privilegiare gli investimenti in lavoro intellettuale. La politica del marchio è strettamente connessa con il processo di concentrazione; quasi sempre il consolidamento di un marchio, cioè l’avvio di una forte offensiva di marketing, si apre proprio con una maxi-fusione tra imprese. I paesi Occidentali hanno così visto diminuire la quota di occupati dediti alla produzione materiale, dirottati ora verso il settore dei servizi45 e in particolare nei grandi megastore dei marchi, dove la regola, nella gestione del rapporto di lavoro, è quella dell’estrema precarizzazione (la così detta flessibilità, per usare un termine oggi di moda).

Questo mutamento nelle condizioni di lavoro produce quindi, nei paesi Occidentali, rilevanti conseguenze sul benessere “materiale” della popolazione, con riferimento al rapporto tempo di lavoro/tempo libero e alla sua valorizzazione monetaria. Ma particolarmente rilevanti sono inoltre alcune implicazioni di carattere “psicologico”: attraverso la strategia del marchio le imprese cercano di realizzare, con sempre maggiore invadenza, forme di produzione di senso, di significati di vita46, che producono una inquietante colonizzazione dello “spazio mentale” delle persone (sui messaggi culturali veicolati attraverso i prodotti “di marca” si veda anche la tesi sulla mcdonaldizzazione illustrata da Mike Featherstone → Sezione Sociologia-Ecologia). Questa “offensiva” è illuminante sulla considerazione che nel mondo capitalistico si ha degli individui. Il loro apprezzamento in termini di meri “consumatori” ci è ulteriormente esemplificato da Naomi Klein che, nel suo No logo, riporta le chiarificanti parole di un professionista del settore marketing: «David Lubars, dirigente pubblicitario di Omnicom Group, enuncia con la massima franchezza il principio che guida le politiche industriali. I consumatori, dice, “sono come gli scarafaggi: dopo un po’ il solito insetticida non basta più, li devi spruzzare con roba più forte”»47. Espresso qui in maniera quanto mai “cruda” emerge lo sforzo, da sempre in atto

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da parte del Capitale, teso a bonificare (senza peraltro mai ottenere risultati “definitivi”) la “palude” del mercato.

Secondo punto. Nella prima fase “spinta” di globalizzazione (cfr. figura 1), la

formazione del capitale finanziario è un prodotto dell’attività di fusione tra imprese del settore bancario attraverso la quale alcune banche acquisiscono il ruolo di monopolizzatori del capitale liquido. Si vengono così a creare delle oligarchie finanziarie che finiscono per esercitare un diretto controllo su chi di tale liquidità ha bisogno (quindi sulla produzione).

Oggi, il dominio del capitale finanziario si è affinato avvalendosi di nuovi mezzi: le nuove forme di raccolta fondi, orientate alla raccolta capillare del risparmio da una massa impotente di piccoli investitori, consentono la loro concentrazione nelle mani di pochi capitalisti o dei fondi di investimento, oligarchie finanziarie in grado di indirizzare i capitali là dove la redditività sia prevista più alta che altrove; la crescente velocità con cui i capitali si muovono sulle reti digitali globali ha dato un grande impulso al mercato dei titoli, soprattutto grazie alla possibilità della sua automatizzazione che ha messo in mano alle macchine la gestione routinaria degli scambi (sulla “finanza in rete” si veda il testo di Calvo – Ciotti - Roncaglia - Zela → Sezione Tecnologia).

I flussi di finanziamento internazionali, che relegano i movimenti industriali e commerciali a un'infima parte del movimento totale dei capitali, consistono essenzialmente in: emissioni di obbligazioni, transazioni sulle azioni, crediti bancari. Modesto appare essere invece, contrariamente a quanto si pensa, il ruolo svolto dalle Borse valori. Gli investimenti borsistici sono più che altro orientati ad azioni speculative: «Nel corso degli anni ’90, il riacquisto di azioni da parte delle imprese con sede negli USA è stato spesso superiore alle emissioni di azioni. La riduzione dei tempi di possesso delle azioni (appena 7 mesi in media sulle Borse mondiali, alla fine del 2001) dimostra che la speculazione è un obiettivo prioritario per i detentori di attivi finanziari. Le istituzioni dominanti sui mercati finanziari sono i fondi di investimento collettivi (fondi pensionistici o mutualistici) e le compagnie di assicurazione»48. Proprio il crescente peso dei “fondi di investimento collettivi” ha contribuito ad annientare ulteriormente il ruolo del capitalista singolo, già reso precario dal fenomeno dell’azionariato diffuso, ormai sostituito da un complesso caotico di interessi anonimi. L’imprenditore è oggi separato dal possesso del capitale, e risulta invece suddito delle oligarchie finanziarie globale che sono le entità che gravitano intorno al debito estero mondiale intervenendo, attraverso sedi informali come il Club di Parigi (→ Glossario) ogni qual volta la Banca Mondiale deve organizzare una catena di raccolta per un prestito (sul problema del debito, che non è un problema, come

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spesso si crede, dei soli Pvs ma riguarda il complesso degli Stati nazionali, si veda il brano di Eric Toussaint → Sezione Economia).

La sussunzione dell’industria alla finanza globale è ormai completa. Ma i vertiginosi utili conseguibili in ambito finanziario non esprimono un reale incremento della ricchezza sociale complessiva. L'indice vero di crescita di un'economia è l'incremento della produzione e dei servizi vendibili un anno sull'altro. Quindi non ha niente a che vedere con il movimento di capitale fittizio.

Infine, è opportuno ricordare che, se da un lato l’automatizzazione dei mercati dei titoli rende disponibili maggiori capitali per le imprese che vogliono effettuare nuovi investimenti produttivi, dall’altro aumenta l’instabilità del sistema capitalistico globale a causa delle opportunità che essa offre per l’esplosione dei movimenti di capitale a breve termine.

Terzo punto. Oggi, parlare di una maggiore importanza dell’esportazione di

capitali rispetto a quella di merci non ha più alcun senso, considerato come la prima ha ormai surclassato la seconda. In particolare la parte da padrone la fa la componente dei capitali speculativi: «nel 1998, le transazioni giornaliere sui mercati dei cambi superavano i 1.400 miliardi di dollari, ossia un importo cento volte superiore alle somme necessarie per finanziare le transazioni su beni e servizi»49.

La duplice necessità del Capitale, di realizzazione e di capitalizzazione, ha spinto i poteri forti dell’economia globale a promuovere, negli anni ’90 del XX secolo, una serie di politiche finalizzate alla rimozione delle barriere che ancora in molti paesi vengono poste alla libera circolazione di merci e capitali. A tale scopo sono stati istituiti organismi nuovi, come l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO - World trade organization), istituito nel 1995 per promuovere la liberalizzazione del commercio di beni e servizi, o ne sono stati adeguati altri già esistenti, come il Fondo monetario internazionale (FMI), le cui linee di attività, negli ultimi anni, sono state sempre più indirizzate a promuovere la liberalizzazione dei mercati dei capitali.

Come nota Joseph Stiglitz (→ Sezione Economia), le politiche di liberalizzazione promosse in entrambi gli ambiti sono state a “senso unico”, essendo orientate a rimuovere le “barriere” solo per quanto di interesse dei paesi a capitalismo avanzato, che restano le sedi delle multinazionali e delle oligarchie finanziarie più potenti.

Così, in ambito WTO, i paesi occidentali hanno spinto per liberalizzare il commercio dei loro prodotti di esportazione continuando a proteggere i settori che potevano risentire della concorrenza dei Pvs. Inoltre, è importante sottolineare come il pur forte sviluppo quantitativo del commercio internazionale di merci risulta mistificato dal ruolo crescente delle multinazionali: nel 2001 «l’ammontare

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delle vendite locali delle filiali all’estero rappresentava due volte il valore delle esportazioni mondiali. In altre parole il commercio internazionale, che è comunque un indice significativo della globalizzazione, è oggi molto meno rilevante della distribuzione locale di beni e servizi da parte delle multinazionali»50.

Ancora di più il carattere imperialista delle relazioni economiche globali emerge dalle politiche di liberalizzazione dei mercati dei capitali promosse dal FMI. Queste tradiscono palesemente, sempre secondo Stiglitz, il cambiamento di “mandato” di questa istituzione, avvenuto occultamente, che è passato «dal servire gli interessi economici globali al servire gli interessi della finanza globale. La liberalizzazione dei mercati dei capitali non avrà forse contribuito alla stabilità economica globale, ma ha sicuramente aperto nuovi, vasti mercati per Wall Street»51.

Le crescenti prerogative di FMI, Banca Mondiale e WTO, «le tre principali istituzioni che governano la globalizzazione»52, pongono crescenti vincoli agli Stati nazionali nella possibilità di tutelare alcuni “classici” obiettivi politico-sociali quali, ad esempio, la sicurezza dei cibi e dei farmaci (si veda il caso della carne trattata con ormoni artificiali presentato da Lori Wallach e Michelle Sforza → Sezione Sociologia- Ecologia), la tutela delle proprie risorse ambientali53, la salvaguardia dei diritti fondamentali dell’uomo in quanto lavoratore, ecc. Sono le istituzioni economiche globali che esercitano oggi quella funzione di struttura giuridico-economica prima esercitata dallo Stato-nazione e, come ci è chiarito ancora da Stiglitz, nella sua autorevole veste di ex consigliere di Bill Clinton nonché di ex senior vice president e chief economist della Banca mondiale, nella loro azione, si fanno «guidare principalmente da interessi commerciali e finanziari»54.

Quarto punto. A partire dalla fine del XIX secolo, le associazioni

monopolistiche nazionali cominciano a organizzarsi in cartelli mondiali, essenzialmente per lo sfruttamento dei settori estrattivo, ferroviario e della produzione di elettricità.

Oggi, il consolidamento del processo di concentrazione nel ricostituito mercato unico mondiale, ha prodotto l’affermazione di società multinazionali che realizzano una completa integrazione del ciclo produttivo su scala globale. Le multinazionali ottimizzano così l’impiego dei fattori produttivi su tutto il globo, in un’ottica di minimizzazione dei costi e quindi di massimizzazione dei profitti. I numeri sono imponenti: nel 2001 le multinazionali erano 65.000, «con 850.000 filiali all’estero, e davano lavoro a 54 milioni di persone»55. Altrettanto imponente appare la predominanza della componente che “risiede” nei paesi a

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capitalismo avanzato: «nella graduatoria delle 200 maggiori imprese multinazionali il 93% appartiene a paesi OCSE»56.

Come abbiamo visto, nella strategia di dislocazione del ciclo produttivo, la direttrice principale perseguita dalle multinazionali conosce una tendenza alla dismissione della produzione materiale dall’Occidente e al suo contestuale trasferimento nei Pvs, assurti ormai a “regno” della produzione materiale perché, «ironia della sorte», afferma con sarcasmo la Klein, «c’è sempre qualcuno che si deve sporcare le mani».

La forma privilegiata con cui le multinazionali si insediano nei Pvs è costituita dalle cosiddette Zone industriali di esportazione (Exporting Processing Zone – EPZ). Queste zone costituiscono in pratica delle enclave all’interno degli Stati che le ospitano, in quanto non sottoposte alla loro sovranità per tutta una serie di prerogative tradizionalmente di competenza “statale”. Questo regime di extraterritorialità favorisce la totale mancanza di garanzie sindacali sul posto di lavoro e quindi l’estrema flessibilità della forza-lavoro. Le “cronache” della Klein, osservatrice del fenomeno anche attraverso una partecipazione diretta, ci documentano su situazioni di turni di lavoro infiniti57, di locali malsani, adiacenti alle fabbriche, dove i lavoratori sono costretti a pernottare per ottimizzare i tempi di spostamento, di lavoro minorile, di salari irrisori, di discriminazioni di genere58, ecc. Le merci che vi vengono prodotte sono poi messe in vendita in Occidente con una percentuale di ricarico sul costo di produzione che, grazie ai bassi salari che vengono pagati, è altissima. Al riguardo, sempre la Klein riferisce come, «un’operaia indonesiana della Nike resta a bocca aperta allo scoprire che le scarpe da ginnastica che ha confezionato per 2 dollari al giorno vengono vendute per 120 dollari nel negozio Nike Town di San Francisco»59.

Queste EPZ, che ricordano molto da vicino le famigerate workhouses inglesi del XIX secolo, secondo uno studio della Banca Mondiale (Collier e Dollar → Sezione Economia), «possono rappresentare l’opzione migliore per integrarsi nel mercato mondiale»60.

Nonostante le multinazionali godano di una grande flessibilità nel trasferire, a prezzi speciali, beni e società estere affiliate, al fine di ottenere dei vantaggi fiscali, e possono inoltre esercitare pressioni sugli Stati nel momento in cui prendono decisioni riguardo agli investimenti, la loro flessibilità non è paragonabile alla libertà di scelta di cui godono gli investitori finanziari internazionali (Soros → Sezione Economia). Quindi nessuna "associazione monopolistica internazionale di capitalisti" ha più la minima possibilità materiale di spartirsi il mondo; questo è invece sottomesso a un capitale finanziario internazionale che fa muovere tutti (Stati e imprese) al suo ritmo.

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Quinto punto. Qui siamo in presenza di una novità veramente essenziale. All’epoca in cui scrive Lenin, la spartizione economica del mondo tra le “associazioni monopolistiche internazionali” procedeva in stretta simbiosi con la spartizione territoriale del mondo da parte degli Stati. Il dominio imperialista trovava dunque uno dei suoi tratti essenziali nella lotta militare tra potenze imperialiste per il controllo delle nazioni più deboli. Questo tratto rifletteva a sua volta una situazione in cui gli oligopoli poggiavano su una base nazionale nella quale lo Stato giocava un ruolo fondamentale.

Oggi gli oligopoli hanno una dimensione globale, non esiste un’economia nazionale svincolata dal complessivo assetto economico mondiale. Quindi, il loro spazio di riferimento travalica, per forza di cose, i confini nazionali, e i loro interessi devono essere tutelati su tutte le zone del mondo in cui sono dislocati. Emerge quindi la necessità di una forma giuridica che rappresenti tali interessi su scala globale, in una logica quanto più possibile unitaria.

Benché tale forma giuridica sovra-nazionale sia ancora in uno stato di formazione, già oggi se ne percepiscono alcune manifestazioni. Esistono infatti organismi sovra-nazionali (FMI, WTO, WB) che definiscono le linee guida dello sviluppo economico globale imponendole agli Stati nazionali. Sul terreno politico-militare, l’ordine internazionale è altresì gestito unitariamente attraverso uno Stato, gli USA, che detiene una supremazia di forza bellica mai conosciuta prima nella storia. In tale situazione non è più possibile ipotizzare uno scontro inter-imperialistico tra gli Stati sul terreno militare. La lotta tra gli imperialismi procede oggi diversamente e sempre più si assiste a paesi che sono avviluppati da una rete di dipendenza finanziaria e/o diplomatica, pur mantenendo l’indipendenza politica formale. La presenza di una “lotta” esclude ovviamente la possibilità che l’imperialismo sia diventato unitario. Considerato dal punto di vista economico, che è la sua più genuina essenza, esso è aspramente concorrenziale tra i suoi attori. Il Capitale globale complessivo ha bisogno di mercati aperti per le sue merci ed i suoi capitali, e di regole certe e durature per insediarsi nello spazio “esterno”. Ha necessità, in pratica, di un quadro di regole orientate a subordinare ogni rapporto sociale alla forma dello scambio di merci. Definisce quindi, e tutela, l’“arena”, di interesse di tutta la classe capitalistica globale, con l’ausilio delle sue istituzioni finanziarie o della guerra, e operando in questo senso, rappresenta unitariamente gli interessi di tutti i vari imperialismi nei confronti dello spazio esterno, quello cioè non ancora sussunto realmente al modo di produzione capitalistico. Gli investitori (le oligarchie finanziarie, così come le multinazionali, che hanno oggi la necessità di regole definite a livello globale per lanciarsi nella competizione oligopolistica) sono così liberi di guadagnarsi la loro quota nella spartizione del mercato globale, in base naturalmente ai reciproci rapporti di forza periodicamente dati.

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Questa logica “unitaria”, assunta dal meccanismo di rappresentazione degli interessi del Capitale sull’arena internazionale, ha trovato, nel momento in cui si è presentata, una formalizzazione precisa attraverso la riesumazione del concetto di “impero”, l’altro “nuovo” concetto che pregna, insieme a quello di “globalizzazione”, l’attuale fase del dibattito politico-scientifico.

5. L’IMPERO GLOBALE. Le origini dello Stato moderno vengono comunemente fatte risalire al periodo

tra la seconda metà del sec. XV e la prima metà del XVII, quando si produce la «costituzione o il consolidamento di una pluralità di centri sovrani e indipendenti di potere politico e lo stabilimento di una regolare vita di relazione tra gli stessi»61. Queste autorità politiche si affermano come sovrane entro i confini del proprio territorio, quindi come autorità che «superiorem non recognoscentes, così in temporalibus come in spiritualibus»62. La loro sovranità è infatti basata su «una potestà originaria, indipendente da concessioni o da investiture di autorità superiori: ed in particolare da concessioni o da investiture delle due autorità – il Sacro Romano Impero e il Papato – che avevano avanzato nel corso del Medioevo concorrenti pretese di sovraordinazione su ogni altra autorità politica»63. Ora, una non trascurabile parte della dottrina fa risalire a tale periodo anche le origini della moderna società internazionale. Infatti, contestualmente alla loro formazione, le nuove autorità politiche indipendenti si giust’appongono l’una rispetto all’altra, in una costituenda società internazionale, dando luogo ad una vita di relazione che comincia a uniformarsi a certe “regole del gioco” di carattere generale. Sorgono quindi i primi embrioni del diritto internazionale che, vista la non esistenza di un legislatore sovraordinato ai soggetti che la compongono, si configura come un diritto di formazione spontanea o volontaria in quanto basato sulla consuetudine e sui trattati. “Regole del gioco” che non risultano però adeguate a normare il conflitto sul piano dei rapporti tra gli Stati, così come nello stesso periodo avviene sul piano dell’ordinamento statale interno. L’epoca del consolidamento degli Stati moderni è così anche quella di conflitti sempre più estesi tra di loro.

Una realtà conflittuale, dunque, che continuerà a interessare la società internazionale fino al XX secolo, quando la “tendenza alla guerra” conoscerà anzi una forte esasperazione con i due grandi conflitti mondiali inter-imperialisti che lo segneranno. Inutili, infatti, si riveleranno i tentativi di “costruzione” di organismi sovra-nazionali in grado di definire una governance mondiale tra gli Stati sovrani. È il caso della Società delle Nazioni (Versailles 1919) ma anche, a nostro avviso, della Carta delle Nazioni Unite (San Francisco 1945), che pur poneva il primo dei fini dell’O.N.U. proprio nel mantenimento della pace (secondo l’art. 51 della Carta, l’unica ipotesi in cui è previsto l’impiego della

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forza da parte di uno Stato è la legittima difesa). Se è infatti vero che, dopo il 1945, non si è più assistito ad un conflitto militare delle medesime dimensioni della seconda guerra mondiale, la ragione di questa “tregua” non va ricercata nella presenza delle Nazioni Unite, ma risiede invece nell’equilibrio bipolare contestualmente venutosi a creare. Sono i due “blocchi” contrapposti che optano, anche in virtù dell’enorme incremento della capacità di distruzione delle armi disponibili, per il perseguimento di una politica di coesistenza pacifica nell’ambito della quale il conflitto, comunque presente, è ricondotto alla capacità economica dei due sistemi di superarsi oppure è collocato, quando si esprime sul terreno militare, in ambiti “locali” (esportando in paesi “satellite” i dissidi esistenti tra le due superpotenze). In pratica, fino al 1989 «la guerra è stata considerata da ambedue le parti extremum remedium, da usarsi solo se tutte le altre strade fossero risultate impraticabili»64. Una situazione insolita, rispetto alla storia degli Stati nazionali, che ha garantito un lungo periodo di pace - ma solo, ahimè, “nel cuore” dell’Occidente - definita storicamente come “guerra fredda”.

Ora, è proprio a tale periodo che occorre risalire per comprendere l’attuale connotazione dell’ordine mondiale, per la descrizione del quale si ricorre, sempre più frequentemente, al concetto di Impero. Con la II guerra mondiale si chiude l’epoca delle guerre tra entità statali autonome e quella, più recente, dei grandi conflitti inter-imperialisti del XX secolo. Il secondo dopoguerra ci restituisce una realtà caratterizzata, oltre che da un globo spezzato in due dalla presenza di un modello alternativo di gestione dell’economia, da un “campo” capitalista dove la competizione militare tra stati imperialisti risulta virtualmente impossibile, considerata la smisurata superiorità acquisita dagli USA. Da questo preciso contesto ha origine, come afferma Alberto Asor Rosa (→ Sezione Diritto-Politica), la prima Grande potenza mondiale della storia: «noi non ce n’eravamo accorti, anzi, la pratica e l’ideologia del mondo bipolare ce ne avevano nascosto per cinquant’anni la dimensione e la prospettiva, ma già nel 1945, - possiamo dirlo con facile sicurezza retrospettiva, - era nata la prima Grande Potenza Mondiale della storia, mentre l’altra Grande Potenza Mondiale, che le si contrapponeva, fin dall’inizio non avrebbe potuto che soccombere. (…) l’’89 è il momento della verità: cade la mascherata, le alternative socialiste si rivelano totalmente illusorie, la Grande potenza del ’45 diventa la prima Grande Potenza Mondiale della storia»65.

A partire dal ’45 si opera una forzatura politica, determinata dai nuovi rapporti di forza con cui si chiude il secondo conflitto mondiale, che produce una rappresentazione unitaria, basata dunque sulla logica dell’“unum imperium, unus rex”, che, sotto l’egida americana, si assume il preciso onere di occidentalizzare il globo (vale a dire di sussumerlo al modo di produzione capitalistico) e per farlo deve annientare l’alternativa posta in essere dal blocco sovietico, l’“Impero del

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male” di reaganiana memoria. Una rappresentazione unitaria che esige, per il suo dispiegarsi, una puntuale regolazione delle relazioni economiche e politiche all’interno del campo occidentale. In questo senso, è interessante rilevare come, di recente, autorevoli “voci” abbiano riconsiderato il significato di alcuni “strumenti” politico-militari storicamente posti in essere. È il caso di Gore Vidal (→ Sezione Diritto-Politica) quando afferma che la NATO (North Atlantic Treaty Organization), comunemente considerata come uno strumento creato in funzione anti-sovietica, «venne creata in modo che gli Stati Uniti potessero dominare l’Europa occidentale militarmente, politicamente ed economicamente»66.

L’orientamento imperiale rimasto occulto per oltre 40 anni esce allo scoperto nel momento in cui si avverte che la Grande Potenza Mondiale non ha esaurito il suo compito con il crollo del “muro” ma, proprio a partire da questo passaggio, ha conosciuto una nuova legittimazione. Una legittimazione, è bene sottolinearlo, che esprime un’assunzione di responsabilità non autonoma, ma conseguente ad una precisa chiamata in causa dall’esterno. Come notano Antonio Negri e Michael Hardt (→ Sezione Diritto-Politica), «con la conclusione della guerra fredda, gli Stati Uniti furono chiamati a garantire e ad aumentare l’efficacia giuridica del processo di formazione di un nuovo diritto sovranazionale. Così come, nel I secolo avanti Cristo, i senatori chiesero ad Augusto di assumere le prerogative imperiali per l’amministrazione del bene comune, allo stesso modo, anche oggi, le organizzazioni internazionali (le Nazioni Unite, gli organismi finanziari internazionali e le organizzazioni umanitarie) chiedono agli Stati Uniti di assumere il ruolo centrale nel nuovo ordine mondiale. […] Questa è una delle caratteristiche determinanti dell’Impero: esso risiede in un contesto mondiale che lo invoca di continuo»67. Qualcosa di molto diverso, dunque, dalle ricorrenti dichiarazioni che demonizzano gli Stati Uniti, perché considerati come autori di un golpe ai danni della “democratica” comunità internazionale.

Il nuovo ordine mondiale si palesa (e facendolo tradisce l’emergere della nuova forma giuridica nella quale trova espressione68) per la prima volta in occasione della guerra del Golfo del ’91, la cui importanza, ancora secondo Negri e Hardt, deriva proprio «dalla dimostrazione che gli Stati Uniti erano l’unica potenza in grado di dirigere la giustizia internazionale non in relazione a motivazioni d’ordine nazionale, ma in nome del diritto globale»69. A partire da tale passaggio storico, infatti, sono emersi tutta una serie di elementi, sintomi della formazione di questo “diritto globale”, che hanno stimolato la rinascita del concetto di Impero per descrivere la nuova forma giuridica in fase di costituzione. Uno dei primi è stato sicuramente quello di “guerra giusta”, in precedenza «organicamente associato agli antichi ordinamenti imperiali e la cui ricca e complessa genealogia risale alla tradizione biblica» (Antonio Negri e Michael

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Hardt → Sezione Diritto-Politica), riapparso al centro del dibattito politico appunto nel periodo della guerra del Golfo del ’91. Attraverso l’utilizzo di questo concetto, la guerra, mentre viene ridimensionata a intervento di polizia internazionale (condotto tra l’altro in una situazione di gap tecnologico spropositato70), diviene uno strumento etico che trova condivisione generale nell’ambito del panorama degli Stati sovrani.

Successivamente, l’apparato ideologico dell’Impero si affina in occasione di altre operazioni di “polizia internazionale”. Così, la successiva guerra contro la Serbia, nel 1999, oltre che essere una guerra giusta presenta anche un’altra caratteristica importante: è una “guerra umanitaria”. E sono proprio i gravi motivi umanitari che inducono l’Occidente a scatenare una guerra che aggira la necessaria sanzione dell’ONU e il dettato della Carta.

Una guerra umanitaria che rientra in realtà in una «strategia più complessa»71. La sua chiamata in causa serve infatti solo strumentalmente (è ben visibile, nel mondo contemporaneo, la presenza di crisi umanitarie che da sempre giacciono dimenticate72), per dimostrare che l’impero, proprio come nella tradizione antica, esercita la forza militare come se questa fosse al servizio del diritto e della pace: «Ancora una volta, le antiche teorie dell’Impero ci consentono di articolare meglio la natura di questo ordine mondiale che si sta sviluppando. Come Tucidide, Livio e Tacito ci hanno insegnato (insieme a Machiavelli, commentatore delle loro opere), l’Impero non è fondato solo sulla forza, ma sulla capacità di rappresentare la forza come se fosse al servizio del diritto e della pace. Tutti gli interventi dell’esercito imperiale sono sollecitati da una o più parti coinvolte in conflitti già in atto. L’Impero non è nato da un proprio atto di volontà, bensì viene invocato e costituito in funzione della sua capacità di risolvere i conflitti»73.

Una «strategia più complessa» che ci pare alla fine orientata a disarticolare tutte le anomalie che si pongono contro il disegno di occidentalizzazione del mondo.

La sanzione definitiva della connotazione imperiale dell’attuale ordine mondiale è arrivata più di recente, con il governo USA di George Bush junior che, nel settembre 2002, ha reso pubblico il documento sulla Strategia di Sicurezza Nazionale degli U.S.A. (The National Security Strategy of the United States of America → Sezione Politica-Diritto). La strategia delineata, figlia conseguente dell’11 settembre 2001, quindi elaborata sulla scorta della nuova minaccia terroristica (sul terrorismo come prodotto della resistenza al disegno di occidentalizzazione del mondo si veda il testo di Massimo Fini → Sezione Sociologia-Ecologia), teorizza la guerra preventiva come forma di interpretazione originale del classico diritto all’autodifesa, e con ciò delinea «una prospettiva bellica che si profila come radicalmente eversiva non solo della Carta delle

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Nazioni Unite ma dell’intero diritto internazionale generale, così come si è consolidato nei secoli della modernità» (Danilo Zolo → Sezione Politica-Diritto). Una guerra preventiva che esige una situazione egemonica («oggi, gli Stati Uniti godono di una posizione di impareggiabile forza militare e di grandioso potere economico e politico»), che è poi quella che gli USA intendono preservare proprio adottando una strategia di “prevenzione” che impedisca il sorgere di una forza militare in grado di competere con la loro e, per farlo, affermano che «agiranno con forza sufficiente a dissuadere gli avversari potenziali da qualsiasi politica degli armamenti volta a superare o perfino eguagliare» quella degli Stati Uniti.

Una connotazione imperiale che trova ancor di più sanzione nel riconoscimento di agire non in relazione a motivazioni di ordine nazionale, bensì di salvaguardia di un modello di sviluppo, «l’unico modello sostenibile» si recita, quello basato su «libertà, democrazia e libera impresa».

Ora, la definizione di questa strategia si inserisce, a nostro avviso, senza soluzione di continuità all’interno della realtà venutasi a manifestare a partire dall’’89. L’unica novità è riferibile alla maniera di regolare le relazioni economiche e politiche all’interno della “cupola” imperiale (che tendenzialmente trova espressione nel «G-7, i governi dei sette principali paesi industrializzati: Stati Uniti, Giappone, Germania, Canada, Italia, Francia e Regno Unito»74) che con George Bush junior, e in particolare dopo l’11 settembre, vede accentuarsi l’unilateralismo dell’azione americana. È vero che nella SSN si afferma di preferire, nella conduzione della guerra preventiva, l’iniziativa multilaterale ma, qualora questa mancasse, non si esita ad affermare che «l’America non esiterà ad agire da sola, se necessario, per esercitare il diritto all’autodifesa agendo a scopo preventivo contro i terroristi, e impedire che nuocciano ai nostri cittadini e al nostro potere».

A partire dal 1991, in occasione della guerra del Golfo, si era assistito a una conduzione della guerra nell’ambito di una precisa logica di “divisione del lavoro imperiale”. Accanto all’esercizio della funzione militare erano presenti quelle di finanziamento, di supporto logistico, di gestione delle emergenze del dopoguerra, di ricostruzione economica, di soccorsi umanitari, ecc., all’interno delle quali venivano incasellati gli apporti dei vari Stati sovrani del blocco Occidentale. Un ruolo attivo di tutti, dunque, al di là della funzione esercitata, che è sembrato tornare in discussione nella più recente guerra preventiva contro l’Iraq del 2003, quando alcune posizioni hanno dato adito a interpretazioni su una supposta frattura nella logica del potere unico. Ma, proprio mentre scriviamo, la logica “unitaria”, inevitabile in un mondo globalizzato, è stata comunque ripristinata, con tanto di sanzione ONU (la risoluzione n. 1511 adottata all’unanimità dal Consiglio di sicurezza il 16 ottobre 200375), che ha di fatto legittimato la guerra

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preventiva e riconosciuto l’attuale status quo, quindi l’occupazione militare. Secondo la risoluzione infatti, saranno sempre gli Stati Uniti a dover riferire sugli sviluppi futuri della situazione in Iraq.

Gli Stati dissidenti al momento dello scoppio del conflitto (Francia, Germania, Russia, Cina), si sono alla fine piegati alla logica dell’“unum imperium, unus rex”, fino ad arrivare a riconoscere l’attuale governo fantoccio, chiaro mandatario degli occupanti, come «broadly representative» (ampiamente rappresentativo). Ribadita è stata anche la necessità di ripristino della “divisione del lavoro imperiale”: il Consiglio di Sicurezza ha invitato tutti gli Stati e le istituzioni finanziarie internazionali a sostenere la ricostruzione dell'Iraq.

L’Occidente pare dunque non poter più sfuggire alla logica del potere unico, e questo nonostante esistano importanti contraddizioni all’interno del “centro” dell’impero. Contraddizioni che non derivano da una reale opposizione a tale logica ma al tentativo di alcune componenti della “cupola” imperiale di ridefinire i loro rapporti di forza reciproci. Il sistema capitalistico globale, nel suo assetto imperiale, si perpetuerebbe anche con un mutamento tale dei rapporti di forza, necessariamente anche e soprattutto militari (cosa comunque assolutamente non ipotizzabile oggi), che ponesse gli USA in una posizione di sudditanza rispetto, per fare un esempio, all’Europa. L'Europa aspira anch’essa ad un ruolo di superpotenza dentro lo sviluppo globale dell'economia e della politica-mondo, ed è dunque irreale pensare che da essa possa venire la proposta o l’iniziativa indirizzata a concretizzarsi in un modello economico e politico di democrazia crescente a livello mondiale76.

All’interno del contesto dei rapporti di forza oggi vigenti, non è un caso che si assista ad una esasperazione dell’utilizzo della forza militare. Per mantenerli inalterati infatti, gli Stati Uniti non possono far altro che attingere all’uso dell’unica forza che ancora detengono in forma monopolistica. In questo senso, la guerra non è più un’azione destinata a restaurare un ordine ma si rivela come lo strumento oggi privilegiato per il mantenimento dell’ordine imperiale, in quanto, mentre respinge i “barbari” alle frontiere, ha la funzione di compattare l’Occidente al suo interno. In pratica, tiene in riga alleati e nemici (su tale tipo di “lettura” si veda Alberto Asor Rosa → Sezione Diritto-Politica). Ora, l’assunzione della guerra come strumento “di governo” esige naturalmente un’invenzione continua del nemico, e in questo senso la guerra contro il terrorismo inaugurata dall’Amministrazione Bush è una guerra, come è stato del resto candidamente ammesso, di cui non si può ipotizzare la fine, una “guerra infinita”.

Quello che è importante sottolineare, è l’improponibilità di una lettura che considera l’impero come una forma giuridica propria degli USA, quindi che fa riferimento ad un fantomatico “impero americano”. Si tratta di un equivoco,

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rinvigorito dalla tendenza all’unilateralismo esasperata dall’Amministrazione Bush, ampiamente presente nel dibattito sull’Impero. Una concezione che, oltre ad essere presente negli ambienti classici dell’anti-americanismo (dove tale sentimento ci pare distogliere l’opposizione anti-capitalista da quello che è il vero cuore dell’Impero, il sistema capitalistico globale), si è affermata, e questo gli conferisce particolare importanza, anche all’interno dell’establishment americano. La vocazione imperiale è apparsa infatti come elemento ricorrente, e già da qualche anno, nelle affermazioni di numerosi politici ed accademici, e non solo di area repubblicana (cioè quella dei cosiddetti neocons)77. Per ultimo anche un autorevole studioso come Eric Hobsbawm (1917-) ha fatto riferimento all’impero come ad un “impero americano”, con il risultato di non riuscire a spiegare le determinazioni concrete che esso esprime: «L’improvvisa ostentazione di forza straordinaria, brutale, antagonista degli stati uniti è ancor più difficile da comprendere, visto che non corrisponde né alla politica imperiale messa alla prova negli anni, ai tempi della guerra fredda, né agli interessi economici americani»78. E’ proprio il pensiero rivolto a questi interessi economici nazionali, ancora, che occulta ad Hobsbawm, e a molti altri, i motivi del dispiegamento dell’azione militare degli Stati Uniti, e questo al di là della sua prevalente mono o multi lateralità.

Per questo, noi riteniamo corretto utilizzare, come del resto abbiamo fino ad ora cercato di fare, la variante d’uso del concetto di impero che vede tale categoria in stretta connessione con quella di mercato. In tale accezione, introdotta nel dibattito da Alberto Asor Rosa79 all’indomani della fine della guerra fredda, «l’impero» non è traducibile con gli Stati Uniti, ma è invece «il sistema che l’Occidente ha creato per realizzare il proprio dominio sul mondo»80.

Un sistema imperiale che trova un importante “pilastro” nella forza militare degli USA, ma che completa i suoi basamenti con tutta una serie di altre istituzioni che in particolare vanno a rilevare, come abbiamo già sottolineato, l’esercizio della funzione di struttura giuridico-economica prima esercitata dallo Stato-nazione. È certamente vero che anche queste istituzioni appaiono oggi egemonizzate dal potere americano, ed è Joseph Stiglitz che, descrivendo criticamente l’attuale gestione dell’economia globale, afferma che la stessa trova il suo indirizzo strategico nel cosiddetto Washington Consensus, «vale a dire un’identità di vedute tra l’FMI, la Banca Mondiale e il Tesoro degli Stati Uniti circa le politiche «giuste» per i paesi in via di sviluppo»81. Ma, confortati sempre da Stiglitz, è altrettanto accertabile che sono gli interessi del capitale privato americano ad essere tutelati dal Tesoro e, attraverso questo, a dominare completamente all’interno del FMI. È l’imperialismo delle oligarchi finanziarie con sede in America, ma non per questo vincolate dal patriottismo, che detiene

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oggi la leadership all’interno del sistema capitalistico imperiale, difendendola tra l’altro strenuamente82.

Sempre più gli Stati, si trovino essi al centro o alla periferia dell’impero, sono costretti ad assumere le vesti di autorità politiche che superiorem recognoscentes in quanto è emersa la presenza di una nuova autorità “superiore”, che concretamente li sovradetermina. L’impero è questa entità superiore, riconosciuta, e quindi legittimata, sia in temporalibus, con le concrete forme di gestione che assume sul terreno politico, militare, economico, sociale, ecc., che in spiritualibus, in quanto lo “spirito del capitalismo” è diventato il vero “credo” di riferimento che rende potenzialmente sudditi tutti gli esseri umani.

È un impero evidentemente “astratto”, dove con astrazione non intendiamo le forme di dispiegamento del potere imperiale, in realtà terribilmente concrete riguardo all’influenza esercitata sulla vita dei suoi “sudditi”, quanto l’indeterminatezza del “soggetto” preposto a portare la corona imperiale. Questa non sta in testa a Bush, ad altro individuo fisico o ad un altrettanto identificabile organo collegiale. Appartiene invece ad un soggetto diffuso e impalpabile che si muove sulle reti digitali della finanza globale e la cui sostanza intrinseca è quella di essere una “catena di interessi”. In questo senso, una delle definizioni migliori dell’impero ce la fornisce probabilmente George Soros: «Si può paragonare il sistema capitalistico a un impero: un impero la cui portata è più globale di qualsiasi altro l’abbia preceduto. Esso domina una civiltà intera e, come in altri imperi, coloro che si trovano fuori dai suoi confini sono considerati barbari. Non è un impero territoriale, perché manca della sovranità e delle sue insegne; anzi, la sovranità degli Stati che ne fanno parte costituisce il limite principale del suo potere e della sua influenza. È quasi invisibile, perché non ha una struttura formale. Gran parte dei suoi sudditi non sanno nemmeno di essergli assoggettati o, più precisamente, riconoscono di essere assoggettati a forze impersonali e a volte distruttive, ma non capiscono di che cosa si tratti. L’analogia con l’impero è giustificata perché il sistema capitalistico globale domina davvero coloro che vi appartengono, e uscirne non è facile. Per giunta, esso ha un centro e una periferia, esattamente come un impero, e il centro prospera a spese della periferia. La cosa più importante è che il sistema capitalistico globale mostra alcune tendenze imperialistiche: lungi dal ricercare l’equilibrio, esso persegue accanitamente l’espansione. Non è sazio finché vi sono mercati o risorse che restano fuori dalla sua portata. Da questo punto di vista, il suo comportamento non è molto diverso da quello di Alessandro magno o di Attila, re degli Unni, e le sue tendenze espansionistiche rischiano di provocare la sua rovina. Quando parlo di espansione, non l’intendo in termini geografici, ma in termini di influenza sulla vita della gente»83.

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«Libertà, democrazia e libera impresa» sono i tre pilastri sui quali dovrebbe reggersi la “religione” più ecumenica che sia mai stata praticata sulla faccia della terra. Così almeno si evince dal documento sulla Strategia di Sicurezza Nazionale degli U.S.A. (SSN → Sezione Politica-Diritto) diffuso dall’Amministrazione di Bush junior. In realtà di quello che è definito come «l’unico modello sostenibile», non sembra fare parte l’idea di democrazia. Per entrare a far parte di questo impero, gli Stati devono solo, come afferma Asor Rosa, «giurare fedeltà alle ragioni della grande espansione economica capitalistica»84, indipendentemente quindi dalla loro forma di governo, sia anch’essa di tipo dittatoriale. Per i singoli individui, d’altra parte, il diritto di cittadinanza nell’Impero non rispecchia affatto le modalità di acquisizione previste negli ordinamenti statali tradizionali, ma dipende invece dalla fedeltà che si dimostra nell’assumere il ruolo di consumatore di merci. Proprio quest’ideologia si cela, può sembrare amaro dirlo ma è giusto riconoscerlo, dietro il recente dibattito che sta interessando la “politica” italiana, quello sul voto agli immigrati.

Alcuni autorevoli commentatori hanno affermato, al momento della diffusione della “dottrina” Bush, «finalmente l’impero ha la sua Costituzione»85. Lungi dal trovare riscontro nella SSN, tale “Carta” non ci pare che sia stata ancora definita. I suoi futuri connotati però, sono a nostro avviso rintracciabili nell’ipotesi di accordo AMI (Accordo Multilaterale sugli Investimenti)86, avanzata in ambito OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) nel 1998 e successivamente “congelata”. Fu l’allora direttore dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), Renato Ruggero, che, nel pieno delle trattative, ebbe ad affermare: «Scriviamo la Costituzione di un’economia mondiale unificata»87.

6. UN “INVOLUCRO” CHE NON CORRISPONDE PIÙ AL SUO CONTENUTO.

1 In riferimento alla numerosa produzione editoriale sul tema della globalizzazione, è interessante riportare l’osservazione di L. De Benedictis e R. Helg: «il numero di articoli pubblicati sulle maggiori riviste scientifiche internazionali aventi nel titolo il termine globalizzazione assomma a pochi sporadici casi, la maggior parte dei quali sono articoli di rassegna. L’orientamento cambia per i libri. I casi di volumi sulla globalizzazione sono numerosi, ma il ruolo dell’editore può essere stato determinante. Pizzuti (cfr. F.R. Pizzuti, Globalizzazione, istituzioni e coesione sociale, Roma, Donzelli 1999) afferma che “molti editori consigli[a]no caldamente d’inserire la parola magica nel titolo dei libri che pubblicano, anche se il contenuto non lo giustificherebbe del tutto”». Cfr. L. De Benedictis – R. Helg, Globalizzazione, «Rivista di politica economica», marzo-aprile, 2002, p. 141n. 2 Cfr. R. Robertson, Glocalization: Time-Space and Homogeneity-Heterogeneity, in Featherstone M., Lash S. e Robertson R. (a cura di), Global Modernities, Sage, London, Thousand Oaks, New Delhi 1995. 3 Cfr. L. De Benedictis – R. Helg, Globalizzazione, op. cit., p. 150.

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4 Cfr. P. Sloterdijk, L’ultima sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione, Carocci, Roma 2002, p. 29. 5 «In Italia dove la produzione capitalistica si sviluppa prima che altrove anche il dissolvimento dei rapporti di servitù della gleba ha luogo prima che altrove». Cfr. K. Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, Roma 1989, Libro I, p. 780n. 6 Cfr. O. Nuccio, La civiltà italiana nella formazione della scienza economica, Etas Libri, Milano 1995, p. 122. 7 Ivi, p. 25. 8 Ivi, pp. 154-155. 9 Ivi, p. 156. 10 Cfr. K. Marx, op. cit., Libro I, p.780n. 11 «È stato rilevato che a partire dalla seconda metà del ‘500 il perfezionamento delle tecniche commerciali e finanziarie offrì agli operatori economici nuove occasioni di investimenti dei profitti al di fuori delle loro aziende. Il primo segno di siffatta evoluzione fu la diffusione delle operazioni bancarie con finalità specifiche. Tra le varie “possibilità di investimento dei grandi mercanti, un settore speciale era costituito da prestiti semestrali ad interesse, dagli asientos o dall’arrendamento di dazi e altre terre, dall’acquisto di annualità municipali e di annualità istituite da corpi regionali o amministrativi, dall’acquisto di rendite annue statali, […], dall’acquisto dei titoli di Stato emessi dalle potenze europee”. Tra la metà del ’500 e la metà del ’700 vi fu un vigoroso incremento della ricchezza mobiliare ed “il diffondersi della pratica di operare investimenti al di fuori della propria ditta, a livello internazionale e diversificato” (H. van der Wee)». Cfr. O. Nuccio, op. cit., pp. 256-257. 12 Ivi, pp. 257-258. 13 Cfr. K. Marx – F. Engels, Il Manifesto del partito comunista, Edizioni Centro Rosso, Roma, 1978, p. 14 14 Cfr. K.Marx, Il capitale, libro III, p.575n (nota di Friedrich Engels). 15 Tra gli altri, anche George Soros, figura carismatica nel mondo della odierna finanza globale, riconosce l’imprimatur di Marx ed Engels, con il Manifesto del Partito comunista del 1848, alla rilevazione della tendenza del modo di produzione capitalistico ad assumere una diffusione globale: «Naturalmente, non è la prima volta che ci troviamo di fronte a un sistema capitalistico globale. Le sue caratteristiche principali furono delineate per la prima volta, alquanto profeticamente, da Karl Marx e Friedrich Engels nel Manifesto del Partito comunista, pubblicato nel 1848». Cfr. G. Soros, La crisi del capitalismo globale, Ponte alle Grazie, Milano 1999, p. 19. 16 Cfr. K. Marx – F. Engels, Il Manifesto del partito comunista, op. cit., pp. 13-14. 17 «Le tre caratteristiche fondamentali della produzione capitalistica sono: 1. La concentrazione in poche mani dei mezzi di produzione […]. 2. L’organizzazione sociale del lavoro mediante la cooperazione, la divisione del lavoro e l’unione del lavoro con le scienze naturali […]. 3. La creazione del mercato mondiale». Cfr. K. Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, Roma 1989, Libro III, p. 320. 18 «Centocinquant’anni fa, Karl Marx e Friedrich Engels presentarono una eccellente analisi del sistema capitalistico, per certi aspetti migliore – questo va detto – della teoria dell’equilibrio tipica dell’economia classica». Cfr. G. Soros, op. cit., p. 26. 19 Cfr. H. Grossmann, Il crollo del capitalismo. La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalista, Jaca Book, Milano 1977. 20 Cfr. K. Marx, Il capitale, op. cit., Libro III, p. 289. 21 Ivi, p. 297.

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22 Cfr. A Bordiga, Vulcano della produzione o palude del mercato? (1954), in A. Bordiga, Economia marxista ed economia controrivoluzionaria, Milano, Iskra Edizioni, 1976. 23 Ivi, p. 297. 24 Cfr. H. Grossmann, op. cit., p. 129. 25 Cfr. R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, citato in M.Hardt – A.Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2002. 26 Cfr. H. Grossmann, op. cit., p. 92. 27 Cfr. G. Soros, op. cit., p. 246. 28 Cfr. L. DeBenedictis – R. Helg, op. cit., p. 149. 29 Cfr. V.I.U. Lenin, Sull’imposta in natura, in Opere complete, vol. 32, Editori Riuniti, Roma, 1967, p. 310. 30 «Il capitalismo è un male in confronto al socialismo. Il capitalismo è un bene in confronto al periodo medioevale, in confronto alla piccola produzione, in confronto al burocratismo che è connesso alla dispersione dei piccoli produttori. Poiché non abbiamo ancora la forza di passare immediatamente dalla piccola produzione al socialismo, il capitalismo è, in una certa misura, inevitabile, come prodotto spontaneo della piccola produzione e dello scambio; e noi dobbiamo quindi utilizzare il capitalismo (soprattutto incanalandolo nell’alveo del capitalismo di Stato) come anello intermedio tra la piccola produzione e il socialismo, come un mezzo, una via, un modo, un metodo per aumentare le forze produttive». Cfr. V.I.U. Lenin, Sull’imposta in natura, op. cit., p. 330. 31 Cfr. A. Gramsci, «La rivoluzione contro il “Capitale”», L’Avanti, 24 dicembre 1917. 32 Un buon punto di partenza per intraprendere lo studio del problema è sicuramente l’opera in cui Marx affronta la distinzione tra la cosiddetta “prima fase” della società comunista (socialismo) e la “seconda fase” (comunismo). Si veda a tal proposito K. Marx, Critica al programma di Gotha, Editori Riuniti, Roma 1990. In particolare pp. 14-18. 33 Secondo alcuni autori, la presenza dei paesi “socialisti” costituì inoltre un impedimento al dispiegamento delle forze più “selvagge” del capitalismo anche negli stessi paesi capitalisti: «la stessa esistenza di un modello alternativo al capitalismo – l’unico modello alternativo che si sia concretamente presentato sulla scena planetaria dalla nascita del capitalismo a oggi – sia stata all’origine del welfare state, di un capitalismo “dal volto umano” emerso dalla crisi del 1929, capace di coniugare sviluppo e crescita del tenore di vita di grandi masse nei paesi industrialmente avanzati. Se questa ipotesi è vera, come noi riteniamo, ecco emergere di conseguenza un’altra ipotesi: che la fine del pericolo rappresentato da un’alternativa (…) abbia provocato, all’inverso, il riapparire degli spiriti animali dell’egoismo capitalistico primordiale, non più mitigati da alcun timore, ritegno e moderazione, decisi a trarre ogni vantaggio, senza più dover fare i conti con le esigenze di riequilibrio sociale». Cfr. G. Chiesa – M. Villari, Superclan. Chi comanda l’economia mondiale?, Feltrinelli, Milano 2003, p. 14. 34 Un recente articolo apparso sul Corriere della Sera ci dà un’idea dell’attuale coinvolgimento della Cina nel sistema capitalistico globale: «Dubitate che la Cina sia già, o comunque stia diventando, la fabbrica del pianeta? Beh, produce il 70% delle fotocopiatrici del mondo, la maggioranza delle lavatrici e dei refrigeratori, l'80% degli alberi di Natale artificiali, gran parte della componentistica per computer e telefoni cellulari, delle console per videogiochi, delle mazze da golf. Ogni anno mette sul mercato 6 miliardi di paia di scarpe, un po' per tutte le maggiori case produttrici del mondo. Nel solo delta del Fiume delle Perle, 30 milioni di persone lavorano nel conglomerato manifatturiero più mastodontico che si sia mai visto sulla crosta terrestre, dove in un anno arrivano 12 miliardi di dollari d’investimenti stranieri. (…) Pou Chen dà lavoro, nel Sud della Cina, a 110 mila persone e produce 100 milioni di paia di scarpe l'anno per Nike,

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Puma, Adidas, Reebok, Timberland, Caterpillar. Costo all'ora del suo operaio, 36 centesimi di dollaro, a patto che lavori tra 65 e 70 ore la settimana e, se risiede nei dormitori di fabbrica, che si sottoponga al coprifuoco stabilito dalla proprietà. Inevitabile che il mondo venga qua a fare le scarpe». Cfr. D. Taino, Computer, lavatrici e telefonini E’ la Cina la fabbrica del mondo, «Corriere della sera», 24 luglio 2003. 35 Gli IDE (investimenti diretti all’estero) «sono investimenti per mezzo dei quali un’impresa crea una filiale all’estero o assume il controllo di una società estera acquisendo almeno il 10% del suo capitale» [Cfr. Atlante geopolitico di Le monde diplomatique, p.]. 36 Cfr. L. De Benedictis – R. Helg, op. cit., p. 160. 37 «Negli ultimi quindici o venti anni, e specialmente dopo la guerra ispano-americana (1898) e la guerra anglo-boera (1899-1902), nella pubblicistica tanto economica quanto politica del vecchio e del nuovo mondo, ricorre sempre più di frequente il termine di “imperialismo” per qualificare l'epoca in cui noi viviamo». Cfr. Lenin, Introduzione a L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, xxxx, p. 38 Cfr. J.A. Hobson, Imperialism. A study, Allen and Unwin, London 1902; trad. it.: J.A. Hobson, L’imperialismo, ISEDI, Milano 1974. 39 Cfr. R. Hilferding, Das Finanzkapital, Wien 1910; tr. it.: R. Hilferding, Il capitale finanziario, Feltrinelli, Milano 1961. 40 «Nel 1902 fu pubblicata a Londra e a New york l’opera dell’economista inglese J. A. Hobson (…). In essa L’autore (…) fa un’ottima e circostanziata esposizione delle fondamentali caratteristiche economiche e politiche dell’imperialismo. Nel 1910 comparve a Vienna l’opera di n essa l'autore, che condivide le teorie del socialriformismo borghese e del pacifismo -una concezione, cioè, sostanzialmente identica a quella attuale dell'ex marxista K. Kautsky- fa un'ottima e circostanziata esposizione delle fondamentali caratteristiche economiche e politiche dell'imperialismo. Nel 1910 comparve a Vienna l'opera del marxista austriaco Rudolf Hilferding, intitolata Il capitale finanziario. Quest'opera, nonostante l'erroneità dei concetti dell'autore nella teoria della moneta e nonostante una certa tendenza a conciliare il marxismo con l'opportunismo, offre una preziosa analisi teorica " sulla recentissima fase di sviluppo del capitalismo " -come dice il sottotitolo del libro di Hilferding. Tutto ciò che intorno all'imperialismo è stato detto in questi ultimi anni- particolarmente nell'infinita congerie di articoli di riviste e di giornali trattanti questo tema, come pure nelle risoluzioni dei congressi tenutisi a Chemnitz e a Basilea nell'autunno del 1912- non esce, in realtà, dall'ambito delle idee esposte o, più esattamente, riassunte dai due summenzionati autori». Cfr. V.I.U. Lenin, Introduzione a L’imperialismo, op. cit., p. 41 Cfr. V.I.U. Lenin, L’imperialismo, op. cit., p. 42 Ivi, p. 43 Nell’avanzare tale tipo di comparazione siamo stati ispirati da un articolo apparso sulla rivista n+1. Cfr. L’anti-imperialismo bla-bla, «n+1», n°. 5, settembre 2001. 44 «Nel mondo sono oltre centoventi i paesi che hanno o stanno adottando una legislazione antitrust. Normative a tutela della concorrenza esistono in tutti i paesi industrializzati che fanno parte dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE). Lo Sherman Act americano, che risale addirittura al 1890, è stata la prima normativa nazionale a vietare le intese restrittive della concorrenza e i tentativi di creare monopoli». Cfr. Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, http://www.agcm.it/E43.htm. 45 «Servizi e vendita al dettaglio costituiscono oggi il 75% dell’intera forza lavoro degli Stati uniti». Cfr. N. Klein, op. cit., p. 217.

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46 «Il titolare della Diesel Jeans, Renzo Rosso, ha detto alla rivista Paper: “Non vendiamo un prodotto, vendiamo uno stile di vita. Penso che abbiamo creato un movimento (…). Il concetto Diesel è vasto. È il modo di vivere, di vestire, di fare qualcosa”». Cfr. N. Klein, op. cit., p. 45. 47 Cfr. N. Klein, op. cit., p. 32. 48 Cfr. Atlante geopolitico di Le monde diplomatique, p. 33. 49 Ivi, p. 32. 50 Ivi, p. 30. 51 Cfr., J.E. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Torino, Einaudi 2002, p. 211. 52 Stiglitz, p. 9. 53 «Come ebbe a rilevare in un impulso di candore l’allora segretario generale del Wto Renato Ruggiero, gli standard ambientali, con il Wto, “sono destinati a ridimensionarsi, potendo solo danneggiare il sistema di commercio globale”». P. 33. R. Ruggiero, Green Push Could Damage Trade Body – Wto Chief, Reuters, 15 maggio 1998. Citato in Lori Wallach – Michelle Sforza, WTO. Tutto quello che non vi hanno mai detto sul commercio globale, Feltrinelli, Milano 2001, p. 214n. 54 Ivi, p. 229. 55 Cfr. Atlante geopolitico di Le monde diplomatique, p. 30. Il criterio adottato è quello di considerare multinazionale ogni impresa “che controlla almeno una filiale all’estero, di cui possiede almeno il 10% del capitale. 56 Cfr. L. De Benedictis – R. Helg, op. cit., p. 160-161. 57 «Vi è un ampio repertorio di racconti allucinanti sul lavoro straordinario nelle zone industriali di esportazione, indipendentemente dalla loro ubicazione: in Cina, vi sono casi documentati di turni che durano tre giorni consecutivi durante i quali i lavoratori sono costretti a dormire sotto i macchinari. Molto spesso i fabbricanti devono pagare pesanti penali, se non consegnano in tempo, indipendentemente dall’assurdità dei termini di consegna. Una relazione racconta che in Honduras, al fine di evadere un ordine particolarmente ingente con termini di consegna molto rigidi, alcuni dirigenti hanno iniettato anfetamina ai lavoratori per farli lavorare ininterrottamente in maratone di quarantotto ore». Ivi, p. 197. 58 In tutte le zone franche esistono sistemi utilizzati per evitare i costi di una donna lavoratrice in gravidanza: «In alcune maquilladores messicane le donne devono dimostrare di avere il ciclo mestruale sottoponendosi a pratiche umilianti come il controllo mensile degli assorbenti. Le dipendenti hanno invece talvolta contratti di ventotto giorni, il periodo medio di un ciclo mestruale, in modo da poter essere licenziate non appena la gravidanza venga scoperta». Ivi, p. 205. 59 Ivi, p. 331. 60 P. Collier – D. Dollar, Globalizzazione, crescita economica e povertà. Rapporto della Banca Mondiale, Il Mulino, Bologna 2003, p. 149. 61 M. Giuliano – Tullio Scorazzi – Tullio Treves, Diritto Internazionale, parte generale, Milano, Giuffrè Editore, 1991, p. 5. 62 Ivi, p. 7. 63 Ivi, pp. 6-7. 64 A. Asor Rosa, La guerra. Sulle forme attuali della convivenza umana, Einaudi, 2002, p. 7. 65 Ivi, p. 9. 66 Cfr. Gore Vidal, Le menzogne dell’Impero e altre tristi verità, Fazi editore, Roma 2002, p. 52. 67 Cfr. M.Hardt – A.Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2002, p. 173.

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68 «Il punto di partenza per affrontare la problematica dell’Impero è costituito da un dato di fatto: che c’è un ordine mondiale. Questo ordine trova espressione in una forma giuridica. Il nostro primo compito è dunque quello di cogliere la costituzione dell’ordine che si sta formando attualmente. In tal senso, dovremmo escludere due concezioni piuttosto comuni di questo ordine, che si collocano ai limiti estremi di uno spettro: innanzi tutto, l’idea che l’attuale ordine sorga in qualche modo spontaneamente dall’interazione tra forze globali radicalmente eterogenee, come un armonico concerto diretto dalla mano invisibile e neutrale del mercato mondiale. In secondo luogo, che questo ordine sia dettato da un singolo potere e da un singolo centro razionale trascendente le forze globali che dirige le varie fasi dello sviluppo storico secondo un piano consapevolmente predisposto e onnisciente — qualcosa di simile a una teoria che veda la globalizzazione come frutto di una cospirazione». Cfr. M.Hardt – A.Negri, op. cit., p. 21 69 Cfr. Negri – Hardt, op. cit., p. 172. 70 Già a seguito della guerra del Golfo del ’91, Alberto Asor Rosa poteva affermare: «Bisogna risalire al tempo della guerra di conquista fra Pizarro e gli Incas per ritrovare, applicato alla guerra, un gap tecnologico come quello che ha diviso i belligeranti nel Golfo». Cfr. A. Asor Rosa, op. cit., p. 67. 71 Ivi, p. 156 72 Tra tutti i casi di crisi umanitarie presenti oggi nel mondo, e ignorate completamente dall’impero, «l’esempio del Kurdistan è clamoroso: quale realtà più macroscopica di genocidio, sterminio, oppressione, ingiustizia, negazione di qualsiasi identità nazionale? Ma il Kurdistan sta, in gran parte, dentro i confini di un potente Stato, amico, alleato, per giunta indispensabile, a sua volta tutt’altro che democratico, anzi, piuttosto repressivo e poliziesco: l’intervento umanitario non scatta, perché non fa parte, “non è compreso” in quella strategia più complessiva»: cfr. Ivi, p.157. 73 Cfr. Negri – Hardt, op. cit., pp. 31-32. 74 «Oggi, i paesi del G-7 si incontrano generalmente con la Russia (g-8). Questi paesi non rappresentano più le sette principali economie mondiali e l’appartenenza al G-7, come lo status di membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dipende in parte da un caso storico». Cfr. Stiglitz, op. cit., p. 21n 75 Il testo integrale della risoluzione n. 1511 è disponibile su internet al link: http://www.cepadu.unipd.it/a_temi/crisi/iraq2/sc-res1511-03-en.pdf 76 La tesi di un’Europa potenzialmente anti-imperiale è stata di recente avanzata in: A. Negri, L'Europa e l'Impero. Riflessioni su un processo costituente, Manifestolibri, Roma 2003. 77 Ad esempio, Joseph S. Nye, rettore della Kennedy School of Government all’Università di Harvard e a capo del National Intelligence Council durante la presidenza Clinton esordisce, nel suo ultimo libro, Il paradosso del potere americano: perché l’unica superpotenza non può più agire da sola (Einaudi, Torino 2002), affermando che «dai tempi di Roma, non è mai esistita una nazione che abbia tanto oscurato le altre». Stephen Peter Rosen, direttore dell’Istituto Olin per gli studi strategici dell’Università di Harvard afferma inoltre che una «entità politica che dispone di una potenza militare schiacciante e che utilizza questo potere per influire sul comportamento degli altri stati non può che definirsi impero (…) Il nostro scopo non è combattere un rivale, poiché non ve ne sono, ma conservare la nostra posizione imperiale e mantenere l’ordine imperiale». Per una panoramica di queste posizioni “imperiali” si deva: P. S. Golub, Le tentazioni imperiali degli Stati Uniti, «Le monde diplomatique», ed. it., settembre 2002. 78 Cfr. E. Hobsbawm, Dove sta andando l’impero americano?, «Le Monde diplomatique», ed. it., giugno 2003. 79 Tale primigenia si deve all’opera Fuori dall’Occidente, ovvero Ragionamento sull’Apocalissi, pubblicato nel 1992 da Einaudi, ora in Asor Rosa, op. cit.

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80 Cfr. A. Asor Rosa, op. cit., p. 197. 81 Cfr. J.E. Stiglitz, op. cit., p. 14. 82 È emblematico quanto avvenuto al culmine della crisi asiatica, provocata e accentuata, secondo Stiglitz, dalle politiche del FMI. Nel momento in cui fu avanzata la proposta, da parte del Giappone, di costituire una sorta di fondo monetario “asiatico”, l’iniziativa fu boicottata: «Nel 1997, Il Giappone offrì 100 miliardi di dollari per contribuire alla creazione di un fondo monetario asiatico finalizzato al finanziamento delle azioni necessarie per la regione. Ma il Tesoro fece tutto quanto fosse in suo potere per sopprimere l’idea e l’FMI si associò. La ragione della posizione dell’FMI era chiara: pur essendo un convinto assertore della concorrenza sui mercati, non voleva concorrenti in casa propria, come sarebbe avvenuto nell’eventualità della costituzione di un fondo monetario asiatico». Cfr. J.E. Stiglitz, op. cit., p. 111. 83 Cfr. G. Soros, cit., pp. 141-142. 84 Cfr. A. Asor Rosa, op. cit., p. 201. 85 Verificare Asor Rosa 86 Cfr. L. Wallach, Il nuovo manifesto del capitalismo mondiale. L’AMI, un accordo al servizio delle transnazionali, «Le Monde diplomatique», ed. it., febbraio 1998. 87 Ivi.