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LEGNI E CARBONI IN ARCHEOLOGIA Introduzione Lo studio dei legni e quello dei carboni (antracologia) si colloca all'interno del più vasto settore disciplinare che si occupa dei diversi tipi di resti organici che si rinvengono associati o in collegamento con le evidenze archeologiche È invalso il termine archeobiologia per indicare tale complesso di discipline, a grandi linee suddiviso in studio dei resti animali, dei resti umani e dei resti botanici; ma al di là della terminologia e delle distinzioni necessarie ma sempre un po' artificiali, occorre sottolineare il grande impatto che esse hanno avuto nella progettazione dello scavo archeologico che, per essere in grado di documentare e risolvere i temi fondamentali del rapporto uomo-ambiente, dell'economia, della tecnologia nonché di alcuni aspetti dell'atteggiamento sociale, deve scandagliare tutte le possibilità offerte dallo studio dei resti organici. A differenza di altre categorie di reperti i materiali organici, se si escludono le ossa dei mammiferi, sono spesso presenti in modeste quantità, non sempre sufficientemente apprezzabili a un esame macroscopico, quando non addirittura invisibili a occhio nudo, fragili, talvolta difficili da conservare: sicché spesso all'operatore sullo scavo si presenta il dilemma della raccolta parziale dei resti o della conservazione alla cieca di elevate quantità di sedimento per una successiva estrazione e separazione in laboratorio dei vari componenti organici. Procedimenti entrambi discutibili, anche se talora inevitabili quali extrema ratio, che tuttavia una buona conoscenza delle caratteristiche, del significato e dei reciproci legami fra resti organici e anorganici, fra materiali biologici, sedimenti, evidenze in tracce e reperti materiali, può permettere agevolmente di superare. Queste brevi note sull'uso del legno e del carbone in archeologia vengono integrate da alcune osservazioni sulle possibilità di raffronto dei dati da essi forniti con quelli che emergono dallo studio dei pollini, argomento assai più popolare e disciplina ormai solidamente attestata. Per non appesantire il testo si sono ridotte allo stretto indispensabile le citazioni delle opere consultate che vengono tuttavia riportate, per la parte di maggiore utilità, nell'indice bibliografico. Non è parso necessario invece stendere un capitolo sulla identificazione, anche sommaria, del legno per la quale esistono ottimi atlanti e che comunque richiede una provata esperienza. Estensioni dello studio del legno che ormai costituiscono discipline a sé come la dendrocronologia e la dendroclimatologia sono state solo accennate, rimandando alle ormai numerose pubblicazioni, anche compendiarie, sull'argomento in parte reperibili nella bibliografia dell'articolo specifico comparso in Archeologia e Restauro dei Monumenti (CASTELLETTI 1988). Notizie storiche Lo studio dei legni, attraverso l'esame delle loro caratteristiche anatomiche microscopiche, inizia nella seconda metà dello scorso secolo ma per i primi lavori sistematici di grande portata dobbiamo attendere l'inizio del '900 quando Neuweiler traccia ©1990 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale

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LEGNI E CARBONI IN ARCHEOLOGIA

Introduzione

Lo studio dei legni e quello dei carboni (antracologia) si colloca all'interno del più vasto settore disciplinare che si occupa dei diversi tipi di resti organici che si rinvengono associati o in collegamento con le evidenze archeologiche È invalso il termine archeobiologia per indicare tale complesso di discipline, a grandi linee suddiviso in studio dei resti animali, dei resti umani e dei resti botanici; ma al di là della terminologia e delle distinzioni necessarie ma sempre un po' artificiali, occorre sottolineare il grande impatto che esse hanno avuto nella progettazione dello scavo archeologico che, per essere in grado di documentare e risolvere i temi fondamentali del rapporto uomo-ambiente, dell'economia, della tecnologia nonché di alcuni aspetti dell'atteggiamento sociale, deve scandagliare tutte le possibilità offerte dallo studio dei resti organici.

A differenza di altre categorie di reperti i materiali organici, se si escludono le ossa dei mammiferi, sono spesso presenti in modeste quantità, non sempre sufficientemente apprezzabili a un esame macroscopico, quando non addirittura invisibili a occhio nudo, fragili, talvolta difficili da conservare: sicché spesso all'operatore sullo scavo si presenta il dilemma della raccolta parziale dei resti o della conservazione alla cieca di elevate quantità di sedimento per una successiva estrazione e separazione in laboratorio dei vari componenti organici. Procedimenti entrambi discutibili, anche se talora inevitabili quali extrema ratio, che tuttavia una buona conoscenza delle caratteristiche, del significato e dei reciproci legami fra resti organici e anorganici, fra materiali biologici, sedimenti, evidenze in tracce e reperti materiali, può permettere agevolmente di superare.

Queste brevi note sull'uso del legno e del carbone in archeologia vengono integrate da alcune osservazioni sulle possibilità di raffronto dei dati da essi forniti con quelli che emergono dallo studio dei pollini, argomento assai più popolare e disciplina ormai solidamente attestata. Per non appesantire il testo si sono ridotte allo stretto indispensabile le citazioni delle opere consultate che vengono tuttavia riportate, per la parte di maggiore utilità, nell'indice bibliografico.

Non è parso necessario invece stendere un capitolo sulla identificazione, anche sommaria, del legno per la quale esistono ottimi atlanti e che comunque richiede una provata esperienza.

Estensioni dello studio del legno che ormai costituiscono discipline a sé come la dendrocronologia e la dendroclimatologia sono state solo accennate, rimandando alle ormai numerose pubblicazioni, anche compendiarie, sull'argomento in parte reperibili nella bibliografia dell'articolo specifico comparso in Archeologia e Restauro dei Monumenti (CASTELLETTI 1988).

Notizie storiche

Lo studio dei legni, attraverso l'esame delle loro caratteristiche anatomiche microscopiche, inizia nella seconda metà dello scorso secolo ma per i primi lavori sistematici di grande portata dobbiamo attendere l'inizio del '900 quando Neuweiler traccia

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un quadro completo delle ricerche condotte sui reperti botanici archeologici (NEUWEILER 1905) e successivamente in modo specifico dei reperti lignei della Svizzera fornendo anche dettagliate annotazioni metodologiche (NEUWEILER 1910).

Già Heer, il padre della Paletnobotanica aveva descritto erbe, legni, felci, muschi, semi e frutti provenienti dalle palafitte (HEER 1865).

In Italia G. Passerini esaminò i resti lignei della terramara di Castione dei Marchesi in Provincia di Parma, riconoscendo querce, olmo e castagno (PASSERINI 1864) senza però specificare la tecnica d indagine impiegata, se cioè l'osservazione macroscopica o quella microscopica, e successivamente, insieme allo stesso Hecr, i resti vegetali di Fontanellato costituiti da una “ considerevole quantità di rami, tronchi, radici di alberi, semi ecc. . . ” (HEER-PASSERINI 1965). Il botanico milanese S. Sordelli studiò il materiale botanico delle “ palafitte ” del circondario di Varese, determinando alcuni resti lignei (SORDELLLI 1880, 1896).

Nella prima metà del Novecento conducono studi sistematici sui legni archeologici oltre a Neuweiler in Svizzera, E. Hoffmann in Austria e Germania meridionale e A. Fietz in Cecoslovacchia. Nello stesso periodo in Italia compaiono pochi studi occasionali, per lo più dedicati alla determinazione di manufatti provenienti da ricerche archeologico in ambito etrusco come quelli di U. Fasolo (FASOLO 1935, 1936) e del famoso botanico G. Negri. Il periodo di circa un trentennio che va dagli anni Trenta agli anni Sessanta è poco favorevole alle ricerche sui legni e carboni soprattutto per la scarsa considerazione in cui essi erano tenuti essendo l'attenzione del settore rivolta soprattutto ai risultati dell'analisi pollinica.

Nel secondo dopoguerra ricerche sistematiche su legni di provenienza archeologica sono state condotte da M. Arena, M. Follieri, L. Castelletti, D. Bertolani Marchetti, M. L. Fancelli Galletti, E. Biondi, R. Nisbet, L. Costantini (FOLLIERI-CASTELLETTI 1988).

All'estero si sono formate vere e proprie scuole di antracologia e di studio dei legni, come a Birmensdorf in Svizzera con F. H. Schweingruber e a Montpellier in Francia con J.-L. Vernet.

La materia prima: caratterizzazione morfologica e chimica del legno

CARATTERI MORFOLOGICI

Il legno, e il carbone che ne deriva per combustione, presentano oltre a una struttura macroscopica che può essere di qualche aiuto preliminare nella identificazione, una ben definita architettura microscopica che permette una differenziazione quasi sempre a livello di genere e spesso anche a livello di specie.

L'architettura anatomica del legno può essere meglio definita quando si considerano i tre piani o sezioni fondamentali, nel carbone indicati come “ piani di frattura ” in rapporto al modo con cui vengono ottenuti, e cioè la sezione trasversale perpendicolare all'asse di accrescimento del fusto, la radiale, parallela a tale asse e passante per il centro e la tangenziale pure parallela all'asse e corrispondente alla tangente del cerchio costituito dal piano trasversale (Fig. 1).

Una distinzione assai netta, percepibile talvolta anche a occhio nudo specialmente nel legno carbonizzato, esiste fra il legno delle aghifoglie e quello delle latifoglie: il primo, definito come legno omoxilo, è costituito da cellule a forma di fuso chiamate tracheldi,

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(Figg. 2 e 3) che svolgono sia le funzioni meccaniche che quelle di trasporto dei liquidi, il secondo, indicato come legno eteroxilo, da una tessitura generalmente meno omogenea in cui si distinguono elementi deputati al trasporto, i vasi—indicati come pori allorché vengono osservati in sezione trasversale (Fig. 4)—e diversi tipi di fibre che assolvono alle funzioni meccaniche o di sostegno.

E nozione comune che nell'osservare una sezione trasversale di un tronco o di un ramo si possono riconoscere immediatamente i cerchi o anelli di accrescimento, generalmente corrispondenti a un anno di sviluppo vegetativo (Figg. 5 e 6) e costituiti da una parte formatasi all'inizio del periodo vegetativo detta legno iniziale o primaticcio, caratterizzato da abbondanza dei vuoti sui pieni, cioè dai lumi delle cavità cellulari (vasi, fibre, tracheidi) rispetto alle pareti dei medesimi che sono piuttosto sottili; e da una seconda parte detto legno finale o tardivo che si forma successivamente e ha densità maggiore perché gli elementi hanno pareti più robuste. In un tronco poi di età sufficientemente avanzata è possibile, per alcune specie, distinguere una fascia più esterna generalmente di colore più chiaro, l'alburno e una zona più interna quasi sempre di colore più scuro, il cuore 0 durame.

Nelle Gimnosperme e nelle Angiosperme dicotiledoni, cioè nelle conifere e nelle latifoglie, rami e fusti sono circondati da una corteccia; fra corteccia e corpo legnoso si trova il cambio, costituito da cellule vive che verso il centro si differenziano in tessuto legnoso e verso la periferia vanno a formare la parte più interna della corteccia o libro (Fig. 5).

Già a una osservazione macroscopica è possibile, come si è detto, distinguere fra legno omoxilo cioè di aghifoglie e legno eteroxilo cioè di latifoglie.

Accanto alle tracheldi, ai vasi e alle diverse specie di fibre che vengono detti elementi longitudinali perché allungati secondo l'asse principale, esistono elementi trasversali, i raggi midollari (Fig. 7), che costituiscono, fra l'altro, un'importante punto di riferimento per la determinazione ma, che date le dimensioni ridotte, devono essere sempre osservati a ingrandimenti medio-elevati.

I caratteri anatomici del legno, or ora sommariamente accennati, vengono normalmente osservati su sezioni sottili, orientate secondo i tre piani fondamentali, trasversale, tangenziale e radiale a ingrandimenti variabili da 50 a 500 volte.

Alcune caratteristiche, come s'è detto, sono apprezzabili macroscopicamente o a modesti ingrandimenti. Per esempio la quercia (Quercus sp., gruppo delle querce caducifoglie), soprattutto carbonizzata, è riconoscibile facilmente perché presenta una disposizione poroso-zonata dei vasi (Fig. 8) accompagnata da grandi raggi midollari, visibili anche macroscopicamente. Un aspetto simile ma senza larghi raggi ha il castagno (Castanea sativa, Fig. 9) e abbastanza analogo, sempre nella stessa maniera di osservazione, il frassino (Fraxinus excelsior, Fig. 10), anche se fra queste due ultime specie esistono nette differenze dal punto di vista dell'anatomia microscopica. L'olmo infine (Ulmus sp., Fig. 11) sempre nello stesso gruppo, presenta oltre alla fila di pori all'inizio di ogni anello di accrescimento, una sorta di aspetto satinato nel resto dell'anello, dovuto alla disposizione a gruppi dei pori piccoli.

Fra i legni poroso-diffusi è abbastanza agevole da distinguere il faggio (Fagus sylvatica, Fig. 12) per la presenza di numerosissimi piccoli pori su tutto l'anello e larghi raggi midollari riconoscibili a occhi nudo.

Utilizzando una forte lente d'ingrandimento è possibile, nelle conifere e sempre in

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sezione trasversale, individuare i canali resiniferi che per le specie indigene sono caratteristici dei pini, dell'abete rosso e del larice (Fig. 13) mentre abete bianco, tasso e ginepro ne sono privi.

Evidentemente però queste determinazioni speditive possono avere valore solo grossolanamente orientativo e ogni successiva determinazione deve essere sempre eseguita con l'aiuto del microscopio.

COSTITUZIONE CHIMICA

Da un punto di vista della composizione il legno è costituito essenzialmente da cellulosa, un polisaccaride che forma l'impalcatura fondamentale del tessuto, come i tondelli nel cemento armato, e da lignina che funge da sostanza di fondo, elastica e resistente alla compressione. Un terzo gruppo di sostanze è costituito dalle emicellulose anch'esse polisaccaridi. Le proporzioni di questi elementi fondamentali sono leggermente diverse in conifere e latifoglie: nelle prime mediamente la cellulosa è di poco inferiore al 50%, la lignina intorno al 25% e le emicellulose sul 14%; nelle latifoglie il contenuto di lignina è minore ed è invece più alto quello delle emicellulose. Il legno è dunque costituito in prevalenza quasi assoluta da materia organica che già nell'albero ancora vivo può subire attacchi da parte di insetti, funghi e altri organismi, cominciando quindi a degradarsi quando fa parte ancora della biomassa vivente.

Con la morte e l'esposizione ad agenti atmosferici diversi, inizia il processo di degradazione che viene accelerato da organismi lignivori, particolarmente da funghi e batteri e che si accentua in modo particolare in legni a contatto con il terreno o in legni che rimangono a lungo in ambiente umido e poco aerato. In quest'ultimi casi poi si verificano processi di infradiciamento del legno che porta alla formazione di masse brune, pulverolente, ricche di sostanze umiche. Nei legni permanentemente immersi in acqua, in assenza di ossigeno, il processo di degradazione può arrestarsi mentre Si avviano modificazioni che portano, per gradi, e su scale temporali assai lunghe, alla formazione di carbone passando per diversi stadi indicati in genere col termine collettivo di ligniti.

È il caso sin d'ora di precisare la differenza fra legno carbonizzato per azione del fuoco, carbonizzazione—Verkohlung degli Autori di lingua tedesca—e quella che potremmo chiamare! carbonificazione dei legni permanentemente immersi in acqua o comunque in condizioni di anaerobiosi —Inkohlung degli stessi AA. Entro certi limiti, quando la carbonificazione è poco spinta, ed è il caso dei legni di depositi umidi olocenici o comunque del Quaternario recente, è possibile con sostanze ossidanti, come acqua ossigenata o iposolfito di sodio, ottenere uno schiarimento della sezione sottile, mentre a rigore ciò non è più possibile sul legno perfettamente carbonizzato per effetto della combustione.

A differenza del legno il carbone possiede una grande inerzia chimica, quindi è inattaccabile da microrganismi ed è poco soggetto ad altre cause di degrado, se si escludono quelle meccaniche, data la relativa fragilità di questo materiale. Per tutte le altre forme di conservazione allo stato subfossile e per gli inerenti problemi di prelevamento, conservazione e studio si dirà negli specifici capitoli sui carboni e sui legni.

Fonti di provenienza del materiale subfossile

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Legni e carboni per diverse caratteristiche di conservazione non sempre si trovano associati.

La consistenza stessa dei depositi varia considerevolmente per una serie di fattori naturali e antropici che sarebbe troppo lungo elencare. Come tutti i resti macroscopici vegetali, carboni e legni, quando non rappresentino addirittura elementi strutturali di manufatti e in particolare di edifici ancora in posto, come pali di abitati di luoghi umidi o travi carbonizzate da un incendio, si presentano dispersi in un sedimento ma con una distribuzione generalmente irregolare. A differenza dei resti microscopici, specialmente dei pollini che tendono a ripartirsi abbastanza uniformemente nei depositi, semi, legni e carboni, formano piuttosto accumuli mostrando spesso brusche variazioni laterali di concentrazioni in uno stesso strato o fra unità stratigrafica contigue (Fig. 14).

La possibilità che un legno fossilizzi o comunque si conservi è legata non solo alle condizioni ambientali, ma, ponendo mente al carattere strettamente culturale del legno archeologico, anche, e spesso, soprattutto a particolari tratti dell'economia o della tecnologia o delle forme di vita sociale di un gruppo umano che favoriscono l'accumulo e la conservazione di legni archeologici.

Nell'Europa media, nel corso delle glaciazioni, il legno era materia prima rarissima, cosicché nei focolari di Gonnersdorf in Renania troviamo impiegata la lignite fossile come combustibile. Nel corso dell'Olocene nell'Europa media e settentrionale, alla eccezionale copertura forestale facevano riscontro sia l'impiego prevalente del legno nel costruire edifici sino alle soglie dell'età moderna, sia la presenza di condizioni ambientali favorevoli alla conservazione, come la persistenza di falde freatiche a debole profondità e di innumerevoli siti parzialmente e periodicamente inondati. Tuttavia nell'alto medioevo, lo spopolamento porta alla riduzione delle testimonianze di strutture lignee che sono relativamente abbondanti in età romana sotto forma di palificazioni per ponti, strutture portuali ecc. e lo diventano ancor più, comprensibilmente, a partire dal basso medioevo, anche per fenomeni di continuità e sopravvivenza.

In area circummediterranea, la relativa scarsità di corpi d'acqua continentali stabili fanno sì che i legni siano molto meno noti anche se, probabilmente, il dato è amplificato dalla mancanza di una tradizione di ricerca e segnalazione sistematica di tali resti.

Possiamo artificiosamente distinguere fra depositi antropici e depositi anantropici per quanto riguarda i corpi sedimentari che possono contenere legni freschi e carbonizzati.

I depositi anantropici sono spesso accumuli di tronchi o rami, risultato di piene fluviali, con erosione, trasporto e deposito di tratti di boschi crescenti lungo le rive dei corsi d'acqua, come si ritrovano, ad esempio, in grande quantità nei sedimenti formati dal Danubio, molti dei quali hanno un'età assegnabile al postneolitico e sono da mettere in relazione con fenomeni di dissesto idrogeologico sotto la spinta di quell'impatto antropico sull'ambiente che avrebbe caratterizzato alcune fasi del periodo Sub boreale.

Altre volte il bosco rimane sepolto in posto perché il piede degli alberi viene coperto da sedimenti portati da un'alluvione come nel caso dei boschi sub boreali di Rubiera (BERTOTANI-MARCHETTI 1972) e di S. Ilario D Enza (CASTELLETTI 1975) nella Pianura Padana (Fig. 15). Altre volte il trasporto e la deposizione riguardano materiali lignei già elaborati dall'uomo, come nell'insediamento dell'età del Bronzo di Alha Moretta (Cuneo) (MOTELLA 1985).

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Depositi di fondo lacustri e fluviali, depositi organogeni in paludi, torbiere propriamente dette sono gli ambienti ideali per la conservazione dei legni finiti in acqua per cause naturali; e sono tipici i cumuli di tronchi sul fondo di laghetti alpini come nei Laghi di Canzolino, di Cei, di Tovel, di Tenno, di Lavarone in Trentino (BIONDI 1981), nel Lago degli Abeti nell'Appennino Ligure e nel Laghetto della Bolla di Orimento nelle Prealpi Comasche (CASTELLETTI, in stampa) (Fig. 16), per citare alcuni casi fra i più significativi.

Le basse temperature delle zone alpine di alta quota favoriscono la conservazione di legni, già di per sé particolarmente resistenti al decadimento, come quelli di larice, abete rosso, pino cembro e ginepro trovati in depositi morenici, per esempio in Val d Aosta (CASTELLETTI 1987a) e nel Vallese (SCHNEEBEL-ROTHLISBERGER 1976).

Per altro verso i materiali lignei elaborati dall'uomo possono essere rimaneggiati e deposti in depositi naturali o seminaturali. Altre volte essi rimangono in posto come nel citato caso delle strutture lignee degli abitati lacustri. Preservazioni occasionali di elementi di ponti di infrastrutture lignee di edifici in pietra, di navi ecc. sono legati alle particolari condizioni favorevoli dell'ambiente di deposizione. Quanto ai carboni, resistenti anche in siti non umidi, il caso più frequente è di rinvenirli dispersi nel sedimento, come risultato di rimaneggiamento, per periodi più o meno lunghi, di residui di combustione, soprattutto di focolari domestici. Ma assai spesso essi sono concentrati in strutture estemporanee come falò all'aperto o in strutture fisse da fuoco e in quest'ultimo caso può anche trattarsi di strutture specializzate come forni e fornaci, come la fornace da vetreria medievale di Monte Lecco (Genova) o la fornace da campane di Sarzana (CASTELLETTI 1975). Talvolta invece la concentrazione è determinata, caso analogo a quello delle palafitte, dalla presenza di resti di strutture carbonizzate in situ, come travi, pilastri lignei, assiti di edifici di cui si forniscono due esempi, quello altomedievale di Monte Barro (Como) (Fig. 17) e quello retico (età del Ferro, VI-V sec. a.C.) di Stufles-Bolzano (Fig. 18).

Il carbone di legna

Il carbone presenta un alto grado di interesse per le ricerche dendrologiche e paleoecologiche; è di grande aiuto all'archeologo perché, data la sua grande diffusione, non avendo i limiti di conservazione che abbiamo conosciuto a proposito del legno non carbonizzato, può in pressoché tutte le situazioni archeologiche fornire elementi conoscitivi sull'utilizzo da parte dell'uomo di quella importantissima materia prima che è stata, soprattutto in passato, il legno. Dallo studio dei carboni, ormai necessaria integrazione dello studio dei pollini, questo valido per una scala più vasta, quello per una scala più ridotta, emergono chiare informazioni geobotaniche, precisamente sulla composizione e lo stato dei boschi vicino all'insediamento.

Non meno interessanti sono le informazioni etnografiche sull'utilizzo del legno come combustibile, in vari usi e applicazioni per attività domestiche ed artigianali, argomento poco conosciuto in quanto sistematicamente ignorato dalle fonti scritte e difficile da ricuperare attraverso la tradizione orale. Un terzo punto, diciamo archeologico, riguarda la preservazione, sotto forma carbonizzata, di legni lavorati, siano essi stati manufatti mobili o strutture fisse, di piccole o di grandi dimensioni, spesso le uniche tracce che sopravvivono di società nelle quali il legno giocava. un ruolo fondamentale come materia prima dalle molteplici applicazioni.

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LA CARBONIZZAZIONE

Si è accennato alla differenza fra carbonizzazione`da fuoco e processo di carbonificazione per permanenza di lunghi periodi in depositi anaerobiotici.

La combustione rapida del legno porta alla formazione di cenere, la combustione lenta, con aria meno abbondante, consente la formazione di carbone. Durante la carbonizzazione il legno presenta fenomeni abbastanza vistosi di ritiro, in relazione anche a un diminuito spessore della parete cellulare (Tab. 1). Di questo ritiro bisogna tener conto quando si intende ricostruire le dimensioni di manufatti o di elementi costruttivi; in una trave di 20 cm di diametro la carbonizzazione produrrà un calo medio di 4-5 cm e le dimensioni finali saranno di 15 cm circa. La fuoruscita di gas durante la combustione provoca spesso la formazione di fessurazioni, in particolare in corrispondenza dei raggi midollari le cui cellule talvolta vengono quasi completamente distrutte. Tuttavia complessivamente, in una carbonizzazione non troppo violenta, a temperatura non elevata e con scarso apporto di ossigeno, i particolari anatomici di interesse diagnostico sono ancora perfettamente riconoscibili, tanto che è spesso più agevole determinare il legno carbonizzato che non quello rimasto per un periodo prolungato immerso nell'acqua, nel quale alcuni particolari come gli ispessimenti spiralati sono scomparsi mentre sono generalmente ben riconoscibili nel carbone di legna (Fig. 19).

Le punteggiature, ossia le aperture fra vaso e vaso o fra vaso e altri elementi, nel carbone presentano in genere dimensioni superiori a quelle del legno e nel caso delle conifere le punteggiature dei campi d'incrocio, allargate o lacerate per effetto dei gas di combustione, perdono ogni valore diagnostico. Nel caso delle conifere si presentano poi due particolari ordini di fenomeni: l'uno è la comparsa sulle pareti delle tracheidi di falsi ispessimenti spiralati, che possono orientare erroneamente le ricerche verso alcune specie di conifere provviste di tali particolarità anatomiche; l'altro è il collasso di tutti gli elementi, tracheidi e cellule dei raggi, in una sorta di stato plastico, con tutti i gradi di passaggio sino a un materiale bolloso che simula una scoria e nel quale spesso non è riconoscibile alcun elemento anatomico.

Esiste poi una notevole differenza, apprezzabile anche macroscopicamente, fra il carbone, residuo di braci di un focolare dove il legno è bruciato con fiamma viva in presenza di abbondante aria, e il carbone di legna proveniente da una carbonaia, il quale ha subito nella catasta un processo di combustione lenta che gli ha conferito un colore nero intenso, una particolare durezza, con superfici di spacco nette e brillanti talché si è in grado, già dalla fisionomia macroscopica, di stabilirne la provenienza. Il riconoscimento è d'altronde importante, visto il ruolo essenziale che il carbone di carbonaia ha giocato sin dall'antichità, come combustibile alternativo al legno, dotato di potere calorifico più elevato (4500 kcaVkg nel legno e 7600 nel carbone di carbonaia) e quindi con innumerevoli vantaggi anche in ordine al trasporto, cosicché non meraviglia il fatto di trovarne abbondanti tracce, per esempio, in depositi archeologici etruschi (CASTELLETTI 1986b).

In definitiva quindi l'aspetto macroscopico del carbone, lucentezza, durezza, sonorità, tipo di frattura ecc., già può fornire una serie di informazioni che aiutano a ricostruire le modalità di carbonizzazione intervenute. Con maggior rigore, la temperatura di combustione del carbone può essere determinata con il metodo della spettroscopia a spin di risonanza (HILEMANN et Al. 1985) che permette la possibilità di misure quantitative

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abbastanza precise.

CONSERVAZIONE DEL CARBONE

A differenza del legno il carbone è chimicamente assai inerte quantunque molto fragile. Alle nostre latitudini la conservazione del legno è generalmente limitata, come si è visto, al caso dei depositi umidi, salvo episodi eccezionali di preservazione per mineralizzazione a contatto con prodotti di corrosione, per inclusione in malte ecc. Il carbone viceversa può conservarsi perfettamente anche in siti asciutti oltre ché naturalmente in quelli umidi. Comprensibilmente lo stato di conservazione dipende da alcuni fattori: si è visto che le modalità di combustione producono alcune sensibili differenze nell'aspetto ma anche nella costituzione del carbone. Il carbone bruciato a bassa temperatura, oppure, come talora avviene, solo parzialmente perché la parte interna è solo torrefatta, è in uno stato di equilibrio precario, nel senso che o per mutate condizioni del deposito, o per asportazione in seno al deposito stesso del rivestimento carbonioso, si può innescare il processo di degrado. Tali legni torrefatti sono riconoscibili perché si schiariscono facilmente con l'uso di un ossidante, come acqua ossigenata o miscela di Schulzes e per il resto si comportano a un dipresso come legni freschi.

Ma il principale problema della conservazione del carbone è la sua fragilità che dipende in parte dalla specie di provenienza ma, in parte ancor più preponderante, da una serie di fattori che riguardano sia la fase di combustione che quella successiva pre deposizionale e infine la fase di deposizione vera e propria. È abbastanza intuitivo che il carbone bruciato ad alta temperatura, privato di tutte le sostanze volatili, tenda ad essere più poroso, più duro ma anche più fragile. Le dimensioni hanno pure la loro influenza: rametti piccoli o piccolissimi carbonizzati divengono estremamente fragili ed è per questo che sono in genere rari nei depositi e forse a questo fatto è anche da attribuirsi la non grande abbondanza nelle ricerche antracologiche di carboni di piccoli cespugli che producono fusti di limitatissimo spessore, come mirtilli, rododendri ecc.

Anche le condizioni successive alla carbonizzazione possono influire: per esempio lo spegnimento delle braci ancora roventi con acqua provoca la formazione di numerosissime fessure mentre l'esposizione prolungata del carbone o il suo trasporto ad opera di agenti naturali o il calpestio di uomini e animali producono frammentazione sino a polverizzazione e scomparsa, smussamento e arrotondamento dei frammenti. In alcuni depositi i carboni tendono, pur rimanendo in posto, per effetto della lunga permanenza e di impercettibili movimenti delle particelle e, probabilmente, per percolazione di acqua, a disgregarsi procedendo dall'esterno verso l'interno: ciò si verifica con maggiore evidenza nel carbone di quercia. Nei depositi dell'Aldenhovener Platte è stato possibile verificare che in uno stesso sito i carboni neolitici presentavano un aspetto molto più degradato rispetto a quelli più recenti di età romana e della stessa specie, che risultavano assai meglio conservati e sempre di maggiori dimensioni (Tab. 2).

In depositi di grotta i carboni presentano riempimenti costituiti da cristalli di carbonato di calcio depositati dalle acque percolanti che rappresentano un elemento di grande fragilità e rendono tale materiale spesso difficile da preparare e da determinare.

I carboni di legni a strutture poroso-zonata, come l'olmo, tendono a perdere la fascia di legno primaticcio, più fragile perché provvista di numerosi grandi vasi; anche nella quercia si verifica un fenomeno analogo che si sovrappone alla tendenza a fessurarsi in liste

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secondo la direzione dei grandi raggi midollari, cosicché, per lunga sollecitazione meccanica, si formano alla fine sottili e lunghe liste costituite quasi esclusivamente dalla parte tardiva del legno. La rottura in corrispondenza della linea dei pori primaverili avviene anche nel frassino e così nel castagno, nel'quale spesso si verifica il distacco dei singoli anelli di accrescimento l'uno dall'altro (cipollatura del carbone). Invece i legni a pori piccoli non presentano piani preferenziali di frattura e si frammentano in forme assai variabili.

Un problema che è stato posto qualche volta è quello della conservazione differenziale del legno nel corso della combustione. Il problema potrebbe essere così formulato: a parità di volume di legna immessa in un focolare, due o più specie, per esempio una a legno tenero, l'altra a legno duro, daranno la stessa quantità (in volume e/o numero) di carboni, oppure una delle due sarà sottorappresentata, presumibilmente quella a legno tenero? Sono stati effettuati esperimenti a proposito (CASTELLETTI, inedito) ma i risultati sono poco probanti: è evidente che nella realtà l'ipotesi di una più rapida e più completa combustione di specie che ardono con fiamma più vivace e quindi di una loro minore probabilità di sopravvivenza, prima come braci e poi come carboni, urta contro la meccanica dell'alimentazione del focolare, in quanto è la legna usata per ultima ad avere le maggiori probabilità di essere rappresentata. Per quanto riguarda poi la resistenza dei carboni ci sono due modi per valutarla e inferire sulla maggiore o minore possibilità di sopravvivenza e più specificatamente sulla sovra o sottorappresentazione di una determinata specie: l'uno è la creazione di una scala di resistenza valida per tutti i casi, con possibilità di introdurre automaticamente coefficienti di correzione dei diagrammi antracologici; l'altro è la valutazione caso per caso dell'effettiva durabilità reciproca dei carboni che compongono un determinato campione.

Questi problemi saranno ripresi in un successivo capitolo.

CAMPIONATURA

I frammenti di carbone sono l'unità di studio dell'antracologia, così come il granulo pollinico è l'unità di studio della palinologia.

Come si è accennato, a differenza dei pollini, i carboni tendono a distribuirsi in modo irregolare in un sedimento antropico o naturale. Essi tendono a formare accumuli, manifestando forti variazioni sia orizzontali che verticali di concentrazione. D'altronde le dimensioni stesse dei carboni richiedono tecniche di campionatura diverse. Se l'unità di base per il polline, i cui granuli misurano in media alcune decine di millesimi di mm, è il cmc, per il carbone che in genere si presenta con frammenti dell'ordine di qualche decina di mm, l'unità di campionatura non può essere che il dmc.

Tuttavia non è possibile fissare una quantità standard, valida in ogni caso, anche in relazione alla già accennata variabilità di concentrazione dei carboni nei depositi archeologici. Va anche notato che, nel corso del trattamento di lavaggio del sedimento su setaccio o di separazione per galleggiamento o flottazione, i frammenti tendono più o meno, anche a seconda della specie, a suddividersi ulteriormente: occorre perciò combinare la tecnica della raccolta manuale dei carboni più grossi con la raccolta dei campioni di terra. Una strategia di campionatura è comunque indispensabile, quando non si voglia oscillare fra i due estremi di raccogliere alla cieca terra di scavo presa in corrispondenza dalle diverse unità stratigrafiche, o limitarsi a una raccolta a vista là dove sono chiaramente riconoscibili accumuli di carbone.

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In linea di principio dunque un dmc o misure multiple sono la quantità indispensabile, ma nella valutazione della terra da prelevare bisogna tener conto che per ogni unità stratigrafica è necessario disporre di un numero minimo di carboni abbastanza elevato. Il controllo accurato del sedimento per definire la maggiore o minore quantità di carboni presenti, le loro dimensioni medie, il grado di fragilità, quindi di resistenza al trattamento di lavaggio ecc., può fare risparmiare molto tempo. Se il sedimento si rivela particolarmente povero è necessario ricorrere a tecniche di concentrazione. In linea di massima l'equipaggiare il cantiere con una semplicissima attrezzatura per il ricupero dei carboni e insieme del restante materiale archeobiologico di dimensioni medio-piccole, malacofauna, ittiofauna, ovviamente altri resti vegetali macroscopici come semi e frutti, e soprattutto disporre di forza lavoro per un regolare funzionamento è sempre la migliore soluzione, in quanto evita lo stoccaggio di grandi quantitativi di terra o per converso la perdita irrimediabile di importanti evidenze archeobiologiche. La tecnica preferenziale per il ricupero, in sedimenti sciolti, escluse le argille, rimane quella della setacciatura sotto delicato getto d'acqua. L'operazione viene fatta registrando su un protocollo la quantità di terra sottoposta a trattamento, il tipo di trattamento e in particolare il numero e le dimensioni dei setacci. Correntemente si usano tre setacci di 4 mm - 2 mm - 1 mm; teoricamente possono sfuggire alcuni semi di diametro inferiore al mm per cui può essere aggiunto un quarto elemento con maglie di 0,5 mm. Le varie frazioni residue, > 4 mm, 2-4 mm, 1-2 mm, vengono poste ad asciugare separatamente, ciascuna su fogli di carta sovrapposti in un contenitore aperto e posti all'ombra ad asciugare. Spesso però si prospettano datazioni radiocarboniche dei frammenti per cui occorrerebbe evitare contatti con materiali organici, sostituendo alla carta fogli di PVC. Già nel setaccio si può valutare la consistenza del residuo carbonioso e interrompere il lavaggio dei campioni per una determinata unità quando si ritiene di avere raggiunto un numero di 100-200 carboni determinabili. Spesso tale numero non viene neppure lontanamente sfiorato. In certi casi è importante ottenere comunque informazioni, anche se la concentrazione nel sedimento è molto bassa, per cui si può fare ricorso alle macchine flottatrici che però richiedono particolari accorgimenti e prodotti chimici per il funzionamento, in quanto si basano sulla aderenza specifica di bollicine d'aria alle particelle carboniose, o più semplicemente si può effettuare l'estrazione in recipiente in cui l'acqua è mantenuta in movimento o da un getto d'acqua in risalita o per mezzo della agitazione manuale. In altre parole il metodo più semplice consiste nel versare della terra in un recipiente con acqua, nell'agitare l'acqua con un bastone e nello scaricare il surnatante sulla colonna di setacci, eventualmente ripetendo più volte l'operazione. A un livello di maggiore complessità può essere costruita una apparecchiatura che sfrutta un getto d'acqua immesso dal basso per agitare la colonna d'acqua sovrastante (Fig. 20). Il ricupero spesse volte è decisamente parziale, specie se i carboni hanno acquisito, nel corso della loro permanenza nel terreno, un riempimento di sedimento che ne ha aumentato la densità impedendo il galleggiamento.

I carboni prelevati a vista o quelli particolarmente grandi o fragili individuati nella terra destinata al lavaggio, si possono raccogliere separatamente per evitare il formarsi di ulteriori frammenti, ma anche per controllare puntualmente la distribuzione dei diversi tipi in una sezione.

Non va comunque sottovalutata la raccolta a mano direttamente sullo scavo o ancora meglio nella terra di campionamento, perché rapida e perché permette di evitare la frammentazione.

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Circa le tecniche di distribuzione delle campionature, si sono ottenuti dati sulla distribuzione dei carboni e sull'esistenza di diversi focolari, raccogliendo separatamente, livello per livello, i carboni di ogni quadrato, attraverso prelevamento di campionature di terra poi sottoposte a estrazione manuale o vagliatura (CASTELLETTI 1975a).

Riassumendo si possono applicare i seguenti metodi di campionatura (Tab. 3). E stato osservato sperimentalmente (BADAL GARCIA 1987) che nel caso di carboni

poco numerosi o di piccole dimensioni occorre esaminare sia la frazione grande ( > 4 mm) sia quella piccola (2 mm - 4 mm), mentre quando un campione è ricco di frammenti di carbone è sufficiente esaminare la frazione maggiore.

In laboratorio i residui della vagliatura vengono sottoposti al binoculare per l'estrazione dei carboni e degli altri resti organici, in quanto è frequente la presenza, come s'è detto, di diversi materiali vegetali carbonizzati, come cariossidi di cereali ed altri semi e frutti di piante coltivate e spontanee, oltre ad altri componenti di natura organica ed inorganica, molto spesso significativi per una diagnosi complessiva sulla natura e sulla genesi del deposito. La descrizione su apposite schede della composizione di un sedimento si rivela particolarmente utile nel caso di microanalisi di carote, allo scopo di verificare la presenza di depositi antropici e di chiarirne la natura.

PROBLEMI DI IDENTIFICAZIONE

Non è qui il caso di approfondire il tema della determinazione dei carboni. All'inizio si è tracciata brevemente la storia dell'analisi dei legni; occorre aggiungere che nella fase pionieristica dello studio dei carboni si sono verificate diverse difficoltà trattandosi di materiale opaco, sino all'avvento dei moderni microscopi episcopici in grado di assicurare da 100 a 500 ingrandimenti, senza nessun trattamento preliminare del materiale.

In passato sono stati messi a punto diversi metodi, come l'incinerimento del carbone, praticato da Wittmack e Buckwald (1902) e il successivo inglobamento in paraffina da cui ricavare sezioni sottili al microtomo (NEUWEILER 1910), O l'esame microscopico di impronte ricavate dai piani di frattura mediante un procedimento di peeling con cotone collodio sciolto in una miscela di alcool-etere (NETOLITZKY 1927), O la semplice sezione a mano, schiarita in ipoclorito di sodio (SIMONCZICS 1955) O l'inglobamento del carbone in paraffina, o stearina, o nitrato di cellulosa, in sapone di Godfin, o in collolite più paraffina con o senza aggiunta di balsamo di Canadà e, in tempi recenti, in resine sia termoindurenti che con catalizzatore, utilizzando la tecnica del taglio con microtomo o quella delle sezioni sottili per petrografia. Alcuni metodi sono stati proposti anche da Autori italiani, come G. Boscono (1930), ed E. Tongiorgi (1944). Per una revisione dei diversi metodi si vedano Grohne (1955), Santa e Vernet (1968), Leney e Casteel (1975) e Castelletti (1975).

Tutti questi metodi ed altri analoghi che incomprensibilmente vengono ancora talvolta segnalati, richiedono troppo tempo ed al massimo qualcuno di essi può essere impiegato per lo studio di carboni particolarmente importanti e delicati.

Infatti per avere dati in quantità sufficiente per potere esprimere valutazioni quantitative ma anche qualitative attendibili, bisogna esaminare per ogni campione decine di carboni e per ogni sito centinaia o migliaia di carboni.

Il metodo universalmente ormai usato è l'osservazione diretta, senza pretrattamento,

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al microscopio episcopico a luce riflessa. Per accelerare ulteriormente le analisi si possono osservare i piani di frattura

trasversali al binoculare stereoscopico, eventualmente con un rapidissimo pretrattamento della superficie che, evidenziando alcuni particolari, permette spesso una rapida diagnosi (CASTELLETTI 1975).

Per ciò che concerne la determinazione dei legni europei esistono ottimi atlanti fra cui quelli monumentali di Greguss (1955, 1959) che riguardano rispettivamente gli arbusti e gli alberi spontanei e naturalizzati della flora europea e le conifere in generale; quello di Schweingrnber (1978) per i principali legni dell'Europa centrale, di Jacquiot (1955) per le conifere, e, in Italia oltre ad alcuni manuali (CECCHINI 1955, FASOLO 1944) 1 atlante di R. Nardi-Berti (1979) e qualche articolo sulla determinazione dei carboni (SUSMEL 1950).

Tuttavia è evidente che nulla può sostituire il confronto diretto e pertanto è necessario avere a disposizione un'ampia collezione di confronto riguardante le zone che si intendono studiare e comprendente sia sezioni sottili che frammenti di carbone, questi ultimi facilmente ottenibili in laboratorio da legni freschi, per esempio con il metodo della carbonizzazione in bagno di sabbia.

Data la grande variabilità delle caratteristiche anatomiche nel legno di uno stesso albero e per riconoscere le differenze fra rami e fusti, occorre tenere presente anche le sezioni di legno immaturo, quello appunto di rametti, senza dimenticare il legno delle radici e le cortecce.

I dati dell'osservazione non si limitano alla determinazione del taxon di appartenenza, ma prendono in considerazione le dimensioni massime del frammento, talora il peso, la forma (più o meno arrotondata), il diametro apparente dedotto dalla curvatura degli anelli, la presenza o meno della corteccia, l’eventuale conservazione dell'ultimo anello e, in questo caso, la possibilità di ricavare la stagione di morte del legno, l'esistenza di riempimenti secondari nelle cavità, la presenza di ife fungine carbonizzate durante la combustione ecc. Il tutto può essere registrato su una scheda, manualmente, o con l'aiuto dell'elaboratore (Fig. 21).

Con la determinazione quasi sempre si arriva al genere, talvolta alla specie. Difficoltà esistono per alcuni gruppi come il genere Quercus. Su campioni dimensionalmente grandi, di legno maturo è possibile qualche distinzione (CAMBINI 1967~, ma nan è facile, con i carboni, distinguere fra le tre specie di querce caducifoglie più frequenti, rovere) farnia, roverella. Per il cerro esistono buone possibilità di discriminazione. Il leccio e le altre querce sempreverdi si distinguono dalle caducifoglie ma non fra di loro. Pur limitandosi ovviarnente alle specie legnose, l~antracologia permette di definire spesso a livello di specie il gruppo sistematico o "taxon" di appartenenza di una pianta, là dove l'analisi pollinica spesso si ferma al genere.

Un gruppo non facilmente discriminabile è quello delle Pomoideae che comprende biancospini, peri e melo (selvatici e coltivati). Spesso nelle relazioni di paletnobotanica si possono osservare delle notazioni che esprimono il grado di certezza della determinazione come per esempio:

Quercus: si riferisce al genere senza ulteriori precisazioni; Quercus: incertezza nell~attribuire la determinazione al gen. Quercus; Quercus sp.: specie non meglio identificata del gen. Quercus; Quercus cf. pubescens: probabile attribuzione della quercia alla specie Q. pubescens.

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PROBLEMI DI INTERPRETAZIONE

La somma di tutte le osservazioni compiute sui carboni e che possono essere comprensibilmente elaborate in vario modo, preferibilmente al calcolatore, almeno quando si comincia a manipolare una mole di dati avente una certa consistenza, è una espressione qualitativa o meglio ancora quantitativa dei vari tipi di legno presenti nel o nei diversi livelli dell'area archeologica presa in esame.

Il prodotto finale può essere una tabella nella quale compaiono frequenze assolute o percentuali o i semplici valori di presenza (Figg. 22 e 23). Il prodotto ottimale cui tendere, appena possibile, è il diagramma antracologico o diagramma dei carboni che presenta alcune somiglianze e alcune differenze rispetto al diagramma pollinico (Figg. 24 e 25).

L'assunto fondamentale della antracologia, è che la composizione o combinazione, si potrebbe anche chiamare spettro—sempre per analogia con i pollini—dei carboni, di un determinato livello o unità stratigrafica, rifletta in qualche misura la composizione dei boschi circostanti l'insediamento nel periodo in cui si è originato il sedimento in questione.

Tale assunto è abbastanza simile a quello della palinologia, il quale più precisamente recita che lo spettro pollinico riflette la composizione della pioggia pollinica che a sua volta "evoca" in qualche modo la composizione della vegetazione, in una superficie dell'ordine di diverse decine di Km quadrati.

Si è detto che l'unità dell'antracologia è il frammento di carbone, così come il polline lo è per la palinologia. Si è pensato di sostituire al numero di frammenti qualche altra misura che meglio esprimesse la reale abbondanza dei vari tipi di carbone presenti, ricorrendo al peso.

Il peso, tenendo conto della trascurabilità delle eventuali variazioni di densità da specie a specie, esprimerebbe quindi meglio la quantità effettiva di carboni; ma, come risulta dal diagramma riportato, nel quale vengono usate entrambe le unità di misura, il "trend" di una specie nel corso del tempo non cambia passando dall'uno all'altro tipo di grandezza. (Fig. 25).

La produzione del carbone è profondamente diversa da quella del polline: si tratta, quasi al cento per cento, di un avvenimento antropico e non naturale. Il percorso che, dalla foresta immaginaria, dove un determinato gruppo umano in un certo lasso di tempo si approvvigiona di legname, porta alla campionatura di legno carbonizzato raccolta sullo scavo, è costituito da una serie di avvenimenti che possiamo tentare, in qualche modo, di ricostruire.

La biocenosi originaria è formata dagli alberi viventi e la raccolta del legname viene effettuata a carico degli alberi morti o di loro parti o di alberi vivi e in questo caso mediante taglio o segagione. Il trasporto al punto di combustione, eventualmente con un passaggio intermedio costituito dalla fase di deposito, si suppone, per semplicità ma anche- aderendo a modelli abbastanza plausibili, su distanze abbastanza limitate. Dopo la combustione i carboni possono essere sepolti in posto o trasportati da agenti naturali o dall'uomo, con comprensibili perdite per frammentazione. Con la deposizione si rallenta il processo di degrado per frammentazione del carbone, sino al momento del prelevamento per campionatura che si suppone evidentemente scevro di cause d'errore (Fig. 26).

In tutti questi passaggi possono essere state introdotte delle distorsioni ma, complessivamente, la combinazione e in parte la stessa composizione quantitativa dei

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carboni può essere rimasta costante. Una selezione della legna da ardere può essere stata praticata, a seconda anche del tipo di insediamento, permanente o temporaneo o di struttura da fuoco, focolare, forno, fornace ecc.

Occorre liberare il campo da tutti quei ragionevoli dubbi che possono essere rimossi con una serie di verifiche. Il primo punto sul quale occorre insistere è il concetto di carboni concentrati e carboni dispersi, introdotto da Vernet e dalla sua scuola: i carboni dispersi sono quelli, come si è detto, che meglio riflettono, risultando dalla somma di diversi episodi di combustione, un'immagine media della composizione del soprassuolo boschivo. Il secondo punto riguarda gli aspetti qualitativi e quantitativi dell'analisi antracologica. Si possono porre due tipi di domande, anche qui in analogia con un processo logico simile a quello utilizzato per la palinologia: a) quanti carboni bisogna esaminare per ogni campione in modo da essere sicuri di incappare in tutte le specie presenti nel campione? b) quanti carboni bisogna esaminare per ogni campione per ottenere dei valori quantitativi ossia le percentuali relative attendibili per ciascuna specie? c) essendo la frammentazione la causa più certa, costante e meglio controllabile di eventuali alterazioni dei valori, nel senso di una sovra- o sottopresentazione di una determinata specie, qual'è il criterio per un controllo di tale variabile, ed è possibile introdurre dei fattori di correzione?

Per quanto riguarda la prima domanda occorre innanzitutto precisare che in un elenco di specie conta più la presenza che l'assenza, nel senso che se una determinata specie non figura, ciò non significa che non sia presente nel campione né d'altronde che non lo fosse nella vegetazione originale. È però possibile, aumentando il numero di carboni esaminati, ridurre a valori trascurabili la probabilità che qualche specie presente nel campione possa sfuggire all'analisi. La scuola di Vernet ha messo a punto delle curve tassonomiche che esprimono in modo evidente l'aumento del numero di taxa con l'aumentare del numero di carboni esaminato (Fig. 27). Quando la curva tassonomica si stabilizza, in altre parole quando, aumentando il numero di carboni, non compare più nessuna nuova specie allora è stato raggiunto il numero minimo di carboni da esaminare. Ciò avviene quasi sempre dopo qualche centinaio o alcune centinaia di carboni esaminati.

Anche per giungere a stabilizzare i dati quantitativi, ossia le curve che esprimono le percentuali relative dalle varie specie, occorre analizzare un gran numero di frammenti per ogni livello di habitat. Si presentano anche qui curve di stabilizzazione delle percentuali di diverse specie, che possono essere espresse in differenti rappresentazioni grafiche (Figg. 28 e 29).

Queste conclusioni si legano strettamente a quanto affermato nel capitolo su "preparazione e identificazione", circa la necessità di lavorare con tecniche estremamente rapide anche se sicure, per poter disporre di dati sufficienti per ogni sito.

FRAMMENTAZIONE DEI CARBONI E CORRELAZIONE DEI RISULTATI

La tendenza alla frammentazione dei carboni ha evidentemente grande influsso sugli esiti delle indagini quantitative. Intendiamo qui parlare dell'ipotesi di una frammentazione differenziale, più spinta o meno accentuata, legata a uno più parametri, dipendenti sia dalla natura del legno che dalle modalità di combustione che dalla tafonomia, ossia dagli eventi postdeposizionali. Un'ipotesi di lavoro riguarda una correlazione tra tendenza alla frammentazione e specie legnosa. Si può seguire una prima via, quella di costituire una scala della tendenza alla frammentazione, sulla base di dati sperimentali condotti su carboni

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recenti, tenuto conto che, come si è già accennato, esiste una differenza specifica di comportamento rispetto alle sollecitazioni meccaniche.

Una comparazione fra una graduatoria sulla base del valore di carico di rottura per resistenza alla pressione e un'altra basata sulla effettiva frammentazione dei carboni di quelle specie nel deposito archeologico, dimostra una estrema aleatorietà di questo parametro. Infatti (Tab. 4) utilizzando la suddivisione proposta in due frazioni per mezzo di setacciature e precisamente di > 4 mm (oppure > 6 mm) e di 2-4 mm (oppure 3-6 mm), si può controllare la somiglianza o la diversità dei valori delle diverse specie (SCHWEINGRUBER 1978).

Dalla Tab. 4 appare evidente come in uno stesso sito si verifichino notevoli differenze nella frammentazione a carico di una stessa specie, passando da un livello all'altro (rispettivamente profilo He e Ha). Perciò non è possibile costruire delle tabelle a validità generale con classi di frammentazione, che permettano la correzione dei diagrammi antracologici, alla stessa stregua con cui invece nei diagrammi pollinici vengono apportate correzioni con fattori ricavati da osservazioni sulla flora attuale, circa la produzione differenziale dei pollini e la durabilità naturale dei granuli pollinici.

ALTRE INFORMAZIONI RICAVABILI DAI CARBONI

Oltre alla determinazione, si possono effettuare altre osservazioni sui carboni che riguardano sia il frammento di carbone in sé, come particella di sedimento, sia alcuni aspetti anatomici o rilevabili a livello microscopico.

ARROTONDAMENTO

Schweingruber (1978) dedica un accurato studio, frutto di numerose ricerche in siti lacustri, al fenomeno dell'arrotondamento dei carboni per effetto del moto ondoso sulla riva dei laghi. Egli analizza diversi fattori che possono influire sul grado di arrotondamento, e precisamente: la galleggiabilità del carbone, tenendo conto che più rapidamente un carbone affonda e viene inglobato nel sedimento, meno probabilità ha di essere spiaggiato e di subire quindi l'arrotondamento da risacca; inoltre la resistenza del carbone all'arrotondamento, attraverso prove sperimentali che confermano come una forte discontinuità nella struttura anatomica sia la causa principale che favorisce la perdita di frammenti, quindi la tendenza ad assumere forma sferica, indipendentemente dalla maggiore densità e quindi "compattezza" complessiva del carbone. Infatti il faggio e la quercia sono fra le specie più soggette a un calo di peso per effetto del trasporto. Invece le stesse manifestano scarsa tendenza al logoramento degli spigoli, molto più accentuato in carboni teneri come quelli di tiglio e di pioppo. Una osservazione attenta, preceduta da una campionatura che escluda ogni possibilità di nuove fratture, permette di determinare il grado di arrotondamento anche nel caso di carboni estratti da sedimenti asciutti. Bisogna fare attenzione che nel corso della vagliatura il materiale non venga scosso eccessivamente, soprattutto nel caso di vagliatura a secco, per evitare un artificioso arrotondamento. Alcune volte l'arrotondamento del carbone è semplicemente la forma naturale delle braci al momento in cui si spengono: in tali casi spesso l'arrotondamento è asimmetrico o riguarda solo una estremità.

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Presenza di ife

La presenza di ife fungine nei carboni si riferisce evidentemente a ife che, esistenti prima della combustione, si sono carbonizzate insieme al legno. Le ife indicano un attacco da parte di funghi lignivori. Tale infezione può avvenire già sull'albero e interessare i rami più bassi o quelli danneggiati da eventi naturali, o il tronco stesso, ad esempio in seguito a lesioni da incendio, e un ramo infettato può rimanere sull'albero ancora per qualche decennio prima di cadere. Evidentemente tutti i rami a terra sono infestati da if e fungine, non solo da quelle che eventualmente ne hanno provocato la caduta, ma da specifiche if e di funghi decompositori che si trovano nel suolo.

Fra le conifere nostrane sono estremamente durevoli agli attacchi di funghi il cipresso (Cupressus sempervirens), il tasso (Taxus baccata), il larice (Larix decidua) e tra le latifoglie, la quercia (Quercus sp.), il castagno (Castanea sativa) e l'ulivo (Olea europaea); sono scarsamente o non durevoli la betulla (Betula sp.), il faggio (Fagus sylvatica), l'ontano (Alnus sp.), il salice (Salix sp.).

Le if e si presentano come filamenti talvolta più sottili, talvolta di maggiore spessore (Fig. 30): in qualche caso però le ife sono sparite e sono rimasti granuli di ossalato di calcio. Talora infine si possono osservare solo i minuscoli fori nelle pareti cellulari dovuti al passaggio delle ife (Fig. 31).

La presenza di if e fungine argomenta dunque per una maggiore probabilità di legno raccolto morto a terra. La Tab. 5 mostra le relazioni fra insediamenti temporanei e raccolta a terra della legna e fra insediamenti stabili e prevalenza di legname da taglio.

Spesso si riconoscono tracce di attacco da parte di insetti lignivori che testimoniano, nel caso di legni bruciati provenienti da strutture di edifici, lo stato di conservazione delle parti lignee. Per esempio i resti di travi di castagno trovate a Monte Barro (cf. Fig. 17), prive di ogni sorta di attacco, confermano la breve durata dell'edificio, già stabilita per altra via.

CARATTERIZZAZIONE DELLA STAGIONE

Talvolta, specialmente nel caso di rametti, si conserva anche la corteccia ed è quindi possibile osservare l'ultimo anello di crescita, il cui grado di sviluppo può dare una indicazione sul periodo di abbattimento o meglio di morte (quindi anche per cause naturali) della pianta o di una sua parte. I periodi vegetativi, registrati dall'anello di crescita, indicati sono l'inizio della primavera, in cui si forma il legno iniziale, l'estate con la costituzione del legno tardivo, e il momento che va dalla fine dell'estate alla primavera successiva e che corrisponde praticamente al periodo di sospensione dell'attività vegetativa. È pertanto possibile, osservando il grado di completezza dell'ultimo anello di accrescimento, stabilire il cosiddetto periodo di abbattimento (Fig. 32).

La curvatura degli anelli nei frammenti di carbone permette di risalire, con una certa approssimazione, al diametro originale del materiale di provenienza, ma si tratta comunque del diametro minimo e del diametro apparente, a meno che non sia conservata la corteccia: infatti in sua assenza non si può stabilire il numero degli anelli esterni mancanti. Se si effettuano larghe campionature questo metodo consente di indicare le stagioni di frequentazione di un sito anche a integrazione di dati archeozoologici in tale senso, o di stabilire l'epoca di taglio del legname in bosco.

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Studi Paleofloristici di alcuni siti italiani

Si richiama l'attenzione su alcune analisi antracologiche che possono esemplificare i metodi correnti e al tempo stesso documentare la situazione paleofloristica di alcuni ambiti geografici e cronologici italiani. Alcune di queste sono state svolte in concomitanza con analisi polliniche permettendo così attraverso un confronto in uno stesso sito di valutare le portate e i limiti dei due metodi.

La distribuzione delle analisi antracologiche sul territorio italiano rivela una certa occasionalità negli interventi. Non sono molte le serie stratigrafiche che permettono di apprezzare le variazioni della copertura arborea in un arco di tempo ampio: fra le più complete sono da segnalare quelle delle grotte liguri, Arma del Nasino, Arma dello Stefanino, Arene candide (VERNET 1970, VERNET 1974, FANCELLI GALLETTI 1972), di Isola Santa (CASTELLETTI 1983 e in stampa) di Latronico (CASTELLETTI 1978), di Acconia (BADAL GARCIA 1988). Evidentemente è soprattutto dalle grotte Lrequentate per un lungo lasso di tempo e dove i carboni si conservano meglio, nella fase più critica, prima dell'inumazione, che si hanno informazioni più complete. Molti insediamenti, come i siti neolitici di Boira Fusca (NISBET 1982), Cecima (NISBET 1982), Montano Lucino (LEONT 1986), Vhò di Piadena (CASTELLETTI 1975), La Vela di Trento (CASTELLETTI, in corso di elaborazione), Grotta Oliena (CASTELLETTI 1980), ecc. sono in genere monostratificati o riguardano un periodo abbastanza breve della sequenza. Pienza (CASTELLETTI 1976) e Monte Covolo (PALS VORRIPS 1979) sono invece ploristratificati a cavallo fra neolitico ed età dei metalli. Limitato all eneolitico è il sito di S. Ilario d Enza (CASTELLETTI 1975) e al bronzo i siti di Belmonte (NISBET 1986), Grotta Cornarea (CASTELLETTI 1982), Monte Leoni e Monte Covolo (PAALS VORRIPS 1979), riparo Gaban (NISBET 1984) e Uscio (NISBET 1985b). Numerose le analisi per la protostoria, in particolare quelle condotte o in corso sulle necropoli a cremazione dell'Età del Ferro dell'Italia Settentrionale di Sesto Calende, Como-ca' Morta e dintorni, Este e Padova (dati in parte pubblicati, in parte in corso di elaborazione da parte del Laboratorio di Como) o di insediamenti come Bagnolo-S. Vito (CASTELLETTI-ROTTOLI 1987), e per 1 ltalia centro-meridionale, Tarquinia (CASTELLETTI 1986h), Locri Epizefiri (FOLLIERI COCCOLINI 1978). Numerose pure le analisi su necropoli e insediamenti di età romana o della romanizzazione, Brescia (CASTELLETTI 1987b), Luni (CASTELLETTI 1977), Angera (CASTELLETTI 1985), Nave (ROTTOLI 1988), Maso Campaccio (NISBET 1985a), Savignone (CASTELLETTI 1986).

Pure ahbondanti le analisi di siti tardoantichi, altomedievali e medievali, come Buttifinera nelle Alpi Canavesane (NISBET 1982), Gronda, Traso, Minuciano (CASTELLETTI 1986), Monte Barro (CASTELLETTI SOMAINI 1988), e medievali come Monte Lecco, Sarzana (CASTELLETTI 1975), Zignago (CASTELLETTI, in corso di stampa).

Di grande interesse i siti più antichi, prewurmiani, come la grotta del Colombo (CASTELLETTI et Al. in corso di elaborazione), o wormiani come Bagaggera (CASTELLETTI et Al. in stampa), Grotta S. Teodoro di Messina (LONA 1949), grotta del Broion (CATTANI 1984) o tardiglaciali, come Grotta Romanelli (FOLLIERI 1968), Bus di Lader (CASTELLETTI inedito), Cava d Oro (CASTELLETTI inedito).

Da queste analisi emergono sia sequenze abbastanza complete e significative, che

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permettono una certa generalizzazione anche su scala regionale, sia brevi squarci sulla composizione della flora legnosa locale che permettono di individuare alcuni temi, spesso non completamente risolti attraverso l'analisi dei pollini. Per esempio il problema della diffusione di alcune specie, come il larice, nel fini- e tardiglaciale, oppure dell'abete bianco in zone collinari pedemontane, a partire dall'Atlantico o ancora del castagno, specie incrementata prevalentemente dall'uomo e di grande significato sia economico che ecologico e paesaggistico.

ISOLA SANTA E SITI DELLE APUANE, DELLA VALLE DEL SERCHIO E DELL’APPENNINO TOSCO-EMILIANO

Si tratta di una serie di siti, in parte dislocati sui versanti interni delle Apuane e su quello tirrenico dell'Appennino (Isola Santa, 500 m, Piazzana, 800 m), in parte preponderante sui crinali dell'Appennino toscoemiliano (Passo della Comunella, 1619 m, Dorsale della Comunella, 1693 m, Bagioletto, 1725 m, Lama Lite 1750 m). Questi siti hanno fornito industria litica di tipo epigravettiano e/o mesolitico e sono distribuiti in un arco che va dal Drias III all'Atlantico. Mentre Isola Santa comprende praticamente tutta la serie dal X al VI millennio a.C., Piazzana si limita agli ultimi 2000 anni di questa tranche cronologica e gli altri siti sono invece collocati tutti verso la fase finale del periodo (Fig. 33).

Le principali informazioni raccolte sono: —la precoce comparsa dell'abete bianco delle Apuane, in prossimità evidentemente

di zone di rifugio; — la presenza di bosco rado alle basse quote nelle Apuane, durante il Drias III (X

millennio a.C.) accompagnato appunto dall'abete; —il progressivo trasformarsi di tale formazione in un bosco a latifoglie del tipo

querceto misto; —l'affermarsi dell'abete bianco, almeno per il settore cronologico che conosciamo,

nella media montagna appenninica, a Piazzana, a partire dal tardo Preborale e sino all'Atlantico;

— l'esistenza, nell'Atlantico, di un bosco probabilmente rado alle quote superiori,nelle zone di crinale, nei quali prevalgono in alcuni siti il frassino (Fraxinus cf excelsior), in altri il laburno (Laturnum), sempre accompagnati dall'acero (Acer cf. pseadoplatanus).

Questa combinazione non è registrata dai diagrammi pollinici, anche per una scarsa produzione pollinica delle specie ora citate, in particolare del laburno, e viene interrotta qualche millennio più tardi dalla netta supremazia del faggio (ACCORSI et Al. 1984). Circa la fisionomia generale della vegetazione intorno a tali siti, si può ammettere che le combinazioni di carboni richiamino alcune formazioni ancora oggi sopravviventi accantonate ad acero, frassino, laburno.

SITI DELL’ARCO ALPINO MERIDIONALE

Nei siti dolomitici di Colbricon (Trento), a 1925-2100 m, sono documentati larice (Larix decidua), cembro (Pinus cembra) e pino mugo (Pinus montana ssp. mago) intorno VI millennio a.C., quindi con pochissime o nessuna variazione rispetto ad oggi, salvo una eventuale, ma per ora non verificabile, diversa proporzione fra le varie specie

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(CASTELLETTI 1975). E analoghe considerazioni possono essere fatte per il Lago delle Stellune (2200 m) della catena del Lagorai, con solo larice (CASTELLETTI 1983), e al riparo di Mondeval de Sora in Val Florentina (CASTELLETTI inedito).

Nei siti prealpini Cornizzolo (1100 m) e Fienile Rossino (915 m), rispettivamente in provincia di Como e di Bergamo, i mesolitici hanno avuto a disposizione abete bianco, insieme ad altre latifoglie come il laburno e il faggio (CASTELLETTI-LEONI 1986).

LE TRASFORMAZIONI DELLA VEGETAZIONE IN ITALIA MEDITERRANEA

Per queste brevi informazioni ci si rifà agli studi, per il nord, dei siti dell'Arma dello Stefanino, Arma del Nasino (VERNET, 1972,1974), grotta delle Arene Candide (FANCELLI GALLETTI, 1972), per il centro-sud, dei siti di Pienza (CASTELLETTI 1976), Latronico (CASTELLETTI 1978), e Acconia (BADAL GARCIA 1988).

Per il primo gruppo si osserva una prima fase caratterizzata dalla presenza di foreste mediterranee a Pino silvestre, Pinus sylvestris e ginepro, Juniperus a poca distanza dal mare, con qualche latifoglia come quercia, Quercus e acero, Acer nelle fasi più antiche dell'epipaleolitico-mesolitico, seguita da una seconda fase a querceto misto e da una terza fase marcata dall'avanzamento del leccio, Quercus ilex.

Per il secondo gruppo si notano una fase neolitica antica a querce caducifoglie, con carpino bianco e nero, Cartinus betulus e Ostrya carpinifolia, seguita da una fase del neolitico con ceramica tipo Diana e inizio del calcolitico con aumento di quercia sempreverde e di carpino, Carpinus. Nella fase finale, età del bronzo, c'è un ritorno di quercia caducifoglia a svantaggio di quercia sempreverde e carpino nero (cf. Fig. 25).

Il legno

CONSERVAZIONE

Il legno si conserva in ambienti umidi, in ambienti estremamente secchi e in condizioni particolari, come in prossimità di prodotti di alterazione di metalli, per metasomatosi, o repliche di sostanze minerali. In tutti gli altri casi viene rapidamente degradato.

I legni conservati in ambiente umido subiscono comunque una degradazione che riguarda innanzitutto la cellulosa e in alcuni casi il processo segue un percorso che inizia con l'attacco di funghi, prosegue con quello dei batteri e continua per reazioni chimiche di degrado della cellulosa e della lignina (Fig. 34). Nei casi più avanzati di degrado la parete secondaria si stacca dalla primaria e il tessuto rimane svuotato interamente, simile a una spugna, privo pressoché di resistenza meccanica ed è a questo punto che la pressione del sedimento sovrastante la stessa perdita di acqua lo trasformano in un materiale compatto che ha perso ogni struttura anatomica originaria. Questo avviene spesso anche con legni abbastanza recenti, per esempio legni preistorici che, fatti seccare all'aria, si riducono enormemente di volume con un processo irreversibile che rende difficile anche la determinazione. I siti che permettono tale tipo di conservazione sono già stati indicati. In certi casi tuttavia ambienti particolari creati dall'uomo come pozzi, fontane, cisterne, latrine, possono mantenere per secoli un certo grado di umidità e condizioni di anerobiosi tali da permettere molto bene la conservazione del legno (FOLLIERI, 1971).

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I legni secchi di siti aridi si presentano in modo assai diverso: possono essere durissimi perché impregnati di cristalli di minerali, possono essere pulverulenti o in uno stato intermedio. Il residuo di legno rimasto è spesso costituito da sola lignina che ha mantenuto la posizione originaria ma che si trasforma immediatamente in polvere se sollecitata meccanicamente: in tal caso anche l'impregnazione con resine per effettuare sezioni sottili può essere difficoltosa.

Nelle tombe egizie il legno è spesso in ottimo stato di conservazione, presentando tutt'al più attacchi iniziali da parte di insetti, i quali sono periti rapidamente per le particolari condizioni venutesi a creare nel loculo (GORCZYNSKI-MOLSK~ 1969). Va però aggiunto che i legni usati in questi casi sono quasi sempre dotati di grande durabilità naturale, come cedro, ginepro, cipresso, acacia, olivo, ebano ecc. Per la crescita i funghi richiedono umidità ed essa è scarsa all'interno delle piramidi e in medio oriente per esempio. La metasomatosi di sostanze minerali fra cui il carbonato di calcio può conservare resti vegetali: non è improbabile trovare schegge di legno nella malta. Altre sostanze come il biossido di silicio in particolari condizioni e i fosfati permettono la conservazione attraverso la permineralizzazione del materiale legnoso.

Un caso particolare e anche abbastanza frequente in ambito protostorico e storico è la conservazione del legno ad opera dei prodotti di corrosione del ferro. Aderenti a oggetti o frammenti di metalli ferrosi, specie se questi oggetti facevano parte della struttura lignea, come chiodi e grappe, sono frammenti di legno di colore arancione e rossiccio. A un esame attento (KEEPAK 1975) ci si rende conto che il tessuto legnoso è scomparso e che quella che si conserva è la replica ossia il modello interno, in prodotti di corrosione del ferro, del legno originario; replica che riesce assai simile al legno di partenza cosicché molti caratteri anatomici sono ancora discernibili (Figg. 35 e 36). Naturalmente legni del genere possono essere esaminati solo per frattura o per impregnazione e sezioni sottili con metodo mineralogico. Alcune volte però il prodotto è relativamente tenero e può essere tagliato a fette sottili. L'osservazione con binoculare stereoscopico, microscopio episcopico e microscopio elettronico costituiscono per questi legni il metodo più rapido ed efficace.

PRELEVAMENTO

Le fonti per il prelevamento dei legni, oltre a quelle elencate sono numerose: oltre ai legni archeologici dei siti lacustri dove essi sono presenti spesso in grande quantità, dobbiamo pensare ai depositi di natura geologica e a tutta una serie di manufatti lignei, conservati fuori terra, che possono fornire informazioni sotto il punto di vista della storia dell'arte o della tecnologia o della datazione, attraverso il metodo dendrocronologico.

I metodi di prelevamento per i legni di siti umidi e in genere per i legni umidi sono da applicare caso per caso. Il legno presente come particelle nel sedimento di un deposito di palafitta si preleva con il resto del sedimento, viene sortito dopo eventuale lavaggio del sedimento e classificato in base alle dimensioni, forma e provenienza. Il legno delle strutture lignee subacquce può essere campionato con il metodo della rondella, valida anche per esame dendrocronologico ma, per non danneggiare i materiali è preferibile prelevare piccoli frammenti ricordando che per la determinazione sono ottimali parallelepipedi lunghi 1-2 cm, ma che nel caso di manufatti, oggetti che non è opportuno guastare, si può scendere a 3 x 3 mm. In generale occorre documentare sul rilievo dell'oggetto, o su uno schizzo speditivo, la posizione esatta del prelevamento e rilevare anche la forma complessiva

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dell'oggetto. La conservazione preliminare del legno umido si fa lasciandolo nel suo ambiente di

partenza, ossia tenendo aggiunta acqua distillata che tuttavia da sola può provocare l'insorgere di muffe: perciò l'uso di una miscela di alcool e glicerina addizionati con un fungicida, oppure l'immersione in PEG (glicole polietilenico), sigillando eventualmente i campioni in sacchetti sotto vuoto, il collocamento in frigorifero, sono sistemi per impedire da un lato il disseccamento, dall'altro la formazione di muffe, ma che però compromettono l'utilizzo del legno per datazioni radiocarboniche. È pertanto opportuno, dato che il legno umido viene ritrovato spesso in quantità abbondanti, prelevare espressamente i 10 g circa di legno necessari per la datazione con il metodo tradizionale del C14 ed essicare subito in stufa, tenendo avvolto in foglio di alluminio.

TRATTAMENTO E ANALISI DI LABORATORIO

Il legno di siti umidi spesso può essere tagliato in sezioni sottili senza alcun trattamento preliminare, con l'aiuto di un microtomo ma anche, più rapidamente, per la diagnosi di routine, con una lametta o un rasoio a mano. Le sezioni sottili con microtomo, eventualmente impregnando il legno con resine (SCHWEINGRUBER 1978), servono soprattutto per la documentazione fotografica. In alcuni casi è necessario ricorrere a schiarimento delle sezioni ed eventualmente a colorazione con i metodi usuali per la colorazione della lignina, per esempio con verde di metile o fucsina e acido p~cr~co, che permettono di distinguere meglio i particolari anatomici. Nonostante ciò, spesso le membrane interne sono alterate o mancanti e alcuni particolari anatomici, come gli ispessimenti spiralati delle pareti dei vasi, non sono più riconoscibili.

Per i legni conservati aderenti ai metalli occorre ricordare che spesso gli oggetti vengono sottoposti a restauro e il legno fissato insieme al metallo: sarebbe opportuno asportare il legno da esaminare prima di effettuare ogni sorta di trattamento e affidare il prelievo a chi dovrà esaminare il materiale sotto l'aspetto paletnobotanico, in quanto trattandosi di manufatti, per esempio di manici di strumenti, di assi di sarcofagi, di cui sono rimaste tracce aderenti a grappe e chiodi, ecc., la direzione delle fibre, il decorso degli anelli, in una parola l'orientamento del corpo legnoso può essere molto utile per caratterizzare o addirittura ricostruire l'oggetto. In condizioni analoghe si ritrovano frammenti di tessuti aderenti a metalli ferrosi, in cui però la conservazione non è avvenuta per un processo di sostituzione, quanto piuttosto per incrostazione e parziale metasomatismo, probabilmente con diverse possibili sfumature.

Legni mineralizzati si ritrovano anche in depositi umidi e possono essere esaminati su semplice frattura oppure operando come con un qualunque campione di roccia da cui si voglia ottenere, per levigazione di facce parallele, una sezione sottile.

Legni particolarmente voluminosi o legni di strutture che non possono essere campionati con il sistema della rondella o del taglio parziale, possono essere documentati con carotine estratte mediante trivelle di Pressler o similari, compatibilmente con la consistenza del legno.

RICONOSCIMENTO E SIGNIFICATO DI STRUTTURE E MANUFATTI

L'argomento è comprensibilmente molto vasto: procederemo mediante

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esemplificazioni, tratte dov'è possibile da esempi italiani. Sin dalla fine dello scorso secolo si era posta attenzione su questa categoria di legni, i

cosiddetti pali delle palafitte. Non abbiamo che studi occasionali nel periodo antecedente l'ultimo conflitto. Il più significativo è senz’altro quello di Ledro (DALLA FIOR 1940) nel quale vennero esaminati con sezioni sottili i legni di 100 pali con il seguente risultato:

Si osservi la grande abbondanza del tasso che trova conferma nell'analisi pollinica effettuata da Beug (1964) sull'insediamento e comunque la prevalenza di specie dotate di buona durabilità, in particolare abete rosso, tasso e abete bianco e fra le latifoglie quercia e olmo. Il faggio, presente in grande quantità in prossimità dell'insediamento, come dimostra la crescita della curva relativa a questa specie proprio intorno al 4000 BP, è stato scartato come legname da pali.

Nell'insediamento neolitico di Fimon-Molino Casarotto (CORONA et Al. 1974) la distribuzione per tipologia botanica dei 161 pali esaminati (Tab. 7) indica invece una selezione ristretta a poche tipi e precisamente all'ontano, legno di elevata resistenza per costruzioni idrauliche e ai frassini, di nessuna durata per tale impiego.

Le ricerche sinora più complete sono comunque quelle condotte in Svizzera, a cominciare da Neuweller (1905, già citata) e da Schweingruber, e in Germania meridionale da Huber. Le analisi sono state condotte su centinaia di pali e le più recenti anche in relazione a ricerche dendrocronologiche, i cui risultati permettono di tracciare le varie fasi costruttive dell'abitato e gli interventi di riparazione e ristrutturazione.

Dal punto di vista strettamente dendrologico, sono state ricavate interessanti conclusioni: Schweingruber (1978) ritiene che negli insediamenti della Svizzera occidentale, cioè ad Auvernier, venisse praticata una stretta selezione dei tipi di legno, con una media di 5,3 specie per insediamento, mentre il gruppo orientale, da Burgaschisee fino a Ehrenstein presso Ulma, utilizzava mediamente 10 specie per insediamento ed è dimostrabile che non si tratta di una scelta condizionata dalla vegetazione locale ma di una precisa conoscenza delle proprietà dei diversi tipi di legno. Tuttavia dall'insieme (SCHWEINGRUBER, 1978, Tab. 28 e cf. anche le tabelle precedentemente riportate), compaiono anche legni non adatti secondo i nostri standards, per esempio il tiglio e il faggio usati per pali verticali. Probabilmente i problemi da risolvere sono numerosi e riguardano sia la disponibilità locale di legname in rapporto al tipo di vegetazione, sia il bisogno di precisi assortimenti, soprattutto di tronchi di determinato diametro, sia la disponibilità di specie richieste non solo da conoscenze tecnologiche ma anche da stereotipi legati alla cultura e alla tradizione. In linea di principio una selezione rigorosa è praticata per quei materiali che hanno una importante funzione e un alto contenuto tecnologico, destinati per esempio a ponti, oppure a case, rispetto a materiali più ordinari messi in opera per palizzate e recinzioni. In molti insediamenti i legni vengono messi in opera non come tondelli, ma come spacchi, come a Feldmeilen (SCHWEINGRU BER 1978,P. 43) e al lago di Monate presso Varese (dati inediti del Laboratorio di Como).

Lo studio degli anelli e quindi dell'età di abbattimento dei pali ha dimostrato che la selezione è legata al diametro dell'assortimento: non si verifica la regola che all'aumentare dell'età il diametro aumenta sempre: ossia i tronchi selezionati dello stesso diametro presentano età molto variabili.

In linea generale lo studio dei pali di un insediamento subacqueo porta con sé una serie di informazioni sia di carattere naturalistico che etnografico e tecnologico. La scelta del materiale è condizionata dalla vegetazione circostante e in alcuni casi vengono

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individuate le diverse posizioni da cui provengono i vari tipi di legname; secondariamente la scelta dell'uomo, fatta in bosco, decide per alcune specie piuttosto che per altre e sceglie gli assortimenti più adatti, eventualmente facendo ricorso allo spacco, ossia alla divisione del tronco per il lungo in 4 parti o meglio multipli di quattro, 16 e 32, con possibilità di usare grandi diametri, riducendo il lavoro di abbattimento. L'esame delle sequenze degli anelli, del loro diametro e di altri parametri permette anche di conoscere alcuni particolari sul modo di effettuare il taglio dei boschi, sulla pratica per esempio della ceduazione.

IL LEGNO PER ATTREZZI E ALTRI MANUFATTI

Una quantità relativamente elevata di oggetti ci sono giunti dal passato in legno. Pochissimi pur sempre rispetto alla grande diffusione e importanza di questa materia prima, destinata a decadere e a scomparire nella maggior parte dei casi, come del resto altri importanti materiali organici, quali la pelle, le fibre tessili, il corno, caratterizzati da breve durata in condizioni normali.

Comunemente i manufatti pervengono sotto forma di legni conservati in ambienti umidi, fuori dal contatto dell'aria o in ambienti particolarmente secchi; qualche volta l'incendio può fortunosamente conservare una parte dell'oggetto che può così essere ricostruito. Le informazioni provengono per la maggior parte da depositi di siti lacustri. In Italia le "palafitte" e le "terramare" hanno fornito, sino dall'Ottocento, abbondante materiale soprattutto riferibile all'età del bronzo.

A Polada e Barche di Solferino (Tab. 8) si osserva una scelta accurata per alcune funzioni, come il tasso (Taxus baccata) usato per fare spatole e manici di falcetti, il corniolo (Cornus cir. mas), per fare bastoni appuntiti, e la quercia, per tavolette, grazie alla possibilità di ottenere queste forme mediante lo spacco in corrispondenza dei grandi raggi midollari. Anche a Castione dei Marchesi, terramara presso Parma (Tab. 9), taglieri e tavolette sono in legno di quercia per la resistenza di questo legno ma anche per la prerogativa prima indicata. Anche il faggio venne usato per le assicelle, poi carbonizzate da un'incendio, di Luni sul Magra, età romana (CASTEL LETTI 1977), mentre a Monte Barro (Como), V-VI secolo, le assi, come il resto del materiale ligneo di un grande edificio, anch'esso distrutto da un incendio, sono di castagno, ottenute probabilmente per segagione.

Altri oggetti lignei carbonizzati provengono, come le tavolette, sempre da Luni (CASTELLETTI 1977, cit.), da uno strato dell VIII secolo, e in particolare un frammento di manico di carpino nero (Ostrya cartinifolia) analogo a un altro, sempre dello stesso legno, ritrovato a Traso, pure in Liguria, e datato al IV secolo.

Numerosi oggetti lignei conservati in tombe etrusche ipogee sono andati perduti per la natura stessa del legno, sopravvissuto non inglobato nel sedimento e non sufficientemente protetto all'atto del recupero. Fasolo e Negri hanno descritto alcuni di tali ritrovamenti.

Anche per periodi relativamente prossimi la conoscenza della specie lignea impiegata e soprattutto delle tecniche di lavorazione e spesso dei minuziosi accorgimenti che caratterizzano ciascun manufatto, costituisce frequentemente elemento di novità o comunque aggiunge nuovi particolari alle nostre conoscenze sull'attività artigianale.

A Trezzo sull'Adda (Milano), i resti organici ricuperati dalla necropoli longobarda, per lo più legni conservati come repliche in prodotti di corrosione del ferro, hanno rivelato interessanti particolari nella fabbricazione degli scudi e dei foderi di spada. Per esempio il

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disco ligneo dello scudo obbediva più alla ricerca della massima leggerezza che non a quella della resistenza e veniva perciò fabbricato in legno tenero ma leggero di pioppo o salice, poi rivestito in cuoio, mentre l'impugnatura era di solida quercia inserita nella traversa in metallo. Nella tomba n. 1 il legno usato è esclusivamente quello di ontano (Alnus), con cui sono stati confezionati l'impugnatura della lancia, il fodero della spatha e quello delle cesoie: tutto ciò forse per scopi ornamentali, per approfittare del colore rossastro del legno di ontano o forse anche in considerazione dei significati apotropaici attribuiti a tale specie. Per i sarcofaghi lignei di cui si sono conservati frammenti di legno permineralizzato, o meglio repliche, aderenti a chiodi e grappe in ferro, si veda la tabella 10, che riporta una casistica per ora scarsa ma interessante in quanto dimostra come anche i manufatti risentano dei mutamenti di composizione del soprassuolo boschivo come, nel caso specifico, l'uso frequente dell'abete bianco in età romana e la grande diffusione del castagno nell'alto medioevo.

IL PROBLEMA DEL TRASPORTO DEL LEGNAME A DISTANZA

Come esempio di tale problema riportiamo alcune considerazioni sulla presenza di abete bianco (Albies albia) in siti che si trovano al di fuori non solo dell'areale attuale della specie ma dello stesso areale naturale presunto per l'epoca degli insediamenti (Tab. 11).

Questi dati da una parte forniscono sicure prove della permanenza dell'abete nel tardo Olocene in zone submontane, dall'altra la certezza dell'importazione di legname o di prodotti già lavorati, come nel caso dei legni appartenenti forse a una cassa di Bagnolo, e dei legni di Cremona, di Barche di Solferino e di Polada, di Voghenza.

Comprensibilmente diventa spesso difficile stabilire se un legno è importato e, in caso affermativo, da quanto lontano o se invece proviene da alberi situati a non molta distanza dal sito, anche nel caso in cui tali alberi attualmente non sarebbero più compatibili con le caratteristiche ecologiche della stazione. Il confronto di carte geobotaniche costruite con l'aiuto di pollini e i dati sulla vegetazione attuale possono aiutare a definire come esotico o indigeno una certa specie di legname per una determinata epoca. In teoria se una certa specie non compare mai fra i carboni, ma solo fra il legname da edilizia e, al tempo stesso sembra essere estranea, per le considerazioni sopra riportate, al quadro floristico locale dell'epoca, allora potrebbe veramente trattarsi di importazione.

Un caso classico è quello studiato da Behere (1969) per Haithabu (Germania settentrionale) dove compaiono due specie importate e precisamente il pino silvestre (Pinus sylvestris) e l'abete bianco (Abies alta), entrambe specie, soprattutto la prima, assai lontane, in questa zona costiera del mare del Nord, dai confini dei loro areali di diffusione nell'alto medioevo.

Fra il legname da ardere si trovano anche i resti di piante coltivate per i frutti, soprattutto noce e castagno. Altre specie fruttifere, come melo e pero non si riconoscono dai loro congeneri selvatici, almeno dal punto di vista del legno (cf. capitolo sulla determinazione) e altrettanto difficile è separare le specie di Prunus, fra cui il ciliegio, l'amarena, il susino ecc., mentre è relativamente facile per pesco, albicocco e mandorlo: solo quest'ultimo è stato trovato, come carbone, e come specie spontanea, nei depositi antico olocenici della Francia meridionale e di altre zone del Mediterraneo (VERNET

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1987), mentre tutte le specie fruttifere citate sono note allo stato subfossile sotto forma di noccioli i quali possono essere determinati con buona precisione.

Il legno di noce viene spesso rinvenuto in siti di età romana e postromana come a Nave (Bergamo), fra i carboni di una tomba di età augustea (ROTTOLI 1988), ad Angera in una tomba di età antonina (CASTELLETTI 1985), a Luni (citato) in livelli di VIII sec. e alla Torre Civica di Pavia, ca. 1100 d.C. (CASTELLETTI 1978). Questa diffusione in età romana concorda con i numerosi dati palinologici che attestano la comparsa e diffusione del noce in tale periodo e precisamente qualche secolo prima dell'era volgare.

Più complessa è la questione dell'indigenato del castagno, tema che richiederebbe una lunga trattazione. Basti accennare che le analisi polliniche di Zoller (1961 e seguenti) hanno escluso l'indigenato del castagno nell'Italia del Nord e stabilita la sua introduzione ad opera dei Romani. Peraltro numerose segnalazioni di legni e carboni lo darebbero presente in diversi punti della Pianura Padana già in età preistorica. Certamente il ricorso ai carboni è la via più sicura per stabilire la data d'introduzione della coltura ma anche per verificare la presenza in una località anche prima di tale diffusione ad opera dell'uomo. Da parte nostra possiamo solo confermare che dopo avere studiato migliaia di carboni dell'Italia settentrionale, il carbone più antico di castagno rimane quello proveniente da una tomba di Angera (Varese) datata al primo quarto del I sec. d.C. (CASTELLETTI 1985).

Analisi antracologica e analisi pollinica

Come la palinologia anche l'antracologia effettua, come si è visto, il conteggio di unità, i frammenti di carbone. I granuli di polline sono unità biologiche e precisamente unità di fecondazione, mentre i frammenti di carbone sono parte di una biomassa costituita dal legno impiegato nei processi di combustione e in seguito a tali processi ridottosi a modesti volumi di carbone.

L'analisi dei pollini serve a fornire dati per operare la ricostruzione di paesaggi vegetali, evoca, in altre parole tali paesaggi senza poterne dare una immagine esatta.

Le principali differenze fra palinologia e antracologia, quest'ultima considerata come studio di carboni dispersi nei sedimenti, allo scopo di ricostruire dati paleofloristici e dati paleovegetazionali, si possono così sintetizzare:

—i carboni sono a produzione e dispersione essenzialmente antropica; —i carboni si trovano dispersi nel suolo in modo disomogeneo e tendono a formare addensamenti: questo fatto è tipico dei macrofossili, anche di quelli dispersi per cause naturali;

—i carboni sono presenti in modo discontinuo lungo una colonna stratigrafica perché legati a precisi eventi, la produzione di fuoco ad opera dell'uomo;

—l'identificazione dei carboni è spesso possibile sino a livello di genere e di specie; —i carboni forniscono esclusivamente informazioni sulla flora legnosa cioè su alberi

e arbusti; —i carboni servono a studiare la flora e la vegetazione intorno al sito e più

precisamente danno indicazioni sulla flora legnosa, in relazione all'approvvigionamento di combustibile: spesso alcune specie, perché inadatte a fare fuoco, o perché a scarsa resa o di difficile raccolta (come certe specie spinose), non compaiono o compaiono raramente negli spettri dei carboni.

—i pollini sono a produzione e dispersione esclusivamente naturale nel senso che l'influsso antropico diretto su tale dispersione è generalmente irrilevante;

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—i pollini si trovano dispersi abbastanza uniformemente nei sedimenti; infatti in un sedimento subacquco essi vengono ridistribuiti all'interno delle frazioni fini di sedimento per effetto di correnti, turbolenze ecc.;

—i pollini sono in genere distribuiti con una certa continuità lungo una colonna stratigrafica, interessando sia i depositi antropici che quelli naturali;

l'identificazione dei pollini è spesso possibile solo a livello di genere; — i pollini forniscono informazioni sulla vegetazione regionale intorno al sito. L'identificazione dei macrofossili e dei pollini in un sito o in una serie di siti vicini

aumenta enormemente il potenziale dell'informazione paleoecologica. È bene però precisare che non sempre vi è coincidenza fra il contenuto di pollini e quello di carboni in un deposito. Si vedano a questo proposito gli esempi di Fienile Rossino (ACCORSI et Al. 1987) e di Bagioletto Alto (CREMASCHI et Al. 1982). Si tratta di due distinti apporti costituiti l'uno da una pioggia pollinica che riflette anche le caratteristiche floristiche della pianura, l'altro da carboni provenienti da rami raccolti a terra nelle vicinanze e pertanto in grado di fornire elementi sulla vegetazione strettamente locale. In altri casi, specialmente in sedimenti di grotta e su serie molto lunghe, si verifica una buona concordanza fra andamento delle curve polliniche degli alberi e quelle corrispondenti dei carboni (SCHWEINGRUBER 1978, p. 53).

LANFREDO CASTELLETTI (*)

(*) Laboratorio di Paletnobotanica—Musei Civici, Como.

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