Introduzione inten-...

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149 [In economia] siamo interessati solo al «cosa» e al «come» e mai al «perché» (Wicksteed 1933 [1910], 165) Le mosse in un gioco in forma estesa costitui- scono un linguaggio, e una sequenza di mosse rap- presenta una conversazione 1 (McCabe et al. 2000, 4407) 1. Introduzione La filosofia dell’azione e le moderne neuroscienze concordano nel sostenere che, in quanto attori sociali, ma soprattutto in quanto esseri umani, siamo caratterizzati dalla tendenza a percepire il comportamento degli altri come costantemente diretto verso certi scopi e finalità. Operiamo, cioè, nel nostro ambiente sociale, come inten- tionality-detectors (Metzinger e Gallese 2003). La teoria Ringrazio Tullio Usai per le ripetute e approfondite discussioni sul contenuto di questo paper. Luigino Bruni, Maurizio Pugno e Alessandra Smerilli hanno letto e commentato una precedente versione del saggio, a loro un sentito ringraziamento, così come ai partecipanti all’International Workshop in Honor of Daniel Kahneman: «Interdisciplinary Approaches to Social Contexts, Interaction and Individual Behavior» (CISEPS-Uni- versità di Milano-Bicocca) e ai membri del gruppo interdisciplinare di ricerca «Il paradigma relazionale nelle scienze sociali» (Istituto Veritatis Splendor, Bologna) per le utili e stimolanti discussioni. 1 Le citazioni sono tradotte in italiano dall’autore. Il riferimento bi- bliografico rimanda all’edizione originale. VITTORIO PELLIGRA TEORIA DEI GIOCHI PSICOLOGICI E SOCIALITÀ UMANA 149

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[In economia] siamo interessati solo al «cosa» e al «come» e mai al «perché»

(Wicksteed 1933 [1910], 165)

Le mosse in un gioco in forma estesa costitui-scono un linguaggio, e una sequenza di mosse rap-presenta una conversazione1

(McCabe et al. 2000, 4407)

1. Introduzione

La filosofia dell’azione e le moderne neuroscienze concordano nel sostenere che, in quanto attori sociali, ma soprattutto in quanto esseri umani, siamo caratterizzati dalla tendenza a percepire il comportamento degli altri come costantemente diretto verso certi scopi e finalità. Operiamo, cioè, nel nostro ambiente sociale, come inten-tionality-detectors (Metzinger e Gallese 2003). La teoria

Ringrazio Tullio Usai per le ripetute e approfondite discussioni sul contenuto di questo paper. Luigino Bruni, Maurizio Pugno e Alessandra Smerilli hanno letto e commentato una precedente versione del saggio, a loro un sentito ringraziamento, così come ai partecipanti all’International Workshop in Honor of Daniel Kahneman: «Interdisciplinary Approaches to Social Contexts, Interaction and Individual Behavior» (CISEPS-Uni-versità di Milano-Bicocca) e ai membri del gruppo interdisciplinare di ricerca «Il paradigma relazionale nelle scienze sociali» (Istituto Veritatis Splendor, Bologna) per le utili e stimolanti discussioni.

1 Le citazioni sono tradotte in italiano dall’autore. Il riferimento bi-bliografico rimanda all’edizione originale.

VITTORIO PELLIGRA

TEORIA DEI GIOCHI PSICOLOGICIE SOCIALITÀ UMANA

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economica, invece, focalizzando l’analisi principalmente verso i comportamenti di mercato, ha storicamente ten-tato di neutralizzare l’impatto delle azioni altrui e delle loro intenzioni principalmente attraverso l’assunzione di concorrenza perfetta. Assumendo cioè, che le interazioni sociali avvengano in un contesto tale che minimizza gli effetti di interdipendenza tra gli agenti. Due eccezioni importanti sono rappresentate dal recente filone di studi che va sotto il nome di new social economics, che non di-scuteremo in questa sede2 e dalla teoria dei giochi.

Nei primi anni ’40 la teoria dei giochi si sviluppò come risposta all’insoddisfazione originata dai limiti della visione tradizionale dell’interdipendenza sociale. Von Neumann e Morgenstern (1944) avanzavano l’ipotesi se-condo cui la maggior parte delle situazioni economica-mente rilevanti possiederebbero, letteralmente e non solo metaforicamente, la stessa struttura di un gioco, met-tendo in evidenza, in questo modo, l’importanza delle considerazioni strategiche nella loro modellizzazione. La qualità più importante di un agente inserito in un’inte-razione strategica diventa, quindi, quella di saper pre-vedere il comportamento degli altri inter-agenti. Date queste poche premesse sarebbe stato naturale aspettarsi che l’analisi di tale capacità avesse costituito il centro di ogni teoria delle interazioni strategiche, come la teoria dei giochi. È per lo meno sorprendente notare retrospet-tivamente come dopo 50 anni di sviluppi, la teoria dei giochi ancora assuma, invece di spiegare, il meccanismo attraverso cui gli agenti sono in grado di prevedere il comportamento altrui.

Un passo avanti promettente in questa direzione viene compiuto dalla teoria dei giochi psicologici (TGP da qui in avanti) (Geanakoplos, Pearce e Stacchetti 1989; Batti-galli e Dufwenberg 2005), che sviluppa strumenti analitici

2 Cfr. per i vari approcci Glaeser, Sacerdote e Scheinkman (1996; 2003); Glaeser e Scheinkman (2001; 2003), Gui e Sugden (2005). Sivedano anche le rassegne di Zanella (nel presente volume) e Scheink-man (in corso di pubblicazione).

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in grado di formalizzare questa particolare abilità cogni-tiva. Ciò viene fatto rendendo i payoff dei giocatori di-pendenti non solo dalle loro azioni, così come nella teo-ria classica, ma anche dalle loro intenzioni, credenze ed emozioni ed elaborando nuovi concetti di soluzione che tengono conto di questa causalità complessa.

La tesi principale del saggio è che, grazie alle caratte-ristiche epistemiche di questi strumenti analitici, la TGPcostituisce un importante passo in avanti verso l’inte-grazione di un modello di interazione sociale più ricco e complesso di quello tradizionale. Cerco di mostrare questo attraverso la discussione di tre dei più importanti problemi emersi nel campo della teoria dei giochi clas-sica negli ultimi anni e che la TGP riesce a formalizzare e per certi versi a risolvere. Il primo problema, il meno esplorato dei tre, riguarda il tema dell’intenzionalità degli agenti; il secondo, il tema della fiducia e quello collegato dell’endogenizzazione dei payoff; il terzo attiene agli ef-fetti di contesto o frames-effects.

Il paragrafo 2 discute in prospettiva storico-metodo-logica, il ruolo degli «altri» e della loro «alterità» nella teoria dei giochi classica. Il paragrafo 3 introduce il tema dell’intenzionalità discutendo alcuni risultati sperimen-tali che sembrano falsificare la tradizionale assunzione di comportamento consequenzialista. Il paragrafo 4 descrive brevemente le caratteristiche essenziali della TGP e mette in relazione i risultati sperimentali con il problema del-l’intenzionalità in filosofia e nelle neuroscienze e discute il modo in cui la TGP formalizza il processo di lettura della mente (mind-reading) implicato nell’attribuzione di intenzioni ai comportamenti degli agenti. Il paragrafo 5 è incentrato sul problema della fiducia e della endogeniz-zazione dei payoff. Il paragrafo 6 analizza le implicazioni dei contesti decisionali per il processo decisionale in si-tuazioni strategiche. Le considerazioni conclusive del pa-ragrafo 7 chiudono il saggio.

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2. La teoria dei giochi, gli altri e la loro «alterità»

Prima di affrontare i tre aspetti problematici, inten-zioni, fiducia e contesti decisionali, vorrei discutere del modo in cui la teoria dei giochi classica descrive formal-mente e analizza l’aspetto sociale delle relazioni inter-personali e, in particolare, il modo in cui essa descrive e modellizza il ruolo degli altri e della loro alterità nelle in-terazioni strategiche. Emergerà da questa analisi l’imma-gine di una teoria che, per varie ragioni, più che cercare di spiegare è volta ad eludere il problema e le sue conse-guenze.

Iniziamo con il considerare la teoria dei giochi così come originariamente emerge dal lavoro di John Von Neumann e Oskar Morgenstern: benché il concetto di in-terdipendenza stia alla base della loro teoria, anzi ne co-stituisca l’elemento propulsivo, l’idea di comportamento razionale così come viene incorporato nel criterio del mi-nimax, deriva paradossalmente per via diretta da un’idea di razionalità che è puramente individuale. Sembra quasi, in altre parole, che esso sia definito indipendentemente dal comportamento degli altri giocatori. Un dato corso d’azione, infatti, è considerato razionale se minimizza la perdita massima o, detto in altri termini, massimizza il payoff minimo che un giocatore può ottenere qualunquecosa l’altro giocatore decida di fare. Questa indipendenzadalle decisioni altrui, come chiave interpretativa dell’in-terdipendenza delle azioni strategiche, benché appaia pa-radossale, può essere letta come una conseguenze del tentativo di Von Neumann e Morgenstern di eliminare dalla teoria che vanno sviluppando, qualsiasi riferimento alla dimensione psicologica degli agenti. Il progetto ori-ginale di Von Neumann, così come inizia a delinearsi già nel saggio del 1928 (Von Neumann 1928) è coerente, in questo senso, con l’eredità storica dell’assiomatica che fortemente orienterà il lavoro congiunto con Morgenstern verso una particolare caratterizzazione di un concetto di razionalità ritenuto: «capace di liberare i giocatori dalla necessità di formarsi un’aspettativa sulle azioni e i pen-

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sieri dei giocatori» (Giocoli 2003, 282). Commentandoquesta opposizione «interdipendenza-indipendenza» tipica del mondo formale che emerge dalla teoria di Von Neu-mann e Morgenstern, Thomas Schelling ne indica i due maggiori punti di debolezza:

i) interdipendenza ridotta a indipendenza; un gioca-tore: «non ha bisogno di comunicare con il suo avversa-rio, egli non ha neanche bisogno di sapere chi sia il suo avversario e al limite neanche se ce ne sia realmente uno» (Schelling 1960, 105);

ii) de-psicologizzazione del processo di previsione del comportamento altrui; «Una strategia casuale (...) è un esplicito mezzo per distruggere qualsiasi possibilità di co-municazione, specialmente di comunicazione delle inten-zioni» (ibidem).

Il successivo sviluppo, che segue per certi versi una linea alternativa a quella proposta da Von Neumann e Morgenstern, è rappresentato dall’elaborazione da parte di John Nash (1950; 1951) di una teoria dei giochi ca-pace di descrivere attraverso giochi non-cooperativi ogni tipologia possibile di interazione strategica; questo ten-tativo va sotto il nome di «programma di Nash». Tale programma si fonda su un concetto di soluzione, l’equi-librio di Nash, che si differenzia notevolmente rispetto al criterio di maximin, per quanto riguarda, in particolare, il modo in cui le considerazioni circa il comportamento altrui determinano le scelte ottimali di ogni singolo gio-catore. Un insieme di strategie costituisce un equilibrio di Nash quando esse rappresentano risposte ottime a ciò che ogni giocatore crede che gli altri decideranno di fare. Nel momento in cui sarà necessario scegliere una certa strategia ogni giocatore dovrà formarsi un’idea su ciò che gli altri giocatori stanno per fare. Verrà elaborata una congettura circa il comportamento degli altri sapendo che gli altri stanno facendo lo stesso con riguardo alle proprie scelte. Tali congetture sono vincolate ed ispirate dall’as-sunzione secondo cui i giocatori agiscono nel persegui-mento della massimizzazione delle loro utilità individuali, dei loro payoff. La convergenza verso un punto di equili-

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brio, che deve soddisfare la condizione di mutua coerenza delle credenze di tutti i giocatori, è assicurata dalle due assunzioni di «conoscenza comune della razionalità», da una parte, e di «comportamento ottimizzante» dall’altra. Nella teoria di Nash, dunque, l’insieme delle intenzioni degli agenti, la cui conoscenza è necessaria per prevedere il loro comportamento, è ristretto al mero piano della massimizzazione dei payoff. Per cogliere la ristrettività di tale assunzione si consideri, a mo’ di esempio, il fatto che tale costruzione implica anche il coordinamento delle aspettative, cioè a dire, che le credenze di due giocatori circa il modo in cui un terzo giocatore deciderà di com-portarsi in una data situazione, dovranno necessariamente coincidere (cfr. Osborne 2004).

I giocatori elaborano delle strategie immodifica-bili prima che l’interazione abbia luogo e non sono in grado di porre in essere ragionamenti di tipo contro-fattuale, che invece sarebbero necessari per rispondere a domande del tipo: «che cosa farei se l’altro giocatore non si conformasse alla mia aspettativa basata sull’as-sunzione di comportamento ottimizzante?». In questo caso la sola possibilità alternativa sarebbe assumere che l’altro si stia comportando in modo irrazionale e quindi sospendere il gioco, nel senso di far cadere ogni pos-sibile regola razionale di condotta. Questa conclusione è stata da più parti interpretata come un’implicazione della natura eminentemente solipsistica della teoria di Nash. Lo stesso Nash del resto dichiara che la sua im-postazione: «assume che ogni partecipante agisca indi-pendentemente senza collaborazione o comunicazione con nessuno degli altri» (1996, 22). Lo storico Philip Mirowski commenta a questo riguardo: «giocare un gioco senza nessun esplicito riconoscimento dell’esi-stenza di un avversario, chiunque egli sia, non può es-sere che un paradosso; a meno che, certamente, l’avver-sario non sia una macchina» (2002, 342).

L’altro, considerato come una macchina e la conse-guente inutilità di qualsiasi forma di comunicazione pos-sono essere considerate, dunque, le due caratteristiche de-

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finitorie dell’idea di socialità così come analizzata da John Nash e dai suoi epigoni.

La teoria dei giochi bayesiani implementa un approc-cio solo leggermente differente. Essa fornisce un quadro teorico utile per analizzare giochi ad informazione incom-pleta, nei quali, cioè, esiste una certa incertezza circa, per esempio, la struttura degli incentivi degli altri giocatori. In un gioco bayesisno i giocatori formano e rivedono le loro credenze circa la tipologia di giocatore con cui stanno interagendo e la struttura dei suoi incentivi su cui grava un certo grado di incertezza.

Consideriamo un gioco nel quale A e B non cono-scono i payoff dell’avversario (supponiamo per sempli-cità, che essi conoscano la propria funzione dei payoff). Questo gioco può essere modellizzato almeno in due modi alternativi: nel primo, il giocatore A sa che la stra-tegia del giocatore B nel gioco in considerazione dipende dalla funzione dei payoff del giocatore A, quindi, prima di scegliere la sua mossa, il giocatore A si formerà una aspettativa circa la distribuzione di probabilità dei payoff del giocatore B. Allo stesso tempo il giocatore B si for-merà una analoga aspettativa sulla funzione dei payoff di A. Definite queste aspettative del primo ordine, A si for-merà delle aspettative del secondo ordine circa le aspet-tative del primo ordine di B, mentre B si formerà, a sua volta, delle aspettative del secondo ordine rispetto alle aspettative del primo ordine di A, e così in avanti. Ogni modello basato su aspettative di ordine superiore natu-ralmente acquista un livello di complessità via via mag-giore al crescere del numero degli giocatori implicati. Nell’approccio di Harsany, stando a quanto egli stesso afferma, questo modo di formalizzare l’interazione so-ciale appare come – «molto naturale – ma (...) ma piut-tosto poco pratico» (Harsany 1994, 137). Infatti, anche una volta superate le difficoltà tecniche legate all’utilizzo di distribuzioni di probabilità di ordine superiore (cfr. Aumann 1963; 1964), tale procedura darebbe origine, se-condo lo stesso Harsany, a: «un modello (...) disperata-mente ingombrante» (1994, 150).

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Il secondo approccio, invece, comporta la trasforma-zione dei giochi ad informazione incompleta in giochi ad informazione imperfetta nei quali l’incertezza non ri-guarda più direttamente la tipologia dei giocatori, ma la storia del gioco, vale a dire la sequenza di mosse di ogni singolo giocatore (Harsanyi 1967-68). Tale trasformazione avviene attraverso l’introduzione di un meccanismo deci-sionale esterno (la natura) che prima che il gioco abbia inizio, determina le caratteristiche dei soggetti (gioca-tori attivi) che saranno effettivamente coinvolti nell’in-terazione. Ogni giocatore cerca di stimare le probabilità associate ad ogni possibile mossa della Natura, le quali, nell’interpretazione di Harsany dipendono, dalle «forze sociali rilevanti». I giocatori tentano di stimare tali proba-bilità così come farebbe un osservatore esterno, un osser-vatore cui fossero accessibili solo le informazioni comuni ad tutti i giocatori coinvolti (cfr. Harsanyi 1967-68, 176).Inoltre ogni giocatore sa che gli altri giocatori formeranno le loro stime esattamente allo stesso modo. Una interpre-tazione alternativa di questa assunzione di common priorsuggerisce di immaginare che i giocatori si comportino come se tutti conoscessero il vero valore di queste proba-bilità.

Ciò che ne consegue è che nella teoria dei gio-chi bayesiani ogni esito è associato ad un unico piano d’azione, ad un’unica strategia, ad un unico insieme di in-tenzioni e, più importante di tutto, ad un unica distribu-zione a priori di credenze circa le tipologie di giocatori. Credenze, queste, comuni e importate dall’esterno della relazione.

Un gioco ad informazione incompleta che può essere utilizzato, per esempio, per descrivere l’eterogeneità dei giocatori rispetto all’insieme delle possibili intenzioni sot-tese ad ogni mossa, può essere analizzato quindi, come abbiamo visto, o in un modo naturale ma decisamente poco pratico, oppure attraverso una procedura più sem-plice ma decisamente poco intuitiva e realistica. Tale mancanza di realismo, in particolare, costituisce una li-mitazione piuttosto seria quando si vogliono descrivere e

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analizzare tutte quelle (numerose) situazioni sociali nelle quali le motivazioni dei soggetti possono essere influen-zate da fattori emozionali quali, per esempio:

rabbia, odio, senso di colpa, vergogna, orgoglio, ammira-zione, rimpianto, gioia, disappunto, eccitazione, paura, spe-ranza, invidia, malizia, indignazione, gelosia, sorpresa, noia, desiderio sessuale, divertimento, preoccupazione e frustrazione (Battigalli e Dufwenberg 2005, 41),

che sarebbero meglio compresi in base ad un mecca-nismo di formazione endogena delle credenze.

Si è giustificati, quindi, nel sospettare che la teoria dei giochi classica consideri l’alterità degli agenti coin-volti, con particolare riferimento alla questione della loro intenzionalità, intesa come strumento per l’attribuzione di senso alle azioni altrui, o attraverso un modello sempli-cistico, oppure attraverso procedure decisamente troppo complicate. Uno degli aspetti sorprendenti dell’intera vi-cenda è che su questo punto, non ci sia stato quasi nes-sun segno di contaminazione tra teoria dei giochi e altre discipline che da tempo ormai si occupano di temi af-fini, quali per esempio la filosofia dell’azione o le neuro-scienze3.

3. Alcuni esempi di comportamento non consequenzialista

Nella teoria dei giochi classica si assume che le moti-vazioni che spingono ogni giocatore alla scelta siano inte-ramente descrivibili attraverso la sua matrice dei payoff; tale assunzione equivale ad una particolare specificazione della più generale assunzione di consequenzialismo. I gio-catori ordinano le azioni in termini di preferibilità sulla base delle loro preferenze circa gli esiti che tali azioni

3 Alcuni esempi contrari sono, tra i pochi altri, Bacharach (2001), Singer e Fehr (2005), Ross (2005), Pugno (2005) e Camerer et al. (in corso di pubblicazione).

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contribuiranno a determinare: se l’azione a produce l’esito a, l’azione b l’esito b e l’azione c l’esito g, allora l’azione a sarà preferita alla b e questa alla c, fintanto che l’esito asarà preferito a b, e questo a g.

Alcuni interessati risultati sperimentali hanno recente-mente messo in evidenza come, contrariamente a quanto implicato dall’ipotesi di consequenzialismo, lo stesso esito possa essere variamente valutato, e quindi possa suscitare reazioni differenti, a seconda della storia del gioco, delle combinazioni, cioè, delle mosse che lo ha determinato. Questi risultati sembrerebbero indicare che nel momento in cui si decide come agire in un contesto strategico, i soggetti reali, non si proiettano solo in avanti per valu-tare gli esiti delle loro azioni, ma si rivolgono anche al passato per considerare le scelte alternative che durante il corso del gioco avrebbero potuto essere selezionate ma che sono state scartate.

Uno dei risultati che in maniera più chiara mette in luce tale tendenza è quello che emerge dall’esperimento riportato in Falk et al. (2003). Il design sperimentale pre-vede di confrontare i modelli di comportamento di due gruppi di soggetti in situazioni come quelle descritte nei giochi G1 e G2: il giocatore A fa un’offerta al giocatore B di $2 o di $5 nel gioco G1, mentre nel gioco G2, le offerte alternative sono pari a $2 oppure a $8; a queste offerte il giocatore B può rispondere accettando oppure rifiutando; se accetta, la divisione verrà implementata ed entrambi riceveranno la somma stabilita, se rifiuta, invece, entrambi i giocatori non riceveranno nulla.

Assumendo che i giocatori cerchino di massimizzare in modo autointeressato e consequenzialista la loro utilità, che essa sia descritta interamente dal payoff materiale e che ci sia avversione al rischio, la teoria tradizionale pro-duce le seguenti previsioni testabili:

i) i giocatori B saranno disposti ad accettare qualun-que ammontare positivo di denaro; sulla base di questa previsione, i giocatori A saranno disposti ad offrire solo la somma più bassa possibile;

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ii) gli esiti condizionali alla scelta H da parte degli Asono identici sia nel gioco G1 che nel gioco G2. Il nu-mero degli eventuali rifiuti dei B alle offerte degli A, deve essere quindi approssimativamente uguale nei due giochi.

I risultati dell’esperimento sembrano smentire en-trambi queste previsioni. Si osserva infatti che i giocatori

Giocatore A

Giocatore B Giocatore B

H L

A R A R

82

00 0

055

FIG. 1. G1: Ultimatum game (forma ridotta).

FIG. 2. G2: Best-Shot Game (forma ridotta).

Giocatore A

Giocatore B Giocatore B

H L

A R A R

82

00 0

028

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B rifiutano le offerte degli A, molto più spesso di quanto non sarebbe «razionale» fare secondo la teoria. Ma si osserva anche che il numero di rifiuti è più elevato nel gioco G1 (44%) piuttosto che nel gioco G2 (18%). Que-sto risultato appare sorprendente perché, una volta che Apropone $2 a B, dal punto di vista di quest’ultimo i due giochi sono assolutamente identici, almeno per quanto ri-guarda l’aspetto delle conseguenze delle scelte e quindi della distribuzione dei payoff. Un risultato analogo è ri-portato in Pelligra (2004); in questo caso il comporta-mento di risposta in un investment game è confrontato con quello di offerta in un dictator game. I dati mostrano che, nonostante dal punto di vista del rispondente (nel-l’investment game) e da quello del proponente (nel dicta-tor game), i due giochi siano assolutamente identici in ter-mini di conseguenze, nell’investment game i rispondenti restituiscono ai proponenti una cifra media di 11, men-tre nel dictator game l’offerta media è di circa 54.

La ragione che sta sotto a questa «anomalia» è legata, con tutta probabilità, al fatto che diverse combinazioni di mosse, indipendentemente dall’esito che determinano, veicolano messaggi differenti rispetto alle intenzioni dei giocatori che le hanno poste in essere. E nel tentativo di «leggere le menti» degli altri giocatori, i soggetti inferi-scono le loro intenzioni da ciò che loro hanno fatto così come da ciò che avrebbero potuto fare e non hanno fatto.

In questa prospettiva proporre $8 nel G1 è diverso dal proporre $8 nel G2, perché nel primo caso la scelta scarta volutamente un’alternativa che i giocatori B in ge-nere ritengono giusta, vale a dire una divisione della torta al 50%. Nel secondo, caso invece, l’alternativa all’offerta di $8 è una divisione che penalizza fortemente A e quindi i giocatori B sono più propensi a tollerare.

Questo esperimento così come altri che si inseriscono nello stesso filone di ricerca, mostrano come in situazioni

4 Blount (1995), Charness (1998), Nelson (2002), Charness e Levi-ne (2005) riportano risultati simili.

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strategiche i soggetti reali non si comportino in maniera puramente consequenzialista ma pongono in essere ragio-namenti controfattuali che servono per l’attribuzione di intenzioni alle azioni degli altri soggetti coinvolti nell’in-terazione.

Abbiamo visto come l’attribuzione di differenti inten-zioni alla stessa azione possa portare i soggetti a reagire in modi differenti davanti a comportamenti per altro iden-tici. Se vogliamo comprendere i meccanismi che guidano le interazioni sociali non possiamo prescindere quindi da una comprensione approfondita dei meccanismi che pre-siedono all’attività di attribuzione di intenzioni. Alle in-tenzioni, al loro ruolo nei processi di cognizione sociale e al modo in cui questo può essere descritto nei termini della teoria dei giochi psicologici è dedicato il prossimo paragrafo.

4. Il problema dell’intenzionalità e la teoria dei giochi psi-cologici

Quello dell’intenzionalità è il problema centrale della teoria filosofica dell’azione e sta acquistando crescente importanza anche nel campo delle neuroscienze e della psicologica sperimentale e dello sviluppo. In filosofia il termine «intenzionalità» ha assunto un significato pecu-liare, differente da quello del senso comune.

L’intenzionalità rappresenta il modo in cui la nostra mente ci mette in relazione con il mondo esterno e ca-ratterizza la natura degli «stati mentali» o «atteggiamenti proposizionali», vale a dire dei nostri desideri, credenze, finalità e simili. In un’accezione più circoscritta una in-tenzione è, secondo la definizione di Michael Bratman (1989), un piano d’azione che il soggetto sceglie e al quale si impegna con l’obbiettivo di raggiungere uno spe-cifico scopo. Una intenzione, quindi, è un costrutto com-posto che include sia lo scopo che si vuole raggiungere così come i mezzi necessari al suo raggiungimento. Ciò è importante ai fini del nostro discorso, perché il fatto che

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l’intenzione includa entrambi gli elementi, mezzi e fini, spiega perché, per esempio, la stessa azione posta in es-sere con differenti finalità possa essere giudicata in modi diversi e possa suscitare reazioni differenti, coerentemente con quanto mostrato dall’evidenza sperimentale riportata nel paragrafo precedente. Per circostanziare meglio que-sto punto basti pensare al modo diverso in cui le persone (e la legge) reagiscono per esempio a un omicidio volon-tario o ad un omicidio preterintenzionale nel quale, pur sussistendo il nesso causale tra azione e conseguenza de-littuosa, non è rintracciabile la partecipazione psicologica dell’agente all’evento. Sulla base di questa distinzione che separa la sfera delle intenzioni da quella dell’azione e delle sue conseguenze si possono comprendere anche gli slittamenti di prospettiva in virtù dei quali:

se considerato intenzionale un commento critico può essere visto come un doloroso insulto; un urto sul marciapiede, come una pericolosa provocazione e un affascinante sorriso come una segnale di seduzione. Ma se considerato come non intenzionale lo stesso commento può essere scusato; lo stesso urto può far na-scere una nuova amicizia e lo stesso sorriso può semplicemente essere sintomo di buon umore (Malle e Knobe 1997, 101).

Le neuroscienze hanno recentemente mostrato che la capacità di comprendere le azioni altrui assegnando loro finalità ed intenzioni è una qualità specifica dei primati superiori e segnatamente umana (Rizzolati et al. 2001), probabilmente legata all’esistenza di un linguaggio sofi-sticato (Tomasello 2000). Tale capacità si sviluppa molto presto e già all’età di 4 anni i bambini sono in grado di immaginare cosa gli altri possano sapere, credere o pen-sare sulla base dell’osservazione delle loro azioni. Questo processo è detto di mind-reading ed è basato essenzial-mente sull’abilità umana di inferire le intenzioni altrui. Sono state proposte in questi ultimi anni diverse «teorie della mente» o ToM (theories of mind) per cercare di dar conto del processo di mind-reading. Queste teorie ven-gono in genere distinte in due classi generali: le cosid-

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dette «teorie della teoria della mente» (theories of theory of mind), note anche come theory-theory (TT) e le «teorie della simulazione» (TS) (simulation theories). Le prime postulano che gli agenti tendono a spiegare e prevedere il comportamento degli altri attraverso una serie di leggi causali che nel loro insieme formano ciò che in genere viene definita folk psychology (Carruthers e Smith 1996). Secondo le TT gli agenti utilizzando semplici leggi espli-cative per mettere in relazione determinanti non osserva-bili del comportamento (desideri, credenze e altri atteg-giamenti proposizionali) con stimoli esterni osservabili, in modo da poter prevedere il comportamento che la combi-nazione di questi fattori determinerebbe. Questo processo di attribuzione funziona sulla base di un ragionamento teorico che implica tacitamente determinate leggi causali condivise dalla comunità degli inter-agenti.

La seconda classe di teorie, le «teorie della simula-zione» (Davis e Stone 1995), sono costruite intorno al-l’idea secondo cui l’attribuzione di stati mentali avviene attraverso la creazione di rappresentazioni mentali in virtù delle quali l’agente è in grado di simulare il processo de-liberativo dei soggetti il cui comportamento viene osser-vato e deve essere previsto:

Prima crei in te stesso (finti) desideri e credenze del tipo che assumi l’altro soggetto possa avere (...) poi questi (finti) desideri e queste credenze vengono elaborati dal tuo meccani-smo di decision-making, il quale da vita ad una (finta) decisione (Gallese e Goldman 1998, 496).

La differenza fondamentale che intercorre tra le due classi di teorie attiene al fatto che mentre le TT descri-vono il processo di mind-reading come un processo teo-rico, neutrale, oggettivo e distaccato, le TS, al contrario, lo descrivono come una faccenda di effettiva replica-zione delle stesse attività neurali implicate dall’azione che l’agente sta cercando di interpretare o predire, un processo di simulazione che è diretto, automatico, non-predicativo, e non inferenziale. Secondo le TS, quindi,

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i processi di cognizione sociale non devono tanto essere descritti come dei ragionamenti sugli stati mentali dei soggetti esterni, quanto piuttosto come una sorta di intui-zione esperienziale (experiential insight) delle altre menti. Gallese e Goldman (1998) utilizzano l’espressione mentalmimicry, per designare questo tipo di corrispondenza tra le attività mentali di un osservatore e quelle di un indi-viduo osservato. Tale meccanismo coinvolge i cosiddetti «neuroni-specchio» (mirror neurons) (cfr. Rizzolatti et al.2001) che possiedono l’interessante proprietà di «sca-ricare» sia quando il soggetto compie una certa azione sia quando il soggetto stesso osserva qualcun altro com-piere la stessa azione. In questo caso i neuroni-specchio ricreano nell’osservatore la stessa attività mentale che oc-corre nel cervello nell’agente osservato. In virtù di questa proprietà, Gallese e Goldman, interpretando il ruolo del sistema dei neuroni-specchio, ipotizzano che esso possa costituire la base neurofisiologica dell’abilità umana di rappresentazione delle intenzioni altrui a partire dall’os-servazione delle loro azioni.

Un interessante punto di contatto tra letteratura neu-roscientifica, teorie della simulazione e teoria dei giochi emerge in un esperimento condotto da Kevin McCabee dai suoi collaboratori (McCabe et al. 2000) il quale mette in evidenza come la forma di rappresentazione di un gioco possa influenzare in maniera determinante il li-vello di cooperazione tra i giocatori. La rappresentazione in forma estesa, in particolare sembra favorire la coopera-zione di più rispetto alla rappresentazione in forma nor-male. La spiegazione di questo risultato è basata proprio sull’idea secondo cui la forma estesa consente più facil-mente ai giocatori: «di leggere i pensieri e le intenzioni degli altri piazzandosi nella posizione e nello stato infor-mativo dell’altra persona» (2000, 4404). Questo processo di reciproca lettura della mente permette di inferire le intenzioni degli avversari dalle loro mosse e quindi di coordinarsi meglio, in virtù della norma della reciprocità, verso esiti cooperativi ottimali.

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Ciò detto, è necessario chiedersi come sia possibile formalizzare all’interno di un modello teorico questo pro-cesso di inferenza delle intenzioni dalle azioni nell’ambito di una situazione strategica estremamente semplificata e astratta come un gioco. Quello che cercherò di eviden-ziare in questa parte del saggio è che la TGP fornisce strumenti utili a questa formalizzazione, e lo fa in modo coerente con l’impianto delle teorie della simulazione e con i loro correlati neurali.

Nella teoria dei giochi classica si assume che i payoff finali dipendano solo dalle azioni scelte da ogni gioca-tore. Qualunque siano le motivazioni sottese alle azioni di ogni giocatore, esse vengono sinteticamente ricomprese nei payoff associati ad ogni esito. L’ordinamento di pre-ferenze dei giocatori rispetto agli esiti è rappresentato dal loro vettore dei payoff. Questo modo di operare ha guadagnato popolarità grazie agli importanti risultati e alle molteplici applicazioni che ha generato in molte aree della ricerca economica e anche al di fuori dei confini dell’economia, ma allo stesso tempo si è dimostrato li-mitativo per quanto riguarda l’analisi di molti fenomeni sociali, quelli caratterizzati, in particolare, dalla presenza di motivazioni belief-dependent. Una gamma molto ampia di emozioni sociali, ma anche principi comportamentali come fiducia e reciprocità, per esempio, non possono es-sere propriamente formalizzati all’interno del quadro teo-rico della teoria dei giochi classica in cui i payoff sono considerati esogeni. La TGP sviluppa strumenti che con-sentono l’analisi formale di molti di questi fenomeni ren-dendo più gestibile la via «naturale ma poco pratica», di cui parlava Harsany, alla modellizzazione delle gerar-chie di credenze. Una funzione di utilità generale per un gioco psicologico assume la seguente forma (Battigalli e Dufwenberg, 2005):

ui : Z jj N

S jj N

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dove Z rappresenta l’insieme dei nodi terminali, N èl’insieme dei giocatori, Mj l’insieme delle credenze condi-zionali di j circa le strategie degli altri giocatori e del loro credenze condizionali, e Sj è l’insieme delle strategie pure di j. Le strategie e le credenze sono considerate condizio-nali ad ogni storia del gioco (cfr. Battigalli e Siniscalchi1999). In un gioco psicologico, quindi, l’utilità dei gio-catori dipende dalle loro strategie così come dalle loro credenze di ordine superiore circa le rispettive strategie. In Geneakoplos, Pearce e Stacchetti (1989) vengono svi-luppati vari concetti di soluzione per i giochi psicologici equivalenti ai concetti di equilibrio di Nash e di equili-brio perfetto nei sottogiochi. In questa versione della TGP un equilibrio psicologico si ottiene quando ogni gio-catore massimizza il suo payoff e allo stesso tempo le cre-denze dei vari ordini risultano confermate. Dufwenberg e Battigalli (2005) generalizzano l’approccio di Geanako-plos, Pearce e Stacchetti estendendolo in tre direzioni:

i) consentendo la revisione delle credenze durante lo svolgimento del gioco;

ii) definendo un concetto di equilibrio psicologico sequenziale sulla linea dei risultati di Kreps e Wilson (1982);

iii) sviluppando un’analisi non-di-equilibrio inaugu-rata da Bernheim (1984) e Pearce (1984) e sfociata nella definizione del concetto di razionalizzabilità.

Alcuni modelli recenti (Rabin 1993; Dufwenberg e Kirchsteiger 1998; Falk e Fischbacher in corso di pubbli-cazione) hanno proficuamente applicato la TGP all’ana-lisi dei comportamenti pro-sociali sfruttando, in partico-lare, la possibilità fornita dalla TGP di spiegare come gli agenti valutano e reagiscano diversamente alle intenzioni positive o negative degli altri giocatori. Altri modelli co-siddetti «ibridi» (Levine 1998; Falk e Fischbacher 1998; Charness e Rabin 1999) combinano un approccio basato sul il ruolo delle intenzioni con fattori di equità distribu-tiva.

In sintesi la TGP consente di modellizzare agenti in grado di attribuire intenzioni alle azioni degli altri sulla

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base dell’osservazione congiunta (o delle credenze) delle scelte compiute e di quelle scartate. Questo processo ap-pare essere sorprendentemente simile a quello implicato dalle TS, anche se è importante far notare che mentre la TGP descrive il processo di iscrizione delle intenzioni come una serie di atti deliberati di volontà le TS assu-mono invece, che esso si attivi in maniera automatica e non cosciente.

Questa differenza in nessun modo riduce l’utilità di una descrizione formale del processo mentale che mette gli esseri umani nelle condizioni di interpretare le inten-zioni e gli obbiettivi degli altri.

5. Il problema della fiducia

Prendiamo in considerazione ora il secondo punto della nostra lista e cioè il problema della fiducia e quello ad esso connesso dell’endogenizzazione dei payoff. A que-sto riguardo è interessante notare come nell’esposizione della versione più avanzata della teoria dei giochi psico-logici, Battigalli e Dufwenberg (2005) utilizzino sei volte su nove, esempi inerenti a interazioni fiduciarie. Questo può forse contribuire a dare un’idea della rilevanza del problema della fiducia nell’ambito delle interazioni stra-tegiche.

Una interazione fiduciaria è caratterizzata da tre ele-menti costitutivi: i) mancanza di controllo da parte del trustor sul trustee; ii) rischio di opportunismo da parte del trustee; iii) conseguenze potenzialmente negative per il trustor. Tutti questi elementi sono sintetizzati nel Trust game (G3).

Il fattore i) è implicato dalla descrizione della situa-zione come gioco sequenziale non cooperativo; il puntoii) è formalizzato dalla condizione f< e; mentre la forma-lizzazione del punto iii) si ottiene ponendo b<a.

Nel Trust game il giocatore A sceglie per primo la strategia L o la strategie R; se sceglie L, entrambi i gio-catori ottengono dei payoff pari a (a, d). Ma se A sceglie

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R, la scelta passa a B, il quale a sua volta può scegliere L o R. Nel primo caso B ottiene e, mentre A ottiene b; nel secondo caso, invece, B ottiene f e A ottiene c. Data que-sta matrice dei payoff e le relazione tra i suoi elementi, sarebbe razionale per B giocare L e, conseguentemente, per A optare per L; il che equivale, in altri termini, a suggerire a B di comportarsi in maniera opportunistica e ad A di non fidarsi affatto. Questa conclusione contrasta in maniera radicale con l’evidenza empirica che è andata accumulandosi negli ultimi anni5 e che mostra come, in situazioni simili a quella descritta dal trust game un nu-mero significativo di giocatori preferisce giocare R (o mosse equivalenti) e un significativo numero di giocatori B resiste alla tentazione della scelta opportunistica sce-gliendo R.

Per cercare di dar conto di questi comportamenti «anomali» sono state avanzate differenti spiegazioni ba-sate alcune su differenti interpretazioni dei dati e altre sull’introduzione di principi comportamentali che inte-

5 Cfr. Ostrom e Walker (2002) e Camerer (2003) per una rassegna dei risultati più significativi.

FIG. 3. G3: Trust game (forma semplice).

Giocatore A

Giocatore B

L R

ad f

cbe

L R

b < a < c; f < e;

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grano il mero self-interest, come quelli di altruismo o av-versione all’iniquità. Alla prima linea appartiene il cosid-detto «tautologismo», proposto da Ken Binmore (1998) il quale suggerisce che dietro i dati non si debba leggere nient’altro che un comportamento massimizzante ed au-tointeressato e che la difformità tra il risultato previsto dalla teoria e il comportamento osservato dei giocatori reali deriverebbe dalla mancata coincidenza del gioco analizzato in teoria con quello giocato in pratica. Sarebbesufficiente dunque ridescrivere il gioco per rendere le previsioni conformi al comportamento osservato e l’ana-lisi del gioco in sé una mera tautologia.

Il gioco G4 presenta oltre alla matrice dei payoff og-gettivi anche altre tre matrici derivate dalla quest’ultima attraverso un processo di elaborazione dei payoff sulla base delle interpretazioni indicate più sopra. In queste in-terpretazioni si considera un «payoff esteso» che si ricava dal o dai payoff oggettivi attraverso una trasformazione volta ad incorporare un certo principio comportamentale o a ridescrivere il gioco coerentemente con le scelte os-servate.

Per un altruista, B, l’utilità dipende dal suo payoff oggettivo più il payoff di A pesato da un certo para-metro aB (0 <aB < 1) che rappresenta la sensibilità indi-viduale all’altruismo (Margolis 1982). Un agente B av-verso all’iniquità, invece, cercherà contemporaneamente di massimizzare il suo payoff oggettivo e minimizzare la differenza tra il suo payoff e quelli di A (Fehr e Schmidt 1999). Anche in questo caso un parametro individuale aBo bB (con aB >bB) peserà l’impatto negativo della disugua-glianza nel caso in cui B stia, rispettivamente, meglio o peggio di A.

Queste spiegazioni basate su altruismo, equità o ri-descrizione presentano tutte controindicazioni importanti che ne limitano l’efficacia esplicativa nell’analisi delle re-lazioni fiduciarie (cfr. Pelligra 2003). Due teorie alterna-tive, centrate sui concetti di reciprocità (Rabin 1993) e di rispondenza fiduciaria (Pelligra 2005a; 2005b) sembrano invece, almeno in prima approssimazione, superare tali

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difficoltà e fornire spiegazioni adeguate del fenomeno fi-duciario6.

Secondo Rabin, la reciprocità (positiva) implica il con-ferimento di un beneficio materiale ad un soggetto che precedentemente ci ha conferito un beneficio materiale, o che ci aspettiamo ci conferisca un tale beneficio. La ri-spondenza fiduciaria, invece, considera il conferimento di

6 È importante sottolineare il fatto che il modello di Rabin non è direttamente applicabile a giochi estesi della forma del Trust game. Perpoter utilizzare tale modello e la logica della reciprocità che esso in-corpora nell’analisi delle interazioni fiduciarie è necessario introdurre alcune modifiche alla versione originale. Tali modifiche sono state sug-gerite inizialmente da Hausman (1998) e riprese poi in Pelligra (2003).

FIG. 4. G4: Trust game (forma gratuita) con payoff estesi alternativi.

Nota: I numeri in grassetto descrivono gli esiti associati all’equilibrio di Nash perfetto nei sottogiochi per i differenti casi.

Giocatore A

Giocatore B

L R

L R

02 2

2–13

02 3

2–12,5

02 2

2–11

02 4

4–13

Payoff oggettivi

B è altruista

B è avverso all’iniquità

Tautologismo

B = 0,5a

B = 0,5b

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un beneficio nei confronti di un soggetto che ci ha mo-strato di attendere questo beneficio da noi e per questo si è volontariamente esposto al rischio di una perdita nel caso in cui il nostro agire fosse materialmente autointe-ressato. La rispondenza fiduciaria, quindi, postula che un esplicito atto di fiducia possa «indurre» o «elicitare» un comportamento affidabile. In questo senso possiamo considerare la fiducia come «risponsiva» o self-fulfilling.Mentre la reciprocità si basa sull’azione combinata di in-centivi materiali e psicologici, la rispondenza fiduciaria è interamente fondata su una motivazione di carattere psi-cologico-morale.

Recenti esperimenti di laboratorio (Dufwenberg e Gneezy 1998; Bacharach et al. 2005; Pelligra 2005b) mo-strano che, una volta eliminato l’effetto dell’altruismo, dell’avversione all’iniquità, ma anche della reciprocità, continuano a sopravvivere esempi di comportamento fidu-cioso e affidabile. Da questi test l’ipotesi di rispondenza fiduciaria sembra emergere come la spiegazione che me-glio coglie gli aspetti più basilari del «fenomeno fiducia».

Oltre che per la diversa capacità di spiegare l’evi-denza esistente, le varie teorie si differenziano anche per l’impianto logico che le governa. Le teorie che incorpo-rano l’altruismo e l’avversione all’iniquità infatti, possono essere considerate, così come la teoria standard, modelli di comportamento forward looking, che considerano le in-tenzioni dei giocatori irrilevanti, e si concentrano esclusi-vamente sugli aspetti distributivi relativi alle conseguenze delle scelte, mentre i modelli di reciprocità e rispon-denza fiduciaria, sono, invece, modelli di comportamento backward looking, per i quali anche le azioni passate e le intenzioni dei giocatori, e non solo le distribuzioni finali dei payoff, hanno un effetto motivante sulle scelte. Que-sta differenza implica che mentre per il primo gruppo di teorie la trasformazione dei payoff oggettivi in payoff estesi avviene esogenamente, per il secondo gruppo, essa è endogena al modello stesso.

La possibilità data dalla TGP di poter considerare i payoff come endogeni al modello consente in modo natu-

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rale di formalizzare quelle situazione nelle quali l’aspetto relazionale è importante, quelle situazioni, cioè, nelle quali la relazione è vista, essa stessa, come una fonte di utilità e nelle quali il semplice fatto di entrare in relazione influenza la struttura di preferenze ex-ante dei giocatori. Consideriamo ora, per illustrare questo punto, la seguente variante del Trust game (G5).

Denotiamo con p [0, 1] la probabilità che B scelga R; 1-p sarà quindi la probabilità che B scelga L. Allostesso modo indichiamo con q [0, 1] la credenza di Acirca la scelta di B, cioè circa p. Con r, invece, si indicala credenza di B su q, vale a dire la sua credenza sulla credenza di A circa la scelta di B. In questo modo co-struiamo i primi due ordini della gerarchia delle credenze di B. Queste credenze sono necessarie per trasformare il gioco standard in un gioco psicologico. Supponiamo ora che B osservi, contrariamente a quanto si sarebbe potuto aspettare in base alla teoria standard, una scelta fiduciosa da parte di A (A gioca R); ci troviamo ora nel secondo nodo del gioco in corrispondenza del quale è B a do-ver scegliere. Introduciamo ora un fattore atto a cogliere l’effetto delle emozioni sociali, in questo caso il senso di colpa. Il payoff esteso che B ottiene da una scelta op-

FIG. 5. G5: Trust game con senso di colpa endogeno.

Giocatore A

Giocatore B

L R

ad f

cbe – Gr

1 – p p

c > a > b; e > f; G > 0;

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portunista sarà pari, quindi, al suo payoff atteso meno il «fattore di colpa» espresso come un multiplo G (G> 0)di r, l’aspettativa di A sul comportamento di B. In questo modo stiamo ipotizzando che una scelta opportunista im-plichi un costo psicologico per B tanto maggiore quanto più elevata è l’aspettativa di A circa la sua affidabilità7.

Gli equilibri (psicologici) del gioco si ottengono quando entrambi i giocatori massimizzano la loro utilità e le loro credenze sono confermate (p=q= r). Questo gioco, in particolare, presenta tre equilibri, due in strategie pure e un terzo in strategie miste:

1) A si aspetta che B sia affidabile; il costo di B le-gato all’opportunismo può diventare quindi sufficiente-mente alto da indurlo all’affidabilità. A è a conoscenza di questo e gioca cioè R (q=1); anche B è a conoscenza di questo e quindi gioca R (r=q= 1). Nel primo equilibrio Ae B giocano R;

2) A si aspetta che B sia opportunista; stando così le cose tale scelta non comporterebbe nessun costo per B. Questo è noto anche ad A che pone q=0; di conse-guenza B gioca L (r=q=0). In questo equilibrio A gioca L e p=q= r=0, cioè anche B gioca L;

3) il terzo equilibrio (in strategie miste) si ottiene as-sumendo l’uguaglianza tra i payoff che B può ottenere da entrambe le scelte e imponendo p= r. Questo equilibrio esiste solo se pc+(1–p)b>a, il che implica che A gio-cherà R posto che p=q= r=(e– f)/G e che 0<(e– f)/G<1.I payoff associati sono rispettivamente pc+(1–p)b per Ae (1–p)(e– rG)+pf, per B.

Dalla trasformazione del Trust game in un gioco psi-cologico emergono due equilibri che prima non esiste-vano, e cioè quelli nei quali, rispettivamente, A e B gio-cano (R, R) con una certa probabilità, e quello in cui A

7 Analogamente avremmo potuto considerare invece della colpa un’altra emozione belief-dependent, come, per esempio, l’orgoglio o il senso di riconoscimento. In questo caso avremmo dovuto considerare un «fattore orgoglio», simmetrico rispetto al fattore di colpa, da som-mare al payoff di B associato ad una scelta affidabile.

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si fida con certezza e B risponde in modo affidabile con altrettanta certezza. Una conseguenza importante che deriva da questo tipo di analisi è legata al fatto che una volta ridescritto con l’introduzione dei payoff endogeni, il Trust game diventa un gioco di coordinamento8. In que-sto caso, infatti, quale, tra i possibili equilibri del gioco, verrà effettivamente selezionato, dipende dal modo in cui i giocatori coordinano le loro aspettative del primo e del secondo ordine. Per quanto riguarda i due equilibri in strategie pure, per esempio, abbiamo che se A si attende affidabilità da parte di B e questo è noto anche a B, al-lora quest’ultimo sarà indotto a comportarsi in modo affi-dabile; entrambi i giocatori si coordinano su r=q=1. Ma se A si aspetta opportunismo da B, questo, determinando una riduzione del costo psicologico legato ad una scelta opportunista, indurrà B a comportarsi proprio in quel modo; i giocatori allora si coordineranno su r=q=0.

Una volta constatata la presenza di equilibri multipli e il conseguente emergere di un problema di coordina-mento diventa naturale indagare l’esistenza di eventuale meccanismi di selezione degli equilibri; il che equivale a chiedersi che cosa faciliti o cosa ostacoli l’ottenimento di tale coordinamento. Questo ci porta direttamente al terzo problema della nostra lista originaria, quello dei contesti decisionali.

6. Effetti di contesto sociale

Tradizionalmente la gran parte dell’attenzione sul ruolo degli effetti di contesto o di framing, si è concen-trata nell’ambito delle decisioni individuali e non tanto sulle scelte strategiche. Eppure se, come fanno anche Kahneman e Tversky, consideriamo il processo di conte-stualizzazione come: «controllato dal modo in cui il pro-blema di scelta viene presentato così come da norme,

8 Camerer e Thaler (2003) sviluppano una interpretazione simile.

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abitudini e aspettative del decisione» (1987, 257, corsivo aggiunto) emerge chiaramente la rilevanza del problema non solo per le situazioni parametriche ma anche per quelle nelle quali la differente percezione del contesto può influenzare le scelte interattive. Se il framing di una certa situazione può influenzare le aspettative dei soggetti circa il comportamento degli altri e anche le aspettative sulle aspettative degli altri, allora tale problema divesta di estrema importanza per la teoria dei giochi ed in partico-lare per la teoria dei giochi psicologici.

Nei giochi di coordinamento e in tutti i giochi in ge-nerale nei quali esplicitamente viene preso in considera-zione il ruolo delle aspettative dei giocatori, sorgono pro-blemi di molteplicità di equilibri e di conseguenza neces-sità di coordinamento delle azioni dei giocatori. La teoria tradizionale non ha finora saputo offrire un resoconto soddisfacente degli elementi che governano i processi di coordinamento. I pionieristici contributi di Thomas Schelling (1960) sul ruolo della «salienza» e dei cosiddetti «punti focali» hanno avuto, tranne rare eccezione (Metha et al. 1995; Sugden 1995; Bacharach e Stahl 2000; Jans-sen 2001, Bacharach 2006), poco seguito tra i teorici dei giochi. Mentre da una parte la teoria rimane silente circa la natura del processo di coordinamento, l’evidenza em-pirica mostra come i soggetti reali riescano con notevole successo a coordinare le loro azioni sulla base di infor-mazioni di contesto che da un punto di vista teorico ven-gono solitamente considerate irrilevanti (Metha, Starmere Sugden 1994). Le varie teorie dei punti focali suggeri-scono che quando le persone si trovano ad interagire in termini strategici essi tendono ad associare alla situazione una certa etichetta o un certa cornice di riferimento che mette in relazione le azioni possibili con il contesto nel quale il gioco viene giocato. Tali teorie cercano quindi di analizzare il processo attraverso il quale le informazioni contestuali che i giocatori reperiscono nell’ambiente in-fluenzano l’individuazione dell’equilibro focale e di con-seguenza le loro scelte effettive, per esempio attraverso la rottura della simmetria del gioco. Nei giochi psicologici

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il problema del coordinamento è aggravato dal fatto che a doversi coordinare non sono solo le azioni, ma anche le credenze dei vari ordini. L’avvenuto o mancato coor-dinamento di tali credenze e aspettative è decisivo affin-ché possa determinarsi un equilibrio. Questo elemento di estrema complessità ha convinto Dufwenberg e Battigalli (2005, 11) che: «assumere la convergenza verso l’equili-brio potrebbe essere troppo, specialmente nell’ambito dei giochi psicologici». Se in linea di principio si può con-cordare con questa posizione, è importante sottolineare come, però, sul versante empirico e descrittivo, il tipo di molteplicità degli equilibri che emerge nei giochi psicolo-gici può costituire un elemento di realismo proprio per-ché lascia aperta la possibilità che gli effetti di framingagiscano come meccanismo di coordinamento delle cre-denze prima, e delle azioni poi.

L’interpretazione della molteplicità degli equilibri po-sta in relazione con il ruolo del contesto può aiutarci a spiegare importanti regolarità emerse nei giochi speri-mentali come per esempio, il fatto che gli agenti che si aspettano cooperazione dagli altri sono essi stessi più propensi a cooperare. Tale risultato, difficile da riconci-liare con i modelli di spiegazione tradizionali, può essere interpretato proprio come una conseguenza del processo di coordinamento implicato nei giochi psicologici. Sullastessa linea Ross e Ward (1996) e Blair e Stout (2000) riportano alcuni esperimenti nei quali il comportamento dei soggetti, nella stessa situazione, può variare a causa di elementi teoricamente non rilevanti come, per esempio, la descrizione semantica della interazione. In un dilemma sociale definito come community game, si nota che il nu-mero delle scelte cooperative è molto maggiore rispetto a quanto non avvenga nello stesso gioco quando questo viene indicato come Wall Street game. Tali differenze ven-gono spiegate sulla base del fatto che anche solo l’eti-chetta associata al gioco contribuisce a segnalare quale tipo di norma sociale sia appropriato seguire in quella data situazione: cooperazione nella comunità e compe-tizione a Wall Street. In questo modo la contestualizza-

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zione del gioco così come, in altri esperimenti la comuni-cazione verbale tra i soggetti, determina la formazione di aspettative del primo e del secondo ordine circa il com-portamento di tutti i soggetti che tendono a convergere verso un unico equilibrio focale.

7. Conclusioni

La tesi principale sostenuta in questo scritto è quella secondo cui, grazie alle caratteristiche epistemiche della gerarchia di credenze formalizzata nella teoria dei giochi psicologici, essa è in grado di affrontare e, in qualche misura, di risolvere tre dei più rilevanti problemi emersi negli ultimi anni nell’ambito della teoria dei giochi tradi-zionale.

Primo: il ruolo delle intenzioni nella determinazione del comportamento strategico. Come emerge tra l’altro dai risultati degli esperimenti discussi nel paragrafo 3, la percezione delle intenzioni che sottendono un’azione è importante in quanto consente ai giocatori di associare significati differenti alla stessa azione e al teorico di spie-gare la ragione di eventuali differenze nelle reazioni. Le teorie della simulazione postulano che questo processo di attribuzione di significato avvenga attraverso una «mi-mesi mentale» in virtù della quale si verifica nell’osserva-tore l’attivazione degli stessi circuiti neurali implicati nel-l’azione materialmente compiuta dall’osservato. La TGPpermette la formalizzazione di tale processo consentendo la descrizione della gerarchia completa di credenze così come dei ragionamenti controfattuali necessari all’attività di mind-reading.

Secondo: la fiducia è un costrutto relazionale. In pre-cedenti lavori (Pelligra 2005a; 2005b) ho cercato di mo-strare come le relazioni fiduciarie possano essere com-preso appieno solo se si assume che l’affidabilità possa venire elicitata da scelte fiduciose, un’ipotesi questa, nota come «rispondenza fiduciaria». La risponsività conna-turata, secondo tale ipotesi, ai comportamenti fiduciari,

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implica che i payoff non possano essere considerati come dati esogeni al gioco. La TGP prevede modalità di endo-genizzazione dei payoff che consentono l’analisi di emo-zioni belief-dependent, come l’orgoglio e il senso di colpa, che hanno un ruolo centrale nella spiegazione dei com-portamenti fiduciosi e affidabili.

Terzo: i contesti decisionali funzionano come mecca-nismi di selezione degli equilibri. Nei giochi psicologici emerge un problema di selezione degli equilibri multipli legato al coordinamento dei vari ordini di credenze dei giocatori. Se, in generale, la molteplicità degli equilibri è sintomo di indeterminatezza delle previsioni della teoria e quindi visto come un limite della stessa, in questo caso si può affermare che essa introduce, almeno dal punto di vista empirico, un elemento di realismo perché lascia spa-zio agli effetti di contesto sociale (social framing effects)che, facilitando il coordinamento delle aspettative dei gio-catori, facilitano la selezione di un equilibrio unico.

I tre esempi analizzati, delle intenzioni, della fiducia e degli effetti di contesto, mettono in luce come la teoria dei giochi psicologici possa costituire un importante passo in avanti verso la comprensione e la formalizzazione della logica relazionale sottesa alle interazioni strategiche e, in definitiva, alla socialità umana.

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