Introduzione p. 4 1. Crisi della fisica classica p. 5 · 2016. 11. 27. · 1.1. La fisica classica...

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1 CARLO DARIOL CORSO DI MECCANICA QUANTISTICA che si basa sugli appunti del prof. Lubicz dell’Università Roma 3 Sommario Introduzione p. 4 1. Crisi della fisica classica p. 5 1.1. La fisica classica 1.2. Lo spettro di corpo nero 1.3. L’effetto fotoelettrico 1.4. L’effetto Compton 1.5. Onde o particelle? 1.6. La struttura dell’atomo 1.7. L’atomo di Bohr 1.8. Test ed esercizi 2. I principi della meccanica quantistica p. 25 2.1. Esperimenti di interferenza con pallottole, onde ed elettroni 2.2. La matematica della MQ 2.3. Il principio di indeterminazione 2.4. I principi della MQ. 2.5. La MQ e gli integrali sui cammini 2.6. Test ed esercizi IL FORMALISMO GENERALE DELLA M. Q. p. 40 L’esperimento di Stern e Gerlach Esperimenti di Stern e Gerlach ripetuti Vettori di stato bra e ket. Principio di sovrapposizione Operatori. Rappresentazioni matriciali e relazione di completezza Esempio: vettori di stato, operatori e rappresentazioni matriciali per particelle di spin ½ Operatori, osservabili e valori di aspettazione Autovalori e autovettori di osservabili

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    CARLO DARIOL

    CORSO DI

    MECCANICA QUANTISTICA che si basa sugli appunti del prof. Lubicz dell’Università Roma 3

    Sommario

    Introduzione p. 4

    1. Crisi della fisica classica p. 5 1.1. La fisica classica 1.2. Lo spettro di corpo nero 1.3. L’effetto fotoelettrico 1.4. L’effetto Compton 1.5. Onde o particelle? 1.6. La struttura dell’atomo 1.7. L’atomo di Bohr 1.8. Test ed esercizi

    2. I principi della meccanica quantistica p. 25 2.1. Esperimenti di interferenza con pallottole, onde ed elettroni 2.2. La matematica della MQ 2.3. Il principio di indeterminazione 2.4. I principi della MQ. 2.5. La MQ e gli integrali sui cammini 2.6. Test ed esercizi

    IL FORMALISMO GENERALE DELLA M. Q. p. 40

    L’esperimento di Stern e Gerlach

    Esperimenti di Stern e Gerlach ripetuti

    Vettori di stato bra e ket. Principio di sovrapposizione

    Operatori. Rappresentazioni matriciali e relazione di completezza

    Esempio: vettori di stato, operatori e rappresentazioni matriciali per particelle di spin ½

    Operatori, osservabili e valori di aspettazione

    Autovalori e autovettori di osservabili

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    Autovettori di osservabili come vettori di base

    Autostati dell’operatore di posizione, misure di posizione e funzione d’onda

    Operatore impulso. Autostati e autofunzioni

    Evoluzione temporale degli stati. Equazione di Schrödinger.

    3. L’equazione di Schrödinger e sistemi quantistici p. 64 3.1. L’equazione di Schrödinger 3.2. Osservabili e operatori 3.3. La particella libera 3.4. La buca di potenziale infinita 3.5. La barriera di potenziale e l’effetto tunnel

    Due esempi dell’effetto tunnel 3.6. L’oscillatore armonico 3.7. L’atomo di idrogeno 3.8. Test ed esercizi

    4. I lavori originali: 1925-1927 p. 83 4.1. I lavori più significativi del biennio 4.2. Test ed esercizi

    5. Il momento angolare p. 88 5.1. Simmetrie e leggi di conservazione 5.2. Momento angolare orbitale e spin 5.3. Quantizzazione del momento angolare 5.4. Composizione dei momenti angolari 5.5. Test ed esercizi

    6. I nuovi fenomeni, sviluppi e interpretazioni p. 102 6.1. Particelle identiche 6.2. Il principio di esclusione di Pauli 6.3. Probabilità e variabili nascoste 6.4. Il collasso della funzione d’onda 6.5. Gli stati entangled 6.6. Le disuguaglianze di Bell 6.7. Difficoltà interpretative della meccanica quantistica 6.8. Conclusioni

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    INTRODUZIONE

    Argomento di studio di questo corso è la MECCANICA QUANTISTICA. Essa descrive la materia e la luce (radiazione) in tutti i suoi aspetti, in particolare per quanto riguarda i fenomeni microscopici, che avvengono cioè su scala atomica.

    La meccanica quantistica, dunque, sostituisce le leggi della fisica “classica”

    (meccanica ed elettromagnetismo) nella descrizione più accurata della natura. Descrivendo il comportamento dei sistemi microscopici, la meccanica quantistica

    descrive fenomeni completamente diversi da quelli ai quali ci ha abituato l’esperienza. In questo risiede la principale difficoltà che incontriamo nel “capire” la meccanica quantistica. Formalmente, la matematica che entra nella formulazione delle leggi quantistiche non è più complessa di quella richiesta nelle leggi classiche (è la matematica delle onde e degli spazi vettoriali complessi).

    Lo sviluppo della meccanica quantistica ha rappresentato, insieme a quello della

    relatività, una rivoluzione scientifica nel XX secolo. Per quanto riguarda la meccanica quantistica, questo è dovuto non solo all’introduzione di leggi nuove ma anche e soprattutto al carattere di queste nuove leggi. In particolare, le leggi quantistiche non sono deterministiche nel senso classico, cioè non possono prevedere gli eventi che occorreranno nell’evoluzione di un sistema fisico, ma solo le probabilità con cui diversi eventi potranno occorrere. E questa caratteristica non è determinata da una nostra conoscenza incompleta del sistema fisico (come nel lancio di un dado, dove le variabili che entrano in gioco sono numerosissime) o dalla teoria stessa, ma è intrinseca nel mondo fisico. Non esistono “variabili nascoste”, come diversi fisici hanno per lungo tempo ipotizzato.

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    Cap. 1 LA CRISI DELLA FISICA CLASSICA

    Per illustrare meglio il percorso che ha condotto allo sviluppo della meccanica quantistica, ricordiamo sommariamente qual era la situazione della fisica classica, ossia la fisica conosciuta prima del ’900. A quell’epoca i fisici ritenevano di avere ormai compreso le leggi fondamentali in grado di spiegare, almeno in principio, qualunque fenomeno fisico. Nel giro di pochi anni si trovarono nella necessità di cercare nuovi fondamenti per la fisica.

    Ma per capire la portata della rivoluzione è il caso di fare il punto su quella che era la fisica (la fisica classica!) fino a quel momento.

    1.1. La fisica classica

    La fisica classica è la fisica di Newton, grazie al quale si era giunti alla formulazione completa delle leggi del moto (meccanica) che nel 1686 pubblica la sua F = ma, e di Maxwell, che nel 1865 pubblica le sue famose quattro equazioni.

    L’equazione di Newton è un’equazione differenziale: può essere “integrata”: conoscendo posizione e velocità delle componenti del sistema fisico in un istante è possibile conoscere posizione e velocità di ogni particella in ogni altro istante. In questa possibilità risiede il carattere deterministico della meccanica classica. Una tale concezione è alla base di una visione deterministica della storia del mondo, quale sarà compitamente espressa da Pierre Simone de Laplace (Essai philosophique sur les probabilites, 1814): “Possiamo considerare lo stato attuale dell’universo come l’effetto del suo passato e la causa del suo futuro. Un intelletto che a un determinato istante dovesse conoscere tutte le forze che mettono in moto la natura, e tutte le posizioni di tutti gli oggetti di cui la natura è composta, se questo intelletto fosse inoltre sufficientemente ampio da sottoporre questi dati ad analisi, esso racchiuderebbe in un’unica formula i movimenti dei corpi più grandi dell'universo e quelli degli atomi più piccoli; per un tale intelletto nulla sarebbe incerto e il futuro proprio come il passato sarebbe evidente davanti ai suoi occhi”.

    Nota l’equazione del moto, compito della fisica diventa lo studio delle forze. Quali

    sono le forze fondamentali per la fisica classica? Lo stesso Newton comprende la

    GRAVITAZIONE UNIVERSALE descritta dalla formula 2d

    MmGF . Le altre due

    forse note, quella ELETTRICA e quella MAGNETICA, dovettero aspettare due secoli per essere unificate, da Maxwell, nelle sue celebri equazioni nel 1865. Forza elettrica e forza magnetica non sono che due aspetti dello stesso fenomeno e si evidenziano a seconda del sistema di riferimento dal quale vengono osservati. Le equazioni di Maxwell mostrano inoltre come i campi elettrico e magnetico si propaghino mediante onde

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    elettromagnetiche, di cui la luce (visibile) non è che un esempio in un particolare intervallo. Questo risultato sembrava porre fine all’antica diatriba circa la natura corpuscolare od ondulatoria della luce. La prima, sostenuta dallo stesso Newton, era stata messa fortemente in crisi dall’osservazione, in particolare nel corso del 1700, dai fenomeni prettamente ondulatori, quali l’interferenza e la diffrazione della luce. È del 1801 il famoso esperimento di Young della doppia fenditura. La risposta, apparentemente definitiva, era stata fornita dalla teoria di Maxwell (destinata tuttavia ad essere messa nuovamente in discussione nei primi anni del ’900).

    Le altre due forze (che oggi conosciamo ma che nel 1900 erano sconosciute) sono la forza DEBOLE (responsabile del decadimento radiattivo) e la forza FORTE (che tiene uniti i nuclei degli atomi), che lavorano alla scala atomica dei nuclei.

    Alla fine dell’800 i fisici pensavano di aver scoperto sostanzialmente tutto. Sì, è vero, c’erano dei piccoli problemi: la velocità della luce predetta da Maxwell, ad esempio,

    era 00

    1

    c , una costante, mentre avrebbe dovuto essere una velocità relativa al

    sistema di riferimento, e perciò ci si chiedeva in quale sistema fossero valide le equazioni di Maxwell (oggi sappiamo – dalla Teoria della relatività – che sono valide in ogni sistema, ma allora questo era un piccolo problema); non si riusciva a spiegare la curva di radiazione di corpo nero, né l’effetto fotoelettrico, né gli spettri discontinui di emissioni e assorbimento dei vari atomi… Ma parevano piccoli problemi, destinati a essere risolti di lì a poco.

    Più in generale, nel periodo che va dalla fine del XIX secolo ai primi anni del XX, una serie di risultati sperimentali, riguardanti fenomeni che avvengono su scala atomica, portarono a una crisi della fisica classica. L’interpretazione di questi risultati richiese un cambiamento radicale nelle concezioni e nelle leggi della meccanica quantistica. Discuteremo di seguito alcuni di questi risultati che evidenziarono, in particolare, le proprietà corpuscolari della radiazione e, per contro, proprietà ondulatorie della materia.

    Scriveva Albert Abraham Michelson (colui che stava lavorando alla ricerca del

    vento d’etere), nel 1903, in Le onde luminose e loro usi: “Le leggi e i fatti fondamentali delle scienze fisiche sono stati tutti scoperti e sono ora così fortemente stabilite che la possibilità che vengano soppiantati in conseguenza di nuove scoperte è estremamente remota.”

    Ma appena tre anni prima Planck aveva dato una soluzione per la radiazione di corpo nero che sarebbe stata destinata a rivoluzionare la fisica.

    1.2. Lo spettro di corpo nero Un corpo nero è… un oggetto nero! Ebbene, una rivoluzione scientifica nascerà dallo studio del corpo nero.

    La radiazione che giunge su un corpo può essere TRASMESSA, RIFLESSA, ASSORBITA.

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    Il colore degli oggetti, ad esempio, dipende dalle frequenze che vengono riflesse. Un oggetto verde ci appare tale perché riflette le frequenze del verde e assorbe le altre. Un corpo nero è un corpo che assorbe completamente la radiazione incidente.

    Un CORPO RISCALDATO può a sua volta emettere radiazione: quando metto

    la mano vicino a un ferro da stiro caldo sento del calore: quel calore è radiazione. Per ciascun corpo nero si possono definire due funzioni:

    - il potere assorbente );( TA ci dice quale % viene assorbita della

    frequenza ω alla temperatura T; essa dipende dalla forma e dal materiale di cui è costituito il corpo.

    - il potere emissivo );( TE dà la quantità di radiazione emessa. Anch’essa

    dipende dalla forma e dal materiale di cui è costituito il corpo Tali funzioni dipendono dalla forma dell’oggetto, dal materiale… ma una cosa

    nota dal 1860 (legge scoperta da Kirchhoff) era che );();(

    );(Tu

    TA

    TE

    non dipende dalla

    forma e dal materiale di cui è costituito il corpo: questa funzione );( Tu è una funzione

    universale, cioè è la stessa per tutti i corpi, indipendentemente dalla forma e dal materiale del corpo. Per il corpo nero è 1);( TA . Dunque la funzione universale );( Tu coincide

    con il potere emissivo );( TE del corpo nero.

    Come si studia il corpo nero?

    Una cavità con un forellino che lascia entrare della radiazione elettromagnetica e non la lascia più uscire, per cui tutta la radiazione risulterà assorbita (e raggiungerà una situazione di equilibrio) si comporta come un corpo nero. Ed è questo l’esempio da cui partiamo.

    Il potere emissivo del corpo nero coincide con la distribuzione della densità di energia della radiazione elettromagnetica in equilibrio termico all’interno di una cavità a temperatura T.

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    Il problema nello studio del potere emissivo del corpo nero era rappresentato dalla discrepanza tra le osservazioni sperimentali e la descrizione teorica

    Lo studio secondo i principi della fisica classica aveva portato Rayleigh e Jeans a

    elaborare una formula

    TKc

    Tu B32

    2

    );(

    che rappresenta correttamente i dati sperimentali solo per le frequenze piccole (mentre per le frequenze grandi tale densità tende a esplodere, fenomeno noto come “catastrofe ultravioletta”).

    Wilhelm Wien aveva scoperto (1893) che la frequenza corrispondente al massimo dello spettro era direttamente proporzionale a T (formula di Wien:

    Tmax , o anche: constT max ) e aveva elaborato una formula empirica

    TeCTu

    3);( che presentava un massimo in corrispondenza della legge da lui trovata e che funzionava molto bene per le grandi frequenze… … ma non per le piccole.

    Né la formula classica di Rayleigh-Jeans né la formula empirica di Wien (che pure

    presentava il suo massimo in posizione corretta) descrivevano la distribuzione spettrale del corpo nero nella regione delle frequenze intermedie

    Finalmente, nel 1900, mediante una interpolazione tra la formula di

    Rayleigh-Jeans e quella di Wien, Planck suggerì la formula corretta:

    1

    );(3

    32

    TKBec

    Tu

    che risultava in perfetto accordo con le misure sperimentali assumendo per la “costante

    di Planck” il valore Jsh 3410055,1

    2

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    È immediato verificare che la formula di Planck nei limiti di basse e alte frequenze ripropone correttamente gli andamenti già noti

    WienTKec

    JRTKTKc

    ec

    Tu

    B

    TK

    BB

    TK BB

    )(

    )(

    1

    );(3

    32

    32

    2

    3

    32

    Il perfetto accordo della sua formula con i dati sperimentali indusse Planck a cercare una spiegazione teorica. Per comprendere la spiegazione trovata da Planck è utile discutere prima la derivazione della formula di Rayleigh-Jeans ottenuta utilizzando le leggi della fisica classica. Abbiamo già anticipato che la formula di R-J non poteva comunque essere corretta perché conduce a una densità di energia totale (integrata su tutte le frequenze) infinita (“catastrofe ultravioletta”).

    0

    2

    32

    0

    ),()(

    dc

    TKdTuTE B

    JR

    La formula classica di Rayleigh-Jeans era derivata calcolando il numero di modi normali di oscillazione della radiazione elettromagnetica con frequenza compresa tra ω e ω+dω e associando a ciascun modo una energia media KT (in accordo con la legge classica dell’equipartizione dell’energia).

    Discutiamo la derivazione di entrambi questi risultati. Calcoliamo il numero di modi normali di oscillazione della radiazione

    elettromagnetica con frequenza compresa tra ω e ω+dω. Un’onda che si propaga nella direzione x con vettore d’onda kx è descritta dalla

    funzione exp(ikxx). Se consideriamo per il campo elettromagnetico nella cavità con volume finito condizioni al bordo periodiche, allora il vettore d’onda kx è soggetto alla condizione

    nL

    keee xLikLxikxik xxx

    21

    )(

    con ,...2,1,0 n

    dove L è la lunghezza del volume nella direzione x. Il numero dnx di modi normali di oscillazione con vettore d’onda kx compreso tra kx e kx+dkx è allora:

    xx dkL

    dn2

    Consideriamo le 3 direzione spaziali del vettore d’onda e il fatto che per ciascun’onda di vettore k esistono 2 gradi di polarizzazione indipendenti, otteniamo per il numero totale di oscillazioni con frequenza compresa tra ω e ω+dω il valore

    d

    cVdkkVkd

    Vdn

    ck

    32

    2

    )(

    2

    3

    3

    34

    8

    2

    )2(2

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    Il primo fattore che entra nella formula di Rayleygh-Jeans, 32

    2

    c

    , rappresenta

    dunque il numero di modi normali di oscillazione della radiazione, per unità di volume, compresa tra ω e ω+dω.

    Dimostriamo ora come il secondo termine, KBT, rappresenti secondo la fisica classica l’energia media di ciascun oscillatore del campo.

    La parte della fisica che ci insegna come calcolare l’energia di un sistema

    termodinamico in equilibrio alla temperatura T è la MECCANICA STATISTICA. Dato un gas a una certa pressione, confinato in un certo volume a una certa temperatura, quando si ha a che fare con un numero enorme di particelle le leggi della fisica si semplificano perché ci basta calcolare la velocità media per calcolare l’energia media.

    Secondo la meccanica statistica, la probabilità che un sistema mantenuto in

    equilibrio termico alla temperatura T si trovi in uno stato S corrispondente a un’energia ES è data da

    TK

    E

    SB

    S

    eZ

    Ep

    1

    )(

    dove Z, detta funzione di partizione, è l’opportuna costante di normalizzazione della probabilità:

    S

    TK

    E

    B

    S

    eZ

    La sommatoria è estesa qui a tutti i possibili stati microscopici del sistema. Da quanto detto segue anche che l’energia media del sistema, mantenuto in

    equilibrio alla temperatura T, è data da

    S

    TK

    E

    s

    S

    SSB

    S

    eEZ

    EEpE1

    )(

    Applichiamo ora questi concetti per calcolare l’energia media di un oscillatore armonico unidimensionale in equilibrio alla temperatura T. L’Hamiltoniana (l’energia totale) dell’oscillatore è

    222

    2

    1

    2xm

    m

    pH

    e la “somma sugli stati” dell’oscillatore è un integrale su tutti i possibili valori di impulso e posizione:

    S

    dpdx

    L’energia media dell’oscillatore è allora (avendo posto TKB

    1 )

  • 11

    dpdxe

    dpdxxmm

    pe

    Exm

    m

    p

    xmm

    p

    222

    222

    2

    1

    2

    222

    2

    1

    2

    2

    1

    2

    dxe

    dxxme

    dpe

    dpm

    pe

    xm

    xm

    m

    p

    m

    p

    22

    22

    2

    2

    2

    1

    222

    1

    2

    2

    2

    2

    1

    2

    dSe

    dSe

    dSSeS

    S

    S

    2

    2

    2

    ln22

    2

    TKB

    1lnln2

    Troviamo dunque il risultato cercato: TKE B Moltiplicando questa energia media di ciascun oscillatore per il numero di

    oscillatori si ottiene la formula di Rayleigh-Jeans.

    Come ricavò Planck la sua formula?

    Ci conviene riscrivere la formula trovata da Planck nel modo seguente:

    1

    );(32

    2

    TKBec

    Tu

    In questo modo il primo termine è identico al primo termine della formula di Rayleigh-Jeans e (ricordiamolo!), dato che un campo elettromagnetico si può pensare come una serie di oscillatori che oscillano sulla frequenza ω, il primo termine ci dice quanti sono gli oscillatori che oscillano con frequenza nell’intervallo ; per unità di volume, mentre il secondo termine (un’energia) deve rappresentare l’energia media di ogni oscillatore.

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    IPOTESI DI PLANCK. Planck trovò che la sua formula per lo spettro di corpo nero poteva essere derivata assumendo che l’energia associata con ciascun modo del campo elettromagnetico non variasse con continuità, come predetto dalla fisica classica, ma fosse un multiplo intero di un “quanto” minimo di energia ε, legato alla frequenza ω del modo normale da

    hf

    per cui l’energia poteva assumere solo i valori nhfnEn con n numero naturale, e costante di proporzionalità

    Jsh 3410626,6 Jsh 3410055,1

    2

    Era un’ipotesi rivoluzionaria, estranea alla fisica classica, per la quale invece

    l’energia varia con continuità; eppure con questa ipotesi si riproduceva la curva sperimentale corretta.

    Le unità di h, cioè J e s, sono unità tipicamente macroscopiche. Ma qui compare un fattore 10–34 : sulle scale macroscopiche i quanti di energia sono estremamente piccoli! Era naturale che non si fossero mai osservati, e nemmeno rilevati, anche a scale microscopiche.

    Per Rayleigh e Jeans valor medio dell’energia degli oscillatori è TKB ; del resto è

    facile capire che cosa significa: se gli oscillatori sono piccole molle con 2 gradi di libertà, quello è il valore che si ricava ricordando la formula dell’energia media di una molecola:

    TKf

    E B2

    .

    [Nota: la funzione della costante di Boltzmann in tutte queste formule è quella di convertire le unità di temperatura in unità di energia.]

    Per Planck il numero di oscillatori è lo stesso, ma cambia l’energia media

    di un oscillatore che viene tenuto in equilibrio alla temperatura T. E per calcolarlo, con la nuova ipotesi, ricorriamo ancora alla meccanica statistica.

    Dato un gas a una certa pressione, confinato in un certo volume a una certa temperatura,

    TK

    E

    nB

    n

    eZ

    EP

    1

    )( dà la probabilità che il gas abbia energia En …

    dove

    n

    TK

    E

    B

    n

    eZ è la funzione di partizione.

    Qual è la probabilità che il sistema abbia una energia TKE Bn ? È bassa assai.

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    Qual è la probabilità che il sistema abbia energia TKE Bn ?

    eTKEP Bn

    1)( , dunque assai elevata. Si intuisce che l’energia media deve stare

    intorno al valore TKB

    Per la meccanica classica abbiamo visto che Z era un integrale, perché l’energia assume valori continui. Per Planck invece, assumendo l’energia quantizzata, Z diventa una sommatoria:

    0

    0

    0

    0

    ln1

    )(

    n

    n

    n

    n

    n

    n

    n e

    e

    en

    enZ

    EPEE

    111

    1ln

    ee

    e

    e

    Questa energia media, moltiplicata per il numero di modi normali per unità di

    volume con frequenza compresa tra ω e ω+dω conduce alla formula di Planck.

    Lo spettro del corpo nero sembrava dunque indicare che la radiazione elettromagnetica

    si comporta come se fosse costituita da un insieme di quanti di energia con energia hf. L’origine di questo comportamento sembrava ancora oscura. Il passo successivo,

    che contribuirà a chiarire la conclusione di Planck, si ebbe cinque anni dopo, con l’interpretazione fornita da Einstein dell’effetto fotoelettrico.

    Quando, quasi due decenni dopo, a Planck venne dato il Nobel del 1918 per aver elaborato la legge della radiazione di corpo nero (il premio però non gli fu assegnato quell’anno, in quanto nel 1918 l’Accademia Svedese ritenne di non dover premiare nessuno, bensì l’anno successivo per l’anno precedente, cosa possibile per regolamento) questo fu il discorso che il fisico pronunciò a Stoccolma in occasione della premiazione:

  • 14

    1.3. Effetto fotoelettrico L’effetto fotoelettrico, scoperto nel 1887 da Hertz, può essere riassunto nel modo seguente:

    1. quando una superficie metallica viene investita da un’onda luminosa può emettere

    elettroni; 2. l’emissione o meno di elettroni dipende dalla frequenza della luce incidente. In

    generale esiste una soglia (che varia da metallo a metallo) per cui solo frequenze maggiori della soglia producono la corrente fotoelettrica;

    3. l’intensità della corrente, quando esiste, è proporzionale all’intensità della radiazione luminosa;

    4. l’energia dei fotoelettroni è indipendente dall’intensità della luce ma varia linearmente con la frequenza della luce incidente.

    Classicamente, l’effetto fotoelettrico risultava inspiegabile. Secondo l’elettrodina-mica classica, infatti, l’energia trasportata da un’onda elettromagnetica è proporzionale all’intensità dell’onda, ed è indipendente dalla frequenza. Non è possibile pertanto spiegare perché l’effetto abbia una soglia dipendente dalla frequenza e perché l’energia dei fotoelettroni dipenda dalla frequenza.

    La spiegazione venne fornita da Einstein nel 1905 utilizzando il concetto di

    natura quantistica (corpuscolare) della luce. Per spiegare l’effetto fotoelettrico, Einstein

    partì dall’ipotesi che la radiazione luminosa è costituita da quanti di energia ħω

    (=hf ) dove ω è la frequenza della luce. L’assorbimento da parte di un elettrone del metallo di un singolo quanto di luce, o

    fotone, come venne in seguito chiamato, accresce l’energia dell’elettrone di una quantità ħω. Una parte di questa energia, W, detta funzione lavoro, deve essere spesa per separare l’elettrone dal metallo. Questa energia varia da metallo a metallo.

    L’energia restante è disponibile come energia cinetica dell’elettrone fotoemesso. La conservazione dell’energia nel processo implica pertanto la seguente relazione

    tra la velocità v dell’elettrone e la frequenza ω della luce

    Wmv 22

    1

  • 15

    La presenza di una soglia e la relazione tra energia dell’elettrone e frequenza sono contenute in questa formula.

    La proporzionalità tra corrente fotoelettrica e intensità della sorgente luminosa può essere spiegata in termini di quantità di luce: una sorgente di luce più intensa emette più fotoni e questi, a loro volta, liberano più elettroni.

    La correttezza della formula di Einstein venne verificata in una serie di esperimenti, in particolare da Millikan. L’effetto fotoelettrico venne così a costituire una delle forti evidenze sperimentali a favore della natura corpuscolare della luce.

    Supporre l’esistenza di fotoni/quanti spiega anche la radiazione di corpo nero. L’ipotesi che la luce fosse costituita di particelle era però rivoluzionaria: riapriva

    una questione che sembrava chiusa definitivamente con Maxwell a favore dell’ipotesi ondulatoria.

    Nessuno, inizialmente, neanche Planck, credette all’ipotesi di Einstein. E anche quando ad Einstein venne dato il Nobel (nel 1921), l’Accademia svedese glielo assegnò “per aver trovato la formula che spiega l’effetto fotoelettrico”, non per averlo spiegato.

    Poi che fu dato il Nobel ad Einstein per la formula dell’effetto fotoelettrico, l’Accademia Svedese ritenne di doverlo dare anche a Hertz, che l’effetto aveva per primo scoperto, e che ricevette il Nobel nel 1925.

    1.4. Effetto Compton L’effetto Compton (1922) è forse il fenomeno fisico che più di ogni altro ha fornito un’evidenza diretta della natura corpuscolare della luce.

    Compton scoprì che la radiazione di una certa lunghezza d’onda (nella regione dei raggi X), fatta incidere su di un foglio metallico, veniva diffusa con una lungheza d’onda differente dalla lunghezza d’onda dell’onda incidente, e la differenza delle lunghezze d’onda dipendeva dall’angolo di diffusione.

    Secondo l’elettrodinamica classica, la diffusione della luce è dovuta

    all’irraggiamento da parte degli elettroni atomici, che vengono posti in oscillazione forzata dalla luce incidente. In questo caso la lunghezza d’onda della luce diffusa è

  • 16

    prevista essere uguale alla lunghezza d’onda della luce incidente, e l’intensità ha una

    dipendenza dall’angolo θ di diffusione data da ( 2cos1 ) (Scattering Thomson).

    Lo spostamento osservato nella lunghezza d’onda della luce diffusa venne spiegato da Compton considerando la radiazione incidente come un fascio di fotoni di energia ħω. I singoli fotoni vengono diffusi elasticamente dai singoli elettroni.

    Dimostrazione della formula Poiché i fotoni viaggiano alla velocità della luce, dobbiamo ricorrere alle formule

    della meccanica relativistica.

    Dalla formula relativistica 2

    0

    222 EcpE (invariante relativistico) ricaviamo

    che l’energia di una particella è 2242

    0 cpcmE

    Per l’elettrone in quiete è p=0 da cui E = m0 c2, energia a riposo

    Per i fotoni è m0 = 0, da cui E = pc, da cui kcc

    Ep

    ,

    che può anche essere scritta in forma vettoriale come p = ħ k, dove k è il vettore d’onda. La conservazione dell’energia impone

    2242

    0

    2

    0 '' cpcmcm mentre la conservazione dell’impulso impone

    '' pkk

    L’unica incognita è p’, che vado a isolare in entrambe le equazioni e quindi ad

    eliminare: dalla prima ottengo

    22042

    0

    22 '' cmcmcp mentre nella seconda, isolato p’, trovo il modulo quadro di ciascun vettore a destra

    e a sinistra dell’uguale moltiplicandoli scalarmente per sé stessi (e poi moltiplico per c2):

    cos'2''' 222222222

    ckkcp Due rapidi passaggi porgono quindi

  • 17

    )cos1(''2

    0

    cm

    da cui, dividendo per ωω’, e ricordando che è c

    ckc

    2

    12 , si ottiene

    )cos1('0

    cm

    h

    che esprime lo spostamento della lunghezza d’onda del fotone diffuso, λ’, in termini

    della lunghezza d’onda del fotone incidente λ. Questa previsione risultò in perfetto accordo con i dati sperimentali.

    La quantità

    mcmre

    c

    cm

    e

    cm

    h

    e

    C

    1210

    022

    2

    0

    104.2104.21

    22

    è detta LUNGHEZZA D’ONDA COMPTON (le due frazioni corrispondono la

    prima a r0, raggio classico dell’elettrone, e la seconda al valore 137, reciproco della

    costante α di struttura fine). L’interpretazione da parte di Compton dell’effetto che da allora prese il suo nome

    fornì l’evidenza definitiva del comportamento corpuscolare della luce. Da quel momento tutti credettero alla natura corpuscolare della luce. Poiché la radiazione elettromagnetica presenta anche proprietà ondulatorie, e dà luogo a fenomeni di interferenza e diffrazione, questi risultati dovevano portare a un radicale cambiamento delle leggi classiche.

    1.5. Onde o particelle? (Diffrazione degli elettroni)

  • 18

    BREVE STORIA DELLA LUCE

    Christiaan Huygens, 1690: la luce è onda, i raggi di luce si attraversano.

    Isaac Newton, 1704: la luce è composta di particelle (l’ipotesi non è però giustificata).

    Thomas Young, 1804: l’esperimento di interferenza da doppia fenditura mostra chiaramente e definitivamente che la luce è onda!

    James Clerk Maxwell, 1865: le equazioni che danno la velocità di un’onda elettromagnetica dicono che la luce è onda!! La questione è chiusa. Ma nel 1905 Einstein con la sua spiegazione dell’effetto fotoelettrico e nel 1922

    Compton con la spiegazione dell’effetto Compton misero di nuovo in crisi la fisica.

    La luce in certe circostanze si comporta come onde, in altre come particelle.

    Nel 1923 De Broglie nella sua tesi di dottorato avanzò l’ipotesi che la natura duale onda-particella della radiazione avesse la sua controparte in una natura duale onda-particella della materia (riceverà per questo il Nobel nel 1929).

    Per i fotoni vale la relazione:

    hkp

    2

    De Broglie ipotizzò che la stessa relazione fosse valida per le particelle della materia. In altri termini, una particella di impulso p si comporta, sotto certe condizioni, come un’onda di lunghezza d’onda

    p

    h

    Venne allora suggerito che l’ipotesi di De Broglie potesse essere verificata sperimentalmente osservando un fenomeno di diffrazione degli elettroni.

    La diffrazione degli elettroni venne osservata in una serie di esperimenti di Davisson e Germer (1927), che studiarono la diffusione degli elettroni da una superficie di un cristallo (osservando una figura identica a quella prodotta da raggi X):

  • 19

    La differenza di fase tra due onde diffuse da piani adiacenti del reticolo cristallino è data da

    senaxk 2

    2

    dove a è il passo reticolare e α è l’angolo che la radiazione forma con i piani del reticolo cristallino su cui incide.

    Si osserverà allora interferenza costruttiva quando questa differenza (cammino

    ottico) è pari a un multiplo intero di 2π: nxk 2 , ossia quando

    nsena 2 (questa formula, che è detta Legge di Bragg, si ottiene direttamente imponendo che la differenza di percorso tra il raggio incidente sul primo piano e quello che indice sul secondo piano sia pari a un multiplo di lunghezza d’onda).

    Una figura di diffrazione, i cui massimi si presentano in corrispondenza degli

    angoli definiti dalla precedente equazione, venne effettivamente osservata negli

    esperimenti. La lunghezza d’onda, associata ad elettroni di impulso p, risultò inoltre in accordo con la formula di De Broglie. Questa osservazione rappresentò pertanto un passo fondamentale nella formulazione della meccanica ondulatoria.

    1.6. La struttura dell’atomo A fine ’800 l’ipotesi atomica (di Dalton, 1808) era largamente accettata. L’atomo era considerato “indivisibile”.

    Nel 1897 Thomson (che lavorava a Cambridge) scopre l’elettrone, con carica

    negativa e massa 2000 volte inferiore alla massa atomica… ed elabora il suo modello di atomo, detto modello a panettone, in cui si ipotizzavano gli elettroni immersi in una distribuzione di carica positiva la cui estensione determina le dimensioni dell’atomo.

    Nel 1908 il neozelandese Rutherford (che lavorava a Manchester, con Geiger e

    Marsden, suoi assistenti) effettuò un esperimento per studiare la struttura atomica.

  • 20

    L’esperimento consisté nel bombardare una sottile lamina d’oro con particelle α, prodotte da decadimento radioattivo. Il risultato inatteso dell’esperimento fu che una

    significativa frazione di particelle α veniva deviata a grandi angoli di diffusione. Il risultato dell’esperimento di Rutherford era inconsistente con le aspettative

    basate sul modello dell’atomo di Thomson, nel quale gli elettroni, immersi nella carica

    positiva, non deviano le particelle α, avendo una massa circa 104 volte più piccola.

    Pertanto la sorgente che diffonde le particelle α deve essere la carica positiva, ma una carica positiva distribuita implica che gli angoli di diffusione siano minimi.

    Se la particella α passa fuori dell’atomo d’oro, la repulsione coulombiana è la stessa che se la carica positiva fosse tutta concentrata nel centro dell’atomo (e, in base ai

    calcoli, è minima); se la particella α passa “all’interno” dell’atomo non sente l’effetto di tutta la carica positiva dell’atomo ma solo di quella parte che sta dentro la sfera di raggio pari alla distanza dal centro a cui passa la particella.

    Grandi angoli di diffusione implicano invece che il potenziale alla superficie della distribuzione della carica sia grande. Questo a sua volta implica che la carica positiva sia confinata in una regione di spazio molto più piccola dell’atomo.

    Rutherford propose allora un nuovo modello (1909) in grado di spiegare i dati. In questo modello tutta la carica positiva (e quasi tutta la massa) è concentrata in una piccola regione al centro dell’atomo. Questo nucleo di carica positiva attrae gli elettroni, carichi negativamente, e poiché la legge di forza ha un andamento 1/r2 gli elettroni si muovono in orbite circolari o ellittiche attorno al nucleo.

  • 21

    Sebbene in grado di spiegare i dati sperimentali relativi alla diffusione delle

    particelle α, il modello (“planetario”) di Rutherford presentava due insuperabili difficoltà:

    - mancava di un meccanismo per stabilizzare gli atomi: gli elettroni in orbite circolari o ellittiche sono costantemente accelerati e, secondo la teoria elettrodinamica classica, dovrebbero irradiare energia. La continua perdita di energia condurrebbe, in un tempo molto breve (dell’ordine di 10–10 sec), al collasso dell’atomo, con gli elettroni che cadono sopra al nucleo;

    - il modello non era in grado di spiegare gli spettri atomici, che si osservavano avere la struttura (formula di Rydberg)

    22

    111

    mnR

    con n, m numeri naturali, m>n

    Queste evidenti difficoltà teoriche nell’interpretazione dei risultati sperimentali relativi alla struttura atomica giocarono un ruolo fondamentale nello sviluppo della teoria quantistica.

    1.7. L’atomo (il modello) di Bohr (1913) Bohr si era laureato a Copenaghen nel 1911, quindi si era trasferito a Cambridge, dove lavorava Thomson; e un po’ perché riuscì a interagire poco (e a legare poco) con Thomson, un po’ perché da subito aveva sollevato obiezioni al modello di Thomson, non ebbe molto feeling con nume di Cambridge e preferì spostarsi a Manchester, dove lavorava Rutherford. E lì tentò di spiegare i risultati dello stesso Rutherford e di e trovare un rimedio ai problemi posti dal modello atomico planetario di quest’ultimo. Come mai gli atomi erano stabili?

    Bohr fece tre ipotesi:

    1. L’elettrone ruota attorno al nucleo su orbite stabili (senza emettere radiazione).

    2. Le sole orbite consentite sono quelle per le quali il momento angolare L risulti multiplo intero di ħ

    nmvrL 3. L’elettrone può effettuare transizioni discontinue tra due orbite consentite.

    Quando ciò accade viene emessa o assorbita radiazione di frequenza

    'EE dove 'EEE è la variazione di energia dell’elettrone tra le due orbite.

  • 22

    Conseguenze

    La stabilità di un’orbita è determinata dall’equilibrio tra la forza coulombiana e la forza

    centrifuga r

    vm

    r

    ek

    2

    2

    2

    , da cui rmvke22

    Questa condizione, a sistema con la condizione di quantizzazione del momento angolare, porge

    2

    22222

    mke

    n

    mv

    nr

    n

    kev

    nmvr

    kermv

    Dunque

    0

    2

    2

    22 an

    mkenr

    nc

    ke

    nc

    v

    21

    dove α è la già citata costante di struttura fine, pari a 1/137

    Nota: in meccanica quantistica le due formule vengono rispettivamente scritte come

    0

    2

    11

    anr ] 2

    2

    2

    2

    nc

    v ]

    Calcoliamo l’energia cinetica T e potenziale V delle orbite:

    2

    22

    22

    422

    2

    22

    22

    4222

    2222

    n

    mc

    n

    emk

    r

    ken

    mc

    n

    emkmv

    m

    p

    In meccanica quantistica valgono questi stessi risultati per i valori medi di T e V.

    Ricaviamo 2

    2222

    22 n

    mc

    r

    ek

    m

    pE

    Le righe di emissione e assorbimento dell’atomo hanno pertanto frequenze della forma

    22

    22 1

    '

    1

    2'

    nn

    mcEEhf

  • 23

    che è la formula di Rydberg! La costante sperimentale R adesso ha un significato fisico.

    Ipotesi di Planck, quanti di luce nell’effetto fotoelettrico, quantizzazione del momento angolare stavano cambiando la percezione del mondo microscopico.

    Quale fosse la reazione dei fisici a quelle “novità” la possiamo dedurre dai commenti di Heisenberg e Einstein riportati sotto.

    1.8. Test ed esercizi

    Esperimenti condotti negli ultimi decenni hanno appurato che l’Universo è permeato da una radiazione elettromagnetica (“radiazione cosmica di fondo”) che presenta un massimo di intensità alla lunghezza d’onda di 1.87 mm. Considerando l’Universo come un corpo nero, e

    sapendo che il massimo dello spettro di corpo nero nella formula di Planck si ha per ℏ ⋅ωmax = 2.82 kB*T, a quale temperatura corrisponde questa emissione? a. 2.73 K b. 2.73 mK c. 2.73 x 10−6 K d. 273 K e. 2.73 x 10 6 K

    [La risposta corretta è la a. Bisogna usare la legge di Wien: λMAXT= cost,

    ovvero, nella forma in cui è scritta sopra, T= ℏ ⋅ωmax /(2.82 kB) =h f/(2.82 kB) = h c/(λ x 2.82 x kB) = 6.626 x 10

    – 34 x 2.998 x 10 8 / (1.87 x 10 – 3 x 2.82 x 1.381 x 10 – 23 ) K = 2.73 K]

    Calcolare la lunghezza d’onda di De Broglie di un elettrone con energia cinetica di 50 eV. a. 0.17 cm b. 170 nm c. 17 fm d. 170 mm

  • 24

    e. 0.17 nm

    [La risposta corretta è la e. Il valore preciso è 0,1734…. Le formule da usare sono λ=h/p e E= p2/2m cioè p = radq(2mE) che implica λ=h/p= h/radq(2mE) ]

    In un esperimento di diffrazione simile a quello di Davisson e Germer un fascio di elettroni con energia cinetica 50 eV viene inviato su un cristallo di nickel. La distanza tra i piani del reticolo cristallino in esame vale a=0.091 nm. Per quale angolo si osserverà il primo massimo di interferenza costruttiva? a. 103.4 gradi b. 29.1 gradi c. 72.4 gradi d. 88.4 gradi e. 15.6 gradi

    [La risposta corretta è la c. Ma occorre prendere qualche decimale

    in più di quelli della risposta e. al test precedente: 0,17346. La formula è 2a sen θ = nλ, cioè sen θ = nλ /2a con n=1, cioè θ = arcsen (λ/2a)]

    In un esperimento di diffrazione simile a quello di Davisson e Germer, un fascio di elettroni viene inviato su un cristallo. La distanza tra i piani del reticolo cristallino in esame vale a=0.54 nm. Sapendo che il primo massimo di interferenza costruttiva viene osservato a 60 gradi, trovare la lunghezza d’onda degli elettroni utilizzati. a. 0.47 nm b. 0.94 nm c. 0.63 cm d. 0.54 nm e. 835 fm

    [La risposta corretta è la b. Occorre usare la formula 2a sen 60° = λ]

    Nell’esperimento di Compton, secondo le previsioni della fisica classica, la radiazione elettromagnetica che investiva la materia avrebbe dovuto… a. proseguire indisturbata senza generare luce diffusa. b. mettere in oscillazione gli elettroni del bersaglio, generando così luce diffusa ad una lunghezza d’onda maggiore. c. mettere in oscillazione gli elettroni del bersaglio, generando così luce diffusa ad una lunghezza d’onda minore. d. mettere in oscillazione gli elettroni del bersaglio, generando così luce diffusa alla stessa lunghezza d’onda. e. estrarre gli elettroni dal materiale.

    [La risposta corretta è la d.]

  • 25

    Cap. 2

    I PRINCIPI DELLA MECCANICA QUANTISTICA

    PROBABILITÀ E AMPIEZZE DI PROBABILITÀ DUALISMO ONDA-PARTICELLA

    INDETERMINAZIONE La “meccanica quantistica” è la descrizione del comportamento della materia e della luce in tutti i suoi dettagli, e in particolare di ciò che avviene su scala atomica.

    Gli oggetti su scala molto piccola non si comportano come nessuna cosa di cui si possa avere diretta esperienza. Sotto alcuni aspetti si comportano come onde, sotto altri come particelle, ma in effetti non si comportano come né l’una né l’altra cosa.

    D’altra parte, il comportamento quantistico degli oggetti atomici (elettroni, protoni, neutroni, fotoni, e così via) è lo stesso per tutti: sono tutti onde-particelle, o qualunque altro nome gli si voglia dare.

    Una descrizione coerente del comportamento della materia su scala microscopica venne dato, negli anni 1926-27, principalmente da Schrödinger, Heisenberg e Born.

    Considereremo qui le principali caratteristiche di tale descrizione descrivendo un

    “esperimento ideale”, che mette a confronto, in una particolare situazione sperimentale, il comportamento quantistico degli elettroni con il comportamento di particelle classiche, quali pallottole, e onde classiche, del tipo di quelle che si formano nell’acqua.

    2.1. Esperimenti di interferenza con pallottole, onde ed elettroni

    UN ESPERIMENTO CON PALLOTTOLE

    P1 = probabilità che il proiettile giunga in x passando per il foro 1 P2 = probabilità che il proiettile giunga in x passando per il foro 2 P12 = probabilità che il proiettile giunga in x passando per il foro 1 o per il foro 2

  • 26

    Risultato dell’esperimento:

    - i proiettili arrivano sempre a blocchi identici e distinti; - l’effetto con entrambi i fori aperti è la somma degli effetti che si hanno

    quando è aperto ciascuno dei due fori da solo. Le probabilità vanno sommate:

    - P1 + P2 = P12: non si osserva interferenza.

    UN ESPERIMENTO CON ONDE (prodotte in acqua)

    L’intensità I è il quadrato dell’ampiezza dell’onda: I1 = intensità misurata lasciando aperto solo il foro 1 I2 = intensità misurata lasciando aperto solo il foro 2 I12 = intensità misurata lasciando aperti entrambi i fori 1 e 2

    Risultato dell’esperimento:

    - l’intensità può assumere qualsiasi valore; non possiede una struttura a “blocchi”;

    - l’intensità misurata quando entrambi i fori sono aperti non è la somma di I1 e I2: si ha interferenza tra le due onde.

  • 27

    MATEMATICA DELL’INTERFERENZA

    (FORMALISMO COMPLESSO)

    )Re( 1tieh = altezza istantanea al rivelatore dell’onda proveniente dal foro 1

    )Re( 2tieh = altezza istantanea al rivelatore dell’onda proveniente dal foro 2

    ))Re(( 21tiehh = altezza istantanea al rivelatore dell’onda quando entrambi i

    fori sono aperti L’intensità è proporzionale all’ampiezza quadratica media cioè, con il formalismo

    complesso, al modulo quadro dell’ampiezza. Tralasciando la costante di proporzionalità: 2

    11 hI 2

    22 hI

    cos2 212

    2

    2

    1

    2

    2112 hhhhhhI

    (δ è la differenza di fase tra h1 e h2, ed è funzione di x)

    Allora, in termini di intensità, cos2 212112 IIIII . L’ultimo termine di

    questa espressione è il “termine di interferenza”.

    UN ESPERIMENTO CON ELETTRONI

    P1 = probabilità che un elettrone giunga in x passando per il foro 1 con il foro 2 chiuso P2 = probabilità che un elettrone giunga in x passando per il foro 2 con il foro 1 chiuso P12 = probabilità che un elettrone giunga in x con entrambi i fori aperti

    Risultato dell’esperimento:

    - gli elettroni arrivano sempre in granuli, tutti identici tra loro (come i proiettili);

    - la probabilità P12 ottenuta con entrambi i fori aperti non è la somma di P1 e P2 :

    P12 ≠ P1+ P2

  • 28

    - Se fosse vero che “ciascun elettrone o attraversa il foro 1 o attraversa il foro 2” allora la probabilità P12 dovrebbe essere la somma di P1 e P2 .

    - Si potrebbe pensare che gli elettroni seguono percorsi complicati, passando magari più volte per ciascun foro. Ma nemmeno questo è possibile: vi sono punti in cui arrivano meno elettroni quando sono aperti entrambi i fori, ossia la chiusura di un foro aumenta il numero di elettroni provenienti dall’altro.

    - Al centro della curva, P12 è maggiore di P1+ P2; è come se la chiusura di un foro diminuisse il numero di elettroni che escono dall’altro.

    Sebbene questi risultati siano incomprensibili, la loro descrizione matematica è

    estremamente semplice: la curva P12 è proprio una curva di interferenza come I12 e la matematica è dunque quella dell’interferenza.

    I risultati dell’esperimento possono essere dunque descritti introducendo due

    numeri complessi (funzioni di x): φ1 e φ 2. 2

    11 P 2

    22 P

    cos2 212

    2

    2

    1

    2

    2112 P

    Il fatto che sommiamo le ampiezze e non le probabilità ci dice che lo stato dell’elettrone che giunge sullo schermo è lo stato di un elettrone “passato per entrambe le fenditure”; è uno stato cioè che corrisponde a una sovrapposizione di stati.

    La 2112 è un concetto puramente quantistico.

    Altro esempio: la polarizzazione dei fotoni: i fotoni che possono essere polarizzati nella direzione della velocità o in direzione opposta possono anche essere polarizzati in una qualunque direzione che risulti combinazione lineare (sovrapposizione) delle due.

    OSSERVAZIONE DEGLI ELETTRONI

    Poiché il numero di elettroni che arriva in un particolare punto non è uguale al numero di elettroni che arrivano passando dal foro 1 più quelli che passano dal foro 2, questo ci

  • 29

    porta a concludere che non è vero che gli elettroni passano attraverso l’uno o l’altro dei fori 1 e 2. Verifichiamo questa conclusione con un esperimento.

    Aggiungiamo nell’apparato sperimentale una sorgente di luce, posta dietro allo schermo a metà tra i due fori. Poiché le cariche elettriche diffondono luce, quando un elettrone riesce ad attraversare lo schermo devierà verso il nostro occhio della luce e potremo “vedere” il cammino dell’elettrone stesso.

    Risultato dell’esperimento:

    - gli elettroni che vengono osservati risultano essere passati o dal foro 1 o dal foro 2 ma mai da tutti e due insieme;

    - l’andamento di '1P e '2P , costruiti lasciando entrambi i fori aperti ma

    osservando da quale foro è passato l’elettrone è uguale all’andamento di 1P

    e 2P osservato nel precedente esperimento chiudendo uno dei due fori.

    Quindi gli elettroni che vediamo arrivare attraverso il foro 1 sono distribuiti nello stesso modo, indipendentemente dalla situazione del foro 2;

    - la probabilità totale risulta dunque essere la somma delle probabilità

    2112 ' PPP

    Riassumendo: i risultati dell’esperimento delle due fenditure risultano incomprensibili…

    ma la descrizione matematica è molto semplice: è la stessa delle onde classiche.

    La distribuzione degli elettroni sullo schermo quando li osserviamo è

    differente da quella quando non li osserviamo. Evidentemente la luce, nell’essere diffusa dagli elettroni, dà loro un colpo che ne

    fa mutare il movimento. Si può allora tentare di modificare l’esperimento in modo da osservare gli elettroni senza disturbarli troppo.

  • 30

    Si potrebbe 1) diminuire l’intensità della luce… oppure 2) diminuire la frequenza della luce, in modo da diminuire l’energia dei fotoni.

    Nel primo caso alcuni elettroni finisco per vederli ma altri mi sfuggono: per gli elettroni che ho visto passare si osserva una figura NON d’interferenza, alla quale però si sovrappone una figura di interferenza generata dagli elettroni che non ho visto passare.

    Nel secondo caso, se riduco la frequenza significa che aumenta la λ; e se prima, con una frequenza alta e una λ piccola riuscivo a distinguere da quale fenditura passava l’elettrone, con una frequenza più bassa e una λ più lunga, che arriva a superare la distanza tra le due fenditure, non riesco più a capire da quale fenditura è passato l’elettrone… e si osserva figura di interferenza. È possibile allora migliorare l’esperimento? No!

    È impossibile costruire un apparecchio per determinare da quale foro è passato l’elettrone che allo stesso tempo non perturbi l’elettrone sufficientemente da distruggere l’interferenza. Se un apparecchio è in grado di determinare da quale foro è passato l’elettrone, non può essere così delicato da non alterarne in modo essenziale la distribuzione. Questo risultato è una conseguenza particolare del principio di indeterminazione.

    2.2. La matematica della meccanica quantistica.

    PRINCIPI BASE DELLA MECCANICA QUANTISTICA: PROBABILITÀ E AMPIEZZE DI PROBABILITÀ

    Riassumiamo ora, in una forma generale, le principali conclusioni dell’esperimento sopra descritto. 1. La probabilità di un evento in un esperimento ideale è data dal quadrato del modulo

    di un numero complesso Φ che viene detto ampiezza di probabilità: P = probabilità

    Φ = ampiezza di probabilità P = |Φ|2

    2. Quando un evento può avvenire secondo varie alternative, l’ampiezza di probabilità per l’evento è la somma delle ampiezze di probabilità per le varie alternative considerate separatamente:

    Φ = Φ1 + Φ2 P = |Φ1 + Φ2|2

    3. Se si effettua un’esperienza capace di determinare se una o l’altra delle possibili alternative è effettivamente realizzata, la probabilità per l’evento è la somma delle probabilità per ciascuna delle alternative. Non si ha più interferenza

    P = P1 + P2

    Sottolineiamo una differenza molto importante tra la meccanica classica e la meccanica quantistica. Nella meccanica quantistica è impossibile prevedere ciò che

  • 31

    accadrà in una data situazione. La sola cosa che è possibile prevedere è la probabilità di eventi differenti.

    2.3. Il principio di indeterminazione Scoperto da Heisenberg nel 1927, “il principio di indeterminazione sta a difesa della meccanica quantistica” (Feynman)

    La presenza di interferenza nell’esperimento con gli elettroni attraverso le due fenditure mette in risalto come, nel caso di particelle microscopiche, il concetto di traiettoria, che sta a fondamento della meccanica classica, viene a perdere di significato nella meccanica quantistica.

    Tale circostanza trova la sua espressione nel cosiddetto principio di indeterminazione, uno dei principi basilari della meccanica quantistica, scoperto da Heisenberg nel 1927.

    Se, in seguito a una misura, a un elettrone vengono assegnate coordinate determinate, esso allora non ha, in generale, nessuna velocità determinata. Viceversa, se è dotato di una velocità determinata, l’elettrone non potrà avere una posizione determinata nello spazio. Infatti, l’esistenza simultanea a ogni istante delle coordinate e della velocità significherebbe l’esistenza di una traiettoria, che l’elettrone non ha.

    Di conseguenza nella meccanica quantistica le coordinate e la velocità dell’elettrone sono grandezze che non possono essere misurate con precisione allo stesso istante, cioè non possono avere simultaneamente valori determinati. Si può dire che le coordinate e la velocità dell’elettrone sono grandezze non esistenti simultaneamente.

    Una formulazione matematica del principio di indeterminazione è data dalla relazione

    2

    xpx

    Mostriamo, in un caso particolare, come il principio di indeterminazione di

    Heisenberg debba essere valido al fine di evitare situazioni inconsistenti. Il principio di indeterminazione e l’esperimento delle due fenditure.

    Einstein era scettico sulla meccanica quantistica e sul principio di indeterminazione e, in uno degli incontri tra fisici ai congressi Solvay, propose a Bohr una modifica dell’esperimento della doppia fenditura in questo modo: immaginiamo di modificare l’esperimento di interferenza degli elettroni sostituendo la parete fissa, con le due fenditure, con una lamina montata su cuscinetti che si può muovere liberamente in direzione dell’asse x:

  • 32

    osservando il moto della lamina possiamo provare a determinare attraverso quale foro passa un elettrone. Consideriamo infatti il caso in cui il rivelatore è posto in x = 0. Ci aspettiamo che un elettrone che passi per il foro 1 (più in alto) debba essere deflesso verso il basso dalla lamina per poter arrivare al rivelatore. Poiché la componente verticale dell’impulso dell’elettrone è variata, la lamina deve muoversi in direzione opposta con lo stesso impulso. La lamina riceverà quindi una spinta verso l’alto. Se invece l’elettrone passa attraverso il foro inferiore la lamina dovrebbe subire una spinta verso il basso. È chiaro che per ogni posizione del rilevatore l’impulso ricevuto dalla lamina avrà un valore differente a seconda che l’elettroni attraversi il foro 1 o il foro 2. Quindi, senza per nulla perturbare gli elettroni, ma solo osservando la lamina, possiamo determinare il percorso scelto dall’elettrone.

    Bohr rimase sveglio tutta la notte… e capì dov’era l’errore di Einstein: bisognava applicare il principio di indeterminazione anche alla lamina!

    Per poter determinare di quanto è variato l’impulso della lamina dopo il passaggio dell’elettrone occorre conoscere l’impulso di questa prima che l’elettrone lo attraversi. Calcoliamo l’impulso che l’elettrone trasmette alla lamina attraversando un foro, supponendo che l’elettrone, rimbalzando sulla parete del foro, arrivi nel massimo

    centrale: se a è la distanza tra le fenditure e D è la distanza della lamina dallo schermo e

    D

    a

    D

    a

    tg2

    2 D

    pappx

    2sin

    l’impulso trasmesso è dell’ordine D

    papp x 2

    e questa quantità rappresenta anche l’incerta massima con la quale è necessario conoscere l’impulso della lamina prima che l’elettrone l’attraversi per poter distinguere se l’elettrone è passato attraverso il foro 1 oppure il foro 2.

    In base al principio di indeterminazione, se l’impulso della lamina è noto con una

    precisione maggiore di Δp, allora la posizione della lamina stessa non può essere conosciuta con una precisione maggiore di

  • 33

    a

    D

    pa

    hD

    p

    hx

    dove p

    h è la lunghezza d’onda di De Broglie associata all’elettrone che si

    muove con impulso p.

    L’incertezza Δx è allora anche l’incertezza con cui è definita la posizione delle due fenditure, che saranno quindi in diverse posizioni per ogni elettrone che l’attraversi. Questo significa che il centro delle frange di interferenza avrà una posizione differente per i vari elettroni.

    Dimostreremo ora che la lunghezza Δx, di cui oscillano lungo l’asse x le frange d’interferenza, è circa uguale alla distanza tra due massimi vicini. Un tale movimento, che avviene a caso, è giusto sufficiente a distruggere le oscillazioni del grafico e quindi a far sì che non si osservi più interferenza.

    Se Δs è la differenza delle distanze delle due fenditure dal punto x dello schermo, la

    differenza di fase δ tra le due onde che giungono in x è pari a

    D

    axassk

    2sin

    22

    I massimi di interferenza si hanno quando la differenza di fase δ è pari a un

    multiplo intere di 2π (ovvero quando Δs è un multiplo intero di lunghezza d’onda), ossia

    nei punti di coordinate a

    Dnxn

    con n = 0, ±1, ±2, …

    Due massimi consecutivi si trovano dunque a distanza a

    Dx

    che coincide

    esattamente con lo spostamento tipico del centro delle frange di interferenza per ciascun elettrone.

    Il principio di indeterminazione garantisce quindi che l’aver osservato la fenditura attraverso la quale è passato l’elettrone porta alla scomparsa dell’interferenza.

  • 34

    Il principio di indeterminazione ha conseguenze sugli oscillatori armonici (cioè sui piccoli pendoli): per la meccanica quantistica non è possibile il pendolo fermo nello stato

    di equilibrio in cui Δx = 0 e ΔE = 0 cioè Δp = 0. L’esistenza di una energia minima comporta che ci sia un’energia nel vuoto (la costante cosmologica!): è l’energia che possiedono gli oscillatori.

    Poiché le particelle sono descritte da campi (i fotoni sono delle piccole oscillazioni proprie del campo elettromagnetico), anche quando non ci sono particelle il campo deve avere una energia minima perché i suoi oscillatori non possono avere energia nulla.

    Altra conseguenza del principio di indeterminazione è l’effetto tunnel, che vedremo più avanti.

    2.4. I principi della MQ: misure, osservabili e principio di indeterminazione

    2.5. La meccanica quantistica e gli integrali sui cammini

    Una formulazione alternativa della meccanica quantistica fu fornita da Feynman nel 1948 (e per la quale prese il Nobel nel 1965). L’idea originaria era di Dirac, che poi non la sviluppò.

    Se l’elettrone che parte da A e, passando attraverso le due fenditure, viene poi rilevato in B, sappiamo che “è passato” per entrambe le fenditure.

  • 35

    E se le fenditure dello schermo fossero 3? Vi sarebbero 3 possibili stati e bisognerebbe sommare le 3 possibili ampiezze di probabilità e fare la somma sui 3 possibili cammini.

    E se aggiungiamo un altro schermo, quest’ultimo con 4 fenditure? I possibili cammini diventano 12… e devo fare la somma delle ampiezze di probabilità su tutti e 12 i possibili cammini.

    Generalizzando il ragionamento: tolti tutti gli schermi con le varie fenditure, per calcolare la probabilità che l’elettrone, partito da A, giunga in B devo sommare le ampiezze di probabilità su tutti i possibili cammini che l’elettrone può fare per andare da A a B.

    Per Feynman questa somma vale dunque

    )(

    )]([exptx

    txSi

  • 36

    Per la meccanica classica (disegno a destra) la particella va da A a B seguendo la linea

    retta. L’equazione di Newton è soddisfatta dalla soluzione min)]([ StxS , cioè il

    cammino classico è quello di minima azione. Come si passa dalla meccanica quantistica alla meccanica classica? Quando si fa la

    somma su tutti i possibili cammini, la ħ tende a 0, cammini anche vicini finiscono per “annullarsi l’un l’altro”, e rimane solo quello previsto dalla meccanica classica.

    Quindi, concludendo, possiamo dire che “l’elettrone non segue una traiettoria” oppure (con Feynman) che “l’elettrone si muove seguendo tutte le traiettorie possibili”.

    2.6. Test ed esercizi La meccanica quantistica non è una teoria deterministica. Nota la funzione d'onda di una particella libera ad un dato istante, infatti, la meccanica quantistica… a. ci permette di dire quali saranno i possibili eventi futuri (ad esempio "se effettuo una misura di posizione troverò la particella in x"), ma non le corrispondenti probabilità. b. ci permette unicamente di determinare la probabilità degli eventi futuri (ad esempio "se effettuo una misura di posizione troverò la particella in x"). c. non ci permette di dire nulla circa gli eventi futuri (ad esempio "se effettuo una misura di posizione troverò la particella in x"). d. ci permette di calcolare le probabilità dei possibili eventi futuri (ad esempio "se effettuo una misura di posizione troverò la particella in x"), ma solo con una certa indeterminazione, non riducibile tramite un processo di misura della posizione della particella. e. ci permette di calcolare le probabilità dei possibili eventi futuri (ad esempio "se effettuo una misura di posizione troverò la particella in x"), ma solo con una certa indeterminazione, riducibile tramite un processo di misura della posizione della particella.

    [La risposta esatta è la b.]

    Si consideri un esperimento di doppia fenditura con elettroni. Quale delle seguenti affermazioni è vera? a. La figura di interferenza si genera perché gli elettroni che passano per la fenditura 1 interagiscono con gli elettroni che passano per la fenditura 2. Infatti, chiudendo una delle due fenditure, l’interferenza sparisce.

  • 37

    b. Immaginiamo di mettere una sorgente luminosa, che interagendo con gli elettroni mi permetta di discriminare attraverso quale fenditura sono passati, come spiegato nella lezione. Sullo schermo si formerà comunque la figura di interferenza, a patto che io non guardi dove gli elettroni sono passati. c. È impossibile osservare la figura di interferenza e contemporaneamente sapere attraverso quale fenditura sono passati gli elettroni d. Le affermazioni b. e c. sono entrambe vere. e. Nessuna delle altre affermazioni è vera.

    [La risposta esatta è la c.]

    In un esperimento di doppia fenditura, le due onde che attraversano le due fenditure arrivano in un certo punto dello schermo avendo rispettivamente ampiezze di A1=3 e A2=4, e fasi θ1=π/3 e θ2=π/4. Calcolare l’intensità complessiva (modulo quadro dell'ampiezza) che si produce per interferenza in quel punto. a. 25 b. 9.1 c. 48.2 d. 33.8 e. 71.4

    [la risposta esatta è la c. La formula da usare è

    A2= A12+A22 + 2 A1 A2 cos(θ1–θ2)=9+16+2x3x4 cos (π /12)]

    Quale delle seguenti affermazioni sul principio di indeterminazione è vera? a. Il principio di indeterminazione mi impedisce di conoscere l’impulso di un corpo con precisione arbitrariamente piccola. b. Il principio di indeterminazione mi impedisce di conoscere la posizione di un corpo con precisione arbitrariamente piccola. c. Il principio di indeterminazione afferma che, a causa delle ineliminabili incertezze sperimentali, non potrò mai conoscere con precisione infinita la posizione e l’impulso che un corpo possiede. d. Le affermazioni a. e b. sono entrambe vere. e. Nessuna delle altre affermazioni è vera.

    [La risposta esatta è la e.]

    Il principio di indeterminazione, nota l’indeterminazione sulla posizione di un sistema fisico, mi permette di... a. calcolare l’impulso del sistema. b. trovare un limite inferiore per l’indeterminazione sull’impulso del sistema. c. stimare l’ordine di grandezza dell’impulso del sistema. d. trovare un limite superiore per l’indeterminazione sull’impulso del sistema. e. determinare l’indeterminazione sull’impulso del sistema.

    [La risposta esatta è la b.]

    Calcolare l’energia cinetica di un elettrone confinato in un segmento di lunghezza Δx=10−6 m sapendo che l’indeterminazione relativa sull’impulso Δp/p vale 10−5 a. 593 eV b. 95 eV c. 62 meV d. 0.5 MeV e. 2.4 MeV

  • 38

    [La risposta corretta è la b. Le formule da usare sono

    a) Δx Δp =ħ/2 b) E=p2/2m Da (a) si ricava che Δx Δp/p =ħ/2p ossia p= ħ/(2 Δx Δp/p)= ħ/(2x10 – 11 m)

    E infine da (b) E = [ħ/(2 Δx Δp/p)]2/2m =…]

    L’indistinguibilità tra particelle della stessa specie ha conseguenze molto importanti in meccanica quantistica. Questa indistinguibilità è legata al principio di indeterminazione. In che modo? a. Le masse delle particelle della stessa specie possono avere, classicamente, piccolissime differenze. Il principio di indeterminazione mi impedisce di osservare, anche in linea di principio, queste differenze. b. (errata) Per il principio di indeterminazione due particelle della stessa specie hanno necessariamente la stessa funzione d’onda e pertanto sono indistinguibili. c. Il principio di indeterminazione ci impedisce di conoscere l’esatta traiettoria di una particella. La nostra ignoranza sul moto di due particelle della stessa specie le rende, ai nostri occhi, indistinguibili. d. Le dimensioni delle particelle della stessa specie possono avere, classicamente, piccolissime differenze. Il principio di indeterminazione mi impedisce di osservare, anche in linea di principio, queste differenze. e. Il principio di indeterminazione ci impone di abbandonare il concetto di traiettoria e rende quindi impossibile, anche in linea di principio, distinguere due particelle della stessa specie sulla base del loro moto.

    [La risposta esatta è la e.]

    Un sistema fisico si trova in una sovrapposizione di stati corrispondenti ai valori di energia E1=2 eV ed E2=4 eV. Misurando l’energia del sistema possiamo ottenere: a. qualsiasi valore compatibile con il principio di indeterminazione. b. un valore compreso tra 2 e 4 eV, dipendente dalla espressione esplicita della funzione d’onda del sistema. c. solo 2 eV oppure 4 eV, con probabilità dipendenti dalla espressione esplicita della funzione d’onda. d. 6 eV: l’energia del sistema è pari alla somma delle energie, perché la meccanica quantistica deve in ogni caso riprodurre le leggi della fisica classica a livello macroscopico. e. non è possibile misurare l’energia del sistema microscopico: ogni tentativo di misura distrugge l’interferenza tra gli stati.

    [La risposta esatta è la e.]

    Si consideri una particella con la funzione d’onda mostrata in figura. Quale delle seguenti affermazioni è vera?

    a. Se effettuo una misura di posizione, troverò la particella con x compresa tra 3 e 4 con una probabilità dell’80%. b. Nessuna delle altre affermazioni è vera. c. Posso concludere che la particella si trova in una delle posizioni x per le quali Φ(x) è diversa da zero ma non so in quale. Per scoprirlo devo effettuare una misura di posizione. d. La probabilità di trovare la particella con x=4 è maggiore di quella di trovare la particella con x=3.5.

  • 39

    e. Se effettuo una misura di posizione, la probabilità di trovare la particella con x compresa tra 3 e 4 è doppia rispetto a trovarla tra 1 e 2.

    [La risposta esatta è la a. Infatti la probabilità coincide con il modulo al quadrato

    della funzione d’onda, che dunque vale A2 tra 1 e 2 e vale 4A2 tra 3 e 4]

    Si consideri una particella con la funzione d’onda mostrata in figura (quella di prima). Ricordando che la somma su tutti gli x della probabilità di trovare la particella in x deve essere pari a 1, trovare il valore di A. a. 1/√5 b. 1 c. 1/√3 d. 1/3 e. 1/5

    [La risposta corretta è la a. Infatti A2 + 4A2 deve valere 1]

  • 40

    IL FORMALISMO GENERALE DELLA MECCANICA QUANTISTICA: KET, BRA E

    OPERATORI. Principio di sovrapposizione.

    Esperimenti di Stern e Gerlach ripetuti.

    Introduciamo qui il formalismo generale della meccanica quantistica descrivendo in termini completamente quantistici, ancora un esperimento ideale. Questo esperimento è una generalizzazione del famoso esperimento, realizzato da Stern e Gerlach nel 1921, che ha evidenziato la quantizzazione del momento angolare.

    L’ESPERIMENTO DI STERN E GERLACH

    L’esperimento di Stern e Gerlach aveva come obiettivo la misura del momento angolare degli atomi.

    Esso consiste nel far passare un fascio collimato di atomi di argento attraverso un campo magnetico non omogeneo.

    Un atomo di momento magnetico μ, che si trovi in un campo magnetico di intensità B, diretto lungo l’asse z, acquista una energia potenziale

    BBV z Se il campo magnetico non è omogeneo, ma la sua intensità varia lungo l’asse z,

    allora l’atomo è soggetto a una forza z

    B

    z

    VF zz

    Nell’esperimento di S-G il campo magnetico era orientato perpendicolarmente alla direzione di propagazione del fascio, dimodoché la forza F deviasse gli atomi dalle loro traiettorie iniziali.

    Secondo la teoria classica, tutte le orientazioni del momento magnetico sono ugualmente possibili e la forza F può dunque assumere tutti i valori compresi tra

    z

    Bz

    e

    z

    Bz

    . Atomi diversi verranno quindi differentemente deviati e si

    dovrebbe osservare, sullo schermo che intercetta il fascio, che questo si è uniformemente sparpagliato su una regione limitata tra un valore massimo e un valore minimo di z.

    Il risultato dell’esperimento, invece, fu completamente diverso dalle aspettative classiche: il fascio di elettroni si separò perfettamente in due. Si osservò cioè che il momento magnetico dell’atomo non può prendere che due orientazioni discrete:

    z .

  • 41

    L’atomo di argento è costituito da un nucleo e 47 elettroni, dei quali 46 possono essere visualizzati come una nube elettronica simmetrica priva di momento angolare complessivo. Se ignoriamo lo spin nucleare (che è accoppiato molto debolmente con il campo magnetico), vediamo che l’atomo nel suo complesso ha un momento angolare dovuto unicamente al momento angolare di spin (ossia “intrinseco”) del solo 47-esimo elettrone. Poiché il momento magnetico risulta proporzionale al momento angolare, il risultato dell’esperimento di S-G dimostra che il momento angolare di spin dell’elettrone è quantizzato, e la sua componente z può assumere soltanto due valori discreti. Questi

    valori sono 2

    zS

    ESPERIMENTI DI STERN E GERLACH RIPETUTI

    Per discutere il formalismo generale della meccanica quantistica consideriamo una versione modificata e ideale dell’esperimento di S-G.

    Consideriamo in primo luogo particelle di spin 1 che nell’attraversare un apparecchio di S-G si separano in tre fasci: un fascio è deviato verso l’alto, uno verso il basso e uno non viene affatto deflesso. La componente z dello spin delle particelle può assumere i valori

    0zS e zS Consideriamo poi una versione modificata dell’apparecchio di S-G, rappresentato

    in figura (la particella attraversa tre campi B consecutivi, il primo e il terzo di larghezza L e orientati allo stesso modo, il secondo, di larghezza 2L, è orientato in senso inverso).

    Per la simmetria dell’apparecchio, il fascio di particelle che all’interno viene

    suddiviso in tre esce comunque riunito. Per concentrarci solo su fenomeni che dipendono dallo spin degli atomi, e non

    dover includere effetti del moto sugli atomi che escono fuori, supponiamo che all’ingresso dell’apparecchio in A ci sia un meccanismo che fa partire gli atomi da fermi, e all’uscita dell’apparecchio in B ci sia un altro meccanismo atto a frenare gli atomi e a riportarli a riposo in B.

    Per brevità di notazione, conveniamo di indicare l’apparecchio di S-G modificato

    con il simbolo

    S

    0 , dove +, 0, – indicano i tre diversi fasci in cui si suddivide,

    all’interno, il fascio originario. Poiché ci proponiamo di usare molti apparecchi insieme, e con diverse orientazioni, li distingueremo ognuno con una lettera in basso (S nell’esempio precedente).

  • 42

    Con degli opportuni diaframmi è possibile bloccare all’interno dell’apparecchio uno o più dei tre fasci, permettendo solo agli altri il proseguimento del percorso. Indicheremo per esempio l’apparecchio che blocca i due fasci più in basso con il simbolo

    S

    |

    |0 .

    Diremo che gli atomi che nell’apparecchio S passano nel fascio superiore sono “nello stato + rispetto a S”, quelli che prendono il cammino di mezzo sono “nello stato 0 rispetto a S” e quelli che passano sotto “nello stato – rispetto a S”.

    Un apparecchio di S-G con diaframmi, quale quello indicato sopra, è in grado di selezionare uno stato puro rispetto a S. Infatti, con due apparecchi di S-G consecutivi, nella combinazione

    S

    |

    |0

    S

    |

    |0 Sì (°)

    osserviamo che tutte le particelle che hanno attraversato il primo apparecchio attraversano pure il secondo. D’altro canto, con le due combinazioni di apparecchi

    S

    |

    |0

    S

    |

    |

    0 No (°°)

    S

    |

    |0

    S

    |

    |

    0 No (°°°)

    non si osserva nessuna particella sullo schermo. Abbiamo già discusso come, secondo la meccanica quantistica, la probabilità di un

    evento in un esperimento ideale è data dal modulo quadro di un numero complesso detto ampiezza di probabilità.

    Per le ampiezze di probabilità utilizzeremo la notazione inventata da Dirac, e applicata usualmente in meccanica quantistica, secondo cui si indica con

    l’ampiezza che un atomo, inizialmente nello stato α, finisca nello stato β, o, come anche si dice, che un atomo dallo stato α si porti nello stato β (si noti l’analogia col simbolo del calcolo delle probabilità: …β dato α).

    Le esperienze riportate sopra indicano per le ampiezze di probabilità le relazioni

    1 SS 00 SS 0 SS (Δ)

    Supponiamo ora di utilizzare due apparecchi di S-G in serie, dei quali il secondo sia ruotato di un angolo attorno all’asse y (direzione di propagazione delle particelle). Eseguiamo quindi i seguenti esperimenti (T indica l’apparecchio ruotato)

  • 43

    S

    |

    |0

    T

    |

    |0 Sì 0 ST

    S

    |

    |0

    T

    |

    |

    0 Sì 00 ST

    S

    |

    |0

    T

    |

    |

    0 Sì 0 ST

    Ne segue che gli atomi che sono in uno stato definito rispetto a S non sono in uno stato definito rispetto a T.

    Si osservi inoltre che filtrare uno stato puro di T fa perdere l’informazione circa lo stato precedente della particella, come si può meglio osservare dal seguente esperimento

    S

    |

    |0

    T

    |

    |

    0

    S

    |

    |

    0 Sì (#󠄀)

    o, in termini di ampiezze, 0000 STTS

    In altri termini, gli atomi che escono da T sono nello stato (0T) e non hanno memoria del fatto che prima erano nello stato (+S).

    Questi risultati illustrano uno dei principi fondamentali della meccanica quantistica: ogni sistema atomico può essere analizzato, per mezzo di un processo di filtraggio, in un certo insieme di stati, chiamati stati di base. Il comportamento futuro degli atomi che si trovano in un determinato stato di base dipende solo dalla natura di questo stato ed è indipendente dalla storia precedente.

    Gli stati di base dipendono, come è chiaro, dal filtro che è stato usato. Per esempio i tre stati (+S), (0S) e (–S) sono un insieme di stati di base; i tre stati (+T), (0T) e (–T) un altro. Si parla comunemente di stati di base in una certa “rappresentazione”.

    Osserviamo che la perdita di informazione nell’esperimento sopra è causata non dall’aver separato in tre il fascio nell’apparecchio T ma dall’aver introdotto in T dei diaframmi.

    Infatti si ha

    S

    |

    |0

    T

    0

    S

    |

    |

    0 No (#󠄀#󠄀)

  • 44

    In generale un apparecchio T, o un altro qualsiasi, non diaframmato non produce alcun cambiamento.

    Abbiamo già discusso come, in meccanica quantistica, quando un evento può

    avvenire secondo varie alternative, l’ampiezza di probabilità per l’evento è la somma delle ampiezze di probabilità per le varie alternative considerate separatamente. L’ampiezza di probabilità per l’esperimento ultimo citato si scrive allora

    ,0,

    0i

    SiTiTS

    e questa ampiezza deve essere uguale a quella ottenuta rimuovendo dall’esperimento l’apparecchio T non diaframmato. Dunque:

    SSSiTiTSi

    00,0,

    (ΔΔ)

    La perdita di informazione sullo stato iniziale nell’esperimento (#󠄀) è dunque dovuta all’introduzione nell’apparecchio T dei diaframmi di arresto, ossia all’aver eseguito una misura dello stato T della particella. Questo risultato è generale (e ne abbiamo visto un altro esempio nella discussione dell’esperimento di interferenza degli elettroni nel passaggio di due fenditure): il processo di misura nella meccanica quantistica influisce sempre sulla particella, oggetto della misura. Questa proprietà è dovuta al fatto che le caratteristiche della particella non si manifestano che come risultato della misura stessa.

    È questa proprietà essenziale del processo di misura che giustifica il paradosso cui si giunge confrontando i risultati (#󠄀) e (#󠄀#󠄀): lasciando aperti più canali passano meno atomi (si ha pertanto un esempio di interferenza distruttiva). Dal punto di vista matematico questo è conseguenza del fatto che in meccanica quantistica si sommano le ampiezze e non le probabilità.

    Nel caso dell’esperimento (#󠄀) abbiamo

    00002

    STTSP

    Nel caso dell’esperimento (#󠄀#󠄀) abbiamo

    00

    2

    ,0,

    i

    SiTiTSP

    (La somma delle tre ampiezze è nulla ma ciascuna delle tre ampiezze è diversa da zero). Dimostriamo infine un’altra importante legge cui soddisfano le ampiezze.

    Abbiamo già visto come un apparecchio senza diaframmi non abbia alcuna influenza sullo stato della particella. Abbiamo allora che:

  • 45

    1,0,

    SSSiTiTSi

    D’altra parte la probabilità che una particella nello stato S attraversando un

    apparecchio T vada a passare attraverso uno qualsiasi dei tre fasci di T deve essere 1, cioè

    1,0, ,0,

    *2

    i i

    SiTSiTSiT

    Dal confronto delle ultime due equazioni ricaviamo che, per ogni i,

    iTSSiT *

    (ΔΔΔ)

    Riepiloghiamo, esprimendole in forma generale, tre leggi importanti ricavate per le ampiezze.

    Queste sono contenute nelle equazioni (Δ), (ΔΔ) e (ΔΔΔ)

    1) ijji

    2) i

    iixx

    3) *

    xx In queste equazioni i e j si riferiscono a tutti gli stati di base in una singola

    rappresentazione, mentre rappresentano due stati arbitrari della particella.

    VETTORI DI STATO BRA E KET. PRINCIPIO DI SOVRAPPOSIZIONE

    Le equazioni sin qui derivate per le ampiezze di probabilità quantistiche presentano una forte rassomiglianza formale con le proprietà del prodotto scalare di due vettori.

    Per esempio: l’equazione

    i

    iixx ($)

    può essere paragonata con la formula valida per il prodotto scalare di due vettori:

    i

    ii AeeBAB ))((

    (*)

    dove gli ei sono i tre versori di base nelle direzioni x, y, z. Infatti

  • 46

    xBeB 1 yBeB 2 zBeB 3 (e lo stesso per il vettore A)

    e l’equazione (*) equivale a zzyyxx ABABABAB Confrontando le equazioni ($) e (*) si vede che gli stati φ e x corrispondono ai due

    vettori A e B gli stati di base i corrispondono ai vettori di base ei.

    Poiché i vettori di base ei sono ortonormali, vale la relazione

    ijji ee Questa relazione ha il suo analogo nell’equazione

    ijji valida per le ampiezze di transizione tra stati di base.

    C’è una differenza tra le ampiezze quantistiche e il prodotto scalare: per le prime si ha *

    xx ($$$) mentre nell’algebra dei vettori è

    ABBA

    (###) ossia, nel prodotto scalare, l’ordinamento dei termini è irrilevante.

    L’equazione (*), che esprime una proprietà del prodotto scalare tra due vettori, è

    valida in generale per qualunque vettore B. L’equazione può quindi essere scritta in

    forma vettoriale “eliminando” B da entrambi i membri. Si arriva così all’equazione

    zzyyx

    i

    xii

    i

    ii eAeAeAeAAeeA

    )( In modo analogo si può pensare di definire dalla relazione quantistica ($) l’analogo

    di un “vettore”. Eliminando la da entrambi i membri della ($) si ottiene

    i

    i

    i

    icii

    In altri termini: la “parentesi” x viene considerata come composta di due parti.

    La seconda parte, , è detta KET mentre la prima, x , è detta BRA.

    La notazione è di Dirac

    Insieme x e compongono una BRA-KET (“braket” = “parentesi” in inglese).

    I simboli x e sono anche detti vettori di stato.

  • 47

    La differenza tra le equazioni ($$$) e (###) sta ad indicare che i vettori di stato KET e i vettori BRA sono definiti in uno spazio vettoriale complesso. In particolare,

    scriviamo l’equazione (*) per un vettore x

    i

    i

    i

    idxiix

    Confrontiamo questa equazione con quella che si ottiene dalla ($) eliminando il ket

    e utilizzando la proprietà ($$$)

    i

    i

    i

    idiixx*

    Vediamo dunque che vale la seguente regola di corrispondenza tra ket e bra:

    ** cccc

    Sottolineiamo che mentre i vettori nello spazio a tre dimensioni sono

    rappresentabili per mezzo di tre versori mutuamente ortogonali, i vettori di base i per

    gli stati quantistici devono variare su quell’insieme completo che si adatta al particolare problema. A seconda dei casi, possono essere necessari due, o tre o anche un numero infinito di stati di base.

    Consideriamo l’interpretazione fisica dell’equazione (*). Essa afferma che, in

    meccanica quantistica, ogni stato può essere espresso come combinazione lineare, o

    sovrapposizione, con opportuni coefficienti, di un insieme di stato di base. Viceversa, se

    lo stato e lo stato x sono due stati accessibili per il sistema allora qualunque

    combinazione lineare di e x è ancora uno stato accessibile del sistema. Questo

    enunciato costituisce il principio di sovrapposizione degli stati e rappresenta uno dei principi fondamentali della meccanica quantistica.

    La possibilità per un sistema di trovarsi in uno stato che è una

    sovrapposizione di più stati è un concetto puramente quantistico e non ha analogo classico. Così un atomo può trovarsi in una sovrapposizione di stati di spin, un fotone in una sovrapposizione di stati di polarizzazione, un elettrone in uno stato risultante dalla sovrapposizione di stati che definiscono il passaggio attraverso una o l’altra di due fenditure. È il principio di sovrapposizione che è dunque alla base di tutti i fenomeni di interferenza sin qui considerati.

    Concludiamo con un’osservazione sulla normalizzazione dei vettori di stato.

    Scegliendo nell’equazione ($) lo stato arbitrario x uguale allo stato troviamo che

  • 48

    ii

    iii2

    ossia l’ampiezza è sempre un numero reale non negativo. Il quadrato di questa

    ampiezza rappresenta la probabilità che “un sistema nello stato venga trovato nello

    stato . Tale probabilità è evidentemente uguale a 1. L’ampiezza deve dunque

    soddisfare

    1 I vettori di stato corrispondenti a stati fisici devono essere normalizzati.

    OPERATORI. RAPPRESENTAZIONI MATRICIALI E RELAZIONE DI COMPLETEZZA

    Per introdurre il concetto di “operatore” consideriamo nuovamente un esperimento di S-G ideale costruito nel modo seguente

    S

    |