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Introduzione Fare Transmedia Scena 1. Il ponte di Brooklyn è lungo 5989 piedi, poco più di un miglio. È attraversato ogni giorno da circa 125.000 auto ma da un solo punto, superata la metà per chi lo attraversa dalla terraferma, guardando a Oriente, si riesce a scorgere in mezzo alle cuspidi e ai parallelepipedi di Manhattan la Sixth Avenue, la Avenue of the Americas. È la via che raccoglie uno dopo l’altro i grattacieli della Fox e della CNN, gli studi della NBC e le torri lucide della Time Warner. Insomma, la televi- sione degli show, delle news e delle grandi serie di fiction di oggi. Guardando indietro invece, anzi sotto, dove il ponte sfiora la sponda opposta dell’Hudson, c’è un piccolo parco percor- so da un sentiero e quattro panchine scalcinate. È la Brooklyn Heights Promenade, il punto dove hanno piazzato la macchina da presa tutti i grandi registi che hanno creato l’immaginario collettivo della “Big Apple” e dell’“America today” del cinema contemporaneo. Sembra un segno del destino: il cinema sotto il ponte, vicino all’immaginario e alla materia (liquida come la fantasia) che scorre. La televisione, invece, al di là del fiume, a erigere torri su torri, stagione dopo stagione, fino a quando ini- zi a non distinguere più una storia dall’altra. Per questa ragione, un ponte così è il luogo migliore per farti venire un’idea. Ed è questo il motivo per cui sono qui stanotte, col petto premuto sulla balaustra e il taccuino in mano quando, all’improvviso, la vibrazione del cellulare mi riporta di colpo nel mio corpo… (C) 2013 Apogeo - Idee editoriali Feltrinelli srl

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Introduzione

Fare Transmedia

Scena 1. Il ponte di Brooklyn è lungo 5989 piedi, poco più di un miglio. È attraversato ogni giorno da circa 125.000 auto ma da un solo punto, superata la metà per chi lo attraversa dalla terraferma, guardando a Oriente, si riesce a scorgere in mezzo alle cuspidi e ai parallelepipedi di Manhattan la Sixth Avenue, la Avenue of the Americas. È la via che raccoglie uno dopo l’altro i grattacieli della Fox e della CNN, gli studi della NBC e le torri lucide della Time Warner. Insomma, la televi-sione degli show, delle news e delle grandi serie di fiction di oggi. Guardando indietro invece, anzi sotto, dove il ponte sfiora la sponda opposta dell’Hudson, c’è un piccolo parco percor-so da un sentiero e quattro panchine scalcinate. È la Brooklyn Heights Promenade, il punto dove hanno piazzato la macchina da presa tutti i grandi registi che hanno creato l’immaginario collettivo della “Big Apple” e dell’“America today” del cinema contemporaneo. Sembra un segno del destino: il cinema sotto il ponte, vicino all’immaginario e alla materia (liquida come la fantasia) che scorre. La televisione, invece, al di là del fiume, a erigere torri su torri, stagione dopo stagione, fino a quando ini-zi a non distinguere più una storia dall’altra. Per questa ragione, un ponte così è il luogo migliore per farti venire un’idea. Ed è questo il motivo per cui sono qui stanotte, col petto premuto sulla balaustra e il taccuino in mano quando, all’improvviso, la vibrazione del cellulare mi riporta di colpo nel mio corpo…

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Numero sconosciuto. È il solito MMS promozionale? Lo apro e scopro che a spedirmelo è stato invece… Dexter? Nella foto brandisce un coltellaccio sanguinolento e mi ordina di scri-vere immediatamente un indirizzo per aiutarlo col suo nuovo “lavoro in pelle”, se non voglio fare una brutta fine! Mi guardo intorno, sorpreso… Come hanno avuto il mio numero? Ma la tentazione ha già iniziato a lavorare dentro di me1…

Scena 2. Spider-man e Lizard si fronteggiano in cima a una delle bifore del ponte, a pochi metri dalla mia testa. Il primo volteggia appeso a una ragnatela mentre il secondo gli scaglia contro automobili e lamiere, pazzo di rabbia. Grafica ed effetti visuali sono perfetti. La narrazione è avvincente. L’interfaccia, invisibile. Già da un pezzo sono stato risucchiato nel racconto quando all’improvviso la scena si blocca. E ora? Per far pro-seguire le immagini devo evidentemente fare qualcosa. Ma… cosa? In un angolo dello schermo noto “per caso” un’icona che non dovrebbe esserci. Faccio clic ed ecco la risposta all’enigma: la chiave per scoprire in anteprima il finale della scena è tra le pagine di un albo a fumetti in vendita da domani in tutte le edicole. Basterà fotografare il QR code nascosto in una delle tavole per far proseguire il racconto online o, addirittura, in-fluenzarlo mentre si svolge!

Scena 3. Sono su un ponte diverso da quello di Brooklyn, stavolta. In un bosco spettrale e pieno di ragnatele. Lo scenario è più simile a quello di una fiaba che alla realtà di tutti i giorni, in effetti, ma non importa perché stanotte io sono… Mickey Mouse! La musica incalza. Mi guardo intorno alla ricerca di un porto franco, una pillola energetica o un modo per soprav-vivere quando, per la prima volta, noto che se ruoto la testa, le mie orecchie cambiano prospettiva invece di restare immobili, una sopra e una sotto la nuca, come sempre! Com’è possibi-le? Nel fumetto è una cosa che non succede mai, e neppure in Fantasia o nelle altre pellicole per il cinema! Prendo il telefono e lo chiedo direttamente a Warren Spector, l’ideatore di Epic Mickey, il videogame dedicato alle avventure dell’icona Disney

1 Per un approfondimento sull’uso del transmedia nella serialità televisiva ameri-cana: M. Giovagnoli, Le infinite e possibili visioni della fiction post-seriale, in S. Brancato (a cura di), Postserialità, Napoli 2011, pp. 283-298.

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più famosa al mondo. Mi racconta di quante giornate di pro-grammazione ha scelto di investire per superare l’immobilità delle orecchie del piccolo eroe protagonista del suo platform e chiude con un… “Altro che comics!”

Ma dove voglio arrivare? Partiamo dalla definizione.Fare transmedia significa raccontare storie distribuite su più

mezzi di comunicazione, simultaneamente o in tempi diversi, in progetti d’intrattenimento o d’informazione, d’arte, scientifici o promozionali articolati su più piattaforme editoriali.

Come appare subito chiaro dagli esempi, non si tratta di un’operazione statica né di costruire mélange tecnologici o dis-seminare contenuti in ordine sparso nella mediasfera.

Fare transmedia significa piuttosto creare nuove geografie del racconto e universi immaginativi più complessi di quello originario. Inventare, strutturare o disarticolare, condividere e far interagire storie distribuite nei diversi mezzi di comunica-zione (asset) del sistema comunicativo di un progetto editoriale facendo sempre attenzione a:

• creare contenuti in grado di rispettare e valorizzare le carat-teristiche di linguaggio e tecnologiche di ciascun medium;

• rendere accessibili i contenuti su più piattaforme tecnologi-che senza provocare interferenze nella gestione del racconto;

• fare in modo che tutti i media coinvolti nel progetto raccon-tino storie diverse ma “scavino” un unico tema ed esplorino un universo immaginativo coerente, pur attraversandolo in tempi diversi e con più prospettive narrative.

Con grandi o piccoli budget alle spalle, per narrazioni “di gene-re” o completamente originali, con progetti comunicativi basati su contenuti reali o virtuali non importa. Tutto nel transmedia dipende dallo sviluppo di universi narrativi in grado di sostene-re le storie e di amplificarne l’immaginario avendo ben chiaro innanzitutto:

• le parti della trama e le regole della “partita” che si sta per giocare, lasciando intuire progressivamente al pubblico il ruolo dei diversi contenuti presentati;

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• i rapporti che legano i media coinvolti nel progetto, in cia-scuna delle esperienze proposte al pubblico;

• le caratteristiche fondamentali del patto narrativo che lega gli autori al loro fruitore; il chi-fa-cosa o chi-può-fare-cosa all’interno del progetto prima, durante e dopo la conclusio-ne del racconto.

Come si vede, di conseguenza, fare transmedia non è solo que-stione di meccanismi editoriali e obiettivi commerciali bensì, soprattutto, di… voci, di forme d’interattività e di spazi espres-sivi. Ma indirizzati a chi?

Nuovi autori, utenti e consumatori

Costruire universi transmediali è come mettere la testa sotto l’acqua mentre nuoti sul bordo di un reef: apri gli occhi e mi-lioni di organismi colorati ti balzano davanti con le livree scin-tillanti e i loro corpi perfetti, modellati da millenni di evoluzio-ne. Alcuni più aggressivi; altri bravissimi a mimetizzarsi; una minoranza capace perfino di mutare nel corso della sua breve esistenza prima di trasformarsi in memoria e fossili come tutti gli altri, in fondo al mare. Audience e autori del transmedia so-migliano molto a quegli “organismi pionieri”.

Naviganti nel Web, fan di saghe cinematografiche, tribes nei cellulari, geek dei nuovi media, hardgamers e otaku nei video-giochi, community nei social network, trigger2 come consuma-tori o cosplayer dai costumi sfavillanti, pronti a incarnare i pro-tagonisti di cartoni animati e fumetti diffusi in tutto il pianeta. Il loro oceano è il racconto. I coralli che li proteggono sono gli stessi media coi quali interagiscono con sempre maggiore di-sinvoltura. Il loro cibo è l’immaginario collettivo e le loro tane, le piattaforme tecnologiche che usano giorno per giorno per

2 La definizione di trigger (grilletto, detonatore) deriva nel marketing e nella comu-nicazione dal lessico dei fan e delle community dell’entertainment 3.0. Identifica i nuovi “consumatori attivi”, sperimentatori e creatori di contenuti brandizzati, a carattere prevalentemente narrativo.

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creare nuove storie “incrociando i media” nella costruzione di una diversa grammatica della fantasia3.

Sono adolescenti e giovani adulti sempre più vicini, padri e figli che davanti a schermi e interfacce avveniristiche invertono continuamente i loro ruoli e insegnano gli uni agli altri, attra-verso la semplice sperimentazione e senza alcuna forma ufficia-le di alfabetizzazione: le formule teoriche, l’impianto culturale necessario per sopravvivere e le “mosse migliori” per abbando-narsi pienamente a evoluti storyworld articolati su più mezzi di comunicazione.

Ecco qual è il pubblico del transmedia. Ecco perché, e per chi, è necessario oggi “incrociare i media” con storie sempre più complesse e interattive nell’ambito della comunicazione e dell’intrattenimento, dell’espressione artistica e della comuni-cazione. Ma soprattutto, ecco perché all’evoluzione degli early adopter e dei consumatori ispiranti4 che compongono il pub-blico del transmedia, è necessario corrisponda oggi una figura diversa di autore e narratore: organismo “mutante” anch’egli, capace di continui skill flow tecnologici e pronto a trasformarsi dal textual poacher (bracconiere di contenuti altrui)5 degli anni Ottanta e Novanta in esperto conoscitore delle tecniche di ima-gery making e di transmedia storytelling necessarie per creare progetti di narrazione e comunicazione declinati su più media.

“Esplodere” l’universo narrativo di una storia attraverso l’uso del transmedia comporta infatti, per ogni autore e per il suo pubblico, compromessi e alterazioni del patto narrativo tra-dizionale dello storytelling (io racconto, tu credi) e, allo stesso tempo, un nuovo atto fondativo per il racconto.

Mentre l’autore deve essere disposto a devolvere parte del-la paternità della storia per costruire una narrazione davvero partecipata e sinergica insieme con le sue audience, infatti, il pubblico è chiamato a svolgere un ruolo più attivo e meno so-lipsistico, che non si esaurisce nel consumo di un’unica forma

3 Si fa riferimento al titolo dell’opera di Gianni Rodari (1973) e all’intervento di Derrick De Kerckhove presso il TEDxTransmedia di Roma (2012) dedicato alla proliferazione di narrazioni come sintomo di un nuovo long term mindshift nel consumo e nelle forme di autorappresentazione del pubblico contemporaneo.

4 K. Roberts, Lovemarks: The Future Beyond Brand, New York 2004.5 M. de Certeau, L’invenzione del quotidiano, Milano 2001.

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di racconto ma contempla la sperimentazione di tutto il sistema comunicativo di un progetto. Un esempio?

Nel luglio 2009, l’emittente televisiva Discovery Channel è in procinto di lanciare la ventiduesima edizione di una delle serie di documentari più seguite del suo palinsesto: la “Shark Week”. Potrebbe decidere per una campagna pubblicitaria tra-dizionale: inserzioni giornalistiche, spot, banner online. Il pub-blico della serie esiste già. L’appuntamento è consolidato. Il suc-cesso, garantito. L’esigenza del broadcaster è tuttavia quella di abbassare l’età anagrafica dell’audience per garantire maggiore longevità alla serie e, allo stesso tempo, quella di rendere meno repellente l’immagine del protagonista del racconto (lo squalo bianco). A occuparsi della campagna è l’agenzia Campfire di New York, che inventa per l’occasione un’esperienza transme-diale chiamata Frenzied Waters basata sull’uso del passaparola mirato, di Facebook e di un sito web in grado di portare il terrore viscerale dell’attacco degli squali direttamente negli oc-chi dell’audience ma… senza mostrarlo. Internet, TV e mondo reale evocheranno dunque una delle paure più ataviche dell’im-maginario collettivo umano (il male assoluto e imprevedibile, la forza inarrestabile della natura) attraverso:

• brevi documentari testuali e in video con storie di persone morte a causa dell’attacco di squali (dalla Seconda Guerra mondiale a oggi), trasmessi online in modo virale e con trai-ler in onda sull’emittente;

• kit formati da barattoli di vetro contenenti resti di abiti, finti articoli di quotidiani e altre testimonianze storiche, spedite a giornalisti selezionati con tanto di nome e cogno-me come se fossero proprio loro le vittime di quell’attacco, insieme con un buon numero di spettatori casuali, in modo da scatenare il buzz online in undici città degli Stati Uniti;

• profili di vittime su Facebook, condivisibili prima della mes-sa in onda del programma e “rinforzati” da una massiccia campagna pubblicitaria online in prossimità della release della serie.

Risultato? In Frenzied Waters, spazio digitale e spazio fisico operano in sequenza e con forme interattive diverse che però

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“suonano tutte insieme la stessa musica” in un crescendo capa-ce di avvertire, intrigare e coinvolgere sempre di più il pubblico nell’attesa della trasmissione televisiva. Storie di finzione che condividono il medesimo universo immaginativo (trattato inve-ce in modo scientifico nella serie) pur tenendo sempre al margi-ne della campagna promozionale, come chiesto dal broadcaster televisivo, la visione diretta e sanguinaria dell’oggetto del rac-conto (ovvero le frenzied waters increspate minacciosamente dagli squali prima dei loro micidiali attacchi).

Figura 1 Dall’alto: brevi documentari televisivi, kit di barattoli e inserzioni online della campagna Frenzied Waters.

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Una precisazione: cross-media o transmedia?

Da qualche tempo nel mondo dell’intrattenimento, dell’infor-mazione e della comunicazione esistono due definizioni che camminano appaiate: cross-media e transmedia, utilizzate en-trambe per identificare narrazioni e universi immaginativi di-stribuiti simultaneamente su più media. La distinzione risiede nella natura delle storie e nel modo che usiamo per raccontarle.

In questo senso, esistono:

• forme di narrazione che non cambiano nel momento in cui vengono declinate su più piattaforme (per esempio un cor-tometraggio distribuito nella stessa versione in una sala ci-nematografica, in streaming sul Web o in differita durante uno show televisivo);

• forme di narrazione che condividono gli stessi elementi nar-rativi e immaginativi (trame, personaggi, atmosfere…) ma cambiano a seconda della piattaforma editoriale sulla quale vengono distribuite (lo stesso cortometraggio potrebbe es-sere riscritto per esempio per una serie a puntate, o rielabo-rato per il cinema; il suo protagonista potrebbe diventare l’eroe di una serie di fumetti, mentre un personaggio secon-dario potrebbe essere il portavoce della storia sui social net-work…).

Nel corso degli anni, il mondo accademico e l’industria han-no seguito l’evoluzione tecnologica di queste forme di racconto utilizzando talvolta definizioni improprie o improvvisate, in al-cuni casi “ribaltandole” addirittura nel giro di pochi mesi.

Per esempio, la seconda modalità di racconto (molto più potente, complessa ed efficace della prima) viene identificata ancora oggi in alcuni Paesi (anche in ambito europeo) con il nome di cross-medialità, distinguendola dalla prima che viene indicata invece come semplice convergenza dei media digitali. La cosa non deve stupire. In questi anni, in mol-ti siamo caduti nelle trappole del tempo mentre creavamo e sperimentavamo i nostri racconti nei “media incrociati”. Poiché ricerca scientifica e produzione industriale e artistica sono ormai allineati, tuttavia, è possibile finalmente mettere

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un punto sulla vexata quaestio della differenza tra le due definizioni. Ebbene.

In ambito internazionale, si utilizza oggi il termine cross-media per forme narrative che coinvolgono diversi media ma restano identiche nelle loro declinazioni sulle diverse piattafor-me. Si usa invece transmedia per storie che mutano in relazio-ne ai diversi mezzi di comunicazione che le distribuiscono. In questo senso, sono transmediali tutti gli esempi selezionati in queste pagine: da quelli corporate, costruiti e gestiti da major e potenti società dei media, a quelli generati invece da picco-le società indipendenti o grassroots, creati cioè “dal basso” da utenti o community di fruitori per fini artistici, comunicativi o espressivi6.

Breve storia della definizione di transmedia

Una storia della definizione del transmedia non è stata ancora scritta e per farlo necessiterebbero fonti accademiche “incro-ciate” con ricerche di settore e piani marketing, casi di studio e report di campagne di lancio e di comunicazione create da network, broadcaster e imprese dei media di tutto il mondo. Una “babele” sterminata di documenti relativi agli ultimi qua-rant’anni di storia del cinema e della fiction, della televisione e del gaming, dei comics, della radio e del Web integrate da conoscenze desunte dalla fisica naturale e dalla statistica, dalla ludologia e dagli studi sull’intelligenza emotiva o sul consumo culturale, dalla filosofia del linguaggio e dal marketing.

Una ricostruzione di quel tipo resta evidentemente al di fuori dell’economia di questo libro; qui di seguito propongo tuttavia un elenco agile ma efficace dei passaggi-chiave più de-terminanti, quelli che hanno contribuito a sperimentare e a ren-dere finalmente consapevole l’uso del transmedia da parte degli autori, del pubblico e degli operatori della comunicazione in tutto il mondo. Un sentiero lungo il quale la sovrapposizione

6 Per la distinzione tra narrazioni corporate e grassroots: H. Jenkins, Cultura con-vergente, Milano 2007.

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dei termini cross-media e transmedia obbliga inevitabilmente, in alcuni casi, a una ricostruzione incrociata.

La prima attestazione della definizione transmedia è attribu-ita alla ricercatrice americana Marsha Kinder che nel 1991, nel suo libro Playing with Power in Movies, Television, and Video-games: From Muppet Babies to Teenage Mutant Ninja Turtles, parlò di “commercial transmedia supersystems” riferendosi a progetti editoriali di importanti franchise mondiali distribuiti su più media.

Con un’accezione molto simile, Paul Zazzera, CEO di Time Inc. usò per la prima volta nel 1996 la definizione cross-media, diffusasi di lì a poco in tutto il mondo grazie soprattutto al suc-cesso mondiale del videogioco Pokémon di Nintendo (1996), all’invenzione di Big Brother (reality show presentato come format cross-mediale dal suo creatore John De Mol, nel 1997) e del film The Blair Witch Project (nel 1999) oltre che alla nascita di Second Life (nel 2003), mondo virtuale che secondo i propri inventori (il Linden Lab di San Francisco) avrebbe permesso ai suoi avatar di sperimentare per la prima volta tutti insieme i media, incrociandoli tra loro all’interno delle proprie isole (sim) digitali.

La definizione di transmedia fu ripresa, sempre nel 2003, da Henry Jenkins, allora condirettore del Comparative Media Studies Program del MIT di Boston, in un articolo intitolato Transmedia Storytelling7, con lo scopo di mettere in eviden-za alcune differenze sostanziali che si stavano affermando in modo scomposto e improvvisato nelle narrazioni distribuite su più media in giro per il mondo. Con gli studi della ricercatrice australiana Christy Dena e con l’olandese Jak Bouman, coor-dinatore in Europa dell’Acten Report, ancora nel 2003, l’uso della definizione di cross-media andò intanto specializzandosi e si sostituì con successo all’altra fino a quando, nel 2010, le sorti si sono capovolte improvvisamente ed è stata scritta una pagi-na determinante di questa storia con l’introduzione del titolo professionale di “transmedia producer” nei credits del cinema hollywoodiano da parte della Producers Guild of America. Da quel punto in poi non c’è stato più spazio per ambiguità.

7 H. Jenkins, Transmedia Storytelling, Technology Review, 15 January 2003.

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Risolta la questione della sua definizione, tuttavia, quando è nato concretamente il transmedia?

L’umanità ha iniziato a sperimentare forme artistiche di transmedialità molto prima della rivoluzione digitale contem-poranea. Tenendo da parte antiche espressioni di racconto inte-grato assimilabili a quelle dei “media incrociati”: dagli affreschi medievali fino alla teorizzazione della Gesamtkunstwerk di Ri-chard Wagner8, la storia ufficiale della narrazione transmediale nasce con il media mix9 delle serie animate giapponesi agli inizi degli anni Settanta, con narrazioni quali Kikaider di Shotaro Ishinomori (1972), cyber-pinocchio protagonista di un manga divenuto poi serie animata e film, ma trova la sua data di nasci-ta più matura e condivisa sul piano globale nel 1976, anno della creazione della saga di Star Wars da parte di George Lucas: il più ricco universo narrativo transmediale di tutti i tempi com-posto da film e libri, serie animate e gadget, game e documen-tari, expanded universe nel Web e fandom, giocattoli, eventi e magazine che hanno coinvolto fino a oggi tre generazioni di consumatori e guardano già, dopo l’acquisizione della major da parte della Disney nel 2012, a una nuova trilogia destinata ai “pronipoti” dei suoi primi estimatori.

Il 1976 è ricordato tuttavia dagli studiosi dei “media incro-ciati” anche per la nascita delle text-adventure – racconti scritti e giocati insieme da più utenti connessi tra loro in Rete – con Colossal Cave di William Crowther, accompagnato dall’affer-mazione mondiale dei gamebook10 con The Cave of Time pub-

8 Il compositore tedesco viene evocato spesso negli studi sul transmedia per un suo scritto incompiuto del 1846: L’opera d’arte del futuro, nel quale Wagner parlava di un’opera d’arte totale, universale, sintesi di discipline poetiche, visuali, musicali e drammatiche, pur identificandola tuttavia con la rappresentazione teatrale a lui contemporanea.

9 Sulle serie giapponesi narrate per mezzo del media mix come antenati del transme-dia, vd. F. Rose, Immersi nelle storie, Milano 2013. Sul piano storico, tuttavia, va notato che mentre il media mix vedeva il coinvolgimento di più piattaforme solo a seguito del successo del prodotto, nel transmedia invece l’universo immaginativo è progettato per più mezzi di comunicazione fin dalla ideazione, e a prescindere dal destino del racconto.

10 Il gamebook è una forma di racconto in seconda persona, articolata in diverse opzioni narrative dipendenti dalle decisioni del lettore. La sua diffusione mondiale si realizzò con la collana per ragazzi “Choose Your Own Adventure” dell’inglese Bantam Books tra il 1979 e il 1998. The Cave of Time fu la prima opera in cata-logo, provvista di 40 finali alternativi.

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blicatodaEdwardPackardnel1979edallanascitadelgiocodiruoloDungeons & DragonsdiGaryGygaxeDaveArnesonnel 1974 ma, soprattutto, dalla trasformazione definitiva del

Figura 2 Alcuni dei prodotti corporate più celebri dell’universo transmediale di StarWars: movie, videogame, serie animate e giocattoli.

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primo Disneyland di Anaheim in un vero e proprio “medium integrato”, parco divertimenti e location da utilizzare per il lancio di pellicole cinematografiche, show televisivi (in accordo con l’emittente ABC) e performance dal vivo a carattere ludico e promozionale11.

Vent’anni più tardi, infine, una seconda generazione di pro-dotti ed esperienze transmediali avrebbe conquistato il mondo partendo stavolta dall’Europa, dove nel 1997 si sono affermati due fondamentali franchise. Non cinema e games stavolta ben-sì televisione − con il già citato Big Brother, prima affermazione delle reality narratives che avrebbero integrato da allora TV e Web, magazine e telefonia − e letteratura, con Harry Potter e la pietra filosofale scritto da J.K. Rowling, primo capitolo della saga di Hogwarts che nel tempo avrebbe “viralizzato” i media e creato fenomeni a carattere transmediale in atto ancora oggi su scala globale: dalla diffusione della fanfiction online alla na-scita di fandom a scopi benefici (come vedremo più avanti). Al tempo in cui la definizione univoca e universalmente valida del transmedia era ancora lontana dall’affermarsi, dunque, la strada della sua applicazione e sperimentazione nella comuni-cazione, nell’informazione e nell’intrattenimento era stata già tracciata, frequentata e sperimentata da società e autori disse-minati in diverse aree del pianeta.

11 “I vari padiglioni del parco offrivano sensazioni visive, sonore e tattili, esatta-mente come quelle offerte da un qualsiasi parco di divertimenti, ma i temi e le narrazioni associate con i giochi, i protagonisti dei cartoni animati in giro per il parco e l’architettura relativa al tema offrivano ai giovani visitatori la sensazione di essere fisicamente circondati dai media”, come si legge in J.D. Bolter, R. Grusin, Remediation, Milano 2003, p. 203.

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