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1 1 - Enti che partecipano alla vita di relazione internazionale 2 - Il riconoscimento 3 - Status soggettivi degli enti internazionali 4 - Il territorio 5 - La successione internazionale tra stati 6 - Il diritto del mare 7- La tutela dell' indipendenza statale nell'ordinamento degli stati esteri 8 - Le fonti del diritto internazionale 9 - Il diritto dei trattati 10 - L'adattamento del diritto interno al diritto internazionale 11 - La soluzione delle controversie internazionali e l'accertamento del diritto 12 - L’individuo e la tutela internazionale dei diritti dell’uomo 13 - Il trattamento delle persone fisiche e giuridiche straniere 14 - La responsabilità internazionale 15 - Il divieto dell'uso della forza 16 - La sicurezza collettiva 17 - Conflitti armati e disarmo

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1 - Enti che partecipano alla vita di relazione internazionale 2 - Il riconoscimento 3 - Status soggettivi degli enti internazionali 4 - Il territorio 5 - La successione internazionale tra stati 6 - Il diritto del mare 7- La tutela dell' indipendenza statale nell'ordinamento degli stati esteri 8 - Le fonti del diritto internazionale 9 - Il diritto dei trattati 10 - L'adattamento del diritto interno al diritto internazionale 11 - La soluzione delle controversie internazionali e l'accertamento del diritto 12 - L’individuo e la tutela internazionale dei diritti dell’uomo 13 - Il trattamento delle persone fisiche e giuridiche straniere 14 - La responsabilità internazionale 15 - Il divieto dell'uso della forza 16 - La sicurezza collettiva 17 - Conflitti armati e disarmo

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Diritto internazionale Il diritto internazionale regola i rapporti tra gli enti che compongono la comunità internazionale; di tale comunità non fanno parte solo gli stati sovrani ed indipendenti, ma anche altre entità. La comunità internazionale non è comunità di subordinazione, bensì di coordinamento: non esiste un’autorità sovraordinata, e sarebbe errato individuarla oggi nell’ Organizzazione delle Nazioni Unite o ieri nella Società delle Nazioni. Per questo motivo le Nazioni Unite non possono essere considerate come l’embrione di un governo mondiale. La comunità internazionale affonda le sue radici nei secoli passati: gli autori sono discordi in merito alla sua costituzione, alcuni fanno infatti risalire la sua nascita al IX secolo, con i rapporti che si instaurarono tra i tre imperi allora esistenti, quello carolingio, bizantino ed islamico; altri ne collocano invece la nascita intorno alla fine della guerra dei trent’anni, con la pace di Westfalia del 1648, la quale avrebbe dato vita ad una comunità di gran lunga più ampia di quella precedente ed essenzialmente cristiana. Nel diritto internazionale vige il principio del “decentramento delle funzioni”, mentre negli ordinamenti giuridici nazionali sono accentrati; la differenza si percepisce prendendo in considerazione le tre funzioni essenziali di un ordinamento giuridico: produzione, accertamento, e realizzazione coercitiva del diritto. Nella comunità internazionale, la produzione del diritto consiste invece in consuetudini ed accordi, cioè di regole di cui sono destinatari gli stessi soggetti che le hanno poste in essere. Nella comunità internazionale la giurisdizione ha base consensuale ed è quindi improprio parlare di attore e di convenuto. La struttura decentrata si riflette anche in relazione alla realizzazione coercitiva del diritto: l’ inorganicità della comunità internazionale si riflette soprattutto nell’ esecuzione delle sentenze internazionali, secondo il quale, se la parte soccombente non adempie agli obblighi imposti, gli strumenti societari predisposti dalla comunità internazionale non assicurano necessariamente il soddisfacimento del diritto della parte vittoriosa. Questa infatti può ricorrere al Consiglio di Sicurezza affinché siano raccomandate misure appropriate, ma il Consiglio non può assicurare direttamente l’esecuzione della sentenza, mancando di un apparato coercitivo. Malgrado l’evoluzione subita dalla comunità internazionale mediante lo sviluppo dei meccanismi eteronomi di produzione del diritto e la proliferazione di tribunali internazionali, il principio del decentramento delle funzioni resta alla base della società internazionale.

Enti che partecipano alla vita di relazione internazionale Tradizionalmente si parla di soggetti di diritto internazionale ma bisogna specificare che non vi è una completa identificazione tra enti che partecipano alla vita di relazione e soggetti di diritto internazionale, poiché vi sono degli enti come gli stati sovrani ed indipendenti che hanno una piena soggettività internazionale ed altri come gli insorti che hanno una soggettività internazionale limitata, altri ancora la cui soggettività è addirittura contestata come ad es. l’Ordine di Malta. Gli enti che partecipano alla vita di relazione internazionale, si dividono in quattro categorie:

Enti territoriali, cioè entità che presentano come caratteristica l’esercizio del potere di governo su una comunità territoriale. Stati sovrani e indipendenti e gli insorti.

Enti che non esercitano attualmente un potere di governo su un territorio, ma hanno come obiettivo l’acquisizione di questo potere. Governi in esilio, comitati nazionali all’estero e movimenti di liberazione nazionale.

Enti non territoriali di diversa natura che neppure aspirano ad acquistare un territorio. Sono entità sui generis alle quali è eccezionalmente attribuita la capacità di intrattenere relazioni internazionali. Santa Sede, Ordine di Malta, Comitato Internazionale Croce Rossa.

Enti non territoriali che sorgono per volontà degli Stati e che mantengono durante la loro vita un legame indissolubile con questi. Organizzazioni Internazionali.

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Controverso è lo status dell’ individuo nel diritto internazionale, il quale non è partecipe di nessuna delle tre funzioni dell’ordinamento internazionale. 1 – Enti territoriali 1.1 – Stati sovrani e indipendenti: Ruolo primario nelle relazioni internazionali è assunto dagli enti dotati di potestà territoriale, prima di tutto gli stati che sono i soggetti principali del diritto internazionale. La soggettività internazionale è propria degli Stati sovrani ed indipendenti (è necessario, quindi, un governo autonomo ed indipendente che eserciti le funzioni in modo efficiente ed effettivo). Non sono quindi soggetti di diritto internazionale gli Stati federati poiché non sono indipendenti. Non è elemento rilevante ai fini dell’acquisto di soggettività internazionale la dimensione del territorio di uno Stato o del suo popolo, infatti sono a pieno titolo soggetti di diritto internazionale Stati molto piccoli. Tuttavia sorge un problema per gli Stati esigui come San Marino, Andorra, Monaco etc. ad esempio, poiché questi dipendono da terzi per la condotta delle loro relazioni internazionali. Il dubbio della soggettività internazionale di questi Stati si basa sulla loro mancanza del requisito dell’indipendenza, ma sono da alcuni considerati soggetti gli Stati protetti esistiti durante il periodo coloniale. Anche i territori sotto mandato sono entità prive di soggettività internazionale, come quelli sotto amministrazione fiduciaria. Non vanno considerate soggetti di diritto internazionale nemmeno le autorità dotate di autonomia all’interno di uno Stato. E’ questo il caso dell’Autorità Palestinese, perché manca del requisito dell’effettività essendo soggetta alla volontà di Israele. 1.2 – Insorti: Oltre agli Stati sovrani e indipendenti, partecipano alla vita di relazione internazionale, altri soggetti di diritto internazionale come enti territoriali: è il caso dei movimenti insurrezionali, che hanno come obiettivo il rovesciamento del governo di uno Stato oppure la secessione di una parte del territorio dello Stato tramite la lotta armata. Sono da ritenere enti territoriali soltanto se questi esercitano effettivamente un controllo esclusivo su una parte di territorio e popolazione, e non si tratti di semplici disordini interni. La loro rilevanza sul piano internazionale è connessa al principio di effettività. Sono enti temporanei perché destinati a trasformarsi in uno Stato o a sostituirsi al governo costituito, se vincono, e a retrocedere come semplice gruppo di individui, se perdono. Per questo, rispetto agli Stati hanno una capacità internazionale limitata: gli insorti possono concludere accordi con soggetti internazionali in base alle norme che regolano la condotta delle ostilità contro il governo legittimo e alle norme che disciplinano l’esercizio del potere di governo degli insorti sul territorio da loro controllato. Per quanto riguarda le facoltà del governo legittimo, questo può:

lecitamente reprimere l’insurrezione avendo solo come vincolo limiti di natura umanitaria (art. 3 Convenzione di Ginevra e protocollo addizionale del 1977).

Gli insorti non sono considerati legittimi combattenti e quindi se catturati non sono considerati prigionieri di guerra, ma possono essere trattati come semplici criminali. Gli insorti hanno capacità bellica limitata, non possono condurre ostilità in alto mare.

Se l’insurrezione è sconfitta il governo legittimo non è responsabile dei danni provocati dagli insorti. Se l’insurrezione invece vince, il nuovo governo è tenuto a riparare i danni causati dagli insorti ed è anche responsabile per i danni causati dal governo precedente. I terzi (altri Stati) possono aiutare il governo costituito, ma non gli insorti; se lo fanno commettono un illecito internazionale. I terzi non possono fornire armi agli insorti, ma solo al governo legittimo.

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2 – Enti non territoriali che aspirano a divenire organizzazioni di governo di una comunità territoriale 2.1 – Governi in esilio: Fra gli enti che pur non esercitando il potere su un determinato territorio, aspirano a divenire organizzazioni di governo di una comunità territoriale, si annoverano i governi in esilio. Tale istituto ha avuto particolare rilevanza durante la II Guerra Mondiale, quando diversi governi di Stati occupati dalla Germania si rifugiarono nel Regno Unito. E’ necessario che vi sia uno Stato disposto ad ospitare questo ente e a permettergli di espletare le sue funzioni. Vengono considerati soggetti di diritto internazionale quando la nuova situazione della comunità territoriale dalla quale provengono e che aspirano a rigovernare sia in transito. Vedi nel corso di una guerra (occupatio bellica) la quale non estingue la personalità dello stato occupato. Il governo in esilio opera come ente fiduciario del popolo da esso rappresentato: ad esempio, a seguito dell’invasione irachena del Kuwait nel 1990, il governo kuwaitiano andò in Arabia Saudita in esilio. Il governo in esilio può esigere l’adempimento di accordi a favore della popolazione per cui opera. La fine della guerra dovrebbe portare alla fine del governo in esilio che può riuscire a reintegrarsi come organizzazione centrale dello Stato da cui proviene, o si estingue. 2.2 - Comitati nazionali all’estero: Vedi durante la I Guerra Mondiale con il riconoscimento, ad esempio da parte di Francia, Italia e Ragno Unito, dei comitati nazionali cecoslovacco e polacco. Questo ente assume la gestione degli interessi di una comunità nazionale che aspira a governare in futuro, ma che attualmente è soggetta ad un potere statale. Esistono se c’è uno Stato in guerra contro lo Stato che attualmente governa la comunità di cui il comitato è espressione e se c’è uno Stato terzo disposto ad ospitarli. Al comitato dev’essere consentito di esercitare funzioni di governo sui connazionali che si trovano all’estero. Per essere rilevante a livello internazionale deve disporre di proprie forze armate. Questi enti divengono titolari di diritti e obblighi derivanti dal diritto bellico, possono concludere accordi sull’impiego delle loro forze armate e in alcuni casi intrattengono relazioni diplomatiche. Questa figura oggi ha perso d’importanza e per alcuni versi è stata assorbita dal movimento di liberazione nazionale. 2.3 - Movimenti di liberazione nazionale: Enti organizzati rappresentativi di un popolo in lotta per l’autodeterminazione. Anche questi aspirano a divenire organizzazioni di governo di una comunità territoriale. La loro rilevanza sul piano internazionale non è legata al principio di effettività (vedi insorti), ma al principio di autodeterminazione dei popoli; è l’ente che rappresenta un popolo attualmente sottomesso a dominio coloniale, o razzista, o ad occupazione straniera. (es. movimenti di liberazione nazionale durante la decolonizzazione degli anni ’60; l’OLP - Organizzazione per la Liberazione della Palestina). Questi enti prendono parte ai lavori di organizzazione internazionali e partecipano a conferenze internazionali (L’OLP è stata osservatore all’Assemblea Generale dell’ONU ed è stata membro della Lega Araba). Hanno inoltre capacità di concludere accordi soprattutto per quanto riguarda lo svolgimento delle ostilità contro il governo costituito o la costituzione del futuro Stato (vedi accordi di Oslo-Washington del 1993 tra OLP e Israele per quanto riguarda lo status dei territori palestinesi). La disciplina che regola le guerre di liberazione nazionale è distaccata da quella che regola le guerre civili. Si è affermata nel diritto consuetudinario la regola per la quale il governo non può usare la forza per privare il popolo del diritto di autodeterminazione, quindi la repressione violenta è da considerare illecita. Ai terzi è vietato l’intervento a fianco del governo costituito per la repressione del popolo. Alcune risoluzioni dell’Assemblea Generale attribuiscono ai popoli in lotta per l’autodeterminazione il diritto di ricevere aiuti da terzi Stati in una guerra di liberazione nazionale (diritto di resistenza). 3 – Enti non territoriali 3.1 - Santa Sede: Accanto agli enti territoriali ed a quelli che aspirano a divenire tali, partecipano alla vita di relazione internazionale alcune entità di varia natura che non sono riconducibili a nessuna delle predette categorie. E’ il caso della Suprema autorità della Chiesa Cattolica: essa fa parte di quella categoria di enti

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che hanno caratteristiche peculiari e che sono associati alla comunità internazionale a titolo individuale. Ha il potere di concludere accordi internazionali (sono chiamai concordati quando hanno per oggetto il trattamento riservato alla religione cattolica e al clero). Partecipa ai lavori di organizzazioni internazionali (è osservatore all’Assemblea Generale dell’ONU, membro dell’OSCE e dell’AIEA e prende parte a conferenze internazionali). Intrattiene rapporti diplomatici con i maggiori Stati membri della comunità internazionale. I rapporti con l’Italia sono disciplinati dai Patti Lateranensi del 1929 composti da un trattato, una convenzione finanziaria e un concordato. L’Italia riconosce la sovranità della Santa Sede sulla città del Vaticano. La città del Vaticano assume lo stato di neutralità permanente, rimarrà estranea alle competizioni territoriali fra gli Stati a meno che gli Stati contendenti facciano appello alla sua missione di pace. La Santa Sede in quanto ente internazionale è esente da giurisdizione nell’ordinamento italiano. La Santa Sede (persona internazionale) è diversa dallo Stato Città del Vaticano (dominio territoriale). Il collegamento è dato dal Papa che è autorità centrale di entrambi. 3.2 - Ordine di Malta: In epoche remote ha esercitato autorità di governo su diversi territori. Inizialmente si stabilì a Gerusalemme, poi si trasferì a San Giovanni d’Acri, poi a Cipro e a Rodi. Dal 1530 l’ordine ebbe in feudo Malta da cui venne cacciato da Napoleone. Da quel momento è venuto meno il suo dominio territoriale. Intrattiene relazioni diplomatiche con alcuni Stati; è stato ammesso come osservatore all’Assemblea Generale nel 1994; svolge funzioni di carattere umanitario sia in tempo di pace sia in occasione di conflitti armati; emette passaporti. I rapporti tra l’Italia e l’Ordine di Malta sono disciplinati da uno scambio di note dell’11 gennaio 1960. 3.3 - Comitato Internazionale della Croce Rossa: Si è costituito nella forma di associazione di diritto privato ai sensi del diritto svizzero. Ha sede a Ginevra, è composto da individui nominati per cooptazione; è un ente umanitario che promuove i “principi fondamentali ed uniformi dell’istituzione della Croce Rossa”; opera con indipendenza politica, confessionale ed economica; svolge attività di rilievo internazionale durante i conflitti armati: le quattro convenzioni di Ginevra del 1949 assegnano al Comitato le funzioni di organizzazione umanitaria nel caso in cui non sia possibile affidare questi compiti alle potenze protettrici (Stati neutrali) o ad un sostituto di queste. E’ abilitato, per quanto riguarda i conflitti armati internazionali, ad offrire i suoi servigi alle parti in conflitto. Gli è stato attribuito lo status di osservatore presso l’Assemblea Generale; stipula con gli Stati accordi volti a determinare lo status dei suoi funzionari, della sede della missione e dei suoi beni. 4 – Enti non territoriali che hanno un legame con gli stati 4.1 – Organizzazioni internazionali: Con tale allocuzione si indicano associazioni fra Stati provviste di un apparato di organi. Sono enti che nascono per volontà degli Stati attraverso un trattato istitutivo e possono estinguersi se si afferma una volontà in questo senso dei suoi membri. Non sono enti di fatto, cioè originari della comunità internazionale come gli Stati, ma invece sono enti derivati. Ci sono organizzazioni internazionali a carattere universale (es. ONU) ed a carattere regionale (es. UE). Esse hanno di regola una struttura tripartita composta da: un’assemblea, un consiglio esecutivo (entrambi sono organi collegiali composti da Stati), ed un segretariato generale (organo individuale, non può ricevere istruzioni dagli Stati membri). Esistono anche organizzazioni internazionali non fondate su un trattato (vedi OSCE). Gli Stati non fondatori diventano membri delle organizzazioni mediante procedura di ammissione. Nell’ONU questa è disciplinata dall’art. 4 della Carta. Uno Stato può essere espulso o sospeso dall’organizzazione. Le procedure di voto sono di diverse tipologie:

Consensus: non ha luogo una votazione formale. E’ l’assenza di obiezioni.

Unanimità: è richiesto il voto positivo di tutti i componenti dell’organo. Comporta un’espressa manifestazione di volontà.

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Maggioranza semplice: è richiesto il 50% + 1 dei componenti l’organo.

Maggioranza qualificata: sono richiesti i 2/3 dei membri presenti e votanti.

Maggioranza ponderata: ciascuno Stato, in base alla sua rilevanza (territorio e popolazione) riceve un determinato numero di voti.

Le organizzazioni hanno capacità di concludere accordi con Stati o con altre organizzazioni internazionali. Questa materia è regolata dalla Convenzione di Vienna del 1986. Le organizzazioni internazionali avrebbero una limitata capacità internazionale e sarebbero titolari di un numero limitato di situazioni giuridiche soggettive. Comunque non bisogna confondere la personalità internazionale con la capacità di diritto interno: la prima ha per oggetto la titolarità di situazioni giuridiche derivanti da norme internazionali, la seconda significa che l’organizzazione degli ordinamenti degli stati che sono parte del trattato, gode della capacità giuridica necessaria per lo svolgimento delle sue funzioni. La personalità internazionale dell’organizzazione non può essere data dagli Stati, e quindi dal trattato istitutivo, ma deriva dall’ordinamento internazionale. Le organizzazioni internazionali, a differenza degli Stati, non hanno un territorio e quindi non godono del diritto di sovranità territoriale. Eccezionalmente sono chiamate all’amministrazione di territori (es. amministrazione del Kossovo da parte dell’ONU). Non vanno confuse con le ONG (Organizzazioni Non Governative) che sono associazioni private a carattere transnazionale il cui atto istitutivo è fondato sull’ordinamento interno di uno o più Stati. (es. Amnesty International e Green Peace). 5 – Enti partecipanti occasionalmente alla vita di relazione internazionale 5.1 – Individuo: Ente partecipante occasionalmente alla vita di relazione internazionale. E’ difficile attribuire personalità internazionale all’individuo vista la sua non partecipazione a nessuna della tre funzioni dell’ordinamento giuridico internazionale, ad eccezione di una limitata capacità per quanto riguarda l’accertamento di diritto riguardo a trattati che tutelano i diritti umani. Si hanno due casi, in via eccezionale, in cui l’individuo si considera partecipe delle relazioni internazionali:

Norme in materia di protezione dei diritti dell’uomo.

Norme relative ai crimini internazionali. L’ordinamento internazionale impone all’ordinamento interno di reprimere i crimini internazionali. Il dovere di una persona di non commettere questi crimini non deriva dall’ordinamento internazionale, ma dalla norma interna di adattamento al diritto internazionale. Se c’è discrepanza tra ordinamento internazionale e ordinamento interno, nel senso che un fatto è considerato crimen iuris gentium dal primo ma non è punito dal secondo, la norma di origine internazionale deve essere comunque applicata. Questo è confermato dall’art. 15 del Patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici del 1966: nessuno può essere punito per un fatto che non costituiva reato nel momento in cui è stato commesso; si può essere condannati per atti che costituivano reato nel momento in cui furono commessi secondo il principi generali di diritto riconosciuti dalla Comunità delle Nazioni.

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Il riconoscimento 1 - Il riconoscimento di nuovi sati Uno Stato sovrano e indipendente diventa soggetto di diritto internazionale in base ad una situazione di fatto che si realizza in presenza di effettività di governo e indipendenza. Ciò avviene quasi in maniera automatica e il diritto internazionale ne prende atto in base al principio di effettività. Ogni volta che un nuovo Stato nasce gli Stati preesistenti procedono al suo riconoscimento. Lo scopo del riconoscimento è prendere atto della realtà del nuovo Stato e dar prova di voler entrare in relazione con esso. Esistono essenzialmente due forme di riconoscimento:

Riconoscimento de iure (pieno), lo Stato che lo compie ritiene che la situazione del nuovo Stato sia caratterizzata da completa stabilità e che sia quindi possibile procedere all’instaurazione di normali relazioni con esso.

Riconoscimento de facto, lo Stato che lo compie, pur prendendo atto dell’esistenza di un’autorità statale, nutre riserve sulla stabilità della situazione.

Comunque, oltre a quello esplicito legato a una dichiarazione formale, il riconoscimento può essere anche tacito o implicito. Per evitare che la partecipazione ad un trattato multilaterale da parte del nuovo Stato possa essere considerata come una forma di riconoscimento implicito, gli Stati contraenti, spesso, affermano che la loro partecipazione al trattato multilaterale non comporta il riconoscimento del nuovo stato. Il riconoscimento non ha valore costitutivo della personalità internazionale del nuovo Stato, comunque da questo dipende la possibilità dello stesso di intrattenere normali relazioni con gli Stati preesistenti. Se ad esempio un nuovo Stato non fosse riconosciuto da nessuno degli Stati preesistenti verrebbe ad essere titolare solo dei diritti e degli obblighi derivanti dal diritto consuetudinario, che non presuppongono l’esistenza di relazioni diplomatiche. Il riconoscimento è un atto politico e discrezionale e può essere sottoposto a condizioni dallo Stato preesistente. Deve essere effettuato ad uno stato effettivamente indipendente e non dev’essere prematuro. Lo Stato non riconosciuto dovrebbe avere locus standi dinanzi ai tribunali dello Stato non riconoscente, godere dell’immunità della giurisdizione di fronte ai tribunali di quest’ultimo Stato e vedere le sue norme e sentenze ivi applicate, in virtù del rinvio operato dalle norme di diritto internazionale privato. Questa procedura è seguita dalle corti continentali. Al contrario, nei paesi di common law, il nuovo Stato non riconosciuto non ha nessun locus standi di fronte ai tribunali e le norme del suo ordinamento non vengono riconosciute. 2 - Il riconoscimento di nuovi governi E’ effettuato nel caso di mutamento rivoluzionario del regime di potere in uno Stato preesistente (non si estingue lo Stato come soggetto di diritto internazionale). Questo riconoscimento esplica la volontà dello Stato che vi procede di mantenere con il nuovo governo le stesse relazioni internazionali che aveva con il governo precedente. Anche questo è un atto di natura politica e discrezionale. A volte il mancato riconoscimento dipende dal fatto che il nuovo governo non è democratico e viola in modo massiccio i diritti umani. Il mancato riconoscimento di nuovo governi non vuol dire che viene interrotto ogni rapporto tra i due stati, i trattati bilaterali rimangono in vigore e le relazioni diplomatiche continuano normalmente anche se ad un livello minore rispetto al precedente (es. come accadde dopo il colpo di stato in Cile che portò al potere il Generale Pinochet nel 1973, a seguito del quale, le relazioni diplomatiche Italia-Cile continuarono a livello di incaricati di affari). Il riconoscimento dei governi ha luogo nella prassi, e può assumere una rilevanza notevole, soprattutto quando ci siano due organizzazioni rivali che pretendono di essere riconosciute come il governo legittimo di uno stato, ma anche quando a seguito di un colpo di stato,

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eventualmente provocato da un intervento straniero, il governo spodestato continua ad essere considerato, a volte per lungo tempo , come il governo legittimo da vari stati e persino dalle Nazioni Unite (es. come avvenne con il governo dei Khmer Rossi, dopo l’intervento del Vietnam nel 1978 in Cambogia). 3 - Riconoscimento di insorti e di belligeranza in caso di guerra civile Questo riconoscimento esplica la volontà di Stati terzi rispetto al conflitto di non trattare gli insorti come dei criminali. E’ effettuato da Stati che vogliono mantenere relazioni con il movimento insurrezionale allo scopo di garantire la protezione dei propri cittadini presenti nel territorio controllato dagli insorti. E’ sempre un atto politico, non giuridico. Il riconoscimento di belligeranza è l’atto con cui una guerra civile viene equiparata ad una guerra internazionale. Una volta attuato il riconoscimento lo Stato terzo è tenuto ad applicare le regole dei conflitti armati internazionali per cui sarà obbligato ad applicare il diritto di neutralità. Se invece è il governo legittimo ad effettuare il riconoscimento, questo deve applicare le regole del diritto umanitario per i conflitti armati internazionali e deve considerare gli insorti come legittimi combattenti. Il riconoscimento di belligeranza è un atto giuridico perché comporta l’estensione ad un conflitto interno delle regole dei conflitti armati internazionali. I terzi effettuano il riconoscimento di belligeranza allo scopo di limitare il conflitto obbligandosi ad una politica di non intervento. Come esempio meno recente di riconoscimento può essere citato quello effettuato dal Regno Unito che riconobbe quello come belligeranti i Confederati durante la guerra civile americana del 1861; come esempio più attuale si può ricordare invece il riconoscimento del partito insurrezionale durante la guerra civile in Nicaragua nel 1979 da parte degli stati membri del gruppo andino. 4 - Riconoscimento di movimenti di liberazione nazionale Nel periodo della decolonizzazione ha assunto rilevanza questo tipo di riconoscimento. Può capitare che più movimenti di liberazione aspirino a rappresentare un determinato popolo. Per sapere qual è fra questi il legittimo rappresentante, è molto importante il riconoscimento effettuato a questo fine dagli Stati e dalle Organizzazioni Internazionali. Al riguardo è importante ricordare che l’assemblea generale delle Nazioni Unite ha attribuito ad organizzazioni regionali, quali l’ Organizzazione per l’Unità Africana (ora Unione Africana) e la Lega Araba, la competenza a riconoscere i movimenti di liberazione nazionale legittimati a rappresentare i popoli africani ed il popolo palestinese in lotta per l’ autodeterminazione. 5 - Riconoscimento di situazioni giuridiche Nel riconoscere una situazione ritenuta conforme a diritto. Questo tipo di riconoscimento è importante, ad esempio, nelle annessioni territoriali o nell’estensione della sovranità di uno Stato costiero sulle aree marine vicine alle sue coste. Questo riconoscimento è un atto giuridico poiché rende incontestabile una data situazione per cui lo Stato non potrà successivamente tornare indietro nel suo operato. Ad esempio il Regno Unito riconobbe prima de facto e poi de iure nel 1938 l’ annessione italiana dell’ Etiopia avvenuta nel 1936 anche se a successivamente revocò tale riconoscimento. 7 - Disconoscimento e politiche di non riconoscimento Il disconoscimento è un comportamento tenuto da uno Stato nei confronti di un ente che non vuole riconoscere o non vuole più riconoscere; può avere due forme, ossia l’assenza di riconoscimento, o il ritiro del precedente riconoscimento. Le politiche di non riconoscimento sono fatte dagli Stati verso enti

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internazionali e verso situazioni giuridiche; possono essere attuate volontariamente, in seguito a sollecitazione di terze parti, o per seguire una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, che può essere di natura obbligatoria. Un esempio di assenza di riconoscimento nei confronti di un ente che ha tutti i requisiti per essere riconosciuto si ritrova nel comportamento tenuto per molti anni dagli Stati Uniti nei confronti della Cina Comunista; il caso di una politica collettiva di non riconoscimento in virtù di una risoluzione del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, si riscontrò ad esempio nel caso della Rhodesia (ora Zimbawe) seceduta nel 1965 dal Regno Unito, dove la maggioranza autoctona era assoggettata ad un regime di apartheid; altro esempio più recente è rappresentato dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza che ha invitati gli stati a non riconoscere la Repubblica turca di Cipro del Nord formatasi a seguito dell’ invasione turca del 1974.

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Status soggettivi degli enti internazionali 1 – La neutralità permanente La neutralità permanente, è uno status giuridico soggettivo. Lo Stato vincolato ad una politica di neutralità permanente assume degli obblighi in tempo di pace e in tempo di guerra, ed ha il dovere della neutralità. La neutralità di uno Stato in tempo di guerra è una decisione libera: se uno Stato vincolato dallo status di neutralità permanente entra in guerra commette un Illecito internazionale. Invece uno stato che ha liberamente scelto di rimanere neutrale non commette illecito internazionale se decide di non essere più neutrale e di entrare in guerra. Comunque in tempo di guerra tanto uno Stato neutrale permanente che uno neutrale hanno uguali diritti e doveri verso le parti implicate nel conflitto. Neutralità (permanente o in tempo di guerra), è uno status soggettivo che riguarda lo Stato; ben diversa è la neutralizzazione di territori, che riguarda una parte di territorio dello Stato nel quale non possono essere condotte ostilità. Il territorio di uno Stato neutrale è inviolabile. Se vengono commessi atti di ostilità questo è considerato un illecito internazionale. Uno Stato con neutralità permanente in tempo di pace è tenuto a seguire alcuni comportamenti, in particolare ha l’obbligo di non far parte di alleanze militari di natura reciproca, ha l’obbligo di non concedere basi militari, ed infine ha l’obbligo in tempo di guerra di non concedere facilitazioni al transito né all’uno né all’altro belligerante. Anche uno Stato permanentemente neutrale, in caso di attacco armato, può esercitare il diritto alla legittima difesa. Per quanto riguarda le azioni di peacekeeping promosse dall’ONU, anche uno Stato che assume lo status di neutralità permanente può parteciparvi. Solitamente la fonte della neutralità permanente è un trattato internazionale multilaterale, ma può essere un accordo bilaterale tra due Stati, o anche un impegno unilaterale dello Stato. Qualsiasi sia la fonte dell’obbligo che questo Stato viene ad assumersi, la neutralità assume un contenuto erga omnes, visto che gli obblighi che si è assunto sono oggetto di un rapporto tra lo stesso e gli Stati parte del trattato, ma il dovere di neutralità viene assunto nei confronti di tutti gli Stati. Tuttavia solo gli Stati parte del trattato hanno il diritto di chiedere al neutrale l’esecuzione del rapporto di neutralità. I casi di neutralità sono: Svizzera (Atto finale del Congresso di Vienna, 1815), Stato Città del Vaticano (Trattato del Laterano, 1929), Austria (Protocollo tra Austria ed Unione Sovietica, 1955). Malta ha stabilito la sua neutralità con una dichiarazione unilaterale del 1981 adottata dopo la stipulazione di un accordo internazionale con l’Italia. La Costa Rica, invece, dichiarò la sua neutralità unilateralmente e autonomamente. Il riconoscimento della neutralità permanente da parte degli Stati contribuisce al consolidamento della proclamazione della neutralità. Questo riconoscimento, oltre che dai singoli Stati, può avvenire anche ad opera di organizzazioni internazionali, regionali o universali. La neutralità può anche essere garantita da terzi: tale “garanzia” è però a senso unico, cioè obbliga il garante ad intervenire per lo Stato neutrale garantito, ma non viceversa, come accade nei patti di sicurezza collettiva. Un esempio di neutralità garantita è lo scambio di note tra Italia e Malta del 1980. In base a questo accordo l’Italia ha l’obbligo di adottare su richiesta di Malta anche l’assistenza militare qualora l’isola sia attaccata. 2 – Lo status internazionale del Giappone L’art.9 della Costituzione giapponese prevede degli obblighi riguardanti lo Stato e il tema della sicurezza. Il Giappone rinuncia alla guerra; rinuncia alla minaccia e all’uso della forza per risolvere le controversie internazionali; ha l’obbligo di non mantenere forze di mare, terra e aria (tranne il minimo indispensabile per assicurarsi la legittima difesa); ha l’obbligo di non riconoscere il diritto di belligeranza dello Stato. A causa di questo articolo il Giappone può divenire difficilmente parte di trattati internazionali di sicurezza collettiva. Fino agli anni ’90 non ha mai partecipato ad operazioni di peacekeeping, poi la situazione è cambiata vista

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la sua aspirazione a diventare membro permanente del Consiglio di Sicurezza. Il dibattito su questo articolo è comunque in pieno svolgimento. 3 - Neutralità permanente e ONU E’ compatibile lo status della neutralità permanente con l’appartenenza a questa organizzazione universale? La Carta pare confutare questa ipotesi (vedi art.41 sulle sanzioni e art.25 che prevede di dare assistenza a qualsiasi azione intrapresa dall’ONU). Uno Stato non può invocare lo status di neutralità permanente per sottrarsi alle norme della Carta. L’art. 103 prevede infatti che gli obblighi derivanti dalla Carta prevalgano su qualsiasi altro obbligo preso da uno Stato membro in virtù di qualsiasi altro accordo. Solo il Consiglio di Sicurezza, qualora lo ritenesse opportuno, potrebbe esentare lo Stato neutrale dall’eseguire una sua risoluzione, visto che in base all’art.48 della Carta esso può decidere da chi debbano essere intraprese le azioni decise. Un caso particolare è rappresentato dalla Svizzera, uno stato che costituisce un esempio paradigmatico della neutralità permanente, il quale dal 2002 è diventata membro delle Nazioni Unite, ma già dagli anni ’90, prima di divenire membro dell’organizzazione mondiale, applica le risoluzioni che le Nazioni Unite dispongono, e la legge sull’armata federale è stata emendata per consentire alla Svizzera di partecipare alle operazioni di peacekeeping. 4 - Neutralità permanente e Unione Europea E’ compatibile lo status di neutralità permanente con l’appartenenza all’Unione Europea? Bisogna analizzare le disposizioni del trattato della Comunità Europea:

Art.30: consente agli Stati membri di prendere misure restrittive verso importazioni ed esportazioni giustificate da motivi di “pubblica sicurezza”. Questo articolo potrebbe essere invocato dal membro neutrale ad esempio quando una merce in partenza dal suo territorio potrebbe comprometterne la neutralità.

Art. 296: ogni Stato membro può adottare le misure che ritenga necessarie alla tutela degli interessi essenziali della propria sicurezza. Quindi lo Stato potrà adottare misure consone al proprio status giuridico.

Art. 297: consente ad uno Stato membro di prendere misure “in caso di guerra o di grave tensione internazionale che costituisca una minaccia di guerra, cioè per far fronte agli impegni da esso assunti ai fini del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale”.

Comunque l’utilizzo dell’art. 297 per dissociarsi dalle misure previste dall’art. 133 o 301 è dubbia. Perciò lo Stato neutrale non potrà dissociarsi da misure sanzionatorie prese nell’ambito comunitario e la sua condotta potrà essere considerata conforme al diritto internazionale solo se si ammetta che la neutralità non è pregiudicata dalla comminazione di sanzioni nei confronti di uno Stato che violi il diritto internazionale. Per quanto riguarda le disposizioni del titolo V del Trattato sull’Unione Europea, la tesi prevalente è che non esista una vera e propria incompatibilità poiché l’art. 17 non comporta obblighi comuni nel campo della difesa. Date però le trasformazioni subite dalla comunità internazionale che hanno profondamente mutato l’istituto della neutralità permanente, esso resta incompatibile con patti di difesa collettiva a carattere reciproco, ma non è più in contrasto con l’ appartenenza ad organizzazioni universali o regionali che svolgano funzioni nel campo della sicurezza collettiva.

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Il territorio 1 – La sovranità territoriale Il territorio è l’ambito entro cui lo Stato esercita la sua potestà di governo (imperium) ad esclusione di altri soggetti di diritto internazionale. La potestà di governo e il connesso esercizio esclusivo sono manifestazioni della sovranità territoriale. Il diritto internazionale tutela questa sovranità quindi ogni attività esercitata in territorio straniero senza consenso dello Stato territoriale è illecita. L’imperium non va confuso con il dominium, che ha invece una connotazione privatistica. Il diritto internazionale protegge l’integrità territoriale dello Stato mediante l’indisturbato esercizio dei poteri dello stato nel proprio territorio, garantendone l’integrità territoriale, e mediante la proibizione della sottrazione ingiustificata di parti del suo territorio. Tra i poteri connessi all’esercizio della sovranità territoriale fa parte anche quello di cedere parte del proprio territorio. Questo oggi deve fare i conti però con il principio di autodeterminazione dei popoli. Per quanto riguarda il potere di governo dello Stato nel proprio territorio vi sono comunque dei limiti derivanti dal diritto internazionale, sia consuetudinario che pattizio. Questi limiti riguardano in particolare il trattamento che deve essere riservato agli Stati stranieri, ai loro organi e ai loro cittadini. Ad esempio, non possono essere sottoposti a giurisdizione stati esteri per le loro attività iure imperii, e dovranno essere accordati privilegi ed immunità agli agenti diplomatici ed alla sede della missione diplomatica. Il potere di imperio dello Stato incontra inoltre limiti anche per quanto riguarda il trattamento dei propri cittadini secondo le norme di diritto consuetudinario e pattizio (trattati sulla protezione dei diritti umani) ratificati dallo Stato. Oggetto del diritto di sovranità territoriale sono: territorio, mare territoriale e spazio aereo sovrastante il territorio. Nelle aree adiacenti al mare territoriale, lo Stato costiero non esercita alcun diritto di sovranità territoriale, ma solo poteri di tipo funzionale e diritti sovrani connessi allo sfruttamento delle risorse naturali del suolo e sottosuolo marino e delle risorse biologiche. La sovranità sul territorio può essere esercitata congiuntamente da due o più Stati. Vedi “condominio”; ad esempio il caso del Sudan che tra il 1898 e il 1956 è stato condominio di Regno Unito ed Egitto. Riguardo al dominio riservato, tranne i limiti derivanti dal diritto internazionale consuetudinario o pattizio, lo stato è libero di assoggettare alla disciplina che più gli conviene i rapporti che si svolgono all’interno del proprio territorio. La corte internazionale di giustizia ha affermato che il dominio riservato ha per oggetto tutte le materie in relazione alle quali il principio di sovranità degli stati lascia ai soggetti di diritto internazionale libertà di scelta. Tra tali materie la corte ha elencato la determinazione del sistema politico, economico, sociale e culturale e la formazione della politica estera, in altre parole gli affari esterni ed interni dello stato. 2 - Modi di acquisto della sovranità territoriale Sono previsti da norme di diritto internazionale consuetudinario che risentono della tradizione romanistica cui era ispirato il diritto internazionale al momento della nascita della Comunità Internazionale. Comunque alcuni modi di acquisto si sono estinti o hanno perso d’importanza. I modi di acquisto della sovranità territoriale sono: originari o derivati. Quelli originari implicano l’acquisto di un territorio nullius e la conquista. Infatti non basta la scoperta del territorio nullius, ma occorre l’occupatio accompagnata dall’animus possidendi che consiste in un’esplicita dichiarazione di annessione o nella volontà implicita in comportamenti concludenti (ad esempio in manifestazioni di governo). Elemento indispensabile per la sovranità è che si tratti effettivamente di res nullius, in caso contrario non sorge il diritto di sovranità territoriale. La conquista deve essere distinta dalla debellatio che riguarda la distruzione dell’apparato militare dell’avversario. Oggi la conquista non è più un modo di acquisto poiché contrasta col divieto di aggressione. E’ il caso dell’annessione del Kuwait da parte dell’Iraq avvenuta nel 1990, dichiarata senza

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alcun fondamento giuridico dalla ris.663 del Consiglio di sicurezza. Quando si parla di acquisto della sovranità territoriale ci si riferisce a Stati preesistenti della comunità internazionale, mentre un nuovo Stato comporta automaticamente l’acquisto della sovranità sul territorio su cui lo Stato sorge. La cessione rappresenta invece un modo derivato di acquisto della sovranità territoriale. Può avvenire in molti modi. Ad esempio la vendita del territorio dell’Alaska ceduta agli USA dall’Impero Russo nel 1867. Il trasferimento del territorio e l’acquisto della sovranità territoriale avvengono con il consenso dello Stato che lo cede o per lo meno con la sua acquiescenza. L’occupatio bellica non dà titolo all’occupante per annettere il territorio occupato, anche se questo si comporta animo domini. Altrimenti si riconoscerebbe effetto normativo al principio di effettività, mentre invece il titolo giuridico prevale sull’effettività della situazione. L’occupatio bellica non conferisce quindi titolo giuridico per annettere un territorio all’occupante (es. la Corte internazionale di giustizia, nel Parere su un muro in Palestina, dopo aver ribadito le risoluzioni del Consiglio di sicurezza, ha considerato nulle le annessioni da parte di Israele dei territori di West Bank del 1967, e di Gerusalemme Est del 1980, su cui Israele esercita la propria autorità a titolo di occupante). 2.1 - Amministrazione del territorio separata dal diritto di sovranità territoriale: Un territorio può essere amministrato da uno Stato che non gode sul territorio del diritto di sovranità territoriale. Questo territorio può essere ancora sottoposto alla sovranità di nessuno Stato o appartenere ad uno Stato che resta titolare del nudum ius. Mandati e amministrazioni fiduciarie, costituiti al tempo della società delle Nazioni, non esistono più poiché tutti questi territori sono diventati indipendenti. Oggi esistono invece casi di territori amministrati in via transitoria da parte di Organizzazioni Internazionali: per quanto riguarda le Nazioni Unite, tra i casi più recenti, sono da citare l’ amministrazione transitoria di Timor Orientale (costituitasi nel 1999 ed estintasi con il conseguimento dell’indipendenza nel 2002; l’amministrazione provvisoria delle Nazioni Unite UNMIK in Kosovo, istituita nel 1999, continua ad operare nonostante il raggiungimento dell’indipendenza nel 2008). 3 - La frontiera La frontiera, o confine dello Stato, è la linea che delimita la sovranità statale. Viene stabilita mediante due processi: delimitazione, si precisano mediante coordinate geografiche i limiti dell’ambito spaziale entro cui lo Stato esercita la sovranità; e demarcazione, trasposizione di dati geografici sul terreno. Di solito la delimitazione è un atto bilaterale tra due Stati vicini che si concretizza con la stipulazione di un trattato internazionale. Questa può aver luogo anche ad opera di un tribunale internazionale nel caso ci sia una controversia (es. la delimitazione del confine tra Etiopia ed Eritrea avvenuta mediante decisione arbitrale adottata nel 2002 dalla Commissione confinaria neutrale). Ma può anche venire in seguito ad una risoluzione del Consiglio di Sicurezza (es. la delimitazione della frontiera tra Iraq e Kuwait a seguito della II guerra del Golfo nel 1991). E’ certo che esista una norma consuetudinaria in materia di confini statali denominata uti possidetis, una consuetudine nata a livello locale in America latina seguendo le vecchie circoscrizioni coloniali in spagnole, che è diventata poi consuetudine generale, trapiantantata anche in Africa per evitare che la decolonizzazione riaprisse il vaso di Pandora dei confini delle vecchie circoscrizioni coloniali, tracciate senza tener conto delle popolazioni locali. E’ quindi venuto affermandosi come un principio connesso alla formazione degli Stati di nuova indipendenza per secessione o smembramento di uno Stato federale; in questo caso lo Stato neo indipendente eserciterà la sovranità nell’ambito dei confini che prima della secessione o smembramento delimitavano la provincia o regione divenuta indipendente. Comunque a parte l’uti possidetis è dubbio se esistano altri principi di diritto consuetudinario in questo ambito. Va ricordato che questo principio come altri utilizzati possono essere derogati con accordo, e che le controversie territoriali, incluse quelle relative alla fissazione della frontiera, non possono essere risolte mediante l’uso della forza

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4 - Frontiera e successione tra stati In caso di successione tra Stati e frontiere possono essere modificate? No, vale il principio della stabilità delle frontiere. L’art. 11 della Convenzione di Vienna sulla successione tra Stati nei trattati del 1978, stabilisce che il mutamento di sovranità non reca pregiudizio alla frontiera stabilita da un trattato. Non sarebbe invocabile la clausola rebus sic stantibus per pretendere l’estinzione del trattato perchè l’ art.62 Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, afferma chiaramente che la clausola non opera verso trattati che stabiliscono una frontiera. 5 - Servitù internazionali E’ dubbio se in diritto internazionale esistano servitù internazionali. La prassi comunque attesta che mediante trattato gli Stati possono dare vincoli a parti del loro territorio, che non sono obbligatori, ma hanno il carattere della realità. In caso di successione tra Stati i vincoli assunti dallo Stato predecessore si trasmettono al successore secondo il principio res transiti cum onere suo. Ad esempio l’Italia, in base all’art.7 del Trattato del Laterano, non può erigere costruzioni che costituiscano introspetto, intorno al territorio dello Stato Città del Vaticano. 6 - Principio del patrimonio comune dell’umanità Riguarda alcuni territori il cui sfruttamento deve avvenire non solo nell’interesse di coloro che vi procedono, ma anche nell’interesse dell’intera comunità internazionale. Per assicurare ciò, il principio del patrimonio comune dell’umanità, mette delle organizzazioni internazionali a presiedere lo sfruttamento. Queste aree soggette al principio del patrimonio comune dell’umanità sono diverse dalla res nullius perchè non possono esse oggetto di appropriazione. Anche le aree soggette al principio di libertà (vedi alto mare) sono inappropriabili. Sono assoggettati al principio del patrimonio comune dell’umanità: i fondi marini al di sotto della piattaforma continentale, secondo l’art.136 Convenzione di Montego Bay, lo spazio extra-atmosferico, i corpi celesti (inclusa la luna). 7 – L’Antartide La disciplina di questo territorio è prevista dal Trattato di Washington del 1959, il quale stabilisce che l’Antartide deve essere usata esclusivamente per fini pacifici, comportando quindi il divieto di svolgere qualsiasi attività militare. E’ però consentito impiegare personale o materiale militare per la ricerca scientifica. L’art.5 prevede inoltre il divieto di qualsiasi esplosione nucleare o il deposito di qualsiasi materiale radioattivo. L’art.2 stabilisce il principio di libertà per tutti gli Stati di ricerca scientifica in Antartide. L’art. 4 congela ogni pretesa di sovranità sull’Antartide. In virtù del trattato di Washington l’Antartide è gestita dal Comitato delle Parti Consultive di cui fanno parte i 12 Stati che negoziarono il trattato e quelli che hanno acquisito lo status di parte consultiva più tardi. Per acquisire tale status è necessario aver ratificato il trattato e aver svolto una sostanziale ricerca scientifica nel continente. L’accesso al club delle Parti Consultive avviene per cooptazione, quindi gli Stati facenti parte del trattato di Washington si dividono in parti consultive e non, e adottano raccomandazioni da indirizzare ai propri governi. Nel 1988 è stato adottato a Wellington un trattato per la disciplina delle attività minerarie antartiche, un documento che avrebbe dovuto disciplinare una materia assai delicata: gli stati avevano voluto prevenire una corsa indiscriminata allo sfruttamento dell’Antartide, ricca di risorse petrolifere e minerarie, per indirizzarne le future attività nel quadro di un sistema istituzionale che offrisse adeguate garanzie sia per gli investitori sia per la comunità internazionale. Le preoccupazioni degli stati contrari allo

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sfruttamento, e le spinte delle organizzazioni ambientaliste hanno finito per prevalere: nel 1991 è stato concluso un Protocollo sulla protezione dell’ambiente antartico che lo dichiara “riserva naturale votata alla pace e alla scienza”. L’art. 7 proibisce ogni attività mineraria in Antartide. Comunque dopo 50 anni dall’entrata in vigore del Protocollo ogni parte consultiva potrà chiedere la convocazione di una conferenza di riesame del Protocollo. Il sistema antartico sta evolvendo una progressiva istituzionalizzazione. 8 – L’Artico A differenza dell’Antartide, il Polo Nord non è composto da terre emerse, ma solo da acque marine ricoperte da ghiacci che si stanno riducendo a causa del fenomeno del “riscaldamento globale”. La Federazione Russa rivendica diverse porzioni di mare adiacenti alle sue coste a titolo di acque storiche. Naturalmente la piattaforma continentale artica, ricca di gas naturale e petrolio, è soggetta ai diritti di sfruttamento esclusivo degli stati costieri e sulle acque sovrastanti la piattaforma, lo stato costiero ha il diritto di istituire una zona economica esclusiva. Le terre emerse site nell’Oceano Artico sono soggette al diritto di sovranità territoriale, non esistendo più territori nullius neppure nell’Artico (es. l’arcipelago delle Isole Svalbard è sotto la sovranità norvegese). Nel 1996 è stato istituito il Consiglio Artico, di cui fanno parte gli otto stati che si affacciano sull’Artico, che dovrebbe fungere come foro di consultazione.

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La successione internazionale tra stati 1 – Successione in fatto e successione giuridica L’assetto territoriale di una comunità statale può subire mutamenti che incidono sulla personalità internazionale dello stato e danno luogo: alla nascita di nuovi soggetti di diritto internazionale; all’accrescimento territoriale di soggetti di diritto internazionale già esistenti; talvolta accompagnati dall’estinzione dello stato preesistente. Lo Stato successore è un nuovo Stato o uno Stato che accresce il proprio territorio a spese di un altro; lo Stato predecessore è lo Stato che si estingue o che subisce una diminuzione territoriale. Possono avvenire i seguenti fenomeni:

Secessione : nascita di uno o più Stati su una parte di territorio dello Stato predecessore. (es. Stati nati dal processo di decolonizzazione in Asia e Africa, come il Bangladesh nato dalla secessione dal Pakistan nel1971).

Smembramento: nascita di uno o più Stati sull’intero territorio appartenente allo Stato predecessore e quindi estinzione di quest’ultimo (es. Cecoslovacchia che nel 1993 si è estinta dando vita a due Stati, la Repubblica Ceca e la Repubblica Slovacca).

Incorporazione di uno Stato da parte di un altro (es. la riunificazione tedesca del 1990, con il quale la Germania Ovest incorporò la Germania Est).

Fusione di due o più Stati nell’ambito di un nuovo Stato conseguente estinzione degli Stati predecessori (es. l’Unione tra la Siria e l’Egitto nel 1958 che diede vita alla Repubblica Araba Unita fino al 1961; l’ unione tra il Tanganica e Zanzibar che diede vita nel 1964 allo stato della Tanzania).

Non estingue la personalità internazionale dello Stato un mutamento rivoluzionario di regime, questo nuovo governo sorto dalla rivoluzione infatti dovrà adempiere gli obblighi facenti capo al vecchio regime e sarà titolare dei relativi diritti. I rapporti giuridici facenti capo allo stato predecessore e interessanti il territorio oggetto del mutamento di sovranità si trasmettono allo stato successore. 2 - La successione nei trattati Lo Stato successore nella sovranità di un territorio prima appartenente ad un altro Stato subentra nei trattati internazionali stipulati dal predecessore? Questa materia è disciplinata dalla Convenzione di Vienna sulla successione tra Stati nei trattati del 1978, entrata però in vigore solo nel 1996, con un basso numero di ratifiche, delle quali non fa parte l’Italia. E’ una convenzione solo in parte dichiarativa del diritto consuetudinario. Le norme consuetudinarie in tema di successione tra Stati affermano che: lo Stato successore subentra in fatto nel governo del territorio dello Stato predecessore e ne acquista la sovranità a titolo originario; l’art.11 della Convenzione del 1978 che corrisponde al diritto consuetudinario si occupa dei regimi di frontiera e stabilisce che la successione non tocca la frontiera stabilita con trattato tra predecessore e terzo Stato e che non altera il regime della frontiera come stabilito nel trattato stipulato tra predecessore e terzo. Lo Stato successore acquista la sovranità territoriale sul territorio dello Stato predecessore e alla stesso tempo subentra nei diritti e negli obblighi pattizi precedenti riguardanti la disciplina dei rapporti transfrontalieri. Invece per la convenzione di Vienna i trattati bilaterali stipulati dallo Stato predecessore non vengono trasmessi allo Stato successore (principio della tabula rasa). A meno che un trattato non sia fonte di situazioni giuridiche localizzate, in questo caso si trasmette allo Stato successore (res transit cum onere suo). Ad esempio un diritto di transito per uno Stato confinante. Ma questa regola della convenzione di Vienna del 1978 non corrisponde al diritto consuetudinario. Lo Stato successore può tuttavia avere interesse a subentrare in un trattato bilaterale stipulato dal predecessore, che costituisce la base per la conclusione di un nuovo accordo distinto al precedente, ma di contenuto

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identico. L’art.12 della Convenzione del 1978 è riconosciuto come parte del diritto consuetudinario e disciplina situazioni giuridiche (diritti e obblighi) relative al territorio, le quali si trasmettono allo Stato successore; le situazioni giuridiche (diritti e obblighi) relative al territorio di cui siano titolari un gruppo di Stati o tutti gli Stati della comunità internazionale si trasmettono al successore; le basi militari, per le quali vige il principio della tabula rasa poichè trattandosi di vincoli di natura obbligatoria non si trasmettono al successore. Quindi i trattati istitutivi relativi a una base cessano a meno che vengano rinnovati con un accordo tra successore e terzo. Per quanto riguarda invece i trattati multilaterali ci si rifà alla consuetudine internazionale, formatasi durante il processo di decolonizzazione, secondo la quale il nuovo Stato non subentra automaticamente nel trattato multilaterale, ma ha diritto a divenirne parte con una dichiarazione di continuità o notificazione di successione. La dichiarazione retroagisce al momento della nascita del nuovo Stato ed ha effetti ex tunc (l’adesione invece ha effetti ex nunc). Però la dichiarazione di continuità non è possibile per i trattati multilaterali ristretti e neppure per i trattati istitutivi di organizzazioni internazionali. In questi casi il nuovo Stato per essere ammesso deve seguire la procedura di ammissione com’è successo per gli Stati nati dalla disgregazione dell’Unione Sovietica e della Iugoslavia. Solo se, in caso di fusione, i due Stati predecessori fossero stati entrambi membri dell’organizzazione avrà luogo una procedura di ammissione semplificata. I trattati riguardanti il disarmo, il controllo degli armamenti e in generale interessanti la difesa, non sono sottoposti ad un regime particolare e quindi non si trasmettono al successore ad eccezione di quelli di natura localizzata che invece si trasmettono. Tuttavia è interesse della comunità internazionale e/o degli Stati parte che il regime istituito dal trattato sia esteso ai successori. Con l’Accordo di Alma Ata del 1991, Bielorussia ed Ucraina, che avevano sul loro territorio ingenti quantitativi di armi nucleari si impegnarono ad aderire al Trattato di non proliferazione nucleare (TNP) come stati obbligati a non detenere armi nucleari; le armi presenti in Kazakistan furono invece trasferite alla Federazione Russa; entro il 199 tutti gli stati successori dell’Unione Sovietica hanno aderito al TNP. Queste considerazioni valgono per tutte le figure considerate, tranne per la cessione e l’incorporazione. In questi casi si applica il “principio della mobilità delle frontiere dei trattati”; i trattati del predecessore non si trasmettono al successore a meno che non siano trattati istitutivi di vincoli localizzati al territorio oggetto del mutamento di sovranità. Occorre ricordare la prassi di degli accordi di devoluzione, seguita dal Regno Unito in occasione della decolonizzazione dei territori di cui aveva la responsabilità internazionale: mediante tale accordo di devoluzione, lo stato predecessore trasferisce al suo successore tutti i diritti ed obblighi derivanti dai trattati applicati sul territorio su cui si costituisce il nuovo stato. 3 - La successione nei beni, debiti e archivi dello Stato predecessore La successione tra Stati in questa materia è disciplinata dalla Convenzione di Vienna del 1983 (non ancora entrata in vigore). Può ritenersi sviluppo progressivo del diritto internazionale poiché codificazione del diritto consuetudinario. In questa materia le regole consuetudinarie sono di difficile individuazione e molto è lasciato all’accordo tra gli Stati interessati (es. la Federazione Russa e l’Ucraina hanno concluso una serie di accordi, in particolare quelli del 1994-95, per la divisione della flotta sovietica nel Mar Nero). I beni immobili situati nel territorio oggetto del mutamento di sovranità vengono trasferiti allo Stato successore. Questa regola è applicabile oltre che all’incorporazione, anche a tutte le altre figure successorie. I beni appartenenti allo Stato predecessore e situati in un terzo Stato diventano proprietà dello Stato successore in caso di estinzione del predecessore per incorporazione, fusione o smembramento. restano invece al predecessore in caso di secessione o di cessione. Fonte di controversia è la sorte del debito pubblico dello Stato predecessore. La regola è questa: i debiti localizzati, cioè contratti a favore del territorio oggetto della successione si trasferiscono al successore; gli altri debiti invece, come il debito generale, rimangono al predecessore se questo non cessa di esistere; in caso di estinzione del predecessore per smembramento o incorporazione, è invece difficile stabilire se i debiti si estinguano, oppure si trasmettano al successore.

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Non si trasmettono invece i cosiddetti debiti odiosi, come quelli contratti dallo stato predecessore per condurre una guerra di aggressione. Incerta è anche la fine dei beni che appartengono a Stati terzi o a stranieri e situati nel territorio oggetto della successione. L’art. 12 della Convenzione di Vienna del 1983 dice che i beni che appartengono a Stati terzi non sono pregiudicati dal mutamento di sovranità. Riguardo Gli archivi di stato, la convenzione di Vienna adotta un principio di territorialità, salvo diverse volontà delle parti. In caso di cessione gli archivi relativi all’amministrazione del territorio ceduto passano al successore. Lo stesso vale per il nuovo Stato costituitosi sul territorio dello Stato predecessore e in caso di smembramento.

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Il diritto del mare 1 – La codificazione del diritto del mare Il regime giuridico degli spazi marini è stato oggetto di vari tentativi di codificazione a livello intergovernativo. Il primo tentativo fu intrapreso nel 1930, quando a l’Aja fu convocata una conferenza, che non portò immediatamente alla redazione di un nessun trattato sulle acque territoriali, tuttavia fu possibile inserire nell’atto finale della conferenza il testo di alcune disposizioni sulle quali fu raggiunto l’accordo degli stati partecipanti in materia di definizione dei diritti dello stato costiero sul mare territoriale e di passaggio inoffensivo. L’opera di codificazione del diritto internazionale marittimo fu ripresa dalle Nazioni Unite e dalla Commissione del diritto internazionale. I lavori della Commissione sfociarono in un progetto di articoli sul diritto del mare che nel 1956 fu sottoposto all’Assemblea Generale e successivamente costituì la base dei negoziati in seno alla Prima Conferenza sul diritto del mare, tenutasi a Ginevra nel 1958, con la partecipazione di 86 Stati. La Conferenza di Ginevra si concluse con l’adozione di quattro testi convenzionali distinti: la Convenzione sul mare territoriale e sulla zona contigua; la Convenzione sull’alto mare; la Convenzione sulla piattaforma continentale; la Convenzione sulla pesca e la conservazione delle risorse biologiche dell’alto mare. Le prime tre convenzioni hanno avuto un soddisfacente seguito, mentre quella sulla pesca ha avuto un seguito insignificante. Alcuni Stati sono parte di una o più Convenzioni, ma non hanno ratificato le altre. Poiché la prima conferenza sul diritto del mare (1956) non era riuscita a conseguire l’accordo degli stati sull’ampiezza delle acque territoriali, fu convocata una seconda conferenza a Ginevra nel 1960 che si risolse però in un fallimento. L’Assemblea creò nel 1967, su proposta della delegazione maltese, un Comitato ad hoc sugli usi pacifici del suolo e sottosuolo marino oltre i limiti della giurisdizione nazionale. Il lungo processo di negoziazione si concluse a Montego Bay (Giamaica) il 10 dicembre 1982 con l’adozione della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, composta di 320 articoli e 9 allegati. Subito dopo la conclusione della conferenza, gli Stati occidentali, in particolare gli Stati Uniti, insoddisfatti della parte XI della Convenzione, intrapresero negoziati per una modifica della Convenzione prima ancora della sua entrata in vigore. I negoziati ebbero successo e si conclusero, nel 1994, con un “Accordo relativo all’esecuzione della parte XI della Convenzione delle Nazioni Unite del diritto del mare”. La Convenzione è entrata in vigore il 16 novembre 1994. Numerose disposizioni della Convenzione hanno natura di diritto consuetudinario, sono quindi divenute obbligatorie per gli stati prima della sua entrata in vigore. Nonostante la modifica della parte XI gli USA non l’hanno però ancora ratificata 2 – Il mare territoriale La sovranità di ogni Stato costiero, al di là del territorio e delle acque interne, si estende ad una zona di mare adiacente alle sue coste, denominata mare territoriale. Sono soggetti alla sovranità dello stato anche lo spazio aereo sovrastante il mare territoriale e il relativo letto e sottosuolo marino. Il mare territoriale ha un limite interno e uno esterno:

Il limite interno viene determinato mediante la fissazione delle linee di base. La linea di base è la linea dalla quale si misurano tutte le aree marine. Essa può essere tracciata sia secondo le disposizioni relative alla linea di costa, sia secondo il metodo delle linee rette. Si utilizza generalmente il primo tipo secondo il quale la linea di base normale da utilizzare quale punto di partenza per la misurazione del mare territoriale è la linea di costa a bassa marea. Ove però la costa sia profondamente frastagliata, oppure anche se piatta esista un gruppo di isole nell’immediata vicinanza della costa, si utilizzerà l’altro metodo secondo il quale si congiungono con una serie di linee ideali i punti sporgenti della costa.

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Esistono in questo caso due limiti: il tracciato delle linee rette non deve discostarsi in modo apprezzabile dalla direzione generale della costa; Gli spazi marini situati all’interno delle linee rette devono essere sufficientemente collegati al dominio terrestre da potere essere sottoposti al regime delle acque interne.

Il limite esterno è determinato dallo stato costiero entro un limite massimo previsto dal diritto internazionale: la convenzione del 1982 stabilisce che l’ampiezza di tale zona marina non possa superare le 12 miglia. Questo principio è ormai acquisito dal diritto consuetudinario.

La sovranità dello stato sul mare territoriale incontra due limiti: Passaggio inoffensivo e Giurisdizione civile e penale delle navi in transito: Per passaggio inoffensivo si intende l’attraversamento del mare territoriale da parte di una nave battente bandiera straniera, proveniente dall’alto mare e diretta ad un porto dello stato in questione (o viceversa) oppure attraversamento laterale. Il passaggio deve essere rigido e continuo, non comprende la facoltà di sosta o ancoraggio, tranne che questi eventi costituiscano incidenti ordinari di navigazione o siano resi necessari da forza maggiore o pericolo o dalla necessità di prestare soccorso a persone o ad altre navi. Esso, pertanto, sarà inoffensivo quando non arrechi pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello stato costiero, all’art. 19 la convenzione elenca una serie di attività che se poste in essere dalla nave straniera nel mare territoriale rendono il passaggio offensivo: nave che minaccia o usa la forza; nave dalla quale vengono lanciati missili verso la costa; nave impegnata in simulazioni di guerra; nave-spia straniera che raccoglie informazioni; nave che svolge attività di ricerca scientifica; navi che svolgono attività di pesca lo stato costiero può sospendere il diritto di passaggio inoffensivo nel mare territoriale purché abbia carattere temporaneo, non sia discriminatoria, riguardi specifiche aree del mare territoriale e sia essenziale per salvaguardare la sicurezza dello stato. Le navi in passaggio inoffensivo hanno l’obbligo di rispettare le leggi e i regolamenti dello stato costiero, inoltre in particolare i sommergibili devono navigare in emersione e mostrare la bandiera. Non esiste un diritto di sorvolo del mare territoriale, questo è ammissibile solo se consentito dallo stato costiero. Ma il diritto di passaggio inoffensivo spetta solo alle navi mercantili o anche alle navi da guerra? La convenzione del 1982 induce ad ammettere che le norme accordino il passaggio ad ambedue le categorie di navi. Il diritto consuetudinario non prende una posizione definitiva, le posizioni favorevoli al passaggio sono sostenute dagli stati occidentali e dall’ Unione Sovietica, mentre numerose legislazioni del terzo mondo continuano a subordinare il passaggio delle navi da guerra alla previa autorizzazione dello stato costiero o alla sua notifica anticipata. L’ Esercizio della giurisdizione civile e penale su mare territoriale: La giurisdizione civile e penale non può essere esercitata sulle navi da guerra, poiché godono di immunità completa dalla giurisdizione. Per le navi mercantili bisogna distinguere tra giurisdizione civile e penale: la consuetudine accorda l’esenzione dalla giurisdizione penale dello Stato costiero per quanto riguarda i fatti “interni”, ma ammette l’esercizio della giurisdizione penale dello Stato costiero quando si tratta di fatti che turbano la tranquillità e il buon ordine dello Stato stesso e del mare territoriale. Il rigore della norma consuetudinaria è mitigato dalla convenzione del 1982 che all’art. 27 impiega il condizionale: lo Stato costiero “non dovrebbe” esercitare la propria giurisdizione penale su nave straniera in passaggio nel mare territoriale ed in relazione ad un reato commesso a bordo della nave durante il passaggio. (tranne ipotesi ben determinate che presuppongono un collegamento tra il crimine e la terraferma; il consenso dello stato della bandiera; misure necessarie per combattere il traffico di stupefacentiPer quel che riguarda la giurisdizione civile, l’art. 28 stabilisce che lo Stato costiero “non dovrebbe” arrestare o dirottare una nave mercantile straniera in passaggio nel mare territoriale per esercitare la giurisdizione civile nei confronti di una persona che si trova a bordo. Le aree marine poste all’interno della linea di base sono acque interne, del tutto assimilate al territorio dello Stato, dove non vige il diritto di passaggio inoffensivo. Nelle acque che prima della chiusura erano assoggettate al regime delle acque territoriale o dell’alto mare continua a vigere il diritto di passaggio inoffensivo per le navi straniere.

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3 - Le baie Le baie sono insenature che penetrano profondamente nella costa. Possono essere assoggettate al regime delle acque interne quando la baia soddisfi la regola del semicerchio avvero quando il diametro di tale semicerchio (il quale racchiude le acque) e che corrisponde alla linea tracciata tra i punti d’ingresso della baia non è superiore alle 24 miglia. Ma la regola del semicerchio e delle 24 miglia non vale per le baie storiche: esse possono essere chiuse anche qualora non soddisfino il criterio del semicerchio ed indipendentemente dalla loro ampiezza, si definiscono baie storiche quelle che soddisfino due requisiti: un prolungato esercizio di diritti di sovranità sulle acque della baia da parte dello Stato costiero e l’acquiescenza degli altri Stati. Esempi di baie storiche, sono il golfo di Taranto ed il Varanger Fjord. 4 - Il mare territoriale italiano L’ampiezza del mare territoriale italiano è di 12 miglia, calcolate sempre dalla linea di costa a bassa marea, e viene adottato il criterio delle 24 miglia per le baie; il Golfo di Taranto è riconosciuto come baia storica. I Golfi di Venezia, Manfredonia, Squillace e Salerno sono stati chiusi utilizzando il sistema che consente di tracciare una retta lungo una costa marcata da profonde frastagliature e insenature, non essendo tali golfi baie in senso giuridico ed avendo comunque la linea di chiusura una lunghezza superiore alle 24 miglia. La chiusura dell’Arcipelago toscano è stata operata facendo riferimento ala circostanza che esiste un gruppo di isole lungo la costa; gli Stati Uniti hanno contestato la delimitazione affermando che le isole tra la foce dell’Arno e Civitavecchia non possono essere considerate “coastal fringing islands” in senso giuridico. Anche le due isole maggiori, Sicilia e Sardegna, sono state cerchiettate con un sistema di linee rette. 5 - Gli stretti internazionali Gli stretti sono quei bracci di mare siti tra due terre emerse che mettono in comunicazione due parti più ampie di mare. Le acque del braccio di mare sono acque territoriali degli stati rivieraschi (es. stretto di Gibilterra). Negli stretti utilizzati per la navigazione internazionale che uniscono due parti di alto mare (stretti internazionali), vige il diritto di passaggio inoffensivo non sospendibile in favore sia delle navi private che di quelle da guerra. La Convenzione di Ginevra del 1958 sul mare territoriale e la zona contigua estende il regime degli stretti internazionali anche agli stretti che collegano l’alto mare con il mare territoriale di uno Stato straniero. Il regime degli stretti internazionali ha subito una notevole revisione con la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982. La Convenzione introduce il concetto di “passaggio in transito”, ossia l’esercizio della libertà di navigazione e di sorvolo al solo fine del trasporto rapido e continuo nello stretto. Questo comporta diritti più ampi rispetto al passaggio inoffensivo e precisamente: il transito delle navi, sia private che da guerra, non sospendibile; il diritto di sorvolo a favore degli aeromobili civili e militari; la possibilità per i sommergibili di navigare in immersione durante l’attraversamento dello stretto. Il passaggio in transito si applica agli stretti utilizzati per la navigazione internazionale che mettono in comunicazione: due parti di alto mare, due zone economiche esclusive, una zona economica esclusiva e una zona di alto mare. Non si applica invece il passaggio in transito, ma il passaggio inoffensivo non sospendibile agli stretti che collegano: Il mare territoriale di uno Stato ad una parte di alto mare oppure alla zona economica esclusiva di un altro Stato, due zone di alto mare, ma compresi fra il continente ed un’isola appartenente allo stesso Stato costiero. Il regime predisposto dalla Convenzione del 1982 non si applica agli stretti internazionali disciplinati da convenzioni internazionali di lunga data. Lo stretto di Messina mette in comunicazione due parti di alto mare, ma il diritto di passaggio in transito qui non si applica perché è uno stretto che si trova tra un isola e un territorio appartenente allo stesso stato ed esiste al largo dell’isola una rotta che può essere convenientemente seguita dalle navi. Nel 1985 il passaggio è stato sospeso in seguito ad un incidente (fuoriuscita di petrolio), l’Italia ha vietato il

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passaggio di petroliere e navi con carichi inquinanti maggiori di 50.000 tonnellate, gli Usa hanno protestato facendo valere il fatto che questo diritto riguarda tutte le navi di qualsiasi stazza siano. 6 - La zona contigua e la zona archeologica Si definisce zona contigua una fascia marina adiacente al mare territoriale nella quale lo stato costiero può esercitare, anche sulle navi straniere, diritti di controllo necessari a prevenire o reprimere infrazioni alle sue leggi doganali, fiscali, sanitarie e d’immigrazione. La Convenzione del 1982 autorizza gli Stati ad istituire una zona contigua sino a 24 miglia marine. Poiché il mare territoriale può avere un’estensione fino a 12 miglia marine dalla linea di base, praticamente la zona contigua copre una fascia di mare adiacente di ulteriori 12 miglia marine. L’istituzione di una zona contigua è del tutto facoltativa ed è a tal fine necessaria una formale proclamazione dello Stato costiero. In Italia l’estensione del mare territoriale a 12 miglia operata nel 1974 ha assorbito la zona contigua (prima infatti aveva un mare territoriale di 6 miglia e una zona contigua adiacente di ulteriori 6 miglia). Ma la legge Bossi-Fini riconosce alle autorità italiane il potere di reprimere le invasioni clandestine anche nella zona contigua, ma non essendo stata adottata nessuna legislazione attuativa, i poteri per il contrasto delle migrazioni illegali in tali zone restano allo stato virtuale. Novità assoluta della Convenzione del diritto del mare è la possibilità di istituire una zona archeologica sul fondo marino adiacente alla costa. La zona può avere un’estensione di 24 miglia dalle linee di base. Lo Stato costiero può presumere che la rimozione di oggetti archeologici o storici dalla zona archeologica, senza la sua approvazione, si concretizzi in una violazione delle sue leggi e regolamenti. Si vengono così a riconoscere allo Stato costiero diritti speciali di controllo e giurisdizione in ordine alla rimozione di oggetti di valore archeologico e storico oltre il mare territoriale e sino ad una distanza di 24 miglia dalle linee di base. (L’Italia non ha ancora istituito una zona archeologica). In assenza di una formale proclamazione di una zona archeologica occorre fare riferimento al codice dei beni culturali e del paesaggio che stabilisce una tutela degli oggetti archeologici e storici rinvenuti nei fondali oltre le 12 miglia a partire quindi dal limite esterno del mare territoriale. 7 – La piattaforma continentale Le zone marine che costituiscono un attributo necessario dello stato sono il Mare territoriale e la Piattaforma continentale, mentre le altre, ovvero la ZEE, la zona archeologica e la zona contigua possono essere proclamate. La piattaforma continentale comprende il suolo e il sottosuolo marino che costituiscono il normale prolungamento delle terre emerse al di là del mare territoriale. È un istituto recente, invocato per la prima volta nel 1945 dal presidente Truman durante uno storico discorso, nel quale ha rivendicato l’esclusivo controllo statunitense sulle risorse naturali della piattaforma continentale adiacente alle coste americane. Nel corso degli anni successivi ci furono analoghe pretese da parte di altri stati, soprattutto gli stati dell’America Latina si spinsero fino a rivendicare diritti non solo sulla piattaforma, ma anche sulla colonna d’acqua sovrastante (mare epicontinentale), ma come vedremo queste pretese di carattere estremo non furono accolte dall’insieme della comunità internazionale. Il suo riconoscimento si realizzò nell’ambito della I Conferenza sul diritto del mare nel 1958 che portò proprio alla conclusione della Convenzione di Ginevra sulla piattaforma continentale. Adesso quest’istituto ha carattere consuetudinario, ed in base ad esso si riconoscono allo stato costiero diritti sovrani ed automatici (senza bisogno di proclamazione) sulla piattaforma, relativamente alla esplorazione e allo sfruttamento delle risorse naturali, ovvero: le risorse minerarie, le risorse biologiche sedentarie (organismi che rimangono immobili sulla piattaforma o che si spostano rimanendo costantemente in contatto con il fondo marino)

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le acque sovrastanti la piattaforma rimangono soggette al regime dell’alto mare, pertanto queste attività di esplorazione e sfruttamento del fondo non devono comportare interferenze con la libera navigazione e la pesca. Per quel che riguarda la delimitazione della piattaforma continentale: il limite interno coincide con il confine eterno del mare territoriale; più complessa è la delimitazione del limite esterno. Si fa riferimento a due regimi:

Convenzione di Ginevra (1958): Essa pone due criteri alternativi: la piattaforma continentale si estende dal limite esterno del mare territoriale fino al punto in cui le acque toccano i 200 metri (limite verticale) se però la tecnica consentisse lo sfruttamento di risorse naturali a profondità maggiori era facoltà dello stato costiero sfruttarle.

Convenzione di Montego Bay (1982): Stipulata nell’ambito della III Conferenza del diritto del mare del 1982, utilizza un criterio diverso: la piattaforma continentale si estende fino a massimo 200 miglia marine dalla linea di base o se in senso biologico la piattaforma continentale è più estesa, allora essa si estende dal punto di vista giuridico fino al bordo del margine continentale ma non oltre le 350 miglia marine dalla linea di base oppure non oltre le 100 miglia marine dalla isobata dei 2500 metri.

Per margine continentale (art.76 par.3) si intende il prolungamento sommerso della massa terrestre e consiste nel fondo marino e sottosuolo della piattaforma, del pendio e della risalita; per isobata (art.76 par.5) si intende invece la linea che congiunge i punti che si trovano ad una stessa profondità: in questo caso 2500 metri. Ovviamente se si estende oltre le 200 miglia lo stato costiero avrà degli obblighi: versare all’autorità internazionale dei fondi marini un contributo in denaro o in natura in percentuale rispetto ai benefici derivanti dallo sfruttamento delle risorse oltre tale limite. L’autorità internazionale dei fondi marini dovrebbe distribuire i contributi tenendo conto delle esigenze dei paesi in via di sviluppo in modo particolare di quelli meno sviluppati e quelli privi di litorale. Il criterio delle 200 miglia è stato riconosciuto come appartenente al diritto consuetudinario dalla sentenza della CIG del 1985 relativa alla controversia tra Malta e Libia. Per quel che riguarda la delimitazione della piattaforma continentale tra stati limitrofi o frontisti, si hanno tre riferimenti:

La convenzione di Ginevra (1958) stabilisce che la delimitazione della Piattaforma continentale tra stati frontisti o adiacenti deve avvenire mediante accordo tra questi. In mancanza si deve adottare il criterio della linea mediana (criterio della equidistanza) cioè una linea in cui i punti sono tutti equidistanti dai punti più vicini dalla linea di base di ciascuno stato.

Sentenza sulla delimitazione della piattaforma continentale del mar del Nord tra Olanda e Rep. Federale Tedesca (1969): La Rep. Federale Tedesca confina ad ovest con l’Olanda e a nord con la Danimarca, la costa è per la Rep. Tedesca concava, le due pretendevano di procedere alla delimitazione in base al criterio della linea mediana che avrebbe svantaggiato la Rep. Tedesca perché essendo concava non ci sarebbe stata una diritta, ma una linea obliqua. La CIG affermò che il criterio della linea mediana non era norma di diritto consuetudinario pertanto non applicabile per la Rep. federale Tedesca che non aveva ratificato.

La convenzione di Montego Bay (1982): ha tenuto conto del dictum della corte e non fa riferimento al criterio della linea mediana e stabilisce all’art. 83 che le delimitazione deve avvenire mediante accordo in modo da pervenire ad una soluzione equa, in mancanza di accordo si procede ad una procedura di risoluzione della controversia in base alla parte XV della convenzione e in attesa si concludono delle intese provvisorie di carattere pratico.

In diverse sentenze degli anni ’80 la CGI ha affermato che la disposizione contenuta all’art.83 è consuetudinaria L’Italia? Già a metà degli anni ’60 aveva concluso accordi con Albania, Jugoslavia e Grecia. Adesso alla Jugoslavia sono succedute Serbia e Montenegro.

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8 – La zona economica esclusiva (ZEE) La zona economica esclusiva (ZEE) è un istituto ancora più recente introdotto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982. Adesso appartiene già al diritto consuetudinario, la CGI lo ha accertato sempre nella sentenza del 1985 tra Malta e Libia. La ZEE è una fascia di mare che può estendersi fino a 200 miglia calcolate a partire dalla linea di base e comprende: il fondo marino, il sottosuolo marino, la colonna d’acqua sovrastante. L’istituzione della ZEE dipende da un preciso atto di volontà dello Stato costiero e deve essere proclamata, dove è stata proclamata assorbe la Piattaforma continentale se questa non si estende oltre le 200 miglia. I diritti di cui gode lo Stato costiero nella ZEE sono diversi e meno intensi rispetto a quelli di cui gode nel mare territoriale: gode di diritti esclusivi in materia di sfruttamento, gestione e conservazione delle risorse naturali, e circa le altre attività dirette all’utilizzazione a fini economici della zona (possibilità di ricavare energia dalle acque, correnti e dai venti). Nella ZEE per risorse naturali si intendono: sia le risorse minerarie che le risorse biologiche tutte comprese le risorse ittiche. In tale zona, lo Stato costiero ha altresì diritti di giurisdizione in relazione allo stabilimento e all’uso di isole e installazioni artificiali, alla ricerca scientifica marina, alla protezione dell’ambiente marino dall’inquinamento. Nella ZEE, lo Stato costiero gode di poteri di polizia connessi alla realizzazione dei suoi diritti. Può così prendere misure quali la visita e la cattura di navi straniere che abbiano violato le sue leggi, nelle materie per le quali esso ha giurisdizione in base alla Convenzione. Nella ZEE tutti gli stati godono della: libertà di sorvolo, posa di cavi e dotte che non arrechino danno libertà di navigazione. Fra Stati frontisti o limitrofi la delimitazione della ZEE va effettuata mediante accordo conformemente al diritto internazionale e in modo da ottenere un’equa soluzione. L’Italia non ha una ZEE, ma una legge del 2006 ha previsto la possibilità di istituire zone di protezione ecologica, dove appunto potranno adottarsi misure per la protezione dell’ambiente marino e del patrimonio archeologico. 9 – Il regime dell’alto mare e dei fondi marini internazionali Per quel che riguarda gli stati privi di litorale: anche essi come gli altri godono del diritto di navigazione, ma il diritto consuetudinario non obbliga gli stati a garantire il diritto di transito sul loro territorio per consentire agli altri l’accesso al mare. Gli stati che vorranno tale accesso potranno stipulare degli accordi con lo stato interessato. La convenzione di Montego Bay inizialmente stabilisce che gli stati privi di litorale hanno un vero e proprio diritto di transito sugli altri, ma nella sostanza arriva alla stessa conclusione del diritto consuetudinario cioè la stipula di accordi bilaterali per le modalità del diritto di transito. Per quel che riguarda il suolo e il sottosuolo marino a partire dal limite esterno della Piattaforma continentale, essi sono assoggettati al regime del patrimonio comune dell’umanità, pertanto i fondi marini e il loro sottosuolo devono essere utilizzati solo per scopi pacifici, il loro sfruttamento deve avvenire nell’interesse dell’umanità tutta ed i proventi devono essere ripartiti tra tutti gli stati con un equa distribuzione. La risoluzione dell’assemblea generale in questo senso è del 1970 e la previsione della ZEE del 1982, andrebbe perciò corretta la definizione, tenendo presente le possibile presenza della ZEE. Come i fondi e il sottosuolo marino, assoggettati a questo regime sono anche lo spazio extra-atmosferico, i corpi celesti, la luna. Questa tesi per quel che riguarda la luna e i corpi celesti trova consacrazione in un accordo del 1979, mentre la convenzione di Montego Bay sul diritto del mare riconosceva i fondi e i loro sottosuoli oltre la giurisdizione nazionale come Patrimonio dell’umanità e li soprannominava “Area”. Era stata prevista l’istituzione di un organizzazione internazionale : Autorità internazionale dei fondi marini competente ad organizzare e controllare l’esplorazione e lo sfruttamento delle risorse dell’Area, di cui avrebbero fatto parte tutti gli stati membri della Convenzione. Questa disciplina sull’Area era dettata nella parte XXI, essa incontrò l’opposizione degli stati industrializzati, cosi che le 60 ratifiche necessarie per far entrare in vigore la convenzione non furono raggiunte. Quindi nel 1994 si rimise mano alle parte XXI per superare il blocco, ci

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fu un integrazione modificativa : Accordo di New York. Esso prevedeva che sarebbe entrato in vigore dopo il 40° strumento di ratifica, ma lo stesso accordo prevedeva che qualora non fosse entrato in vigore al 16/11/1994 esso sarebbe stato provvisoriamente applicato : dagli stati che lo avevano firmato, a meno che non ci fosse una volontà contraria; dagli stati che avevano consentito alla sua adozione tranne volontà contraria; dagli stati che hanno adottato il protocollo non vengono raggiunte le 40 ratifiche, ma ugualmente esso entrò in vigore in conseguenza dell’applicazione provvisoria. Per quel che riguarda l’alto mare, ai sensi dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra sull’alto mare, “si intende per alto mare tutte le parti del mare non comprese nel mare territoriale o nelle acque interne di uno Stato”. Le disposizioni sull’alto mare si applicano a tutte le parti del mare che non siano comprese nella ZEE, nelle acque interne o territoriali o nelle acque arcipelagiche, infatti qualora uno Stato costiero avesse costituito una ZEE, l’alto mare ha inizio a partire dal limite esterno della suddetta zona. Nel caso in cui lo Stato costiero non abbia proclamato la propria ZEE, sono assoggettate al regime dell’alto mare le aree poste al di là del mare territoriale. L’alto mare è aperto a tutti gli Stati sia agli stati costieri che agli stati privi di litorale e ogni Stato gode della libertà di utilizzarlo nel rispetto delle libertà altrui, nel senso che l’esercizio della libertà da parte di uno stato non deve ledere la libertà dell’altro stato. Il regime dell’alto mare comporta le seguenti libertà: libertà di navigazione, sia marittima che aerea; libertà di pesca; libertà di posa di cavi e condotte sottomarini; libertà di costruire isole artificiali e altre installazioni; libertà di ricerca scientifica. Esso deve essere utilizzato esclusivamente per scopi pacifici, ma non sempre è stato cosi visto che sono state condotte molte guerre in alto mare. In alto mare le navi sono soggette alla giurisdizione esclusiva dello Stato di cui battono bandiera (norma consuetudinaria poi ripresa nella convenzione), lo stato di cui battono bandiera è lo stato di cui hanno la nazionalità, ciascuno stato può scegliere le condizioni alle quali subordinare il rilascio della stessa. Già la Convenzione di Ginevra del 1958, ma anche la convenzione di Montego Bay affermano che deve esserci un legame sostanziale (genuine link) tra lo stato e la nave, si discute se questa sia una norma consuetudinaria. In particolare l’art.94 della convenzione del 1982 afferma che lo stato di cui la nave batte bandiera deve esercitare su essa un controllo effettivo su questioni di carattere tecnico e amministrativo. Certo è che vi sono alcuni stati che concedono facilmente la nazionalità alle navi (es. Singapore e Panama) e poi non esercitano il controllo, cosi gli armatori eludono gli standard di sicurezza e sul lavoro dei membri dell’equipaggio, in questo caso si dice che battono bandiera ombra. Ogni nave deve possedere solo una nazionalità. La nave che batta la bandiera di due o più Stati è assimilata alla nave priva di nazionalità. Le navi prive di nazionalità non possono invocare la protezione di alcuno Stato e in alto mare sono soggette all’autorità delle navi da guerra di qualsiasi stato. 10 - Le eccezioni al principio di libertà di navigazione in alto mare La regola per cui in alto mare le navi sono sottoposte alla esclusiva giurisdizione dello Stato della bandiera è assoluta per quanto concerne le navi da guerra. Per quanto concerne invece le navi private, il diritto internazionale prevede alcuni casi in cui è possibile un intervento anche nei confronti di navi straniere in alto mare: la prima ipotesi riguarda la pirateria. Poiché il pirata esplica la sua attività in alto mare, si è inteso proteggere la sicurezza dei traffici marittimi attribuendo a qualsiasi Stato il potere di reprimere un’attività criminosa, che finirebbe per mettere in pericolo lo stesso principio della libertà di navigazione. Ogni Stato, mediante le proprie navi da guerra o altre in servizio governativo, può catturare in alto mare una nave pirata. Tale potere non spetta se la nave pirata si rifugia nelle acque territoriali altrui: in questo caso sarà lo Stato costiero che dovrà provvedere alla cattura. La definizione di pirateria riguarda: atti illegittimi di violenza, detenzione o depredazione commessi per fini privati dall’equipaggio o dai passeggeri di una nave contro un’altra nave in alto mare o contro persone o beni che si trovino a bordo. Gli atti di pirateria possono essere commessi solo da navi private, non da navi da guerra. Perchè siano compiuti atti di pirateria

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occorre che siano coinvolte almeno due navi. Le navi da guerra di uno Stato straniero possono abbordare in alto mare e sottoporre a visita la nave sospetta di essere adibita alla tratta degli schiavi, che riacquistano ipso facto la libertà non appena si rifugiano a bordo di un’altra nave. Non spetta però un diritto di cattura, che compete solo allo Stato della bandiera. Altra eccezione è costituita dal diritto d’inseguimento. Lo Stato costiero ha il diritto d’inseguire e catturare in alto mare, mediante navi o aeromobili da guerra o adibiti a pubblico servizio, le navi straniere che abbiano violato le sue leggi in zone sottoposte alla sua giurisdizione. L’inseguimento deve avere inizio quando la nave straniera si trova nelle acque interne, arcipelagiche o territoriali dello Stato costiero oppure nella sua zona contigua, ZEE o acque sovrastanti la piattaforma continentale. L’inseguimento deve essere continuo; nel caso di interruzione esso non può essere lecitamente ripreso, così che Il diritto d’inseguimento cessa qualora la nave inseguita entri nelle acque territoriali dello Stato di cui batte la bandiera o di un terzo Stato. L’inseguimento può iniziare solo dopo che sia stato emesso un segnale visivo o sonoro di arresto, da una distanza idonea ad essere ricevuto. 11 - Gli stati-arcipelago La Convenzione del 1982 ha introdotto uno speciale regime per gli Stati-arcipelago e le acque arci pelagiche. E’ uno Stato-arcipelago quello costituito interamente da uno o più arcipelaghi ed eventualmente da altre isole (es. Filippine e Indonesia). Per arcipelago si intende un gruppo di isole le quali hanno le une con le altre rapporti così stretti da formare intrinsecamente un tutto geografico, economico o politico, o che storicamente siano considerate tali. Non rientrano nello speciale regime previsto dalla Convenzione gli arcipelaghi appartenenti a Stati formati anche da territori non insulari (es. Portogallo e Spagna). Gli Stati-arcipelago possono tracciare delle linee di base che sono linee rette congiungenti i punti estremi delle isole più esterne, queste linee prendono il nome di linee di base arcipelagiche, esse delimitano le acque arcipelagiche che si trovano, quindi, racchiuse all’interno delle linee cosi tracciate. Queste acque sono assoggettate alla sovranità dello stato-arcipelago, che è lo stesso regime delle acque interne con una differenza che riguarda il diritto di passaggio inoffensivo delle navi straniere. Nelle acque interne questo è escluso a meno che prima in queste acque non ci fosse un regime differente, mentre la convenzione di Montego Bay prevede che tutte le navi straniere godono nelle acque arcipelagiche del diritto di passaggio inoffensivo come se ci fosse un regime di mare territoriale. Per quel che riguarda il diritto di passaggio in transito, nelle acque arcipelagiche e nel mare territoriale di questi stati, a certe condizioni si applica il diritto di passaggio arcipelagico che nella sostanza è uguale al diritto di passaggio in transito. Cioè nelle acque arcipelagiche c’è sempre il diritto di passaggio inoffensivo, ma potrebbero esserci dei corridoi di transito o rotte aeree previste dallo stesso stato per il diritto di passaggio arcipelagico, ma anche quando non stabilito questo tipo di passaggio c’è nelle rotte aeree e marine utilizzate abitualmente a livello internazionale. Queste norme sono contenute nella convenzione del 1982, ma ormai fanno parte del diritto consuetudinario. I requisiti delle linee di base arcipelagiche: la chiusura è ammissibile purché il tracciato delle linee rette includa al suo interno le isole principali dell’arcipelago. Devono definire una zona all’interno della quale il rapporto tra la superficie marina e la superficie terrestre è compreso tra 1 ad 1 e 9 ad 1. cioè la superficie marina deve essere pari a quella terreste oppure superiore fino a 9 volte quella terrestre. La lunghezza di ciascuna linea di base non deve superare le 100 miglia marine. Ma c’è un eccezione: fino al totale del 3% di tutte le linee di base arcipelagiche, una linea di base può essere superiore a 100 miglia purché non superi le 125 miglia marine.

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La tutela dell’indipendenza statale nell’ordinamento degli stati esteri 1 - L’esenzione degli Stati esteri dalla giurisdizione civile Una norma di diritto internazionale consuetudinario , di antica formazione, prescrive che uno stato non possa essere sottoposto a giurisdizione di fronte ai tribunali di uno stato estero. E’ il principio dell’uguaglianza degli stati, par in parem non habet imperium. Uno stato estero non può essere convenuto in giudizio dinanzi a un tribunale dello stato del foro, tranne che lo stato estero non accetti volontariamente di sottoporsi alla giurisdizione locale e quindi rinunci all’immunità. 1.1 - Immunità dalla giurisdizione: La dottrina dell’esenzione degli stati esteri dalla giurisdizione civile era agli inizi una dottrina assoluta che non comportava eccezioni. Ma con l’accrescersi dell’intervento statale nell’economia, la regola dell’esenzione assoluta cominciò ad essere erosa. La rivoluzione sovietica ed il monopolio del commercio da parte dello stato, hanno costituito un impulso determinante al ridimensionamento della teoria dell’immunità assoluta. La corretta affermazione della regola è quella secondo cui lo stato è esente da giurisdizione di fronte ai tribunali di un altro stato, quando compie attività che sono manifestazione delle sue funzioni sovrane, cioè attività iure imperii; lo stato è invece sottoponibile a giurisdizione quando pone in essere atti di natura privatistica, cioè iure gestionis. La teoria dell’immunità ristretta è seguita anche dalle corti di Common Law. La distinzione tra attività di iure imperii e iure gestionis è in taluni casi abbastanza semplice, in altri è di dubbia determinazione. La Convenzione di Basilea del 1972, che non è stata ratificata dall’Italia, segue il criterio della lista. Il principio generale è quello secondo cui uno stato non può essere sottoposto a giurisdizione. Viene però elencata una serie di fattispecie, tra i quali la convenzione include i casi in cui lo stato estero sia parte attrice nel processo e il convenuto proponga domande riconvenzionali. Problemi particolari sono emersi per le controversie di lavoro tra lo Stato estero e il personale impiegato presso l’ente. Normalmente, le controversie sono sorte in relazione a rapporti di lavoro subordinato, in cui le mansioni svolte, quanto alla loro natura, non rientravano nelle funzioni sovrane dell’ente, ma quanto allo scopo erano in qualche modo strumentali al funzionamento dell’ente. La convenzione di Basilea esclude che possa essere invocata l’immunità dalla giurisdizione qualora la controversia sia relativa ad un contratto di lavoro concluso tra lo stato estero ed una persona fisica, cittadina dello stato del foro o quivi abitualmente residente, ed avente per oggetto una prestazione da eseguire a livello locale. La giurisprudenza italiana più che ai criteri soggettivi della cittadinanza e residenza del lavoratore dipendente, dà rilevanza alla natura delle mansioni svolte e all’oggetto delle richieste giudiziali avanzate. Altra importante eccezione stabilita dalla Convenzione ONU riguarda le controversie relative al risarcimento del danno. Lo stato cui l’azione o omissione generatrici del danno siano imputabili, non può invocare l’immunità dalla giurisdizione se l’azione o l’omissione abbiano avuto luogo nel territorio dello stato del foro e se l’autore dell’atto o omissione era presente nello stato del foro. L’eccezione copre gli incidenti stradali ma anche l’assassinio politico e l’attività dei servizi segreti, ma non è applicabile alle situazioni di conflitto armato. L’immunità dalla giurisdizione non può essere invocata, negli Stati Uniti per azioni risarcitorie conseguenti ad atti di terrorismo sponsorizzati da stati. Una tesi innovativa è stata avanzata dalla nostra corte di cassazione nella sentenza del caso Ferrini secondo cui non può essere accordata l’immunità dalla giurisdizione allo stato estero che sia responsabile di illeciti da qualificare come crimini internazionali. Secondo cui l’immunità dalla giurisdizione non è operante quando lo stato si sia reso responsabile della violazione di norme imperative del diritto internazionale. 1.2 - Immunità dalle misure esecutive e cautelari: l’immunità dalla giurisdizione non riguarda soltanto il procedimento di cognizione, ma è invocabile anche in relazione ai procedimenti esecutivi e cautelari. In tal caso, alla distinzione tra atti iure imperii e atti iure gestionis corrisponde l’analoga distinzione tra beni adibiti allo svolgimento di attività sovrane dello Stato e beni che rientrano invece nella sfera delle attività private dello Stato. Anche l’applicazione pratica di questa distinzione è spesso fonte di incertezze. Il

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problema si è posto ad es. per i beni ad uso promiscuo quali i conti correnti della missione diplomatica, che potrebbero essere usati tanto per attività iure privatorum, come un’attività commerciale, quanto per attività iure imperii, cioè per i fini istituzionali della sede diplomatica. L’art.23 della Convenzione di Basilea esclude che possano essere assoggettati a misure esecutive i beni appartenenti a Stati esteri. La Convenzione ONU distingue tra misure cautelari adottate prima della sentenza e misure esecutive da esperire dopo l’adozione della sentenza stessa. Le prime non sono ammesse. Anche per le seconde vale il principio generale dell’inammissibilità. È da sottolineare che titolari dell’immunità dalla giurisdizione, nei termini sopra considerati, sono non solo lo stato estero in senso stretto, ma anche gli stati membri di stati federali, o comunque le suddivisioni politiche degli stati o le persone giuridiche pubbliche distinte dallo stato, che abbiano la capacità di stare in giudizio. 1.3 - Immunità e diritto di accesso alla giustizia: la Corte Costituzionale in una sentenza ha affermato che tutte le consuetudini esistenti prima dell’entrata in vigore della Costituzione dovevano ritenersi presenti nel nostro ordinamento, quantunque comportanti una deroga alla Costituzione. Oppure , la Corte di Cassazione ha ritenuto che il diritto di accesso alla giustizia non doveva considerarsi leso, qualora fosse possibile una sua soddisfazione per equivalenti, ad es. quando lo stato estero poteva essere citato in giudizio di fronte ai suoi tribunali. La corte europea dei diritti dell’uomo, nel caso Al-Adsani vs Regno Unito ha affermato che il diritto di accesso a un tribunale non è assoluto, ma può essere oggetto di limitazioni, tra cui quelle derivanti dal diritto internazionale. 2 - L’Immunità degli organi stranieri. Le attività poste in essere dall’individuo organo nell’esercizio delle sue funzioni non sono attività proprie dell’individuo, ma dello stato di cui esso è organo e per cui agisce. L’attività è quindi imputata allo stato, e non resta propria dell’individuo, tranne che venga commesso un crimine internazionale, nel qual caso l’atto non solo è imputato allo stato, ma resta in qualche modo proprio anche dell’individuo organo. Si parla in proposito di immunità organica o funzionale dell’individuo organo. A parte la commissione di crimini internazionali, l’individuo organo che compie l’atto per conto dello stato è tutelato dalla norma sull’immunità organica o funzionale. Poiché l’atto è imputato allo stato, l’individuo non ne risponde. I capi di stato oltre a godere dell’immunità organica come qualsiasi altro organo dello stato, beneficiano, secondo un’opinione generalmente accettata, delle stesse immunità personali degli agenti diplomatici, quando si trovano all’estero. Immunità che invece non spetta più quando il capo dello stato cessi dalla funzione, come ha sottolineato la House of Lords nel caso Pinochet, accusato di gravi crimini commessi quando era presidente del Cile. Per i capi di governo dovrebbero valere le regole esposte a proposito dei capi di stato. Per quanto riguarda il ministro degli affari esteri, la corte internazionale di giustizia ha stabilito, nell’affare Congo vs. Belgio che esso gode dell’immunità completa dalla giurisdizione penale, tanto per gli atti compiuti a titolo privato, quanto per quelli ufficiali purché si tratti di un ministro in carica. L’immunità è strumentale allo svolgimento delle funzioni di un ministro degli affari esteri e sussiste anche qualora sia stato commesso un crimine internazionale: in questo caso viene meno solo se l’individuo è sottoposto a giudizio da parte di un tribunale internazionale e deve trattarsi di un tribunale internazionale istituito dal Consiglio di sicurezza dell’ONU. La creazione di un tribunale mediante un accordo tra due stati non basta a qualificare l’istituzione come internazionale, nel senso inteso dalla corte internazionale di giustizia nella controversia Congo contro Belgio. Qualora l’individuo-organo ponga in essere attività clandestine in territorio altrui, l’immunità organica viene di regola disconosciuta, tranne che si tratti di agenti diplomatici. Lo status dei corpi di truppa all’estero, che vi si trovino con il consenso dello stato territoriale, è in generale disciplinato dal diritto convenzionale, mediante accordi ad hoc. Secondo una teoria lo stato territoriale dovrebbe astenersi in ogni caso dall’esercitare la propria giurisdizione in relazione ai corpi di truppa stranieri e ai singoli componenti i corpi stessi. Un’altra corrente di pensiero afferma che lo stato territoriale sarebbe soltanto tenuto a tollerare l’esercizio, da parte dello stato della bandiera, delle funzioni relative al

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mantenimento della disciplina e all’amministrazione interna del corpo ma che nessuna ulteriore forma di immunità dovrebbe essere riconosciuta al di là di tali materie. Nei rapporti tra più contingenti presenti in territorio estero, ciascuno è assoggettato alla legge della propria bandiera. 3 - Gli agenti diplomatici La potestà d’imperio dello stato all’interno del proprio territorio incontra altresì alcune limitazioni a seguito dell’instaurazione di relazioni diplomatiche con altri stati. Il diritto internazionale generale stabilisce alcuni privilegi e immunità a favore degli agenti diplomatici. Convenzione di Vienna del 1961 sulle relazioni diplomatiche. La procedura con cui l’individuo organo viene investito delle funzioni diplomatiche prende il nome di accreditamento. Essa presuppone il preventivo gradimento dello stato territoriale e si perfeziona con la presentazione delle lettere credenziali di regola rilasciate dal capo dello stato accreditante verso il capo dello stato accreditata rio. Ma è ammissibile una procedura semplificata. 3.1 - Inviolabilità dei locali della missione diplomatica: I locali nei quali ha sede la missione diplomatica sono inviolabili. Gli organi dello stato territoriale non vi possono penetrare se non con il consenso del capo della missione. Non è dunque consentito procedere a perquisizioni o sequestri all’interno della sede diplomatica. L’inviolabilità si estende anche ai mezzi di trasporto e alla corrispondenza ufficiale della missione, il principio di extraterritorialità della missione diplomatica. Lo stato territoriale ha inoltre il dovere di proteggere la missione diplomatica da ogni intrusione o danneggiamento, e da qualsiasi altro atto che ne possa disturbare la pace o la dignità. 3.2 - Inviolabilità personale dell’agente diplomatico: la persona dell’agente diplomatico è inviolabile. Questi non può essere sottoposto ad alcuna forma di arresto o detenzione. Grava altresì sullo stato territoriale il dovere di adottare tutte le misure appropriate per prevenire ogni attentato o offesa alla persona, libertà o dignità dell’agente diplomatico. 3.3 - Immunità dell’agente diplomatico dalla giurisdizione locale: Agli agenti diplomatici è riconosciuta, oltre all’immunità organica, una immunità dalla giurisdizione dei tribunali dello stato presso cui sono accreditati in relazione agli atti da essi compiuti come persone private. Si tratta di immunità di natura meramente processuale. È invece di carattere sostanziale e quindi atta a perdurare anche dopo la cessazione delle funzioni l’immunità organica per gli atti compiuti dall’agente diplomatico nell’esercizio delle sue funzioni. In materia penale, l’immunità dell’agente diplomatico è piena, non incontrando eccezioni. Naturalmente, l’agente diplomatico, il quale si renda responsabile di reati in base alla legge locale, potrà essere dichiarato dallo stato territoriale persona non grata, con la conseguenza che lo stato accreditante lo dovrà richiamare o porre fine alle sue funzioni presso la missione. Anche in materia civile ed amministrativa, gli agenti diplomatici beneficiano di immunità dalla giurisdizione dei tribunali locali. L’agente diplomatico costituisce il mero beneficiario materiale delle immunità, titolare del diritto soggettivo all’immunità è lo stato accreditante. Tra i privilegi di cui gode l’agente diplomatico è anche da ricordare l’esenzione fiscale per le imposte dirette personali. 4 - I Consoli Mentre l’agente diplomatico rappresenta lo stato accreditante nelle relazioni internazionali con lo stato accreditatario , il console svolge funzioni tipiche dell’amministrazione dello stato d’invio all’interno dello stato territoriale. Rilascio dei passaporti e documenti di viaggi ai cittadini dello stato d’invio, alla salvaguardia dei loro interessi nelle successioni mortis causa aperte nello stato di residenza, alla trasmissione di atti giudiziari o extragiudiziari inclusa l’esecuzione di rogatorie. I consoli inoltre agiscono in qualità di notai e di ufficiali di stato civile e sono altresì competenti a risolvere le controversie marittime in

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materie di rapporti tra capitano ed equipaggio delle navi battenti bandiera dello stato d’invio. I locali consolari sono inviolabili anche gli archivi e i documenti consolari. Ai consoli non spettano le immunità che il diritto accorda invece agli agenti diplomatici. I consoli non possono essere arrestati i consoli godono solo dell’immunità organica. Exequatur è la procedura più semplice dell’accreditamento che si applica ai soli agenti diplomatici. Il console, come l’agente diplomatico, può essere dichiarato persona non grata dallo stato di residenza. 5 - Le organizzazioni internazionali Dibattuto in dottrina è se alle organizzazioni internazionali spetti, nello stato del foro, l’immunità dalla giurisdizione, sia per il processo di cognizione sia per quello di esecuzione. Vengono stipulati degli accordi con lo stato dove l’organizzazione si trova (c.d. accordo di sede). L’organizzazione gode, nel territorio di ciascuno dei suoi membri dei privilegi e delle immunità necessari per il conseguimento dei suoi fini. Secondo taluni, l’immunità delle organizzazioni internazionali trova fondamento nell’estensione analogica della norma consuetudinaria sull’immunità dalla giurisdizione degli stati. Secondo altri, esisterebbe oramai un’autonoma norma di diritto internazionale consuetudinario che esenterebbe le organizzazioni internazionali dalla giurisdizione dei tribunali interni. Una terza opinione ricava l’immunità della personalità giuridica internazionale delle organizzazioni: un’opinione intermedia attribuisce l’immunità solo alle organizzazioni più importanti. Vi è infine un’opinione radicalmente contraria alle precedenti, secondo cui l’immunità dovrebbe essere convenzionalmente stabilita e sarebbe valida solo nei confronti degli stati parti del trattato istitutivo o dell’accordo di sede. La prassi è incerta. Ancora più incerto è il contenuto dell’immunità non può essere applicato automaticamente per il principio par in parem non habet iuris dictionem. Gli stati esplicano funzioni di natura generale, le organizzazioni internazionali solo quelle determinate dal trattato istitutivo. In materia di immunità dalla giurisdizione delle organizzazioni internazionali, la nostra giurisprudenza non ha seguito un pensiero univoco. Qualora si debba accertare se l’organizzazione goda di immunità, occorre in primo luogo esaminare l’accordo di sede o altro strumento equivalente che in quanto diritto convenzionale deroga la consuetudine internazionale. Generalmente gli stati membri delle organizzazioni internazionali dispongono presso l’organizzazione di una rappresentanza permanente diretta da un capo missione e di cui fanno parte altri funzionari di rango diplomatico. I privilegi e immunità di tali persone sono disciplinati nell’accordo di sede stipulato tra organizzazione internazionale e stato ospite. Il fine è quello di consentire ai membri della rappresentanza di svolgere le proprie funzioni. Possono essere stipulati accordi generali o ad hoc. 6 - I funzionari delle organizzazioni internazionali I funzionari internazionali godono della sola immunità organica, limitatamente agli atti compiuti nell’esercizio delle loro funzioni. I funzionari internazionali non godono invece secondo il diritto internazionale generale, di immunità e privilegi di natura personale. Generalmente però questi vengono accordati ai funzionari di rango più elevato.

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Le fonti del diritto internazionale 1 - L’art.38 par.1 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia Ai sensi di tale disposizione, la Corte internazionale di giustizia, la cui funzione è di decidere in base al diritto internazionale le controversie che le sono sottoposte, deve applicare: convenzioni internazionali (accordi), sia generali che particolari, che stabiliscono norme espressamente riconosciute degli Stati in lite; la consuetudine internazionale, come prova di una pratica generale accettata come diritto; i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili. L’art. 38 è considerato come l’autorevole enunciazione delle fonti di diritto internazionale e deve essere preso in considerazione insieme all’art.53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (1969) che ha riconosciuto l’esistenza di norme imperative del diritto internazionale generale o ius cogens (ossia non sono prodotte da un’autonoma fonte del diritto internazionale, ma questa cogenza è una qualità di alcune norme prodotte dalla consuetudine. Sono norme che trascendono il diritto dei trattati investendo altri settori del diritto internazionale). 2 – La consuetudine L’art.38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia definisce la consuetudine come una pratica generale accettata quale diritto. Tale definizione ha due elementi costitutivi: la diuturnitas (elemento materiale), ossia la ripetizione costante di un comportamento da parte della generalità (non totalità) degli Stati, la quale deve necessariamente essere uniforme; l’opinio iuris ac necessitatis (elemento psicologico), ossia la convinzione generale che tale comportamento sia conforme al diritto. La prassi deve virtualmente essere uniforme e seguita dalla generalità degli stati; quando si parla di generalità, non si richiede ovviamente che un comportamento sia tenuto dalla totalità dei membri della comunità internazionale, ma dalla maggior parte possibile di essi. La necessità dei due elementi è stata ribadita dalla Corte Internazionale di Giustizia nel parere sulla liceità di armi nucleari nel 1996. Il tempo di formazione di una consuetudine può essere più o meno esteso, comunque ci vuole un lasso di tempo necessario ai fini di cristallizzazione della norma, per cui possono esistere consuetudini istantanee. La consuetudine è fonte idonea a creare norme di diritto internazionale generale vincolanti tutti i membri della comunità internazionale: ogni Stato è tenuto ad osservare una norma consuetudinaria indipendentemente che abbia o meno partecipato alla sua formazione o che l’abbia accettata. Gli Stati di nuova nascita sono quindi vincolati dalle norme consuetudinarie generali vigenti quando sono nati. Non si accetta la tesi per la quale la consuetudine non vincola lo Stato che si sia manifestamente opposto alla sua formazione (teoria dell’obiettore permanente). Ci sono consuetudini particolari e sono delle norme vincolanti soltanto una ristretta cerchia di soggetti (es. consuetudini locali e consuetudini regionali). Secondo alcuni, una seconda ipotesi di consuetudine particolare sarebbe data da quelle consuetudini che si formano in deroga a regole pattizie (es. prassi sviluppatasi in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, per cui l’astensione di un ,membro permanente non impedisce l’adozione di una delibera da parte del consiglio. 3 – Le norme imperative del diritto internazionale (ius cogens) Come si è detto, le norme imperative del diritto internazionale o norme di ius cogens, hanno un rango superiore alle norme poste mediante accordo e alle semplici norme consuetudinarie. Ai sensi dell’art.53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (1969), costituiscono norme di ius cogens quelle regole del diritto internazionale generale le quali sono riconosciute ed accettate dalla comunità internazionale nel suo insieme come inderogabili. I criteri identificativi di tale norma sono due:

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Generalità: per poter essere qualificata come imperativa, una determinata regola deve appartenere alla categoria delle norme di diritto internazionale generale che vincolano tutti i membri della comunità internazionale; poiché l’unica fonte idonea a produrre norme generali è la consuetudine, ne consegue che le norme ius cogens sono necessariamente norme di fonte consuetudinaria.

L’accettazione ed il riconoscimento, quale norma inderogabile da parte della comunità internazionale nel suo insieme: affinchè una norma generale possa essere considerata come imperativa, è necessario che sia accettata e riconosciuta quale norma inderogabile dalla comunità internazionale nel suo insieme.

In breve, le norme imperative sono norme di diritto internazionale generale, sorretta da una particolare opinio iuris. Gli stati sono infatti convinti non solo dell’universale applicabilità della norma, ma anche della sua inderogabilità. In questo caso le norme imperative sono innanzitutto norme consuetudinarie sostenute da una opinio iuris particolarmente qualificata. La nozione di ius cogens non ha rilievo soltanto rispetto al diritto dei trattati, pur essendo sorta in relazione ad esso; ma si applica anche alle fonti previste da accordo. La dottrina, e la stessa Commissione del diritto internazionale (CDI), hanno qualificato come norme cogenti, oltre alla già citata norma che vieta l’aggressione, quelle che vietano il genocidio, l’apartheid, la tortura, il mantenimento con la forza di una dominazione coloniale, la negazione del diritto all’autodeterminazione, il divieto di crimini di guerra e contro l’umanità (es. nell’affare relativo alle attività armate in territorio congolese, nell’ ambito della controversia Repubblica democratica del Congo vs Ruanda, nel 2006, la Corte internazionale di giustizia ha espressamente affermato che il divieto di genocidio è contenuto in una norma appartenente al diritto internazionale cogente). Come si evince dall’ esempio citato, le norme cogenti proteggono i diritti fondamentali dell’ordinamento internazionale e costituiscono le basi dell’attuale comunità internazionale. E’ da escludere che lo ius cogens possa trovare la fonte in un trattato internazionale, poiché l’accordo produce solo diritto particolare, vincola cioè solo gli stati parti. 4 - L’accordo L’accordo (o trattato, convenzione) è fonte del diritto internazionale. La materia è disciplinata dal diritto internazionale consuetudinario. Nel 1969 è stata conclusa la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, la quale detta le regole per la trattazione di questa materia. Gli Stati parte a questa convenzione sono circa la metà della comunità internazionale (l’Italia ne è parte). E’ l’art.2 della Convenzione di Vienna a contenere la definizione di questa fonte di diritto: può avere varie denominazioni; la volontà concludere un trattato può essere consegnata sia in un unico strumento, sia in due o più strumenti connessi; deve essere disciplinato dal diritto internazionale. Trova fondamento nel diritto pubblico interno di uno Stato parte al trattato e non ha natura giuridicamente vincolante, appartenendo al cosiddetto soft law (guide lines, codici di condotta, dichiarazioni etc.) come i rapporti OSCE, i quali non sono giuridicamente vincolanti. Le minute, nelle quali sono registrati i processi verbali delle delegazioni non sono accordi. La Convenzione di Vienna disciplina solo gli accordi tra Stati, ma costituiscono trattati anche accordi conclusi tra Stati e altri soggetti di diritto internazionale o tra due o più soggetti di diritto internazionale. Inoltre la Convenzione di Vienna regola solo gli accordi in forma scritta e non quelli in forma orale di cui comunque riconosce la validità. L’accordo può disciplinare tutte le materie, incluse quelle facenti parte del dominio riservato degli Stati, cioè quelle materie non disciplinate nè dal diritto consuetudinario nè da quello pattizio. Unico limite alle potenzialità dell’accordo è dato dalla ius cogens: un accordo contrario ad una norma di ius cogens è nullo. Mentre la consuetudine internazionale crea diritto internazionale generale, l’accordo crea diritto internazionale particolare che crea diritti ed obblighi solo per gli Stati parte. Può accadere che una norma di un accordo enunci una regola consuetudinaria preesistente o che possa trasformarsi poi in diritto internazionale (art. 38 Convenzione di Vienna, 1969). Le regole dichiarative del diritto internazionale consuetudinario obbligano tutti gli Stati della comunità internazionale indipendentemente dalla ratifica o dall’entrata in vigore dell’accordo.

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5 - Principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili L’art.38 par.1 dello statuto della Corte internazionale di giustizia, dispone chiaramente che la Corte, al fine di risolvere le controversie internazionali, applica i “principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili”. Con tale formula si vogliono indicare quei principi giuridici che sono generalmente riconosciuti negli ordinamenti interni degli stati. Essi sono assunti nell’ordinamento internazionale in virtù di un processo di produzione giuridica automatico. Possono citarsi a titolo di esempio, il principio della irretroattività delle norme giuridiche a carattere punitivo e quello per cui nessuno può essere giudice della propria causa (nema iudex in res sua). L’ espressione “nazioni civili” contenuta nell’ art.38 rappresenta certamente il retaggio di un’epoca lontana, in cui erano ritenute civili soltanto le nazioni appartenenti alla res publica christiana; La formula è oggi considerata anacronistica, se non offensiva nei confronti dei paesi meno sviluppati. I principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili possono giocare un ruolo determinante nell’individuazione del diritto applicabile ai contratti tra stati e privati, quantunque non si tratti di accordi internazionali. La Corte Costituzionale in una sentenza del 1967, non ha qualificato come principio generale di diritto riconosciuto dalle nazioni civili il ne bis in dem. Tale principio opera invece nei rapporti tribunali interni-tribunali penali internazionali, nella misura in cui i tribunali penali internazionali possono sottoporre il reo a nuovo procedimento, solo se il procedimento nazionale non sia stato imparziale o la condanna sia stata lieve rispetto al crimine commesso. I principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili devono dunque essere tenuti distinti dai “principi generali del diritto internazionale”, cui spesso fa riferimento la Corte internazionale di Giustizia, poiché questa seconda categoria di principi, è infatti costituita da principi desunti direttamente dall’ordinamento internazionale, e non dagli ordinamenti interni, come invece accade per la prima categoria di principi. 6 – La giurisprudenza e la dottrina L’art.38 par.1 (d) dello Statuto della CIG fa riferimento alla giurisprudenza (decisioni giudiziarie) e alla dottrina, specificando che esse costituiscono mezzi sussidiari per l’accertamento delle norme giuridiche. Si deduce che non sono fonti del diritto internazionale. Per quanto riguarda la giurisprudenza, l'art.38 par.1 si apre con riferimento all’art. 59 dello Statuto della CIG allo scopo di affermare l’efficacia soggettiva e oggettiva del giudicato, che vincola solo le parti in lite in relazione alla controversia decisa. Al fine di determinare il contenuto delle norme internazionali vengono prese in considerazione non solo le sentenze della CIG, ma anche quelle dei tribunali arbitrali (es. con riferimento al diritto internazionale umanitario vi sono il tribunale penale per la ex-Iugoslavia, il tribunale penale per il Ruanda) e la corte penale internazionale. Anche i pareri consultivi della CIG sono importanti, anche se l’art.38 fa riferimento alle “decisioni giudiziarie”, quindi ad atti giuridicamente vincolanti e non a pareri, che non sono obbligatori. Dei pareri si tiene conto, appunto, per ricostruire una norma di diritto internazionale. Per quanto riguarda la dottrina invece, sempre citata dall’art.38 par.1 (d), si intendono le opere degli autori più rappresentativi dei vari sistemi giuridici. Di solito la dottrina non viene citata nelle sentenze della CIG, mentre è presa in considerazione da altri tribunali internazionali. 7 – L’equità In base all’art. 38 par. 2, la CIG è abilitata ad adottare sentenze ex aequo et buono, se le parti le attribuiscono questo potere. In base a ciò la Corte può discostarsi dal modo di procedere a seconda delle esigenze delle parti; per equità, per la giustizia del caso concreto tutte le parti permettono al giudice di agire non seguendo alla lettera il diritto, ma considerando le esigenze del caso. La sentenza è comunque obbligatoria. Finora non sono state emesse sentenze per equità. Quando la CIG decide per equità si tratta di una fonte prevista da accordo, poichè trae la sua forza obbligatoria dall’accordo tra le parti. L’equità ha

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assunto una grande rilevanza nella delimitazione marittima e specialmente nella divisione della piattaforma continentale e della ZEE tra Stati adiacenti e frontisti. Ma è soprattutto quando, in assenza di accordo, le parti di una controversia di delimitazione si rivolgono ad un tribunale internazionale, e viene spesso indicata dalla Corte internazionale di giustizia alle parti allo scopo di pervenire ad un accordo di delimitazione. In tal caso, come specificato dalla Corte internazionale di giustizia nel caso della delimitazione della piattaforma continentale tra Tunisia e Libia (1982), la nazione giuridica di equità è un principio generale direttamente applicabile come diritto. 8 – Le fonti previste da accordo L’accordo può prevedere che attraverso l’adozione di un determinato atto, o mediante un determinato procedimento, vengano create norme giuridiche vincolanti nei rapporti tra le parti. In tal caso si è in presenza di una fonte prevista da accordo. La dottrina è divergente nella sua concezione di gerarchia delle fonti, una parte di essa la pone al secondo livello dopo la consuetudine, un’altra la pone invece al primo livello, al pari della consuetudine, ma la questione è priva di livello pratico. La fonte prevista da accordo può essere inserita in un semplice trattato oppure in un trattato istitutivo di un organizzazione internazionale (es. l’art. 10 del Trattato di non proliferazione nucleare, inizialmente stipulato per 25 anni, è stato esteso a tempo indeterminato dalla conferenza di estensione del TNP del 1995). Un altro esempio di tale istituto, è rappresentato dal Trattato istitutivo della CE, il quale attribuisce agli organi preposti, il potere di emanare atti vincolanti (regolamenti, direttive, decisioni) ed atti non vincolanti (raccomandazioni e pareri). Il Trattato istitutivo dell’UE dispone invece che, in materia di “cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale” (il terzo pilastro dell’UE), possano essere adottate decisioni-quadro e decisioni, atti giuridicamente vincolanti. Le decisioni-quadro e le decisioni del Trattato UE sono assimilabili, rispettivamente, alle direttive ed alle decisioni del trattato CE, non possono avere però efficacia diretta all’interno degli stati membri. 9 - La gerarchia delle fonti Le norme imperative (ius cogens) prevalgono sulle semplici norme consuetudinarie e invalidano o estinguono contrari accordi. Una norma di ius cogens può essere modificata solo da una norma successiva avente uguale valore (vedi art. 53 Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati). E’ inammissibile che una norma di ius cogens si estingua per desuetudo: atti contrari ad una norma imperativa avrebbero natura di illeciti. Lo ius cogens impedisce la formazione di norme consuetudinarie contrarie. E’ importante capire se una norma posteriore ad un trattato abbia natura imperativa o consuetudinaria. Mentre la norma successiva imperativa estingue il trattato anteriore, il trattato anteriore prevale a fronte di una norma consuetudinaria successiva. Bisogna chiedersi se l’art. 38 par. 1 dello Statuto della CIG oltre ad indicare le fonti, indichi anche la loro gerarchia. Quest’ordine è quello in cui si presentano le fonti al giudice internazionale. Infatti egli per prima cosa verificherà se la lite è disciplinata dall’accordo tra le pari. In mancanza farà riferimento alla consuetudine. In mancanza di questa farà riferimento ai principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili con funzione integratrice di accordi e consuetudini. I rapporti tra le norme consuetudinarie sii coordinano secondo il principio di successione delle leggi nel tempo: la consuetudine posteriore prevale su quella anteriore. Invece, i rapporti tra consuetudini particolari e consuetudini generali si coordinano con il principio di specialità: anche se anteriore, la consuetudine particolare prevale sulla consuetudine generale. Rapporti tra consuetudine e accordo Sono disciplinati secondo il principio di specialità: l’accordo, anche se anteriore, prevale sulla consuetudine posteriore come lex specialis. Può darsi però che lo scopo di una consuetudine posteriore sia quello di trattare un’intera materia; in questo caso è la consuetudine posteriore ad abrogare l’accordo anteriore.

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Il principio di specialità non è applicabile ai rapporti tra accordo e consuetudine locale; in questo caso si coordinano secondo il principio di successione di leggi nel tempo. Quindi la consuetudine locale posteriore prevale sull’accordo anteriore. Per quanto riguarda i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili sottostanno all’accordo e alla consuetudine. L’art.21 par. 1 dello Statuto della Corte penale internazionale afferma che i principi generali di diritto trovano applicazione in mancanza di una disciplina pattizia o consuetudinaria. 10 – Le norme istitutive di obblighi erga omnes o di vincoli solidali Di regola le norme internazionali creano vincoli bilaterali, sono cioè fonte di diritti ed obblighi reciproci fra le parti. La Corte internazionale di giustizia, nel parere del 1951, sulle riserve alla Convenzione sul genocidio, pose le basi per la definizione di norme istitutive di obblighi erga omnes o istitutive di vincoli solidali. Gli stati sono obbligati a prevenire e reprimere il genocidio nel proprio ordinamento. Gli stati parti possono far valere la violazione dell’obbligo. Se così non fosse, gli obblighi derivanti dalla convenzione sul genocidio rimarrebbero privi di garanzia, poiché non sarebbe individuabile uno stato direttamente leso, e quindi legittimato a far valere la violazione. Accanto a norme che istituiscono vincoli solidali e che presuppongono la mancanza di soggettività internazionale del beneficiario materiale, esistono norme che quantunque attribuiscano diritti in capo al soggetto immediatamente tutelato, creano nondimeno vincoli solidali (es. divieto di aggressione). La categoria di obblighi erga omnes, qualificati come obblighi che esistono nei confronti della comunità internazionale nel suo insieme, è stata utilizzata anche dalla CDI per individuare gli stati, diversi dallo stato immediatamente leso, legittimati ad invocare la responsabilità internazionale dello stato che abbia commesso una violazione del diritto internazionale. Le norme che stabiliscono obblighi erga omnes pongono obblighi esigibili da tutti gli stati o dalla comunità degli stati parti del trattato, se la fonte dell’obbligo erga omnes è una norma pattizia. In una comunità anorganica e non verticistica come quella internazionale gli obblighi erga omnes svolgono, sia pure imperfettamente, la funzione sociale che nelle comunità più sviluppate è operata dagli organi di rappresentanza e tutela di interessi collettivi. 11 – Il soft law Con il termine soft law, usato dalla dottrina anglo-americana, si identificano le disposizioni non giuridicamente vincolanti. Quanto alla loro fonte, si tratta di atti adottati dalle organizzazioni internazionali, quali le raccomandazioni internazionali, oppure di “codici di condotta” o di atti adottati da conferenze internazionali non aventi la dignità di trattato. Il soft law può contribuire in vario modo alla creazione di diritto. In primo luogo, una serie ripetuta di risoluzione delle organizzazioni internazionali può contribuire alla creazione di consuetudini internazionali sempre che sussistano i requisiti per la nascita di una consuetudine internazionale (es. i principi contenuti nelle risoluzioni di conferenze internazionali possono essere tradotti in un trattato internazionale, come è accaduto, e accade, per l’ambiente; altro esempio è il Trattato di amicizia e buon vicinato tra Germania e Polonia del 1991 nel quale è stabilito che le parti si obbligano ad applicare i principi stabiliti dalla CSCE sulle minoranze). Non si ritiene invece che alcuni atti, come le Dichiarazioni di principi dell’Assemblea generale, siano fonte di diritti ed obblighi, neppure quando la dichiarazione equipari la sua inosservanza ad una violazione del diritto internazionale consuetudinario o della Carta delle Nazioni Unite. Dubbio è se le risoluzioni non vincolanti delle organizzazioni internazionali producano il cosiddetto “effetto di liceità”, nel senso che lo stato non commette nessun illecito internazionale, qualora violi un obbligo di diritto pattizio o consuetudinario per dare esecuzione ad una raccomandazione internazionale.

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12 - Atti unilaterali Un atto unilaterale è una manifestazione di volontà non destinata ad incontrarsi con quella di un altro soggetto e non ha valore pattizio. Deve essere previsto da una norma dell’ordinamento di natura pattizia o consuetudinaria. Caratteristica degli atti unilaterali è l’atipicità. Gli atti unilaterali disciplinati dal diritto pattizio sono: la denuncia o recesso, atto con cui ci si scioglie dai vincoli contrattuali previsti dal trattato. Il trattato disciplina le modalità di questo recesso e quando avrà effetto. Se il trattato non contiene nulla in merito questo è ammissibile secondo la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati. la requete, atto con cui si mette unilateralmente in moto il procedimento davanti ad un organo giurisdizionale come ad esempio la CIG. Questo presuppone l’esistenza di una clausola compromissoria inserita in un trattato con la quale le parti convengono che ogni controversia nata in relazione all’interpretazione del trattato possa essere deferita alla competenza di un organo giurisdizionale incaricato. Gli atti disciplinati dal diritto consuetudinario sono : il riconoscimento, con questo atto un soggetto riconosce come conforme a diritto una certa situazione, con la conseguenza che con questo dovrebbe essere preclusa poi la facoltà di contestarne l’illegittimità; la rinuncia, atto con cui un soggetto manifesta la volontà di non avvalersi di un diritto soggettivo a lui spettante. Può essere esplicita oppure desunta; l’acquiescenza, conseguenza della mera inerzia del soggetto di fronte ad una situazione che tocca i suoi interessi. E’ il silenzio di chi avrebbe dovuto prendere posizione in ordine ad una determinata situazione. la protesta, non si riconosce come conforme a diritto una determinata pretesa. Si impediscono le conseguenze che potrebbero derivare dall’acquiescenza;la promessa, atto con cui uno Stato si impegna a tenere un certo comportamento o si obbliga ad astenersi dal farlo; la notifica, si rendono “consapevoli” uno o più soggetti di diritto internazionale dell’esistenza di determinati fatti o situazioni. Il soggetto che l’ha ricevuta non può quindi ignorare l’esistenza del fatto o situazione; l’estoppel, figura del diritto anglosassone, impedisce di rendere priva di effetti una dichiarazione effettuata da uno Stato nei confronti di un altro, quando la dichiarazione è a vantaggio dello Stato dichiarante e a svantaggio dell’altro Stato. Lo Stato dichiarante è precluso dal contestare la sua dichiarazione e dal far valere una pretesa in contrasto con essa.

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Il diritto dei trattati 1 – Modalità di stipulazione ed entrata in vigore dei trattati La procedura di stipulazione inizia con la negoziazione, nella quale ogni Stato presenta i propri interessi. I negoziati sono condotti da plenipotenziari (delegati governativi ) degli Stati che si mettono d’accordo su un testo. La negoziazione ha luogo in una conferenza internazionale o in seno all’organo di un’organizzazione internazionale. La fase successiva è l’adozione (art.9 Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati). Se il testo viene fatto in una conferenza, l’adozione avviene con il voto dei due terzi degli stati presenti e votanti; al di fuori di una conferenza il consenso di tutti i partecipanti sancisce la versione definitiva del testo. Il testo può essere parafato, cioè siglato dai plenipotenziari. La terza fase è quella della firma (art. 10) che contraddistingue la fase di autenticazione ed ha lo scopo di rendere incontestabile il testo negoziato. Generalmente la firma, pur non obbligando le parti ad osservare il trattato, le obbliga ad astenersi da atti incompatibili con il suo oggetto e il suo scopo. Nei trattati in forma semplificata la firma funge anche da ratifica. La fase successiva è quella della ratifica, atto con cui lo Stato si impegna ad osservare il trattato, a cui segue lo scambio delle ratifiche qualora venga in considerazione un trattato bilaterale; nei trattati multilaterali ha invece luogo il deposito delle ratifiche presso il depositario, che può essere uno Stato o un organo di un’organizzazione internazionale. I trattati multilaterali entrano in vigore dopo un certo numero di ratifiche che di solito viene indicato, i trattati bilaterali invece dopo lo scambio delle ratifiche. E’ dal momento dell’entrata in vigore del trattato che chi non segue quanto stabilito commette un illecito internazionale. Il trattato entra in vigore dopo l’ultimo deposito dello strumento di adesione ed è specificato un lasso di tempo dopo l’ultima deposizione. Al termine delle conferenza che ha adottato il testo del trattato, viene normalmente redatto un Atto finale: tale strumento è una specie di atto notarile che registra tutte le fasi della conferenza. Negli accordi conclusi in forma semplice, la procedura più immediata, e consiste di regola nella sola negoziazione, cui segue la firma da parte dei plenipotenziari. In tal caso, la firma non solo ha lo scopo di autenticare il testi, ma anche quello di obbligare le parti ad osservare il trattato. 2 – La capacità di concludere trattati L’art.6 della Convenzione di Vienna del 1969 stabilisce che ogni stato ha la capacità d concludere trattati. L’articolo fa riferimento agli stati in quanto soggetti di diritto internazionale, che non comprendono gli stati membri di stati federali, la cui costituzione interna può però conferire il potere di stipulare accordi. In realtà, altri soggetti di diritto internazionale sono titolari dello ius contraendi: tra questi figurano in primo luogo, le organizzazioni internazionale, le quali possono stipulare accordi sia con enti omologhi, sia con gli stati (es. accordi stipulati da NATO e ONU in materia di reclutamento di contingenti militari per le operazioni di peace-keeping); tra i soggetti di diritto internazionale che possono concludere accordi sono da annoverare gli insorti ed i movimenti di liberazione nazionale, le due entità hanno però limitata capacità internazionale., che ha per oggetto la conduzione o la cessazione delle ostilità o gli accordi di sede con gli stati che li ospitano. La capacità del partito insurrezionale di concludere accordi ha trovato conferma anche nella prassi più recente (es. come osservato precedentemente, gli accordi di Ramboulliet del 1999, relativi alla sistemazione della situazione in Kosovo, erano stati firmati dall’UCK, movimento insurrezionale d etnia albanese, ma respinti dalla Repubblica federale jugoslava, che ne contestava il contenuto). 3 – I pieni poteri e gli organi legittimati a concludere gli accordi internazionali

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L’adozione del testo di un trattato, la sua autenticazione o il consenso ad essere obbligato, sono atti che devono provenire da persone (organi) i cui atti siano imputati allo stato e siano abilitati dal diritto internazionale a concluderli. L’individuazione degli organi competenti a stipulare i trattati non è effettuata dal diritto internazionale, ma dal diritto interno di ciascun stato membro della comunità internazionale. L’art.7 della Convenzione del 1969 distingue due categorie di persone:

Persone per poter esprimere la volontà dello stato in materia di stipulazione dei trattati devono esibire i “pieni poteri”: un atto compiuto da una persona che non aveva il potere è privo di effetti giuridici, tranne che esso sia successivamente convalidato dallo stato. I pieni poteri sono in regola un documento firmato dal Capo dello Stato e controfirmato dal Ministro degli affari esteri.

Persone i cui pieni poteri sono presunti a causa delle funzioni esercitate: la Convenzione elenca al riguardo tre categorie: Capi di Stato, Capi di governo e ministri degli affari esteri, i qual possono concludere tutti gli atti relativi alla stipulazione di un trattato, inclusa la manifestazione di uno stato ad obbligarsi; i Capi di missione diplomatica, relativamente ai trattato conclusi tra stato accreditante e stato accreditatario, ess non possono esprimere il consenso d uno stato ad obbligarsi, se non previa dotazione di pieni poteri; i rappresentanti degli stati accreditati ad una conferenza internazionale o presso una organizzazione internazionale o uno dei suoi organi, relativamente ai trattati adottati nel quadro della conferenza, organizzazione o organo.

La Convenzione di Vienna non fa menzione delle convenzioni tra belligeranti. Queste non sono accordi, conclusi informa scritta o orale, volti a disciplinare determinate questioni di ordine militare tra belligeranti. Le convenzioni possono essere stipulate dai comandanti militari responsabili delle operazioni ed entrano immediatamente in vigore senza bisogno d essere sottoposte al procedimento di ratifica, senza che sia pertanto necessaria l’esibizione dei pieni poteri, nonostante che niente disponga in proposito l’art.7 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati. 4 - Le riserve La prassi delle riserve si sviluppa dopo la II Guerra Mondiale in occasione di una convenzione multilaterale sui diritti umani. I nuovi Stati che aderivano successivamente a queste convenzioni, il cui testo era già concluso, non potevano modificarlo. Nacque così la prassi delle riserve: dichiarazione unilaterale che lo Stato fa quando aderisce al trattato, al momento di depositare lo strumento di accettazione. La riserva può essere eccettuativa, ossia lo Stato che la pone mira ad escludere l’applicazione di una clausola del trattato, oppure interpretativa, ossia volta a conferire una certa interpretazione alla clausola del trattato. La giustificazione del fatto di poter aderire al trattato tramite riserva è che facendo così si attirano più Stati nell’ambito di partecipazione al trattato. La pratica delle riserva non c’è nel diritto interno, la riserva può essere apposta solo ai trattati multilaterali. Vige il principio della flessibilità: se il trattato ammette riserve, queste sono sempre ammissibili; se il trattato non le ammette, non sono ammissibili. Tuttavia quando il trattato non dice nulla a riguardo non è più necessario che la riserva sia accettata da tutte le altre parti, ma è sufficiente che uno Stato contraente accetti la riserva affinché lo Stato che l’ha posta in essere, possa divenire parte del trattato. Questo sistema è stato consacrato dalla CIG, relativamente alle riserve alla Convenzione sul genocidio, che ha anche affermato il principio secondo cui sono inammissibili le riserve incompatibili con l’oggetto e lo scopo del trattato. Si prenda ad esempio il Trattato sul divieto delle armi batteriologiche del 1972: se uno stato parte non applica il trattato nei confronti dello stato riservante, e procede quindi alla fabbricazione di armi batteriologiche, viola il trattato nei confronti degli altri stati che ne sono parte. Lo stesso dicasi per il TNP del 1968. 5 – L’interpretazione dei trattati

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Il primo criterio da seguire è quello obiettivo nel senso di procedere all’interpretazione testuale dei termini colti nel loro significato abituale e tenendo conto del loro contesto e dalla luce dell’oggetto del trattato. Il contesto come anche le finalità del trattato sono contenute nel suo preambolo, ma il suo contesto può cogliersi anche da altri due strumenti. Ogni accordo in rapporto con il trattato purché sia stato posto in essere contemporaneamente alla conclusione del trattato, così come ogni strumento posto in essere da una o più parti in occasione della conclusione del trattato e accertato dalle altre parti come strumento di connessione. Il trattato deve essere interpretato in buona fede pertanto oltre ad impiegare i termini nel significato normale, non possono sollevarsi problemi interpretativi immaginari qualora essi siano chiari. L’art.31 ai fini dell’interpretazione del trattato dice che occorre tenere conto degli altri criteri: ogni accordo posteriore tra le parti in relazione all’interpretazione o applicazione del trattato (accordo sul significato da dare ad alcuni termini) della prassi successiva seguita nell’applicazione del trattato (che equivale ad accordo); qualsiasi regola pertinente di diritto internazionale applicabile nei rapporti tra le parti (diritto consuetudinario e principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili). L’art.32 si occupa dei mezzi complementari di interpretazione, essi sono: i lavori preparatori, circostanza in cui il trattato è concluso quadro storico e avvenimenti che hanno portato alla sua conclusione, essi vengono in considerazione solo per confermare l’interpretazione o per determinarne il significato quando: il ricorso al metodo obiettivo lascia oscuro il senso, il risultato è manifestamente assurdo o irragionevole. I trattati multilaterali sono generalmente redatti in più lingue (inglese, francese, russo, spagnolo, cinese, arabo) tutte le lingue fanno ugualmente fede, si presume che i termini abbiano tutti lo stesso significato, in caso di divergenze il significato è quello che meglio consente di conciliare le varie versioni, a livello pratico deve tenersi presente che la lingua di lavoro è l’inglese. 6 - Trattati e Stati terzi Il trattato non produce effetti nei confronti dei terzi, come recita l’art.34 del trattato di Vienna, il quale stabilisce che “un trattato non crea è diritti né obblighi per uno stato terzo senza il suo consenso”, a meno che: le regole di un trattato non si siano trasformate in diritto consuetudinario, o che il trattato non crei un regime obiettivo o erga omnes, ossia istauri situazioni che si impongono a tutti i membri della comunità internazionale. Comunque la Convenzione distingue tra trattati con cui si vuole imporre un obbligo a carico del terzo e trattati che intendono attribuire diritti al terzo. Un trattato a carico del terzo, prevede che un obbligo nasca per il terzo solo se le parti abbiano inteso creare un tale obbligo e se il terzo accetti espressamente l’obbligo, con obbligo di forma scritta per l’accettazione; un trattato a favore del terzo, produce un diritto che nasce a favore del terzo se questo vi consente. Il consenso è presunto tranne che si abbia un indicazione contraria o che il trattato disponga diversamente. In entrambi i casi il terzo non diviene parte del trattato. Il diritto-obbligo può essere revocato o modificato solo con il consenso delle parti del trattato o del terzo. Il consenso del terzo per revoca o modifica del diritto è necessario solo se previsto. 7 - Invalidità dei trattati E’ una condizione del trattato, tale per cui questo nasce viziato, con un vizio genetico, ovvero nel procedimento di formazione si produce un vizio detto “causa di invalidità”. Le conseguenze sono che il trattato potrà essere annullato; l’invalidità può essere rilevata dopo l’entrata in vigore e qualcuno può chiederne l’annullamento. Cause di invalidità sono i vizi della volontà:

Art.48: prevede l’errore, esso si ha quando una delle parti è determinata a concludere l’accordo sulla base di una falsa rappresentazione della realtà. Questo incide in modo tale che se il soggetto avesse conosciuto la vera realtà non avrebbe concluso l’accordo. L’errore è considerato se lo Stato stesso ha

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contribuito all’errore o poteva accorgersene da solo. Tale invalidità, può essere fatta valere solo dallo Stato che ha subito l’errore.

Art.49: prevede invece l’invalidità per dolo: si parla di dolo quando l’errore è stato causato dall’altra parte con un imbroglio. Anche qui è lo Stato che ha subito l’imbroglio che può far valere questa causa di invalidità; nella prassi internazionale è ormai difficile riscontrare casi di dolo (es. di trattato concluso con dolo risale al 1889 con il trattato di Uccialli, tra Italia ed Etiopia, con il quale l’Italia stabilì un protettorato su quest’ultimo, il quale, credeva invece di aver stipulato un trattato commerciale).

Art.50: prevede il caso di corruzione di un rappresentante di uno Stato. In questo caso è lo Stato il cui rappresentante è stato corrotto che può far valere l’invalidità (può anche non farlo);

Art.51: violenza esercitata sul rappresentante di uno Stato, comprendendo, oltre agli atti, anche le minacce. In questo caso anche un terzo Stato può far valere l’invalidità. La violenza non deve necessariamente provenire dallo stato che ha partecipato alla negoziazione, ma anche da uno stato terzo (es. Accordo di Berlino del 1939 concluso tra la Germania nazista e la Cecoslovacchia che praticamente pose fine all’indipendenza di quest’ultima, a seguita delle minacce nei confronti del presidente cecoslovacco Hacha).

Art.52: violenza nei confronti dello stato nel suo insieme: riguarda invece il caso di violenza esercitata su uno Stato con la minaccia o l’uso della forza. Ciò è contro i principi della Carta dell’ONU, quindi In questo caso qualsiasi Stato può chiederne l’invalidità. Tale disposizione solleva il problema della validità dei trattati di pace, ed in particolare dei trattati conclusi sotto pressioni terroristiche (es. è stato considerato invalido l’accordo concluso tra Italia ed Egitto nel 1985con cui fu offerto un salvacondotto ai terroristi che dirottarono la nave italiana Achille Lauro).

Art.53: Contrarietà del trattato ad una norma imperativa del diritto internazionale (ius cogens): qualsiasi norma di un trattato in contrasto con lo ius cogens non viene applicata, l’istanza di annullamento può essere fatta valere di chiunque. L’art. 46, prevede infine disposizioni del diritto interno sulla competenza di concludere trattati. La regola base è che le violazioni di norme interne non possono essere chiamate in causa per chiedere l’annullamento di un trattato internazionale a meno che la violazione non sia manifesta e tocchi una norma fondamentale. Una violazione è manifesta se è obiettivamente evidente per qualsiasi Stato che si comporti in materia secondo la pratica abituale e in buona fede. Finora nessun tribunale internazionale ha mai dichiarato invalido un trattato in contrarietà ad una norma imperativa del diritto internazionale.

8 – L’estinzione dei trattati Gli art.54-64 della Convenzione di Vienna disciplinano le cause di estinzione dei trattati. La convenzione lascia volutamente da parte la questione degli effetti della guerra sui trattati, che resta affidata al diritto internazionale consuetudinario:

Art.54: l’estinzione o il recesso di una parte può avvenire in conformità alle disposizioni del trattato o in ogni momento per consenso di tutte le parti. (Il recesso può avvenire quando lo stesso trattato lo prevede con la clausola di recesso. Se avviene quando non è previsto è illecito).

Art.56: Denuncia o recesso: in un trattato che non contenga disposizioni relative alla sua estinzione e che non preveda possibilità di recesso, questi sono ammissibili solo quando possono essere dedotti dalla natura del trattato o quando risulti dalle intenzioni delle parti contraenti.

Art.60: violazione sostanziale ad opera di una delle parti: secondo il principio inadimplenti non est adimplendum, in caso di inadempimento le parti innocenti possono decidere quali parti del trattato sospendere nei confronti dell’inadempiente per poi farlo tornare in vigore o estinguerlo del tutto. Il limite è il principio di proporzionalità. Non si possono sospendere le parti di un trattato che riguardano la tutela dei diritti umani e in particolare al divieto di rappresaglie.

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Art.61: Impossibilità sopravvenuta: l’estinzione di un trattato per impossibilità sopravvenuta di esecuzione risulta dalla scomparsa o dalla distruzione definitiva di un oggetto indispensabile all’esecuzione del trattato.

Art.62: mutamento sostanziale delle circostanze esistenti al momento della conclusione del trattato (se questo cambiamento trasforma radicalmente la portata degli obblighi da adempiere): si applica nei casi in cui sopravvengano condizioni traumatiche per cui la situazione esistente al momento della conclusione del trattato cambia radicalmente. Se il cambiamento di queste circostanze fosse stato presente l’accordo si sarebbe concluso in modo diverso. Clausola rebus sic stantibus: può essere invocata sia come causa di estinzione che di sospensione se: si ha un cambiamento fondamentale rispetto alle circostanze esistenti al momento della conclusione del trattato, il cambiamento non era stato previsto, le circostanze hanno costituito una base essenziale per la stipulazione del trattato, o un cambiamento trasformi radicalmente la portata degli obblighi da adempiere. Non può essere invocata quando: il cambiamento è dovuto a una violazione del diritto internazionale imputabile alla parte che invoca l’estinzione o la sospensione, o quando si tratta di un trattato che fissa un confine. Sono frequenti i casi in cui gli Stati si sono avvalsi di questa regola, ma sono pochi quelli in cui si è ritenuto ci fossero i presupposti (es. il problema si pose per il Trattato ABM stipulato nel 1972 tra Stati Uniti ed Unione Sovietica, poiché gli USA intendevano costruire un sistema antimissile, in contrasto con il suddetto accordo).

Art.64: sopravvenienza di una nuova norma imperativa del diritto internazionale (ius cogens): In questo caso, qualsiasi trattato esistente in conflitto con tale norma diventa nullo o si estingue (es. uno dei trattati con cui a suo tempo due stati abbiano riconosciuto i rispettivi possedimenti coloniali, sarebbe oggi in contrasto con il principio di autodeterminazione dei popoli, appartenente allo ius cogens).

La guerra è causa di estinzione? Non c’è una risposta definitiva, vanno considerati i casi singolarmente. Può essere che una guerra sia una causa di cambiamento radicale delle condizioni. I trattati sui diritti umani non vengono estinti da una guerra. Può accadere anche che il trattato resti sospeso durante la guerra e che alla fine di questa venga rimesso in essere dopo una sospensione pendente bello. Un problema particolare sorge per i trattati multilaterali di disarmo, la cui osservanza, in tempo di guerra, potrebbe mettere in pericolo la sicurezza dei belligeranti, specialmente nel caso in cui uno solo di essi fosse vincolato. Il belligerante può pertanto usare la causa di recesso, senza ricorrere alla teoria dell’automatica sospensione del trattato che lo esporrebbe all’accusa di violazione, essendo egli vincolato anche nei confronti dei non belligeranti. La guerra non dovrebbe provocare però un effetto sospensivo o estintivo in relazione ai trattati internazionali in materia di diritti dell’uomo. 9 – L’emendamento e la revisione dei trattati Sotto il profilo formale, emendamento e revisione sono termini equivalenti, e stanno ad indicare una modifica del trattato. Sotto il profilo materiale, l’emendamento sta ad indicare una modifica minore di singole clausole del trattato, mentre la revisione comporta una modifica più incisiva del trattato nel suo complesso. La regola fondamentale è quella stabilita dall’ art.39 della Convenzione di Vienna, secondo cui un trattato può essere emendato per accordo fra le parti. Quindi un accordo posteriore può modificare l’accordo precedente, ma la modifica, per essere efficace, implica che tutti gli stati parte dell’accordo precedente siano parti dell’accordo posteriore. L’art.41 della Convenzione di Vienna, ammette che due o più parti possano concludere un accordo derogatorio, il quale non può però comportare una violazione del trattato multilaterale pena la sua illeceità; si badi bene, che comunque sia, l’accordo derogatorio è valido, ma le parti nell’ eseguirlo commettono comunque un illecito internazionale nei confronti degli altri stati parte dell’accordo multilaterale. Nello specifico nei trattati multilaterali: se tutte le parti del trattato anteriore siano parti del trattato posteriore, allora le parti sono vincolate al trattato posteriore; se solo alcune parti sono parti del trattato posteriore, allora il trattato emendato si applica tra gli stati che hanno

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ratificato mentre per le altre parti continua a vigere il trattato anteriore. Poiché però effettivamente il principio secondo cui il trattato può essere modificato solo con il consenso di tutte le parti è troppo rigido alcuni trattati prevedono una procedura di emendamento erga omnes (es. la Carta delle Nazioni Unite prevede che l’emendamento entri in vigore dopo che sia stato adottato a maggioranza dei 2/3 dei membri dell’Assemblea Generale, ed essere stato ratificato da parte dei 2/3 degli stati membri, inclusi i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza; al contrario, i trattati modificativi del trattato istitutivo dell’UE devono essere ratificati da tutti i membri). 10 - Soluzione delle controversie in materia di invalidità ed estinzione dei trattati La Convenzione di Vienna del 1969 ha innovato profondamente il diritto internazionale consuetudinario, dettando una procedura in materia di invalidità ed estinzione dei trattati che tenta di porre fine all’unilateralismo esistente al riguardo secondo il diritto consuetudinario. La procedura è disciplinata dagli art.65 e 66 della Convenzione, secondo cui una parte non può unilateralmente sciogliersi dal vincolo contrattuale, ma prima di adottare una declaratoria d’invalidità o di estinzione (o recesso), deve modificare la propria intenzione all’altra parte, precisando la misura che intende prendere, ed i motivi che ne sono alla base; l’altra parte ha poi tre mesi di tempo per obbiettare.

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L’adattamento del diritto interno al diritto internazionale 1 - I rapporti tra ordinamenti giuridici e la teoria del rinvio. L’ordinamento interno da quello internazionale sono due ordinamenti distinti ed originari. Essi comunicano attraverso un particolare meccanismo chiamato “rinvio”, da distinguere in forma formale e materiale. Il rinvio formale è quel meccanismo attraverso il quale una disposizione dell’ordinamento statale richiama non uno specifico atto di un altro ordinamento, ma una fonte di esso. Per tale motivo, con il rinvio formale l’ordinamento statale si adegua automaticamente a tutte le modifiche che nell’altro ordinamento si producono nella normativa posta dalla fonte richiamata (es. tipici esempi di rinvio formale sono le disposizioni di diritto internazionale privato ed il richiamo alle norme consuetudinarie internazionali contento nell’art. 10.1 della costituzione). Il rinvio formale può essere ricettizio o non ricettizio: nel primo caso la norma dell’ordinamento richiamato viene immessa nell’ordinamento richiamante; nel secondo caso, la norma dell’ordinamento richiamato costituisce solo il presupposto per l’applicazione di norme dell’ordinamento richiamante. Il rinvio materiale è invece quel meccanismo per cui si recepisce solo uno specifico e singolo atto, ordinando ai soggetti dell’applicazione del diritto (i giudici e l’amministrazione pubblica) di applicare le norme ricavabili da questo atto come norme interne. Ogni ordinamento giuridico si atteggia autonomamente in modo da adeguare all’adattamento del diritto interno al diritto internazionale. Nel nostro ordinamento distingueremo: l’adattamento al diritto internazionale consuetudinario: il procedimento di adattamento è stabilito dall’art 10.1 Cost.; adattamento al diritto internazionale pattizio: in questo caso manca sia una disciplina a livello costituzionale sia a livello di legge ordinaria. 2 - L’adattamento al diritto internazionale consuetudinario e allo ius cogens Tale adattamento è disciplinato dall’art. 10.1 della Costituzione. La disposizione costituzionale opera un rinvio formale all’ordinamento internazionale, da cui ne deriva che qualsiasi variazione normativa che si produce in quell’ordinamento si realizza anche nell’ordinamento interno. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 48 del 1979, ha fatto una distinzione tra norme consuetudinarie anteriori alla data di entrata in vigore della Costituzione, le quali sarebbero recepite nel nostro ordinamento senza alcun limite; e norme consuetudinarie posteriori che non potrebbero essere recepite laddove contrastassero con in principi fondamentali della Costituzione. Secondo la Corte la disposizione dell’art. 10 non può assolutamente “permettere la violazione dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale”; dunque, deducibilmente, laddove una norma di diritto internazionale consuetudinario contrastasse con tali principi fondamentali, non sarebbe immessa nel nostro ordinamento. Per quanto concerne il contrasto tra norme costituzionali che non contengono principi fondamentali e norme consuetudinarie, si tratta di un contrasto più apparente che reale da risolvere in base al principio di specialità, dunque le norme consuetudinarie dovrebbero prevalere su quelle costituzionali a titolo di lex specialis. L’art. 10.1 Cost. fa riferimento alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute. Tale denominazione pone in rilievo due problematiche, e cioè: bisogna determinare se l’adeguamento sia operante nei confronti di una norma consuetudinaria oggetto di obiezione persistente; se si parte dal presupposto che la norma di diritto consuetudinario obbliga anche l’obbiettore permanente, si ammetterebbe che l’adeguamento sia operante; bisogna esaminare se una consuetudine regionale possa essere immessa nel nostro ordinamento tramite l’art. 10.1 Cost.; la risposta è SI, l’importante che la consuetudine regionale vincoli l’Italia. La dottrina prevalente attribuisce alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute (immesse nel nostro ordinamento attraverso l’art. 10.1 Cost.) il rango di norme costituzionali. Dunque questo determina che se una norma di una legge interna dovesse essere in contrasto

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con una norma consuetudinaria, può essere oggetto di giudizio di costituzionalità e abrogata dalla Corte costituzionale. Le norme imperative appartengono alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciuto. L’art. 10.1 ne dispone l’adattamento dell’ordinamento a tali norme del diritto internazionale generalmente riconosciuto. La norma imperativa lo è a 360° nel momento in cui è accettata e riconosciuta, dalla comunità internazionale, come norma che non può essere derogata; questo proprio perché gli Stati che la accettano debbono riconoscerne la sua “universale obbligatorietà”. Sul piano della responsabilità internazionale, la norma imperativa è sempre qualificata come norma di diritto internazionale generale, dunque le norme imperative, equiparate alle norme di diritto consuetudinario (derogabili) sono immesse nel nostro ordinamento sempre grazie all’art. 10.1. Con la sentenza del 29 dicembre del 1988 la Corte Costituzionale ha stabilito una gerarchia tra i principi supremi e le norme costituzionali. Secondo la Corte Costituzionale tali principi avrebbero una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale. Dunque il tutto porta a ritenere che le norme imperative immesse nel nostro ordinamento siano da inserire nella categoria dei principi supremi della Costituzione, con una differenza: mentre i principi supremi della Costituzione non possono essere modificati neppure da una legge di revisione costituzionale, i principi supremi prodotti da una norma imperativa sarebbero modificabili da una norma imperativa posteriore. Dunque una modifica operata nell’ordinamento internazionale lo produrrebbe automaticamente anche nell’ordinamento interno. I principi supremi di origine internazionale nell’ordinamento interno non potrebbero essere modificati da una legge di revisione costituzionale, ma solamente da una norma di diritto internazionale avente natura imperativa. Non essendoci alcuna tesi pronunciata dalla Corte Costituzionale, ne vengono fatte due: le norme imperative hanno un rango superiore a quello di tutte le altre norme internazionali; dunque non possono occupare la stessa posizione delle altre norme nell’ordinamento interno; l’equiparazione delle norme imperative ai principi supremi immodificabili impedisce che attraverso un procedimento di revisione costituzionale si possa violare un principio dello ius cogens, esponendo lo Stato italiano a illeciti gravi e provocando una rottura con la vocazione internazionalistica dell’ordinamento (garantita dall’art. 10.1) da collocare tra i principi supremi non suscettibili di revisione costituzionale. A partire dal caso Ferrini, la nostra giurisprudenza ha iniziato a fare applicazioni della teoria delle norme cogenti per concludere il contrasto tra queste norme e quelle consuetudinarie. Si trattava di stabilire se lo stato estero dovesse rispondere civilmente alle conseguenze della violazione di una norma cogente a causa della commissione di crimini internazionali da parte dei suoi organi belligeranti o non dovesse invece essere applicato il principio di immunità degli stati esteri della giurisdizione. Secondo la cassazione, in caso di coesistenza dei due principi, occorre far ricorso al criterio del bilanciamento degli interessi e il contrasto deve essere risolto sul piano sistematico. Questo indirizzo è stato riconfermato dalla sentenza della cassazione sulla strage di Civitella durante la Seconda Guerra Mondiale. 3 - L’adattamento al diritto internazionale pattizio Un trattato, una volta ratificato ed entrato in vigore, obbliga lo stato nell’ordinamento internazionale. Per produrre effetti nel nostro ordinamento, il trattato deve essere recepito nell’ordinamento interno. Non esiste nessuna disposizione costituzionale che provveda all’adattamento del diritto italiano al diritto internazionale pattizio. Infatti, l’art.10, comma 1 della Costituzione, dispone solo l’adattamento dell’ordinamento interno al diritto consuetudinario. Un trattato di cui non sia stato disposto l’adattamento non produce effetti nel nostro ordinamento giuridico. Nella prassi italiana, esistono due modi per disporre l’adattamento: procedimento speciale: piena ed intere esecuzione al trattato nell’ordinamento interno attraverso un atto normativo , cioè l’ordine di esecuzione (Rinvio formale); Procedimento ordinario: (Rinvio materiale) si riformulano le norme del trattato. Nel nostro ordinamento si preferisce far ricorso all’ordine di

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esecuzione, ma questo strumento è inoperante nei confronti delle norme del trattato non self-executing, cioè di quelle norme non complete nel loro contenuto (es. la corte di cassazione non ha applicato la convenzione OIL n.146 sulle ferie annuali della gente di mare). Per ovviare a questa difficoltà si è andata affermando la prassi di adottare un procedimento misto, cioè l’ordine di esecuzione è accompagnato dalla riformulazione nell’ordinamento interno di quelle norme non self-executing (es. la convenzione sul disarmo chimico del 1993; per l’ordine di esecuzione del Trattato tra Libia e Italia, di amicizia, partenariato e cooperazione del 30 Agosto 2008, dove il provvedimento legislativo, oltre a contenere l’ordine di esecuzione e la copertura finanziaria per gli impegni assunti, dispone un indennizzo per gli italiana che furono soggetti ad espropri negli anni ’70). L’ordine di esecuzione può essere contenuto in una legge o in un atto regolamentare, da adottare con decreto. La scelta dipende dalla produzione giuridica dei vari atti e individuando l’atto che sarebbe necessario, qualora si dovesse procedere all’adattamento in via ordinaria. L’art.11 della Costituzione, contiene una norma permissiva che consente di disporre l’adattamento con legge ordinaria ai trattati contemplati nella disposizione, nonostante essi incidano su materie disciplinate da norme costituzionali (es. Trattato istitutivo delle nazioni unite). Le norme internazionali introdotte tramite ordine di esecuzione sono soggette al sindacato di costituzionalità. In caso di contrasto, viene dichiarata incostituzionale la legge di esecuzione nella parte in cui immette nel nostro ordinamento norme contrarie alla costituzione. Sono emendabili gli atti con cui, nel nostro ordinamento, viene dato rilievo al trattato internazionale? Il disegno di legge di autorizzazione alla ratifica è inemendabile, nel suo contenuto sostanziale; l’ordine di esecuzione è contenuto in un atto che è legge in senso formale e in senso materiale e quindi il relativo disegno di legge è emendabile. Tale tesi può essere accettata, però, solo se l’emendamento non produca una sfasatura dell’entrata in vigore del trattato sul piano internazionale e sul piano interno o non abbia lo scopo di modificare il contenuto del trattato. Nel procedimento mediante ordine di esecuzione si finisce quasi sempre per derogare il normale termine di vacatio legis di 15 giorni, disposto dall’art.10 delle pre-leggi. Se l’adattamento è avvenuto con un procedimento misto, anche la vacatio legis sarà mista, quindi le norme di esecuzione entreranno in vigore insieme al trattato, mentre le disposizioni dettate col procedimento ordinario secondo quanto disposto dall’art.10 delle preleggi. Infine, occorre osservare, che nel nostro ordinamento, l’adattamento avviene in contemporanea o in successiva alla legge di autorizzazione alla ratifica del trattato, mentre nei paesi di common law di adotta prima la legge di esecuzione per poi procedere alla ratifica del trattato e si è dedotto che se anche il nostro ordinamento seguisse questa procedura si eviterebbero o ridurrebbero le problematiche relative alle norme non self-executing. 4 - Rango delle norme di adattamento al diritto pattizio Le norme interne immesse mediante l’ordine di esecuzione hanno nell’ordinamento nazionale il valore conferito loro dalla forza dell’atto che ne dà esecuzione; esse inoltre, hanno una particolare resistenza all’abrogazione o modificazione a causa di una legge successiva incompatibile, poiché secondo la Corte Costituzionale, si tratterebbe di una fonte riconducibile ad una competenza atipica. La materia è stata recentemente disciplinata dall’Art.117 sulle competenze stato-regioni, secondo cui vige il principio di superiorità del trattato sulla legge ordinaria, con la conseguenza che una legge contraria ad esso può essere annullata dalla Corte Costituzionale. I limiti derivanti alla potestà dello stato al fine di rispettare gli obblighi internazionali non impediscono che possa essere sollevato giudizio di costituzionalità per il contrasto dell’ordine di esecuzione con le norme costituzionali. La Costituzione, all’art.10, dispone la superiorità di una particolare categoria di trattati, quelli che disciplinano lo status degli stranieri; per cui, una legge non conforme alle norme dei trattati internazionali, sarebbe dichiarata incostituzionale, ma la stessa copertura costituzionale, non è assegnata ai trattati in materia di diritti umani.

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5 - L’adattamento alle fonti previste da accordo Il problema che si pone è se le norme prodotte da una fonte giuridica di terzo grado entrino automaticamente nel nostro ordinamento o se sia necessario un provvedimento ad hoc. Per risolvere tale problema bisogna distinguere tra due casi: qualora il trattato preveda espressamente l’efficacia interna delle norme prodotte, tali norme entreranno automaticamente in vigore nell’ordinamento interno; qualora invece il trattato nulla disponga, la diretta applicabilità potrebbe essere desunta dall’ordine di esecuzione del trattato. L’ordine di esecuzione dovrebbe immettere anche le norme prodotte in virtù dei meccanismi creati dal trattato, ma la prassi è contraria, in primo luogo perché spesso la fonte di terzo grado non contiene norme self-executing e in secondo luogo perché esiste una diffidenza ad accogliere fonti di un altro ordinamento senza un controllo. Questo vale in particolare per le decisioni dell’art.41 del Consiglio di sicurezza e tali decisioni se incidono su materie di competenza comunitaria, vengono di norma attuate mediante regolamenti CE. Per quanto riguarda gli allegati tecnici alla convenzione ICAO, l’art.690 del codice della navigazione stabilisce che questi debbano essere recepiti in via amministrativa. Quanto osservato, vale anche per le sentenze internazionali che debbano trovare attuazione nell’ordinamento interno. La sentenza internazionale non ha efficacia diretta nel nostro ordinamento ed anche le sentenza della corte europea dei diritti dell’uomo, tranne nel caso degli obblighi internazionali. 6 - Adattamento al diritto comunitario Il diritto comunitario comprende sia il diritto derivante dai trattati istitutivi (CECA, ora estinta, CE, Euratom) sia il diritto prodotto dai meccanismi istituti dai trattati (Regolamenti, direttive, decisioni). Con le modifiche apportate al trattato UE, sono state introdotte: decisioni quadro e decisioni del terzo pilastro, cioè cooperazione di polizia e giustizia in materia penale. Per quanto riguarda la legislazione comunitaria derivata, occorre distinguere tra: Regolamento, direttamente applicabile; Direttive, pongono un obbligo di risultato e quindi è necessario un adattamento perché acquistino efficacia; Direttive ad effetti diretti, acquistano efficacia nel nostro ordinamento da un atto di adeguamento; Direttive non aventi efficacia diretta, possono produrre effetti limitati nel nostro ordinamento; Decisioni rivolte allo stato, occorre un atto di adeguamento, ma possono avere efficacia diretta nei confronti dei singoli; Decisioni rivolte ai singoli, non è necessario un atto di adeguamento. Le decisioni quadro e le decisioni del III pilastro, non possono avere effetti diretti e quindi è sempre necessario un adeguamento. La produzione ingente di fonti di terzo grado nell’ordinamento comunitario, ha comportato problemi per l’adeguamento all’ordinamento interno e l’Italia è stata spesso condannata per la mancata trascrizione delle direttive nei termini prescritti. Per ovviare a tale inconveniente, fu adottato un meccanismo per facilitare l’adattamento: la legge n.86 del 9 marzo del 1989, denominata “Legge La Pergola”. Questa legge è stata abrogata nel febbraio 2005, e sostituita con la “Legge Buttiglione”, che disciplina sia la partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’UE, sia le procedure di esecuzione degli obblighi comunitari. I contenuti della nuova legge riguardano anche gli atti del III pilastro e consente di adottare provvedimenti di urgenza, per il resto la legge nuova lascia inalterato l’impianto della legge precedente. Per quanto riguarda l’evoluzione della corte costituzionale italiana, dopo aver ribadito che il diritto comunitario direttamente applicabile prevale sul diritto interno anche se posteriore, ha definitivamente statuito con la sentenza n.70 del 1984, che il giudice ordinario è tenuto a disapplicare la norma interna successiva, incompatibile con il diritto comunitario senza necessità di sollevare il controllo di costituzionalità come invece era tenuto a fare precedentemente. La prevalenza del diritto comunitario è dunque ormai riconosciuta sia al diritto comunitario direttamente applicabile (es. regolamenti), sia a quello avente efficacia diretta. Naturalmente, l’eccezione di costituzionalità può sempre essere sollevata, qualora

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il contrasto tra ordinamento interno ed ordinamento comunitario abbia per oggetto una norma comunitaria non direttamente applicabile o non produttiva di effetti diretti. 7 - Le regioni e l’adattamento al diritto pattizio e comunitario Può accadere che un trattato o un atto comunitario giuridicamente vincolante incidano su materie di competenza regionale e in questo caso bisogna sapere se l’adattamento possa essere operato a livello regionale oppure se sia di competenza esclusiva dello stato. L’art.117 comma 5 della Costituzione, dispone che le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipino alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all'attuazione e all'esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell'Unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza. È bene però distinguere tra adattamento ai trattati e adattamento al diritto comunitario; per quanto riguardo i trattati, regioni e province autonome provvedono direttamente all’attuazione degli accordi internazionali ratificati, dandone preventiva comunicazione al ministero degli affari esteri ed alla presidenza del consiglio dei ministri. Sembrerebbe che le regioni e le province autonome siano legittimate a dare attuazione all’accordo internazionale, senza attendere un atto di adeguamento da parte per del governo centrale. Naturalmente deve trattarsi di accordi internazionali in vigore per lo stato italiano, ed il potere di adeguamento a livello regionale riguarda sia gli accordi conclusi in forma solenne, sia quelli in forma semplificata, che abbiano per oggetto materie di competenza regionale. L’ordine di esecuzione è contenuto nella legge di autorizzazione alla ratifica, la possibilità per le regioni e province autonome di provvedere direttamente all’adeguamento si realizza solo per gli accordi non rientranti nell’art.80 Cost. Le regioni potranno sempre formulare leggi di attuazione in materie di loro competenza, specialmente per le norme non self-executing. L’art.6 comma 3 della legge 131, disciplina dettagliatamente le procedure di conclusione degli accordi, ma non dispone nulla sulla loro attuazione. Qualora l’ente regionale non provveda all’attuazione, sarà lo stato a provvedere .La legge n.11 del 4 febbraio 2005 aveva attribuito alle regioni e province autonome, il potere di dare immediata attuazione alle direttive comunitarie aventi ad oggetto materie di competenza regionale. Sempre questa legge stabilisce che stato, regioni e province autonome, nelle materie di loro competenza, danno tempestiva attuazione alle direttive comunitarie. L’art. 117 comma 5 Cost. , conferisce un ancoraggio costituzionale ad una materia già disciplinata dal legislatore, dando una dizione molto più ampia della legge Buttiglione, poiché legittima regioni e province autonome a dare direttamente attuazione agli atti dell’UE nelle materie di loro competenza. I poteri sostitutivi dello stato sono definiti dall’art.120 comma 2 Cost., mentre la procedura per i poteri sostitutivi è regolata dall’art.8 della l. 131. 8 - Il sindacato giurisdizionale da parte del giudice interno sui trattati e sugli atti delle organizzazioni internazionali Può il giudice interno sindacare la vigenza degli atti internazionali, siano essi trattati o atti di organizzazioni internazionali? Riguardo agli atti contenenti norme in contrasto con la Costituzione italiana la risposta è già stata data dei precedenti paragrafi; riguardo ai trattati invece, una risoluzione dell’Istituto di diritto internazionale del 1993, sull’attività dei giudici nazionali e le relazioni internazionali dei loro stati, afferma che il giudice nazionale non dovrebbe applicare un trattato che esso consideri invalido o estinto. Possono essere fatte varie ipotesi, distinguendo tra invalidità ed estinzione dei trattati:

Il trattato è affetto da invalidità relativa, cioè da un vizio sanabile, riconducibile agli art.46-50 della Convenzione di Vienna del 1969: poiché l’acquiescenza fa perdere il diritto di invocare la causa

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d’invalidità, la non contestazione del trattato rientra tra le scelte di politica estera dell’esecutivo, che non possono essere vanificate dal giudice

Al contrario, il giudice potrebbe dichiarare invalido il trattato, incidente tantum, se ricorra una causa d’invalidità assoluta, come definito dagli art.52-53 della Convenzione di Vienna

Quanto agli atti delle organizzazioni internazionali, in un sistema come quello comunitario, in cui spetta al giudice comunitario deliberare sulla validità dell’atto, pare che il giudice nazionale non possa sindacare alcun atto.

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La soluzione delle controversie internazionali e l’accertamento del diritto Occorre distinguere tra accertamento del diritto internazionale e soluzione delle controversie internazionali, cioè le controversie che sorgono tra stati, o in genere tra soggetti di diritto internazionale. Da un lato infatti, la soluzione di una controversia internazionale non si traduce necessariamente in un atto di accertamento del diritto, potendosi tradurre nella creazione di un nuovo diritto nei rapporti tra le parti. 1 – Nozione di controversia internazionale Ha luogo una controversia internazionale quando la pretesa di uno stato viene contestata da un altro (es. quando uno stato pretenda di avere la sovranità su una porzione di territorio confinante con un altro stato invocando un trattato di cessione, l’altro risponde con la nullità del trattato di cessione) oppure quando vi è una protesta di uno stato che ritenga che un atto di un altro stato leda un suo interesse (es. uno stato fissa la linea di base per la definizione del mare territoriale utilizzando il sistema della linea retta, un altro stato ritiene leso un suo interesse asserendo che la definizione cosi compiuta non è conforme alla convenzione sul diritto del mare) . Pertanto potremmo dire che gli elementi costitutivi di una controversia possono essere: una pretesa e la contestazione della pretesa, e la protesta di fronte alla lesione di un interesse La giurisprudenza internazionale si è spesso soffermata sulla nozione di controversia internazionale, visto che la stessa è una conditio sine qua non per l’esercizio della giurisdizione da parte di una corte internazionale. Nel caso Mavrommatis del 1924, la Corte Permanente di giustizia internazionale ha affermato: “la controversia internazionale è un disaccordo su una questione di fatto o di diritto o un contrasto di opinioni o di interessi tra due soggetti”. Anche la Corte Internazionale di giustizia si occupata di definire, in particolare nel parere consultivo sull’interpretazione del Trattato di pace con Bulgaria, Romania e Ungheria nel quale la controversia viene definita: “situazione in cui i punti di vista delle due parti, relativamente all’esecuzione o alla non esecuzione di certi obblighi derivanti da un trattato sono nettamente opposti”. Inoltre la dottrina distingueva tra controversie giuridiche e controversie politiche. Le controversie giuridiche caratterizzate dal fatto che le parti invocano il diritto internazionale a sostegno delle proprie posizioni; al contrario le controversie politiche caratterizzate dal fatto che le parti invocano argomenti politici o comunque non giuridici a loro sostegno. Sotto il profilo pratico la distinzione avrebbe dovuto avere come conseguenza che solo le prime erano suscettibili di essere risolte mediante un procedimento giudiziale o arbitrale, mentre le seconde mediante mezzi politici. Questa distinzione venne formulata dalla dottrina classica, ma venne accolta anche nella Carta delle Nazioni Unite e nello Statuto della Corte Internazionale di giustizia. La Carta dell’ONU fa riferimento ad essa all’art.36 par.3 stabilendo che le controversie internazionali “giuridiche” dovrebbero essere deferite dalle parti alla Corte Internazionale di giustizia, mentre lo Statuto fa riferimento alla distinzione all’art.36 par.2 prevedendo un meccanismo di accettazione unilaterale della competenza della Corte in riferimento alle “controversie giuridiche”. Ma entrambe queste carte appartengono agli anni ’40, oggi questa distinzione è superata, si ritiene che ogni controversia abbia una rilevanza politica più o meno grande, ma ciò non esclude che essa possa risolversi con il diritto, del resto la Corte non si è mai rifiutata di risolvere una controversia perché politica ed anzi, nella sentenza Nicaragua-Stati Uniti la Corte ha rigettato la pretesa degli Usa secondo cui la controversia non sarebbe stata giustiziabile perché di natura politica. 2 – La natura consuetudinaria dell’obbligo di risolvere pacificamente le controversie internazionali Secondo la dottrina tradizionale, esistono due metodi per risolvere le controversie internazionali; esse possono essere risolte con mezzi pacifici, e con mezzi non pacifici comportanti la minaccia e l’uso della

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forza armata (es. intervento, blocco pacifico e la guerra). Il diritto internazionale contemporaneo ha definitivamente ripudiato i mezzi non pacifici di soluzione delle controversie stabilendo con la Carta delle Nazioni Unite l’obbligo di risolvere in modo pacifico le controversie internazionali. Questo è l’art.2 par.3 che va letto insieme con l’art.2 par.4, che pone il divieto dell’uso della forza e della minaccia nelle controversie internazionali, mentre i mezzi di risoluzione pacifica delle controversie sono indicati all’art.33 della Carta. Quest’obbligo di risolvere in modo pacifico le controversie è ormai divenuto oggetto di una norma consuetudinaria ed è stato ribadito in molti patti che organizzano la legittima difesa collettiva come quello istitutivo della Nato, inoltre è stato dettagliato nella Dichiarazione di Manila sulla risoluzione pacifica delle controversie internazionali. E’ nella sentenza del caso Nicaragua-Stati Uniti che la Corte internazionale afferma che si tratta di una norma consuetudinaria, naturalmente esiste un obbligo di risolvere pacificamente la controversia, non un obbligo di risolverla almeno fino a che non metta in pericolo la pace e la sicurezza internazionale. 3 - Singoli metodi di risoluzione delle controversie internazionali Gli articoli della Carta delle Nazioni Unite che vanno dal 33 al 38 si occupano di elencare i mezzi pacifici cui gli stati parti devono ricorrere in caso di controversia: negoziati, inchiesta, mediazione, conciliazione, arbitrato, regolamento giudiziale, ricorso ad organizzazioni o accordi regionali. Non vengono menzionati i buoni uffici, metodi che possono essere distinti in: mezzi diplomatici, che facilitano il raggiungimento di un accordo tra le parti, essi sono: negoziati, inchiesta, mediazione, conciliazione e buoni uffici; e mezzi obbligatori, i quali portano all’emanazione di un atto che è obbligatorio tra le parti, essi sono: l’arbitrato che porta all’emanazione di un lodo arbitrale e il regolamento giudiziale che porta all’emanazione di una sentenza. Tutti i mezzi comportano l’intervento di un terzo ad esclusione dei negoziati.

Negoziati: Consistono in semplici colloqui tra le delegazioni degli stati parti delle controversia. La soluzione cui si addiviene è sempre di compromesso, esso non costituisce una forma di accertamento del diritto, ma è fonte di nuovo diritto. Gli stati possono essere anche contemporaneamente parte di un altro mezzo più sofisticato come l’arbitrato.

Buoni uffici: Qui un terzo cerca di indurre le parti a negoziare. Il terzo può essere sia un organo di un organizzazione internazionale, sia una figura di vertice a livello statale.

Mediazione: Qui il terzo svolge un ruolo più attivo rispetto ai buoni uffici, cerca anche di avvicinare le posizioni delle parti, spesso formula una proposta di soluzione che ha natura confidenziale. Anche qui il terzo può essere una figura di vertice o un organo di un organizzazione internazionale. Come esempio viene citata la mediazione del Papa Giovanni Paolo II tra Cile ed Argentina per la sovranità sul canale di Beagle all’estremo sud, questa portò alla conclusione di un accordo internazionale, un trattato di pace e all’amicizia tra Cile ed Argentina.

Inchiesta (fact finding): Le parti affidano ad un terzo (in questo caso una commissione di individui esperti) l’accertamento imparziale dei fatti all’origine della controversia sul presupposto che ciò può aiutare le parti a risolverla. La commissione redigerà un rapporto che non è obbligatorio, ma può accadere che le parti si impegnino a non metterlo in discussione.

Conciliazione: Le parti affidano ad un terzo, anche in questo caso una commissione di individui esperti, il compito di proporre una soluzione di una controversia. Il rapporto conterrà una serie di raccomandazioni per la soluzione che non sono mai vincolanti per le parti. Può essere che la conciliazione si obbligatoria. In questi caso significa che il ricorso alla conciliazione sia obbligatorio perché gli stati parti della controversia si sono obbligati mediante trattato a ricorrere a tale strumento per risolvere le controversie tra loro. quindi poiché c’è un consenso precedente la parte può mettere unilateralmente in moto la procedura conciliativa (es. l’art.66 lett.(b) della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati prevede la conciliazione obbligatoria tra gli stati parti per le controversie che riguardano l’applicazione e l’interpretazione della parte 5 cioè invalidità-estinzione-sospensione dei

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trattati, ad esclusione delle controversie riguardanti gli articoli 64 e 53, che riguardano: l’art.64 lo ius cogens super veniens e l’art.53 le norme cogenti. Il ricorso ad una commissione di conciliazione avviene attraverso una domanda al segretario dell’ONU.

Arbitrato: Gli stati deferiscono ad un arbitro unico o ad un collegio arbitrale che è reso capace di emanare un lodo arbitrale vincolante quando: si sono preventivamente obbligate ad attenersi (compromesso); hanno stabilito di deferire la soluzione delle eventuali controversie che possono sorgere tra loro in futuro mediante trattato arbitrale possono deferire la soluzione delle controversie relative ad un determinato trattato tramite una clausola compromissoria all’interno del trattato stesso. Nell’arbitrato gli stati parti della controversia deferiscono la soluzione ad un terzo scelto da loro stesse, inoltre solo loro stesse che scelgono di procedura cui l’arbitro si deve attenere, oppure a volte sono scelte dal tribunale arbitrale quindi indirettamente dalle parti.

Giurisdizione: Le parti si obbligano a rispettare la soluzione della controversia individuata dall’organo giurisdizionale, ma nella giurisdizione il terzo non è scelto dalle parti, ma è un organo precostituito (Corte Internazionale di Giustizia). Esso Risolverà la controversia scegliendo regole di procedura prestabilite non scelte dalle parti. Se non c’è Compromesso/ Clausola compromissoria/ Trattato, potrebbe operare la forum prorogatum. Nel caso di controversia tra 2 stati del quale non esiste un trattato della quale emerge la volontà di sottoporsi alla giurisdizione della corte, la sua competenza non sarebbe ammessa, ma se lo stato x senza una dichiarazione espressa di accettazione di competenza della corte, manifesta la volontà di adire lo stato y (cioè ricorre comunque) e questo si compone in giudizio, presenta memorie quindi accetta con il comportamento, allora la competenza è radicata.

4 – Combinazione tra i vari metodi di soluzione delle controversie internazionali Talvolta le parti per risolvere una controversia si avvalgono di 2 o più mezzi di soluzione, sia in successione, sia contemporaneamente. Celebre è la controversia tra Senegal e Guinea-Bissau relativa alla definizione del confine marittimo, essi per cercare di addivenire ad una soluzione ricorrono ad un arbitrato, viene emesso un lodo nel 1989, ma la GB contesta la delimitazione della frontiera marittima cosi fatta e attesta la nullità del lodo stesso. Nel 1991 si rivolge alla corte internazionale di giustizia che riconosce la validità del lodo, ma ritiene che questo abbia estinto la competenza e si ritiene competente a farlo, nel frattempo Senegal e Guinea-Bissau avviano i negoziati che portano alla conclusione di un accordo entrano in vigore nel 1995, pertanto la controversia è estinta. 5 – La corte permanente di arbitrato La Corte permanente di arbitrato (CPA) è stata istituita in virtù della convenzione dell’Aja del 1899, ed ha sede all’Aja, ha di permanente un esile struttura istituzionale: un ufficio internazionale di cancelleria, un consiglio di amministrazione permanente composto dagli agenti diplomatici degli stati parti della convenzione, un elenco di arbitri designati dagli stati parti della convenzione dell’Aja, un elenco di regole di procedura. Ha avuto un ruolo significativo prima dell’istituzione della corte permanente di giustizia internazionale. 6 – Corte internazionale di giustizia La Corte internazionale di giustizia (CIG)a sede all’Aja, opera in base ad uno statuto annesso alla Carta delle Nazioni Unite; essa si compone di 15 giudici che durano in carica 9 anni, sono rinnovabili, ogni 5 anni c’è un rinnovo parziale per evitare che essi decadano tutti in una volta. Il numero dei giudici può aumentare,

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infatti se durante una controversia tra i giudici c’è un giudice di nazionalità di uno degli stati parti, ma non dell’altro, allora questo può nominare un giudice ad hoc, se manca ad entrambi possono nominarne uno ciascuno. I giudici sono eletti dall’assemblea generale e dal consiglio di sicurezza delle nazioni unite sulla base di una lista di persone designate dai gruppi nazionali della CPA. Sia lo statuto che il regolamento di procedura non sono derogabili dalle parti, solo gli stati possono essere parti della procedura contenziosa davanti alla Corte, e poiché la giurisdizione ha base consensuale le parti debbono accettare la competenza della corte mediante una propria manifestazione di volontà, essa può essere contenuta: in un compromesso, in una clausola compromissoria inserita in un trattato; la clausola compromissoria preesiste all’insorgere della controversia, il compromesso viene stipulato dopo che la controversia sia sorta. Quando il consenso preesiste all’insorgere della controversia, ciascuna parte, dopo che la controversia è sorta, può rivolgersi alla corte mediante un ricorso unilaterale, in pratica lo stato parte di una controversia può adire la corte internazionale di giustizia se ha depositato la propria dichiarazione unilaterale di accettazione della giurisdizione della corte e se una dichiarazione unilaterale coincidente è stata depositata anche dall’altro stato parte della medesima controversia. Il consenso all’accettazione della competenza della corte può avvenire anche successivamente all’insorgere della controversia e può essere rilevato dal comportamento processuale della parte, ovviamente la condotta dello stato deve essere tale da dimostrare la sua inequivocabile volontà di accettare la giurisdizione. La corte di giustizia è competente a risolvere le controversie tra 2 o più stati: che siano membri delle nazioni unite, tra stati non membri ma parti dello statuto della corte internazionale di giustizia, tra stati non membri e non parti, su condizioni del consiglio di sicurezza la corte giudica in base a diritto, ma ha anche la facoltà di giudicare ex equo et bono, se le parti lo decidano. Le sentenze sono prese a maggioranza dei giudici presenti, a parità di voti quello che decide è il voto del presidente, esse sono definitive ed hanno efficacia di cosa giudicata in senso oggettivo e soggettivo. Esistono due mezzi di gravame diversi dall’appello consistenti nell’interpretazione e revisione della sentenza: in caso di contestazione sul significato e la portata della sentenza, può essere promosso su istanza delle parti, nel caso in cui i alleghi la scoperta di un fatto di natura tale da costituire un evento decisivo per la revisione. Essa deve essere richiesta entro 6 mesi dalla scoperta del fatto nuovo e la domanda non può essere più presentata trascorsi 10 anni dalla data di emanazione della sentenza. Oltre ad una competenza contenziosa, la corte ne ha una consultiva. Ad essa può essere richiesto un parere consultivo su qualsiasi questione giuridica dall’ Assemblea generale e dal Consiglio di sicurezza. Anche gli altri organi delle Nazioni Unite e le istituzioni specializzate possono chiedere un parere consultivo, ma solo su questioni che insorgano nell’ambito della loro attività e purché siano autorizzati dall’assemblea generale. A differenza della sentenza che è obbligatoria, il parere della corte è per definizione non vincolante, gli stati una volta instaurata la procedura sono legittimati a partecipare al procedimento mediante la presentazione di memorie scritte e orali. Tuttavia mediante trattato le parti possono considerare come obbligatorio il parere della corte. 7 – L’esecuzione delle sentenze internazionali Nella comunità internazionale, manca come si è visto, un organo accentrato che possa assicurare la realizzazione coercitiva del diritto. Tale considerazione vale anche per le sentenze della Corte internazionale di giustizia, ne caso di inadempimento della parte soccombente. L’art.4 par.2 della Carta delle Nazioni Unite, esclude che di possa ricorrere alla forza armata per costringere lo stato soccombente ad adempiere, ma è ammissibile l’esercizio di una contromisura che non comporti l’uso della forza armata per costringere lo stato soccombente ad adempiere, ma è ammissibile l’esercizio di contromisure non comprendenti l’uso della forza. La Carta detta un particolare meccanismo, all’art.94, che tuttavia non è paragonabile alla procedura dell’ “esecuzione forzata” degli ordinamenti interni. In caso di inadempimento di una sentenza da parte della parte soccombente, l’altro stato può ricorrere al Consiglio di sicurezza

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affinchè prenda misure adeguate al caso, adottando un atto giuridicamente vincolante, o un atto meramente esortativo. Naturalmente, lo stato vittorioso potrebbe porre in essere una contromisura non violenta come un embargo sulle esportazioni (es. nella sentenza “ostaggi detenuti a Teheran” del 1980, la CIG ordinò l’immediato rilascio del personale diplomatico e consolare statunitense, l’Iran rifiutò l’adempimento della sentenza, che fu ottenuta solo grazie ai buoni uffici dell’Algeria con gli Accordi di Algeri del 1981; nella sentenza “Nicaragua-Stati Uniti” del 1986, la CIG sentenziò l’obbligo di riparazioni per gli Stati Uniti, i quali opposero il veto, recependo come invalida la sentenza, e neanche la successiva risoluzione dell’Assemblea generale poté disporre misure coercitive. 8 - Corte internazionale di giustizia e Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite Il problema dei rapporti tra Corte internazionale di giustizia e Consiglio di sicurezza può essere discusso secondo due aspetti: il primo riguarda la contemporanea presenza della questione davanti alla corte e al consiglio di sicurezza; il secondo la competenza della corte a pronunciarsi sulla legittimità delle risoluzioni del consiglio:

Riguardo al primo aspetto, la contemporanea presenza della questione davanti alla corte e al consiglio di sicurezza, può accadere che una controversia sia deferita alla corte e allo stesso tempo sia portata dinanzi al consiglio affinché questo prenda le misure del caso, sul presupposto che la controversia costituisca una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale o tragga origine da una situazione di cui all’art.39 della Carta ONU. La questione è stata affrontata dalla corte che ha affermato come non ci sia alcuna disposizione della carta che precluda alla corte di rendere la sentenza qualora il consiglio sia contemporaneamente investito della questione. Tra l’altro vi può essere una sfasatura temporale perché il consiglio delibera celermente, mentre i tempi della corte sono necessariamente più lunghi (es. nell’affare “Attività armate sul territorio del Congo” del 2000, la Corte si pronunciò sulle misure cautelari richieste dalla Repubblica democratica del Congo, nonostante una precedente risoluzione del Consiglio di Sicurezza avesse già intimato all’Uganda il ritiro dal territorio congolese, ribadendo quindi la risoluzione del Consiglio. La questione tra Consiglio di sicurezza e giurisdizione internazionale trova invece una soluzione nel quadro dello Statuto della Corte penale internazionale.

Riguardo al secondo aspetto, cioè la competenza della corte a pronunciarsi sulla legittimità delle risoluzioni del consiglio, la Corte non si è finora pronunciata direttamente sul punto, semplicemente la corte si rifiutò di pronunciarsi sulla questione relativa alla validità della risoluzione 713 che imponeva un embargo nei confronti di tutto il territorio della Ex-Jugoslavia affermando che essa non rientrava nell’oggetto della sua competenza. Dovendo il Consiglio rispettare il diritto internazionale, buona parte della dottrina ritiene che alla Corte, purché ne sussista competenza, non sia inibito pronunciarsi sulla validità delle relative risoluzioni.

9 - Consiglio di sicurezza e soluzione delle controversie Il Consiglio di sicurezza delle è un organo politico e non può svolgere funzioni giurisdizionali, tuttavia esso esercita delle funzioni di natura non giurisdizionale nel campo della soluzione delle controversie che gli sono assegnate dal capitolo VI della carta. Oltre a potersi attivare motu proprio, può essere attivato, da qualsiasi membro dell’ONU, dal Segretario generale, dall’Assemblea generale in caso di controversie la cui continuazione potrebbe mettere in pericolo la pace e la sicurezza internazionale. Esso ha un potere di inchiesta (indagini in merito a qualsiasi controversia), e può invitare le parti a risolvere pacificamente la controversia ricorrendo ad un metodo di cui all’art.33; qualora la controversia sia sempre pendente, può svolgere una funzione conciliativa raccomandando una soluzione concreta. 10 – La giurisdizione penale internazionale

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La repressione dei crimini internazionali, pur essendo internazionalmente prevista, è rimasta per lungo tempo affidata ai soli tribunali interni. Esempi isolati sono i Tribunali di Norimberga e di Tokyo, istituiti dopo la Seconda guerra mondiale per giudicare i crimini perpetrati dai tedeschi nei territori occupati e dai giapponesi in Estremo oriente. I tribunali penali internazionali sono una novità abbastanza recente: essi hanno giurisdizione su individui accusati di aver commesso un crimine internazionale. Sono stati istituiti, con risoluzione del Consiglio di sicurezza, due tribunali internazionali ad hoc: uno per giudicare i crimini commessi in ex-Jugoslavia a partire dal 1991, competente a giudicare le violazioni della convenzione di Ginevra del 1949, riguardo le infrazioni alle leggi e alle consuetudini di guerra, il genocidio ed i crimini contro l’umanità; l’altro per giudicare i crimini commessi in Rwanda durante il conflitto interetnico del 1994, che ha per oggetto solo crimini commessi durante la guerra civile, come il genocidio, i crimini contro l’umanità. Tanto il tribunale dell’Aja quanto quello del Rwanda dispongono di un doppio grado di giurisdizione, in quanto è possibile l’appello contro la sentenza della Camera di prima istanza. Lo Statuto della Corte penale internazionale è stato adottato invece, ancora più recentemente, nel 1998 a Roma, ed è entrato in vigore nel 2002. La Corte penale internazionale è una struttura piuttosto complessa e consiste di un corpo di 18 giudici, un procuratore (prosecutor) ed un ufficio di cancelleria. Sia i giudici che il procuratore sono eletti dall’ Assemblea degli Stati parti, in particolare, riguardo il procuratore, la possibilità che fosse eletto un esponente proveniente da un paese del Terzo mondo (o comunque troppo politicizzato) indusse gli USA ad esprimere voto contrario alla Conferenza di Roma, nel timore di infondate o pretestuose accuse nei confronti dei contingenti statunitensi impegnati nelle operazioni di peace-keeping. Secondo l’art.5 dello statuto, la Corte ha giurisdizione sui seguenti crimini: genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra, aggressione. A differenza dei tribunali per la ex-Jugoslavia ed il Rwanda, la Corte non ha giurisdizione prioritaria rispetto ai tribunali nazionali, secondo il principio di complementarietà: le nozioni di questo principio si basano sui concetti di unwilling (non intenzione) ed inability (incapacità) potenziali da parte di tribunali interni, che potrebbero ipoteticamente garantire l’impunità a coloro che abbiano commesso crimini internazionali; è facile dunque prevedere che sorgeranno conflitti fra la Corte penale internazionale che rischieranno di paralizzare un procedimento giudiziario. La corte penale internazionale non ha però giurisdizione internazionale, essa può giudicare solo quando: il crimine sia commesso da un cittadino di uno stato parte, oppure il crimine sia commesso nel territorio di uno stato parte, oppure una situazione di un crimine commesso sia deferita alla corte. Il procedimento dinnanzi alla Corte può essere messo in moto da uno Stato parte, dal Consiglio di sicurezza, o dal procuratore, cui spetta il potere di condurre le necessarie indagini. Il Consiglio di sicurezza, oltre a poter mettere in moto un procedimento, può anche bloccare o prorogare l’inizio del procedimento (anche qual ora uno dei membri permanenti non abbia ratificato lo statuto). L’internazionalizzazione della funzione giurisdizionale in materia penale ha prodotto nuove figure che si discostano da quelle fin qui esaminate (es. la risoluzione del Consiglio di sicurezza adottata nel 2000, prefigura in Sierra Leone la creazione di un tribunale speciale indipendente avente competenza in materia di crimini contro l’umanità, crimini di guerra, e gravi violazioni del diritto internazionale umanitario, il quale non è però assimilabile ad un tribunale ad hoc né alla Corte penale internazionale, poiché si tratta di una corte mista, dovuto ad un acordo stipulato tra Nazioni Unite e Sierra Leone). 11 – La Corte di giustizia delle Comunità europee L’ordinamento comunitario si avvale di un sistema di controllo giurisdizionale molto sofisticato, che assomiglia più ai sistemi giurisdizionali di diritto interno che a quelli operanti nell’ordinamento internazionale. Il sistema giurisdizionale dell’ordinamento comunitario è composto da una Corte e da un Tribunale di primo grado, con sede a Lussemburgo, cui possono essere affiancate camere specializzate per settori specifici. Le differenze strutturali tra giurisdizione comunitaria e giurisdizione internazionale sono le

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seguenti: tranne il caso in cui la Corte eserciti una competenza arbitrale e risolva una controversia che le sia stata deferita mediante compromesso tra gli stati membri del trattato CE, essa ha normalmente natura obbligatoria ed è caratterizzata da due gradi di giudizio. La Corte di compone, dopo l’allargamento dell’UE, di 27 giudici, e da un avvocatura generale. Il Tribunale e la Corte esercitano competenze in materia di: Controversie in materia d’impiego tra personale e Comunità; Legittimità degli atti comunitari che abbiano natura vincolante, e non siano per tanto raccomandazioni i pareri (i vizi per cui l’atto può essere impugnato sono quelli tipici del diritto amministrativo: incompetenza, violazione di forma sostanziali, violazione del Trattato CE etc.); Ricorso in carenza, volto ad accertare un’omissione dell’organo; Inadempimento del trattato, con cui gli stati membri possono iniziare un procedimento contro uno stato per violazione degli obblighi derivanti dal Trattato CE; Competenza a titolo pregiudiziale, volta ad assicurare l’uniforme applicazione del diritto comunitario all’interno degli stati membri da giudice interno; Azione in materia di responsabilità extracontrattuale della Comunità, per danni causati dalle istituzioni comunitarie o dai suoi agenti. 12 – Le controversie di carattere commerciale Le controversie di carattere commerciale sono risolte nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del Commercio (WTO), con un sistema autosufficiente (self-conteined regime). Poiché la maggior parte degli stati membri della comunità internazionale è anche membro del WTO, tale sistema è diventato quasi universale, con l’importante eccezione della Federazione Russa che non ne fa ancora pare. Il sistema di regolazione delle controversie è disciplinato dal DSU: Dispute Settlement Understandig), contenuta in un allegato dell’ accordo di Marrakech del 1994, ed ha quindi natura vincolante. Gli organismi addetti a tale funzione sono i Panels, costituiti di volta in volta, mentre l’Organo di appello permanente, composto da sette membri che siedono a titolo individuale, sono eletti dall’Organo per la soluzione delle controversie (DSB). I Panels hanno una composizione eminentemente tecnica e possono includere anche persone appartenenti ad una pubblica amministrazione, ma non cittadini degli stati coinvolti nella controversia, salvo accordo contrario. Prima delle consultazioni del Panel, le parti della controversie devono esprimere una fase obbligatoria di consultazioni, che vengono avviate a richiesta di una parte; se antro sessanta giorni dalla data di ricezione della richiesta di consultazioni la controversia non è risolta, la parte che ha presentato reclamo può chiedere l’istituzione di un Panel per la risoluzione della stessa. Dinanzi al Panel si apre una procedura contenziosa con argomentazione delle parti, a seguito del quale l’organo invia una relazione interinale alle parti. Infine la relazione, sulla quale le parti hanno diritto di obbiezione viene trasmessa al DSB ed adottata con efficacia vincolante, tranne che nel caso in cui la parte soccombente intenda proporre un appello, oppure che il DSB decida per consensus di non adottare la relazione. L’organo di appello esamina la relazione del Panel solo sotto il profilo delle legittimità e non del merito, con la facoltà di confermare, modificare o annullare le conclusioni. Con l’adozione da parte del DSB della relazione del Panel o dell’Organo di appello, la fase contenziosa è chiusa. Si apre quindi la fase relativa all’esecuzione delle decisioni contenute nella relazione, che ha luogo sotto l’egida del DSB, il quale può assegnare alla parte soccombente un “termine ragionevole”, qualora essa non sia in grado di adempiere immediatamente. Anche l’irrogazione di una contromisura può essere oggetto di una controversia, qualora la parte soccombente ne contesti l’entità o l’inosservanza delle procedure disposte dall’Intesa; in questo caso la questione è sottoposta ad arbitrato, che è definitivo e senza appello. Non riguarda invece la soluzione delle controversie, ma l’accertamento del diritto, il potere attribuito alla Conferenza dei ministri ed al Consiglio generale di adottare un’interpretazione vincolante di una delle disposizioni dello statuto del WTO e degli accordi commerciali multilaterali allegati ad esso. Le caratteristiche del sistema di soluzione delle controversie predisposto dal WTO sono da individuare nella rapidità delle decisioni, nell’intervento degli organi dell’Organizzazione, sia nella costituzione dei Panels, sia nell’attribuzione di efficacia vincolante alla relazione dei Panels e dell’Organo di appello, salvo ipotetico consensus negativo manifestato dal DSB. A

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ciò si aggiunga che i rapporti sotto il profilo testuale, non sono assimilabili a delle vere e proprie sentenze. Peraltro, vi è chi ha affermato che i rapporti sono delle vere e proprie sentenze internazionali.

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L’individuo e la tutela internazionale dei diritti dell’uomo II movimento internazionale per la protezione dei diritti dell'uomo si è sviluppato a partire dall'entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite, nel 1945. Tra la metà del XIX secolo e la fine della I guerra mondiale, oggetto di protezione erano le minoranze religiose, specialmente quelle che professavano la religione cristiana e vivevano all'interno dell'Impero ottomano. Gli Stati europei avevano stipulato con l'Impero ottomano una serie di trattati rivolti a questo scopo. Il rispetto della libertà religiosa era inoltre stabilito dal Trattato di Berlino del 13 luglio 1878, come condizione dell'indipendenza dei nuovi Stati (Grecia, Bulgaria e Romania). D'altra parte, il Protocollo di Londra del 1830 relativo all'indipendenza della Grecia stabiliva nel Protocollo n.3, i diritti di cui i sudditi di confessione cattolici godevano. Il Covenant della Società delle Nazioni (1919) non conteneva nessuna disposizione né sui diritti dell'uomo né sulle minoranze. Disposizioni sulle minoranze furono invece inserite nei trattati di pace conclusi dopo la I guerra mondiale. Infatti, con l'estinzione dei tre grandi imperi (Austria-Ungheria, Impero Russo, Impero Ottomano) e la nascita di nuovi Stati, si formarono molteplici minoranze nazionali. Ma la tutela delle minoranze era una questione che riguardava gli Stati vinti o quelli di nuova indipendenza. Era previsto anche un sistema di garanzia che, tra l'altro, era fondato sul potere da parte degli individui di indirizzare una "petizione" al Segretario generale della Società delle Nazioni. In qualche modo rilevante è inoltre l'art.22 del Patto della Società delle Nazioni, istitutivo dei mandati sui territori sottratti alle potenze vinte e affidati ai vincitori, che affidava alle potenze mandatane il compito di sviluppare il benessere delle popolazioni locali. Nel 1926, fu firmata a Ginevra la Convenzione contro la schiavitù. Altre convenzioni furono concluse nel quadro dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro, tra cui la Convenzione n.29 sul lavoro forzato (1930). In effetti, la tutela dei diritti dell'uomo in quest'epoca è ben poca-cosa, se paragonata allo sviluppo che si è avuto dopo l'entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite. Tra l'altro, nel periodo precedente, la scarsa considerazione data all'individuo come persona era dimostrata dallo scambio o trasferimento di popolazioni nelle sistemazioni post-belliche e da una certa dottrina, che considerava l'individuo come oggetto di un diritto reale da parte dello Stato al pari del territorio. La tutela dei diritti umani viene realizzata mediante accordi internazionali, che disciplinano sia i diritti che gli Stati sono obbligati ad accordare agli individui che si trovino sotto la loro giurisdizione sia gli strumenti di garanzia. Come vedremo, numerosi sono anche gli strumenti di soft lato, che hanno successivamente ispirato il contenuto degli accordi internazionali. Non mancano, peraltro, norme consuetudinarie (e di diritto imperativo) poste a tutela dei diritti umani. In particolare, buona parte delle norme relative ai crimini internazionali sono configurabili come norme consuetudinarie. Il divieto di genocidio è oggetto di una norma di ius cogens. La protezione essenziale della persona umana è oggetto di una norma di diritto internazionale generale e un comportamento dello Stato che violasse i diritti elementari dell'uomo costituirebbe un illecito internazionale (ad es. divieto di trattamenti inumani e degradanti, divieto della schiavitù e del lavoro forzato) . 1 - Le Nazioni Unite La Carta delle Nazioni Unite contiene alcuni articoli dedicati ai diritti dell'uomo. Il rispetto dei diritti dell'uomo e la salvaguardia delle libertà fondamentali figurano nel Preambolo e nell'art.1, tra i fini delle Nazioni Unite. Vi sono poi due disposizioni, gli art.55 e 56, che sono state alla base di successivi sviluppi. Mentre l'art. 55, che afferma nella il rispetto e l'osservanza dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali senza discriminazione, è una disposizione di natura programmatica, l'art. 56 obbliga gli Stati ad agire, collettivamente o singolarmente, in cooperazione con l'organizzazione per raggiungere i fini stabiliti dall'art. 55, tra cui la protezione dei diritti umani. La Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, adottata dall'Assemblea Generale nel 1948, rappresenta uno dei primi strumenti in cui si prendono in considerazione i diritti degli individui in quanto tali (prima gli individui venivano considerati come un oggetto del diritto di

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sovranità degli Stati). In sé presa, la Dichiarazione, essendo stata adottata con una risoluzione dell'AG, non è uno strumento giuridico vincolante. Tuttavia, la Dichiarazione ha posto le premesse per la stipulazione di trattati in materia di diritti umani, sia a livello regionale sia a livello universale. Nel 1948, è stata conclusa la Convenzione per la prevenzione e repressione del delitto di genocidio. Il divieto di genocidio, che salvaguarda il diritto all'esistenza fisica di membri del gruppo, è qualificato come un crimine internazionale, tanto se commesso in tempo di pace, quanto in tempo di guerra. I gruppi protetti sono quelli nazionali, etnici, razziali o religiosi. Affinché un atto possa essere qualificato come genocidio, occorre un elemento materiale (ad esempio l'uccisione di membri del gruppo) e un elemento psicologico, cioè l'intenzione di distruggere il gruppo in quanto tale (dolo specifico). I gruppi protetti sono i gruppi nazionali, etnici, razziali o religiosi. Per reprimere il genocidio, gli ordinamenti penali si ispirano all'universalità della giurisdizione. Come si è visto, il genocidio è uno dei crimini su cui hanno giurisdizione il Tribunale penale internazionale per la ex-Iugoslavia e quello per il Ruanda. Inoltre il genocidio è uno dei crimini che viene sottoposto alla giurisdizione della Corte penale internazionale. La Convenzione del l951 relativa allo status di rifugiato e il Protocollo del 1967 non attribuiscono agli individui il diritto d'asilo e non obbligano gli Stati a concederlo. Il solo obbligo particolarmente incisivo a carico degli Stati contraenti è il dovere di non refoulement, cioè l'obbligo di non respingere il richiedente asilo verso le frontiere di uno Stato ove la, sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate. L'art. 31 della Convenzione obbliga inoltre gli Stati a non assoggettare a sanzioni penali i rifugiati che entrino illegalmente nel territorio dello Stato in cui intendono chiedere asilo. Uno dei maggiori risultati conseguiti dalle Nazioni Unite nel campo dei diritti umani è statala conclusione di due Patti nel 1966. Sono due trattati internazionali che hanno per oggetto, rispettivamente, i diritti civili e politici e i diritti economici, sociali e culturali. Essi traducono, in gran parte, a livello di norme giuridicamente vincolanti, le disposizioni contenute nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Di regola, la tecnica di garanzia delle due categorie di diritti è diversa. Mentre i diritti civili e politici sono contenuti in norme generalmente selfexecuting, quelli economici, sociali e culturali sono contenuti in norme programmatiche, anche se nei Covenants, tale tecnica non è sempre seguita. L'art. 1 dei due Patti garantisce il diritto all'autodeterminazione. Tale diritto, però, è un diritto che appartiene ai popoli e non agli individui. La realizzazione dell'autodeterminazione è la condizione per il godimento dei diritti individuali. Il Patto sui diritti civili e politici distingue tra popoli e minoranze. Mentre i popoli sono presi in considerazione dall'art.1, le minoranze trovano la loro tutela nell'art. 27. Non vengono, tuttavia, attribuiti diritti collettivi. I diritti sono attribuiti agli individui appartenenti alla minoranza, che possono esercitare i diritti in questione singolarmente o in comune con gli altri membri del gruppo. Le minoranze protette sono le minoranze etniche, religiose o linguistiche. Quanto ai meccanismi di garanzia, i Patti prevedono l'invio di rapporti periodici da parte degli Stati al Segretario generale delle Nazioni Unite circa l'attuazione dei Patti all'interno degli ordinamenti statali. Tali rapporti sono esaminati dal Comitato per i diritti economici, sociali e culturali per quanto riguarda il Patto sui diritti economici, sociali e culturali; dal Comitato dei diritti dell'uomo, per quanto riguarda il Patto sui diritti civili e politici. Il Patto sui diritti civili e politici stabilisce un meccanismo di controllo più avanzato. Oltre al sistema dei rapporti, è prevista la competenza del Comitato dei diritti dell'uomo a esaminare i reclami di uno Stato che lamenti la violazione dei diritti dell'uomo da parte di un altro Stato parte del Patto. Il Comitato si mette a disposizione delle parti per pervenire ad una soluzione della controversia in conformità ai diritti dell'uomo. Se questo risultato non è possibile, il Comitato può istituire, con il consenso degli Stati interessati, una commissione di conciliazione. Un Protocollo opzionale al Patto sui diritti civili e politici prevede che gli individui possano indirizzare un reclamo al Comitato dei diritti dell'uomo. La procedura si conclude con una constatazione, indirizzata dal Comitato allo Stato parte chiamato in causa e all'individuo. La constatazione del Comitato non ha natura giuridicamente vincolante. L'Italia ha ratificato il Protocollo opzionale. Con il Comitato dei diritti dell'uomo non deve essere confusa la Commissione dei diritti dell'uomo, organo di Stati. Gli Stati membri della Commissione sono 53 e sono eletti dal Consiglio economico e sociale. Oltre ad avere importanti funzioni nel campo normativo (ha ad es. contribuito alla preparazione della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e dei due Patti del 1966), la Commissione

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controlla il rispetto dei diritti dell'uomo all'interno degli Stati membri e può esaminare le questioni sollevate al riguardo dagli Stati. Può in questo contesto rivolgere raccomandazioni al Comitato economico e sociale. La Commissione può anche esaminare reclami di individui in caso di massicce violazioni di diritti umani. La procedura è confidenziale, ma i risultati possono consistere anche in un rapporto pubblico. Nel 2006 è stato istituito il Consiglio dei diritti umani, per colmare le inefficienze della Commissione. I 47 membri del Consiglio (selezionati secondo standard formativi molto elevati in materia di diritti umani) sono eletti dall’Assemblea Generale a scrutinio segreto, con un voto a maggioranza, ma i seggi vengono distribuiti secondo il criterio di un’equa ripartizione geografica; la maggioranza è quindi composta da a paesi afro-asiatici, i cui parametri in materia di osservanza dei diritti umani non sono sempre esemplari. L’importanza del nuovo organismo è aumentata notevolmente, poiché esso è un organo sussidiario dell’Assemblea Generale e non, come accadeva per la Commissione, del Consiglio economico e sociale, cioè di un organo a composizione molto più ristretta. Nel 1993 è stato invece istituito l’ Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, con compiti operativi e di coordinamento dell’azione dell’ONU nel campo dei diritti umani. 2 - Il Consiglio d'Europa e la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali Il Consiglio d'Europa è un'organizzazione internazionale fondata nel 1949. Secondo il disegno originario, avrebbe dovuto costituire la struttura unificante del continente europeo. Il Consiglio d'Europa ha la classica struttura tripartita delle organizzazioni internazionali ed è composto dai seguenti organi:

l'Assemblea Consultiva, di cui fanno parte i parlamentari degli Stati membri. Essi vengono designati dai parlamenti nazionali, tra i propri membri. Si tratta quindi di una rappresentanza di secondo grado.

Il Comitato dei Ministri, composto dai Ministri degli affari esteri dei paesi membri.

Il Segretario Generale. Il Consiglio d'Europa non ha poteri normativi. I suoi atti sono gli atti tipici delle organizzazioni internazionali, come le raccomandazioni, che non sono giuridicamente vincolanti. L'Assemblea Consultiva può adottare risoluzioni, di carattere generale, e raccomandazioni indirizzate al Comitato dei Ministri. Risoluzioni e raccomandazioni possono essere rivolte dal Comitato dei Ministri agli Stati membri. Il Comitato dei Ministri svolge funzioni importanti anche per quanto riguarda la Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Secondo l'art.54 della Convenzione, il Comitato ha il compito di sorvegliare l'esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo. Per diventare membro del Consiglio d'Europa, occorre essere uno Stato europeo e rispettare i diritti fondamentali. La perdita dello status di membro avviene per recesso o per espulsione (es. un precedente è costituito dalla Grecia, dopo il colpo di Stato del 1967. La Grecia recedette nel 1969, ma ebbe luogo anche la contemporanea espulsione da parte del Comitato dei Ministri. La Grecia fu riammessa nel 1974). Uno dei maggiori risultati conseguiti dal Consiglio d'Europa è stata la conclusione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, negoziata nel quadro di tale organizzazione, aperta alla firma a Roma nel 1950, ed entrata in vigore nel 1953. La Convenzione, che per molta parte delle sue disposizioni si ispira alla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, si compone di due parti. La prima, di natura sostanziale, elenca i diritti garantiti. La seconda, di natura procedurale, stabilisce i meccanismi di garanzia. Con il tempo, la Convenzione ha subito modifiche e integrazioni. In primo luogo, sono aumentati i diritti garantiti, a cominciare da quello di proprietà. La tecnica seguita è stata quella di redigere Protocolli addizionali. Possono divenire parti della Convenzione gli Stati membri del Consiglio d'Europa. Dopo la caduta del muro di Berlino, i paesi dell'Est sono stati ammessi al Consiglio d'Europa ed hanno successivamente aderito alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Le riserve alla Convenzione europea sono disciplinate dall'art.

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57, secondo cui sono vietate le riserve di carattere generale e sono ammesse solo quelle di carattere particolare, qualora una legge dello Stato riservante non sia conforme alle disposizioni della Convenzione. La Convenzione istituisce vincoli solidali o obblighi erga omnes. Con la conseguenza che ciascun Stato parte può presentare un ricorso contro un altro Stato parte, che abbia violato la Convenzione, anche se esso non sia materialmente leso dalla violazione. Secondo l'art. 1 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, "le alte Parti Contraenti riconoscono ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà definiti dal titolo primo della presente Convenzione". La giurisprudenza della Commissione e della Corte europea dei diritti dell'uomo hanno dato, in un primo tempo, un'interpretazione estensiva dell'art. 1, affermando che la Convenzione era applicabile in occasione di funzioni statali esercitate all'estero. Il caso esemplare, per quanto riguarda l'invio di forze armate all'estero, riguarda i contingenti militari della Turchia nella Stato turco di Cipro del Nord, Stato non riconosciuto dalla comunità internazionale (es. nel caso Loizidou (1995), la Corte ritenne che il territorio di Cipro del Nord si trovava sotto il controllo generale della Turchia. Tale è infatti la situazione di un territorio estero, quando si trovi sotto il controllo di uno Stato parte, che vi abbia stanziato le proprie truppe o eserciti il controllo tramite un'amministrazione locale subordinata. Come si è detto, la prima parte della Convenzione europea dei diritti dell'uomo contiene un catalogo dei diritti che gli Stati hanno l'obbligo di garantire e che sono altresì garantiti a livello internazionale. La Convenzione segue come modello la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, ma non c'è perfetta coincidenza. Non tutti i diritti menzionati nella Dichiarazione sono elencati nella Convenzione. I diritti garantiti nella Convenzione possono essere suddivisi nelle seguenti categorie: libertà delle persone fisiche; diritto ad un processo equo; diritto al rispetto della vita privata, familiare, della corrispondenza e del domicilio; libertà di pensiero; protezione dell'attività sociale e politica; diritto al rispetto dei beni. Il diritto al rispetto dei beni è garantito dal Protocollo addizionale alla Convenzione e merita una trattazione separata. Tranne il divieto di trattamento inumani e degradanti, gli altri diritti hanno delle eccezioni. Ad es. non costituisce una violazione del diritto alla vita l'esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, qualora il delitto sia punito dalla legge con la pena di morte. Parimenti, non costituisce privazione della libertà la detenzione regolare in seguito ad una condanna da parte di un tribunale competente. La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo ha spesso dato un'interpretazione estensiva dei diritti garantiti dalla Convenzione. Ad es. è stata configurata come una violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti l'estradizione di uno straniero verso un paese in cui possa essere sottoposto a tortura. Il diritto ad un processo equo, disciplinato dall'art. 6, ha assunto una grande rilevanza nell'ambito della Convenzione ed è stato oggetto della maggior parte dei casi giurisprudenziali (oltre il 60%). Da osservare che non costituisce violazione del principio di irretroattività la condanna per un reato che era considerato un crimine secondo il diritto internazionale, anche se l'evento non era qualificato come un reato dal diritto interno. Il rispetto alla vita privata, familiare del domicilio e della corrispondenza è sancito nell'art. 8.L'ingerenza dell'autorità pubblica deve essere prevista per legge e nei casi tassativi disposti (es. le intercettazioni telefoniche sono legittimerà condizione che avvengano in un quadro di legalità, siano cioè disposte dagli organi giudiziari per la repressione di gravi reati). La libertà di pensiero comprendeva libertà di pensiero, coscienza e religione (art.9), la libertà di espressione e informazione (art.10). L'art.10 riguarda anche le radiodiffusioni e le trasmissioni televisive. Gli Stati possono sottoporre ad un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione o di televisione. I diritti riconducibili alla protezione dell'attività sociale e politica hanno per oggetto la libertà di riunione e di associazione (art.11) e il diritto a libere elezioni legislative, garantito dall'art.3 del Protocollo addizionale. II diritto al rispetto dei beni e della proprietà è previsto dall'art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo (1952). Per avere diritto alla tutela occorre essere titolari del bene, non venendo garantita una semplice aspettativa. Il problema si è posto, ad esempio, per quanto riguarda i provvedimenti di de-nazionalizzazione e le restituzioni dei beni confiscati dai regimi comunisti. Si

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sono verificate delle discriminazioni a danno degli stranieri, nel senso che le restituzioni venivano accordate solo ai cittadini. Coloro che aspiravano alla restituzione non erano ancora titolari del diritto di proprietà del bene. L'art.1 non vieta le espropriazioni, la loro legittimità è tuttavia assoggettata a determinati requisiti, stabiliti nel secondo inciso dell'art.1 o ricavabili dalla giurisprudenza. Un provvedimento di espropriazione è "legittimo, purché: sia effettuato per causa di pubblica utilità; avvenga alle condizioni previste dalla legge; sia accompagnato da un indennizzo; avvenga in conformità ai principi generali del diritto internazionale. La condizione di cui al punto 4 si applica, secondo l'interpretazione giurisprudenziale, alle nazionalizzazioni di beni stranieri. L'indennizzo deve essere "pronto, adeguato ed effettivo". In casi di eventi eccezionali, tassativamente stabiliti, uno Stato può sospendere l'applicazione di taluni diritti (art.15). Vi sono però diritti inderogabili, che non possono essere sospesi. Lo Stato ha l'obbligo di informare il Segretario Generale del Consiglio d'Europa, circa le misure prese. I casi in cui può essere fatto ricorso alla deroga sono quelli della "guerra" o di altro "pericolo pubblico che minacci la vita della nazione". La giurisprudenza ha affermato che tali espressioni "designano una situazione di crisi o di pericolo eccezionale e imminente che sovrasta l'insieme della popolazione e costituisce una minaccia per la vita organizzata della comunità che compone lo Stato". Vi è però un nucleo di diritti inderogabili: diritto alla vita, divieto della tortura, divieto di schiavitù, principio di legalità (art. 7). Non costituisce una violazione del diritto alla vita l'uccisione in seguito ad un atto legittimo di belligeranza. A tale fine, per poter determinare se si tratti di atto legittimo, occorre far riferimento al diritto internazionale umanitario. Infine, l'art. 15 stabilisce un obbligo procedurale, la cui trasgressione comporta una violazione della Convenzione. Lo Stato che si avvale della deroga deve tener informato il Segretario Generale del Consiglio d'Europa sulle misure prese e i motivi che le hanno determinate. Come si è detto, il Protocollo n.11 ha innovato profondamente il sistema stabilito dalla Convenzione. Mentre prima il sistema si fondava sulla Commissione, il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa e la Corte europea dei diritti dell'uomo, ora abbiamo una Corte unica. Al Comitato dei Ministri è affidato il compito di sorvegliare l'esecuzione delle sentenze della Corte. 3 - La Corte europea dei diritti dell'uomo La Corte europea dei diritti dell'uomo, che ha sede a Strasburgo, si compone di un numero di giudici eguale a quello degli Stati parti della Convenzione. Beninteso, i giudici sono indipendenti dagli Stati parti: la Corte è un organo di individui e non un organo di Stati. La Corte funziona in permanenza ed è articolata in Comitati (3 giudici), Camere (7 giudici) ed una Grande Camera (17 giudici). L'Assemblea plenaria della Corte ha solo compiti amministrativi e non svolge funzioni giudiziarie. I Comitati operano come una specie di filtro a livello preliminare per i ricorsi. Se la decisione del Comitato non è unanime, il ricorso individuale viene esaminato dalla Camera, che si pronuncia sia sulla ricevibilità sia sul merita del ricorso. Qualora si tratti di ricorso presentato da un Stato, l'affare è esaminato dalla Camera, che decide sia sulla ricevibilità sia sul merito. Qualora l'affare non sia portato dinanzi alla Grande Camera, la sentenza della Camera diviene definitiva. L'affare può essere portato dinanzi alla Grande Camera a iniziativa della Camera (art.30) o di parte (art.43), nel caso in cui venga sollevata una questione relativa all'interpretazione o all'applicazione della Convenzione di particolare gravità o si corra il rischio di dare una soluzione in contrasto con la giurisprudenza precedente (art. 30). L'istanza è preliminarmente esaminata da un comitato di cinque giudici della Grande Camera. La sentenza della Grande Camera è definitiva. 3.1 - Il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa: Il Comitato è un organo politico e dopo l'entrata in vigore del Protocollo n.11 non gode più dei poteri quasi giurisdizionali che invece aveva secondo il vecchio sistema. Al Comitato spetta, come si vedrà, sorvegliare l'esecuzione della sentenza della Corte. 3.2 - Le sentenze della Corte e la loro esecuzione: Secondo l’art.46 della Convenzione, la sentenza definitiva della Corte è obbligatoria. Lo Stato membro s'impegna a eseguire la sentenza della Corte. Quest'ultima non

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ha quindi forza esecutiva all'interno degli ordinamenti statali. E’ una sentenza di puro accertamento, che si limita a statuire sulla conformità della misura presa con la Convenzione. Qualora la Corte constati che ha avuto luogo una violazione della Convenzione e il diritto interno della parte che ha violato la Convenzione non consenta di rimediare a tutte le conseguenze dell'illecito, la Corte può accordare alla parte lesa una "soddisfazione equa", che consiste in una somma di danaro. A questo fine, spetta al Comitato dei ministri vigilare sull’esecuzione della sentenza, ed in caso che ciò non avvenga, potrebbe verificarsi una sospensione dello Stato dal Consiglio d'Europa, secondo quanto dispone l'art.3 dello Statuto. Le categorie di ricorsi che possono, essere presentati alla Corte europea dei diritti dell'uomo sono di due tipi: individuali e statali. Non è invece attribuita nessuna competenza ad un organo del Consiglio d'Europa, quale ad es. il Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, tranne la competenza attribuita al comitato stesso in materia di inadempimento della sentenza dal Protocollo n. 14. La possibilità per un individuo di presentare un ricorso contro lo Stato sotto la cui giurisdizione si trova è un fatto rivoluzionario per il diritto internazionale. 3.3 - I ricorsi di individui: Secondo l'art.34 della Convenzione, il ricorso può essere presentato da una persona fisica, un'organizzazione non governativa o gruppo di individui. Condizione per presentare il ricorso è quella secondo cui il ricorrente sia "vittima", di una violazione della Convenzione da parte dello Stato. Non si può quindi ricorrere per lamentare che una legge statale potrebbe in astratto pregiudicare i miei diritti. Comunque la Corte ha dato un'interpretazione estensiva della nozione di vittima. Tra le organizzazioni non governative sono fatti rientrare anche i sindacati e le società commerciali. 3.4 - I ricorsi di Stati: Secondo l'art.33 della Convenzione, uno Stato membro può presentare un ricorso contro un altro Stato membro accusandolo di aver violato la Convenzione. Non è necessario che lo Stato sia materialmente danneggiato dalla violazione. Come si è detto, la Convenzione istituisce obblighi erga omnes tra gli Stati partecipanti: uno Stato è cioè obbligato ad osservare la Convenzione nei confronti di tutti gli Stati membri. 3.5 - Condizioni di ricevibilità dei ricorsi: Occorre distinguere tra condizioni comuni ai ricorsi individuali e statali e condizioni che hanno per oggetto solo i ricorsi individuali. Per quanto riguarda la condizione comune ai ricorsi individuali e statali essa riguarda "l'esaurimento dei ricorsi interni" (art. 35, par. 1 della Convenzione). Prima di presentare il ricorso, il ricorrente deve aver esaurito tutti i mezzi interni di ricorso. Egli, cioè, deve avere esaurito tutti i gradi di giudizio. Il ricorso è considerato irricevibile quando: è anonimo; si tratta dello stesso ricorso proposto ad un'altra istanza internazionale (ad es. Comitato dei diritti dell'uomo); non è compatibile con la Convenzione (ad es. non riguarda uno dei diritti garantiti dalla Convenzione); è manifestamente infondato (ad es. nessuna prova corrobora il ricorso) o abusivo (ad es. il ricorso è volto ad infamare o ingiuriare lo Stato). Alla Corte è stata attribuita una nuova competenza: l'adozione di pareri consultivi su richiesta del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa. I pareri, che non hanno effetti giuridici vincolanti, sono resi dalla Grande Camera ed hanno per oggetto questioni giuridiche relative all'interpretazione della Convenzione e dei suoi Protocolli. La Corte si trova oggi investita di un numero considerevole di ricorsi che rischiano di paralizzarla. Taluni Stati, come l'Italia, hanno voluto porre rimedio a questa situazione. La L. n. 89 del 2001 (ed. "Legge Pinto" dal nome del suo relatore) ha tentato di arginare la valanga di ricorsi presentati a Strasburgo da ricorrenti italiani a causa della durata eccessiva del processo e della violazione dell'art. 6 della Convenzione. Il ricorso può essere presentato alla Corte d'Appello contro il Ministro della Giustizia o contro quello della Difesa o delle Finanze, rispettivamente per i procedimenti dinanzi al giudice ordinario, militare o tributario. La Corte d'Appello deve decidere, con decreto, entro quattro mesi. Se accoglie il ricorso, la Corte accorda un'equa riparazione al ricorrente. Contro il decreto della Corte d'Appello, è ammesso il ricorso in Cassazione. Naturalmente la Corte d'Appello dovrà tener conto della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, sia per il calcolo della durata ragionevole del processo sia per stabilire l'ammontare dell'equa soddisfazione. La Legge Pinto non blocca definitivamente i ricorsi alla Corte di Strasburgo, sia perché l'individuo può risultare soccombente sia perché egli potrà ritenersi non soddisfatto dall'entità dell'equa riparazione accordata dal giudice nazionale.

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3.5 – L’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento italiano: problematica è l’esecuzione delle sentenze della Corte europea negli ordinamenti interni degli stati parte. In Italia, le iniziative legislative volte a disciplinare la materia non sono finora andate a buon fine. Un provvedimento preso con legge nel 2006, attribuisce al Presidente del Consiglio di promuovere gli adempimenti di competenza governativa relativi alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo emanate nei confronti dell’Italia, un iniziativa che però rimane solo di stimolo all’iniziativa legislativa; di fronte all’inerzia del legislatore la nostra giurisprudenza ha inizialmente tenuto un atteggiamento conservatore, la Corte di Cassazione ha infatti escluso che tali sentenze possano avere efficacia diretta sull’ordinamento italiano. Successivamente, dando segni di apertura, la stesa Cassazione sentenziò che l’effetto della suddetta legge del 2006 e del Protocollo n.14, avrebbero comportato l’obbligo per il giudice interno di eseguire la sentenza della Corte di Strasburgo. Il nuovo indirizzo giurisprudenziale non può comunque supplire all’inerzia del nostro legislatore. 3.6 - Il Protocollo n. 14 - Con l'aumento del numero degli Stati membri del Consiglio d'Europa e degli Stati parti della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, la gestione dei ricorsi è diventata problematica. Il Protocollo, aperto alla firma il 13 maggio 2004, entrerà in vigore tre mesi dopo che tutti gli Stati della Convenzione lo avranno ratificato. Queste le linee essenziali della riforma. Viene istituito il sistema del giudice unico. Quindi la Corte sarà articolata in Giudice unico, Comitati di tre giudici, Camere di sette giudici (che possono essere ridotti a cinque per un periodo determinato) e Grande Camera di diciassette giudici. Il Giudice unico può dichiarare irricevibile il ricorso e la sua decisione è definitiva. Per i ricorsi individuali viene stabilito un nuovo motivo di irricevibilità. Oltre ai motivi di cui all'art.35, par. 3 della Convenzione il ricorso viene dichiarato irricevibile qualora il ricorrente non abbia subito un pregiudizio significativo, tranne che la salvaguardia dei diritti dell'uomo non richieda un esame nel merito e purché la questione sia stata adeguatamente esaminata dal tribunale nazionale competente. La procedura di esecuzione delle sentenze della Corte viene migliorata mediante l'istituzione di una sorta di giudizio per inadempimento, sulla falsariga di quello esperibile dinanzi alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee. Qualora lo Stato soccombente non adempia, il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa può portare la questione dinanzi alla Corte. Se viene constatato che lo Stato non ha eseguito la sentenza, la questione viene di nuovo rimessa al Comitato dei Ministri che deciderà le misure da prendere. Il Comitato dei Ministri è anche legittimato a chiedere alla Corte l'interpretazione della sentenza, qualora reputi che la corretta esecuzione sia ostacolata da problemi interpretativi. Da notare, infine, che è stata inserita una clausola ad hoc, per consentire all'Unione Europea l'adesione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. 4 - L’Unione Europea All'origine, le Comunità europee non contenevano alcun riferimento ai diritti umani. Ciò era comprensibile per quanto riguarda i diritti civili e politici, poiché le Comunità avevano una chiara impronta economica. La tutela dei diritti umani nell'ordinamento comunitario si è però affermata in via giurisprudenziale ed è stata successivamente consacrata nelle disposizioni convenzionali. La Corte di giustizia delle Comunità europee ha più volte affermato che la protezione dei diritti umani fondamentali è uno degli obiettivi della Comunità. In particolare, la protezione dei diritti umani fondamentali rientrerebbe tra i principi generali del diritto comunitario, principi che vengono applicati dalla Corte di giustizia. La Corte ha affermato che tali principi possono essere ricavati: dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, e dai trattati internazionali sui diritti dell'uomo, di cui gli Stati membri erano parti, in particolare la Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Veniva pertanto individuata una doppia fonte: interna (costituzioni degli Stati membri) e internazionale (trattati in materia dei diritti dell'uomo). Per un certo tempo si è pure posto il problema dell'adesione delle Comunità alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, ed il trattato di Maastricht sull'Unione europea ha consacrato in qualche modo i principi sopra evidenziati, consacrandoli con l’art.6.

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Un ulteriore progresso si è avuto con l'art. 6, par. 1, così come modificato dal Trattato di Amsterdam, dove viene stabilito che "l'Unione si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, e dello stato di diritto, principi che sono comuni agli Stati membri". Tra l'altro, il rispetto dei principi stabiliti in tale disposizione costituisce uno dei requisiti per l'adesione di un nuovo Stato all'UE; inoltre, la violazione grave e persistente di tali principi può essere causa di sospensione di alcuni diritti connessi alla qualità di membro dell'Unione (art. 7). La protezione dei diritti dell'uomo ispira anche la politica internazionale dell'Unione, sia per quanto riguarda la politica estera (art. 11 Trattato UE) sia per quanto riguarda la cooperazione allo sviluppo. Il Trattato di Amsterdam (art. 136) fa riferimento ai "diritti sociali fondamentali", quali risultano dalla Carta Sociale europea e dalla Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori. Con il Trattato di Maastricht, la competenza della Corte di giustizia si estende alla tutela dei diritti dell'uomo, ma soltanto in relazione alle attività delle istituzioni e non a quelle degli Stati membri (es. un atto comunitario potrà essere impugnato, nei modi e nei termini stabiliti dal Trattato CE, dinanzi alla Corte di giustizia per violazione dei diritti fondamentali dell'uomo). Al contrario, non potrà essere presentato ricorso contro un provvedimento interno dinanzi alla Corte di Giustizia, poiché questo viola i diritti dell'uomo e tanto meno sindacare la compatibilità con la Convenzione europea di diritti dell'uomo di una disciplina nazionale che esula dall'ambito comunitario. Tale ripartizione di competenze dovrebbe essere idonea, in linea di principio, a scongiurare eventuali conflitti di competenza tra Corte di giustizia e Corte europea dei diritti dell'uomo. Sennonché, la Corte europea dei diritti dell'uomo si è dichiarata competente a giudicare dei provvedimenti interni, attuativi di atti comunitari, contrari alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Inoltre, potrà essere esperito un ricorso pregiudiziale alla Corte di giustizia per far constatare l'incompatibilità di una normativa interna in contrasto con il diritto comunitario, anche qualora tale contrasto abbia per oggetto la violazione dei diritti dell'uomo, così come incorporati nel diritto comunitario. Parlamento Europeo, Consiglio e Commissione hanno proclamato solennemente, il 7 dicembre 2000, la Carta dei diritti fondamentali dell'UE, che contiene un catalogo esteso di diritti civili e politici ed economici e sociali. Tale strumento è per ora mero soft law. Il progetto di Trattato Costituzione dell'UE, da un lato, incorpora la Carta nella parte II , dall'altro, all'art.7, par.2, persegue l'adesione dell'UE alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo (si veda anche l'art.17, par.2, del Protocollo n.14 alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo che, come si è detto, consente l'adesione alla Convenzione). L'ipotizzata traduzione in uno strumento giuridico vincolante non farebbe che accrescere i potenziali conflitti tra la Corte comunitaria e la Corte europea dei diritti dell'uomo. 5 - L'Organizzazione per la sicurezza e cooperazione in Europa La questione dei diritti dell'uomo, intesi in senso ampio, ha assunto un'importanza decisiva nell'OSCE, le cui fondamenta e atti poggiano su strumenti di soft law. Il sistema di protezione dei diritti dell'uomo nell'OSCE merita, per la sua peculiarità, una disamina mediante una descrizione degli strumenti e procedure previsti: 5.1 - La dimensione umana: è una creazione avvenuta nell'ambito dell'OSCE, più precisamente, l'espressione è un'invenzione degli Stati membri dell'Unione Europea, che alla Conferenza di Vienna del 1986-89 coniarono tale dizione allo scopo di allargare il terzo settore, dedicato alla cooperazione nel campo umanitario e in altri campi, alla problematica dei diritti dell'uomo. Il catalogo di diritti attribuiti nel quadro della dimensione umana è contenuto nel Documento di Copenhagen (1990), che elenca anche i diritti da accordare alle minoranze nazionali. Ulteriori progressi sono stati fatti con il Documento di Mosca del 1991, specialmente per quanto riguarda lo Stato di diritto e la nozione di istituzioni democratiche. La nozione di dimensione umana è ormai diventata indipendente da quella dei diritti dell'uomo. Infatti: i diritti dell'uomo sono tutelati a livello di strumenti giuridicamente vincolanti, e gli impegni OSCE divengono (politicamente) vincolanti per gli Stati non appena il relativo documento è stato adottato, senza bisogno di ratifica; gli

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individui, nel quadro OSCE, non possono mettere in moto meccanismi di tutela dei loro diritti. I meccanismi restano a livello interstatale, mentre nel campo dei diritti umani agli individui è riconosciuto un potere di ricorso alle istanze internazionali; I diritti accordati vengono tutelati mediante appositi meccanismi di garanzia; e le questioni relative alla dimensione umana, così come quelle relative ai diritti dell'uomo, non fanno parte del dominio riservato (domestic jurisdiction) degli Stati. 5.2 - Il meccanismo della dimensione umana: Nel quadro OSCE, i diritti umani sono tutelati mediante l'esercizio di procedimenti che consistono nel "meccanismo della dimensione umana". Il meccanismo sulla dimensione umana è una procedura volta ad assicurare il rispetto, delle disposizioni sui diritti umani contenute nei documenti pertinenti dell'OSCE. La procedura è aperta solo agli Stati partecipanti. L'individuo, come si è detto, non ha alcun potere di azionare il meccanismo. Alla riunione di Copenhagen della Conferenza sulla dimensione umana (1990), è stato possibile fare un piccolo passo avanti per il miglioramento del meccanismo, ma un salto di qualità e stato ottenuto con la riunione di Mosca della Conferenza (10 settembre-4 ottobre 1991). Sono stati innanzitutto accorciati i tempi per l'espletamento delle prime due fasi del meccanismo: la risposta scritta, di cui alla fase 1, deve essere data entro 10 giorni e l'incontro bilaterale deve aver luogo entro una settimana dalla richiesta. In secondo luogo è stata prevista l'istituzione di una lista di esperti, da cui vengono estratti i nomi per la composizione dei due gruppi di persone che intervengono nella procedura: esperti e rapporteurs. Il meccanismo della dimensione umana ha ricevuto ampia applicazione durante il periodo della guerra fredda. Tra il ‘89 e il ‘90 è stato azionato un centinaio di volte ed è stato usato soprattutto nei rapporti S occidentali-S comunisti. Anche il meccanismo di Mosca non si segnala per la frequente applicazione. Nel ‘94 i Paesi nordici chiesero alla Turchia di invitare una missione di esperti, ma ricevettero un netto rifiuto. 5.3 - L'Alto commissario per le minoranze nazionali: Alla Conferenza al vertice di Helsinki, del 1992 si è voluto rafforzare la struttura istituzionale dell'OSCE, creando l'ufficio di Alto Commissario per le Minoranze Nazionali, allo scopo di far fronte ai nuovi compiti richiesti da una situazione internazionale radicalmente mutata nel Continente europeo. L'Alto Commissario, che ha la sua sede all'Aja, è nominato per consensus dal Consiglio dei Ministri ed ha una funzione indipendente e dinamica, che lo porta ad interagire con gli organismi politici dell'Organizzazione. L'Alto Commissario è uno strumento di prevenzione dei conflitti "per quanto più possibile nella fase iniziale". Egli interviene quando le tensioni legate alle questioni minoritarie minacciano la pace e la sicurezza internazionale. L'Alto Commissario non interviene in relazione a casi individuali, ma esplica le sue funzioni quando vi siano tensioni concernenti una minoranza nazionale, potenzialmente idonee a trasformarsi in un conflitto, che porti un pregiudizio alla pace, alla stabilità o alle relazioni tra gli Stati partecipanti. Le funzioni dell'Alto Commissario consistono nel "preallarme" (early warning) e nell'"azione preventiva" (early action). Nella prassi, il ruolo dell'Alto Commissario si è trasformato, nel senso che egli svolge un ruolo di mediatore e non si limita a redigere un rapporto. 5.4 - Le missioni di lunga durata: Le missioni di lunga durata non sono menzionate nel Documento al Vertice di Helsinki del 1992. Esse sono una creazione della prassi. Mandato, consistenza (normalmente sono di dimensione ridotta) e durata (di regola sei mesi rinnovabili) sono stabiliti dagli organi politici dell'OSCE. Essendo uno strumento molto flessibile, le missioni di lunga durata possono svolgere molteplici compiti, dal monitoraggio del peace-keeping alla sorveglianza sull'attuazione dei diritti umani. Tra l'altro, queste missioni espletano un ruolo di coordinamento con le altre organizzazioni internazionali presenti nell'area e contribuiscono alla stabilità della regione. 5.5 - La Corte di arbitrato e conciliazione: E’ stata istituita dalla Convenzione di Stoccolma del 1992, che è entrata in vigore nel 1994, La sua competenza ha per oggetto le controversie che possano insorgere tra gli Stati membri dell'OSCE, incluse quelle relative alla tutela dei diritti umani (es. il trattamento di una minoranza nazionale). La Corte, che ha sede a Ginevra, è a geometria variabile. Esiste una lista di conciliatori e di arbitri, cui le parti, insieme al Bureau della Corte, possono attingere per formare il panel di

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arbitri o conciliatori. Mentre la Corte di arbitrato applica solo il diritto internazionale, quella di conciliazione applica non solo il diritto internazionale, ma anche gli impegni OSCE. Si tratta di conciliazione obbligatoria, nel senso che può essere messa in moto ad iniziativa di una parte. Interessante è l'esistenza di un raccordo tra conciliazione e organi politici dell'OSCE. Se le parti non accettano il rapporto della Commissione di Conciliazione, questo è trasmesso al Consiglio ministeriale dell'OSCE. La Corte d'arbitrato non ha il potere di emettere pareri consultivi. I tentativi di attribuirle una tale competenza non hanno avuto successo. Finora, la Corte di conciliazione e di arbitrato non è stata investita di nessun caso. Qualche Stato vorrebbe abolirla. 6 - Il principio di autodeterminazione dei popoli Limiti incisivi alla libertà dello Stato all'interno del proprio ordinamento derivano dal principio di autodeterminazione dei popoli. Si è soliti distinguere tra autodeterminazione interna e autodeterminazione esterna. Mentre l'autodeterminazione interna conferisce ad ogni popolo il diritto di avere un ordinamento rappresentativo e democratico (ed investe i rapporti tra popolo e organizzazione statale), quella esterna comporta il diritto di ogni popolo ad avere la forma statale che desidera nell'ambito della comunità internazionale. Per questo, l'integrazione, come ha precisato la CIG nel parere sul Sahara Occidentale (1975) che richiama in proposito la risoluzione 1541 dell'AG, deve essere il risultato della volontà del popolo liberamente espressa, mediante un procedimento democratico imparziale condotto tramite il suffragio universale. Buona parte della dottrina considera il principio di autodeterminazione dei popoli come appartenente allo ius cogens. La CIG, nel caso di Timor Orientale (1995), pur non pronunciandosi sulla natura imperativa del principio di autodeterminazione, ha affermato che esso è "uno dei principi essenziali del diritto internazionale contemporaneo" e ne ha statuito la natura di norma istitutiva di obblighi erga omnes. Il diritto all'autodeterminazione deve essere contemperato con il principio dell'integrità territoriale degli Stati. Le prime risoluzioni anticolonialiste dell'AG, da una parte, hanno riconosciuto il principio di autodeterminazione dei popoli, ma, dall'altra, hanno affermato il principio dell'integrità territoriale non solo degli Stati, ma anche dell'unità territoriale oggetto del diritto all'autodeterminazione. La Corte suprema russa, nel caso del Tatarstan (sentenza del 13 marzo 1992, n. 671), ha affermato che il principio dell'integrità territoriale e il rispetto dei diritti dell'uomo da parte della Federazione limitano il diritto all'autodeterminazione. Nel caso della Cecenia (1995), la Corte ha fatto riferimento alla Dichiarazione sulle relazioni amichevoli per escludere che si potesse secedere dalla Federazione unilateralmente. Il diritto internazionale, quindi, non favorisce la secessione. Anzi ammette che il governo al potere possa reprimere un movimento secessionista. Tuttavia, se la secessione ha luogo, questa non è indifferente per il diritto internazionale. Il processo di secessione viene ricondotto nell'ambito del diritto internazionale, nel senso che gli insorti debbono svolgere le loro operazioni belliche in conformità al diritto internazionale umanitario e che al territorio oggetto della secessione, una volta acquisita l'indipendenza, si applica il principio dell'uti possidetis per quanto riguarda i confini (ad es. lo Stato indipendente, nato dalla secessione, avrà gli stessi confini che aveva quando era una semplice provincia della madrepatria). Il principio di autodeterminazione dei popoli è caratterizzato da: irretroattività, permanenza e universalità. Al di fuori del contesto coloniale, dove il principio è sorto, l'autodeterminazione non ha portata retroattiva. Quindi il principio non si applica in Europa ai territori occupati con la forza prima della II guerra mondiale. L'assunto è confermato da strumenti di soft law, come la Dichiarazione sulle relazioni amichevoli o i principi stabiliti ad Helsinki dalla CSCE. Infine, il principio di autodeterminazione ha carattere permanente, nel senso che non si consuma una volta che sia stato esercitato. Inteso come autodeterminazione esterna, l'autodeterminazione è un diritto che fa capo, innanzitutto, ai popoli sotto dominazione coloniale o razzista, o che si trovano in una situazione assimilabile a un regime coloniale, come si desume dalla risoluzione 1514 (XV) dell'AG e dai pareri resi dalla CIG sulla Namibia (1970) e sul Sahara Occidentale (1975). La natura giuridicamente vincolante del principio di autodeterminazione in relazione alle situazioni di natura coloniale ha poi trovato

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ulteriore conferma nella sentenza della CIG su Timor Est (1995). Alla luce di questa evoluzione, assumono quindi un nuovo significato le disposizioni della Carta delle Nazioni Unite. Oggi le norme in questione assumono il loro pieno significato, come norme che salvaguardano l'autodeterminazione dei "popoli". La Corte suprema del Canada, nel pronunciarsi (negativamente) sulla pretesa del Quebec di secedere dalla madrepatria, ha affermato che l'autodeterminazione spetta alle ex colonie, ai popoli assoggettati ad una dominazione militare straniera, e "ad un gruppo sociale ben definito, che si vede rifiutare un accesso effettivo alle autorità pubbliche, rivolto ad ottenere il suo sviluppo politico, economico, sociale e culturale" (1998). La sentenza della Corte suprema del Canada è conforme al par. 7 della Risoluzione sulle relazioni amichevoli, nella parte relativa al principio di autodeterminazione. La Risoluzione non legittima la secessione ma, come si può argomentare a contrario, la protezione dell'integrità territoriale vale nella misura in cui il governo al potere sia rappresentativo dell'intero popolo, senza discriminare quanto a razza, credo o colore. Le minoranze non sono popoli e non sono titolari di un diritto di autodeterminazione (esterna). Per le minoranze, la dimensione interna dell'autodeterminazione può essere attuata mediante la concessione dell'autonomia. La difficoltà di distinguere tra popolo e minoranze rende difficile l'applicazione di queste nozioni. Ad es. la risoluzione 1244(1999) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite relativa al Kosovo, provincia della Repubblica federale di Iugoslavia prima dell'intervento della Nato, da un lato ribadisce l'integrità territoriale della Repubblica federale di Iugoslavia, dall'altro si indirizza alla popolazione del Kosovo come popolo e non come minoranza. Il mantenimento con la forza o il ristabilimento di una dominazione coloniale sono contrari al principio di autodeterminazione dei popoli. La decolonizzazione, che da tempo è stata completata, è ormai un fatto meramente storico. Altre potenzialità del principio in esame vanno ricercate in relazione all'uso della forza. Anche se questo è conforme alle Nazioni Unite (ad es. legittima difesa), il popolo il cui Stato sia stato debellato resta al riparo del principio di autodeterminazione. Il belligerante vittorioso, pertanto, non potrebbe annettersi lo Stato debellato. 7 - I crimini internazionali Vengono tradizionalmente definiti crimini internazionali attività individuali lesive di beni particolarmente protetti dal diritto internazionale. La gravità della lesione è tale che essa arreca un grave pregiudizio all'intera comunità internazionale, con la conseguenza che tutti gli Stati membri sono in linea di principio interessati alla repressione dei crimini internazionali. I crimini internazionali possono essere commessi da semplici individui oppure da individui organi (ad es. crimini di guerra). Gli atti lesivi, anche quando siano compiuti da individui organi e quindi ulteriormente imputabili a uno Stato, restano in qualche modo propri degli individui che li hanno commessi, e il diritto internazionale autorizza la loro repressione senza tener conto della qualità di organi statali degli individui che hanno compiuto l'atto. Viene cioè meno la cosiddetta immunità organica. L'attuale distinzione dei crimini internazionali in tre categorie può essere fatta risalire all'Accordo di Londra dell'8 agosto 1945, istitutivo del Tribunale di Norimberga. L'art.6 dell'Accordo distingueva i crimini internazionali nelle seguenti categorie: crimini contro la pace; crimini di guerra; crimini contro l'umanità. La ripartizione operata dall'Accordo è ormai unanimemente accolta in dottrina e trova conferma nella prassi internazionale e nelle successive codificazioni, quantunque le figure criminose rientranti attualmente nelle tre categorie (in particolare i crimini di guerra e i crimini contro l'umanità) siano notevolmente accresciute - quanto al nomen e al contenuto - rispetto a quelle elencate nell'art.6 dell'Accordo di Londra. Appartiene alla categoria dei crimini contro la pace l'aggressione. L'art. 6 dell'Accordo di Londra dell'8 Agosto 1945, che qualifica la guerra di aggressione come crimine internazionale, non definisce però in cosa essa consista. Si limita a qualificare come crimini contro la pace i seguenti atti: "progettazione, preparazione, scatenamento e continuazione di una guerra di aggressione o di una guerra in violazione di

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trattati, accordi o garanzie internazionali, ovvero partecipazione a un piano concertato o ad un complotto per commettere uno qualsiasi di tali atti. L'aggressione è uno dei crimini rientranti nella giurisdizione della CPI (art. 5, par. 1). Ma la Corte potrà esercitare la propria giurisdizione solo quando il crimine sia stato definito mediante la procedura di emendamento dello Statuto. La conferma che la guerra di aggressione sia un crimine contro la pace è data da due risoluzioni dell’Assemblea Generale adottate mediante Consensus. Un elenco di crimini di guerra è contenuto nell'art. 6, dell'Accordo di Londra dell'8 agosto 1945. La disposizione qualifica come crimini di guerra i seguenti reati: l'uccisione, i maltrattamenti o la deportazione per costringere a compiere lavori forzati, o a qualunque altro fine, delle popolazioni civili nei territori occupati. Più precise sono sul punto le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 ed il I Protocollo addizionale del 1977. Le Convenzioni considerano infrazioni gravi gli atti commessi contro le persone protette che sono sotto il potere del nemico: malati, prigionieri, naufraghi, civili dei territori occupati. Un elenco di crimini internazionali è altresì contenuto nell'art. 3 dello Statuto del Tribunale per la ex-Iugoslavia. Anche in questo caso, come dell'art. 6, b), dell'Accordo di Londra, l'elenco non è tassativo. Un elenco di crimini di guerra è contenuto nell'art. 8 dello Statuto della CPI. L'elenco, ai fini della giurisdizione della Corte, è tassativo. Tradizionalmente, i crimini di guerra erano crimini internazionali tipici dei conflitti armati internazionali. Fino a poco tempo fa, la dottrina si chiedeva se un crimine di guerra poteva essere compiuto nel corso di un conflitto armato non internazionale. Oggi è un fatto acquisito che tali crimini possano essere compiuti anche in occasione di un conflitto interno, come si evince dalla giurisprudenza del Tribunale per la ex-Iugoslavia. Un elenco dei crimini contro l'umanità è contenuto nell'art.6, dell'Accordo di Londra dell'8 Agosto 1945. Vengono ivi considerati crimini contro l'umanità lo sterminio o la riduzione di popolazioni in schiavitù. Tuttavia tali crimini venivano dichiarati punibili in quanto fossero perpetrati in esecuzione dei crimini di guerra o dei crimini contro la pace. Tale connessione non ha più ragione di essere. Appartiene sicuramente alla categoria dei crimini contro l'umanità il genocidio, benché negli statuti dei tribunali per la ex-Iugoslavia e per il Ruanda e nello statuto della CPI tale crimine sia tenuto distinto dai crimini contro l'umanità (art. 6), mentre Il genocidio è qualificato come crimine internazionale da vari strumenti. Gli Statuti dei Tribunale per la ex-Iugoslavia e per il Ruanda indicano una serie di atti (omicidio, sterminio, riduzione in schiavitù, espulsione, imprigionamento, tortura, stupro, persecuzione per ragioni politiche, razziali e religiose, altri atti inumani) che costituiscono crimini contro l'umanità, qualora siano diretti contro la popolazione civile. Tra i crimini contro l'umanità viene fatta rientrare anche la pirateria iuris gentium, la cui nozione è oggi data dall'art. 15 della Convenzione di Ginevra del 29 aprile 1958 sull'alto mare e dall'art. 101 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982. Il crimine consiste nella perpetrazione di atti di violenza, detenzione e depredazione commessi, per fini privati, da equipaggi o passeggeri di una nave od aeromobile privato contro un'altra nave od aeromobile (o persone e beni che si trovino a bordo). Dai crimini internazionali occorre tenere distinti i crimini di diritto interno internazionalmente imposti. Si tratta di reati normalmente previsti dagli ordinamenti nazionali che, al contrario dei crimini internazionali, non sono configurati autonomamente dall’ordinamento internazionale. Controverso è se il terrorismo possa essere qualificato come crimine internazionale. Le convenzioni finora stipulate, che hanno ormai raggiunto il numero di 14, hanno per oggetto singoli atti di terrorismo, che vengono repressi obbligando gli stati a qualificarli come crimini nella loro legislazione interna. Manca però, a livello di diritto convenzionale, una definizione generale di terrorismo; uno dei punti più controversi, per il completamento di una convenzione internazionale in materia riguarda lo status dei movimenti di liberazione ed il ricorso alla violenza nei territori sotto occupazione, che i paesi afroasiatici non intendono qualificare come atti di terrorismo. La repressione dei crimi internazionali può avvenire ad opera dei tribunali internazionali oppure ad opera dei tribunali interni; Il concorso tra questi è disciplinato dalle regole esposte nello Statuto della Corte della Corte penale internazionale o nelle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza istitutive dei tribunali penali ad hoc. Il principio del’ universalità della giurisdizione, qualora venga applicato senza nessun limite, comporta dei

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problemi politici e diplomatici di tutto rilievo: il Belgio ha dovuto emendare la propria legislazione dopo la sentenza della Corte internazionale di giustizia che ha trovato contrario al diritto internazionale il mandato di arresto contro il Ministro degli affari esteri del Congo, e le proteste di Stati Uniti ed Israele per i procedimenti aperti rispettivamente contro il Segretario di Stato C. Powell per la guerra in Kosovo, ed il Primo Ministro A. Sharon per i massacri di Shabra e Shatila in Libano. La legge del 2003 subordinò così l’azione penale all’esistenza di un collegamento tra il reato e l’ordinamento belga (nazionalità belga del presunto colpevole, commissione del crimine nei confronti di un cittadino belga o di persona residente in Belgio da almeno tre anni dalla commissione del reato). Anche la legge tedesca è ispirata al principio dell’universalità della giurisdizione, secondo quanto stabilito dalla sezione I del Codice dei crimini entro il diritto internazionale del 26 Giugno 2002. L’azione penale è obbligatoria, tuttavia, se il reato è stato commesso all’estero, la vittima non è di nazionalità tedesca ed il presunto reo non è presente in Germania, l’azione penale diventa discrezionale.

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Il trattamento delle persone fisiche e giuridiche straniere La problematica relativa al trattamento delle persone fisiche e giuridiche straniere era un tempo oggetto di un esame autonomo da parte della dottrina. Con il progredire dello spazio di protezione in ambito dei diritti umani, tale problematica è diventata strettamente connessa con quella della protezione della persona umana. Ciò detto è innegabile la tendenza a costruire le norme a protezione dello stato cui lo straniero appartiene, ma come norme a protezione dell’individuo.

1 – L’ammissione e l’allontanamento degli stranieri Lo stato è libero di ammettere o meno gli stranieri all’interno del proprio territorio. Tuttavia, secondo parte di una dottrina esiste una norma consuetudinaria che vieta l’espulsione di massa degli stranieri da parte di uno stato. Ad esempio, nell’unione europea i cittadini hanno il diritto di circolazione secondo i termini stabiliti dall’art.18 del Trattato CE. Particolari condizioni sono riservate ai lavoratori transfrontalieri, che percorrono una fascia di confine a cavallo di due stati, questi stessi stati si accordano per la reciproca ammissione dei rispettivi cittadini con dei trattati ad hoc, cioè: Trattati di amicizia, Trattati di commercio e Trattati di navigazione. Lo stato può vincolare l’accesso agli stranieri al possesso documento d’identità, in genere è il passaporto o il visto d’ingresso. Per gli apolidi, che non hanno cittadinanza, viene rilasciato un documento di viaggio dall’organizzazione competente o dallo stato in cui sono stati stanziati. I rifugiati o richiedenti asilo, secondo l’art.14 della dichiarazione dei diritti dell’uomo, attribuisce ad ogni individuo di cercare e godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni, ma questa non ha fonte di diritto. La convenzione del 1951, stabilisce che il rifugiato non può essere respinto dallo stato verso frontiere che rappresentino una minaccia. L’art.10 comma 3 della costituzione italiana stabilisce che allo straniero che nel suo paese gli è negata la libertà democratica ha diritto di asilo. Questa norma è una disposizione liberale, che in passato era considerata una programmatica, successivamente con la sentenza della Corte di Cassazione del 1997, ha acquistato una sfera soggettiva più ampia, e dopo altre successive sentenze, si è stabilito che il richiedente asilo dovrà dimostrare l’effettivo perseguimento nello stato di provenienza. Per quanto riguarda l’immigrazione, gli stati non hanno nessun obbligo di ammettere sul proprio territorio i migranti in assenza di un accordo internazionale. In precedenza gli stati di origine delle migrazioni stipulavano accordi con gli stati che accoglievano gli immigranti. Tra i recenti strumenti di contrasto all’immigrazione clandestina è da segnalare il protocollo sul traffico illegale di migranti in via marittima, terrestre e aerea, allegato alla Convenzione di Palermo del 2000, stipulata nel quadro delle Nazioni Unite. 2 – Il trattamento degli stranieri Lo straniero non gode di nessun privilegio da parte dello stato ospitante ed è sottoposto alla giurisdizione del territorio, ma non è soggetto agli stessi doveri e diritti dei cittadini, per esempio non può essere obbligato alla prestazione del servizio militare, tranne che abbia da tempo la residenza nel territorio dello stato, ma quest’obbligo può essere imposto all’apolide residente in Italia. Lo stato è libero di arruolare gli stranieri come volontari nel proprio esercito. Gli stranieri non sono sottoposti ad imposte dirette personali e non godono dei diritti politici connessi alla cittadinanza. Per l’unione europea, i cittadini degli stati membri hanno il diritto di circolare liberamente all’interno di tali stati e svolgere un’attività di lavoro subordinato o una professione liberale. In caso di arresto, lo straniero ha diritto all’assistenza in giudizio da parte di un difensore; La convenzione di Vienna del 1963, obbliga lo stato che procede all’arresto dello straniero ad informalo del suo diritto a rivolgersi alla propria autorità consolare. Le due regole che hanno per oggetto il trattamento degli stranieri sono quelle relative al minimum standard internazionale e al diniego di giustizia. Per il minimum standard internazionale, si intende il trattamento che deve essere riservato allo straniero secondo quello che è lo standard delle nazioni civili. Il diniego di giustizia ha per

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oggetto l’accesso dello straniero ai tribunali dello stato territoriale. Lo straniero ha il diritto che la sua causa sia udita da un tribunale locale, se questo viene impedito lo stato territoriale commette un illecito internazionale. Il tribunale locale può respingere la domanda poiché l’oggetto del ricorso non è giustiziabile o perché il convenuto gode immunità dalla giurisdizione. Oggi le due nozioni sono in parte superate dalle norme in materia di diritti dell’uomo, per quanto riguarda il minimum standard, occorre far riferimento alle norme che riguardano un determinato trattamento per tutti, mentre per quanto riguarda il diniego di giustizia si deve far riferimento al processo equo. Nell’ordinamento italiano, l’art.16 delle disposizioni preliminari del codice civile, prevede che lo straniero sia ammesso a godere dei diritti civili attribuiti al cittadino a condizione di reciprocità. La disposizione aggiunge che questo vale anche per le persone giuridiche straniere. Questa disposizione, però, è in buona parte superata dalla successiva legislazione che stabilisce che i diritti inviolabili dell’uomo e l’uguaglianza davanti alla legge si applichino a tutti, italiani e stranieri. Per quanto riguarda la reciprocità, invece, questa non potrebbe essere applicata agli stranieri comunitari, poiché sarebbe in contrasto con l’art.12 del Trattato CE. Che vieta le discriminazioni sulla base della nazionalità. Inoltre, il Testo unico sull’immigrazione e la condizione dello straniero del 1988 disciplina la materia in relazione ai diritti civili degli stranieri extra-comunitari in possesso del permesso di soggiorno, con la conseguenza che tale categoria di stranieri non è soggetta a reciprocità. 3 – Le persone giuridiche Per le persone giuridiche valgono gli stessi diritti delle persone fisiche. Il diritto di stabilimento può essere accordato solo con atto unilaterale dello stato territoriale o mediante un trattato che di solito prevede la reciprocità. 4 – La cittadinanza delle persone fisiche e la nazionalità delle persone giuridiche Per l’attribuzione automatica della cittadinanza gli stati usano due criteri: Ius sanguinis, l’essere discendente di un proprio cittadino; Ius soli, l’essere nato nel territorio. La cittadinanza si può acquisire anche per naturalizzazione, cioè mediante un provvedimento dello stato territoriale. La libertà degli stati in materia di attribuzione della cittadinanza è riconosciuta dall’art.1 comma 1 della convenzione internazionale dell’Aja, secondo cui spetta a ciascuno stato determinare con la propria legislazione quali sono i suoi cittadini. Il secondo comma aggiunge che tale legge deve essere compatibile con le convenzioni internazionali, con la consuetudine internazionale e con i principi di diritto generalmente riconosciuti in materia di cittadinanza. L’art.3 della convenzione europea sulla cittadinanza del 1997 è conforme a quanto stabilito dalla convenzione dell’Aja. Per quanto riguarda il diritto convenzionale, si deve ricordare l’art.9 della convenzione sul divieto di tutte le forme di discriminazione razziale nei confronti delle donne del 1979, che obbliga gli stati a garantire che il matrimonio con uno straniero possa automaticamente mutare la cittadinanza della moglie o renderla apolide. Il protocollo facoltativo alla convenzione di Vienna del 1961 sulle relazioni diplomatiche, stabilisce che i membri della missione e i familiari conviventi non acquisiscano la cittadinanza dello stato accreditatario. La cittadinanza può essere acquisita per effetto di una successione fra stati, cioè gli individui, abitualmente residenti in un territorio oggetto di un mutamento di sovranità, acquisiscano automaticamente la cittadinanza dello stato successore. Nell’ordinamento italiano, la cittadinanza è disciplinata dalla legge 91 del 1992, che ha abrogato quella precedente del 1912. La legge attuale è ispirata al criterio dello ius sanguinis, ma prevede anche l’acquisizione della cittadinanza per naturalizzazione. Per quanto riguarda le persone giuridiche, l’attribuzione della nazionalità ricade nel dominio riservato degli stati. La nazionalità è determinata con riferimento allo stato in cui la persona è stata costituita. Tale criterio vale in particolare per le società commerciali, e viene fatto riferimento, con terminologia di common law, al luogo di incorporazione della società.

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5 – La protezione diplomatica delle persone fisiche e giuridiche Il CDI ha adottato nel 2006 un progetto di articoli sulla protezione diplomatica. La violazione di una norma internazionale che crea un danno ad una persona fisica o giuridica, dovrà essere lo stato di cui la persona è cittadino o abbia la nazionalità, ad intervenire in protezione diplomatica nei confronti dell’autore dell’illecito. Di regola il cittadino non ha alcun diritto che lo stato nazionale eserciti la protezione diplomatica, ma questo dipende dall’ordinamento statale interno. Lo stato può intervenire solo dopo che l’individuo o la persona giuridica abbia esaurito tutti i mezzi di soluzione a disposizione nell’ordinamento statale che ha commesso l’illecito. Questo per un criterio economico, poiché Se l’individuo riesce ad ottenere la soddisfazione delle proprie pretese di fronte ai tribunali dello stato che ha commesso l’illecito, il ricorso dello stato nazionale non è più spendibile e sotto il profilo internazionale l’illecito non si sarebbe neppure prodotto. Possono esserci delle clausole in cui si richiede di rinunciare alla protezione diplomatica utilizzando solo quella locale. L’esercizio della protezione diplomatica spetta allo stato di cui l’individuo ha la cittadinanza. Per gli apolidi vale il criterio della residenza. Se l’individuo ha doppia cittadinanza vale il principio della nazionalità effettiva, cioè con cui ha il legame più stretto. Il problema è più complicato quando si tratta di determinare la nazionalità delle persone giuridiche, in particolare quando gli azionisti sono tutti o in parte stranieri o quando c’è una dissociazione fra il luogo d’incorporazione e la sede amministrativa. Qua entra in gioco l’art 9 del progetto che ammette che possa essere considerato come stato nazionale uno stato diverso da quello del luogo d’incorporazione, solo se sono soddisfatti alcuni criteri: La società è controllata da cittadini di un altro stato; La sede di costituzione della società è meramente nominale e la sua sede amministrativa e il suo controllo finanziario si trovano all’estero; La società non svolge nessuna attività sostanziale nel luogo d’incorporazione. Lo scopo di una regola così rigida è quello di evitare una molteplicità d’interventi in protezione diplomatica, ma resta tuttavia aperta la questione di determinare se tale regola corrisponda al diritto consuetudinario (es. nel caso Barcelona Traction – Società costituita in Canada, dichiarata fallita in Spagna e la maggior parte degli azionisti era di nazionalità belga- la Corte internazionale di giustizia, sentenziò che il Belgio non poteva intervenire in protezione diplomatica, ma doveva farlo il Canada perché era lì che la società si era costituita) L’art.12 del progetto ammette l’esercizio della protezione diplomatica nel caso in cui lo stato di nazionalità degli azionisti intervenga nei confronti di questi perché gli azionisti sono vittime di un danno diretto, distinto da quello arrecato alla società, ma la corte internazionale di giustizia ha stabilito che può intervenire solo lo stato in cui la società si è costituita, ma lo stato di nazionalità degli azionisti può intervenire solamente se essi abbiano subito un danno diretto dei loro diritto, ad esempio: il dividendo o il voto in assemblea. La risoluzione adottata dall’ILA nella sessione di Toronto, nel 2006 ha stabilito che lo stato di nazionalità degli azionisti può intervenire se lo stato di costituzione della società non possa o non voglia intervenire. 6 – Le nazionalizzazioni Le misure restrittive della proprietà degli stranieri sono varie. In genere si distingue tra: Nazionalizzazioni, che hanno per oggetto un’intera categoria di beni e servizi e sono attuate mediante provvedimenti legislativi (es. energia elettrica, giacimenti petroliferi); Espropriazioni, che hanno per oggetto i singoli beni e sono eseguite tramite un provvedimento amministrativo, che nel caso di motivazione di pubblica utilità prevedono un indennizzo; Confisca, ovvero l’ acquisizione forzosa di un bene senza la corresponsione di un indennizzo (es. beni mafiosi e proventi di illeciti). Nella terminologia anglosassone si tende a raggruppare le diverse forme di misure restrittive o privative della proprietà degli stranieri sotto la dizione di taking of foreign property. Vi possono essere misure equivalenti: eccessiva tassazione, misure restrittive penalizzanti la commercializzazione dei beni dell’impresa e si chiamano espropriazioni indirette o striscianti. Le nazionalizzazioni sono legittime purchè siano corrisposte da un indennizzo , altrimenti lo stato commette

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un illecito. Il problema più controverso riguarda proprio l’indennizzo: le sue modalità sono oggetto di controversia tra gli stati esportatori di capitale e gli stati che ospitano gli investimenti. Secondo gli stati esportatori le modalità sono quelle elaborate dal segretario di stato USA, Cordell Hull, cioè pronto adeguato ed effettivo, quindi deve corrispondere al suo valore reale, e versato in moneta convertibile, come si evince dalla corrispondenza diplomatica con il governo messicano del 1938, che aveva espropriato la proprietà fondiarie di cittadini americani. Gli stati del terzo mondo, che ospitano gli investimenti, non contestano l’obbligo di corrispondere l’indennizzo, ma affermano che questo dovrebbe essere determinato secondo l’ordinamento interno dello stato ospite, tenendo conto delle sue capacità finanziarie. Questa seconda interpretazione è fatta dalla carta dei diritti e doveri economici degli stati. Sebbene contestata, la formula Hull deve essere considerata come corrispondente al diritto consuetudinario ed è stata inserita in molteplici trattati bilaterali sulla protezione degli investimenti. Recenti trattati multilaterali, come il NAFTA e il trattato sulla carta dell’energia, ribadiscono tale formula, secondo cui l’indennizzo deve essere equivalente al “fair market value”. 7 – La protezione degli investimenti all’estero Tra stati esportatori e importatori si sono create delle tensioni che hanno messo a repentaglio gli investimenti di persone fisiche e giuridiche. La decolonizzazione ha alimentato un forte risentimento antioccidentale e ben presto i nuovi stati, che compongono la maggioranza in seno all’ Assemblea generale delle Nazioni Unite, sono riusciti a far adottare importanti risoluzioni, quali quelle sulla sovranità permanente degli stati sulle loro ricchezze naturali, che hanno influenzato il diritto degli investimenti. La caduta dei regimi comunisti ha fatto riemergere il dogma dell’economia di mercato, ma il livellamento ideologico non ha fatto venir meno il rischio per gli investimenti all’estero, quali mutamenti legislativi nel paese ospite, espropriazioni o nazionalizzazioni e guerre civili, hanno dato il via alla ricerca di adeguati meccanismi di protezione. I contratti di concessione sono stipulati tra persone fisiche o giuridiche straniere e lo stato ospitante. Pur non essendo ancora accordi internazionali, trovano il loro fondamento giuridico negli ordinamenti interni dei singoli stati. Uno dei modi con cui gli investitori si proteggono da mutamenti legislativi indesiderati consiste nella stipulazione di clausole di stabilizzazione volte a rendere privi di effetti eventuali mutamenti successivi, ma il valore di queste clausole è dubbio. Per coprirsi dai rischi non commerciali, l’investitore ha ora a disposizione meccanismi di garanzia che si sommano a quelli esistenti negli ordinamenti interni. La convenzione di Seul del 1985, ha istituito l’Agenzia di garanzia degli investimenti multilaterali (MIGA), che appartiene al gruppo Banca Mondiale. L’agenzia assicura rischi derivati da espropriazioni, guerre civili e violazioni di obblighi contrattuali da parte dello stato ospite. Una volta pagato l’indennizzo, la MIGA si surroga nei diritti dell’investitore nei confronti dello stato ospite, il che presuppone che questo approvi preventivamente la garanzia. Naturalmente possono esserci accordi tra lo stato ospite e lo stato nazionale degli investitori, poiché questo tipo di accordi riguardano sia l’ingresso dell’investitore straniero, sia la protezione dell’investimento. In materia di protezione degli investimenti è fondamentale la soluzione delle controversie tra investitore e stato ospite. Uno degli strumenti di successo è rappresentato dal Centro internazionale per la risoluzione delle controversie in materia di investimenti (ICSID); Esso è stato istituito dalla convenzione di Washington del 15 marzo 1965, ed è attualmente collocato presso la banca mondiale. Il centro amministra sia una procedura di conciliazione, sia una procedura di arbitrato. La prima ha lo scopo di facilitare un accordo tra le parti per la soluzione della controversia mediante raccomandazioni ad hoc, la seconda, invece, ha natura contenziosa e si conclude con l’adozione di un lodo vincolante per le parti. La ratifica della convenzione non vale come consenso all’arbitrato, tuttavia con una disposizione ad hoc, lo stato può esprimere ex ante tale consenso, con la conseguenza che l’investitore può portare il caso direttamente dinnanzi all’ICSID. Uno stato può richiedere che l’investitore esaurisca i rimedi interni prima di ricorrere all’arbitrato, ma questa condizione deve essere espressamente pattuita. La sottoposizione della controversia ad arbitrato ICSID esclude che possa essere invocata la protezione diplomatica. La sentenza arbitrale ha efficacia esecutiva all’interno di qualsiasi stato

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contraente della convenzione ICSID senza l’esperimento di una procedura ad hoc dettata generalmente per il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze straniere. Le regole per l’esecuzione forzata della sentenza sono quelle dello stato in cui la sentenza deve avere esecuzione. Se lo stato ospite rifiuta, la protezione diplomatica rivive. Il tribunale ICSID applica il diritto indicato dalle parti, in mancanza di ciò, applicherà il diritto dello stato ospite e le regole di diritto internazionali rilevanti. I rimedi contro una sentenza ICSID sono: la richiesta di un giudizio di interpretazione; la revisione; l’annullamento. I tribunali interni non sono in nessun caso coinvolti, e la domanda deve essere presentata al presidente ICSID che provvede a nominare, tra le persone che figurano all’interno delle liste degli arbitri, un comitato ad hoc di tre membri. I rimedi non possono essere individuati sul piano dell’ordinamento interno.

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La responsabilità internazionale Con il termine responsabilità internazionale si indicano le relazioni giuridiche vengono ad esistere come conseguenza della commissione del fatto illecito. Relazioni che consistono in un rapporto giuridico tra lo Stato autore dell'illecito e lo Stato leso. Mentre nel diritto interno si distingue tra responsabilità civile e penale, nel diritto internazionale la responsabilità è unica, ma è più assimilabile a quella civile perchè le conseguenze dell'illecito non sono pene bensì obblighi di riparare il fatto illecito. Il primo tentativo di codificazione della materia è stato compiuto nel 1955, tuttavia, ad oggi il Progetto resta in una sorta di limbo. 1 – Gli elementi costitutivi del fatto illecito Secondo l’ art.2 del Progetto, vi sono due elementi costitutivi del fatto illecito: un elemento oggettivo, che consiste nella violazione di una norma; un elemento soggettivo, ovvero l’ attribuzione della condotta ad uno Stato. La CDI ha distinto tra illecito istantaneo (es. confisca) e continuato (es. occupazione di territorio altrui). Il danno, inteso come pregiudizio materiale o morale, conseguente alla violazione della norma, è escluso come elemento costitutivo del fatto illecito, così come il dolo. Secondo alcuni stati è solo il danno e non la semplice violazione a generare responsabilità. Tra gli elementi costitutivi del fatto illecito non figura neanche la colpa, poiché il Progetto è orientato verso un regime di responsabilità oggettiva. L’elemento soggettivo della colpa, è imputabile allo Stato secondo la condotta di un suo organo (esecutivo, legislativo e giudiziario) mentre non lo è la condotta di semplici individui, a meno che la condotta di quest'ultimi non venga avallata e fatta propria dallo Stato (es. come è avvenuto nel caso degli ostaggi a Teheran nel 1979, in quanto la CIG imputò all’Iran di aver omesso di prendere le misure necessarie per proteggere i diplomatici statunitensi). In questo caso lo Stato è responsabile. Azioni commesse da privati individui a danno di individui o organi stranieri non impegnano la responsabilità dello stato, tranne che per complicità o omissioni volontarie di misure volte ad impedire tali comportamenti; in caso contrario Lo Stato non risponde dei danni provocati dagli insorti, dei quali risponderà l'eventuale nuovo governo. L’elemento oggettivo del fatto illecito consiste in una condotta, omissiva o commissiva, contraria ad una norma di diritto internazionale; non rileva a questo riguardo, la natura della norma violata, ma solo se tale norma sia effettivamente in vigore per lo stato al momento in cui la violazione è stata posta in essere. 2 – La responsabilità indiretta e la partecipazione nell’illecito altrui Per responsabilità indiretta la responsabilità indiretta è la responsabilità dello Stato per un'azione od omissione commessa da un altro Stato in violazione del diritto internazionale. Nella responsabilità indiretta siamo in presenza di tre soggetti, lo Stato leso, lo Stato che ha materialmente commesso l'illecito, lo Stato ritenuto formalmente responsabile perchè ha: fornito aiuto o assistenza nella commissione dell'illecito, ha diretto o controllato il fatto o ha costretto (es. con minacce di ritorsioni economiche) uno Stato a commettere l'illecito. La CDI ha individuato tre fattispecie in cui la responsabilità dello stato, che non ha commesso materialmente la violazione del diritto internazionale, viene in considerazione:

L’aiuto o assistenza nella commissione dell’illecito si realizza quando lo stato assiste o aiuta un altro nella commissione dell’illecito. L’illecito è connesso dal secondo stato, altrimenti si tratterebbe di una commissione congiunta della violazione (es. quando lo stato facilita il rapimento di persone sul proprio territorio o lo mette a disposizione per la commissione di violazioni del diritto internazionale)

La seconda fattispecie si realizza quando uno stato dirige e controlla un altro stato nella commissione dell’illecito; una figura che poteva venire in considerazione in passato nei rapporti tra stato protettore e stato protetto, agendo il secondo sotto la direzione ed il controllo del primo.

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La terza fattispecie è quella in cui uno stato esercita la coercizione nei confronti di un altro affinché questi commetta l’illecito. La coercizione può essere militare, ma anche economica, e non è necessariamente illecita.

3 – Le cause di esclusione del fatto illecito

Le cause di esclusione del fatto illecito possono essere invocate per evitare la responsabilità internazionale conseguente alla violazione di un obbligo, ma non possono essere utilizzate nel caso che sia stata violata una norma imperativa del diritto internazionale, ed in ogni caso resta integro l'obbligo di versare, almeno in certi casi, un indennizzo al soggetto danneggiato (es. durante la guerra tra Iran ed Iraq, il primo colpì per errore una nave da guerra USA, e pur escludendo che fosse stato commesso un illecito internazionale, l’Iraq versò agli Stati Uniti un congruo indennizzo. Nel Progetto della CDI, le cause di esclusione sono:

Consenso dell'avente diritto (art.20), una causa di esclusione del fatto illecito presente anche nel diritto interno, seppur contornato da limiti.

Legittima difesa (art.21), è una causa di esclusione del fatto illecito che opera in relazione al divieto dell’uso della forza.

Contromisure (art.22), possono consistere in una violazione del diritto internazionale pattizio o consuetudinario, ma le contromisure comportanti l'uso della forza armata sono proibite (rappresaglie). La Contromisura è distinta dalla ritorsione.

Forza maggiore, l'atto illecito dovuto a forza maggiore deve essere la conseguenza del sopravvenire di una forza irresistibile o di un avvenimento imprevedibile che rende impossibile agire in conformità all'obbligo. L'evento in questione può essere naturale o prodotto dall'uomo.

Estremo pericolo (distress), l'autore dell'atto illecito non aveva altro mezzo che quello per salvare la propria vita o quella di persone affidate alle sue cure.

Stato di necessità (art.25), l'atto illecito "necessitato" deve essere il solo mezzo per salvaguardare un interesse essenziale di fronte ad un pericolo grave ed imminente e non deve compromettere gravemente un interesse essenziale dello Stato leso. Lo stato di necessità non può essere invocato per fare appello alla necessità militare.

4 – Le conseguenze del fatto illecito Tradizionalmente le conseguenze del fatto illecito, secondo il Progetto della CDI, consistevano nell’obbligo dell’autore dell’illecito di effettuare una riparazione e nel diritto dello stato leso di comminare una contromisura (rappresaglia), volta ad ottenere l’esecuzione delle riparazioni. Le conseguenze derivanti dall’illecito sono:

Cessazione dell'illecito (nel caso si tratti di un illecito continuato): si tratta di un obbligo che viene in considerazione quando un illecito ha carattere continuativa, non in un illecito istantaneo.

Assicurazioni e garanzie di non reiterazione: si tratta di un obbligo appartenente al diritto internazionale consuetudinario; qualora permanga il rischio di una reiterazione vengono chieste determinate garanzie, quali l'abrogazione di una legislazione contraria al diritto internazionale, o misure più drastiche, quali il disarmo dello stato aggressore.

Riparazione: lo Stato leso ha diritto ad ottenere una riparazione integrale per ogni danno, materiale o morale, subito. La riparazione può assumere varie forme, tra loro combinabili: la restituzione consiste nel ristabilire lo status quo ante, cioè nel ripristinare la situazione preesistente all'il lecito; il risarcimento si applica se la restituzione non è materialmente possibile (il bene è andato distrutto), e si fornisce una somma che deve ricoprire per intero danni morali e materiali; la soddisfazione vale per i

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danni non quantificabili, di natura morale, ed in genere consiste nella richiesta di un riconoscimento della violazione, scuse formali o la punizione dei diretti responsabili (nel caso si tratti di individui).

5 – Le contromisure come rimedio per ottenere l’adempimento degli obblighi derivanti dall’illecito La commissione del fatto illecito fa sorgere in capo al soggetto leso il potere di comminare una contromisura nei confronti dell’offensore. Le contromisure hanno natura temporanea e devono essere per quanto possibile reversibili nei loro effetti. Prima di comminare una contromisura lo Stato leso deve invitare l'offensore ad adempiere ai propri obblighi ed avvisarlo dell'imminente contromisura. Le contromisure devono poi essere proporzionali all'offesa subita e hanno un termine finale (corrispondente a quando l'offensore decide di adempiere ai suoi obblighi). Le contromisure non possono pregiudicare il divieto dell'uso della forza, essere contrarie a norme cogenti di diritto internazionale, pregiudicare il divieto di rappresaglia e l'obbligo di tutelare i diritti umani. 6 – La distinzione tra crimini internazionali dello stato e delitti L’art.19 del Progetto di articoli sulla responsabilità internazionale adottato in prima lettura dalla CDI, distingueva tra crimini internazionali dello stato e delitti. Come esempi di crimini internazionali venivano indicati: l’aggressione, l’istituzione o il mantenimento con la forza di una dominazione coloniale, la schiavitù, il genocidio, l’apartheid, l’inquinamento massiccio dell’atmosfere e dei mari. La distinzione non ha resistito alle critiche ed è stata eliminata, mentre è stata introdotta la voce "violazione grave", che si verifica quando viene violata una norma imperativa del diritto internazionale e quando questa violazione avviene su larga scala o viene attuata in modo sistematico, organizzato e deliberato (aggressione, genocidio). 7 - La nozione di stato leso e il diritto di invocare la responsabilità internazionale In linea di principio, solo lo Stato leso ha la possibilità di invocare la responsabilità internazionale, a meno che lo Stato aggressore non abbia violato una norma istitutiva di vincoli validi erga omnes. Vi sono poi dei casi in cui è difficile identificare lo Stato leso (ad es. se uno stato viola i diritti umani non offende un altro stato ma commette un illecito internazionale). La CDI distingue tra "Stato leso" e "Stato diverso dallo Stato leso". Solo lo Stato leso può adottare contromisure, mentre gli altri Stati in determinati casi possono adottare le cosiddette misure lecite, che non sono contrarie al diritto consuetudinario. Il Progetto, all’ art.48 ha determinato anche la posizione di quegli stati che non possono essere considerati “stati lesi”, ma che comunque sono toccati dalla violazione, poiché l’obbligo è stabilito nei confronti di un gruppo di stati a tutela di un interesse collettivo. Per gli stati diversi dallo stato leso, l’art.54 del progetto accorda loro il diritto di adottare misure lecite contro lo stato responsabile per costringerlo a cessare l’illecito e ad effettuare la riparazione nell’interesse dello stato leso o dei beneficiari dell’obbligo violato. 8 – La responsabilità del fatto illecito Il progetto di articoli sulla responsabilità internazionale non si occupa della responsabilità per fatto lecito, cioè della responsabilità derivante da azioni conformi alla norma internazionale ma che possono causare danni a un soggetto di diritto internazionale. Nel 2006 è stata adottato un progetto di articoli sulla prevenzione del danno transfrontaliero provocato da attività rischiose; La questione non è ancora stata chiarita del tutto ma rilevante in merito è il principio di precauzione. Questo comporterebbe l'obbligo di

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agire preventivamente per evitare il rischio di provocare un danno, anche se non è certo che questo si debba verificare (principio valido per le questioni ambientali ed umanitarie). In secondo luogo, esistono delle convenzioni al cui interno si disciplina espressamente la responsabilità per danni per attività non contrarie al diritto internazionale ma rischiose; esistono inoltre alcune pronunce di tribunali internazionali che hanno confermato il principio che lo stato territoriale deve tenere indenni i terzi per attività rischiose esercitate nel suo territorio. Tuttavia rimane ancora incerto se il principio di precauzione possa già considerarsi parte del diritto consuetudinario, ed alla mancanza di una disciplina generale sulla responsabilità internazionale dello stato per attività rischiose, si è in qualche modo supplito mediante la stipulazione di convenzioni internazionali di diritto uniforme che prevedono la responsabilità civile dell’operatore. 9 – La responsabilità delle organizzazioni internazionali la CDI sta studiando la questione della responsabilità delle organizzazioni internazionali dal 2002. Il problema essenziale per la tematica, nel caso venga commesso da esse un illecito internazionale, è se siano responsabili le organizzazioni o gli Stati loro membri. In linea di principio se l'organizzazione è dotata di personalità internazionale sarà considerata responsabile. Solo nel caso in cui l'organizzazione non provveda a risarcire lo Stato leso questo potrà invocare la responsabilità internazionale dei singoli Stati membri. Il problema della responsabilità delle OI è sorto con le operazioni di peace-keeping dell'ONU. Nel caso specifico l'ONU ha accettato di assumersi la responsabilità internazionale per le violazioni del diritto internazionale commesse dagli appartenenti alla forza di pace ONU in Congo nel 1960. La responsabilità delle Nazioni Unite per le conseguenze dannose derivanti da atti dei propri agenti è stata affermata in via generale dal parere della Corte internazionale di giustizia del 1999 sull'Immunità della giurisdizione di un relatore speciale della Commissione dei diritti umani.

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Il divieto dell’uso della forza 1 – La disciplina dell’uso della forza prima dell’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite Il problema dell’uso della forza nelle relazioni fra Stati costituisce da sempre un punto nevralgico fondamentale nell’ambito del diritto internazionale. Prima dell’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite, gli stati godevano di un’ampia libertà di ricorrere alla forza armata; la Carta ha quasi abolito questa libertà, portando a termine un processo le cui tappe fondamentali sono segnate dal Patto (Covenant) della Società delle Nazioni, dal Patto Kellog-Briand e dalla sentenza del Tribunale di Norimberga. La norma generale sul divieto dell’uso della forza internazionale si è dunque formata solo in epoca recente, intorno al periodo fra le due guerre mondiali (è ormai ritenuta appartenente anche allo ius cogens). Essa proibisce qualunque atto bellico extra statuale che possa ledere la sovranità di Stati terzi e, quindi, tutte quelle attività militari che sarebbero così qualificabili. Anteriormente al patto della società delle nazioni, gli stati godevano di un illimitato ius ad bellum, la guerra era considerata un mezzo per la soluzione delle controversie internazionali e poteva venire dichiarata a tutela di semplici interessi. Seguirono timide manifestazioni della tendenza a limitare il ricorso alla forza armata (es. l’art.1 convenzione Aia del 1899 e il Patto della Società delle Nazioni), ma la tappa fondamentale del processo volto a limitare e bandire il ricorso alla guerra è considerata la conclusione del patto Kellogg-Briand nel 1928, composto di soli 3 articoli che sancisce la rinuncia alla guerra come strumento di politica nazionale e ne condanna il ricorso come strumento per la risoluzione delle controversie internazionali, che dovevano essere risolte esclusivamente con mezzi pacifici. Il patto però lasciava ampie zone grigie e non bandiva espressamente le misure vicine alla guerra come l’intervento e le rappresaglie armate. Il patto servì comunque a gettare le basi giuridiche dei processi di Norimberga e di Tokyo, dal momento che condannava la guerra come strumento di politica internazionale. L’Accordo di Londra del 1945, istitutivo del Tribunale di Norimberga, definì all’art.6, la guerra di aggressione un crimine internazionale, in particolare un crimine contro la pace. 2 – Il contenuto della proibizione stabilita dall’art.2, par.4, della Carta delle Nazioni Unite Il sistema esistente precedentemente alla Seconda guerra mondiale è stato completamente rivoluzionato con l’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite (24 Ottobre 1945). L’ architettura disposta dall’ art.2 prevede un divieto generale di ricorso alla forza armata; i membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall'uso della forza, sia contro l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite; nonostante non abbia funzionato nella sua interezza, il divieto della forza è rimasto un principio fondamentale, da qualificare ormai come norma imperativa del diritto internazionale. Il principio del divieto dell’uso della forza è un principio fondamentale tanto che, la CIG nel caso Nicaragua-Stati Uniti ha affermato che questo principio appartiene al diritto consuetudinario, e norma imperativa del diritto internazionale almeno nel suo nucleo essenziale relativo al divieto di non aggressione. Importante perché le cause di esclusione del fatto illecito operano nei confronti di una norma di diritto internazionale consuetudinario, ma non operano in relazione ad una norma che abbia natura imperativa. All’art.2 per “forza” si intende forza armata. Ciò è confermato da un interpretazione sistematica del testo e dai lavori preparatori. In ogni caso non è vietato solo l’uso della forza armata, ma anche la sua minaccia. Non è facile determinare cosa possa costituire una minaccia ella forza, a parte alcuni esempio macroscopici come un ultimatum, ma ad esempio: la costituzione e la messa a punto di un notevole livello di armamento, da parte di uno stato, può essere considerata una minaccia nei confronti degli stati vicini? La CIG ha dovuto affermare nella stessa sentenza che per il diritto internazionale consuetudinario non esistono vincoli al livello di armamento di uno stato, semmai questi possono derivare dal diritto pattizio. La proibizione contenuta all’art.2 par.4 non ha ad oggetto qualsiasi minaccia o uso della forza, ma solo quelli esercitati dagli stati nelle loro relazioni

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internazionali come l’ultimatum (es. nel 1998 la NATO lanciò un ultimatum alla Repubblica Federale di Iugoslavia, minacciando l’uso della forza se non si fosse messa fine ai maltrattamenti della popolazione albanese nella regione del Kosovo; nel 2003 il Presidente USA G.W. Bush lanciò un ultimatum all’Iraq intimando a Saddam Hussein di lasciare il paese pena l’invasione). Inoltre si precisa che il divieto ha ad oggetto sia la forza usata contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica sia in qualunque altra materia incompatibile con i fini delle Nazioni Unite. Nono sono dunque da condividere quelle teorie, riformulate di recente, secondo cui la proibizione dell’uso della forza non avrebbe più valore quando il sistema di sicurezza collettiva non funziona; in tal caso la legittimità del ricorso alla forza armata sarebbe da valutare sulla base di principi etici mediante una pericolosa reviviscenza del concetto di guerra “giusta”. 3 – Le eccezioni al divieto dell’uso della forza 3.1 – La legittima difesa: La legittima difesa, disciplinata dall’art.51 della Carta, è un eccezione alla proibizione dell’uso ella forza nelle relazioni internazionali, comunque facente parte del diritto internazionale consuetudinario. La sentenza dell’affare Nicaragua-Usa ha portato un notevole chiarimento sul contenuto, ma molteplici aspetti restano ancora controversi. Il momento a partire del quale tale diritto può essere esercitato è stabilito dopo che sia abbia avuto luogo un attacco armato, o anche prima nell’imminenza dello stesso (legittima difesa preventiva). Al riguardo ci sono due opposte interpretazioni: una a favore che fa essenzialmente leva sulla considerazione che la legittima difesa preventiva esisteva già prima dell’entrata in vigore della Carta; l’altra sottolinea il fatto che la Carta afferma testualmente la liceità della legittima difesa preventiva solo dopo che u attacco armato sia stato sferrato. In realtà questa seconda opinione non pare condivisibile nella sua assolutezza, anche perché un interpretazione letterale dell’art.51 porterebbe ad un risultato manifestamente assunto o irragionevole, del resto pare ammissibile anche secondo coloro che adottano le teoria restrittiva della legittima difesa che questa possa essere esercitata quando l’attacco sia in corso d’opera o sia stato sferrato, ma non abbia ancora colpito il territorio altrui. A conclusione si deve ritenere che la legittima difesa può essere esercitata anche prima di aver subito un attacco armato, ma nell’imminenza dello stesso. Ovviamente il concetto di imminenza di un attacco armato deve essere inteso in senso restrittivo per evitare abusi. La nozione di legittima difesa preventiva è stata notevolmente ampliata dalla cosiddetta dottrina sulla “guerra preventiva”, formulata dal presidente degli Stati Uniti G. W. Bus. Affinché il diritto di legittima difesa possa essere esercitato, occorre che si verifichi una violazione dell’art.2 par.4 particolarmente qualificata (es. nel 2006 Israele intervenne in Libano invocando la legittima difesa dopo il lancio di alcuni missili da parte di Hezbollahal confine con la linea armistiziale con il Libano)). La nozione di attacco armato è complicata dall’identificazione dei beni che devono essere oggetto di violenza affinchè si possa reagire in legittima difesa. Tra tali beni rientrano prima di tutto il territorio e i corpi di truppa lecitamente stanziati all’estero e navi o aeromobili militari. Controverso è il caso delle navi mercantili e gli aeromobili civili. È altresì importante determinare le caratteristiche e le modalità dell’attacco armato, nonché la sua entità. In effetti un attacco armato può essere compiuto non solo mediante le forze armate di uno stato, ma anche mediante gruppi armati non immediatamente inquadrabili nell’organizzazione politico militare di uno stato, ma agenti secondo le sue direttive, gli atti compiuti in questa modalità sono allo stato imputabili. Si tratta di aggressione indiretta. Costituisce l’invio da parte di uno stato o in suo nome di bande o gruppi armati o mercenari che compiano atti di tale gravità da equivalere ad un vero e proprio attacco armato compiuto da forze irregolari. Anche se l’art. 51 non specifica nulla si deve ritenere che da diritto a reagire in legittima difesa anche un attacco proveniente da entità non statali, il problema si è posto dopo l’attacco alle Torri gemelle e al Pentagono nel 2001, alle quali gli Stati Uniti reagirono in legittima difesa contro l’Afghanistan, stato che ospitava il movimento terroristico Al-Qaeda, con il sostegno di due risoluzioni del Consiglio di sicurezza. La reazione in legittima difesa, come ogni altro uso lecito della forza, deve essere esercitata nei limiti posti dai due criteri della necessità e della proporzionalità. Tali condizioni non sono espressamente menzionate

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all’art.51 ma appartengono al diritto consuetudinario. Cosa si intende per necessità? Necessità di legittima difesa urgente ed irresistibile tale da non lasciare la scelta dei mezzi e il tempo di deliberare: Il criterio dell’immediatezza deve essere inteso in termini elastici. È ovvio che se uno stato dopo avere compiuto un attacco armato si ritira ed entra nei propri confini, una successiva e tardiva reazione da parte dello stato leso si configura più come una reazione di rappresaglia che come esercizio di legittima difesa. Questo criterio impedisce di invocare la legittima difesa quando un occupazione si sia consolidata nel tempo. La legittima difesa ha un termine finale nel senso che essa deve cessare non appena il CDS abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Comunque lo stato che agisce il legittima difesa ha il dovere di portare a conoscenza il CDS delle misure intraprese in modo che questo possa accertare se l’azione intrapresa costituisca effettivamente legittima difesa e non mascheri un aggressione (quest’obbligo ha natura convenzionale e non consuetudinaria). Non sono ammessa misure in legittima difesa “segrete” (secret wars) (es. le azioni clandestine intraprese a partire dal 1982 dagli Stati Uniti contro il Nicaragua a favore del Salvador). 3.2 – L’uso della forza autorizzato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: La prassi ormai prova l’esistenza di una norma secondo cui gli stati possano utilizzare la forza su autorizzazione del Consiglio di sicurezza. La questione riguarda però la sicurezza collettiva, di cui ci occuperemo successivamente. 3.3 – Le misure contro stati ex-nemici: Gli art.107 e 53 della Carta delle Nazioni Unite prevedono la possibilità di intraprendere misure contro stati ex-nemici, di cui godono i membri delle Nazioni Unite individualmente (art.107) o associati in un’organizzazione regionale (art.53). Nella seconda ipotesi, infatti, l’azione coercitiva dell’organizzazione regionale può essere intrapresa senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza. L’applicazione dell’art.107fu minacciata dall’Unione Sovietica nei confronti della Repubblica Federale Tedesca, quando questo non era ancora membro delle Nazioni Unite. E’ però ormai opinione comune che il ricorso a tali misure non sia più possibile nei confronti di stati ex-nemici divenuti membri delle Nazioni Unite; dunque con l’ingresso di tutti i 193 stati indipendenti nell’Organizzazione delle Nazioni Unite, le due disposizioni qui richiamate sono cadute in desuetudine. 3.4 - Il consenso dell’avente diritto: Il consenso dell’avente diritto opera come una causa di esclusione dell’illeceità poiché, anche in diritto internazionale, si applica il diritto volenti non fit iniura; pertanto quando uno stato entra in un territorio altrui con il consenso dello sovrano territoriale, in questo caso non verrà commesso alcun illecito. Il consenso può venir prestato oralmente o in un accordo internazionale in forma scritta. Quali sono i requisiti? Il consenso deve essere prestato da un ente effettivamente rappresentativo (es. gli Stati Uniti per intervenire in Grenada nel 1983, dove si verificò un colpo di stato, si appellarono alla richiesta di aiuto del Governatore generale, che nell’ ordinamento del Commonwealth britannico rappresenta il capo di stato); La manifestazione di volontà del sovrano territoriale deve essere valida, cioè non affetta dai vizi della volontà ed essere espresso in conformità delle disposizioni del diritto interno; l’azione dello stato che interviene non deve essere contraria alle norme che obbligano di tenere un determinato comportamento e non solo nei confronti dello stato territoriale , ma anche nei confronti di altri o di tutti i membri della comunità internazionale; Il consenso non deve essere contrario ad una norma imperativa di diritto internazionale (es. discussa in dottrina è la validità del Trattato di garanzia del 1960 stipulato da Cipro da un lato, e Grecia, Regno Unito e Turchia dall’altra, che accordò il diritto intervento collettivo ai tre stati garanti allo scopo di garantire il mantenimento in vigore delle disposizioni fondamentali della Costituzione cipriota. Sulla base della possibilità di intervento unilaterale in caso di impossibilità di un intervento collettivo si verificò l’intervento turco del 1974 che divise Cipro in due distinte comunità). 3.5 – L’Intervento a favore dei cittadini all’estero: Prima dell’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite, era altresì considerato lecito l’uso della forza a protezione dei cittadini all’estero, quando questi versassero in pericolo di vita; gli stati occidentali ammettono la liceità dell’uso della forza a protezione dei

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cittadini all’estero, ma i paesi del terzo mondo ne affermano la contrarietà al diritto internazionale (es. nel 2008 la Federazione russa intervenne in Georgia a seguito del tentativo di riappropriarsi manu militari delle due provincie separatiste dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, giustificandosi con la necessità di dover proteggere i cittadini russi stanziati in quei territori). 3.6 - Intervento d’umanità: consiste nell’uso della forza per proteggere i cittadini di uno stato territoriale da trattamenti inumani e degradanti. Tale tipo d’intervento era considerato illecito anche prima dell’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite. Ad oggi un ingerenza umanitaria, fondata sull’uso della forza, non trova alcun fondamento nel diritto internazionale, poiché per essere giuridicamente ammissibile deve essere decisa o autorizzata dal Consiglio di Sicurezza, così come ribadito dalla Corte Internazionale di giustizia nel 1986 nel caso Nicaragua-Stati Uniti. Si può solo ammettere che a partire dall’intervento in Iraq per assistere le popolazioni curde da parte di Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Italia nel 1991, alcuni stati occidentali (Regno Unito in primis) si sono pronunciati a favore della liceità dell’intervento di umanità. Esso non costituisce aggressione, purché si tratti effettivamente d’intervento volto a salvaguardare la popolazione dello Stato territoriale da trattamenti inumani da parte del governo al potere. Per questo motivo l’illeceità d’intervento può essere sanata da una successiva risoluzione del Consiglio di Sicurezza (es. intervento NATO in Kosovo del 1999). 3.7 – Il problema della rilevanza di altre cause di esclusione del fatto illecito: Esistono tradizionali cause di esclusione del fatto illecito che possano essere invocate a giustificazione del ricorso alla forza armata? L’art.2 par.4 non prevede espressamente un divieto al ricorso alle rappresaglie armate; il divieto è sancito in strumenti posteriori, quali la dichiarazione sulle relazioni amichevoli o Atto finale d Helsinki sulla Sicurezza europea. Sul punto si è soffermato più volte anche il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, benchè di fronte ad un’uniformità di condanna in termini astratti delle rappresaglie armate, motivi politici abbiano spesso indotto ad una selettività delle condanne in termini concreti. Gli Stati consapevoli della proibizione delle rappresaglie armate, preferiscono affermare che la loro azione è qualificabile come legittima difesa, quando invece si tratta di una rappresaglia. Altra tradizionale causa di esclusione del fatto illecito, è lo “stato di necessità”, che consente di agire in territorio altrui per far fronte ad un pericolo grave ed imminente per un “interesse essenziale”, nonostante lo stato i cui diritti vengono lesi sia innocente, cioè non imputabile di alcun illecito internazionale. Oltre allo stato di necessità sono da annoverare altre tradizionali cause di esclusione del fatto illecito, che possono giustificare la violazione dell’altrui sovranità territoriale: la forza maggiore ed una situazione di “distress”. Nel caso della forza maggiore, un evento esterno induce l’individuo-organo a violare una norma giuridica (es. un sommergibile che a causa di un’avaria sia trascinato dalla corrente delle acque interne di un altro stato). Nella situazione di distress o estremo pericolo, l’individuo organo è costretto a violare una norma giuridica allo scopo di salvare sé o altri a lui affidati da un grave pericolo. Ben altra rilevanza avrebbe un'altra causa di esclusione del fatto illecito derivante dalla liceità di azioni comportanti l’uso della forza armata nell’interesse della comunità internazionale. Nel caso di violazioni di obblighi erga omnes (es. divieto di genocidio), gli stati potrebbero intervenire per prevenirne la violazione o per impedire che essa si prolunghi; l’art.48 del Progetto di articoli stabilisce infatti che lo stato non direttamente leso, possa invocare la responsabilità del trasgressore, qualora sia violato un obbligo nei confronti della comunità internazionale. 4 – La legittima difesa collettiva L’art.51 della Carta delle Nazioni Unite attribuisce agli stati non solo un diritto alla legittima difesa individuale, ma anche collettiva. Ciò significa che uno stato, benché non sia oggetto di un attacco armato, può intervenire a favore di uno stato che ha subito tale attacco. La sentenza della CIG sull’affare Nicaragua-Stati Uniti ha espressamente statuito l’appartenenza al diritto consuetudinario internazionale di tale diritto.

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Naturalmente perché tale diritto possa essere esercitato devono verificarsi le stesse condizioni della legittima difesa individuale. Un ulteriore limitazione per lo stato terzo che intende intervenire risiede nel fatto che uno stato non può intervenire a favore di un altro contro un terzo senza che la vittima abbia constatato di essere stata oggetto di un attacco armato ed abbia richiesto l’intervento in suo favore. Quindi è solo la vittima che dovrà accertare l’esistenza dell’attacco e determinare se convenga reagire senza l’aiuto di un altro stato o chiamare in soccorso un altro soggetto di diritto internazionale. Se chiamato in causa lo stato interveniente deve effettuare un “giudizio di verifica”: se infatti le condizioni in questione non sussistessero, lo stato interveniente commetterebbe un illecito internazionale, nonostante le richieste dello stato che pretende di essere riconosciuto vittima di un attacco armato, imminente o in atto. 5 - Patti militari per l’organizzazione della difesa collettiva Questi patti organizzano la legittima difesa collettiva. Essi sono perfettamente legittimi purchè conformi all’art.51 della Carta ONU, disposizione che viene espressamente richiamata accanto agli obblighi procedurali che essa dispone. Uno dei primi patti stipulati in materia di legittima difesa collettiva è il Patto di Bruxelles del 1948, successivamente emendato dal Protocollo di Parigi del 1954. Ben altra importanza è da attribuire al trattato istitutivo della Nato concluso nel 1949, in cui le parti all’art.5 stabiliscono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato quale attacco diretto contro tutte le parti e di conseguenza convengono che ognuna di esse nell’esercizio del diritto di legittima difesa individuale o collettiva riconosciuto all’art.51 della Carta, assisterà la parte o le parti cosi attaccate, intraprendendo immediatamente , individualmente e di concerto con le altre, l’azione che giudicherà necessaria, compreso l’esercizio della forza armata per ristabilire e mantenere la sicurezza nella zona dell’Atlantico settentrionale. Pertanto si evince che non si tratta di un obbligo di assistenza automatico, perché ognuno presterà l’assistenza che giudicherà necessaria. È stato per la prima volta attivato dopo l’11 settembre 2001. Inoltre questo trattato definisce i beni che se oggetto di attacco armato fanno scattare il meccanismo di legittima difesa collettiva. Tali beni sono: territorio, forze armate, navi ed aeromobili (non specificando se militari o anche civili). Si ritiene che con il l’accrescersi del fenomeno terroristico gli attacchi possano esser sferrati anche da entità non statali. Anche gli stati del continente americano hanno istituito il loro patto di difesa collettiva nell’ ambito del Trattato interamericano di assistenza reciproca , o Trattato di Rio del 1947 con il successivo protocollo di emendamento di San Josè del 1975. 6 – Il divieto dell’uso della forza della Costituzione italiana Al riguardo, sono da prendere in considerazione gli articoli 10 e 11 della Costituzione. L’articolo 10 al primo comma non tratta direttamente del divieto dell’uso della forza armata, ma è la norma che dispone l’adattamento del diritto interno al diritto consuetudinario e al diritto cogente. Ne consegue che nel nostro ordinamento sono proibite tutte le azioni contrarie al diritto consuetudinario e al diritto cogente. L’art. 11 contiene un’autonoma disposizione sul divieto dell’uso della forza e di apertura alle organizzazioni internazionali competenti nel campo del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Ci sono 3 disposizioni che vanno lette congiuntamente: Ripudio della guerra; Consente limitazioni di sovranità necessarie ad assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni; Esprime un impegno a favorire le organizzazioni internazionali volte a promuovere tale scopo (pace e giustizia). L’art.11 non vieta però qualsiasi tipo di conflitto, ma solo quello volto ad offendere la libertà degli altri popoli, e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Quindi vieta la guerra di aggressione, ma non una guerra in legittima difesa, sia che si tratti di difendere il territorio nazionale, sia che si tratti di venire in soccorso di uno stato aggredito. Quanto alle limitazioni di sovranità esse sono state inserite per permettere l’ingresso dell’Italia nell’ Organizzazione delle Nazioni Unite, ma esse sono consentite solo in condizioni di parità con gli altri stati.

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Tra l’altro l’art.11 vieta solo la guerra, ma non dispone in merito agli interventi militari non qualificabili come guerra, garantendo pertanto piena legittimità alle operazioni di peace-enforcement decise dall’ONU, ed alle azioni comportanti l’uso della forza autorizzate dal Consiglio di Sicurezza (es. intervento umanitario).

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La sicurezza collettiva 1 – Il capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite ed il sistema di sicurezza collettivo Nella Carta bisogna distinguere le disposizioni riguardanti l’uso della forza che riguardano gli stati individualmente considerati da quelle relative al sistema di sicurezza collettiva che fa capo al Consigli di Sicurezza. Al primo gruppo appartengono le disposizioni che stabiliscono un divieto generale di usare la forza nelle relazioni internazionali e le relative eccezioni (divieto stabilito all’art.2 par.4 della Carta, le eccezioni hanno per oggetto la legittima difesa e individuale e collettiva all’art.51 e le azioni contro gli ex stati nemici all’art.53 e 107). Mentre il sistema di sicurezza collettiva fa perno sull’art.39 della Carta e seguenti, che prevedono un azione del CDS per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Queste sono misure che il CDS può adottare in base al capito VII, che comprendono anche il ricorso alla forza (hanno per oggetto l’uso della forza anche alcune disposizioni rientranti nel capitolo VII relative alle azioni intraprese dalle organizzazioni regionali, tali azioni devono essere autorizzate dal CDS o svolte sotto la sua direzione). Pertanto si ritiene che il CDS ha competenza esclusiva su questo tipo di azioni, infatti l’art.24 gli affida la responsabilità principale per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. L’art. 11 par.2 impone all’assemblea generale l’obbligo di deferire al CDS qualsiasi questione relativa al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale per cui si renda necessaria un’azione. In materia le funzioni del Consiglio non possono essere esercite da altri organi. Esso può emanare delle delibere non vincolanti come delle raccomandazioni o delibere vincolanti le decisioni, entrambi i tipi di delibere sono adottate con il voto favorevole di 9/15 membri tra cui i membri permanenti tutti. Visto ciò i membri permanenti hanno un diritto di veto, con il loro voto negativo possono bloccare una delibera. In genere le misure coercitive sono prese dopo che sia stata accertata l’esistenza di una minaccia alla pace, violazione della pace o un atto di aggressione. Una minaccia alla pace può derivare non solo da un’ostilità tra due o più stati, ma anche da una situazione all’interno di uno stato, dove esempio è i corso una guerra civile, oppure da una situazione astratta come la proliferazione delle armi di distruzione di massa. Una violazione delle pace è in genere lo scoppio di ostilità tra due stati, per quel che riguarda l’aggressione, la sua definizione è contenuta nella risoluzione n° 3314 dell’assemblea generale. Il Consiglio di Sicurezza può raccomandare o decidere l’adozione di misure coercitive non comportanti l’uso della forza armata. L’art.41 detta un elenco non tassativo, comprendente l’interruzione totale o parziale delle relazioni economiche e delle comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, postali, telegrafiche, radiofoniche e rottura delle relazioni diplomatiche. Tali misure dovranno essere obbligatoriamente seguite dagli stati membri solo se oggetto di una decisione (es. come nei casi di quelle adottate nel 1966 contro la Rhodesia del Sud, nel 1977 contro il Sud Africa, nel 1990 contro l’Iraq, nel 1991 in relazione all’embargo sulle forniture di armi ai paesi dell’ex-Jugoslavia, nel 1993-93 contro la Libia etc.). Queste decisioni ex art.41 sono ormai diventate frequenti ed incidono profondamente non solo sull’economia degli stati oggetto delle sanzione, presentano dei problemi anche sotto il profilo umanitario, tant’è che lasciano uno spazio controllato dal CDS per l’invio di medicinali e derrate alimentari, oppure la possibilità di emanare delle risoluzioni mirate che stabiliscono solo l’embargo delle armi oppure misure nei confronti di una particolare categoria di beni o individui o entità non statali. Altra tipica azione del CDS è l’adozione di misure provvisorie ex art.40 ad esempio il “cessate il fuoco” allo scopo di prevenire un aggravarsi della situazione. Possono essere oggetto di una decisione, secondo alcuni anche di una decisione con effetti giuridici vincolanti. Questa tesi troverebbe conferma nella prassi del Consiglio di Sicurezza. Il CDS qualora decida di intraprendere azioni coercitive comportanti l’uso della forza armata adotterà una delibera contenente misure tra quelle contemplate all’art.27 par.3. come le altre anche queste possono essere oggetto del potere di veto da parte dei membri permanenti e ciò spiega perché durante la guerra fredda conflitti di grande importanza in cui sono state direttamente o indirettamente impegnate le grandi potenze, hanno visto le Nazioni Unite ai margini (es. nel 1950 durante la guerra di Korea, il Consiglio di Sicurezza si

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ritrovò incapace di agire a causa del veto dell’URSS) mentre nel 1990 quando si verificò l’occupazione del Kuwait da parte dell’Iraq il CDS abbia fatto frequentemente ricorso ai suoi poteri. Si tratta però di una prassi che è durata 10 anni, messa in crisi con l’intervento della Nato contro la Repubblica federale di Jugoslavia nel 1999 e poi con quello degli Usa e Regno Unito in Iraq nel 2003, che ha segnato una profonda divisione nel Consiglio. Anche qui i poteri di intervento non spettano solo nel caso di conflitto internazionale, ma anche nel caso di guerra civile, qualora quest’ultimo metta in pericolo la pace o in presenza di altre situazioni interne quali il genocidio. Inoltre l’applicazione di misure coercitive non è preclusa per il fatto che si tratti di materie che ricadono nel dominio riservato di uno stato. Meritano un cenno i tentativi di riforma dell’Organizzazione che vanno avanti da oltre un decennio, che hanno trovato un’accelerazione con l’intervento del Segretario Generale nel 2003, che ha incaricato il Panel di Alto livello di redigere un Rapporto mirato ad offrire proposte di riforma concrete: tra i punti di maggior rilievo figura l’aumento dei membri del Consiglio di Sicurezza, permanenti e non. Anche se non si è ancora arrivati a risultati concreti, i lavori di riforma del CDS sono tutt’ora all’ ordine del giorno dei lavori dell’Assemblea generale. 2 – L’intervento armato da parte del Consiglio di Sicurezza Qualora si ritenga che per far fronte alla situazione occorrano misure più incisive o nei casi in cui le misure ex art.41 si sono rivelate inadeguate, il Consiglio di Sicureza può intraprendere una vera e propria operazione militare mediante forze aeree, navali o terrestri. L’adozione di misure ex art. 41 non è preliminare all’intervento armato. Tale azione può consistere in dimostrazioni o blocchi ed altre operazioni militari. Il CDS agisce mediante truppe mese a disposizione dagli stati membri e coordinate da un comitato di stato maggiore composto dai capi di stato maggiore dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. A sua discrezione, esso può decidere se impiegare in una determinata operazione tutti i membri delle Nazioni Unite o solo alcuni di essi. In realtà subito dopo l’entrata in vigore della Carta gli stati avrebbero dovuto stipulare accordi ad hoc in cui avrebbero dovuto essere indicati in dettaglio i contingenti che ciascuno stato avrebbe messo a diposizione del Consiglio a sua richiesta, ma gli accordi in questione non sono mai stati stipulati, tanto che le operazioni di polizia effettuate dall’ ONU hanno finito per assumere una fisionomia diversa da quella originariamente prevista. 3 – Le operazioni per il mantenimento della pace Questo tipo di operazioni sono divenute frequenti dopo la fine della guerra fredda. Le forze di mantenimento della pace hanno operato sia nel quadro di conflitti armati internazionali (es. UNEF-I 1956, in occasione della crisi di Suez) quanto in quello di conflitti interni (in questo caso aiutano il governo legittimo a mantenere la legge e l’ordine, o garantiscono la distribuzione di aiuti umanitari o operano come forza di interposizione tra governo legittimo e fazioni avversarie come nel 1960 con la missione ONUC istituita dopo l’indipendenza del Congo). Esse si distinguono dalle azioni coercitive per il fatto di essere attuate con il consenso dello stato territoriale, tant’è che parte della dottrina le colloca in una zona grigia tra il capito VI relativo alla soluzione pacifica delle controversie e il capitolo VII relativo al mantenimento della pace e della sicurezza, ma il CDS nel predisporre missioni di peace-keeping ha sempre fatto riferimento al capitolo VII. Di regola sono effettuate sotto la direzione del segretario generale dietro apposita delega del CDS, che può essere prorogata anche un notevole numero di volte. Il Segretario ha il compito di costituire la forza, queste operazioni fanno capo ad un dipartimento ad hoc, istituito nell’ambito del segretariato generale: il dipartimento per le operazioni di peace-keeping. Per tali operazioni il dipartimento utilizza due tipi di meccanismi:

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Stand-by Arrangement: in questo caso gli stati membri tengono a disposizione dei contingenti addestrati per compiti di peace-keeping, che restano sotto il comando nazionale prima di essere trasferiti sotto comando delle Nazioni Unite; assegnazione all’ONU comporta la stipulazione di un accordo ad hoc, il CDS non può fare riferimento su queste forze se non dopo l’accordo. La decisione finale spetta dunque allo stato fornitore, che può anche negare l’invio del contingente

Shirbrig: Nel secondo caso c’è una stretta cooperazione tra stati fornitori e CDS fin dal momento in cui gli stati partecipanti destinano un contingente a prestare servizio. Ma anche in questo caso i contingenti restano sotto il comando nazionale prima di assumere servizio in ambito Onu. Tale cooperazione con il fatto che la brigata deve essere una forza d’intervento rapido.

Secondo il segretario generale le operazioni di mantenimento della pace dovrebbero avere le seguenti 3 caratteristiche: svolgersi con il consenso delle parti; essere imparziali; non comportare l’uso della forza se non in legittima difesa. Tutto ciò è però in contrasto con le necessità reali, come dimostra il caso della Somalia, quando nel 1992. durante l’UNOSOM II dovette impiegare l’uso della forza; in ex-Jugoslavia l’UNPROFOR fu affiancata da operazioni di natura coercitiva (peace-enforcement) affidate agli stati e alla NATO. Una missione di mantenimento della pace può svolgersi anche quando siano terminate le ostilità. 4 – L’uso della forza autorizzato dal Consiglio di sicurezza Nella prima fase della Guerra di Corea, nel 1950, l’assenza del rappresentante dell’ Unione Sovietica in seno al Consiglio di Sicurezza, permise l’adozione di una delibera in cui venne autorizzato l’utilizzo della bandiera ONU da parte degli stai interventisti operanti sotto il comando unificato degli Stati Uniti; successivamente fu considerata contrastante con l’art.42 della Carta, che attribuisce al solo Consiglio di intraprendere direttamente le azioni contemplate in tale disposizione. Con la fine della guerra fredda, la raggiunta unanimità in seno al CDS ha permesso l’adozione di delibere non proprio ortodosse secondo le disposizioni della Carta, con cui i membri dell’ONU sono stati autorizzati ad usare la forza per conto dell’organizzazione o su sua delega. Infatti l’uso della forza riguarda le organizzazioni regionali. Il fondamento delle delibere autorizzative da ricercare in una consuetudine particolare formatasi nell’ambito delle Nazioni Unite, secondo il combinato disposto dagli art.42 e 28 della Carta. Si badi bene al fatto che il Consiglio può autorizzare gli stati ad usare la forza, ma non può obbligarli (es. riguardo la ex-Jugoslavia, gli stati membri della NATO e gli altri stati, sono stati autorizzati ad istituire la IFOR, forza multinazionale sotto comando e controllo unificato allo scopo di supervisionare l’esecuzione dell’accordo di pace sull’ex Jugoslavia. Successivamente questa è stata sostituita dalla SFOR di dimensioni più ridotte guidata dalla NTO). Dopo l’intervento, ancora una volta da parte della NATO, in Kosovo nel 1999 con una risoluzione ha autorizzato gli stati e le organizzazioni internazionali rilevanti ad istituire una forza di sicurezza internazionale (KFOR). Altro esempio recente è la risoluzione del Consiglio di sicurezza che ha autorizzato l’uso della forza per il contrasto della pirateria nelle acque somale, con possibilità di compiere azioni anche sul territorio (tutto ciò con il solo consenso nominale del Governo Federale Transitorio della Somalia). Ovviamente il CDS oltre ad autorizzare prima, possibilità che gli è riconosciuta implicitamente dall’art.2 della Convenzione sulla sicurezza del personale delle Nazioni Unite, può anche autorizzare ex post l’uso della forza. Ciò costituirebbe una sorta di sanatoria dell’atto (es. l’intervento NATO in Kosovo, a seguito del quale il Consiglio ha posto in essere una regolarizzazione dell’azione contro la Repubblica Federale di Jugoslavia; l’approvazione dell’operazione condotta dall’ECOWAS in Liberia nel 1990, senza che essa fosse stata autorizzata dal Consiglio). La legittima difesa invece, non necessita di nessuna autorizzazione per poter essere esercitata, anche se spesso il Consiglio tende a deliberare risoluzioni che raccomandano di intervenire in favore di uno stato membro aggredito (es. ris. Del 1984 che raccomandò l’intervento a favore dell’Angola, posta sotto attacco dal Sud Africa; ris.648 del 1990, con cui il Consiglio autorizzò, con una formula abbastanza impropria quanto ambigua, ad usare ogni “mezzo necessario per l’immediato ritiro delle truppe irachene che avevano occupato il Kuwait).

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5 – Il problema della liceità delle operazioni per il mantenimento della pace intraprese al di fuori delle Nazioni Unite L’istituzione di forze multinazionali fuori delle Nazioni Unite è stata a suo tempo criticata dal segretario generale, il quale ha ricordato come il compito di mantenere la pace e la sicurezza spettasse all’organizzazione. Sotto il profilo giuridico deve precisarsi come queste operazioni siano lecite purché abbiano luogo con il consenso del sovrano territoriale. Inoltre forze di mantenimento della pace al di fuori sono state create proprio per l’impossibilità di funzionamento in determinate occasioni delle Nazioni Unite, del resto queste possono istituire forze per il mantenimento della pace solo quando ci sia sufficiente consenso tra i membri permanenti e il sovrano territoriale. L’impossibilità del funzionamento dell’Organizzazione in passato era dovuta all’opposizione in seno al CDS di membri di uno dei due schieramenti contrapposti (es. il Trattato di pace tra Egitto ed Israele del 1979, che prevedeva la creazione di una forza delle Nazioni Unite con il compito di vigilare e garantire l’esecuzione di tale accordo, non vide mai la luce a causa dell’opposizione dell’Unione Sovietica; in sua vece venne istituita nel 1982 la MFO del tutto svincolata dal sistema delle Nazioni Unite). La fine della guerra fredda non ha eliminato la necessità di istituire operazioni di mantenimento della pace al di fuori delle Nazioni Unite, esse restano un dato della prassi, che potrebbe servire dal modello qualora se ne presentasse la necessità. 6 – Le organizzazioni regionali L’art.52 della Carta salvaguarda le funzioni degli accordi o delle organizzazioni regionali per il mantenimento della pace. Per poter essere qualificata come regionale ai sensi del capitolo VIII l’organizzazione deve avere i seguenti requisiti: Essere un organizzazione regionale; Avere competenza nel campo del mantenimento della pace e sicurezza internazionale; Essere conforme ai fini delle Nazioni Unite per quel che riguarda l’attività esercitata. Corrispondono a tali requisiti: L’Organizzazione degli Stati Americani, la Lega Araba, l’Unione Africana, e l’Unione Europea. La NATO invece, pur avendo i requisiti si rifiuta di essere qualificata come organizzazione regionale per non dover essere subordinata alle disposizioni della Carta che richiedono uno stretto collegamento con le Nazioni Unite. Tali organizzazioni possono funzionare come patto per l’organizzazione delle legittima difesa collettiva, in tal caso i membri fanno collettivamente quello che avrebbero fatto individualmente. Non necessitano in questo caso dell’autorizzazione del CDS perché agiscono conformemente all’art.51 Carta, e possono dunque effettuare operazioni di peace-keeping senza autorizzazione da parte del Consiglio, a meno che non sia espressamente richiesta dall’atto istitutivo dell’organizzazione. Possono effettuare operazioni coercitive su delega o su autorizzazione del CDS, come si evince dagli art.48 e 53, che nel qual caso saranno svolte sotto la direzione del Consiglio o su sua diretta autorizzazione.