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1 Introduzione alla metodologia della ricerca di Maria Grazia Fischer Il primo obiettivo della scienza è quello di comprendere la realtà. Questo obiettivo si raggiunge attraverso un processo di ricerca , cioè attraverso lo svolgimento strutturato di attività orientate alla comprensione della realtà Una ricerca che rispetti i canoni del metodo scientifico è una ricerca in cui tutti i singoli passaggi e le singole scelte sono espresse in modo chiaro e preciso e, quindi, eventualmente criticabili. Ricerche in cui le scelte sono ambigue e i passaggi delle operazioni empiriche compiute non sono adeguatamente documentate, non consentono la formulazione di critiche e quindi si pongono automaticamente al di fuori dei canoni della scientificità. La ricerca sociale per produrre conoscenza deve affrontare quattro diversi problemi. «La questione ontologica: la "realtà" sotto esame esiste veramente o è una nostra costruzione? Le manifestazioni che avvengono intorno a noi sono "cose in se stesse" o sono " rappresentazioni di cose"? L'ontologia è la branca della filosofia che studia la natura dell'essere, l'essere in quanto tale. La questione epistemologica: la "realtà" sotto esame è veramente conoscibile? Quando possiamo essere sicuri che la conoscenza che possediamo è vera conoscenza? Qual è il rapporto tra ricercatore e realtà studiata? Il ricercatore è parte della realtà che studia o ne è al di fuori? L' epistemologia è la branca della filosofia che si occupa della riflessione sulla conoscenza scientifica; essa abbraccia quasi tutto il campo della gnoseologia, che è la riflessione sulla conoscenza in generale. La questione metodologica : come possiamo fare per conoscere la “realtà”? Quando possiamo essere sicuri che i nostri approcci a tale realtà ci aiutano effettivamente a soddisfare gli obiettivi conoscitivi che ci proponiamo? Il termine metodologia indica l'insieme delle riflessioni sul metodo e sulle tecniche utilizzate in una data disciplina, allo scopo di conoscere l'oggetto della disciplina stessa, e non va confuso con il termine ‘metodo’ che indica invece l’insieme di processi mentali che guidano la scelta di determinate tecniche o strategie di azione, in vista del raggiungimento di un dato obiettivo conoscitivo. Il termine “metodologia” indica quindi l'attività critica esercitata sul metodo e/o sulle tecniche e non il metodo o le tecniche stesse. La questione tecnico -operativa : quali tecniche e strumenti di rilevazione di conoscenze sono adeguati per la realtà sulla quale dobbiamo indagare ? Come dobbiamo applicarle per ottenere un sapere valido e attendibile? Con il termine tecnica di ricerca si intende un procedimento preconfezionato, codificato e relativamente generale volto a risolvere uno specifico problema di raccolta o di analisi dei dati, che tiene conto degli obiettivi e dell'impostazione ontologica ed epistemologica della ricerca in cui è impiegato e non punta alla loro messa in discussione» 1 . Nello schema che presentiamo si è cercato di sintetizzare i differenti modi di concepire la realtà. 1 Trinchero R., Manuale di ricerca educativa , F. Angeli, Milano, 2002

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Introduzione alla metodologia della ricerca di Maria Grazia Fischer Il primo obiettivo della scienza è quello di comprendere la realtà. Questo obiettivo si raggiunge attraverso un processo di ricerca, cioè attraverso lo svolgimento strutturato di attività orientate alla comprensione della realtà Una ricerca che rispetti i canoni del metodo scientifico è una ricerca in cui tutti i singoli passaggi e le singole scelte sono espresse in modo chiaro e preciso e, quindi, eventualmente criticabili. Ricerche in cui le scelte sono ambigue e i passaggi delle operazioni empiriche compiute non sono adeguatamente documentate, non consentono la formulazione di critiche e quindi si pongono automaticamente al di fuori dei canoni della scientificità. La ricerca sociale per produrre conoscenza deve affrontare quattro diversi problemi. «La questione ontologica: la "realtà" sotto esame esiste veramente o è una nostra costruzione? Le manifestazioni che avvengono intorno a noi sono "cose in se stesse" o sono " rappresentazioni di cose"? L'ontologia è la branca della filosofia che studia la natura dell'essere, l'essere in quanto tale. La questione epistemologica: la "realtà" sotto esame è veramente conoscibile? Quando possiamo essere sicuri che la conoscenza che possediamo è vera conoscenza? Qual è il rapporto tra ricercatore e realtà studiata? Il ricercatore è parte della realtà che studia o ne è al di fuori? L'epistemologia è la branca della filosofia che si occupa della riflessione sulla conoscenza scientifica; essa abbraccia quasi tutto il campo della gnoseologia, che è la riflessione sulla conoscenza in generale. La questione metodologica: come possiamo fare per conoscere la “realtà”? Quando possiamo essere sicuri che i nostri approcci a tale realtà ci aiutano effettivamente a soddisfare gli obiettivi conoscitivi che ci proponiamo? Il termine metodologia indica l'insieme delle riflessioni sul metodo e sulle tecniche utilizzate in una data disciplina, allo scopo di conoscere l'oggetto della disciplina stessa, e non va confuso con il termine ‘metodo’ che indica invece l’insieme di processi mentali che guidano la scelta di determinate tecniche o strategie di azione, in vista del raggiungimento di un dato obiettivo conoscitivo. Il termine “metodologia” indica quindi l'attività critica esercitata sul metodo e/o sulle tecniche e non il metodo o le tecniche stesse. La questione tecnico -operativa: quali tecniche e strumenti di rilevazione di conoscenze sono adeguati per la realtà sulla quale dobbiamo indagare ? Come dobbiamo applicarle per ottenere un sapere valido e attendibile? Con il termine tecnica di ricerca si intende un procedimento preconfezionato, codificato e relativamente generale volto a risolvere uno specifico problema di raccolta o di analisi dei dati, che tiene conto degli obiettivi e dell'impostazione ontologica ed epistemologica della ricerca in cui è impiegato e non punta alla loro messa in discussione»1. Nello schema che presentiamo si è cercato di sintetizzare i differenti modi di concepire la realtà.

1 Trinchero R., Manuale di ricerca educativa , F. Angeli, Milano, 2002

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REALTÀ

OGGETTIVA Esiste una realtà oggettiva, separata dall’osservatore che la studia

COSTRUZIONE SOCIALE Problema dell’esistenza della realtà subordinato al problema della percezione che noi abbiamo di essa, che, indipendentemente dal fatto che esista o meno, è solo un riflesso della nostra attività mentale di costruzione di significato

Conoscibile in modo deterministico

Conoscibile in modo probabilistico

REALISMO

Individuare i fattori che spiegano determinate regolarità empiriche

o Individuare i fattori che spiegano determinate regolarità empiriche interpretando tali regolarità alla luce di un quadro teorico

APPROCCIO ESPLICATIVO (Tende ad individuare le leggi universali che governano i fenomeni e/o regolarità tendenziali continuamente soggette a falsificazioni, cioè a confutazioni e sostituzioni di una teoria, qualora questa venga palesemente confutata dai fatti)

TECNICHE QUANTITATIVE DI RACCOLTA E ANALISI DEI DATI

INTERPRETATIVISMO

Interpretare i fenomeni per comprendere le scelte dei soggetti che sono alla base di determinate regolarità empiriche

APPROCCIO COMPRENDENTE (studio o ricerca che ha per oggetto casi particolari e quindi evita le generalizzazioni)

TECNICHE QUALITATIVE DI RACCOLTA E ANALISI DEI DATI

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In sociologia, tradizionalmente, si sono contrapposte due diverse prospettive, ma a partire dagli anni ottanta è man mano risultata evidente la necessità di superare i dualismi che hanno caratterizzato il linguaggio di questa disciplina. Individuo-società, antipositivismo-positivismo, volontarismo-determinismo, individualismo-collettivismo, soggettivismo-oggettivismo, atomismo-olismo: in particolare la questione in Gran Bretagna è stata definita prevalentemente come rapporto azione-struttura e negli USA è prevalso il « micro-macro link ». Il rapporto micro-macro fa prevalere l’elemento della “dimensione”, cioè contrappone eventi di piccola o ampia scala: studiare il sistema scolastico italiano significa fare riferimento al macro; studiare i rapporti allievi-docente od i rapporti fra gli studenti in una classe scolastica significa fare riferimento al micro. Micro-macro link o azione-struttura sono le due prospettive di ricerca che per decenni hanno diviso la comunità scientifica; negli anni ’80, come si è detto, numerosi e autorevoli sociologi (ad esempio Giddens e Bourdieu) hanno tentato una ricomposizione in una terza prospettiva che vede struttura e azione intimamente costitutivi l’una dell’altra e propone una inseparabilità ontologica che rende impossibile ogni tentativo di analisi delle loro interrelazioni. Negli anni ’90 alcuni critici, fra cui spicca la Archer, hanno compiuto serie e convincenti analisi critiche di queste tre prospettive, contestando la visione del sociale come unità indivisibile di azione e struttura, contrapponendole, con la prospettiva che viene definita realismo critico, una visione stratificata della realtà sociale, in base alla quale ciascuno strato ha proprietà autonome e la capacità di influire sull’altro. All’approccio giddensiano della dualità della struttura si contrappone, così, il dualismo analitico , un metodo per studiare l’interazione reciproca fra agire e struttura, “dualismo” in quanto i due elementi possiedono specifiche proprietà emergenti, e “ana litico” per il fatto che i due strati sono interrelati ed ogni forma sociale dipende sempre dalle attività umane. Il modo metodologico che rende possibile studiare le interazioni fra agire e struttura e spiegarne i cambiamenti è il tempo. La struttura precede sempre le azioni, che però hanno la capacità di trasformarla e l’elaborazione della struttura è inevitabilmente successiva a tali azioni2. Anche grazie a questa prospettiva, dal punto di vista metodologico , sta cambiando la considerazione del rapporto tra quantitativo e qualitativo, troppo spesso visto in termini di contrapposizione fra una logica della spiegazione (olismo) e una logica della comprensione (individualismo): occorre ricordare che già Weber non opponeva le due logiche, mentre è poi stato l’approccio fenomenologico a farlo. Infatti questo autore affermava che la comprensione si aggiungeva semplicemente alla spiegazione, comunque indispensabile. Pertanto mettere in antitesi quantitativo e qualitativo è altrettanto sbagliato che contrapporre azione e struttura o micro e macro e quindi i metodologi dovrebbero superare questo atteggiamento, come già stanno cercando di fare i più avveduti teorici della sociologia. La necessità di non sacrificare né il quantitativo né il qualitativo è passata attraverso tre diverse strategie. 1) una strategia di oscillazione temporale, per cui, pur non rinunciando mai all’utilizzazione dei due orientamenti, il pendolo è andato, in termini di prevalenza dal quantitativo al qualitativo e viceversa. 2) Una strategia di compartimentazione, per cui, nel medesimo momento, si sono costituite comunità di ricercatori, tra loro separate, che applicano o solo tecniche quantitative o solo tecniche qualitative. 3) Una strategia di compromesso che, oggi, costituisce forse il modo più interessante di affrontare il problema perché cerca di trovare nuovi spazi di integrazione fra i due tipi di tecniche. Questa terza strategia pare la più valida: essa parte, come già precedentemente spiegato da una prospettiva come quella della Archer, che deriva dalla premessa ontologica secondo la quale la realtà

2 Per un approfondimento si consiglia il testo M. S. Archer, La morfogenesi della società. Una teoria sociale realista, trad. it. Angeli, Milano, 1997

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sociale è costituita da più livelli, cioè fondata sul rapporto di interazione reciproca fra struttura e azione. Le strutture influenzano, ma non determinano, l’azione degli individui, che a loro volta producono le strutture sociali stesse, ma non nell’immediatezza dei rapporti faccia a faccia. Questa prospettiva, che viene definita di realismo critico, non propone particolari metodologie di ricerca, ma utilizza sia tecniche quantitative che qualitative, in relazione al tipo di indagine ed all’oggetto di studio. In questo senso usare sia strumenti quantitativi che qualitativi non deriva, semplicemente, dall’ovvia considerazione che si possono produrre ricerche buone (o cattive) sia quantitative che qualitative, ma dal fatto che la realtà sociale da studiare è costituita da una pluralità di livelli che può essere più opportuno analizzare prevalentementemente con uno o l’altro dei due approcci, ambedue utili e corretti. Dunque occorre operare sulla base di un pluralismo metodologico e non seguendo rigidamente un insieme più o meno limitato di tecniche. Una ricerca sociologica corretta non deve, pertanto, limitarsi ad applicare un solo tipo di approccio (come fanno i quantitativi ed i qualitativi radicali) evitando soprattutto che il focalizzarsi su di un tipo di metodologia riduca la visione della realtà sociale ad un unico livello, a scapito degli altri, dimenticando il fondamentale pluralismo di essa. Si può dire, con riferimento a Ricolfi, che le caratteristiche essenziali della “famiglia” delle tecniche quantitative sono:

1. l’impiego della matrice dei dati; 2. la presenza di definizioni operative per la costruzione delle variabili; 3. l’utilizzazione della statistica nell’analisi dei dati.

All’opposto le metodologie qualitative si caratterizzano per: 1. l’assenza della matrice dei dati; 2. la non ispezionabilità della base empirica; 3. il carattere non formalizzato delle procedure di analisi dei dati

LE TAPPE DEL PROCESSO DI RICERCA Il problema della conoscenza scientifica si pone nella stessa maniera per i fenomeni sociali e per i fenomeni naturali: in entrambi i casi delle ipotesi teoriche devono essere confrontate con dei dati, frutto di osservazione o di sperimentazione. Un processo è un modo di progredire verso un fine: presentare un determinato processo scientifico consiste dunque nel descrivere i principi fondamentali da mettere in opera in un lavoro di ricerca. I metodi non sono altro che delle “messa in forma ” particolari del processo, dei cammini differenti e concepiti in modo da essere quanto più adatti possibile ai fenomeni o domini studiati. Ma questo adattamento non dispensa il ricercatore dal restare fedele ai principi fondamentali del processo scientifico. Mettendo l'accento sul processo piuttosto che sui metodi particolari, la proposta di un particolare percorso di ricerca cerca di avere una portata generale , in modo da poter essere applicata a tutte le forme di lavoro scientifico ed alle scienze sociali. I principi fondamentali che le ricerche dovrebbero rispettare possono essere riassunte in sette tappe: in ciascuna di esse sono descritte le operazioni da intraprendere per raggiungere la tappa seguente e progredire3. Prima tappa: la domanda di partenza Il modo migliore di iniziare un lavoro di ricerca sociale consiste nello sforzarsi di enunciare il progetto sotto forma di una domanda di partenza. Con questa domanda il ricercatore tenta di esprimere il più 3 Quivy R., Van Campenhoudt, Manual de recherce en sciences sociales, Dunod, Paris, 1995

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esattamente possibile quel che cerca di scoprire o chiarire o comprendere meglio: la domanda di partenza servirà da primo filo conduttore della ricerca. Per compiere correttamente la sua funzione, la domanda di partenza deve avere un certo numero di qualità: chiarezza, fattibilità e pertinenza: • chiarezza: deve essere precisa coincisa ed univoca. • fattibilità: deve essere realistica • pertinenza: deve essere una vera domanda, affrontare lo studio di quello che già esiste in merito, avere l’intento di comprendere o di spiegare, e non un fine moralizzatore o filosofico. Seconda tappa: l'esplorazione Il progetto di ricerca che è stato provvisoriamente formulato sotto forma di una domanda di partenza, deve, in seguito, raggiungere una certa qualità di informazione sull'oggetto studiato e trovare il modo migliore di affrontarlo. È questo il ruolo del lavoro esplorativo. L’esplorazione si compone di due parti che sono sovente eseguite parallelamente: da una parte un lavoro di lettura e dall'altra delle interviste o altri metodi appropriati. Le letture preparatorie servono inizialmente da ad informarsi tramite ricerche già fatte sul tema su cui si lavora e a collocare il nuovo contributo immaginato in rapporto ad esse. Grazie alle sue letture il ricercatore potrà inoltre mettere in evidenza la prospettiva che gli sembra più pertinente per affrontare il suo oggetto di ricerca. La scelta delle letture deve essere fatta in funzione di criteri ben precisi: legami con la domanda di partenza, dimensione ragionevole del programma, elementi di analisi e di interpretazione, approcci diversificati, tempi consacrati alla riflessione personale e a scambi di vedute. Inoltre la lettura propriamente detta deve essere effettuata con l'aiuto di una griglia di lettura appropriata agli obiettivi perseguiti. Infine dei riassunti correttamente strutturati o degli schemi permetteranno di far emergere le idee essenziali dei testi studiati e di compararle fra di loro. Le interviste esplorative completano utilmente le letture. Esse permettono al ricercatore di prendere coscienza di aspetti della domanda alle quali la propria esperienza e le letture fatte non l’avevano reso sensibile. Le interviste esplorative non possono servire a questa funzione a meno che non siano poco direttive perché l'obiettivo non consiste nel verificare le idee preconcette del ricercatore ma bensì ad immaginarne di nuove. I fondamenti del metodo sono da ricercare nei principi della non direttività, adattati in funzione di un'applicazione alle scienze sociali. Il ricercatore è interessato a tre tipi di interlocutori: specialisti scientifici dell'oggetto studiato, testimoni privilegiati e persone direttamente coinvolte. La gestione delle interviste è doppio. Da una parte, i discorsi intesi possono essere usati direttamente in quanto fonte di informazione; d'altra parte l’intervista può essere decodificata come un processo nel corso del quale l'interlocutore esprime su se stesso una verità più profonda di quella immediatamente percepibile dall’intervistatore. Le inchieste esplorative sono spesso messe in opera allo stesso tempo di altri metodi complementari quale l'osservazione e l'analisi di documenti. Al termine di questa tappa il ricercatore può essere portato a riformulare la propria domanda di partenza in un modo che tenga conto delle conoscenze acquisite con il suo lavoro esplorativo. Terza tappa: la problematica A questo punto bisogna costruirsi una problematica: questa fase della ricerca è estremamente importante in quanto la problematica costituisce il principio di orientamento teorico della ricerca e ne definisce le linee guida. Costruirsi una problematica vuol dire scegliere un orientamento teorico, un

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rapporto con l’oggetto studiato. È una scelta che non può essere fatta in astratto ma in relazione alla domanda di partenza ed al suo oggetto. Questo oggetto d’analisi è collocato storicamente e socialmente, può essere, ad esempio, il suicidio, l’insuccesso scolastico, il funzionamento di un’impresa, un cambiamento di tipo culturale o normativo ecc.. La problematizzazione consisterà nel formulare un progetto di ricerca articolando due dimensioni che si fondono: una prospettiva teorica ed un oggetto di ricerca concreto. Dotarsi di una problematica è anche esplicitare il quadro concettuale della propria ricerca, cioè descrivere il quadro teorico in cui si inserisce il processo personale del ricercatore, precisare i concetti fondamentali ed i legami fra di essi, costruire un sistema concettuale adatto all’oggetto della ricerca. È alla luce della problematica emersa che la domanda di partenza assume un senso particolare e preciso. Quando questa non è stata ben precisata precedentemente, la scelta di una problematica può anche essere l'occasione di riformularla rendendola più precisa. Concepire una problematica può essere fatto in due tempi: inizialmente si fa il punto delle problematiche possibili, se ne individuano le caratteristiche e le si confrontano; per far questo ci si rifà ai risultati ottenuti nella fase esplorativa, si cerca di far emergere le prospettive teoriche sottese agli approcci trovati ed è anche possibile che se ne incontrino di nuovi. In un secondo tempo, ma ora con conoscenza di causa, si sceglie e si esplicita la propria problematica. Fare questa scelta significa adottare un quadro teorico veramente adatto al problema e che si sia i grado di padroneggiare sufficientemente. Per esplicitare la propria problematica, si ridefinisce il meglio possibile l’oggetto della ricerca, precisando il punto di vista dal quale si è deciso di affrontarlo e si riformula la domanda di partenza in modo che essa diventi la questione centrale della ricerca. Parallelamente si espone l’orientamento teorico adottato e lo si ristruttura in funzione dell’oggetto della ricerca in modo da ottenere “un sistema concettuale organizzato” appropriato a quello che si sta cercando. Quarta tappa: la costruzione del mode llo di analisi Il modello di analisi costituisce il prolungamento naturale della problematica, articolando in una forma razionale i riferimenti e le piste che saranno infine usati per sovrintendere al lavoro di osservazione e di analisi. È composto da concetti e da ipotesi, strettamente articolati fra di loro per formare insieme un quadro di analisi coerente. La concettualizzazione, o costruzione dei concetti, costituisce una costruzione astratta che cerca di rendere conto della realtà per questo essa non prende in considerazione tutti gli aspetti della realtà considerata ma soltanto quelli essenziali dal punto di vista del ricercatore. Si tratta dunque di una costruzione-selezione. La costruzione di un concetto consiste nello stabilire le dimensioni che lo costituiscono e nel precisarne gli indicatori grazie ai quali queste dimensioni potranno essere misurate. Si distinguono i concetti di operativi isolati che sono costruiti empiricamente a partire da osservazioni dirette o da informazioni raccolte e i concetti sistemici che sono costruiti tramite ragionamento astratto. Un'ipotesi è una proposizione che anticipa una relazione fra due termini che, secondo i casi, possono essere dei concetti o dei fenomeni: essa è dunque una proposizione provvisoria, una supposizione, che chiede di essere verificata. L'ipotesi sarà confrontata, in una tappa ulteriore della ricerca, con dati osservati. Quinta tappa: l'osservazione L’osservazione comprender insieme delle operazioni tramite le quali il modello d'analisi è confrontato con dei dati osservabili. Nel corso di questa tappa, sono raccolte numerose informazioni. Esse saranno

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sistematicamente analizzate in una tappa ulteriore. L’osservazione permette di rispondere alle tre domande seguenti: osservare cosa? rispetto a chi? Come? Osservare cosa? I dati da raccogliere sono quelli utili alla verifica delle ipotesi. Essi sono determinati dagli indicatori delle variabili. Vengono chiamati dati pertinenti. Osservare rispetto a chi? Si tratta di circoscrivere il campo dell’analisi empirica nello spazio geografico, sociale e nel tempo. A seconda dei casi, il ricercatore potrà studiare sia l'insieme della popolazione considerata, sia soltanto un campione rappresentativo o significativo di questa popolazione Osservare come? Questa terza è relativa agli strumenti di osservazione ed alla raccolta dei dati propriamente detta. L'osservazione comporta in effetti tre operazioni: 1. Concepire lo strumento capace di fornire le informazioni adeguate e necessarie per testare le ipotesi, per esempio un questionario, uno schema di intervista o una griglia d'osservazione diretta. 2. Testare lo strumento d'osservazione prima di utilizzarlo sistematicamente, in modo da assicurarsi che il suo grado di adeguatezza e di precisione sia sufficiente. 3. Metterlo sistematicamente in opera e procedere così alla raccolta dei dati pertinenti. Nel osservazione, l'importante non è soltanto raccogliere delle informazioni che rendano conto del concetto (tramite gli indicatori), ma anche ottenere queste informazioni sotto una forma che permetta di applicare anche il trattamento necessario alla verifica delle ipotesi. È dunque necessario ‘anticipare’, cioè di farsi carico della progettazione dello strumento d'osservazione, del tipo di informazione che esso fornirà e del tipo di analisi che dovrà e potrà essere previsto. La scelta dei differenti metodi di raccolta dei dati dipende dalle ipotesi di lavoro e dalla definizione dei dati pertinenti che ne deriva. Inoltre è necessario tener conto delle esigenze di formazione necessarie ad una corretta messa in opera di ciascun metodo. Sesta tappa: l'analisi delle informazioni L’analisi delle informazioni è la tappa che tratta l'informazione ottenuta con l’osservazione per presentarla in modo da poter comparare i risultati osservati ai risultati attesi in base all'ipotesi. Nello scenario di un'analisi dei dati quantitativi, questa tappa comprende tre operazioni. Tuttavia i principi del processo possono, per la maggior parte, essere usati anche da altri tipi di metodi. La prima operazione consiste nel descrivere i dati: si tratta, da un lato, nel presentarli sotto la forma richiesta dalle variabili contenute nelle ipotesi e nel fare in modo che le caratteristiche di queste variabili siano messe bene in evidenza dalla descrizione. La seconda operazione consiste nel misurare le relazioni fra le variabili, in modo conforme al modo in cui queste relazioni sono state previste dalle ipotesi. La terza operazione consiste nel comparare le relazioni osservate con le relazioni attese in modo teorico sulla base dell'ipotesi e nel misurare lo scarto fra le due. Se lo scarto è nullo o molto debole, si potrà concludere che l'ipotesi è confermata; in caso contrario bisognerà cercare di comprendere da che cosa deriva lo scarto e trarne de lle conclusioni appropriate. I principali metodi d'analisi delle informazioni sono le analisi statistiche dei dati e l'analisi del contenuto. La field research costituisce un esempio di messa in opera complementare dei differenti metodi d'osservazione e di analisi delle informazioni. Settima tappa: le conclusioni Le conclusioni di un lavoro sono la parte che i lettori leggono generalmente per prima cosa. Grazie alla lettura di qualche pagina delle conclusioni il lettore potrà farsi un'idea dell'interesse che può avere per lui la ricerca senza dover leggere tutto rapporto. A partire da questa rapida diagnostica egli deciderà se leggere o meno l'intero rapporto o alcune delle sue parti. Conviene dunque redigere le conclusioni con molta attenzione e farvi comparire le informazioni utili ai potenziali lettori. La conclusione di un lavoro di ricerca sociale comprenderà generalmente tre parti: per primo un riassunto in grandi linee del processo di ricerca che è stato seguito; in secondo luogo una presentazione

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dettagliata degli apporti di conoscenza di cui il lavoro è all'origine e infine delle prospettive di ordine pratico. Spesso il ricercatore desidera che il suo lavoro serva a qualcosa. Sovente, tuttavia, le conclusioni di una ricerca non conducono ad applicazioni pratiche chiare e indiscutibili. Questo si rivela possibile se il lavoro è molto tecnico, come ad esempio negli studi di mercato. Ma in generale i legami tra ricerca e azione non sono immediati. Le prospettive pratiche di una ricerca in scienze sociali dipendono principalmente dalla sua capacità di definire l’aspetto normativo di una situazione o di un problema, il margine di manovra degli attori rispetto a determinati vincoli, e, di conseguenza, la loro responsabilità. Consideriamo, ora, in modo più approfondito le varie tappe del processo di ricerca. I La domanda di partenza Il primo problema che si pone al ricercatore è come iniziare bene il proprio lavoro. Non è facile in effetti arrivare a tradurre quello che si presenta normalmente come un argomento interessante o una preoccupazione relativamente vaga in un progetto di ricerca operazionale. La difficoltà di iniziare bene il lavoro deriva spesso dal desiderio di voler essere perfetti e di formulare subito un progetto di ricerca in modo completamente soddisfacente: è un errore. Una ricerca è per definizione qualche cosa che si cerca, è un cammino verso una migliore conoscenza e deve essere accettata come tale, con tutto quello che implica di esitazioni, errori ed incertezze. Il ricercatore deve scegliere rapidamente un primo filo conduttore quanto più chiaro possibile, in modo che il suo lavoro possa iniziare senza ritardi e strutturarsi in modo coerente. Poco importa se la riflessione del ricercatore non sembra ancora completamente matura o se, probabilmente, cambierà prospettiva durante il lavoro. Questo punto di partenza è provvisorio, come un campo base che gli alpinisti costruiscono per prepararsi a scalare la vetta di una montagna e che abbandoneranno per altri campi più avanzati fino alla scalata finale. Per costruire il proprio punto di partenza si può suggerire una formula: sforzarsi di enunciare il proprio progetto di ricerca sotto la forma di una domanda di partenza con la quale il ricercatore cercherà di esprimere, il più chiaramente possibile, ciò che cerca di sapere, spiegare, comprendere meglio. Per adempiere correttamente alla sua funzione, questo esercizio deve, logicamente, essere effettuato secondo determinate regole che saranno, successivamente, precisate e illustrate. Ricordiamo che anche gli autori più famosi (cominciando da Durkheim) non hanno esitato ad enunciare i loro progetti di ricerca sotto forma di domande semplici e chiare, anche se queste domande sottintendevano una riflessione teorica molto consistente. La domanda di pa rtenza, va sottolineato, deve essere messa per iscritto: il motivo è semplice: una buona ricerca si fonda sempre su di un soggetto di ricerca preciso e la scrittura è uno dei modi migliori per chiarirci le idee. Formulando per iscritto le nostre idee, prendiamo coscienza di quello che è esplicito e di quanto è ancora confuso; siamo obbligati a strutturare i nostri pensieri, a precisarli e completarli: la scrittura ci consente di produrre dei pensieri articolati e precisi4. Tradurre il progetto di ricerca sotto forma di una domanda di partenza, non è facile come può apparire: si vedrà come questo lavoro, lungi dall'essere strettamente tecnico e formale, obblighi il ricercatore a chiarire in modo sovente molto utile le proprie intenzioni e le proprie prospettive. In questo senso, la domanda di partenza costituisce un primo mezzo di messa in opera d'una dimensione essenziale del processo scientifico: il superamento dei pregiudizi e delle nozioni già possedute. L’insieme delle qualità attese può essere riassunta in poche parole: una buona domanda di partenza deve poter essere elaborata. Questo significa che, partendo da essa, bisogna poter lavorare efficacemente e che deve essere possibile, in particolare, apportarle degli elementi di risposta. 4 Cfr. Déperlteau F., La démarche d’une recherche en sciences humaines, DeBoeck, Bruxelles, 2000.

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Chiariamo meglio come dovrebbero essere strutturate le domande di partenza: abbiamo detto che fra le caratteristiche fondamentali debbono esserci: Chiarezza - Precisione Consideriamo la seguente domanda: Qual è l'impatto dei cambiamenti nella pianificazione dello spazio urbano sulla vita degli abitanti? Questa domanda è troppo vaga, a quale tipo di cambiamenti si fa riferimento? Cosa si intende per la vita degli abitanti? (Vita professionale, familiare, sociale, culturale) Si fa allusione alla loro facilità di spostamento? Si potrebbe facilmente allungare la lista delle possibili interpretazioni di una domanda che appare ambigua. Converrà dunque formulare una domanda precisa il cui senso non si presti a confusioni. Sarà spesso indispensabile definire chiaramente i termini della domanda di partenza, ma bisogna inizialmente sforzarsi di essere il più possibile chiari nella formulazione della domanda stessa. C'è un modo molto semplice per assicurarsi che una domanda sia precisa. Consiste nel formularla davanti a un piccolo gruppo di persone evitando accuratamente di commentarla o di esporne il senso. Ogni persona del gruppo sarà invitata a spiegare il modo in cui ha compreso la domanda. La domanda è precisa se le interpretazioni convergono e corrispondono all'intenzione del suo autore. Una domanda può essere precisa e compresa nella stesso modo da tutti senza pertanto essere limitata ad un problema insignificante o molto marginale. Consideriamo la domanda seguente: "quali sono le cause della diminuzione degli impieghi nell'industria piemontese?". Questa domanda è precisa nel senso che ciascuno la comprenderà nella stessa maniera e tuttavia copre un campo di analisi molto vasto. Una domanda precisa non è dunque il contrario di una domanda larga o molto aperta ma di una domanda vaga o ambigua. In breve, per poter essere elaborata, una buona domanda di partenza dovrà essere precisa. Univocità-concisione In quale misura l'aumento della perdita di impieghi nel settore delle costruzioni spiega il mantenimento di grandi progetti di lavori pubblici destinati non soltanto a sostenere questo settore ma anche a diminuire i rischi di conflitti sociali che questa situazione comporta? Questa domanda è naturalmente troppo lunga e ingarbugliata. È preferibile formulare la domanda di partenza in maniera univoca e concisa affinché possa essere compresa senza difficoltà e aiutare il suo autore a raggiungere l'obiettivo perseguito. Dunque per poter essere elaborata, una buona domanda di partenza sarà univoca e quanto più concisa possibile. Fattibilità I capi d'impresa dei differenti paesi della comunità europea hanno un' identica idea della concorrenza economica degli Stati Uniti e della Cina? Se si possono consacrare almeno due anni completi a questa ricerca, se si dispone di un budget di molte centinaia di migliaia di euro, se si hanno collaboratori competenti, efficaci e poliglotti, esiste una possibilità di portare a buon fine un simile progetto e di raggiungere dei risultati abbastanza dettagliati da essere di qualche utilità. In caso contrario è preferibile restringere le proprie ambizioni. Quando formula una domanda di partenza, il ricercatore deve assicurarsi che le sue conoscenze, ma anche le sue risorse in fatto di tempo, denaro e mezzi logistici, gli permettano di raggiungere degli elementi di risposta validi. Quello che è possibile per un centro di ricerca di grandi dimensioni con abbondanza di mezzi tecnici e con ricercatori professionali non lo è per chi non dispone di risorse di

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quel tipo. Per poter essere elaborata, una buona domanda di partenza deve essere realistica, cioè in rapporto con le risorse personali materiali e tecniche che si può pensare saranno necessarie e sulle quali si può ragionevolmente contare. Pertinenza Le qualità di pertinenza concernono il registro (esplicativo, normativo, predittivo,...) da cui dipende la domanda di partenza. Vediamo alcuni esempi di domande che presentano problemi. Il modo in cui la fiscalità è organizzata nel nostro paese è socialmente giusta? Questa domanda non ha evidentemente il fine di analizzare l'aggiornamento del sistema fiscale ma di giudicarlo sul piano morale, il che costituisce un tipo di percorso che non è pertinente alle scienze sociali. La confusione fra questi due punti di vista differenti si verifica frequentemente e non è facile da scoprire. In generale si può dire che una domanda è moralizzatrice quando la risposta che le si dà non ha senso se non in rapporto al sistema di valori di chi la formula. Così, la risposta sarà radicalmente differente a seconda che risponde consideri giusto far pagare una quota uguale a tutti indistintamente, qualunque sia il loro reddito (come avviene nelle imposte indirette), oppure una parte proporzionale al proprio reddito, o una quota proporzionalmente più grande a seconda dell'importanza della reddito (l'imposizione progressiva che viene applicata per le imposte dirette). Questa ultima formula, considerata giusta da alcuni perché contribuisce ad attenuare le disuguaglianze economiche, sarà giudicata ingiusta da altri che stimeranno che, in questo modo, il fisco estorce i frutti del lavoro in misura maggiore a loro che agli altri. I legami tra la ricerca sociale e il giudizio morale sono evidentemente più stretti e più complessi di quanto non lasci supporre questo semplice esempio. Il ricercatore deve evitare le confusioni a questo riguardo sin dall'inizio della ricerca perché, se è legittimo che essa sia ispirata da uno scopo di ordine morale, la ricerca stessa deve affrontare la realtà in termini di analisi e non di giudizio. Questo può non essere semplice perché, nella vita, questi due punti di vista complementari vengono spesso confusi. Alcuni sono convinti sia giusto terminare un lavoro di ricerca o una dissertazione inserendo un piccolo tocco moralizzatore mentre invece il ricercatore deve saper prescindere dai pregiudizi e dai valori personali. La ricerca sociale può, certo, prendere i valori e le norme morali come oggetto di studio ma non deve dare giudizi morali: al contrario, una riflessione morale sugli orientamenti ed i procedimenti delle ricerche sociali è non soltanto necessaria ma indispensabile. Dunque una buona domanda di partenza non sarà moralizzatrice, cercherà non di giudicare ma di comprendere. Qual è il senso della vita? Questa domanda è pura filosofia. I metodi di analisi delle sc ienze sociali non hanno alcuna presa su di essa perché questi metodi non sono concepiti per riflettere sul senso delle cose e della vita collettiva ma per analizzare le modalità e i processi di trasformazione. Ancora una volta questo non significa che queste domande non siano interessanti o che la filosofia e le scienze sociali non abbiano nulla in comune. Al contrario la riflessione filosofica è indispensabile al progresso delle discipline scientifiche perché essa permette di chiarire i fondamenti stessi della conoscenza. In particolare, l'epistemologia ha per funzione di sottomettere tutte le forme di conoscenza ad un esame critico, destinato a chiarirne i fondamenti. Senza riflessione epistemologica, il ricercatore non può trovare i limiti e la portata de lle crisi in atto e, perdendo il controllo critico del proprio lavoro, si illude sulla validità dei risultati ottenuti. Chi, invece sa riflettere sui presupposti teorici e metodologici del proprio lavoro (e di quello degli altri) è in grado di farne un esame critico e quindi può non solo approfondirli e superarli, ma anche controllare costantemente la validità del processo metodologico che sta realizzando. Una buona domanda di partenza non può essere esclusivamente di ordine filosofico.

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I padroni sfruttano i lavoratori? Questa è in realtà "una falsa domanda" o, per meglio dire, una affermazione mascherata da domanda. È evidente che nella mente di chi l'ha posta, la risposta è sì (o no), a priori. Dimostrare che è così oppure no, non è possibile: sarebbe sufficiente selezionare adeguatamente i criteri e i dati e presentarli nella maniera più conveniente. Sono numerose le cattive domande di partenza di questo tipo. Un altro esempio può essere: "La frode fiscale è una delle cause del deficit del bilancio de llo Stato?". Anche in questo caso, si può facilmente immaginare che il ricercatore abbia già, in partenza, un’idea molto precisa della risposta che vuole ottenere. L'esame di una domanda di partenza deve includere una riflessione sulle motivazioni e sulle intenzioni dell'autore, anche quando esse non possono essere immediatamente rilevate dall'enunciato stesso della domanda, come negli esempi fatti. Una buona domanda di partenza sarà dunque una vera domanda, una domanda aperta: essa non deve prevedere un’unica, scontata, risposta ma chi la pone deve aspettarsi di ricevere realmente risposte varie e diverse, che siano in grado di accrescere il suo livello di conoscenza del problema e non si limitino a confermare i suoi pregiudizi. Quali cambiamenti si verificheranno nell'organizzazione dell'insegnamento fra una decina d’ anni? L'autore di questa domanda vuole, in realtà, procedere ad un insieme di previsioni sull'evoluzione di un determinato settore della vita sociale: in tal modo rivela di nutrire le più ingenue illusioni sulla portata di un lavoro di ricerca sociale. Un astronomo può prevedere con molto anticipo il passaggio di una cometa in prossimità del sistema solare, perché la sua traiettoria risponde a delle leggi stabili alle quali essa non ha la possibilità di sottrarsi. Quando si tratta di attività umane , i cui orientamenti non possono mai essere previsti in maniera certa , le cose funzionano in modo completamente diverso. Il ricercatore dovrebbe attenersi allo studio di ciò che già sussiste e funziona, prima di studiare quello che potrà esistere ma non c’è ancora. Una buona domanda di partenza deve implicare lo studio di un qualcosa di già esistente e non qualcosa che ancora non esiste: il cambiamento deve essere studiato basandosi sull’esame del funzionamento. I giovani sono toccati più fortemente degli adulti dalla disoccupazione? Questa domanda attende una risposta puramente descrittiva , nel senso che essa ha come obiettivo di conoscere meglio i dati di una situazione. Anche se non si può rispondere in poco tempo, facendo semplicemente ricorso alle statistiche esistenti e se questa informazione richiede un vero lavoro di ricerca, è comunque troppo poco. Per far bene una ricerca, bisogna sì raccogliere un certo numero di dati ma ci si attende anche che si manifesti un desiderio di comprensione, non superficiale, del fenomeno studiato (in questo caso la disoccupazione giovanile). L'intenzione del ricercatore in scienze sociali non è unicamente di descrivere ma di comprendere ed è in funzione di questo sforzo di comprensione che bisogna procedere alla raccolta dei dati con l'osservazione o la sperimentazione: comprendere significa rendere i fenomeni osservabili quanto più possibile chiari e comprensibili. Quindi una buona domanda di partenza dovrà avere l’intento di comprendere e spiegare. Riassumendo, si può affermare che una buona domanda di partenza è quella con cui il ricercatore tenta di mettere in evidenza il processo sociale, economico, politico o culturale, che permette di meglio comprendere i fenomeni e gli avvenimenti osservabili e di interpretarli nel modo più giusto. Queste

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domande richiedono delle risposte in termini di opinioni, di strategie, di modi di funzionamento, di rapporti e di conflitti sociali, di relazioni di potere, di invenzione, di diffusione o di integrazione culturale, per non citare che qualche esempio classico di punti di vista che derivano dall'analisi nelle scienze sociali. Quello che deve essere chiaro a questo punto sono i tre livelli necessari perché una domanda di partenza sia ben fatta:

1. esigenza di chiarezza, in modo da essere operazionale 2. esigenze di fattibilità 3. esigenze di pertinenza, per poter servire da primo filo conduttore ad un lavoro nel campo

della ricerca sociale. II L’ESPLORAZIONE Costruita la domanda di partenza, è ora necessario raccogliere un certo numero di informazioni sull’oggetto studiato e trovare il modo migliore di esaminarlo: è questo, come abbiamo precedentemente accennato, il ruolo del lavoro esplorativo. L’esplorazione consiste in due tipi diversi di lavoro, che spesso procedono in modo simmetrico: lettura di testi e interviste. La lettura L'obiettivo principale della lettura è di trarne delle idee per il proprio lavoro. Questo implica che il lettore sia capace di trovare queste idee, comprenderle in profondità e articolarle fra loro in modo coerente. Con l'esperienza ciò non pone generalmente molti problemi, ma è un esercizio che può presentare delle difficoltà a chi possiede una formazione teorica è debole e/o non è abituato al vocabolario delle scienze sociali. Leggere un testo è una cosa, trarne l'essenziale è un'altra: saper sintetizzare un testo è una capacità che si acquisisce con l'esercizio. Per essere davvero fruttuoso, questo apprendimento richiede di essere sostenuto da un metodo di lettura, ma ciò, purtroppo, avviene raramente: i neofiti sono, nella maggior parte dei casi, abbandonati a se stessi e generalmente leggono “non importa come”. Il risultato è invariabilmente lo scoraggiamento accoppiato ad un sentimento di incapacità. Per progredire nell'apprendimento della lettura e per trarne il miglior profitto possibile, è consigliabile adottare, sin dall’inizio, un metodo di lettura molto rigoroso e preciso, che ciascuno potrà poi migliorare in base alla propria formazione ed in funzione delle proprie esigenze. Questo metodo comporta due tappe indissociabili: la messa in opera di uno schema di lettura (per leggere in profondità ed in modo ordinato) e la redazione di un riassunto e/o di uno schema (per mettere in evidenza le idee principali che meritano di essere memorizzate). Lo schema di lettura Per capire come utilizzare uno schema di lettura viene proposta una parte del testo di Durkheim sul Suicidio 5. Come procedere : dividere un foglio di carta o la finestra di Word in due colonne e intitolare la colonna di sinistra IDEE-CONTENUTO, quella di destra STRUTTURA DEL TESTO. Leggere il testo di Durkheim sezione per sezione intendendo per sezione un paragrafo o un insieme di frasi che costituiscano un insieme coerente. Dopo ogni sezione scrivere, nella colonna di sinistra del foglio, le idee principali del testo originale. Assegnare ad esse il numero d'ordine della sezione letta e continuare così, di sezione in sezione, senza preoccuparsi della colonna di destra. Terminato il lavoro, si avrà uno schema esaustivo delle principali idee del testo originale, ma, in esso, non vi sarà distinzione fra le idee centrali e quelle accessorie, tutte le idee risulteranno poste sullo stesso piano, quale che sia la loro importanza relativa. Inoltre le articolazioni che Durkheim stabilisce fra di esse, al momento, non risultano ancora chiare: manca quella strutturazione delle idee che ci consente di ricostruire il pensiero dell’autore e la coerenza del suo ragionamento. 5 Quivy R., Van Campenhoudt, op.cit

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Rileggere la colonna di sinistra in modo da cogliere le articolazioni fra le idee e scoprire la struttura globale del pensiero dell’autore: le idee principali, le tappe del ragionamento e la complementarietà fra le parti. Tutto questo viene indicato nella colonna di destra intitolata, appunto, STRUTTURA DEL TESTO, e lo si mette in relazione con le idee riassunte nella colonna di sinistra. Giunti al termine dell'esercizio, si può confrontare il lavoro fatto con lo schema di lettura che viene fornito qui di seguito, controllando se si è riusciti a cogliere le idee fondamentali del testo e la loro struttura. Il riassunto La qualità di un riassunto è direttamente legata a quella della lettura che l'ha preceduto. Il metodo di realizzazione di un riassunto dovrebbe costituire il seguito logico del metodo di lettura. Si può dunque tornare alla colonna di destra dello schema e, partendo dalle indicazioni già segnalate, si sarà in grado di distinguere immediatamente le sezioni del testo dove si trovano le idee centrali e quelle che contengono le idee secondarie, i dati illustrativi o gli sviluppi della argomentazione. Inoltre, questi idee possono essere facilmente ritrovate e sistemate grazie al contenuto della colonna di sinistra dove sono riprese in forma condensata. Infine non resterà che redigere il riassunto in maniera abbastanza chiara perché qualcuno che non abbia mai letto il testo di Durkheim possa farsene una buona idea globale con la sola lettura del risultato del lavoro fatto. Se ne può fare una sintesi letteraria oppure uno schema, come il seguente, che rappresenti le relazioni causali che Durkheim stabilisce fra i differenti fenomeni considerati. Libero esame Indebolimento Aumento della coesione della tendenza della religione al suicidio Crollo delle credenze tradizionali Grazie a questo metodo di lettura, si potranno confrontare molto più facilmente due testi differenti e mettere in evidenza convergenze o divergenze. Il modello di schema di lettura qui presentato è abbastanza preciso e rigoroso: richiede quindi del tempo e dei testi che non siano né troppo lunghi né troppo numerosi. Altrimenti sarà meglio usare schemi di lettura più agili. Sarebbe bene , tuttavia, diffidare delle false economie di tempo: leggere male 1000 pagine non serve assolutamente a nulla; leggere bene un buon testo di 10 pagine può aiutare a mettere in moto il processo di ricerca. Qui più che altrove bisogna essere cauti e non lasciarsi soffocare dalle interminabili bibliografie che spesso si trovano alla fine di certe opere. Comunque questo metodo per leggere saggi o articoli può, con piccoli accorgimenti, essere adattato alla lettura di interi volumi. Quando il testo è più ampio e comporta numerosi dati e molteplici esempi, le sezioni di lettura possono essere allungate. Inoltre va tenuto presente che molto di rado è necessario procedere ad una lettura sistematica di tutti i capitoli di un libro: se si tiene conto solo dei propri obiettivi specifici, è probabile che solo qualche parte dovrà essere approfondita, mentre per le altre sarà sufficiente una lettura attenta ma veloce. Ma dove trovare i testi che ci consentono di aumentare le nostre conoscenze sull'argomento che abbiamo scelto come domanda di partenza della nostra ricerca? Fino a pochi anni fa compilare una semplice bibliografia implicava il doversi spostare fisicamente di biblioteche in biblioteca, spesso di

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città in città o recarsi all’estero. Oggi per fortuna non è più così: le reti telematiche, attraverso gli OPAC (Online Public Access Catalog, i cataloghi delle biblioteche in linea), le banche dati ed i motori di ricerca, consentono di accedere ad una enorme quantità di informazioni, in tempo reale e a livello mondiale. Se un tempo il ricercatore soffriva per il problema di carenza di dati, adesso soffre per una sovrabbondanza di informazioni che gli strumenti di ricerca telematici riversano nel suo computer , e che molto spessorisultano totalmente inutili. Occorre, pertanto, adottare accurate strategie di ricerca: riuscire ad identificare le “parole chiave” e i termini specifici che descrivono nel modo migliore l’argomento che si sta affrontando. Bisogna, naturalmente, tener conto del fatto che parole chiave troppo generali delimitano troppo poco il campo di ricerca e ci costringono ad esaminare una quantità enorme di materiale, prima di trovare ciò che effettivamente ci serve; d’altra parte parole chiave troppo specifiche possono impedirci di trovare quello che stiamo cercando. Anche in questo caso, però, oltre alla capacità di compiere ricerche in rete, una capacità che si conquista solo con l'esperienza e la pratica, è indispensabile arrivare a conoscere profondamente l’argomento di studio , traguardo che è possibile raggiungere solo perfezionando, passo dopo passo, il quadro teorico della ricerca Le interviste esplorative Le interviste esplorative completano utilmente le letture. Esse permettono al ricercatore di prendere coscienza di aspetti dell’argomento di ricerca a cui non sarebbe giunto con la sua sola esperienza e le letture fatte. Per poter assolvere a questa funzione , però, le interviste debbono essere poco direttive, perché l'obiettivo non consiste nel verificare le idee preconcette del ricercatore ma di scoprirne di nuove. I fondamenti del metodo sono, dunque, da ricercare nei principi della non-direttività, adattati in funzione di un'applicazione alle scienze sociali. Il ricercatore è interessato a tre tipi di interlocutori: specialisti scientifici dell'oggetto studiato, testimoni privilegiati e persone direttamente coinvolte. Insegnanti, ricercatori specia lizzati ed esperti nel campo di ricerca relativo alla domanda di partenza possono rivelarsi estremamente utili per aiutare il ricercatore a migliorare la sua conoscenza dell’argomento studiato, non solo esponendo i risultati del loro lavoro ma anche il tipo di processo intrapreso, i problemi riscontrati, gli ostacoli da evitare. Questo genere di intervista non richiede tecniche particolari ma sarà tanto più fruttuosa quanto più la domanda di partenza sarà ben formulata e permetterà all’intervistato di circoscrivere con precisione quello che interessa l’intervistatore. Questo tipo di intervista aiuterà anche quanti hanno ancora dei dubbi sulla domanda di partenza a chiarirla meglio. Una seconda categoria di interlocutori raccomandati per le interviste esplora tive sono i testimoni privilegiati. Si tratta di persone che per la loro posizione, azione o responsabilità hanno una buona conoscenza del problema. Questi testimoni possono appartenere al pubblico su cui si basa lo studio o essere all’esterno ma profondamente interessato da questo pubblico. Così in uno studio sui valori dei giovani, si possono incontrare tanto dei giovani responsabili di organizzazioni giovanili quanto degli adulti (educatori, insegnanti, sacerdoti, operatori sociali, giudici dei minori) che a causa della loro attività professionale conoscono bene i problemi dei giovani. La terza categoria è quella formata dal pubblico su cui si svolge la ricerca, cioè nell’esempio i giovani stessi: è importante, in questo caso, che le interviste vengano fatte ad appartenenti dei diversi tipi di pubblico interessato. Le interviste ad interlocutori della seconda e terza categoria comportano notevoli rischi di deviazione dovuti a quella che si può definire “trasparenza illusoria”. Impegnati nell’azione, gli uni e gli altri sono portati a spiegare le loro azioni giustificandole: a queste interviste sono spesso connesse mancanza di obiettività, mancanza di distacco, visione limitata e di parte. Per evitare le trappole che possono racchiudere sono indispensabili molto spirito critico ed un minimo di tecnica.

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In cosa consistono le interviste e come farle? Tra i diversi tipi di intervista quella del tutto non strutturata è l'intervista detta libera o non direttiva. Si tratta di un'intervista che affronta argomenti generali, in funzione degli obiettivi della ricerca, senza seguire una traccia prestabilita. Nell'avvio dell'intervista, l'intervistatore pone ed eventualmente introduce determinati argomenti per poi lasciare all'intervistato la completa gestione della loro trattazione, secondo percorsi discorsivi e contenuti che l'intervistato spesso sceglie in modo del tutto autonomo. Un esempio molto citato è quello relativo alla Ricerca negli Stabilimenti Hawthorne della Western Electric Company di Chicago: l’obiettivo originario era individuare i fattori che fossero in grado di influenzare il rendimento degli operai, ma si trasformò, nel corso delle ricerche stesse , in una finalità più generale che riguardava le condizioni di un più positivo e proficuo rapporto tra management e lavoratori. Fu avviato un programma di interviste agli operai, basato in una prima fase su una traccia predefinita di temi, programma cambiato, successivamente, ricorrendo a interviste non direttive. Dai risultati delle nuove interviste scaturirono, da un punto di vista metodologico, numerose indicazioni circa la conduzione delle interviste non direttive e sulla loro efficacia conoscitiva. Si tratta di indicazioni che riguardano: la capacità di interpretare il discorso complessivo dell'intervistato, cogliendo gli eventuali significati latenti delle affermazioni esplicite, ma anche quelli dei silenzi e delle reticenze; saper valutare la problematicità di quanto l'intervistato stesso dichiara, in modo da non considerare semplicisticamente tutto "vero" o tutto "falso"; riconoscere il suo particolare stato d'animo per tentare di stabilire quanto esso possa influenzare le affermazioni fatte nel corso dell'intervista. Questa duplice caratteristica dell'intervista libera, che non pone alcuna limitazione o restrizione all'intervistato e che richiede una considerevole capacità interpretativa, quasi "diagnostica", all'intervistatore, legittima un paragone con l'intervista clinica. Nella ricerca sociale il suo scopo è essenzialmente quello di cogliere aspetti particolari, dettagli, sfumature, i significati non immediatamente evidenti, senza intrusioni nei pens iero e nelle parole dell'intervistato. La presenza di una struttura, sia pur estremamente semplice, caratterizza invece l'intervista guidata. In questo caso il colloquio con intervistato viene orientato ("guidato", appunto) dall'intervistatore in base a una traccia, che consiste in un elenco di argomenti esplicitamente definiti. Rispetto all'intervista libera, l' intervista guidata ha il vantaggio di sottoporre agli intervistati uno stesso insieme di temi, quelli sui quali è necessario avere informazioni da tutti rispondenti. Ciascuno di questi argomenti, tuttavia, viene trattato da ogni intervistato in modo del tutto autonomo, come nell'intervista libera. Interviste libere e interviste guidate, con testimoni chiave, personaggi "tipici", informatori "privilegiati", persone che per la loro condizione o esperienza possono risultare fonti particolarmente significative , sono procedure di raccolta delle informazioni caratteristiche della ricerca "qualitativa" di tipo eminentemente esplorativo. Come procedere per effettuare questo tipo di interviste. 1. L'intervistatore deve sforzarsi di porre meno domande possibile, l'intervista non è né un interrogatorio, né un'indagine survey (con questionario ). L'eccesso di domande conduce sempre allo stesso risultato: l'intervistato capisce in fretta che gli viene soltanto richiesto di rispondere ad una serie di domande precise ed eviterà di sforzarsi troppo per esprimere compiutamente il suo pensiero e di parlare in modo approfondito delle sue esperienze. Le sue risposte diverranno sempre più brevi e sempre meno interessanti perché dopo aver risposto sommariamente ad una domanda si limiterà ad aspettare passivamente quella successiva. Per evitare che questo si verifichi è bene fare una breve esposizione introduttiva sugli obiettivi che ci si prefiggono e su quello che ci si attende di ttenere dalla ricerca: si riesce, in tal modo, a rendere più gradevole il tono complessivo dell’intervista, che si trasforma in una conversazione libera e molto aperta. 2. Nella misura in cui alcuni interventi sono tuttavia necessari per riportare l'intervista sugli obiettivi

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prefissati, per rilanciarne la dinamica o per incitare l'intervistato ad approfondire certi aspetti particolarmente importanti del tema affrontato, l'intervistatore deve sforzarsi di formulari i suoi interventi nella maniera più aperta possibile. Nel corso dell'intervista esplorativa, è importante che l'intervistato possa esprimersi con il suo linguaggio, con le sue categorie concettuali e i suoi quadri di riferimento. Con degli interventi troppo precisi e autoritari, l'intervistatore impone le proprie categorie mentali: l'intervista non può più, allora, adempiere alla sua funzione esplorativa perché l'interlocutore non ha più altra scelta che rispondere all'interno di queste categorie, cioè confermare o meno le idee alle quali il ricercatore aveva già pensato precedentemente. 3. L'intervistatore deve astenersi dall'intromettersi nell'intervista, soprattutto iniziando un dibattito sulle idee espresse o prendendo posizione riguardo alle affermazioni del rispondente. Anche l'acquiescenza deve essere evitata perché, se l'interlocutore vi si abitua e vi prende gusto, interpreterà in seguito tutte le attitudini di riserva come segno di disapprovazione. 4. Bisogna fare in modo che l'intervista avvenga in un luogo e in un contesto adeguati: non si può intervistare qualcuno nel caos, fra rumori e telefoni che suonano, con l'intervistato che guarda continuamente l'orologio perché ha premura: il soggetto deve essere informato preventivamente della durata dell'intervista (generalmente un'ora circa). 5. sul piano tecnico infine, è indispensabile registrare le interviste. La registrazione è, beninteso, subordinata all'autorizzazione degli interlocutori. La tecnica dell'intervista esplorativa può essere appresa solo con la pratica. Un modo per procedere all' autovalutazione della conduzione di questo tipo di intervista può essere il seguente: - ascoltate la registrazione e interrompete dopo ogni vostro intervento. - Annotate ogni intervento e analizzatelo: era indispensabile? Non avete interrotto il vostro interlocutore senza motivo proprio quando si era ben avviato a rispondere? Non avete cercato di mettere un po' troppo in fretta fine ad un silenzio di qualche secondo soltanto? - Dopo aver messo in discussione ogni intervento, proseguite l'ascolto del nastro per esaminare il modo in cui il vostro interlocutore ha reagito a ciascuno dei vostri interventi. Questi l'hanno portato ad approfondire le sue riflessioni o la sua testimonianza o, al contrario, hanno prodotto una reazione breve e tecnica? I vostri interventi non hanno dato luogo a una discussione fra voi e il vostro interlocutore e compromesso così la possibilità di una riflessione e di una testimonianza autentica da parte dell'intervistato? - Al termine dell'ascolto valutate il vostro comportamento generale. I vostri interventi non erano troppo frequenti o troppo strutturanti? Avete la sensazione di un'intervista agile, aperta e ricca sul piano dei contenuti? Qual è il vostro bilancio globale e quali sono, a vostro parere, i punti deboli che devono essere corretti? Osserverete ben presto che lo stesso comportamento da parte vostra davanti ad interlocutori diversi non porta ad avere sempre li stessi risultati: il successo di una intervista dipende dal modo in cui funziona l'interazione tra il due partecipanti, perciò si possono dare solo consigli, mai ricette. L’utilità delle interviste è duplice : da una parte, gli argomenti apportati dagli intervistati possono essere usati direttamente in quanto fonte di informazione; d'altra parte l’intervista può essere decodificata come un processo nel corso del quale l'interlocutore rivela delle verit à più profonde di quelle immediatamente percepibili. Le inchieste esplorative sono spesso messe in opera allo stesso tempo di altri metodi complementari quale l'osservazione e l'analisi i documenti. Al termine di questa tappa il ricercatore può essere portato a riformulare la propria domanda di partenza in un modo che tenga conto delle varie indicazioni ottenute con il suo lavoro esplorativo.

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III La problematica A questo punto il ricercatore dispone di una buona domanda di partenza e di una buona conoscenza del suo soggetto di studio. Può, quindi, passare alla tappa delle congetture teoriche. Adozione, modificazione o costruzione di un quadro teorico In senso generale adottare, modificare o costruire un quadro teorico consiste nel prevedere una risposta teorica alla domanda di partenza. Questa risposta teorica, articolata intorno ad una o più ipotesi di ricerca, è quella che sembra più verosimile al ricercatore: egli ritiene che il problema di ricerca che ha formulato sotto forma di domanda di partenza dovrebbe risolversi grazie a questa soluzione teorica e ipotetica. Non ne ha la certezza, ma le sue deduzioni e le sue conoscenze esplorative lo inducono a crederlo. Adottare, modificare o costruire un quadro teorico richiede di assolvere a due compiti: scegliere, modificare o costruire una teoria e formulare un’ipotesi. L'ipotesi deriva necessariamente dalla teoria adottata, modificata o costruita. Ma che cosa si intende per teoria? Iniziamo col definire che cosa è una teoria prima di spiegare come si deve procedere per sceglierne, modificarne o costruirne una. In termini accademici, le teorie sono degli insiemi di enunciati generali che descrivono dei fenomeni reali. In termini più metaforici, le teorie, come diceva Popper sono "delle reti destinate a catturare quello che noi chiamiamo 'il mondo'; a renderlo razionale, a spiegarlo e a padroneggiarlo". In termini semplici, le teorie sono delle costruzioni intellettuali che prendono la forma di sistemi di concetti e servono a spiegare dei fenomeni reali. Così se adotto una teoria freudiana del comportamento degli individui, utilizzo il sistema di concetti elaborato da Freud per comprendere il comportamento umano. Allo stesso modo posso utilizzare la teoria di Piaget per comprendere lo sviluppo cognitivo dei bambini; se uno scienziato di nome Mario Rossi elaborasse un nuovo sistema di concetti per spiegare le rivoluzioni sociali e questa nuova spiegazione conoscesse un certo successo nel seno della comunità scientifica, si parlerebbe probabilmente della teoria "rossiana" (o qualcosa del genere) delle rivoluzioni sociali. Secondo il nostro processo scientifico, il fine di uno scienziato è dunque di produrre delle teorie che spieghino una parte della nostra realtà, e di sottometterle in seguito a dei test empirici al fine di convalidarle o di rifiutarle. Le teorie organizzano la nostra percezione empirica della realtà. Spiegando il reale, le teorie organizzano la nostra rappresentazione della realtà e questa loro funzione di organizzazione della percezione della realtà è di un'importanza capitale per gli scienziati in quanto permette loro di affrontare con efficacia lo studio di fenomeni. Senza teoria, in effetti, nessun ricercatore può produrre una ricerca empirica sensata. "Il sociale, la società, la politica, il reale non possono essere colti che attraverso la costruzione di un quadro, che sappia organizzare dei fenomeni, a prima vista dispersi. La teoria è precisamente il quadro di riferimento che produce un senso e permette a un osservatore di sussumere dei frammenti di significato che, senza questa interrelazione, resterebbero incomprensibili o, peggio, nascosti, sommersi da una marea di informazioni a prima vista tutte ugualmente valide. La teoria è dunque la sintassi del reale, il mezzo di fargli restituire la sua logica, di formalizzarlo in un principio di ordine e di sistematizzazione, di organizzazione di cause ed effetti" (I. Lavergnas, in Gauthier B. (ed.)) Facciamo un esempio : supponiamo che un professore insegni una qualche materia all’università da un certo numero di anni. Col passare del tempo nota un fenomeno strano e divertente: la maggioranza degli studenti preferisce sedersi in un posto particolare (davanti, al centro, in fondo, a sinistra, a destra)

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nell’aula. Incuriosito dalla regolarità delle scelte fatte dalla maggior parte degli studenti, intraprende una ricerca scientifica su questo soggetto. La sua domanda di partenza è: "Quali fattori influenzano la scelta, fatta dagli studenti universitari, di un determinato posto in un’aula?" Supponiamo che la fase di esplorazione riveli che non esiste una teoria che spieghi questo fenomeno e che il professore decida di cominciare il suo studio senza costruirne una. Procederà dunque all'osservazione di gruppi di studenti senza idee preconcette, senza prenozioni teoriche. Il suo spirito è come una ‘pagina bianca’, come direbbe il filosofo empirista Locke. Lui vuole, molto semplicemente, osservare i suoi studenti e spera di scoprire il o i fattori che influenzano la scelta di un posto in un'aula universitaria. Ma che cosa deve osservare? Su cosa può focalizzare l’attenzione? Dove deve posare il suo sguardo? Non ne ha alcuna idea perché nessuna prenozione, nessun piano, guida la sua osservazione della realtà. Così, il suo spirito è perfettamente vergine al momento dell'osservazione della realtà; è come una sorta di telecamera che registra delle sensazioni che sono in seguito inviate al suo cervello per esservi trattate. Dopo qualche minuto di osservazione, il suo cervello, però, sarà letteralmente bombardato da informazioni diverse o così, noterà che certi studenti seduti in fondo alla classe sono di genere maschile, che altri sono di genere femminile, che ci sono degli studenti seduti davanti e al centro, gli studenti seduti a destra della classe hanno i capelli castani, biondi o bruni, ed uno li ha lunghi, che la stessa cosa si verifica fra quelli che sono seduti a sinistra, tranne che lì nessuno ha i capelli lunghi; che nel centro c'è uno studente che mastica gomma, cosa che non è il caso di fare né seduti davanti né seduti al fondo di classe, che le ragazze sedute al centro portano alcune le gonne e altre dei pantaloni; che lo stesso avviene al fondo della classe e nelle prime file; che... Insomma il professore o diventerà pazzo in breve tempo, o non troverà mai una risposta alla sua domanda di partenza perché la sua osservazione della realtà sarà interminabile, incoerente e completamente inutile. Torniamo indietro e supponiamo che dopo la sua esplorazione il professore adotti una teoria che spiega la scelta di un posto in una aula universitaria. Diciamo che questa teoria (del tutto fittizia) abbia nome "teoria del triangolo". Secondo questa teoria il principale fattore che influenza la scelta di un posto in una classe è l'interesse dello studente per il corso o per il professore. Così, se la teoria è buona, uno studente interessato al corso o al professore dovrà sedersi in un triangolo in rapporto al professore stesso. Al contrario gli studenti poco o per niente interessati al corso o al professore si piazzeranno all'esterno del triangolo. PROFESSORE

ALLIEVI A questo punto della ricerca non si sa se questa teoria sia valida. Per saperlo, bisognerà tentare, in una tappa successiva, di convalidarla o di falsificarla, sottomettendola a dei test empirici. Ma una cosa è certa: grazie a questa teoria, le osservazioni della realtà fatte dal professore saranno molto più coerenti

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e utili che se non avesse alcuna teoria. In effetti appoggiandosi a questa teoria, egli presume che sia inutile contare il numero di denti o il colore dei capelli dei suoi studenti. È inutile perché egli pensa che il fattore che influenza la scelta di un posto nell’aula non sia il colore dei capelli o il numero di denti degli allievi, ma il loro interesse nei confronti del professore o del corso. Egli presume, dunque, che sia più utile interrogare i suoi studenti sul loro livello di interesse verso di lui o verso il suo corso piuttosto che contare il numero dei loro denti. È in questo senso che noi diciamo che le teorie sono dei modi di organizzazione della percezione empirica della realtà e, in questo senso, possiamo anche affermare che ogni sapere scientifico è teorico perché, in definitiva, tutta l’osservazione scientifica della realtà poggia necessariamente su determinate prenozioni teoriche che la rendono utile ed efficace. Una tesi contraria: la “Grounded Theory” La posizione epistemologica che abbiamo esaminato porta verso un processo ipotetico-deduttivo della scienza: come abbiamo appena visto, questo processo pone la scelta o la costruzione di una teoria prima dell'osservazione sist ematica della realtà. Secondo questa posizione è necessario che l'elaborazione di una teoria preceda l'osservazione della realtà, al fine di rendere quest'ultima utile ed efficace. Ma non è così per tutti i ricercatori: iI sostenitori del processo induttivo sono in completo disaccordo. La loro convinzione è che essendo il processo scientifico induttivo , l'elaborazione di una teoria debba derivare dalle osservazioni empiriche. Essa dunque non le precede. Questa concezione dell'elaborazione a posteriori delle teorie è quella dei sociologi che si ispirano ai primi lavori metodologici di Anselm L. Strauss. Secondo questo scienziato la teoria deve essere fondata (dall'americano Grounded theory). Secondo gli induttivisti che si ispirano al ragionamento degli empir isti inglesi Bacone, Locke e Hume, delle osservazioni rigorose permettono di scoprire delle ricorrenze e delle associazioni fra dei fenomeni che finiscono per imporsi da sé all'osservatore. Secondo questa spiegazione, ci sarebbe dunque una netta opposizione fra la “grounded theory” ed una teoria ‘ipotetico-deduttiva’. Due motivi fanno dubitare della fondatezza di questa teoria: abbiamo visto come un'osservazione senza prenozioni teoriche per organizzarla rischi di essere assurda ed inutile. Inoltre certi metodologi hanno probabilmente frainteso la portata delle spiegazioni della grounded theory di Anselm L. Strauss. In effetti, in un libro recente6, Strauss stesso si fa scrupolo di sottolineare che, anche se nei suoi primi scritti, si opponeva alle teorie speculative, ciò non toglie che una "verifica" non possa essere fatta senza una deduzione preliminare. In questo testo specifica molto chiaramente che una raccolta di dati senza ipotesi teoriche è inutile. A questo riguardo afferma che «delle ricerche efficaci in scienze sociali devono ispirarsi all'esempio delle ricerche della fisica, dove si intrecciano la formulazione di ipotesi provvisorie, la produzione di deduzioni e la loro verifica - il tutto grazie all'utilizzazione di dati empirici » . Queste spiegazioni sono analoghe a quello di chi segue il processo ipotetico-deduttivo tanto più che questo non produce affatto delle teorie puramente speculative. In effetti, compiendo una fase esplorativa , riferendosi al proprio 'vissuto', leggendo la documentazione scientifica, consultando dei colleghi e abbandonandosi a delle osservazioni esplorative, il ricercatore che adotta il processo ipotetico-deduttivo dovrebbe normalmente scegliere, modificare o costruire una teoria relativamente ben "fondata" nella realtà. È importante, a questo punto, tener ben presente che esistono numerose teorie ed esse permettono di organizzare la percezione dei fatti empirici e di “vedere” la realtà studiata. È a partire da una teoria adottata, modificata o costruita che il ricercatore decide di occuparsi di questo o quel fatto. Se si comprende questo, si capisce come uno stesso fenomeno non sarà osservato nello stesso modo da 6 Strauss A. L., Qualitative Analysis for Social Scientists, Cambridge University Press, New York, 1993, p. 12.

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dei ricercatori che ricorrano a differenti teorie. Facciamo un esempio: tre ricercatori si dedicano allo studio della decisione di un governo di ristabilire la “pena di morte”. Supponiamo inoltre che i tre ricercatori difendano tre diverse teorie: il primo è marxista, il secondo funzionalista e il terzo strutturalista. Questi “vedranno” dei fenomeni differenti guardando la stessa realtà perché le loro teorie sono differenti. A causa delle loro divergenze teoriche metteranno l’accento su aspetti differenti della stessa realtà. Il ricercatore marxista analizzerà molto probabilmente i rapporti di classe che hanno suscitato la decisione del governo di ristabilire la pena di morte. Potrà così tentare di corroborare o di rifiutare l'ipotesi che vuole che la borghesia del paese abbia interesse ad acuire la repressione da parte dello Stato in periodo di crisi economica. L’aumento della repressione si rivela utile per questa classe dominante, dice il marxista, perché questa borghesia si serve dello Stato per mantenere la sua egemonia sulle classi dominate. Il nostro ricercatore marxista cercherà di dimostrare perché e come la classe economicamente dominante ha fatto pressione sul governo affinché venisse ristabilita la pena di morte. Il ricercatore funzionalista, vedrà probabilmente in questa decisione una risposta dello Stato che ha per obiettivo di stabilizzare e di assicurare la riproduzione dell’insieme sociale. Probabilmente egli affermerà che lo Stato assolve alla sua funzione di mettere ordine nella società, ricorrendo ad una misura repressiva. Questo ricercatore percepirà dunque il ricorso alla pena di morte come una risposta "normale" dell'organismo sociale a dei fenomeni disfunzionali (un aumento della criminalità, sommosse, costituzione di gruppi terroristici ecc) che minacciano la sua sopravvivenza. Si è ben lontani dai rapporti di classe dei marxisti. Infine, il ricercatore strutturalista tenterà forse di descrivere le differenti strutture che caratterizzano una società che pratica la pena di morte. Egli cercherà di far emergere i legami o le relazioni tra le differenti entità (i criminali, i tribunali, le leggi, i corpi di polizia, i gruppi di pressione, eccetera) che compongono il sistema di uno Stato dove vige la pena di morte. Lo strutturalista affermerà che, in seguito a questo studio strutturale, si potranno confrontare i sistemi sociali dove è prevista la pena di morte con quelli dove la pena capitale non è applicata, vedere in che cosa si differenziano a livello strutturale e, in tal modo, comprendere le loro rispettive dinamiche. I tre ricercatori osservano lo stesso fenomeno, ma il primo osserva i rapporti di classe, il secondo le funzioni svolte dallo Stato e la pena di morte, mentre il terzo vede delle strutture. Un fenomeno, tre differenti teorie, risultato: tre diversi modi di vedere . Quale ha ragione? Qual è la teoria migliore? Per rispondere a questa domanda bisogna fare della ricerca empirica in scienze umane e partecipare alle dispute teoriche che sono in corso. Queste dispute sono lontane dall'essere puramente astratte; non si tratta di sofismi: come abbiamo appena visto si tratta della nostra percezione della realtà. La posta in gioco è molto importante perché la nostra percezione della realtà e le nostre azioni sono intimamente legate: così, se molti possono accettare che uno Stato ricorra alla pena di morte per assicurare l'ordine sociale, è poco probabile che queste stesse persone sarebbero così radicali verso i criminali, nel caso avesse ragione il marxista e la pena di morte fosse un mezzo utilizzato dallo Stato per assicurare la dominazione economica di una classe di privilegiati. Insomma, discutere di teorie, vuol dire discutere della nostra percezione della realtà, e discutere la nostra percezione della realtà, è, in un certo senso, determinare la nostra reazione (positiva o negativa) di fronte a questa realtà. Come scegliere, modificare o costruire una teoria La scelta, la modifica o la costruzione di una teoria è dunque una fase molto importante della ricerca. Essa esige e merita un grande lavoro e molta conoscenza. In generale, si vedrà come la scelta di una teoria dipenda generalmente dal principio di pertinenza e da motivi strategici. Il principio di pertinenza e i motivi strategici Inizialmente, il ricercatore sceglie la teoria che gli sembra essere la migliore, cioè la più adeguata,

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nell'investigare, spiegare e comprendere il suo oggetto di studi. Una buona teoria si appoggia su fatti empirici e incontestabili; si dice che i fatti empirici X e Y provano la giustezza, la veridicità o la superiorità della teoria A. Così, gli induttivisti affermano che le loro teorie emergono dalle loro osservazione della realtà, mentre gli utilizzatori di un processo ipotetico-deduttivo affermano che la loro teoria è verificata dai test empirici. La scelta o la costruzione di una teoria si fa concretamente con tre operazioni: nella prima il ricercatore ritorna sulla sua esplorazione e procede all'inventario delle teorie pertinenti al suo oggetto di studi e alla sua domanda di partenza, nella seconda procede ad un esame critico di ciascuna delle teorie che ha elencato. L’ultima operazione consiste nell'adottare una di queste teorie, di modificarne una o costruirne una nuova. Ma l'adozione, la modifica o la costruzione di una nuova teoria implica un ritorno alla domanda di partenza adottata; la ragione di questo ritorno è semplice: una teoria è un modo di interrogare la realtà; scegliere una teoria, è dunque scegliere una maniera di indagare il reale. Un ricercatore strutturalista tenterà di vedere una realtà strutturata; egli domanderà alla realtà di svelargli le sue strutture. D'altra parte un ricercatore funzionalista valuterà il reale sperando di scoprire delle funzioni. Un ricercatore che adotta una teoria strutturalista porrà dunque delle domande di partenza strutturalista del tipo: "quali strutture dell’ insieme sociale X spiegano il fenomeno Y?" Mentre un ricercatore funzionalista dirà piuttosto qualcosa del genere: "Quale funzione adempie il fenomeno Y nell' insieme X?". La teoria scelta influenza necessariamente la domanda di partenza della ricerca, perché una teoria è fra le altre cose un modo di interrogare la realtà. Fare l'inventario delle teorie consiste molto semplicemente nel costruire un repertorio dei differenti approcci ad un soggetto di studio. In altri termini, si tratta di costruire una sorta di tabella delle risposte che gli scienziati sociali hanno dato ad una domanda di partenza. È dunque sufficiente consultare le note di lettura ed i risultati delle interviste fatte durante la fase di esplorazione e distinguere le teorie esistenti. Questo compito è già in parte compiuto se al momento dell'esplorazione si è avuto la saggezza di classificare le annotazioni per teorie. Così quando diversi autori hanno un approccio similare, si possono redigere le note relative ai loro testi in uno stesso file o quaderno d’appunti. In tal modo alla fine della propria esplorazione ci si ritrova con un certo numero di file o quaderni di appunti che corrispondono ad un certo numero di grandi teorie relative all’argomento di studio. Esame dettagliato di un processo di ricerca. La domanda di partenza Esaminiamo in dettaglio un processo di ricerca. L’inizio è stato causato da una discussione fra docenti sulle cause dell'assenteismo (non frequenza ai corsi) degli studenti al primo anno di università: fra le possibili cause venivano annoverate: negligenza, trascuratezza , pigrizia e noncuranza degli studenti. Gli insegnanti, in modo inconscio, partivano dall'ipotesi che l'assenteismo fosse dovuto interamente alla mancanza di volontà o maturità degli studenti. Solo qualcuno osò suggerire che la responsabilità dell'assenteismo potesse non essere necessariamente imputato interamente agli studenti, ma che ci si poteva interrogare anche sulle caratteristiche dell'insegnamento e sul funzionamento dell'istituzione universitaria. Ma in quel dibattito, dove gli studenti erano assenti ed era imperativo considerare i propri colleghi come degli insegnanti al di sopra di ogni sospetto, il suggerimento non fu raccolto. Più tardi, tuttavia, la domanda fu sottoposta agli studenti. La loro formulazione del problema si rivelò opposta a quella degli insegnanti. Agli occhi degli studenti, in effetti, il loro assenteismo era legato alle qualità dell'insegnante. Uno dei docenti decise di vederci più chiaro e propose il problema come esercizio nel quadro di un corso di metodi di ricerca sociale. L'esercizio iniziò con una sorta di brainstorming sull'assenteismo: malgrado qualche incertezza, la sensazione generale fu che insegnanti e studenti

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dovevano essere entrambi largamente implicati nel fenomeno dell'assenteismo. La prima domanda di partenza fu formulata in modo molto aperto e nella forma meno tendenziosa possibile: "Quali sono le cause dell'assenteismo degli studenti nel primo anno di università?". A partire da questo primo filo conduttore iniziò la fase di esplorazione. L'esplorazione Le letture Il lavoro fu affidato ad un gruppo di studenti e la ricerca della letteratura esistente, relativa alla domanda di partenza, fu orientata verso il tema "studente" e "assenteismo". I testi e gli articoli trovati sul tema “studente” vertevano essenzialmente sul problema dell'insuccesso e delle performance scolastiche e non sull'assenteismo. Fra questi, due documenti attirarono nondimeno l'attenzione: uno era costituito da una Relazione di ricerca sulle matricole di scienze economiche e sociali: questo lavoro mostrava che, in generale, le matricole non avevano ancora dei progetti professionali ben precisi, che la formazione ricevuta costituiva, per loro, una preoccupazione secondaria e che il loro solo interesse era quello di superare la prima sessione d'esami. Il secondo era un'analisi di Bourdieu e descriveva la vita universitaria come un gioco: "Il gioco di fare finta di"7. Sul tema dell'assenteismo propriamente detto non si trovò nulla a proposito degli studenti, in quanto tutta la letteratura consultata verteva sull'assenteismo sul lavoro. Tuttavia, questi testi permettevano, ragionando per analogie, di individuare interessanti piste di riflessione. In effetti, il lavoratore in un'impresa e lo studente nello studio, sono entrambi artefici di una produzione, differente certo, ma che deriva da un'attività sottomessa alle regole ed alle costrizioni di un'organizzazione. Come l'impresa, l'università è un'organizzazione sempre più sottoposta ai principi dell'organizzazione scientifica del lavoro: divisione dei compiti, specializzazione, stile autoritario delle relazioni e delle comunicazioni, controllo ecc.. Ora, l'assenteismo è generalmente considerato come una delle reazioni più classiche dei lavoratori ad un tipo d'organizzazione, a degli obiettivi e a delle costrizioni che sono tanto più sgradevoli perché imposte loro dall'esterno e in quanto i lavoratori non ne percepiscono i vantaggi. Fatti i debiti distinguo, la situazione degli studenti all'università sembrava avere qualche analogia con quella dei lavoratori di un’impresa e la sociologia dell'organizzazione poteva essere considerata come una base pertinente e suscettibile di fornire il quadro teorico per lo studio. Mentre un gruppo di studenti si occupava delle letture, altri si occupavano delle interviste esplorative a delle matricole. Questi studenti dovevano procedere con interviste guidate; le due domande che orientavano l'intervista erano: 1. A quali corsi assisti regolarmente? Per quali ragioni? 2. Da quali corsi sei spesso assente? Per quali ragioni? Mettendo insieme le risposte ottenute si ottenevano due tipi di informazione. Alcune concernevano le ragioni per frequentare (o no) i corsi; le altre erano delle informazioni più generali ma complementari. Ecco qualche estratto delle più rappresentative. a. Perché frequentare i corsi?

7 Bourdieu P. (dir.), La misère du monde, Paris, Seuil, 1993.

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1. Per completare le dispense. 2. Gli appunti supplementari sono indispensabili per riuscire. 3. È indispensabile per comprendere la materia. 4. Per completare le dispense per poter comprendere meglio. 5. Facilita lo studio successivo. 6. Quello che apprendo al corso non potrei impararlo da solo. 7. Aumenta le possibilità di riuscire. 8. Perché la materia è complessa, difficile. 9. È necessario per riuscire a comprendere bene le dispense. 10. Il professore spiega meglio di quanto non faccia un foglio di carta. 11. Per interesse personale. 12. Il professore spiega in modo interessante. 13. Per principio. 14. Perché c'è un controllo delle presenze. Questi sono i principali tipi di risposte nella loro formulazione più corrente. Certe espressioni sono chiare, altre più complesse. Per estrarne il significato si può ricorrere all'analisi delle implicazioni delle opinioni espresse per giustificare la presenza ai corsi. Per esempio, la 1a e la 2 a opinione implicano che l'esposizione orale dell'insegnante dia delle informazioni che non si trovano nelle sue dispense e, in conseguenza, che queste ultime siano incomplete. La 3 a e la 4 a opinione sono più ricche e più ambigue allo stesso tempo: esse implicano che le dispense siano poco chiare o incomplete, che la materia sia difficile da comprendere e che l'esposizione dell'insegnante contribuisca ad una migliore comprensione. Analizzando così le diverse proposizioni ed esaminandone la frequenza, si scoprono le principali ragioni di frequenza ai corsi, perlomeno quelle ragioni che sono soggettivamente percepite dagli studenti: 1. dispensa incompleta, insufficiente o non chiara; 2. professore che aggiunge delle informazioni utili e le cui qualità pedagogiche favoriscono la comprensione; 3. materia difficile e/o interessante. A queste ragioni, si aggiunge la costrizione (controllo delle presenze) e la convinzione (la frequenza attuata "per principio"). b. Perché non frequenti i corsi? 1. Perché le dispense sono complete. 2. Perché il prof non aggiunge niente alle sue dispense; le legge al corso. 3. Perché si può studiare questa materia da soli. 4. A causa del professore. 5. Perché la materia non è interessante. Qui, le opinioni sono nettamente meno sfumate e meno diversificate. Un terzo degli studenti interrogati dichiara che la loro assenza è dovuta al fatto che l'insegnante non aggiunge niente alle sue dispense, che si accontenta di esporle o, semplicemente, di leggerle. È curioso osservare che , fra le ragioni della non frequenza, gli studenti non menzionino mai le serate in discoteca o altre feste che si prolungano fino a tarda notte e trattengono a letto l'indomani. Non vengono neppure menzionati esami la cui preparazione obblighi a sacrificare qualche corso nel periodo che precede l'esame. Ma può essere dovuto al fatto che questi avvenimenti sono occasionali e non

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costituiscono una causa di assenza permanente. E' ugualmente curioso che, invece, queste motivazion siano state prese in considerazione dagli insegnanti insieme a negligenza, svogliatezza e pigrizia degli studenti. c. Informazioni generali e complementari

1. Certi studenti assistono a tutti i corsi (salvo incidenti). Ragioni addotte: per dovere; perché è il mio lavoro; se si organizzano i corsi è perché sono utili; per principio ecc.. 2. Al contrario, ci sono quelli che hanno già abbandonato definitivamente e che non assistono più ai corsi perché hanno capito che hanno sbagliato nello sceglierli. 3. Quelli che non frequentano fanno riferimento sovente al parere degli studenti più anziani per giustificare i propri giudizi o comportamenti. Le prime settimane dell'anno di corso sono spesso propizi a questo genere di iniziazione alla vita di facoltà. 4. Le interviste hanno mostrato che la frequenza e l'assenza si inscrivono in una sorta di strategia o di calcolo dell'utilità della presenza per riuscire. Se l'insegnante non controlla le presenze, se le dispense sono complete e se la materia è facile, non c'è, agli occhi degli studenti, nessuna ragione di frequentare il corso. E' quello che esprime chiaramente una delle risposte citate: "si può studiare questo corso da soli".

Alla fine di questa prima esplorazione, gli studenti incaricati della ricerca sono stati invitati a rispondere alla domanda "come continuare?" Spontaneamente la loro risposta è stata: "Fare un questionario che riprenda, sotto forma di domande, le diverse cause o ragioni scoperte durante le interviste esplorative". E questo è un errore: costruire un questionario a questo stadio del processo di ricerca porta, il più delle volte, in un vicolo cieco. Purtroppo lo si vede fare di frequente, anche se procedendo così, si dimostra di non tenere in alcun conto l'apporto del lavoro di lettura; inoltre saltano due operazioni importanti nel processo: la problematica e la costruzione del modello di analisi. La problematica L'elaborazione di una problematica è composta da due operazioni: la prima consiste nel fare il punto delle problematiche possibili partendo dalle letture e dalle interviste; la seconda nello scegliere ed esplicitare l'orientamento o l'approccio in base al quale si cerca di rispondere alla domanda di partenza. Fare il punto Le letture fatte rivelano degli approcci analoghi, sia che si tratti di assenteismo sul lavoro o di non frequenza ai corsi per gli studenti. Nella ricerca delle cause, si trovano in effetti due tipi di approccio. L'uno, di carattere deterministico , mette l'accento sui fattori individuali (tratti psicologici) e sulle influenze socioculturali, come se l'individuo non avesse alcuna autonomia e dovesse necessariamente subire passivamente questi condizionamenti interni o esterni. L'altro approccio, legato alla teoria dell’ “azione”, rifiuta l'idea di assoggettamento passivo dei comportamenti a condizionamenti interni o esterni, e concepisce l'individuo come un attore capace di reagire e di eludere i piani di questa determinazione. Nelle interviste esplorative si è scoperto che vi sono dei segni di assoggettamento alle norme dell'istituzione (assistere i corsi per principio o per dovere...), ma anche dei segni che rivelano che numerosi studenti calcolano (bene o male) i vantaggi della frequenza ad un corso. Queste seconde constatazioni inducono a considerare gli studenti come degli attori che hanno un progetto (la riuscita) differente da quello dell'istituzione (la formazione ottimale) e dispongono di un'autonomia sufficiente per decidere dell'opportunità della frequenza o meno ai corsi.

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Dotarsi di una problematica È questo ultimo punto di vista che è stato preso in considerazione come punto di partenza per l'elaborazione della problematica. Bisognava quindi completare il lavoro di lettura ed esplorare gli studi e le teorie che trattano dell'interazione tra l'attore e l'organizzazione , anche quando queste fossero parse, in un primo tempo, estranee alla domanda di partenza. Gli studenti hanno potuto così scoprire l'analisi strategica di Crozier e Friedberg, che si è presentata come un quadro di analisi pertinente. È dunque a partire da questa teoria che la problematica è stata costruita. In realtà, quello che avrebbe dovuto costituire una seconda tornata di letture fu superata dall'insegnante che, per ragioni pratiche, fece una breve esposizione sulle teorie della decisione, la razionalità limitata, e sull'analisi strategica. Questo intervento dell'insegnante corrisponde a quello che può fare il relatore di un lavoro di tesi, quando raccomanda allo studente di leggere il tale o talaltro autore e di orientare il lavoro in un senso o in un altro. Nondimeno, una comprensione superficiale della teoria, studiata troppo rapidamente, potrebbe dare luogo ad una problematica "deviante" (che avrà tuttavia almeno il vantaggio di mettere chiaramente in luce le conseguenze degli errori commessi in questa fase della ricerca). Era arrivato il momento di descrivere i concetti generali che costituiscono il quadro teorico del processo. In poche parole, questo orientamento è quello della razionalità dell'attore . I concetti principali sono quelli di margine di libertà, di calcolo, di strategie, di razionalità (limitata), di progetto e di regole del gioco. Per Crozier, ogni individuo dispone di un margine di libertà che gli permette di scegliere fra più soluzioni. Egli ha un cervello capace di calcolare la soluzione più adatta da usare per i propri progetti. Di conseguenza, il suo comportamento deve essere considerato come inserito in una strategia razionale, la cui razionalità (limitata) si definisce in rapporto alla posta in gioco o ai suoi progetti, in rapporto alle regole del gioco e infine in rapporto alle possibilità di cui dispone. Crozier concepisce dunque l'interazione fra l'individuo-attore e l'organizzazione come un gioco nel quale ogni attore-giocatore tenta di massimizzare i guadagni e minimizzare le perdite, il che è proprio del comportamento razionale. Ora, questo approccio corrisponde bene a quello che le interviste esplorative avevano lasciato intuire considerato che una percentuale importante di studenti sembrava, in effetti, voler ottenere un risultato soddisfacente minimizzando i propri sforzi. In questo caso, tale approccio è sembrato interessante nel senso che esso appariva più adatto di altri (Parsons, a Bourdieu, ecc.) a render conto di quello che era stato percepito sul terreno. Riassunto delle tre fasi nei termini che corrispondono alla domanda di partenza Ogni attore-studente iscritto dell'organizzazione universitaria dispone di un cervello e di un margine di libertà (frequentare o no) che lo rende capace di scegliere la strategia, ai suoi occhi, più adatta, a servire al suo progetto di riuscita. Così, è razionale frequentare il corso quando la presenza condiziona la riuscita ed è altrettanto razionale non frequentarlo se la presenza non migliora affatto le possibilità di riuscita. Una tale decisione è razionale nel senso che essa è basata sul calcolo delle probabilità di guadagno (riuscita) in funzione delle possibilità (attitudini intellettuali), delle regole del gioco (saper rispondere alle domande d'esame) e dell'interesse per la posta in gioco (passare al secondo anno e continuare gli studi). Costruendo la problematica, la domanda di partenza subisce un cambiamento. La causa dell'assenteismo diviene qualcosa di molto più complesso di quello che si è soliti definire "causa" . La causa si risolve, in effetti, nel gioco fra "l'attore e il sistema" . Essa diventa un problema di razionalità i cui criteri sono influenzati tanto dalle caratteristiche individuali che dalle caratteristiche del sistema o

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della percezione che ciascuno ne ha (norme, regole di funzionamento dell'organizzazione universitaria). Ma questa problematica è ancora soltanto un’ intuizione, un presupposto o una speculazione ipotetica che bisognerà sottomettere alla prova dei fatti, cioè alla verifica. Per arrivarci sarà necessario procedere alla costruzione di un modello di analisi. LA COSTRUZIONE DEL MODELLO DI ANALISI La formulazione di un'ipotesi La scelta di una teoria non implica soltanto la riformulazione della domanda di partenza, ma determina anche l'elaborazione di una ipotesi. Definiamo che cos'è un'ipotesi: in generale un'ipotesi è una risposta provvisoria alla domanda di partenza che è nata dalla teoria in un processo ipotetico-deduttivo (o dalla osservazione della realtà in un processo induttivo). Questa risposta provvisoria sarà confermata o falsificata nella tappa che chiameremo processo scientifico (i test empirici). Per ipotesi si intende un enunciato formale che predice la o le relazioni attese fra due o più variabili. E' una risposta plausibile al problema di ricerca. L'ipotesi può essere considerata come una risposta anticipata che il ricercatore formula alla sua domanda specifica di ricerca. Viene descritta come un enunciato dichiarativo che precisa una relazione anticipata e plausibile fra dei fenomeni osservati o immaginati. Si possono distinguere vari tipi di ipotesi: “univariate”, “bivariate” e “multivariate”. Questa distinzione si fonda sul numero di variabili contenute nelle ipotesi. Una variabile è un elemento di una ipotesi alla quale è possibile attribuire diversi valori e che, come indica il nome, varia. Nell’ipotesi “L’interesse verso il corso determina il posto scelto dagli studenti in un’aula universitaria” ci sono due variabili: l’interesse per il corso che può essere nullo, debole, medio o elevato, e il posto scelto in aula dagli studenti che può, anch’esso, variare. Così se scrivo: - “La criminalità aumenta nelle grandi città del nord America”, ho un’ipotesi univariata perché essa

contiene una sola variabile (la criminalità). - Se formulo l’ipotesi “L’impoverimento degli individui accresce la criminalità nelle grandi città

nord-americane” propongo un’ipotesi bivariata perché comporta due variabili (impoverimento degli individui e criminalità nelle grandi città nord-americane). Questo genere di ipotesi che implica una relazione di causalità fra due variabili è molto frequente nelle scienze sociali.

- Infine se scrivo “La povertà degli individui ed il consumo di droghe pesanti rende gli individui violenti” ho prodotto un’ipotesi multivariata perché essa comporta più variabili (livello di ricchezza, livello di consumo di droghe e livello di violenza).

Le condizioni di validità di un'ipotesi per essere accettabile un'ipotesi deve seguire i seguenti criteri: 1. una ipotesi predice generalmente una relazione tra delle variabili; 2. essa è una risposta provvisoria alla domanda di partenza che sarà verificata o meno al momento dei

test empirici; 3. le ipotesi di ricerca più comuni in scienze sociali sono delle ipotesi semplici o complesse (che

comprendono due o più variabili) di causalità (che implicano un legame di causalità tra le variabili); 4. nelle ipotesi di ricerca semplici, troviamo una variabile dipendente ed una variabile indipendente; 5. secondo il processo ipotetico deduttivo l'ipotesi è dedotta dal ricercatore prima di effettuare le

ricerche empiriche. A questo titolo, l'ipotesi è dedotta dalla teoria scelta o costruita dal ricercatore e sarà in seguito sottomessa ad dei test empirici al fine di verificarla. L'ipotesi è dunque teorica nel senso che deriva necessariamente dalla teoria scelta, modificata o costruita dal ricercatore. Al contrario se sceglie un processo induttivo l'ipotesi deriva dall'osservazione degli oggetti studiati.

6. Le ipotesi di ricerca sono delle "traduzioni empiriche delle premesse teoriche". In altre parole esse

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devono poter essere convalidate o rifiutate in seguito ad dei test empirici. Come vedremo si rende un'ipotesi adatta ad essere testata empiricamente operazionalizzando il quadro teorico che la sottende. Ricordiamo che le variabili e i concetti contenuti nell'ipotesi devono essere accessibili alla nostra esperienza. Il ricercatore deve avere sempre ben presente questa condizione quando formula la sua ipotes i di ricerca. Deve evitare di ricorrere a dei concetti e a delle variabili che non siano accessibili ai nostri sensi: l'ipotesi "la volontà di Dio determina le scelte degli uomini" è un esempio di ipotesi scientifica errata perché una delle variabili (la volontà di Dio) non è accessibile ai nostri sensi, alla nostra esperienza. Questa ipotesi non può essere sottomessa a dei test empirici. Inoltre, l'ipotesi deve essere formulata in maniera che essa possa essere convalidata da dei test empirici.

Torniamo alla nostra ricerca - esempio: siamo giunti alla costruzione del modello di analisi. Come abbiamo visto l'obiettivo di questa tappa consiste nel rendere osservabile e verificabile l'idea secondo la quale il comportamento dello studente sarebbe razionale sia quando frequenta che quando non frequenta i corsi. Modello e ipotesi: i criteri di razionalità Costruire il modello di razionalità consiste nello stabilire dapprima una relazione (ipotesi) tra il comportamento dello studente (presenza o assenza ad un corso) e le percezioni che egli ha di quel corso. Questa ipotesi può essere formulata nella maniera seguente: "più il corso è percepito dallo studente come avente delle caratteristiche che rendono utile la frequenza, più il tasso di presenza sarà elevato (e viceversa)". Costruire il modello di razionalità consiste nel formulare i criteri di razionalità che rendono il comportamento (presente/assente) razionale; in altre parole, si tratta di precisare le caratteristiche che il corso deve possedere perché vi sia una ragione sufficiente per frequentarlo. Il comportamento razionale in rapporto ai valori è quello che basandosi sull’ insieme delle norme e delle regole del sistema fa sì che l'attore decida che rispettarle costituisca la miglior strategia da seguire per riuscire. Qui, sono le norme e le regole dell'istituzione che costituiscono la ragione sufficiente per frequentare un corso. È il caso degli studenti che vanno a tutti i corsi "per dovere" o "per principio". Il comportamento razionale in rapporto alle finalità è quello dell'individuo che calcola in maniera selettiva l'interesse che ha a sottomettersi alle regole o ad eluderle. In questo caso, il comportamento razionale riposa su de i criteri di razionalità che bisognava scoprire: ce lo hanno rivelato le interviste esplorative. Se si esclude la costrizione (costituita dal controllo delle presenze ), i criteri che possono essere presi in considerazione per decidere dell'utilità della frequenza di un corso sono quattro. Numerosi studenti dicevano di frequentare: - quando la materia era interessante, - quando era complessa o difficile da comprendere, - quando le dispense e erano insufficienti per la riuscita, - quando il professore aiutava a comprendere la materia o con informazioni ed esempi oppure con le

sue capacità pedagogiche. In mancanza di alcune di queste condizioni non ritenevano utile assistere al corso. Queste quattro percezioni che caratterizzano un corso costituiscono le componenti del concetto "comportamento razionale per finalità" perché esse definiscono i criteri di razionalità del modello. Con questi criteri, il modello e l'ipotesi si precisano: il comportamento razionale diviene quello degli studenti il cui tasso di presenza è massimo per i corsi che sembrano presentare le quattro motivazioni che inducono alla frequenza (materia interessante, materia difficile, dispense incomplete, professore didatticamente efficace) e minimo per i corsi che non presentano nessuna delle quattro ragioni precedenti: la materia è facile, non è interessante, le dispense sono complete e l’insegnante è privo di particolari qualità pedagogiche.

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La costruzione dei concetti e gli indicatori Non è sufficiente formulare una ipotesi per operazionalizzare delle congetture teoriche, bisogna anche operazionalizzare i concetti che si ritrovano nell’ipotesi di ricerca. Ma che cos’è un concetto? Un concetto è una definizione convenzionale di un fenomeno : è una parola o un insieme di parole che designa e definisce un tipo di fenomeno. La parola “tavola” è un concetto che designa e definisce l’insieme delle tavole. Un concetto non è il nome di un fenomeno particolare, ma quello di un insieme di fenomeni “la tavola a cui sono seduto” non è un concetto perché questo insieme di parole indica e definisce una tavola precisa; invece l’insieme di parole “le tavole di legno” è un concetto perché indica un tipo di fenomeno. I concetti sono di grande utilità per l’operazionalizzazione del quadro teorico. È grazie ad essi che si possono stabilire dei legami tra le congetture teoriche e generali del ricercatore ed il mondo empirico (cosa che si verifica nella tappa relativa all’analisi delle informazioni). Indicando un fenomeno, un concetto orienta l’azione dei sensi del ricercatore nella fase di verifica che si attua con i test empirici. I concetti dicono ai sensi quel che conviene osservare quando si applicano questi tests. In un processo ipotetico-deduttivo l’operazionalizzazione di una ricerca si svolge secondo questa sequenza: ragione del ricercatore à congetture teoriche (che contengono dei concetti) à sensi del ricercatore à osservazione di fenomeni (gli oggetti indicati dai concetti). Si costruiscono dei concetti, dunque, per specificare e delimitare di cosa stiamo parlando e cosa vogliamo osservare nella realtà. Così se faccio l’ipotesi “la classe media frequenta i musei più della classe operaia” io ricorro a tre concetti: 1) classe media, 2) museo, 3) classe operaia, che dovrò definire con precisione e che determineranno quello che osserverò nella realtà (il tasso di frequentazione dei musei di gente che appartiene alle classi media o operaia). Allo stesso modo se propongo l’ipotesi: “le piogge abbondanti causano la depressione nervosa” utilizzo due concetti (piogge abbondanti e depressione nervosa) che indicano in linea di massima il genere di fenomeni particolari che considero e voglio osservare al momento dei test empirici. Sovente i concetti implicati dall'ipotesi e il modello non sono direttamente osservabili. È allora necessario precisarne gli indicatori che permetteranno di registrare i dati indispensabili per confrontare il modello con la realtà. Nell’esempio per il primo termine dell'ipotesi, il tasso di presenza, l'indicatore è facile da trovare: la presenza fisica degli studenti è direttamente osservabile e quantificabile. Ma la contabilità da tenere esige molto tempo e lavoro. Così, a proprio rischio e pericolo, si può procedere per osservazione indiretta, domandando ad ogni studente di dichiarare, per ogni corso, quale fosse il suo tasso di presenza (rapporto in percentuale tra il numero di ore di corso seguite e il numero effettivo di ore del corso). Per il secondo termine dell'ipotesi, cioè le caratteristiche del corso e la percezione che gli studenti hanno di esse, gli indicatori non hanno la proprietà di essere oggettivamente reperibili e misurabili. Non possono possedere questa qualità perché concernono delle percezioni che non possono manifestarsi altrimenti che tramite l'espressione dell'opinione degli studenti. L'indicatore è inizialmente una manifestazione osservabile e misurabile delle componenti del concetto: ma qui, tutti gli indicatori sono degli apprezzamenti soggettivi, che esprimono delle percezioni. In questo caso, quello che è osservabile è la parola che esprime l'opinione e quello che è "misurabile" non è altro che il contenuto o il senso di un discorso. I legami fra costruzione e verifica

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Costruire il modello di razionalità consiste dunque nel definire i criteri di razionalità che lo strutturano e nel precisare l’ipotesi fondamentale che esso implica e da cui è formato. Costruendo il modello si indicano i risultati che si attendono in base all’ipotesi, cioè i risultati che bisognerà ottenere perché il modello e la sua ipotesi siano confermati. Concretamente questo significa che i dati relativi al tasso di presenza e le caratteristiche del corso dovrebbero presentarsi come una nube di punti lungo una diagonale: tassi di frequenza elevata per i corsi che cumulano le 4 ragioni di frequenza e viceversa (vedi grafico)

indice ragioni presenza

100500

tass

o p

rese

nza

100

50

0

I preliminari all’analisi dei dati

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Quando i dati sono stati raccolti è necessario organizzarli in modo che possano essere letti dal

pacchetto statistico che si è stabilito di usare per esaminarli: pertanto preliminare essenziale all’analisi vera è propria è la costruzione della “matrice dei dati”. Questa matrice ha, generalmente, l’apparenza di una tabella rettangolare in cui ogni riga rappresenta i dati relativi ad ogni soggetto o caso osservato mentre, nelle colonne, figurano i valori delle variabili corrispondenti ad ogni caso. Questo tipo di matrice, detta C x V (Caso per Variabile) è la più comunemente usata nella ricerca sociale e corrisponde al tipo di matrice standard dei più noti programmi statistici.

Matrice dei dati costruita in Spss Windows

La maggioranza dei packages statististici accetta i files di dati scritti in ASCII (American Standard

Code for Information Interchange); si tratta del tipo di file più comune ed è composto da righe e da colonne di numeri: sulle righe vengono registrati i casi, nelle colonne i valori corrispondenti ad ogni caso. Quando il file di dati è stato registrato in ASCII è necessario fornire al programma precise istruzioni per la lettura delle variabili: questo può avvenire o direttamente dall’interno del programma o per mezzo della creazione di un secondo file di “definizione dei dati”, ma è comunque indispensabile specificare nome e tipo (numeriche o alfabetiche) delle variabili, la loro ampiezza, le etichette delle modalità e così via.

SPSS Windows, come in genere i vari pacchetti statistici, sono in grado di leggere i file di dati creati con Basi di dati (da Dbase ad Access) o fogli di calcolo (da Lotus ad Excell): questi particolari file contengono, di norma, anche i nomi delle variabili, le informazioni relative al tipo ed alla larghezza dei

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campi in cui sono state registrate le variabili e la codifica dei cosiddetti missing values, vale a dire dei valori relativi alle “mancate risposte”.

La matrice dei dati viene registrata, di solito direttamente, su di un supporto magnetico (un floppy o un hard disk) e costituisce quello che viene definito “file di dati”, che può essere costruito in modo diverso a seconda del pacchetto statistico che il ricercatore ha deciso di usare: ogni package è, infatti, dotato di una propria procedura interna per la regis trazione del file di dati.

Quando si entra, ad esempio, nel programma Spss la “finestra” che si presenta al ricercatore è proprio quella relativa all’editor dei dati: una matrice in cui le righe corrispondono ai casi (le unità di analisi) e le colonne rappresentano le variabili: in essa vengono registrate tutte le informazioni raccolte. Con questo programma, spostandosi nella nell’editor Visualizzazione variabili (con un semplice clic sulla voce relativa che si trova in basso nella finestra di editor, il ricercatore può facilmente “definire” le variabili del suo file di dati, sia attribuendo loro un nome diverso da quello assegnato dal programma (il nome standard consiste nelle lettere VAR seguite da un numero di 5 cifre (es. VAR00001), sia precisando il tipo di variabile (numerica con o senza decimali, alfabetica ecc.), sia abbinando ai nomi delle variabili e, in particolare, ai codici delle modalità delle mutabili8, delle etichette che consentano una lettura più agevole delle elaborazioni che si intendono effettuare. Se il ricercatore, nella domanda relativa al genere dell’intervistato, ha attribuito un codice numerico alle caratteristiche maschio e femmina, ad esempio 1 e 2, potrà abbinare a tali codici le rispettive etichette. Fig. 2. Finestra “Definisci variabile” in Spss Windows

8 Le variabili qualitative vengono spesso definite mutabili ma in queste pagine verrà, d’ora in poi, usato, generalmente, il termine variabile.

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La “pulizia dei dati” Quando il file di dati è stato creato è indispensabile procedere alla correzione degli eventuali errori

che possono essersi verificati durante la raccolta o la registrazione delle informazioni. Pertanto il primo passo che il ricercatore deve compiere consiste nel richiedere al programma il calcolo delle frequenze di tutte le variabili introdotte nel file: solo esaminando attentamente tali variabili ci si può rendere conto se vi sono modalità non previste (ad esempio un codice 5 o 6 nella variabile “Titolo di studio” se essa prevede solo quattro codici: 1= elementari, 2= scuola dell’obbligo, 3=diploma, 4= laurea). Nel caso si riscontrino valori estranei a quelli prestabiliti è necessario risalire al mezzo di raccolta delle informazioni, si tratti di questionari o d’altro: l’errore può essere avvenuto durante la registrazione su computer ed in tal caso sarà facile correggere l’inesattezza sostituendo il valore effettivo a quello sbagliato, oppure può trattarsi di un errore verificatosi durante la raccolta delle informazioni. In questo secondo caso la possibilità di correzione diventa minima perché difficilmente si potrà risalire all’intervistato per porre nuovamente la domanda: spesso si è costretti ad aggiungere i casi che presentano valori errati o incongruenti alle mancate informazioni, incrementando così i cosiddetti “missing values”, i valori con cui si codificano le risposte non date o scorrette, che vanno considerati perduti e, quindi, eliminati dal file.

Di norma, prima di procedere all’analisi dei dati vera e propria, il ricercatore valuta, per ogni variabile, la percentuale di risposte ottenute ed i cosiddetti outliers, termine con cui si definiscono i valori di una variabile talmente estremi da risultare del tutto incoerenti rispetto alla serie complessiva dei dati: il problema degli outliers consiste nella loro capacità di distorcere, anche gravemente, l’interpretazione dei dati. Si prenda ad esempio una ricerca degli anni ’80 sull’uso del tempo libero degli abitanti della città di Torino: alla domanda relativa al numero di libri letti nell’ultimo anno cinque individui (su oltre 500) indicavano valori altissimi (oltre 90 libri letti). Questi casi estremi alzavano a 8 il numero medio di libri letti in un anno dai torinesi intervistati, mentre il valore della mediana (misura meno sensibile agli outliers) risultava essere 5. Ignorando la presenza di questi valori estremi ed usando la media, si sarebbe, quindi, corso il rischio di sopravvalutare la capacità di lettura del campione in esame. Nel caso si riscontri la presenza di outliers, dunque il ricercatore deve ricalcolare la media escludendo i valori giudicati incongruenti nel complesso della distribuzione esaminata oppure usare, al posto della media, troppo sensibile ai valori estremi, la mediana.

L’organizzazione delle informazioni in una matrice è, dunque, il primo passo che consentirà di iniziarne un esame approfondito e di procedere, come secondo passo, alla pulizia dei dati. Qualunque sia il pacchetto statistico con cui intende analizzare i dati, quindi, il ricercatore dovrà richiedere al programma le frequenze di tutte le variabili del suo file. L’analisi monovariata

L’analisi e l’interpretazione dei dati raccolti costituiscono la fase cruciale dell’intero processo di ricerca: partendo dalla matrice dei dati il ricercatore deve, innanzi tutto, prendere in esame singolarmente tutte le variabili del suo file (ripulite da errori, missing values ed eventuali outliers).

Questa prima fase, che può essere definita “esplorativa”, è fondamentale in quanto anche se nel disegno della ricerca vengono generalmente già previste le analisi che dovranno essere attuate con le informazioni raccolte, la loro effettiva realizzazione dipende dalla quantità e qua lità dei dati ottenuti e quindi da una iniziale accurata disamina delle variabili considerate singolarmente. Per fare ciò è necessario procedere alla classificazione delle tecniche di analisi a seconda del tipo di variabili trattate, differenziandole a seconda che si tratti di variabili nominali, ordinali (categoriali) o misurabili a livello di scale a intervalli o di rapporti (cardinali).

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Le distribuzioni di frequenza

La forma più semplice per esaminare la matrice di dati consiste nel “contare” il numero di persone che sceglie ognuna delle possibili risposte (modalità) di una domanda (variabile). Il risultato di questa semplicissima operazione viene definito “distribuzione di frequenza”. Spss mette a disposizione, il menu Analizza ð Statistiche descrittive ð Frequenze che apre una apposita finestra in cui compare, in un riquadro sulla sinistra, l’elenco di tutte le variabili del file che si sta analizzando. Selezionando le variabili che si vogliono elaborare se ne può, così, ottenere velocemente la distribuzione di frequenza e, agendo sul pulsante specifico, se ne possono avere le relative statistiche e/o i grafici.

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Se si considera, ad esempio, la variabile “Tipo di diploma” la distribuzione di frequenza sarà la seguente: Esempio di distribuzione di frequenza (output Spss Windows)

Questo esempio riproduce l’output9 fornito dal programma Spss, che dà, oltre alla distribuzione di

frequenza, le percentuali, le cosiddette “percentuali valide” (cioè depurate dalle eventuali risposte mancanti e da quelle che si desiderano togliere dal calcolo) e le percentuali cumulative.

Le frequenze assolute hanno una valenza meramente descrittiva del campione e non consentono alcun tipo di confronto tra campioni diversi. È quindi necessario calcolare anche le cosiddette frequenze relative, cioè il rapporto fra le frequenze assolute ed il totale dei casi. Di norma, tuttavia, non ci si limita al calcolo di questo semplice rapporto ma si preferisce trasformarlo in percentuali, moltiplicandolo per cento. In pratica si preferisce rapportare le frequenze assolute non alla popola zione totale effettiva ma a 100. L’utilizzo delle percentuali è fondamentale in quanto permette la compara-zione di distribuzioni relative a campioni con un differente numero totale di osservazioni.

Il ricercatore sociale si trova a dover analizzare variabili di tipo diverso: si va, infatti, da quelle di tipo qualitativo (o categoriali) a quelle quantitative (o cardinali). Poiché l’analisi dei dati consiste appunto nel tentativo di misurare le differenze fra le diverse modalità delle variabili di una indagine, è indispensabile usare, a seconda del tipo di variabile, scale diverse di misurazione 10. La distinzione fra tipi di scale è fondamentale perché consente di determinare il tipo di analisi statistica appropriata: per le variabili di tipo nominale sono indicati solo alcuni tests non-parametrici, quelle ordinali consentono

9 Con il termine output si indica il risultato di tutte le elabora zioni che vengono richieste. 10 Per quanto riguarda la classificazione e le scale (o livelli) di misura delle variabili si rimanda al relativo capitolo.

V15 TIPO DI DIPLOMA

74 9.1 9.1 9.1242 29.7 29.7 38.8

34 4.2 4.2 43.056 6.9 6.9 49.912 1.5 1.5 51.4

176 21.6 21.6 73.030 3.7 3.7 76.7

162 19.9 19.9 96.628 3.4 3.4 100.0

814 100.0 100.0

1 MAT.CLASSICA2 MAT.SCIENTIFICA3 DIPL.MAGISTR.4 LICEO LINGUIST.5 MAT.ARTISTICA6 RAGIONIERE7 GEOMETRA8 PERITO9 ALTRO DIPLOMATotale

ValidiFrequenza Percentuale

Percentualevalida

Percentualecumulata

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l’impiego dei tests non-parametrici, mentre le variabili misurabili con scale a intervalli o di rapporti consentono l’uso di tests parametrici.

Le statistiche relative all’analisi monovariata vengono generalmente suddivise in tre gruppi: − misure di tendenza centrale − misure di dispersione − misure relative alla forma della distribuzione

Le misure di tendenza centrale

Il ricercatore, al di là della conoscenza dei dettagli di ogni modalità o valore (forniti dalla

distribuzione di frequenza), deve poter individuare, per ogni variabile, degli indici che consentano di sintetizzare la distribuzione stessa e, quindi, riassumano l’insieme delle informazioni fornite, permettendo così di concentrare, in un unico valore, l’informazione fornita da una serie di dati. Moda, mediana e media sono le tre misure di tendenza centrale che consentono, appunto, di individuare i valori caratteristici che si trovano al centro di una distribuzione di frequenza 11. La moda

La moda è la misura di tendenza centrale più semplice da valutare in quanto è costituita dal valore o

dalla modalità con frequenza più elevata: se, ad esempio, richiediamo la distribuzione di frequenza della variabile relativa al tipo di diploma degli intervistati di un campione, come nell’esempio (si veda l’output precedente) ci viene fornita una tabella con una distribuzione in cui la moda è costituita dalla modalità 2 (che ha come frequenza assoluta 242).

Talvolta una distribuzione può avere due o più valori modali e, in tal caso, si parla di distribuzione bimodale o multimodale: l’esistenza di più di una moda, tuttavia, complica l’interpretazione della distribuzione. A tale inconveniente si aggiunge il fatto che nel calcolo di questa misura non intervengono tutti i valori della distribuzione: il vantaggio di questo indice consiste nel poter essere calcolato per qualunque tipo di variabile in quanto il livello di misurazione minimo richiesto è quello nominale.

La mediana

La mediana è la misura di tendenza centrale che divide la distribuzione in due parti uguali: questo

parametro separa una serie statistica ordinata in due gruppi che comprendono ognuno, approssimativamente, il 50% dei dati. Il fatto che la mediana si situi a metà della distribuzione consente di conoscere i valori maggiormente rappresentativi del campione. Poiché la mediana indica la posizione centrale può essere calcolata soltanto per variabili misurabili almeno a livello di scala ordinale.

Può accadere che, per meglio descrivere una distribuzione, si voglia indicarne un punto in termini di percentuali di valori che cadono al di sotto di quel punto: per indicare il valore al di sotto del quale si trova una determinata percentuale di valori individuali si usa il termine percentile. Poiché, come si è appena detto, la mediana divide la distribuzione in due parti uguali, costituisce cioè il valore al di sopra e al di sotto del quale si trova il 50% de i valori individuali, essa viene anche definita come cinquantesimo percentile (P50).

11 Di qui la definizione di misure di tendenza centrale.

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I percentili che vengono usati più frequentemente sono il 25°, il 50° ed il 75°. Il valore del 25° percentile è detto anche 1° quartile (Q1), poiché un quarto dei valori si trova al di sotto di esso. Il secondo quartile (Q2) è la mediana, mentre il terzo quartile (Q3) corrisponde al 75° percentile, in quanto il 75% dei valori viene a trovarsi al di sotto di esso.

La media

La media aritmetica è la misura di tendenza centrale più comunemente usata e la più rappresentativa e costituisce il valore medio di una distribuzione. Essa costituisce, inoltre, la base di statistiche più complesse.

La scelta della misura di tendenza centrale

La scelta delle misure di tendenza centrale dipende dal tipo di livello di misurazione delle variabili

che si stanno analizzando e dal tipo di informazione che si desidera. Per le variabili misurate a livello nominale la misura più adatta potrà essere la moda: non avrebbe certo senso calcolare la media della variabile sesso ma è interessante sapere se, nel campione in esame, prevalgono i maschi o le femmine. Anche per variabili misurabili con altri tipi di scale la conoscenza della moda può rivestire un certo interesse: esso, infatti, indica il valore più rappresentativo, in quanto più frequente, di una certa distribuzione.

La mediana viene usata per variabili il cui livello di misurazione è ordinale o più alto. Essa risulta particolarmente utile quando i valori estremi della distribuzione possono distorcere la media.

La media deve essere usata solo a livello di scale a intervalli o di rapporti: è questa l’unica misura di tendenza centrale che prende in considerazione tutti i valori della distribuzione.

La tabella che segue illustra le relazioni esistenti fra misure di tendenza centrale e livello di misurazione delle variabili:

Validità d’ uso Livello Media Mediana Moda Nominale no no sì Ordinale no sì sì Intervalli sì sì sì Rapporti sì sì sì

Le misure di dispersione

Per riassumere adeguatamente le caratteristiche principali di una distribuzione, il ricercatore deve conoscere, oltre alle misure di tendenza centrale anche le cosiddette misure di dispersione. Infatti un aspetto importante di un insieme di dati è proprio il grado di variazione dei suoi valori, che viene definito dispersione: due distribuzioni possono avere uno stesso valore centrale ma presentare dispersioni molto diverse. I parametri di dispersione più usati sono il campo di variazione, la differenza interquartile, la varianza e la deviazione standard o scarto quadratico medio.

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Il campo di variazione ed il campo di variazione interquartilica (o differenza interquartile) La misura più semplice di variabilità di un gruppo di dati è il campo di variazione (o range) che è

costituito dalla differenza fra il valore massimo ed il valore minimo della distribuzione: La varianza e la deviazione standard

La varianza permette di misurare la dispersione dei dati attorno alla media ed è costituita dal rapporto fra la somma dei qua drati delle deviazioni dalla media ed il totale dei casi. Per deviazione dalla media si intende la differenza fra un qualunque dato della distribuzione e la media della distribuzione stessa e viene descritta come x xi − .

Un valore della varianza ampio significa che i valori sono abbastanza dispersi; valori piccoli indicano che le osservazioni sono abbastanza simili: un valore 0 indicherebbe che tutti i valori sono uguali.

Poiché la varianza viene calcolata elevando al quadrato le differenze dalla media, per avere un’unità di misura che non sia espressa al quadrato ma sia la stessa unità di misurazione con cui sono espresse le osservazioni, al ricercatore conviene calcolare la radice quadrata della varianza, calcolare, cioè, la deviazione standard o scarto quadratico medio Le misure relative alla forma della distribuzione

Queste misure considerano la disposizione dei valori in una distribuzione (rispetto alla curva normale) e quindi l’asimmetria e la forma della distribuzione stessa.

L'Asimmetria (o Skewness) è un indicatore del modo in cui le frequenze si raggruppano sulla curva di una distribuzione di frequenza: se il suo valore è zero la curva è simmetrica, corrisponde, cioè, alla curva normale e media, mediana e moda coincidono. Se l’indicatore di asimmetria è maggiore di zero si ha una distribuzione asimmetrica a destra (di segno positivo): ciò significa che i casi si raggruppano sulla sinistra della curva e che, nella distribuzione esaminata, la maggior parte dei valori è inferiore alla media. Se, al contrario, l’indicatore di asimmetria è minore di zero si ha una distribuzione asimmetrica a sinistra (di segno negativo), i casi si raggruppano sulla destra della curva e la maggior parte dei valori è superiore alla media. In linea di massima un valore dell’indicatore superiore a 0.8 in valore assoluto (cioè considerato indipendentemente dal segno) segnala una rilevante asimmetria della distribuzione.

Un altro indicatore del tipo di forma della curva di una distribuzione è la Curtosi, che consente di rilevare se si verifica una maggiore o minore concentrazione di valori intorno alla media. La distribuzione di certe variabili può essere più alta e più stretta: questa forma indica che la varianza è piccola in quanto vi è un’alta concentrazione di valori intorno alla media; in questo caso la media è molto rappresentativa (in quanto la dispersione intorno ad essa è minima) e la curva viene definita leptocurtica (dal greco leptos = sottile). La curva che ha una dispersione di osservazioni intorno alla media “normale” è simile alla curva normale e viene definita mesocurtica (dal greco mésos = medio). Una curva larga ed appiattita viene, invece, definita platicurtica (da platys = largo) ed indica una varianza piuttosto grande in quanto si verifica un’elevata dispersione dei valori intorno alla media. Se il valore dell’indicatore è positivo significa che la curva della variabile è leptocurtica, se è 0 la distribuzione è mesocurtica, se è negativo è platicurtica.

La rappresentazione grafica

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Oltre che per mezzo delle tavole di frequenza le informazioni possono essere rappresentate anche in forma grafica: proprio per le distribuzioni di frequenza il vecchio detto “un’immagine vale più di mille parole” si dimostra assai spesso veritiero in quanto un grafico è in grado di sintetizzare un gran numero di cifre. Fra i grafici più usati ricordiamo il diagramma a barre, l’istogramma, il grafico a torta (o diagramma circolare.

Consideriamo ad esempio la variabile “Tipo di diploma” di cui abbiamo già visto la distribuzione di frequenza: con l’aiuto del programma Spss possiamo ottenere un grafico riassuntivo che consente di cogliere immediatamente le informazioni desiderate:

Il diagramma a barre, come quello qui mostrato, viene usato per la rappresentazione grafica di

variabili misurabili a livello di scala nominale o ordinale: esso è costituito da una serie di rettangoli12 (barre) il cui numero è determinato dal numero delle modalità e la cui altezza è direttamente associata alla frequenza di ciascuna modalità. Si può scegliere di costruire il grafico sulla base delle frequenze assolute o sulle percentuali (come nell’esempio). Questo tipo di diagramma è uno dei più semplici e dei più usati e può essere presentato con le barre poste in modo verticale od orizzontale.

Anche il diagramma a torta viene usato per variabili nominali od ordinali: il cerchio, la torta, rappresenta la totalità dei casi esaminati ed ogni settore, ogni porzione di torta, è associato alla frequenza di una modalità. Poiché si avranno, quindi, tanti settori quante sono le modalità della variabile, questo tipo di diagramma è più adatto a rappresentare variabili con non più di sei o sette modalità:

12 Attualmente tutti i package statistici consentono la costruzione di grafici bidimensionali o tridimensionali come questo dell’esempio.

TIPO DI DIPLOMA

ALTRO DIPLOMA

PERITOGEOMETRA

RAGIONIERE

MAT.ARTISTICA

LICEO LINGUIST.

DIPL.MAGISTR.

MAT.SCIENTIFICA

MAT.CLASSICA

Per

cent

40

30

20

10

0 3

20

4

22

7

4

30

9

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Per le variabili metriche il grafico più adeguato è l’istogramma:

esso può assomigliare, a prima vista ad un diagramma a barre ma fra i due vi è una differenza sostanziale: i rettangoli dell’istogramma sono disposti in modo contiguo, senza il minimo spazio intermedio, in quanto servono ad illustrare variabili continue, anche se sono state create (dal ricercatore o dal programma) delle classi. Queste possono essere più o meno ampie e, abitualmente, vengono costruite in modo da presentare tutte la stessa ampiezza. Spss, ad esempio, raggruppa automaticamente i valori in intervalli di cui mostra il punto medio e, a richiesta, sovrappone all’istogramma dei dati del campione che si sta analizzando la curva normale, consentendo in tal modo di controllare immediatamente quanto la distribuzione della variabile esaminate si avvicini o differisca da quella “normale”.

Titolo di studio del padre

19.7%

30.0%

36.9%

13.5%elementari

medie

superiori

laurea

ETA'

50.0

47.5

45.0

42.5

40.0

37.5

35.0

32.5

30.0

27.5

25.0

22.5

20.0

300

200

100

0

Std. Dev = 4.86

Mean = 25.3

N = 814

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L’analisi bivariata L’osservazione dei comportamenti sociali o individuali permette di constatare come essi, spesso,

non siano indipendenti tra loro: si nota che fra i diversi fenomeni osservati esistono determinate associazioni o relazioni. Il trovarsi di fronte ad un certo numero di avvenimenti o comportamenti diversi porta a domandarsi se esista una relazione fra di essi, se siano, cioè, legati fra loro: non ci si può, quindi, accontentare di esaminarli singolarmente ma si cerca di individuare l’esistenza di relazioni che li uniscano. Quindi per quanto l’analisi monovariata sia importante e, almeno inizialmente, indispensabile, l’interesse maggiore del ricercatore sociale si rivolge allo studio delle relazioni fra variabili: molto spesso, del resto, le stesse ipotesi di ricerca si esprimono appunto in questa forma. Si procede, pertanto, ad effettuare quella che viene definita “analisi bivariata”: essa può avere obiettivi meramente descrittivi o, come accade più frequentemente, avere finalità esplicative che consistono nell’analisi delle relazioni causali fra due variabili, una indipendente e una dipendente.

Nella ricerca sociale, dove le variabili sono di tipo prevalentemente qualitativo, uno dei metodi più diffusi per procedere a questo tipo di analisi è la costruzione delle tavole di contingenza (dette anche incroci, tabelle a doppia entrata o tabulazioni incrociate). Si tratta di tabelle in cui, in uno spazio bidimensionale, vengono presentate le combinazioni delle categorie di due variabili, “incrociate” fra loro, e che ne mostrano, quindi, simultaneamente, le variazioni. In una tavola di contingenza a due variabili si hanno due assi, uno orizzontale ed uno verticale: sul primo sono riportate le categorie della variabile che formerà le colonne della tabella, sul secondo le categorie della variabile che formerà le righe. La dimensione di una tavola di questo tipo è data dal numero delle variabili che la compongono, indipendentemente dal numero delle categorie: una tavola che prende in considerazione una sola variabile (come si è visto nell’analisi monovariata) è “ad una dimensione”, una tavola che comprende due variabili è “a due dimensioni” ed è quella usata nell’analisi bivariata.

Nell’analisi multivariata si studiano tavole a k dimensioni, dove k è un qualunque numero superiore a due.

Elemento fondamentale delle tabelle di contingenza sono le “celle”: esse sono formate dall’intersezione d’una riga e d’una colonna; il numero di celle è uguale al prodotto del numero di righe e di colonne (r × c). La distribuzione delle osservazioni nelle celle determina la struttura dei dati ed è compito dell’analisi descriverla ed analizzarla.

Generalmente l’analisi statistica bivariata si può riassumere secondo la formula: la variabile A è associata alla variabile B (oppure A è in relazione con B): questa concomitanza viene definita co-occorenza quando le variabili sono di tipo qualitativo, correlazione quando le variabili sono quantitative (categoriali).

Si consideri un esempio di “incrocio” fra due variabili qualitative quali l’eventuale attività lavorativa degli studenti di Scienze Politiche di Torino ed il loro tipo di diploma (ricodificato in “maturità liceale” ed altro tipo di diploma); si può ipotizzare una relazione di causa - effetto: l’aver seguito studi liceali (variabile indipendente “Tipo di diploma”) può influire sul fatto di essere studenti a tempo pieno o lavorare, saltuariamente o in modo continuativo (variabile dipendente “Attività lavorativa”). Con SPSS ottenere una tavola di contingenza è molto semplice: usando il menu basta selezionare le voci: Analisi ⇒ Statistica descrittiva ⇒ Tavole di contingenza e richiedere, dall’interno della specifica finestra di lavoro la tabella desiderata, con le relative statistiche.

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Grafico Finestra di menu (SpssWindows) per il calcolo delle tavole di contingenza

L’esecuzione del comando produce un output contenente la tabella richiesta e tutte le statistiche

specificate;

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Tabella a doppia entrata: output della procedura Tavole di contingenza

Poiché gli incroci vanno letti nella direzione causa→effetto13, avendo posto la variabile considerata

‘indipendente’14 TIPODIP per colonna, sono state richieste, appunto, le percentuali per colonna. Si vede così che oltre il 61% degli studenti in possesso di diploma liceale, non lavora o fa solo lavori saltuari, mentre il 39% circa ha un lavoro stabile. Degli studenti con altro tipo di diploma il 38% non lavora o lo fa occasionalmente mentre il 62% ha un impiego stabile. Va ricordato, tuttavia, che le per-centuali, considerate da sole, non tengono conto dell’insieme dei dati: dire, perciò, che il 62.3% dei non-liceali ha un lavoro stabile corrisponde solo ad un esame parziale della tabella, in quanto, se ci si limita a tale affermazione, non si tiene conto del complesso dei casi considerati. Un metodo migliore di lettura della tabella è dunque quello di non limitarsi ad asserire che il 61% degli ex-liceali non lavora ma confrontare questa percentuale (di colonna) con il totale di riga relativo agli intervistati che studiano a tempo pieno, totale marginale che corrisponde alla media degli studenti che non lavorano o lo fanno solo occasionalmente. Questo metodo di lettura viene definito “dello scarto dall’indipendenza”15: si tratta infatti di verificare se le due percentuali sono uguali fra loro (nel qual caso si potrebbe asserire che fra tipo di diploma ed attività lavorativa non vi è relazione e le due caratteristiche sono fra loro indipendenti) o se invece differiscono. Qualora si riscontri una differenza fra la percentuale di colonna ed il totale di riga (come nel caso dell’esempio) si può procedere ad un’ulteriore analisi, misurando tale differenza e controllando se si tratta di uno scarto positivo o negativo: nel primo caso si potrà affermare di avere uno scarto positivo dall’indipendenza, un’“attrazione positiva” fra riga e colonna (nel-l’esempio si ha un 61% di liceali che studiano a tempo pieno su una percentuale complessiva di non lavoratori pari a poco più del 48%). Nel caso la percentuale di colonna risultasse inferiore alla percentuale media di riga, si verificherebbe una “attrazione negativa”, un deficit rispetto all’indipendenza.

13. cfr. H. Zeisel, Ditelo con i numeri , Marsilio, Bologna, 1968, pp. 53-63. 14. Se si pongono in relazione due variabili è detta indipendente la variabile che può provo care mutamenti nell'altra ma non può esserne influenzata; viene, invece, detta dipendente la variabile che può venir influenzata ma non può a sua volta condizionare la variabile con cui è posta in relazione. 15. Cfr. J.P. Benzécri, L'analyse des données, Paris, Dunod, 1973

ATTIVRIC Eventuale attività lavorativa * TIPODIP Tipo di diploma

228 168 396

61.3% 38.0% 49%

144 274 418

38.7% 62.0% 51%

372 442 814

100.0% 100% ****

Conteggio% entroTIPODIP Tipodi diploma

Conteggio% entroTIPODIP Tipodi diploma

Conteggio% entroTIPODIP Tipodi diploma

1 no/lavori saltuari

2 lavoro stabile

ATTIVRIC Eventuale attivitàlavorativa

Totale

1 liceali

2 nonliceali

TIPODIP Tipo didiploma

Totale

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La lettura del chi-quadrato

Una prima lettura della tabella è già stata sufficiente ad indurci a pensare che tra le due variabili esista, effettivamente, una relazione: gli studenti di estrazione liceale sono studenti a tempo pieno in misura maggiore dei compagni con altro tipo di diploma e fra le due caratteristiche esiste un’attrazione positiva. Per testare in maniera più analitica l’influenza che l’estrazione liceale sembra avere sull’attività lavorativa durante gli studi universitari e poter affermare che la relazione individuata non è casuale, si può usare un particolare test di indipendenza: il chi-quadrato che, partendo dall’ipotesi di indipendenza delle due variabili, opera sulle percentuali marginali. Se le due variabili fossero indipen-denti si dovrebbero trovare, nelle celle, valori che dipendono unicamente dai valori totali marginali.

Il test chi-quadrato (χ2) è uno dei test che, calcolando la differenza tra frequenze osservate e frequenze attese, aiuta a determinare se esista una relazione sistematica fra due variabili.

Se non c’è relazione fra due variabili di un campione allora ogni deviazione dai valori attesi che si verifica in una tabella ba sata su di un campione casuale è dovuta al caso. Ora, mentre delle piccole differenze possono ragionevolmente essere dovute al caso, è improbabile che lo siano valori di chi-quadro abbastanza grandi. Poiché la relazione esistente fra le due variabili nella popolazione madre, o universo, non è conosciuta, si considera che non esista relazione fra due variabili quando il valore del chi-quadrato è piccolo (in questo caso si parla di indipendenza statistica). Al contrario un valore di chi-quadrato grande implica l’esistenza di una relazione sistematica fra le variabili stesse. Per determinare se esiste una relazione sistematica è necessario de terminare la probabilità di ottenere un valore di chi-quadro uguale o più grande di quello calcolato dal campione quando le variabili sono realmente indipendenti e questo dipende, almeno in parte, dai gradi di libertà che variano con il numero di righe e di colonne: in una tabella vengono calcolati moltiplicando il numero di righe meno 1 per il numero di colonne meno 1. La loro importanza è data dal fatto che la probabilità di ottenere uno specifico valore di chi-quadro dipende dal numero di celle della tavola. Nell’esempio si ha un chi-quadro di 48.843: la probabilità di ottenere, per il solo effetto del caso, un valore uguale o superiore con 1 grado di libertà è dello 0.000, cioè meno di 1 volta su 1000.

Questa probabilità viene anche definita li vello di significatività: se è molto piccola (normalmente meno di 0.05 o di 0.01) l’ipotesi che le due variabili siano indipendenti può essere rifiutata. Spss, quando viene richiesto il calcolo del chi-quadrato, fornisce il valore calcolato del test, i gradi libertà e la probabilità (o livello di significatività).

L’output fornito dal programma Spss Windows, avendo selezionato Chi-quadrato per la tabella dell’esempio è il seguente:

Chi-quadrato

43.826b 1 .000

42.899 1 .000

44.208 1 .000

.000 .000

43.772 1 .000

814

Chi-quadrato di Pearson

Correzione di continuità a

Rapporto diverosimiglianzaTest esatto di Fisher

Associazionelineare-lineare

N. di casi validi

Valore dfSig. asint.

(2 vie)Sig. esatta

(2 vie)Sig. esatta

(1 via)

Calcolato solo per una tabella 2x2a.

0 celle (.0%) hanno un conteggio atteso inferiore a 5. Il conteggio atteso minimoè 180.97.

b.

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Come si vede, il livello di significatività è sufficientemente basso da permettere di respingere l’ipotesi nulla di indipendenza delle due variabili considerate.

Il Chi-quadrato aiuta il ricercatore a decidere se le variabili considerate siano o meno indipendenti fra loro, ma non dice nulla rispetto alla forza della relazione esistente. Ciò è dovuto al fatto che questo test è influenzato dalla grandezza del campione e dall’ampiezza della tabella. Vi sono alcune misure di associazione che, pur basandosi su chi-quadrato, sono in grado di minimizzare l’influenza dei gradi di libertà e dell’ampiezza del campione: i risultati di questi test va riano da 0 a +1 (un coefficiente 0 indica indipendenza, un coefficiente +1 una relazione massima fra le variabili).

Queste misure del grado di associazione servono per interpretare il grado di aumento di prevedibilità dei valori di un caso per una variabile A, sulla base della conoscenza dei suoi valori in una variabile B; oppure servono per determinare il grado di riduzione d’errore nel prevedere A in base a B. Si tratta, in altri termini di minimizzare i due diversi tipi di errore in cui si può incorrere nell’analisi statistica 16. Tutti i packages statistici mettono a disposizione numerose misure di associazione, aiutando il ricercatore nella scelta suddividendole, come fa Spss, in quelle adatte alle variabili nominali, ordinali o ad intervalli.

Nella tabella dell’esempio l’output della richiesta del coefficiente V di Cramer è la seguente:

Poiché la significatività del test è piuttosto bassa, si può rifiutare l’ipotesi nulla ed affermare che, fra

le due variabili, vi è ef fettivamente dipendenza. Questi test sono piuttosto potenti e molto usati soprattutto nelle survey. Rappresentazione grafica di una tabella di contingenza

Con l’aiuto di un qualunque package statistico è anche possibile costruire un grafico relativo

all’incrocio di due variabili. In Spss Windows, ad esempio, il menu Grafici consente di creare facilmente e velocemente il grafico relativo alla tavola di contingenza precedentemente illustrata.

16 . L’errore di I tipo o α consiste nel respingere come falsa l’ipotesi nulla quando essa è vera; l’errore di II tipo o β consiste nell’accettare come vera l’ipotesi nulla quando essa è falsa.

Misure simmetriche

.232 .000

.232 .000814

PhiV di Cramer

Nominale pernominale

N. di casi validi

ValoreSig.

appross.

Senza assumere l'ipotesi nulla.a.

Viene usato l'errore standard asintotico in baseall'assunzione dell'ipotesi nulla.

b.

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Confronto fra le medie Un interessante metodo di analisi di coppie di variabili, quando il livello di misurazione della

variabile dipendente è, almeno, ad intervalli, mentre la variabile indipendente è nominale, ordinale o di-cotomica, è dato dalla procedura Comparazione delle medie. Questa procedura è molto simile alla Tavola di contingenza ma in essa vengono calcolate misure quali la media, la varianza e la deviazione standard della variabile dipendente, rispetto alle categorie della variabile indipendente.

Se, ad esempio, si volesse analizzare il diverso comportamento degli studenti rispetto all’età di iscri-zione alla facoltà di Scienze Politiche a seconda dell’attività lavorativa, si potrebbe, appunto, usare questo tipo di procedura. Avendo a disposizione, ad esempio, la variabile ETASCPOL relativa all’età in cui gli studenti si sono iscritti alla facoltà: l’età media all’iscrizione della popolazione complessiva

Eventuale attività lavorativa

lavoro stabileno/lavori saltuari

Per

cent

uale

70

60

50

40

30

20

10

0

Tipo di diploma

liceali

non liceali

62

38 39

61

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del campione risulta essere di 20,25 anni, ma l’ipotesi è che essa differisca se gli intervistati sono studenti a tempo pieno oppure hanno un lavoro stabile. Per verificare questa ipotesi si può, dunque, usare la procedura Confronta medie.

Per attivarla in Spss Windows è sufficiente selezionare da menu: Analizza ⇒ Statistiche descrittive ⇒ Confronta medie ⇒ Medie.

L’output di questa procedura, per l’esempio fatto, con la scelta della variabile Età di iscrizione a Scienze Politiche come dipendente ed Eventuale attività lavorativa come indipendente si presenta come segue:

Come si vede il programma fornisce la descrizione della popolazione: viene data la media, la deviazione standard ed il numero dei casi dell’“Età al momento dell’iscrizione a Scienze Politiche”, separatamente per ogni sottogruppo della variabile “Eventuale attività lavorativa” e per la popolazione complessiva. Si può in tal modo constatare, ad esempio, (rispetto all’età media normale di iscrizione all’università che può essere considerata di 19/20 anni) gli studenti di Scienze Politiche si iscrivono, complessivamente, in ritardo, cioè dopo i 21 anni. Questo però è solo il dato generale in quanto, grazie alla procedura che consente di analizzare meglio il campione, si può vedere come siano gli studenti che hanno un lavoro stabile ad alzare l’età media di iscrizione. Mentre infatti gli studenti che lavorano a tempo pieno si sono iscritti, in media, alla facoltà a 23 anni circa (quando cioè uno studente tradizionale sta per terminare il corso di studi) quanti non lavorano o hanno solo attività saltuarie, sono quasi in regola con la normale età di iscrizione.

La richiesta dell’analisi della varianza, opportunamente richiesto, fornendo il test F e la sua significatività, consente al ricercatore di respingere l’ipotesi nulla dell’uguaglianza delle medie.

5. La logica delle relazioni causali Come già detto, soprattutto nella ricerca sociale, si tende a stimare gli avvenimenti in termini di

causa ed effetto, considerando implicito e naturalmente acquisito il concetto di causalità. Tuttavia è fondamentale porsi il problema del reale significato di affermazioni più o meno generiche quali” il fumo provoca il cancro” o “la diffusione della droga causa un aumento della criminalità”. In altri termini, il ricercatore deve chiedersi cosa significhi affermare: la variabile indipendente A causa una variabile dipendente B. Una relazione di causa ? effetto si verifica soltanto in presenza di tre precise condizioni: I. La causa deve precedere l’effetto: la variabile indipendente deve, pertanto, intervenire prima della

variabile dipendente. Nella ricerca scientifica, sociale o di qualunque altro tipo, le esperienze sono

ETASCPOL

20.2480 250 1.660619.9296 142 1.432422.7368 418 4.3130

21.4765 810 3.5358

ATTIVRIC1 NESSUNA2 SALTUARIA3 STABILE/CONTINUAT.

Totale

Media NDeviazione

std.

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strutturate in modo tale per cui il ricercatore analizza la variabile indipendente prima di osservarne gli effetti su di una variabile dipendente.

II. Le due variabili, indipendente e dipendente, devono essere fra loro associate. Relativamente a questa condizione bisogna rifarsi alla statistica che, come si è visto, mette a disposizione numerosi test per verificare e/o misurare l’esistenza di tale associazione.

III. L’associazione fra le due variabili non deve dipendere da un altro fattore, da una terza variabile antecedente. Questa terza condizione, anch’essa di tipo statistico, specifica che non deve esistere una variabile (detta antecedente) che, agendo prima della variabile indipendente, provochi fra A e B una relazione di tipo statistico ma non causale, una relazione, cioè, logicamente falsa e pertanto definita “spuria”.

Nelle scienze sociali, la presenza di questa terza condizione viene, controllata con l’introduzione di

una terza variabile detta appunto “variabile di controllo”. Esaminiamo come sia possibile utilizzare una terza variabile, per verificare l’esistenza di una

eventuale relazione spuria in una tavola di contingenza: un primo incrocio fra il genere degli studenti e l’eventuale attività lavorativa durante gli studi ha dato i seguenti risultati:

Chi-quadrato di Pearson = 7.509 Sig. 0.023 Secondo questa tabella sembra esistere un’associazione statistica fra genere ed attività lavorativa 17:

le studentesse tenderebbero a lavorare, durante gli studi universitari, in percentuale minore dei compagni. È tuttavia possibile verificare che non si tratti di una relazione spuria introducendo un’altra variabile, ad esempio il titolo di studio, che (come si è visto nell’esempio precedente) ha una significativa influenza sull’attività lavorativa.

17 Anche se un valore di solo 0.10 della V di Cramer avverte che si tratta di un legame molto debole

Tavola di contingenza ATTIVRIC * V02 SESSO

134 116 250

29.9% 32.0% 30.9%

66 76 142

14.7% 21.0% 17.5%

248 170 418

55.4% 47.0% 51.6%

448 362 810

100.0% 100.0% 100%

Conteggio% entro V02SESSO

Conteggio

% entro V02SESSO

Conteggio% entro V02SESSO

Conteggio% entro V02SESSO

1 NESSUNA

2 SALTUARIA

3 STABILE/CONTINUAT.

ATTIVRIC

Totale

1 MASCHIO

2 FEMMINA

V02 SESSO

Totale

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Con il menu del programma Spss Windows, ottenere l’incrocio fra tre variabili è molto semplice, basta indicare la variabile di controllo nella finestra Tavole di contingenza

Esempio di tabella a tre dimensioni

L’output della procedura richiesta consiste in una tavola costituita da due tabelle bivariate, ognuna delle quali descrive la relazione fra ‘Genere’ e ‘Attività lavorativa’ rispetto ad un particolare ‘Tipo di diploma’ (maturità liceale –altra maturità)

Esempio dell’output Spss di un incrocio a tre dimensioni

Tavola di contingenza ATTIVRIC * V02 SESSO * TIPODIP

94 72 16636.7% 39.1% 37.7%

162 112 27463.3% 60.9% 62.3%

256 184 440100.0% 100.0% 100%

106 120 22655.2% 67.4% 61.1%

86 58 14444.8% 32.6% 38.9%

192 178 370100.0% 100.0% 100%

1 no/lavori saltuari

2 lavoro stabile

ATTIVRIC

Totale

1 no/lavori saltuari

2 lavoro stabile

ATTIVRIC

Totale

TIPODIP0 altro dip.

1 liceo

1 MASCHIO

2 FEMMINA

V02 SESSO

Totale

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Queste tabelle bivariate, quando sono incluse in una tavola multivariata, vengono definite tabelle parziali ed è possibile calcolare, per ciascuna di esse, una misura di associazione o il test del chi quadrato18.

Nel caso dell’esempio questo test mostra chiaramente che l’associazione statistica prima rilevata fra

le variabili Genere e Attività lavorativa permane solo rispetto a quanti provengono dai licei. Quella rilevata era, dunque, una relazione, almeno parzialmente, spuria dovuta all’effetto di una terza variabile (il Tipo di diploma) che ha una forte relazione causa –> effetto sull’eventuale attività lavorativa degli studenti universitari.

18. Vi sono dei metodi più avanzati per calcolare il Chi-quadrato per tabelle parziali, metodi che si basano sulla separazione del chi-quadrato bivariato in due chi-quadrati differenti delle tabelle parziali, ma per l’utilizzo di questi test si rimanda alla consultazione di testi di statistica avanzata.

Chi-quadrato

.265b 1 .6075.790c 1 .016

Chi-quadrato di PearsonChi-quadrato di Pearson

TIPODIP0 altro dip.1 liceo

Valore dfSig. asint.

(2 vie)

Calcolato solo per una tabella 2x2a.

0 celle (.0%) hanno un conteggio atteso inferiore a 5. Il conteggioatteso minimo è 69.42.

b.

0 celle (.0%) hanno un conteggio atteso inferiore a 5. Il conteggioatteso minimo è 69.28.

c.