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INTRODUZIONE AI LIBRI SAPIENZIALI 1. Il concetto di sapienza Bibliografia. G.Von Rad, La sapienza in Israele, Marietti Torino, 1975. Testo basilare sulla letteratura Sapienziale. L.Alonso Schokel - L. Sicre Diaz, Proverbi, Borla Roma, 1986. Vedi soprattutto i due capitoli introduttivi. M.Gilbert, "Sapienza", in NDTB 1427-1442. Veloce e chiara introduzione, ottima per una visione d'insieme. R.E.Murphy, L'albero della vita, Queriniana Brescia, 1993. Tra i testi recenti forse la migliore introduzione. 1.1. La Sapienza e la sua conoscenza specifica I libri sapienziali si differenziano dai libri storici e profetici fin dalla prima lettura. Se nella letteratura sapienziale è presente la creazione, sembra però del tutto assente la Storia della salvezza. Spesso i sapienziali sono stati per questo contrapposti al resto dell'AT quasi proponessero una "teologia della creazione" astratta dalla storia. Ciò non è esatto: già nei sapienziali più antichi la storia viene recuperata come storia del singolo uomo, la "storia" della vita quotidiana. Poi già in parte Siracide e successivamente Sapienza, recupereranno la dimensione storica anche in maniera più universale, sottolineando il legame tra storia e creazione. Il passato diventa nella tradizione sapienziale modello per il futuro, che Dio crea rinnovando il cosmo; natura e storia quindi parlano entrambe al sapiente guidandolo sulla via della vita. I testi sapienziali possono per questo essere definiti., secondo l'immagine proposta da K.Rahner, "la mistica del quotidiano". In Ger 18,18 troviamo l'indicazione di tre esperienze diverse e complementari: "la legge non verrà meno ai sacerdoti, né il consiglio ai saggi, né l'oracolo ai profeti". La Torah (=istruzione) è il 1

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INTRODUZIONE AI LIBRI SAPIENZIALI

1. Il concetto di sapienza

Bibliografia.G.Von Rad, La sapienza in Israele, Marietti Torino, 1975. Testo basilare sulla letteratura Sapienziale. L.Alonso Schokel - L. Sicre Diaz, Proverbi, Borla Roma, 1986. Vedi soprattutto i due capitoli introduttivi. M.Gilbert, "Sapienza", in NDTB 1427-1442. Veloce e chiara introduzione, ottima per una visione d'insieme. R.E.Murphy, L'albero della vita, Queriniana Brescia, 1993. Tra i testi recenti forse la migliore introduzione.

1.1. La Sapienza e la sua conoscenza specifica

I libri sapienziali si differenziano dai libri storici e profetici fin dalla prima lettura. Se nella letteratura sapienziale è presente la creazione, sembra però del tutto assente la Storia della salvezza. Spesso i sapienziali sono stati per questo contrapposti al resto dell'AT quasi proponessero una "teologia della creazione" astratta dalla storia. Ciò non è esatto: g ià nei sapienziali più antichi la storia viene recuperata come storia del singolo uomo, la "storia" della vita quotidiana. Poi già in parte Siracide e successivamente Sapienza, recupereranno la dimensione storica anche in maniera più universale, sottolineando il legame tra storia e creazione. Il passato diventa nella tradizione sapienziale modello per il futuro, che Dio crea rinnovando il cosmo; natura e storia quindi parlano entrambe al sapiente guidandolo sulla via della vita. I testi sapienziali possono per questo essere definiti., secondo l'immagine proposta da K.Rahner, "la mistica del quotidiano".

In Ger 18,18 troviamo l'indicazione di tre esperienze diverse e complementari: "la legge non verrà meno ai sacerdoti, né il consiglio ai saggi, né l'oracolo ai profeti". La Torah (=istruzione) è il proprio del sacerdote, al profeta compete la parola, al saggio compete il consiglio. La Torah racchiude le credenze fondamentali della storia d'Israele e le leggi del popolo di Dio; il sacerdote insegna i fondamenti della fede. Poi ci sono i Profeti anteriori e posteriori, testimoni di come la legge sia "parola viva", comunicazione/esortazione diretta di Dio al suo popolo; il profeta esorta all'ascolto fattivo delle legge. Ai saggi compete il consiglio, cioè la. riflessione sull'esistenza, che è certo esistenza davanti a Dio, nel popolo dell'Alleanza, entro la storia di salvezza, ma non si può definire in maniera così netta come l'esperienza e la produzione letteraria di sacerdoti e profeti.

Questa produzione letteraria è definita nel canone ebraico dei Ketubim, gli (altri) Scritti, cioè una definizione in senso negativo, ciò che non è proprio né dei sacerdoti né dei profeti. In senso stretto possono essere definiti Sapienziali i libri seguenti: Pro, Gb, Qo e, al di fuori della Bibbia ebraica (deuterocanonici), Siracide e Sapienza. In realtà non è che la sapienza non sia mai presente altrove, c'è chi parla ad esempio di "sapienza internazionale" comunque la comprensione non è univoca per

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tutti, infatti sapere cosa è la sapienza non è facile.

1.2. La sapienza come conoscenza empirica

Un distintivo della Sapienza orientale può essere il concetto di conoscenza empirica, contrapposto a quello di conoscenza scientifica in senso lato. Cos'è la conoscenza empirica? Per dominare l'esperienza e per mettere in ordine quel caos che è il mondo ci si offrono due vie: la prima è quella sistematica (scienza) con cui si vuole arrivare a formulazioni universali e necessarie. Il carattere distintivo della scienza è quello di voler giungere ad una predizione esatta dei fenomeni, che si compiranno a determinate condizioni. Il prezzo che essa necessariamente paga è quello di una "semplificazione forzata" del reale, con tutte le conseguenze che ciò comporta, ad esempio nel trattare il fenomeno umano con tutte le sue sfaccettature.

La seconda via di comprensione del reale è la conoscenza empirica (gnomica), che cerca invece di esprimere fasce di esperienza, con l'unica pretesa di dire il reale, senza pretendere di arrivare all'universale. Si tratta di allargare le capacità umane di percepire la complessità e ricchezza del reale, di misurarsi con le soluzioni proposte nel passato a problemi concreti e personalizzati. La finalità è quella di rendere l'uomo concreto e singolo capace, nel momento della prova, di una risposta adeguata alla situazione, capace cioè di dare una risposta sapiente.

La sapienza orientale ha scelto la via empirica, preoccupandosi più della complessità dei fatti che della loro semplificazione. Capita perciò, abbastanza spesso, di imbattersi in affermazioni che apparirebbero contraddittorie, ma, considerate come immagini non complete della realtà, si illuminano invece a vicenda. La conoscenza empirica, più usuale di quanto siamo portati a credere, è quella che ci permette di vivere giorno per giorno. L'uomo deve affrontare situazioni concrete diversissime, la conoscenza empirica lo orienta anche se essa ha una notevole vulnerabilità, cioè è soggetta a continui mutamenti, e quindi ad essere sorpassata. L'uomo della conoscenza empirica vive perciò di tradizione e di apertura ad esperienze nuove. La conoscenza empirica si trasforma usualmente in letteratura specialmente attraverso i proverbi e le sentenze semplici, che mantengono la vivacità dell'esperienza.

1.3. Dalla Sapienza alla letteratura sapienziale

Anche la conoscenza empirica, pur essendo apertura incondizionata al mondo ed alle esperienze, è comunque una conoscenza che non nasce dal nulla e senza una base alle spalle. L'uomo interpreta la realtà a partire dal proprio patrimonio di convinzioni e dal proprio ambiente culturale (Sitz im Leben). Occorre perciò collocare il discorso della sapienza nell'esperienza del popolo d'Israele. Inoltre non bisogna lasciarsi ingannare dalla banalità e sorvolare su testi apparentemente semplici, bisogna essere consci della fatica della formulazione di un proverbio in una persona o in un ambiente. Proprio l'analisi di questa "lunga e complessa gestazione" ci aiuta a percepire fino in fondo il messaggio del testo, tale e quale veniva percepito dal suo lettore ideale. Il compito dell'esegesi in questo ambito è quello di arricchire la nostra capacità di leggere il testo mettendoci nelle condizioni del lettore ideale (implicito) che il testo stesso mostra di pretendere.

I testi sapienziali per questo vanno spesso affrontati ciascuno a sé, sono difficilmente malleabili e classificabili, fanno riferimento a un complesso d i esperienze molto vasto che va tenuto almeno

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idealmente "tutto" presente. Inoltre i termini della nostra cultura spesso non sono adatti ad esprimere l'ordine del mondo come lo poteva intendere un'ebreo e questo costituisce il problema basilare della difficile traduzione di questi testi e della loro altrettanto difficile interpretazione. Alcuni esempi possono aprirci alla comprensione diretta di questa difficoltà:

Prov 17,27-28: “Chi è parco di parole possiede la scienza; uno spirito calmo è un uomo intelligente. Anche lo stolto, se tace, passa per saggio e, se tien chiuse le labbra, per intelligente”Certo sapienza e parlare poco vanno insieme, ma anche lo stolto, se tace, appare saggio. Il discorso è confuso: se uno tace è perché è sapiente o perché è stolto? E' fondamentale comprendere come i proverbi non vogliano definire una realtà dogmatica, ma piuttosto aiutare l'uomo a capire le cose, a valutare i segni per quello che possono significare, senza cadere nell'illusione di una lettura sempre univoca di un mondo reale, che è complesso.

Prov 26:4-5 “Non rispondere allo stolto secondo la sua stoltezza per non divenire anche tu simile a lui. Rispondi allo stolto secondo la sua stoltezza perché egli non si creda saggio”. Questo testo appare ancora più strano, ma a ben vedere è chiaro: davanti allo stolto non si può mai trovare l'atteggiamento giusto con certezza. Ci sono due affermazioni contraddittorie, qual è quella giusta? A seconda delle circostanze. Non c'è una ricetta valida in ogni situazione, nella situazione concreta il saggio valuterà con sapienza e deciderà l'atteggiamento da tenere.

La sapienza, come mostrano questi primi esempi non è tanto l'oggetto della conoscenza, quanto uno strumento, non si tratta di imparare i proverbi come si trattasse di un manuale di buone maniere o di strategie di mercato o di pubbliche relazioni, ma di conoscere meglio il mondo con l'aiuto dei proverbi.

1.4. La Sapienza in Israele

1.4.1. Quando è nata la tradizione sapienziale di Israele?

Molti proverbi sono attribuiti a Salomone (Pro 10,25); ci sono altri riferimenti alla sapienza di Salomone in 1 Re 4,20; 10,10.13.23.25. Però la sapienza di 1 Re è una sapienza enciclopedica, non si tratta di sapienza proverbiale. La sapienza in Israele è attestata al tempo di Ezechia (Is 29,13-16; 30,1-5; 31,1-3). Con Salomone c'è una prima grande strutturazione del regno di Giuda con una burocrazia di corte, ogni regno deve avere una classe di scribi e di sapienti che preparano i politici e i burocrati. E' da supporre che anche Salomone li avesse. Il movimento sapienziale ha avuto probabilmente origine con i primi re, anche se non sappiamo quale materiale ascrivere a questa epoca. La formazione di una classe di sapienti distinta da sacerdoti, re e profeti si sviluppa verso il VII sec. I sapienti di Ezechia sono ricordati in Pro 25,1 come raccoglitori di proverbi (notizia storicamente attendibile). Come ha però notato von Rad, la mentalità e le forme letterarie sapienziali entrano in tutta la vita di Israele, vita quotidiana, giudiziaria, ecc. In definitiva la corrente sapienziale è una corrente autentica ed antica che parte dalle origini e che mantiene per molto tempo la sua originalità per poi confluire in altri ambiti.

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1.4.2. Dimensione internazionale del fenomeno della sapienza

La sapienza di Israele ha avuto rapporti con la sapienza orientale, è la stessa Bibbia a riconoscerlo: in 1 Re 5,10-11 la sapienza di Salomone è messa a confronto con la sapienza orientale di ambito arabo beduino; Ger 49,7 parla di Teman che è da intendersi come Edom; Pro 30,31, proverbi di Agur e Lemuel di Massa (Massa tribù ismaelita del nord dell'Arabia); la sapienza dell'Egitto è ricordata in 1 Re 5,10; Is 19.

1.4.2.1. La sapienza egiziana

Ha una tradizione antica, predomina un tipo di sapienza didattico-conservatrice, non una sapienza critica che si pone questioni filosofiche. Spesso è un re o un alto ufficiale che dà istruzioni a suo figlio o al successore; questa forma sapienziale appare già nell'età delle piramidi dal 2600 al 2175 a. C. e dura praticamente inalterata per due millenni.

a. istruzione di Ptahotep (2450 a. C.) - E' un visir del faraone che dà istruzioni al figlio perché acquisti equilibrio e saggezza nel modo di trattare con le persone: essere modesto, onesto, fidato, rispettoso dei superiori e ordinare la vita secondo giustizia e verità.

b. istruzione per il re Merìkarè (2140 a. C.) Il re si rifà alla sua esperienza e dà delle istruzioni per la difesa e la guida dello stato. Anche qui si sottolinea l'importanza dell'essere esperto nel parlare, di saper adattare il discorso alle persone e alle situazioni, segno di intelligenza e sapienza ancestrale. La prosperità di un re dipende dalla prosperità del popolo, dalla capacità tecnica dei nobili (organizzazione burocratica efficace), dall'attaccamento alla giustizia e alla verità. Il comportamento del re sarà giudicato dagli dei e avrà conseguenze eterne. Il re deve essere fedele agli dèi e al culto e avere un retto comportamento, deve prepararsi la sua necropoli per ricordarsi che sarà sottoposto al giudizio dell'aldilà.

c. istruzione di Amenemope (1000 a. C.) - E' un testo breve in 30 capitoletti, non sempre collegati logicamente fra loro. L'autore è un consigliere capace di persuadere, consapevole dei pregi del suo scritto, che è presentato come un magazzino della vita; ha preferenza per il cittadino onesto, silenzioso, che pesa le parole. Novità: è presente il tema dell'amore verso il prossimo, rispetto per la vecchiaia, premio di Dio per chi allieta gli umili, condanna per chi deride i deformi. La moralità non è tanto la ricompensa dell'aldilà ma quello che piace agli dei. Si tratta di una religione monoteistica. Sono evidenti i rapporti di questa sapienza di Amenemope con una sezione del libro dei Proverbi (Pro 22,20), molte istruzioni sono simili anche dal punto di vista verbale.

d. istruzione di Onksheshonqi (V-IV sec a. C.) - Si tratta di detti brevi, precetti e adagi, circa 250 proverbi; è un sacerdote che istruisce il suo figlio. Non usa il parallelismo sinonimico antitetico, tipico dei proverbi. Questa collezione abbraccia la sapienza per una comunità più ampia, non solo per i nobili ma sapienza popolare. Solo il titolo e il preambolo mantengono le forme delle antiche raccolte sapienziali.

e. satire dei Mestieri (medio impero egiziano) - Si trova qualcosa di simile in Siracide. Un marinaio incoraggia il figlio a frequentare una scuola di scribi. La vita è concepita come faticosa per chi esercita un lavoro manuale a differenza della vita tranquilla degli scribi. L'idea dell' istruzione comunicata da padre in figlio sarà recepita dalla Bibbia, così il valore del mestiere di scriba e

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la sapienza come riconoscimento di un ordine della realtà voluto da Dio, rispettare questo ordine è onorare ed accogliere la volontà degli dei.

1.4.2.2. Sapienza mesopotamica babilonese

Vedremo alcuni testi quando parleremo di Giobbe; è una sapienza più contestatrice. Il termine usato per sapienza è nemequ: sembra si riferisca all'arte divinatoria e alla magia. Il saggio in Mesopotamia è colui che sa fare sortilegi e sa difendere da essi. Vi è mescolanza fra cultura sumerica e semitica, rimane difficile distinguere le due. Dal punto di vista letterario vi sono liste, collezioni di proverbi, discussioni, dottrine, oracoli, lamenti:

a. liste: vogliono mettere in ordine le parole, la realtà; sono il primo sforzo di una sapienza orientata allo studio del cosmo;

b. dispute dei sapienti: di solito vengono risolte da un Dio che interviene con un oracolo. Sitz im Leben è l'ambiente di corte in cui davanti al re, garante dell'ordine cosmico, si discute sul mondo.

c. istruzioni: ad esempio, la sapienza di Shuruppak e Ahigar (1000 a. C.); corrispondono alla tarda sapienza egiziana. Nella sapienza babilonese sono documentate più le crisi che le dottrine ortodosse (vi sono testi simili a Giobbe), dialoghi sulla miseria umana (la teodicea babilonese), dialogo pessimistico tra un principe e il suo servo.

1.4.2.3. Sapienza cananea

(semiti nord occidentali) - Sappiamo poco dei loro proverbi; le tavolette di Ugarit hanno poco di sapienziale; abbiamo qualche traccia nelle lettere di Amarna.

1.4.2.4. Lo specifico delta sapienza israelita

Inserito in questo contesto il popolo di Israele ha probabilmente ben presto iniziato a sviluppare una sua produzione sapienziale. Deve essere esistita una sapienza tribale dei clan, ma è impossibile conoscerla non avendo dati testuali certi; poi c'e stata una sapienza di scuola dalla quale ha avuto origine il materiale dei libri sapienziali. Dall'epoca dei primi re la corrente sapienziale si è sviluppata in modo autonomo, con caratteristiche generali ben definibili, anche se non si è staccata dal resto della scrittura e della cultura ebraica (cultura nel senso di fare delle cose interpretandole). Una indagine sul vocabolario che definisce la sapienza entro l'AT permette di tratteggiare alcune idee fondamentali sull'argomento in un ordine che cerca di essere storico/genetico.

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1.4.2.4.1. Saggio è colui che ha una conoscenza tecnica o pratica

(sono sapienti gli artigiani, ecc.): Es 28,3 "parlerai agli artigiani più esperti ai quali ho dato uno spirito di saggezza"; Es 31,3-6 "ho infuso saggezza agli artisti"; cf Es 35,10-25. L'antichità di questo concetto è presupponibile per la sua scarsa valenza etico-morale, infatti questa conoscenza pratica è definita sapienza anche se risulta negativa negli effetti e moralmente riprovevole. Sapienza è trovare la strada per raggiungere uno scopo, buono o cattivo che sia. Ad es. in 2 Sam 13,3: Yonadab è definito “uomo molto sapiente” perchè insegna ad Amnon come ingannare sua sorella per poterla impunemente stuprare. La sapienza più alta è quella che si esprime nel campo della politica; il Signore dona la sapienza ai capi e ai consiglieri: cfr Salomone e la sua preghiera a Gabaon. Anche YHWH è sapiente in questo senso, perchè ha creato il mondo come un artigiano straordinario (Is 40,13-14; Pro 3,19).

Nella sapienza Mesopotamica o Egizia di questa sapienza "artigiana" fanno parte anche le arti magiche e divinatorie, che invece in Israele sono bandite.

1.4.2.4.2. La sapienza insegna come comportarsi in ogni circostanza della vita

(povertà, ricchezza, gioia, tristezza, lavoro, mercato, ecc). La sapienza in Israele diventa perciò sempre più l'arte di vivere. Insegna a gestire positivamente i rapporti umani, a capire le persone (Pro 13,12;14,13), dando un giudizio sicuro (20,14; 21,14). La sapienza ricevuta da Salomone secondo 1 Re 5,9-14: non è solo saggezza/scaltrezza politica, ma vera cultura frutto della conoscenza di molte cose.

1.4.2.4.3. La crescita della valenza etica

La sapienza tende gradualmente ad identificarsi con il pensiero etico anche se essa non nasce di per sé come normativa. Le due sfere tenderanno a sovrapporsi finché nelle elaborazioni sapienziali probabilmente più recenti si arriverà a identificare il saggio con l'uomo giusto e l'ignorante con l'empio.Prov 4,11: “Ti indico la via della sapienza; ti guido per i sentieri della rettitudine”. Sapienza e rettitudine vanno insieme.Prov 12,8: “Un uomo è lodato per il senno, chi ha un cuore perverso è disprezzato”. L'opposto della sapienza è il cuore empio.Prov 15,21 “La stoltezza è una gioia per chi è privo di senno; l'uomo prudente cammina diritto”. La rettitudine va a braccetto con la saggezza.Prov 1,7: “II timore del Signore è il principio della scienza; gli stolti disprezzano la sapienza e l'istruzione”. La sapienza acquista anche una sfumatura religiosa, tende ad identificarsi con il timore del Signore.

1.4.2.4.4. L'impostazione etica e l'idea di retribuzione terrena e materiale

Lo svilupparsi di una concezione che collega sapienza ed etica, nella logica di un mondo giusto retto da Dio, porta alla promessa di una necessaria ricompensa per chi vive con sapienza. Una vita "ben vissuta" deve produrre il bene per chi la vive E questo bene è ovviamente un bene molto concreto, terreno e mater ia le. Nei testi più antichi della tradizione storica e profetica la retribuzione per il

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"ben vivere" sembrava essere collettiva: Es 20,5: “Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano”. Cfr. Es 34,7.

Ma l'idea di una retribuzione collettiva è sentita sempre più come difficile da sopportare perché comporta la necessaria sofferenza anche dell'innocente (Gen 18; Nm 16,22; 2 Sam 24,17). La tradizione sapienziale più recente, comincia invece a parlare di una retribuzione individuale e terrena.Prov 11,21: “Certo non resterà impunito il malvagio, ma la discendenza dei giusti si salverà”.Prov 11,31: “Ecco, il giusto è ripagato sulla terra, tanto più lo saranno l'empio e il peccatore”. Giusto, empio e peccatore vengono ripagati sulla terra.Prov 19,17: “Chi fa la carità al povero fa un prestito al Signore che gli ripagherà la buona azione”. Quando la retribuzione non sembra esserci la si sposta alla fine della vitaSir 11,20-28: “Stà fermo al tuo impegno e fanne la tua vita, invecchia compiendo il tuo lavoro. Non ammirare le opere del peccatore, confida nel Signore e persevera nella fatica, perché è facile per il Signore arricchire un povero all'improvviso. La benedizione dei Signore è la ricompensa del pio; in un istante Dio farà sbocciare la sua benedizione. Non dire: «Di che cosa ho bisogno e di quali beni disporrò d'ora innanzi?». Non dire: «Ho quanto mi occorre; che cosa potrà ormai capitarmi di male?». Nel tempo della prosperità si dimentica la sventura; nel tempo della sventura non si ricorda la prosperità. È facile per il Signore nel giorno della morte rendere all'uomo secondo la sua condotta. L'infelicità di un'ora fa dimenticare il benessere; alla morte di un uomo si rivelano le sue opere. Prima della fine non chiamare nessuno beato un uomo si conosce veramente alla fine”.

1.4.2.4.5. L'atteggiamento mentale della sapienza in Israele

Mentre le istruzioni egiziane sono di solito riservate ai grandi, agli scribi, ai burocrati, in Israele la sapienza riguarda tutti; è vero che ci sono proverbi che riflettono un'origine aristocratica o di corte: Prov 14,28 “Un popolo numeroso è la gloria del re; la scarsità di gente è la rovina del principe”. Prov 14,35 “il favore del re è per il ministro intelligente, il suo sdegno è per chi lo disonora”. Ma di solito la sapienza è popolare e universalistica, preoccupata dell'uomo in quanto tale. La sapienza monoteistica, legata a un Dio creatore, solo responsabile e garante della giustizia.

1.4.2.4.6. Differenza di approccio alla realtà rispetto alla fede jahvista

La Torah è fondata sulla coscienza dell'elezione che fa di Israele un popolo unico e privilegiato (Dt 14,2); questa coscienza in genere manca nella sapienza. Essa non tratta di Israele o di Giacobbe, ma dell'uomo. Nei sapienziali non si parla mai di berit (unica volta in Pro 3,17 che parla di alleanza matrimoniale). La storia della salvezza è il fondamento della Torah, del comportamento di Israele, della legge: Dio ha delle esigenze verso Israele perché prima c'è stata una storia di salvezza. Nei libri sapienziali, invece, la storia della salvezza non è posta come fondamento.

Torah e profeti si presentano come parola di Dio; la sapienza si presenta come parola di uomo. Questo non vuol dire che non sia ispirata, è certo percepita come tale ma non come rivelata. L'autore è arrivato alla sapienza con un ragionamento e studio umano, non ha avuto illuminazioni particolari.Mentre la Torah e i profeti sono normativi e usano spesso l'imperativo, i sapienziali tendono più a consigliare: Prov 1,8 “Ascolta, figlio mio, l'istruzione di tuo padre, non disprezzare l'insegnamento di tua madre”. (Cfr anche Prov 2,1;3,1;4,2).

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Nella Torah e nei sapienziali infatti vi sono addirittura esortazioni simili nel contenuto, ma diverse nella forma: Dt 25,13: “Non avrai nel tuo sacco due pesi diversi, uno grande e uno piccolo”. (Cfr con Prov 20,10: “Doppio peso e doppia misura sono due cose in abominio al Signore”. (Cfr. anche Es 20,16//Pro 25,18).

La sapienza proverbiale infatti generalmente non vuole esigere obbedienza e dare ordini, ma persuadere, fare penetrare il suo insegnamento con intelligenza: Prov 1,20-24. La Sapienza grida per le strade nelle piazze fa udire la voce; dall'alto delle mura essa chiama, pronunzia i suoi detti alle porte della città: «Fino a quando, o inesperti, amerete l'inesperienza i beffardi si compiaceranno delle loro beffe, gli sciocchi avranno in odio la scienza? Volgetevi alle mie esortazioni: ecco, io effonderò il mio spirito su di voi e vi manifesterò. Poiché vi ho chiamato e avete rifiutato, ho steso la mano e nessuno ci ha fatto attenzione”. La sapienza lascia l'uomo libero di agire, limitandosi ad offrirgli un orientamento.

1.4.2.4.7. Il problema della morte e la sapienza contestatrice

Davanti al problema della morte è possibile distinguere una posizione classica e conservatrice della sapienza che viene messa in discussione nei testi più recenti, come Qoelet o Giobbe. Per questo si parla anche di sapienza classica e sapienza contestatrice. Nella sapienza classica la morte è presa in esame solo quando è un evento causato dall'agire degli uomini, ad esempio: 1) da un adulterio: Prov 2,16-18: “salvati dalla donna straniera, dalla forestiera che ha parole seducenti, che abbandona il compagno della sua giovinezza e dimentica l'alleanza con il suo Dio. La sua casa conduce verso la morte e verso il regno delle ombre i suoi sentieri, e cfr. Pro 5,5.23;7,27.

2) dall'abbandono della sapienza: Prov 8,36 “Chi pecca contro di me (la sapienza), danneggia se stesso”; “quanti mi odiano amano la morte” (Cfr. Pro 8,36; 1.3,14; 15,10);

3) dall'abbandono della giustizia e del timore del Signore: Prov 14,27: “il timore del Signore è fonte di vita, per evitare i lacci della morte”. In questi casi la morte è strumento della retribuzione divina dei malvagi.

Mentre la morte dei giusti, che giunge alla fine dei giorni non fa problema, è percepita come un fatto naturale e pacifico. Però la morte, improvvisa, imprevista, dolorosa e prematura è temuta. Per questo la sapienza classica la riserva per i malvagi. Diversa è la fine del sapiente da quella dello stolto: questi è sradicato prima del tempo, il sapiente muore al tempo giusto dopo aver gustato la bellezza della vita (Cfr Pro 14,12-13; 18,20-25; 20,21). Il mondo creato dal Signore è ordinato, conosciuto e guidato con sapienza da Dio. Comportamenti e ricompense sono perciò collegati (Pro 15,11; 16,1; 20,12; 21,2; 22,2).

Ma Qoelet non la pensa così: contesta la visione ideale della retribuzione che accompagna i comportamenti dell'uomo, e la visione della morte diversa fra sapiente e stolto (cfr. Qo 2,10; 9,3). Ancora di più Giobbe contesterà il principio della retribuzione delle buone azioni e della punizione dei malvagi: una idea che volentieri sottoscriverebbe, ma che non corrisponde alla sua esperienza di giusto sofferente. Questo contrasto entro la tradizione sapienziale è, come vedremo in dettaglio, il passaggio più spinoso della riflessione esegetica su questi testi che ci attende.

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1.4.2.4.8. Una definizione sintetica

Dunque la sapienza ha un carattere internazionale ed appare abbastanza evidente che la sapienza biblica ha lungamente dialogato con questa sapienza straniera da cui deriva sia stilemi che contenuti. Essa vi aggiunge una fede chiara nel Dio biblico che caratterizza il suo particolare approccio. In definitiva la sapienza israelita può essere caratterizzata così: - esperienza personale e critica della realtà + in dialogo con altre esperienze + inserita nel quadro della tradizione + illuminata dalla fede.

1.4.2.4.9. Attualità della Sapienza

La Sapienza di Israele è risposta al confronto tra il dato della fede in YHWH e l'esperienza concreta della vita. E' dunque il tentativo di esprimere criticamente la propria umanità collegandola con la fede in Dio. Al contrario del profetismo la sapienza pone l'accento più che sulla rivelazione di Dio sull'itinerario umano di ricerca. La sapienza israelita valorizza la riflessione critica dell'uomo sul suo agire quotidiano; ragione e fede non si oppongono. Così tutto ciò che è autenticamente umano può servire alla fede anche ciò che in apparenza sembra esservi estraneo (da qui il dialogo con le altre culture e le altre fedi e la dimensione di universalità della sapienza). Allo stesso modo la sapienza ci rende coscienti dei nostri limiti e ci apre ad un concetto più alto di sapienza: quella divina.

2. I LIBRI SAPIENZIALI

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Introduzione

Sono chiamati libri sapienziali 5 libri dell'AT. Di questi tre figurano anche nel canone ebraico: Giobbe, Proverbi e Qoelet (Ecclesiaste), mentre i restanti due sono testi deuterocanonici, cioè Siracide (Ecclesiastico) e Sapienza. A questi si uniscono impropriamente Salmi e Cantico dei Cantici, che per la loro particolarissima peculiarità sono percepiti come estranei sia alla raccolta Profetica che a quella Storica. Nella logica che il canone cattolico presenta oggi al lettore della Bibbia, dopo "la Storia della Salvezza narrata" (LIBRI STORICI), abbiamo "la Salvezza meditata e pregata" (LIBRI POETICI E SAPIENZIALI) ed infine "la Salvezza proclamata" (LIBRI PROFETICI).A parte questa unificazione ed il suo più o meno corretto utilizzo dal punto di vista catechetico-pastorale, è necessario tenere distinti, dal punto di vista esegetico, questi due territori testuali.Procederemo quindi prima con la presentazione delle questioni introduttive dei singoli libri, e poi passeremo all’esegesi di alcuni salmi.

2.1. I Salmi

2.1.1. La numerazione dei Salmi

Sia il Testo Masoretico (= TM) che le versioni antiche coincidono nel mantenere fisso il numero dei salmi (150), ma differiscono nel modo di numerarli, dal momento che la LXX e la Vulgata hanno unito insieme alcuni salmi (come i salmi 9-10 che, effettivamente, sono costruiti in forma almeno parzialmente acrostica) e ne hanno separati altri (non si sa esattamente per quale motivo), per questo è possibile trovare spesso i salmi indicati con un doppio numero: prima quello del TM poi tra parentesi la numerazione della Vulgata-LXX. La liturgia usa la numerazione VUL-LXX. Per i primi 8 salmi e per gli ultimi tre vi è accordo perfetto. A partire dal salmo 9 fino al 147 il TM supera quasi sempre di una unità le versioni.

I SALMI (SCELTA SECONDO LA NUMERAZIONE DELLA BIBBIA EBRAICA)Sal1 -2-8-16-22-23-31-36-40-42-43 -45-49-50-51-62-72-73-89-91100-103-104-110-114-118-121-122-126-127-130-136-137-139-150.

Bibliografia.

Repertori bibliograficiFEININGER S., A decade of German psalm-criticism, JSOT 20 (1981) 91-103. WITTSTRUCK T., The Book of Psalms. An Annotated Bibiiography, 2 vol, New York 1994.

IntroduzioniBONORA - PRIOTTO E.A., Libri sapienziali e altri scritti (Logos - Corso di Studi Biblici 4; Leumann [TO]: Elle Di Ci, 1997). MORLA ASENSIO V., Libros sapienciales y otros escritos (Introducci6n al estudio de la Biblia 5; Estella [Navarra]: Verbo Divino, 1994) = Libri sapienziali e altri scritti. Edizione italiana a cura

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di Antonio Zani (Introduzione allo studio della Bibbia 5; Brescia: Paideia, 1997). ALONSO SCHOKEL L ., Hermenéutica de la Palabra. II. lnterpretaciòn literaria de textos bíblicos (Academia cristiana 38; Madrid: Ediciones Cristiandad, 1987) = A Manual of Hebrew Poetics (SubBib 11; Roma: Editrice Pontificio Istituto Biblico, 1988) = Manuale di poetica ebraica (Brescia: Querinìana, 1989).

CommentariALLEN L.C., Psalms (Word Biblical Commentary), 3 vol., Waco 1983. ALONSO SCHOKEL L. - CARNITI C., l Salmi, I-II, Boria, Roma 1992-1993. CASTELLINO G., Libro dei Salmi (SB), Marietti, Torino 1955. LANCELLOTTI A., Salmi (NVB), EP, Roma 1984.RAVASI G., Il libro dei salmi. Commento e attualizzazione, 1-111, EDB, Bologna 1981-1984, SCIPPA V., Salmi, in La Bibbia, Piemme, Casale Monferrato 1995, 1187-1416. WEISER A., I salmi, Paideia, Brescia 1984 (orig. tedesco 1950). ALONSO SCHOKEL L., Salmi e cantici, Boria, Roma, 1996. LORENZIN T., I Salmi, Paoline, Roma, 2000.

StudiALONSO SCHOKEL L., Trenta Salmi: poesia e preghiera, EDB, Bologna 1982. BEAUCHAMP P., Salmi notte e giorno, Cittadella, Assisi 1983. MONLOUBOU L., Les Psaumes-le symbole-le corps, NRTh 102 (1980) 35-42. WESTERMANN C., La preghiera di sempre. 1 Salmi, Marietti, Torino 1972. LIFSCHITZ D., E' tempo di cantare, 4voll, EDB, Bologna, 1998-2001.

2.1.2. Il Salterio nella Bibbia

I salmi sono una raccolta di poesie-preghiere e il libro che li contiene si chiama Salterio. Secondo la suddivisione della Bibbia ebraica, esso appartiene alla terza parte del canone, al gruppo degli «Scritti» (ketuvim), collocati, anche come importanza, dopo la Torah (il Pentateuco) e i Profeti. Il termine «salmo» è la semplice traslitterazione della parola greca psalmos, dall'ebraico mizmor, che si trova nei titoli di numerosi salmi e designa, in senso generale, un canto accompagnato da musica. Tutta la raccolta viene chiamata psalterion, termine greco che indica uno strumento a corde di cui ci si serve per accompagnare il canto (Dn 3,5.7.10.15).

Nella Bibbia ebraica, invece, per designare i salmi si usa il termine tehillim, una forma plurale anomala del sostantivo femminile tehillà, che significa «lode», e l'insieme dei salmi sefer tehillîm, «libro delle lodi». E' una designazione già presente a Qumran (4Q) in un frammento del I sec a.C. Il termine tehillim sembra sostituire l'arcaico tepillòt (suppliche), che si trova in Sal 72,20. L'accento teologico sembra dover passare alla lode come tema dominante. Anche la supplica, in un'ottica di fede, deve sbocciare o sgorgare nella lode di Dio che certo interverrà. La tradizione greca dunque offre un'indicazione relativa alla forma, mentre quella ebraica si interessa piuttosto del contenuto dei salmi: al di là del fatto che siano canti, accompagnati o meno dalla musica, i salmi sono lodi. Queste composizioni poetiche si presentano in modo vario, secondo generi letterari diversi, ma, nonostante l'estrema eterogeneità di espressione e di situazione, ciò verso cui il salmo tende sempre è la lode di Dio.

2.1.3. Che cos'è un salmo?

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I salmi sono preghiere e, per coglierne la peculiarità in rapporto ad altri testi analoghi, vanno inseriti nel contesto più vasto rappresentato dall'Antico Testamento. Esistono infatti preghiere che non sono salmi, e salmi al di fuori del Salterio (cf Is 12,1-6; 26,7-19; 38,9-20; Ab 3; ecc).Se si guarda all'AT nel suo complesso si possono riconoscere tre tipi di preghiere fondamentali che potremmo forse anche intendere come stadi successivi in un processo di elaborazione storica.

1- Innanzitutto ci sono testi in prosa nei quali vengono tramandate preghiere molto brevi; ad esempio: «Disse Ietro: "Benedetto sia il Signore, che vi ha liberati dalla mano degli Egiziani e dalla mano del Faraone: egli ha strappato questo popolo dalla mano dell'Egitto!"» (Es 18,10); Sansone prega il Signore dicendo: «Tu hai concesso questa grande vittoria mediante il tuo servo; ora dovrò morire di sete e cadere nelle mani dei non circoncisi?» (Gdc 15,18; cf anche 2 Sam 15,31). La caratteristica di queste invocazioni è di essere parte integrante della vita quotidiana, di emergere direttamente dalla narrazione della situazione in cui vennero espressi.

2- Segue poi lo stadio dei Salmi che non sono più invocazioni scaturite immediatamente dal presente, ma espressioni poetiche relativamente standardizzate nella forma, che consentono di esprimere molteplici situazioni e sentimenti, prescindendo, per così dire, dall'occasione specifica che li ha generati. La preghiera dei salmi è costituita da due generi principali (con articolazioni al loro interno): la lamentazione e la lode. Due generi collegati tra loro come la gioia e la sofferenza. Come la gioia e il dolore sono una risposta istintiva a qualcosa che è accaduto prima, così nei salmi il lamento e la lode sono reazioni che presuppongono un avvenimento previo. Il carattere fondamentale della preghiera dei salmi è dunque quello della risposta. La preghiera, nella tradizione occidentale, è stata spesso compresa come azione, come un'attività praticata dall'uomo, qualcosa che si deve «fare», mentre i salmi caratterizzano la preghiera essenzialmente come una risposta, una manifestazione naturale e necessaria di fronte all'agire di Dio ed alla vita. La preghiera dei salmi è una preghiera che la vita stessa, vissuta in comunione con Dio, ci chiede di fare. 3- Lo stadio conclusivo è quello delle lunghe preghiere in prosa (1 Re 8; Esd 9; Ne 9) di epoca più recente. A quest'ultimo passaggio è legato un mutamento profondo della preghiera. Al posto del binomio lamento-lode, troviamo piuttosto quello richiesta-ringraziamento. Qui l'atteggiamento è piuttosto di proposta che di risposta. Infatti nel ringraziamento e nella richiesta il soggetto è l'uomo: «Noi ti ringraziamo, noi ti chiediamo, ecc.»; invece nel lamento e nella lode il soggetto è Dio: «Come sono grandi le tue opere, Signore»; «Fino a quando, Signore? ...». Questa riflessione sulla evoluzione della preghiera nella bibbia non comporta nessun giudizio di valore, vuol solo sottolineare la necessità di distinguere tra queste due tipologie riflettendo sulla diversità della rappresentazione soggiacente nel modo di concepire sé e il rapporto con Dio.

2.1.4. Critica testuale

Il testo dei salmi nella sua tradizione ebraica (TM) presenta moltissimi problemi di critica testuale ed è spesso faticoso, sia per i problemi sempre connessi alla trasmissione del linguaggio poetico ed arcaico, sia per il notevole numero di manoscritti dato l'alto utilizzo del semplice salterio anche in maniera indipendente dal resto della Bibbia. Un aiuto può giungere dalla LXX, una pessima traduzione greca perché molto fedele all'ebraico che veniva letto nel 2° secolo. Un ulteriore aiuto giunge anche da Qumran, che ci testimonia però come nel 1 ° secolo a.C. il testo avesse ancora una certa fluttuazione.

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2.1.5. I titoli dei Salmi

Bibliografia specifica:B.S. CHILDS, Psalms Titles and Midrashic Exegesis, JSSt 16 (1971) 137-150.

Numerosi salmi possiedono un titolo che gli antichi ritenevano canonico o ispirato, parte del testo, mentre oggi essi sono piuttosto considerati alla stregua di note erudite dal significato incerto. I titoli si possono suddividere in tre gruppi:a) quelli che contengono nomi di persona o di gruppi di persone (73 sono attribuiti a Davide, 12 ad Asaf, 11 ai figli di Core, 2 a Salomone, 1 a Mosè, 1 a Idutum, 1 a Eman, 1 a Etan). Nelle versioni antiche sono ancora più numerosi;b) titoli che designano il genere del salmo: canto, salmo, lamentazione, ecc. Una parte di queste indicazioni è poco chiara;e) titoli nei quali vengono espresse delle sigle per l'uso liturgico e per l'accompagnamento musicale concernente gli strumenti. Tali indicazioni, spesso indirizzate al maestro del coro, sono frequentemente tecniche e di difficile comprensione per noi che conosciamo poco della musica del Tempio. L'antichità dei titoli è indiscutibile, data la loro presenza nella versione dei LXX, i quali però già non ne comprendevano più bene il senso. Essi sono interessanti per la storia dell'utilizzazione dei salmi, ma non fanno parte del testo ispirato, ragion per cui anche le traduzioni correnti della Bibbia, pur conservandoli, li scrivono in caratteri diversi.

Ben 73 salmi portano come titolo la formula stereotipata ledawîd che in 13 casi viene sviluppata con notizie biografiche su Davide prese dall'opera storica deuteronomistica. La tendenza dei titoli davidizzanti è di storicizzare il salmo collocandolo nel contesto della vita di Davide, conferendo così spessore di concretezza alla preghiera del salmo stesso. Interessante è notare che gli eventi della vita di Davide ricordati non sono, nella maggior parte dei casi, quelli gloriosi, ma piuttosto quelli segnati dalla sofferenza e dal fallimento (la persecuzione di Saul, la fuga a causa di Assalonne, il peccato con Betsabea, ecc.). Davide non viene cioè ricordato nella sua dimensione singolare (non solo un re, ma l'«amato», il re secondo il cuore di Dio), ma in ciò che più lo accomuna all'uomo in quanto tale: la sofferenza, il peccato, l'incomprensione da parte dei suoi. La figura unica di Davide tende cioè ad essere «democratizzata», ad essere resa più umana e più vicina alla vita di tutti. Ciò significa che nei titoli dei salmi, oltre ad indicazioni tecniche i cui contorni precisi spesso ci sfuggono, è all'opera anche un processo di rilettura e di interpretazione, che potremmo definire midrashica, la quale fa riferimento ad una tradizione dotta di studio della Scrittura orientata non verso l'erudizione accademica, ma verso il nutrimento della vita spirituale.

2.1.6. Stilistica e forma

BibliografiaG. RAVASI, Caratteristiche generali dei linguaggio biblico, in Logos 1,281-290 (con bibliografia).

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2.1.6.1. Il parallelismo

Il parallelismo non è un elemento esclusivo della poesia ebraica, ma è un fenomeno presente in tutto il mondo semitico (e non solo) e comunque centrale all'interno del Salterio. Il principio è semplice: due frasi sono accostate l'una all'altra in modo da determinare un rapporto che può essere di somiglianza, di complementarità o di opposizione, come viene mostrato dai seguenti esempi:

- parallelismo sinonimico:«Ripenso a tutte le tue opere, medito sui tuoi prodigi» (Sal 143,5);

- parallelismo antitetico:«Chiunque spera in te non resti deluso, sia confuso chi tradisce per un nulla» (Sal 25,3); - parallelismo sintetico:«Benedici il Signore, anima mia, non dimenticare tanti suoi benefici» (Sal 103,22);

Ciò su cui il parallelismo attira l'attenzione è il rapporto che si stabilisce tra le frasi, un rapporto che spesso non è evidente e va esplicitato a livello interpretativo. Non si tratta semplicemente di ripetere una frase due volte in modo simile, ma di comprendere che cosa la seconda parte aggiunga alla prima, e interpretare l'incremento di significato che deriva proprio dall'accostamento di due espressioni, dal loro rapporto che non è mai solo di somma o di sintesi.

2.1.6.2. Il ritornello

Un altro procedimento stilistico frequente è il ritornello, che può svolgere differenti funzioni. Può servire da inclusione (Sal 8,2.10; 118,1.29) o come mezzo per separare differenti strofe (42,6.12; 43,5). Nel salmo 136 la ripetizione di «eterna è la sua misericordia» ha piuttosto una funzione litanica.

2.1.6.3. Il merismo (o espressione polare)

E’ un modo di esprimere la totalità mediante la menzione dei due estremi, ad es. «cielo e terra», «notte e giorno» (Sal 22,3; 88,2), «quando mi siedo e quando mi alzo» (Sal 139,1-3).

2.1.6.4. Immagini e simboli

BibliografiaG. RAVASI, La spiritualità del Salterio, in A. BONORA (ed.), La Spiritualità dell'Antico Testamento, EDB, Bologna 1987, 277-327 (una presentazione sintetica di vari simboli utilizzati dal Salterio).

Nel linguaggio poetico le immagini non sono un puro rivestimento esterno di idee o un ornamento, ma sono connesse con la percezione poetica della realtà. Il linguaggio simbolico è quello primario dell'esperienza religiosa, quindi è il linguaggio ideale della preghiera. In esso si passa dal senso primo dell'immagine ad un secondo livello significativo: per es. l'acqua può essere sia segno di vita, che simbolo di Dio. Caratteristica del linguaggio simbolico è di essere polisemantico, cioè aperto contemporaneamente a diversi significati. La lettura dei simboli richiede quindi capacità creativa ma al

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tempo stesso rigore storico e filologico perché l'ampliamento della lettura, dovuto all'ampliamento della esperienza umana a cui il simbolo fa riferimento, sia un reale ampliamento e non un travisamento della intenzione simbolica dell'autore. L'interpretazione ci permette costantemente di versare vino nuovo dentro i testi che noi leggiamo e di far risaltare il ruolo imponente che questi autori hanno svolto. E' questa la vita della poesia... non è solamente cercare le motivazioni del verso, ma il far rivivere il verso. Non è una ricerca archeologica che ci interessa, ma la vita. Se il testo dei salmi non vive, noi facciamo solo accademia archeologica.

2.1.7. L'interpretazione dei salmi

Il concetto basilare che a partire da H. Gunkel (1862-1932) ha segnato l'interpretazione moderna del Salterio è quello di “genere letterario”. Cos'è un genere letterario? E' una forma di espressione, adeguata al contenuto che vuole esprimere. In letteratura c'è sempre un rapporto tra la forma e il contenuto: la forma infatti entra nell'espressione del contenuto stesso. L'analisi di queste forme tradizionali di espressione del contenuto si collega con l'indagine sull'ambiente e le motivazioni per cui un dato contenuto è stato scritto. Gunkel parla a questo proposito di Sitz im Leben, l'ambiente vitale a cui si indirizza l'autore. L'acutezza del poeta è nel rappresentare la situazione dell'uomo trovando espressioni il più vicino possibile alla realtà del lettore in modo da facilitare al massimo la fruizione del testo. Un terzo elemento da valutare è l'identificazione del reale autore dei salmi. Secondo Gunkel sono i sacerdoti del tempio di Gerusalemme, essi ascoltano le varie situazioni che si propongono e danno un'espressione poetica ai drammi che gli uomini vivono. Poi questi salmi sono stati presentati al popolo per la preghiera ed arricchiti da un lungo processo di riletture e redazioni, soprattutto in seguito a nuove esperienze storiche, come l'esilio, la diaspora, i vari domini stranieri sulla Palestina. Gunkel distingue soprattutto tra i generi letterari:

-l'inno-il salmo di supplica-il salmo di ringraziamento.

In epoca più recente il grande autore è da considerare C. Westermann. Pur conservando l'impianto di Gunkel e la sua indagine sui generi, propone uno schema diacronico che li articoli. Sono infatti tre tappe del cammino spirituale dell'uomo nel contesto dell'Alleanza.

1) La supplica (Es 3: «Ho sentito i lamenti…»): in esso c'è la fiducia nell'intervento di Dio.

2) Il ringraziamento, perché il popolo è stato salvato, o il singolo guarito.

3) L'inno di lode, che può essere narrativo (Dio salvatore), o descrittivo (Dio creatore).

2.1.8. Nuovi indirizzi dell'esegesi dei salmi

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Bibliografia specifica:LORENZIN T., I Salmi, Paoline, Roma, 2000.

L'esegesi ormai classica a cui abbiamo fatto riferimento in gran parte, si fondava su una visione di H.Gunkel che definiva il salterio: «un cesto stupendo di frutti scelti, salutari e nutrienti, da gustarsi singolarmente», cioè una specie di archivio di preghiere individuali poste l'una accanto all' altra in un ordine più o meno casuale. Oggi l'esegesi dei salmi è sempre più completata dall'esegesi del Salterio, che è studiato come gli altri libri della Bibbia considerandolo un testo unitario, almeno al livello della redazione definitiva, e sapientemente articolato. I singoli salmi vengono perciò letti anche per il significato che assumono grazie alla loro attuale posizione nel contesto di una collezione parziale o in quello più ampio di tutto il Salterio. Lo studio esegetico del salterio si interessa ad esempio delle tecniche di strutturazione con cui i salmi sono concatenati.

a) Fra salmi immediatamente successivi esistono spesso importanti connessioni: nel significato, nella composizione e nella forma. Abbiamo la giustapposizione (iuxtapositio) di salmi che hanno contenuti simili o anche contrastanti; oppure la concatenazione (concatenatio) intenzionale tra parole chiave e motivi di salmi vicini. Accanto alla concatenazione si dà anche una «reticolazione»: non solo due salmi successivi ma anche una serie di salmi può essere collegata da parole chiave o da motivi simili. Sono tecniche basate sul principio di «attrazione», o di « associazione», usato nei testi legislativi dell'Antico Oriente.

b) Singoli salmi hanno una funzione nella macrostruttura dell'intero Salterio: indice di una intenzionalità nella composizione del libro. Questo vale per i salmi cornice (Sal 1-2 e 146-150), ma anche per i salmi regali e per gli inni al Signore Re e i salmi della Torah, i quali dispongono una specie di rete ermeneutica che avvolge tutto il Salterio.

c) Spesso le soprascritte, aggiunte in un secondo tempo all'inizio dei singoli salmi, ordinano salmi affini, nel contenuto e nella forma, in gruppi che si presentano come una composizione con un senso proprio. Ad esempio, i Sal 65-68, tutti e quattro intitolati sîr, trattano del medesimo soggetto: la lode a Dio salvatore che ha ascoltato la preghiera. Esiste un'evoluzione interna ascendente di temi trattati nella raccolta dei « salmi di pellegrinaggio» (Sal 120-134). Le raccolte dei «salmi di Core» (Sal 42-49 e 84-85; 87-88) e quella dei «salmi di Asaf» (Sai 50; 73-83) hanno caratteristiche teologiche comuni. Questo raggruppamento di salmi per temi invita a una lettura globale dei salmi successivi dello stesso soggetto, per onorare il lavoro dell'editore che li ha ordinati in questo modo.

d) Un'indicazione esplicita a leggere, almeno, parte del libro dei salmi come testo di meditazione è data dalla cosiddetta davidizzazione del Salterio mediante le soprascritte redazionali «di/per Davide». La loro inserzione fa perdere ai salmi, da esse intitolati, il loro contesto liturgico e ne forniscono uno nuovo: il Salterio può ora essere letto come meditazione sulla vita del Davide storico e messianico. Sembra che la recita e la spiegazione dei salmi avessero un ruolo nelle assemblee «private». Il Salterio era il «libro della vita», soprattutto per quei gruppi che nei salmi sono chiamati «poveri», «fedeli», «giusti».

e) C. Westermann osserva un ulteriore indizio di composizione intenzionale: le lamentazioni individuali, la categoria più numerosa nel Salterio, sono quasi tutte concentrate nella sua prima parte (cfr. 3-41; 51-72), mentre larghi gruppi di salmi di lode appaiono solo nella seconda parte del Salterio: esattamente come il Libro delle Lamentazioni forma un gruppo di lamenti nazionali, e a Qumran le «lodi» furono messe insieme per formare le Hodayot;

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f) La rilevanza dell'attuale ordine nella sequenza dei salmi è confermata anche dalla tradizione rabbinica. In Midrash Tehillim il problema della sequenza dei salmi è affrontato direttamente. Quando Rabbi Josua ben Levi voleva ordinare diversamente il libro dei salmi, glielo impedì una voce dal cielo.Questo nuovo approccio ha portato a riflettere con attenzione sulla attuale struttura del salterio e sul suo possibile significato teologico e stilistico.

2.1.9. La divisione del Salterio in cinque libri

Alla fase finale della redazione appartiene probabilmente anche la divisione del Salterio in cinque parti. «Mosè diede a Israele i cinque libri, Davide diede a Israele cinque libri » ( Midrash Tehillim al Sal 1,1 [secoli III-IX d.C.]). La divisione in cinque parti è confermata dalle quattro formule dossologiche:

Sal 41,14: «Benedetto il Signore, Dio di Israele, da sempre e per sempre. Amen. Amen»;Sal 72,18-19: «Benedetto il Signore Dio, il Dio d'Israele, lui solo compie meraviglie. E benedetto il suo nome glorioso per sempre e tutta la terra sia piena della sua gloria! Amen, Amen! »;

Sal 89,53: «Benedetto il Signore per sempre! Amen, Amen!»;Sal 106,48: «Benedetto il Signore, Dio d'Israele da sempre e per sempre! E tutto il popolo dica: Amen».

Le quattro formule nella loro sequenza formano una composizione chiastica (ABB'A') e concludono quattro salmi che costituiscono un arco tematico: persecuzione (Sal 41), promessa messianica (Sal 72), venire meno della promessa messianica (Sal 89), compimento della promessa mediante JHWH, il Dio dell'alleanza (Sal 106). Esse si trovano tutte in punti di cesura riconoscibili anche in altro modo: Sal 41,14 alla fine del primo Salterio davidico (Sal 3-41); Sal 72,18-19 alla fine del secondo Salterio davidico (Sai 51-72); Sal 89,53 alla fine del secondo gruppo dei «salmi di Core» (Sal 84-85; 87-89), che assieme al primo gruppo (Sal 42-49) incorniciano il secondo Salterio davidico (Sal 51-72); Sal 106,48 alla fine di una composizione di salmi ben strutturata al suo interno. Al complesso dei Salmi 107-150 manca una formula dossologica che corrisponde alle quattro precedenti. Alcuni autori considerano il Sal 150 come la dossologia finale; altri, invece, nella composizione dei Sal 146-150 vedono la finale del quinto libro e anche di tutto il Salterio. Infatti, i versetti che fanno da cornice al Sal 146 si ispirano chiaramente alle altre quattro dossologie: «Ti esalto, mio Dio, mio re, e benedico il tuo nome in eterno e per sempre. Ogni giorno ti voglio benedire, e lodare il tuo nome in eterno e per sempre» (v 1-2); «Dica la mia bocca la lode del Signore, ogni carne benedica il suo nome santo in eterno e per sempre» (v 21).

I Salmi 1-2 e 146-150 formano una cornice attorno ai cinque libri. La posizione attuale dei Sal 1 e 2 all'inizio dei Salterio è intenzionale. Tutto il libro quindi è posto sotto la luce della spiritualità della Torah e della speranza nel Messia. La finale del Salterio si richiama al proemio del Salterio (Sal 1-2). I Sal 2 e 149 si corrispondono innanzitutto nella costellazione di motivi: in ambedue i salmi i re del mondo devono fare i conti con l'ordine mondiale imposto dal Re divino e dal suo rappresentante in terra (Sal 2,3; 149,8). Il re messianico del Sal 2 è chiamato «mio figlio» ed è insediato in Sion; i poveri, come popolo del Signore, sono chiamati in Sal 149,2 «figli di Dio». «I canti di lode a Dio nella

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loro gola» devono essere la «spada a due tagli» (Sal 149,6; allusione a Sal 2,9), con la quale il popolo salvato porterà a termine il «giudizio» sui re e sui loro popoli (Sal 149,9, allusione a Sal 1,5). I salmi sono le «armi» con le quali il Signore vuole stabilire la sua signoria nel mondo. La via della vita suggerita ai re in Sal 2,10-12, che li preserva dal fallimento (Sal 1,6; 2,12), può essere imparata ascoltando i salmi d'Israele e cantandoli assieme a lui (Sal 148,11). Se i redattori, dividendo il Salterio in cinque parti, lo rendono una risposta alla Torah (cfr. Sal 1), le dossologie alla fine di ogni li -bro, in particolare la dossologia finale (Sal 146-150), ne fanno una risposta, nella gratitudine e nella lode all'azione del Signore fino alla fine del mondo.

2.2. I Proverbi

Bibliografia essenziale

D. BERNINI, Il libro dei Proverbi, Nuovissima Versione della Bibbia (Paoline, Roma, 71978). Semplice ed essenziale; buona introduzione. L. ALONSO SCHOKEL - J.VILCHEZ, Proverbi (Boria 1986). Il miglior commentario disponibile in italiano. Cfr. anche: F. VATTIONI, "Studio sul libro dei Proverbi", Augustinianum 12 (1972) 121-168. F. FESTORAZZI, "Il valore dell'esperienza e la morale sapienziale", Atti della XXII Settimana Biblica (Brescia 1973)117-146.R. CAVEDO, "Guardare il mondo per essere saggi" in La spiritualità dell'Antico Testamento (Boria, Roma 1988).

2.2.1. Introduzione

Potremmo definirlo "libro della vita quotidiana". Il suo scopo è infatti formare alla conoscenza che fa vivere (Prov 8,35: “Infatti, chi trova me trova la vita, e ottiene favore dal Signore” (Cfr. 13,14). L'origine di Pro 1,1 è messa in dubbio: certamente Salomone non ha scritto tutto il libro. Pro si presenta con molti titoli:10,1 “proverbi di Salomone” (la parte precedente probabilmente non è di Salomone); 22,17: "le parole dei sapienti", è probabilmente un titolo;24,23: "le parole dei saggi", è probabilmente un altro titolo;25,1: “proverbi di Salomone (incerta l'attribuzione) trascritti dagli uomini di Ezechia” (notizia storicamente più attendibile);3 0,1: “detti di Agur di Massa” (cf Ger 25,14);in 30,15 ha inizio una nuova collezione, anche se non c'è un titolo, perché cambia lo stile e vi sono dei proverbi numerici;31,1: “parole di Lemuel, re di Massa”;31,10-31: poema alfabetico: l’elogio della buona casalinga, della buona padrona di casa.

Dunque Proverbi non è un libro, ma una serie di collezioni, accolte da un editore ciascuna delle quali ha sue caratteristiche. In Pro 1,1-6 troviamo espresso il motivo della raccolta, lo scopo dei proverbi: “Proverbi di Salomone, figlio di Davide, re d'Israele, per conoscere la sapienza e la disciplina, per capire i detti profondi, per acquistare un'istruzione illuminata, equità, giustizia e rettitudine,

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per dare agli inesperti l'accortezza, ai giovani conoscenza e riflessione. Ascolti il saggio e aumenterà il sapere, e l'uomo accorto acquisterà il dono del consiglio, per comprendere proverbi e allegorie, le massime dei saggi e i loro enigmi”.

La radice etimologica del titolo è mishleh, plurale costrutto di mashal, termine che può significare detto, aforisma, allegoria, enigma, proverbio, satira, lamento, visione apocalittica, discorso didattico, discussione. La radice mashal ha un duplice significato: essere simile e governare. Essere simile richiama somiglianza, confronto anche se solo implicito. Governare richiama la capacità di comprendere e quindi avere in pugno la realtà. (Cfr. W.Mckane, Proverbs, OTL, London 1977)

2.2.2. Struttura e composizione

Il libro consta di 7 diverse collezioni più un'introduzione ed una conclusione. Ciascuna collezione è segnata da un titolo redazionale (Cfr MURPHY, pp. 30-47, per una descrizione precisa del contenuto).

Cap. 1-9: Introduzione: Sapienza e stoltezza in piccoli poemi

Pro 1,1-6; Introduzione v. 7: "Principio della sapienza è il timore del Signore"Pro 1,8-19; La scelta della vita buonaPro 1,20-32; Arringa della sapienzaPro 2,1-22; 3.4.5.6.7 Invito a cercare la vera sapienza

Pro 8,1-36; Personificazione della SapienzaPro 9. 1-18. Conclusione v. 10: "Principio della sapienza è il timore del Signore"

Le 7 collezioni (le 7 colonne della Sapienza, Pr 9,1)

1° - Cap. 10,1-22,16: I proverbi di Salomone2°- Cap.22,17-24,22: Le parole dei saggi3° - Cap 24,23-34 : altre parole dei saggi4°- Cap. 25-29: Seconda raccolta salomonica5°- Cap. 30,1-14: Le parole di Agur di Massa6°- Cap 30,15-33: Proverbi numerici7°- Cap. 31,1-9: Parole di Lemuel, re di Massa

Cap. 31,10-31 Chiusa: la 'donna perfetta' v. 30: "Principio della sapienza è il timore del Signore".

2.2.3. La formazione del testo

La collezione più antica è la I°, risalente all'epoca salomonica: sono 375 meshalim (secondo il valore numerico di "Salomone"; 365 in origine secondo Garbini; cfr MURPHY, 48) sono proverbi senza ordine che riflettono lo stadio primitivo della sapienza biblica. All’epoca di Ezechia

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nasce la 4° collezione che insiste maggiormente sulla teologia della retribuzione (cfr 26,27). La 2° (30 proverbi) e la 3° collezione dipendono dalle Istruzioni di Amenemope e sono di epoca incerta, così come la 6°. Postesiliche sono la 5° e la 7°; attribuite a saggi edomiti (cfr la 7° presentata come i consigli della madre). Tutte queste datazioni sono comunque molto incerte.

Probabilmente verso il IV sec. nascono l'introduzione e la conclusione (Pro 1-9 e 31,10-31). Il genere letterario (istruzione sapienziale e poema acrostico) ed in particolare la personificazione della Sapienza, fanno propendere per questa datazione più recente, che non esclude influenze greche. Sono forse, opera del redattore che ha raggruppato e pubblicato le 7 raccolte e rivelano, nella loro struttura attuale, la mano di una sola persona. In questi testi redazionali la sapienza si presenta come una donna saggia, contrapposta alla follia. Lo scopo è chiaramente didattico: la società del postesilio è interamente da ricostruire e nel rischio di perdere i valori tradizionali il redattore di Pr 1-9 ripropone a Israele la sapienza antica. La sua novità è la presentazione della sapienza stessa come figura femminile, in rapporto con Dio e con l'uomo, figura di mediazione dunque. Tutta la sapienza antica viene così assunta e "canonizzata" in questa nuova presentazione della sapienza. Possiamo leggere Proverbi - seguendo l'ipotesi di Lang - come un vero e proprio testo didattico usato per 1'istruzione scolastica dei giovani israeliti.

2.2.4. Paralleli extrabiblici

Sembra ben fondata l'ipotesi della dipendenza dalle "Istruzioni" egiziane specie quelle di Amenemope (cfr MURPHY,42s). I Proverbi dipendono molto da questi testi, specie nella forma letteraria, nel contenuto didattico, nell'insistenza sull'esperienza come punto di partenza della saggezza, ed anche nei singoli temi trattati. A. Nicacci, La casa della sapienza, 25ss, propone un accurato confronto tra Pr 22,17-24,22 e le Istruzioni di Amenemope (si vedano in particolare le pp. 31-39). Nicacci sostiene che tale sezione di Proverbi è un vero e proprio manuale di istruzione scolastica, diretto ai giovani futuri funzionari, costruito sul modello egiziano. Nicacci nota come sia la fede nel Dio creatore il motivo che porta Israele ad aprirsi alla saggezza dei popoli vicini mentre l'accentuazione del tema dell'alleanza e dell'elezione lo avrebbe portato piuttosto a chiudersi.

2.2.5. Stile e testo

Lo stile è quello del Mashal: base del 'proverbio' è il suo radicarsi nell'esperienza concreta della realtà, è l'espressione della ricerca umana di un senso delle cose. Presupposto dei saggi è la convinzione che il mondo abbia un senso; punto di partenza importante è pertanto la fiducia nella bontà della creazione (ottimismo di Pr). In Proverbi il proverbio si presenta bilineare (esteso su due righe) e registra una conclusione basata sull'esperienza, ha un carattere retrospettivo (così è andato il mondo) più che un carattere precettivo (l'intenzione didattica c'è, ma non è la cosa principale). Il proverbio nasce dal desiderio di dire cose che si sono fatte, con uno stile succinto, epigrafico e altamente metaforico. Tuttavia il proverbio viene usato molto pure in contesto didattico: si aggiungono proposizioni con riflessioni, conseguenze di un comportamento e giudizi di valore, e per

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questo ci si serve di caratteristiche formali: paronomasia, sinonimia, assonanze, giochi di parole, liste, ripetizioni, rime.Cfr Murphy 36-38 per le principali caratteristiche del 'proverbio'. I proverbi dei capitoli 1-9 sono radunati all'interno del più vasto genere letterario dell' "istruzione", ben nota al mondo egiziano. Lo stile si presenta vivace per le molte immagini (cfr 11,22; 25,14 etc.), per l'attenzione alla psicologia dei personaggi, (cfr 19,24; 22,13 etc.) e per la presenza di quadretti molto vivi: l'ubriacone (23,29-35); il pigro (24,30-34; 26,13-16); il bugiardo (26,23-28).

2.3. Siracide

FRAGNELLI P., Siracide, in La Bibbia, Piemme, Casale Monf. 1995, 1571-1666; MINISSALE A., Siracide (Ecclesiastico) (NVB 23), Paoline, Roma 1980; Siracide. Le radici della tradizione (LOB 1.17), Queriniana, Brescia 1988.

2.3.1. Il libro e la sua storia

Il libro del Siracide fu scritto probabilmente tra il 187-180 a.C., dopo la morte del sommo sacerdote Simone, figlio di Onia (Sir 50,1-21), e prima della rivolta maccabaica (167-164 a.C.) di cui non si fa alcuna menzione. Questa datazione si ricava, oltre che dai dati interni dal fatto che la versione greca del libro fatta dal nipote avvenne nel 380° anno del re Evergete II, cioè nel 132 a.C. Ben Sira fu un sapiente, forse anche consigliere di principi (Sir 39,4), viaggiò all'estero (Sir 34,12; 39,4), visse nell'ambiente della scuola (Sir 51,23), una specie di accademia per giovani destinati a posti di responsabilità pubblica. Si dedicò allo studio dei profeti (Sir 24,33) e della tradizione giudaica (Sir 33,16) e compose un'opera utile anche per i giudei d'Egitto, che non erano più sapienti di quelli della Palestina (Prologo, v. 29).

Gli ultimi anni del sec. III a .C. segnano il passaggio della Palestina dal dominio dei Lagidi d'Egitto a quello dei Seleucidi di Siria (cf Sir 10,8-11). La battaglia decisiva avvenne a Banias, alle sorgenti del Giordano, nel 198 a.C., dove l'esercito egiziano, comandato da Scopas, venne sconfitto da Antioco III. Il nuovo regime seleucide accordò alla Giudea il riconoscimento legale della Torah e delle «leggi ancestrali» e autorizzò la restaurazione del tempio e delle mura di Gerusalemme sotto l'autorità del sommo sacerdote Simone II (cf Sir 50,1-4), che rivestì la carica religiosa suprema dal 219 al 196 a.C. Fino al 175 a.C., quando Seleuco IV fu assassinato dal suo ministro Eliodoro, la Giudea visse un periodo abbastanza tranquillo. In Sir nulla lascia intravedere del grande conflitto scoppiato sotto Antioco IV che quindi è posteriore alla sua stesura.

L'epoca di Ben Sira è caratterizzata dall'ingresso della cultura greca in Giudea. Tuttavia l'ellenismo non aveva ancora «invaso» come dominatore culturale la Palestina come avverrà a partire dal 170 a.C.; esso toccava soprattutto l'aristocrazia colta di Gerusalemme. Non c'era un progetto di ellenizzazione forzata. Ciò spiega perché Ben Sira il quale è sostanzialmente un conservatore e un tradizionalista, che enfatizza la fedeltà giudaica alla Torah, non veda nell'ellenismo un pericolo terribile ed eviti lo scontro, pur mantenendo un atteggiamento aperto e dialogante, ma anche vigile e critico perché non sia compromessa la fedeltà alla tradizione giudaica. Studi su questo argomento hanno messo in luce molti collegamenti tra il Siracide ed idee della letteratura greca, soprattutto stoica. In particolare circa la dignità umana e il senso dell'onore (cf Sir 15,11-17

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sulla libertà; 22,27-23,6 sul dominio di sé; 38,16-23 sulla atarassia nel dolore; 41,14; 2,8 sulla vergogna), circa l'unità e intelligibilità del mondo (Sir 17,1-12; 39,16-35). Sono in questo contesto da rilevare i silenzi di Ben Sira sul digiuno (salvo 34,31), la circoncisione (eccetto 44,20), i matrimoni misti, i cibi proibiti, il sabato, gli idoli. Siracide è un uomo aperto al dialogo tra le culture, non si oppone all'ellenismo come tale; ma per quel che la sua fede giudaica permette, è aperto e accogliente. Solo raramente la polemica è aperta e dura, come in Sir 41,5-6: «Figli abominevoli sono i figli dei peccatori, una stirpe empia è nella dimora dei malvagi. L'eredità dei figli dei peccatori andrà in rovina, con la loro discendenza continuerà il disonore» (Ms B). «Peccatori, empi, malvagi» sono gli ellenizzati.

2.3.2. Il problema del testo

Il problema del testo del Siracide è un vero enigma e nessuna teoria finora è soddisfacente. Il nostro libro è stato certamente scritto in ebraico (cf prologo, vv. 7-12.15-26.30) e tradotto in greco dal nipote dell'autore. Nonostante sia citato dai rabbini fino al sec. X esso non fu accolto nel canone ebraico e il testo ebraico rimase sconosciuto fino al 1896. Da quell'anno vennero alla luce numerosi frammenti ebraici ritrovati nella geniza («ripostiglio») della sinagoga di Ezra, al Cairo in Egitto. Essi sono stati raggruppati dagli studiosi sotto sigle indicate con le lettere A.B.C.D.

Tra il 1958 e il 1982 sempre dalla stessa provenienza vennero scoperti altri frammenti poi indicati E e F. Nel 1947 ebbe inizio la serie di scoperte dei manoscritti di Qumran e furono trovati due frammenti ebraici di Sir: 6,14-15; 1,19-20; 6,19-31. Nella grotta 11 di Qumran fu scoperto un rotolo contenente Sir 51, 13-20.30b. Nel 1964, durante gli scavi compiuti alla fortezza di Masada, sulla riva occidentale del Mar Morto venne alla luce un rotolo che contiene Sir 39,27-32; 40,10-19c; 40,2644,17. Sembra che il rotolo di Masada possa essere datato al 100-70 a.C. ed è quindi il più antico manoscritto di Sir che sia nelle nostre mani. E’ interessante notare che tra il testo dei manoscritti della geniza del Cairo, quello dei rotoli di Masada e quello di Qumran non ci sono differenze testuali sostanziali. Si tratta tuttavia di un testo differente da quello soggiacente alla versione greca e siriaca. Oggi infatti è generalmente accettata l'ipotesi che, nel sec. I a.C., esistesse un testo ebraico, rivisto, modificato, aumentato che viene chiamato Ebraico II (donde le sigle di «Hb I» e «Hb II»). Questo testo sarebbe soggiacente alla versione chiamata Greco II (forse I sec. d.C.).

La valutazione di questi manoscritti, spesso molto sciupati e guasti, ha suscitato molte ipotesi e tentativi di spiegazione in sede di critica testuale. Oggi sembra pacificamente assodato, non senza eccezioni, che i frammenti ritrovati rappresentano un originale ebraico con un valore superiore a quello delle versioni. Manca però ancora un'edizione critica dei testi ebraici ritrovati. E’ quindi consigliabile questa regola: quando si ha l'originale ebraico si segue questo, costituito da 1098 distici su 1616 del testo greco dei grandi manoscritti onciali (due terzi del testo, circa il 68%) tenendo conto delle varianti; negli altri casi, si deve scegliere tra la versione greca e siriaca (ma, in linea di massima, il testo greco è preferibile al siriaco). Ciò che manca ancora, in ebraico, è soprattutto Sir 1,1-3,5; 16,28-30,10 (di cui abbiamo soltanto una trentina di versetti isolati) e 38,27-39,14.

2.3.3. Le versioni

Il prologo ci informa che il nipote di Ben Sira, fece la versione greca dall'ebraico incontrando

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non poche difficoltà. In realtà, la traduzione greca contiene errori e imperfezioni. Quest'opera è giunta a noi in manoscritti onciali (Sinaitico, Alessandrino, codice Efrem e Vaticano) e nelle edizioni antiche e moderne dei LXX: questa forma del testo, più breve, è denominata «Greco I ». Un'altra forma, più lunga, chiamata «Greco II» ci è stata conservata nei manoscritti greci corsivi, il più rappresentativo dei quali è indicato col numero 248 (si trova alla Biblioteca Vaticana). Questa forma più lunga è senz'altro secondaria e di minor valore critico (posteriore a circa 1'840 d.C.). La maggioranza dei cattolici ritiene non ispirato il prologo greco. P Benoit invece ritiene ispirato il testo greco di Sir e quindi anche il prologo.Il testo greco è riconosciuto come canonico dalla Chiesa e molte traduzioni nelle lingue moderne prendono come base questo testo, indicando in nota, le varianti del testo ebraico. Altri traduttori prendono come testo base, dove c'è, il testo ebraico e il Greco I dove manca l'originale.

La Bibbia CEI, sotto 1,5, ha questa nota: «La numerazione dei versetti è stata fatta sul testo latino, che è più lungo del testo greco. Essa, sia qui che nel seguito di questo libro, omettendo eventuali aggiunte, ritocca anche la numerazione dei versetti (per colmare i vuoti), causando una certa confusione». Dinanzi a questa situazione veramente caotica e fonte di confusioni, la regola pratica da seguire sarebbe di precisare sempre quale tradizione testuale si cita (ebraica o greca), quanto ai capitoli; ma anche la numerazione dei versetti è diversa nelle varie edizioni moderne, perciò è bene precisare quale edizione viene seguita (Swete o Ziegler ecc.). La Bibbia CEI segue il testo breve del Greco I, come fanno le Bibbie attuali più diffuse, riportando in nota le aggiunte del Greco II e, in una ventina di casi circa, il testo ebraico. Qual è dunque, il testo canonico? Riteniamo che si possa ammettere un duplice testo canonico per Sir sia ebraico sia greco. Ambedue i testi sarebbero quindi da ritenersi ispirati.

2.3.4. La strutturazione del libro

Il libro del Siracide sembra essere un'antologia di testi di genere diverso: sentenze o detti, proverbi numerici, paragoni, inni, preghiere ecc. Contiene anche una specie di «manuale» di comportamento morale o un codice etico, valido per un pio giudeo del sec. II a.C. Eccetto i cc. 44-50, che nel manoscritto ebraico del Cairo (sigla: Ms B) sono intitolati «Lode dei padri dell'antichità», il libro non sembra seguire un ordine coerente né pare strutturato secondo uno schema evidente. L'accumularsi disparato di argomenti fa supporre che il libro non sia frutto di una composizione di breve durata, ma di un lavoro disteso nel tempo, in più tappe redazionali. Attualmente la tendenza dei commentatori è di ipotizzare varie edizioni successive ma non c'è accordo su una struttura unitaria del libro.Quella che segue ha scopo meramente didattico:

PrologoParte prima: cc. 1-23; introdotta da un inno alla sapienza: 1,1-21; Parte seconda: 24,1-42,14; introdotta da un inno alla sapienza: c. 24; Parte terza: 42,15-50,29; introdotta da un inno a Dio: 42,15-43,33; Epilogo: c. 51.

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2.3.5. Forma letteraria

Pur non essendo un pensatore creativo come l'autore di Giobbe né un maestro di stile come l'autore di Sapienza, Ben Sira mostra di usare con disinvolta padronanza e originalità diverse forme letterarie. Cultore della Scrittura sacra da essa trae come da uno scrigno i vari generi letterari soprattutto quelli della sapienza proverbiale: poemi o inni ampi e solenni: 16,24-18,14; 39,12-35; 42,1543,33; preghiere di petizione: 22,17-23,6; 36,1.22; proverbi numerici: ad es. 25,7-10; beatitudini: 26,5-6; narrazioni autobiografiche: 33,16-18; 51,13-15; liste o onomastica: 43,27-28; 43,32-33; narrazioni didattiche: 44,11-15 ecc. La varietà e molteplicità dei generi letterari contribuisce a dare vivacità e valore all'esposizione di Ben Sira.

2.3.6. Messaggio

Il.Siracide non offre una teoria o una teologia sistematica, esposta con ordine e coerenza logica. I temi trattati sono quelli tradizionali, delle Scritture sacre d'Israele, ripresi e variati in modi differenti. La prospettiva generale è conservatrice ed è pervasa dallo spirito e dalle idee deuteronomici.

2.4. Sapienza

Bibliografia:

Mazzinghi Luca, La Sapienza, ed.San Paolo, Milano, 1998. Scarpat Giuseppe, Il libro della Sapienza, 3 voll., Paideia, Brescia, 1998-2001. Gilbert Maurice, La sapienza di Salomone, 2vol, ADP, Roma, 1995.

2.4.1. Introduzzione

Questo piccolo gioiello della letteratura giudaica di Alessandria d'Egitto fu prodotto tra il II e il I sec. a.C. e perciò è forse l'ultimo scritto deuterocanonico dell'AT. Il libro della Sapienza è attribuito fittiziamente, come al solito, ad un grande personaggio del passato, e chi poteva esserlo meglio di Salomone, il saggio per eccellenza dell'intero AT. Come per l'opera di Ben Sira è difficile catalogare questo scritto secondo un unico schema letterario e secondo un'unica definizione. Vi troviamo infatti capitoli di fine poesia, ma anche pagine di prosa ritmata in uno stile antologico pesante e pedante. Queste notazioni non riescono a negare la sostanziale linearità ed unità dell'opera.L'autore resta anonimo nonostante gli sforzi di chi ha voluto vedervi la mano del traduttore greco del Siracide. Scrive in un buon greco, anche se compaiono infiltrazioni ebraizzanti. Un libro profondamente fedele alla tradizione genuina della spiritualità biblica, di fatto un testo "conservatore" ma al tempo stesso "progressista", nella sua apertura, a certe nuove idee del mondo greco, nel suo ottimismo sul destino ultimo dell'uomo, nelle sue intuizioni preziose per il futuro della

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rivelazione biblica. Questo libro è veramente un ponte tra l'antico ed il nuovo testamento.Pur presentandosi come un libro sapienziale in senso classico: raccolta di detti e riflessioni

più o meno derivanti da una letteratura orale, Sapienza è anche un testo nuovo, una specie di trattato teologico strutturato e ben articolato, i cui temi più originali sono quelli antropologici.Sapienza è anche un testo esortatorio indirizzato ai giudei vittime delle prime persecuzioni ed emarginazioni nell'ambito ellenistico-romano (2,10-20; 3,1-9). Il nostro autore da un lato vuole mostrare l'apertura di spirito del giudeo della diaspora, dall'altro vuole esortare i suoi correligionari alla fedeltà nella fiducia ottimistica che «il Signore ha tutto disposto con misura, calcolo e peso» (11,20; cf. 12,15-18). Per il nostro autore non basta però allontanare il suo lettore dalle tentazioni che minacciano la fede, occorre invece rafforzarla. Il libro della Sapienza sceglie, per fare questo, una via particolare: pur mettendo in luce i limiti dell'ellenismo, accetta con coraggio e onestà di riconoscerne i valori: così decide di scrivere in greco, e non nell’ebraico dei padri, e in un greco particolarmente curato e ricercato. Così ancora utilizza espressioni e concetti propri della filosofia greca, in particolare dello stoicismo (si vedano in particolare i capitoli 7-8 e 13,1-9) senza timore di riconoscerne in molti casi, la validità. Nel descrivere la figura della sapienza, il nostro libro utilizza addirittura come modello la figura della sua più grande rivale, la dea Iside.

Il libro della Sapienza è il segno di un ponte lanciato tra due mondi, tra Israele e la grecità. Si deve parlare al riguardo di vera inculturazione: il tentativo del nostro autore è quello di tradurre la. fede e la scienza di Israele in categorie culturali comprensibili a chi, come i giudei alessandrini, era ormai imbevuto di grecità. Invece della via della contrapposizione e del conflitto, il libro della Sapienza sceglie la strada del dialogo: Israele comprende che la propria fede può sopravvivere anche nel confronto con un contesto culturale apparentemente avverso, e uscirne anzi arricchita.

2.4.2. La strutturazione del testo

Una caratteristica del libro della Sapienza è la grande cura con cui è stato composto: l'autore si è servito di tecniche letterarie molto raffinate per creare un testo ben ordinato e favorire così la comprensione del lettore. Il libro è divisibile in tre grandi sezioni:

a) La prima parte del libro (1,1-6,21) è centrata sul tema della vita eterna che attende il giusto. I l libro si apre in questo modo con un messaggio di speranza sino ad allora mai proclamato con una tale forza: il problema della sofferenza, del dolore e della morte, posto con drammaticità dai libri di Giobbe e di Qoèlet trova una prima risposta nell'annunzio di una vita che non finisce.

b) La seconda parte del libro (6,22-10,21) descrive le caratteristiche della sapienza, che Dio dona all'uomo nella sua vita presente, perché, accogliendola, egli possa trovare quella vita eterna promessa nella prima parte del libro.

c) Il libro si conclude con una lunga sezione (11 -19) segnata da una riflessione sui fatti del passato: meditando sugli eventi dell'esodo dall'Egitto, avvenuto più di mille anni prima, il nostro autore scopre nella storia del suo popolo i segni di una presenza di Dio nel mondo che non viene mai meno: il passato fonda così la speranza nel futuro.

2.4.3. Sapienza e Nuovo Testamento

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Il libro della Sapienza è dunque ben fondato nella tradizione di Israele. Si discute se gli autori del Nuovo Testamento lo abbiano conosciuto: sembra però che almeno Paolo e Giovanni l'abbiano tenuto presente. La teologia della sapienza proposta in Sap 7-9, in particolare pone in pratica le basi della teologia neotestamentaria sul Verbo. Paolo e Giovanni attingeranno appunto a queste pagine, come è possibile testimoniare attraverso queste concordanze:

Sap 7,26: la sapienza è immagine dell'eccellenza divina Col 1,15: Cristo è immagine del Dio invisibile

Sap 7,26: la sapienza è riflesso della luce eterna Eb 1,3: il Figlio è riflesso della gloria del Padre

Sap 8,3; 9,4: intimità della sapienza con Dio Gv 1,1.8: intimità del Verbo col Padre

Sap 7,21;8,6; 9,1.9: funzione creatrice della sapienza Gv 1,3.10: funzione creatrice del Verbo

Sap5,4;9,9;10,11.17: onniscienza della sapienzaGv 5,20: onniscienza del Verbo

Sap 7,23; 11,24.26: amore di Dio per gli uomini Gv 3,16-17: amore di Dio per gli uomini

Sap 7,28: amore di Dio per chi ama la sapienzaGv 14,23; 16,27: amore del Padre per chi ama il Figlio.

2.5. Giobbe

2.5.1. Introduzione

Secondo il Talmud di Babilonia "Giobbe non è mai esistito, e non è mai stato creato. E’ solo una parabola". Questa convinzione è oggi condivisa dalla maggioranza dei commentatori, che però sottolineano come il testo lo presenti con tutta la forza di un vero personaggio narrativo. La potenza ed efficacia di questa parabola costituita dal libro di Giobbe, passa anche per la forza narrativa con cui è stato forgiato un personaggio a tutto tondo, particolarmente credibile, che merita di essere indagato. La stessa Bibbia ha fatto riferimento a lui in altri libri come in Ez 14,12-23 dove è presentato come modello di rettitudine assieme a Noè e Daniele. Oppure nella lettera di Giacomo (5,11) dove appare come modello proverbiale di costanza nella prova, che rivela in pienezza il mistero della provvidenza divina.

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La liturgia incoraggia questa lettura anche perché dà poco spazio a questo testo solo nella 5° e 12° domenica dell'anno B. Mentre una lettura sintetica si svolge nella 26° settimana del ciclo quotidiano con una antologia che tocca i testi del prologo (1,6-22) dell'angoscia (9,1-19) e della speranza di Giobbe (19,21-27), del discorso di Dio (38,1-3.12-21 e 40,3-5) ed infine dell'epilogo (42,1-6.12-17). Una. lettura più ampia del testo porta ad una impressione del tutto diversa: il protagonista del libro di Giobbe appare per la gran parte del racconto, piuttosto, che "l'uomo paziente" un modello di contestazione e ribellione anche nei confronti di Dio. Il testo si presenta quindi tutt'altro che semplice e la ricezione semplicistica del "Giobbe modello di pazienza", o del testo come "risposta al problema della sofferenza del giusto innocente" non giustifica gran parte del testo biblico che abbiamo davanti. Per una migliore comprensione di questo testo si sono cercati vari paralleli, nelle letterature antiche e molti possono essere elencati, è tuttavia difficile determinare, fino a che punto questo libro biblico sia influenzato da questi modelli. Molto probabilmente il tema della fragilità congenita dell'uomo di fronte al male, lo scandalo della sofferenza innocente, l'apparente assenza della divinità di fronte a questo problema sono dei temi così presenti nella esperienza umana da influenzare non solo una cultura ed una letteratura.

2.5.2. Il vero tema del libro

La Bibbia ebraica colloca Giobbe tra i libri sapienziali, dopo i Salmi e i Proverbi con i quali forma un gruppo inscindibile e prima del Cantico. Se la Torah è "la parola di Dio indirizzata ad Israele", i profeti sono l'interpretazione divinamente ispirata di questa parola, i sapienziali sono la risposta umana a questa parola: i sentimenti ed i pensieri dell'uomo, creatura di Dio, in dialogo col suo Creatore. Su questo sfondo appare logico lo sviluppo primario di un tema che percorre tutto questo libro e che potremmo sintetizzare come la domanda, che Giobbe pone a Dio: "La sofferenza dell'uomo ha un senso, un significato, un orientamento, o meglio una finalità?".In questa linea il testo è stato letto entro la tradizione fin dai padri: Sant'Agostino, San Girolamo e Sant'Ambrogio lo hanno commentato, fino all'opera monumentale di S.Gregorío Magno "Moralia in Job", che parte da una lettura allegorica di questo testo per impostare correttamente la visione cristiana dell'etica e della morale. Fuori dal coro per certi versi è stato S. Tommaso d'Aquino che si occupa di questo testo soprattutto dal punto di vista del senso letterale e vi riconosce un testo utile ad approfondire il tema della provvidenza divina e del suo "funzionamento". Per S.Tommaso infatti il testo più che parlare della sofferenza parla di Dio e del mistero del suo amore provvidente rispetto alla dottrina tradizionale della retribuzione

Su queste due posizioni ancora oggi si dividono i commentatori e la scelta dell'uno o dell'altro accento si fonda spesso sulle ipotesi di ricostruzione della origine del testo. E' innegabile che il testo attuale mostri molti indizi di una origine complessa. Dalla maniera in cui viene ricostruita la storia della redazione del testo si propende per leggervi una riflessione di varie scuole teologiche sul tema soprattutto della retribuzione e della provvidenza divina, o sul tema del male e del suo mistero. La necessità di una scelta tra le due letture non appare oggi così necessaria. La riflessione sui testi antichi e la loro interpretazione ha portato alla convinzione della polisemia dei testi, che più spesso di quanto pensiamo, intrecciano tematiche complementari, o addirittura diverse.

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2.5.3. Le aporie del testo

Guardare più da vicino il testo notando le tracce della sua composizione non è comunque una indagine inutile, perché permette di mettere in evidenza quali sono gli snodi fondamentali del racconto, che tutta la sua evoluzione ha comunque conservato. Sicuramente il libro non è uscito dalle mani di un unico autore ma ha subito rimaneggiamenti, aggiunte, trasformazioni (cfr 3 cicli di discorsi per certi versi ripetitivi). Emergono tre tipi di materiale:

1. una parte in prosa (inizio e conclusione), che secondo molti commentatori dipenderebbero dallo strato più antico della tradizione, la "leggenda di Giobbe".

2. discorsi: tre cicli di dialoghi tra Giobbe e gli amici, poi uno tra Giobbe e Dio.3. aggiunte: cc. 28; 32-37. Le aggiunte sono probabilmente posteriori, si adattano al resto

del libro solo in maniera generale come ulteriori tentativi di difesa della tesi sapienziale tradizionale.

2.5.4. La frattura tra prosa e poesia

A partire dal commentario di Eissfeldt, la parte poetica è stata riconosciuta come spiritualmente più evoluta, orienterebbe verso una conquista interiore ed una accettazione della sofferenza (42,5: Gb percepisce il mistero di Dio ed accetta il suo governo sul mondo), mentre la parte in-prosa in maniera più "primitiva" imposterebbe e risolverebbe il problema della sofferenza con un superamento esterno (ricompensa). Tracce di questa maggiore antichità della parte in prosa: l'antica "leggenda di Giobbe", sarebbero secondo Fohrer elementi eterogenei antichi legati a tre grandi epoche: pre-israleitica, patriarcale-regale, post-esilica.

Fohrer elenca come elementi pre-israelitici:a.-il nome "Giobbe";b.-Sabei e Caldei, presentati ancora come nomadi razziatori;c.-i nomi degli amici di Giobbe;d.-i paralleli con la letteratura ugaritica (ad es. l'importanza data alle figlie di Giobbe, importanza dei numeri 3 e 7, la registrazione della servitù, il consiglio dei ministri che Dio tiene nella corte celeste).

Come elementi del periodo patriarcale-regale:a. Giobbe sembra contemporaneo dei patriarchi quanto a stile di vita;b. la prosperità di Giobbe è misurata in termini di bestiame e di servi;c. è il padre di famiglia che offre i sacrifici per placare l'ira di Dio (sacerdozio naturale e familiare); d. l'idea di benedizione di Dio (1,10);e. la piastra (qesittah: 42,11) come unità di misura si ritrova altrove solo in Gen 33,19 e Gs 24,32;f. la longevità di Giobbe (è più giovane solo dei patriarchi antidiluviani).

Una tradizione pre-israelitica avrebbe dunque preso forma in tempi patriarcali. Questo spiega la stilistica segnata da scene brevi, costruite in modo simile con carattere vivace; ci si ferma a descrizioni esterne; lo stile ripetitivo predomina sulle varianti.

Si evidenziano però, già nella parte in prosa, anche elementi post-esilici che denotano una costante• rielaborazione dell'intero testo:a. l'introduzione del Satana nella scena della corte celeste; probabilmente la leggenda antica vedeva la prova di Giobbe come voluta da Dio, ma nel postesilio questo elemento sgradevole di Dio viene

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attribuito al Satana (cfr 2 Sam 24,1-9 ove Dio mette alla prova Davide per il censimento, mentre nel parallelo di 1 Cr 21 è il Satana che mette alla prova Davide);b. influenza della riflessione sapienziale che collega, come vedremo, molti elementi del prologo e dell'epilogo ai temi del testo in poesia.

L'essenziale della leggenda sarebbe dunque patriarcale, ma con elementi pre-israelitici ed addirittura post-esilici, segni di una rielaborazione piuttosto forte del materiale attuata in varie epoche, magari anche dal redattore della parte in poesia.

Questo testimonierebbe una unificazione posteriore del testo, che almeno a livello di redazione sarebbe stato rielaborato tanto da garantirne una unità maggiore di quanto sostenevano i primi commentatori. Una lettura unitaria, come oggi molti commentatori cercano di fare, ha dunque giustificazione anche dal punto di vista di un approccio storico critico.

2.5.5. La struttura attuale del testo

La domanda sul tema centrale del libro di Giobbe è in definitiva una ricerca della sua attuale strutturazione, che ha trovato negli ultimi studi varie proposte.Particolarmente significativa è quella di R. M.Polzin che individua nel racconto la dinamica di risoluzione di una contraddizione che si articola in 4 passaggi.

1 - Dio affligge Giobbe (ce 1-37). Lo scontro è fra la visione del mondo a partire dalla fede e quella a partire dall'esperienza. Nella prima Dio dirige tutto e premia e castiga con giudizio giusto. Giobbe all'inizio è benedetto e dunque è giusto, quando diventa non-benedetto deve necessariamente aver perso la sua giustizia. Ma Giobbe sà, dalla sua esperienza, di non avere peccato. Come conciliare le due cose? Come conciliare la fede che parla di un mondo giusto con l'esperienza che mi presenta il caso della sofferenza dell'innocente? Questo è il conflitto che articola i dialoghi tra Giobbe e gli amici.

2- Dio appare nella tempesta (ce 38,1-42,6). La visione di Dio risolve il conflitto, perché mette in discussione la validità dell'esperienza soggettiva di Giobbe a favore della fede. Ma il conflitto si ripresenta: come riconciliare l'esperienza con la visione di Dio che sembra contraddirla?

3- Dio approva il discorso di Giobbe (c 42,7-9). Il nuovo conflitto si risolve grazie alla parola di Dio che difende Giobbe contro i suoi amici. La loro deduzione sulla colpa di Giobbe era errata perché la sofferenza di Giobbe non era determinata dal suo supposto peccato, Giobbe è tanto giusto che può addirittura intercedere per i suoi amici. Nasce però un terzo conflitto. Se la potenza di Dio lo poneva in un rapporto di tale grandezza nei confronti dell'uomo che a Giobbe non restava che. tacere; come può però tacere un giusto riconosciuto tale da Dio stesso, se soffre innocentemente?

4- Dio restaura doppiamente la situazione di Giobbe (42,10-17). E' la risoluzione del conflitto tra Parola e Visione di Dio. L'azione di Dio conferma la sua parola e lo fa attraverso la sua potenza sovrana che aveva rivelato a Giobbe. Il racconto torna così all'inizio dove la domanda del tentatore era: Giobbe è giusto perché è benedetto, o è benedetto perché è giusto? Il finale annuncia la giustizia di Giobbe ed assieme la sua benedizione finale come un atto gratuito di Dio. Infatti nel corso della storia la benedizione appariva cessata pur essendo ancora valida la condizione di giustizia di Giobbe. Non c'è in realtà una risposta decisiva al problema dell'innocente che soffre, c'è piuttosto un cammino narrativo attraverso il quale il testo educa il lettore a risolvere il conflitto

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tra esperienza e fede, a favore di una fede responsabile, che non cessa di confrontarsi con nuovi dubbi e rifiuta “scorciatoie teologiche", ma al tempo stesso accoglie la grandezza divina che con la luce della sua presenza rende possibile la fede anche nella sofferenza.

L'analisi di Polzin in definitiva apre la comprensione del testo in una direzione nuova: inizia a spostare l'asse del contenuto del testo dalla riflessione teorica (= come spiegare la sofferenza dell'innocente?) alla prassi (= come conservare la fede se si soffre innocentemente?). Questo sviluppo è stato di fatto attuato da lavoro di W.Vogels ripreso ed integrato da Radermakers. W.Vogel affronta il testo di Giobbe dal punto di vista dell'analisi narrativa, secondo il metodo di A.J.Greimas e dell'attenzione ai diversi tipi di linguaggio religioso presenti nel libro. Come si vede l'impostazione di questi studi si sposta dallo sfondo morale a quello teologico dogmatico: il libro di Giobbe parla più di Dio che del problema della sofferenza. In definitiva mostra varie maniere di parlare di Dio, vari tipi di linguaggio religioso, posti nella condizione della sofferenza. Anticipando per chiarezza quella che potrà essere una specie di conclusione della nostra indagine, il libro di Giobbe affronterebbe la domanda: Come parlare correttamente di Dio nella situazione di sofferenza innocente? Con la coscienza chiara che questa situazione umana di limite ha lo straordinario potere di smascherare le falsità, le bugie bianche, i paludamenti e gli artifici linguistici e filosofici. La sofferenza è un crogiuolo che purifica nell'uomo anche il linguaggio, e se c'è un'opportunità per l'uomo di parlare "bene (correttamente) di Dio" questa è probabilmente maggiore nella situazione della sofferenza.I quattro linguaggi su Dio con cui secondo Vogel si cimenta il libro di Giobbe sono: - quello della fede popolare nel prologo (1,1-2,10)

- quello della teologia nei dialoghi con gli amici (2,11-31,40)- quello profetico-carismatico nell'intervento di Eliu (cc 32-37)- quello mistico nel dialogo fra YHWH e Giobbe (38,1-42,6).

Mi sembra importante notare subito che, anche se vedremo che Vogel identifica un itinerario che attraverso questi linguaggi il testo fa percorrere al lettore, la sua lettura non può essere semplicistica, del tipo: solo la mistica è il linguaggio adatto a parlare di Dio nella sofferenza e quindi a parlare di Do nel modo più perfetto. Il libro di Giobbe opera piuttosto una purificazione dei vari linguaggi, tutti importanti e tutti egualmente limitati. Per certi versi affermando che ognuno ha una validità purché mantenga una correttezza radicale di utilizzo nei confronti di un tale "oggetto" di indagine (Dio), che sfugge a tutte le oggettivazioni (intese come delimitazioni, comprensioni=com-prendere). L'utilizzazione di questi linguaggi forma al tempo stesso per Vogel un itinerario che è insieme del

testo e del suo lettore:Linguaggio della fede popolare -> linguaggio del dubbio, monologo "chi può rispondere? ->Linguaggio teologico -> linguaggio della preghiera (supplica e speranza) "se Dio volesserispondere? ->Linguaggio profetico carismatico -> linguaggio della venerazione ->Linguaggio mistico ->....

Così sintetizza lo stesso Vogel:"Che cosa è successo? Come si è parlato di Dio nella sofferenza? Giobbe è uscito dalla prova

principale. Non ha maledetto Dio in faccia, il Satana ha perso la sua scommessa. L'eroe è giunto alla prova glorificante: YHWH riconosce che Giobbe, nella sua sofferenza ha parlato in modo corretto di lui agli altri. Giobbe ha compiuto un lungo cammino, è passato da un linguaggio all'altro. Questo cammino forse non è quello di ogni credente, ma molti vi si possono ritrovare. Dopo l'accettazione

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cieca della sofferenza nella fede, vengono i dubbi e la ricerca di risposte teoriche. Davanti all'insufficienza di queste, l'uomo si volge verso Dio nella preghiera. Molti si lasceranno ispirare dalla corrente carismatica e alcuni troveranno la pace nella contemplazione mistica silenziosa...». (Job 852)

2.6. QOELET

2.6.1. Il nome

E' un libro problematico già a partire dal nome. In due testi è presentato con l'articolo (ha)qohelet da qahal che significa raccogliere. Potrebbe essere un participio femminile o una forma denominativa del sostantivo qahal = assemblea. Quindi forse qohelet significa raccoglitore di esperienze, di sapienza, del popolo oppure maestro dell'assemblea. Lutero traduce: il predicatore. Però il genere e la forma del libro sono lontani dalla predicazione classica, sembra più una riflessione personale. La desinenza elet è femminile, probabilmente perchè indica un'ufficio, un compito e poi per estensione il detentore dell'ufficio. Altri esempi sopheret e mebasseret =evangelizzatore.

2.6.2. L’Autore

La tradizione giudaica e cristiana lo attribuisce a Salomone. In 1,1.12 egli si presenta come figlio di Davide re di Gerusalemme... re di Israele in Gerusalemme (solamente Davide e Salomone). 1,12-2,11 la figura del protagonista corrisponde a Salomone, è presentato come uomo sapiente e grande costruttore. Ma la pseudonimia è motivata alla stessa maniera che in Proverbi e Sapienza: Salomone è il sapiente per eccellenza. Il libro appare tardivo, dopo il l ° cap. non ci sono riferimenti a Salomone. In certi passi l'autore si presenta come un suddito e non può quindi essere Salomone.

2.6.3. L’Editore

E' diverso dall'autore e ha scritto 12,9-10. Qoelet è stato un saggio e un maestro. Egli ascoltò (izzen da ozen = pesare, ponderare), esplorò (higger = scrutare, esaminare) aggiustò (tiqqen = mettere ordine, rendere diritto). Qoelet andò nella profondità delle cose cercando di mettervi ordine e cercò di trovare pregevoli detti (dibre hefes = parole che danno piacere). E’ anche un letterato che ha il gusto di esporre in modo bello e piacevole il suo pensiero. La lingua non è difficile né ricca di parole, presenta influssi aramaici e, secondo alcuni autori, anche fenici.

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2.6.4. Il genere letterario

Qoelet è un sapiente, ma il suo scritto non si presenta come un'insegnamento nel senso egiziano di detti sapienziali, che formano un corpus di insegnamento, trasmesso con autorità da una persona ad un'altra. Questo elemento talvolta compare (11,9), ma il tono è piuttosto quello dell'invito alla riflessione, una provocaztone alla critica. Solo il c. 10 contiene una vera e propria raccolta di meshalim, misti a riflessioni. Qoelet usa termini tratti dal linguaggio dei sapienziali, del Dt e dei profeti: lavoro umano, follia e sapienza, morte, retribuzione, donna, vecchiaia, timor di Dio. Ma gli occhi di Qoelet vedono queste cose in un modo nuovo, critico: non va solo alla ricerca dell'esperienza o della dottrina, ma partendo da lì cerca di sottomettere il tutto a una riflessione razionale critica. Egli usa frequentemente il richiamo alla sua riflessione personale. E' difficile determinare il genere letterario. Il libro appare da un certo punto di vista coerente con se stesso, ma se si guardano i contenuti vi sono tensioni e contraddizioni. Coerente è l'atteggiamento mentale e critico. I contenuti variano e talvolta sono incoerenti.

Ad esempio Qo 3,14 accetta che esiste un piano di Dio, con una sua coerenza, che non sopporta correzioni, Qoelet lo riconosce e comprende. Ma in altri testi (8,17; 5,1) Dio appare lontano dagli uomini, tanto che il suo piano appare misterioso e incomprensibile. Nel c. 3 il mondo è visto come monotono, ripetitivo e senza senso, ma il v 11 dice: “Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo”. 3,18-21 nega la sopravvivenza degli uomini, come 12,7: “lo spirito torni a Dio, la polvere alla terra”. Sul problema della retribuzione non c'è una posizione coerente: alcuni passi la negano (7,15; 9,2-3) mentre altri la affermano; se in 8,12a il peccatore ha lunga vita, in 8,12: “So che saranno felici coloro che temono Dio”, due idee diverse coesistono addirittura nello stesso versetto! La gioia è inutile e vana (2,2; 3,10-11), altrove è una realtà che viene da Dio (5,19; 8,15). Anche il lavoro a volte appare inutile, a volte è dato da Dio. La donna è incorreggibile secondo 7,27-28, ma secondo 9,9 dà la gioia. La vita è meglio della morte (9,4), oppure è vanità (4,2; 2,17). La sapienza è preferibile a ogni altra cosa, ma a volte appare inutile.

Secondo Gregorio Magno (Dialoghi, IV, 4), Qoelet è un predicatore che prima di tutto ascolta quello che emerge dal mondo, per poter arrivare alla ricerca della verità. Il mondo è un'insieme confuso di idee contrastanti. Alla fine il nostro predicatore darà il suo parere: “Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo per l'uomo è tutto” (12,13). Il libro sarebbe perciò una raccolta di opinioni senza una logica unitaria.

Alla fine del sec. XIX, Siegfried ritiene di risolvere il problema con l'ipotesi di una pluralità di autori, al punto che, ad es. il c. 7 viene attribuito a 5 autori diversi:Q1 pessimista (v lb-4.15.26-28);Q2 epicureo (v 14.16);Q3 sapiente di scuola che loda la sapienza (v 11-12..19);Q4 hasid, pio rappresentante della spiritualità biblica (v 13.17.23-25);Q5 glossatore di scuola (v 5-6a esprime un proverbio. 7-10 rispecchia la sapienza tradizionale, il v 18 è un tentativo di compromesso delle posizione precedente mentre i v 20.22 fanno un'analisi realista). Il v 6b è di un redattore.

Sigfried forse ha esagerato attribuendo le affermazioni ad autori diversi. Per sostenere la sua tesi ogni singolo autore dovrebbe avere una coerenza strettissima, mentre non c'è preoccupazione per la lingua, lo stile o la psicologia dell'autore (ad es. 7,11-18 nell'insieme hanno un significato dinamico che si perde dividendo i vv. fra 4 autori; in 7,1-11 spezzare la serie di "e' meglio" significa

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non tenere conto del dato letterario). Oggi non accettiamo più una critica così puntigliosa, anche se ci possono essere delle glosse. Prevale la tendenza a riconoscere al libro una certa unità, anche se non logica, visto che non è un trattato con una tesi da dimostrare. Probabilmente, il libro è una serie di piccole unità e .discorsi, dai 2 ai 15 versetti, con un argomento definito per ciascuna, composte sotto l'impulso del momento e poi raccolte sotto forma di libro senza l'intento di ricondurle ad unità.

Per altri, Qoelet usa nel suo modo di lavorare le citazioni, ma non sempre nello stesso modo, a volte richiama un proverbio tradizionale per riconfermare la sua idea (10 18), a volte cita un proverbio solo in parte, o lo cita tutto ma gliene interessa solo una parte, e il resto rimane inglobato nel libro (cf 5,1-3: il proverbio prende tutto il v 2, ma a Qoelet interessa solo il secondo stico). Altre volte cita un proverbio per commentarlo, e il commento è a volte serio, altre volte ironico per far riflettere (7,2; 4,9-12). In altri casi a Qoelet piace mettere insieme 2 proverbi per far risaltare la loro contraddizione e in tal modo far emergere l'insufficienza della sapienza tradizionale (4,5-6).

In Qoelet non è presente quella logica che è tipica della cultura occidentale, non è possibile proiettare le nostre categorie sulle sue, occorre piuttosto fare emergere motivi, temi, concetti che si prestano a una riflessione e non escludono punti di vista dubbi e perplessità. Qoelet infatti non argomenta con sillogismi, ma chiarendo questi topoi (affermazioni, prese di posizione su un argomento).

Qoelet è da collocarsi sicuramente in ambiente giudaico, infatti se è critico nei confronti della tradizione è tuttavia attaccato ad essa, si rifà alla sapienza di Salomone, si richiama a Genesi, a testi paralleli, a Proverbi. Comunque non è possibile attribuire Qoelet ad un pensiero univocamente giudaico, egli non contesta per il suo caso, come Giobbe, ma rifiuta la condizione umana nella sua completezza, forse mosso da uno stimolo esterno; a tale riguardo vi sono due ipotesi:

a. che provenga dal pensiero greco: scetticismo, epicureismo, stoicismo, simile a Eraclito, Marco Aurelio, Etica nicomachea, Orazio, Persio, Petronio;

b. oppure dal pensiero orientale: semitico ed egiziano, stile Gilgamesh (es. Dialogo di un padrone col suo servo). E' simile al pensiero egiziano specialmente nei periodi intermedi più pessimisti in cui è presente un senso profondo della vita umana come vita che cammina verso la morte, con l'invito a godere della gioia del presente.

Se, come molti ritengono oggi, Qoelet è stato scritto intorno 200 a.C., saremmo di fronte a una crisi intellettuale e sociale, sperimentata nel periodo in cui la Palestina è stata dominata dai Seleucidi. Qoelet avrebbe voluto liberare la sapienza tradizionale dai suoi schemi ristretti, ma non per renderla schiava di un sistema straniero. Si può accettare che Qoelet abbia degli stimoli esterni, ma certamente non ne rimane prigioniero, anzi per certi aspetti Qoelet è più ebreo di Proverbi.

2.6.5. La datazione

Un manoscritto di Qumran.(4QQ) del 150 a.C. testimoniaa che Qoelet è stato scritto prima del 150. Inoltre vari studi dimostrano come molto probabilmente Qoelet sia stato conosciuto ed utilizzato da Siracide. La contestazione della sapienza tradizionale avvicina Qoelet a Giobbe, mentre le osservazioni sulla lingua rilevano un ebraico appena prima della Mishnah, molto tardivo. Per l'insieme di queste osservazioni si può ipotizzare che Qoelet sia stato scritto tra il 250 e il 200 a. C.

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2.6.6. Alcuni temi

a. La condizione umana: è un vicolo cieco; c'è un momento bello, la giovinezza, ma si dilegua presto (11,10) e l'uomo si sente costretto da un destino cieco (9,11). Non c'è coerenza in questo destino dell'uomo, che non ha in mano la sua vita; conta di più il caso, che lo sforzo intelligente dell'uomo. Qoelet vede soprattutto gli aspetti oscuri e dolorosi della vita (4,7-12; 5,15-16; 6,3-6). Anche la vita sociale è gravata dall'oppressione; l'esercizio della giustizia non è corretto (3,16), l'amministrazione dello stato non funziona, non c'è nessuno che se ne assuma la responsabilità (5,7). Qoelet non dice che la sua epoca sia peggiore delle precedenti (7,10), non c'è una degradazione nel corso del tempo, la realtà è sempre stata così. Il povero che ha salvato una città viene dimenticato, perché è povero (9,13-16). L’onestà non viene riconosciuta e ricompensata, mentre il malvagio viene seppellito con onore (8,10). Il giusto e il malvagio ottengono il contrario dei loro meriti (8,14; 7,15). Anche nei salmi si riconosce questo, ma si attende un cambiamento della situazione. Qoelet non spera in un cambiamento; per tutti la sorte è uguale (9,2-3). La vita dell'uomo va verso la vecchiaia e la morte (sheol).12,1-7 evoca le diverse parti del corpo: c'è un progressivo venir meno delle capacità, dopo la pioggia non viene il sereno, ma ritornano le nubi. L'unica certezza per l'avvenire è che si va verso la morte, il resto è incerto (10,14). La conclusione di Qoelet, è che la vita è una realtà assurda, dove tutto è privo di senso (2,17: "ho preso in odio la vita"). Questo non è espresso attraverso un pensiero sistematizzato, ma con una serie di osservazioni.

b. Attività dell'uomo: pessimistica è la valutazione del lavoro, che è un'occupazione penosa imposta da Dio agli uomini perché essi fatichino (1,13), cosicché il lavoro compiuto risulta sgradito agli occhi di Qoelet. Le domande del libro di Giobbe sono provocate dalla sua malattia, mentre quelle di Qoelet dalla condizione lavorativa dell'uomo (anche se non unicamente). L'uomo deve lavorare per vivere (11,4; 8,15; 3,13), ma non bisogna attendersi dal lavoro la felicità. La bocca dell'uomo non è mai sazia. Non. c'è vantaggio, in senso umano, che si possa ricavare dal lavoro (1,3; 3,9-10; 2,10-11); quando c'è il salario, esso è fonte di invidia (4,4). Costituire una fortuna non giustifica le sofferenze e le preoccupazioni di chi lavora; se questo è stato vero per Salomone, è vero anche per gli altri uomini. Col crescere dei beni, i parassiti aumentano. La fortuna è accompagnata da instabilità e insicurezza, che lasciano al ricco soltanto rimpianto. La condizione di chi è senza figli è ancora più tragica (4,7-8): se non si gode i suoi beni, è stolto. La riflessione sul lavoro fa sentire a Qoelet tutto ciò che manca all'uomo per essere felice. Allora l'uomo è invitato a rifugiarsi nel piacere, che Dio non gli rifiuta, anche se è solo un palliativo e non un vero rimedio.

c. L'ordine sociale: Qoelet osserva una società ristretta, anche se vuol dare alla sua riflessione un valore generale. Conserva una concezione sacra del potere di origine teocratica (8,2-4); però vede bene le malefatte di chi è al potere: allontanamento di anziani e notabili, promozione di incapaci (10,5). Qoelet critica uno stato in cui nessuno si assume delle responsabilità: il re vecchio è incapace. di farsi consigliare (4,13), il re giovane è sempre circondato da gente che vuole gozzovigliare (10,16-17), e la perdita dell'autorità conduce all'anarchia (3,16).

d. La sapienza e i sapienti: Qoelet è una critica della visione tradizionale della retribuzione (come in Giobbe), vuol dire qualcosa di nuovo ma vede che l'avvenire accumulerà la sabbia sulle sue parole (1,16). Qoelet si presenta come uno più sapiente di quelli che lo hanno preceduto, ma è cosciente che la sapienza è inaccessibile. (7,23-24). Qoelet sa che essa supera i risultati cui egli è

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giunto, aumenta le preoccupazioni e l'affanno (2,14-16). Stolto e saggio avranno la stessa sorte, però Qoelet non dice mai che la sapienza è vanità, come dice di tutte le altre cose.

e. La felicità: Buzy dice che il problema della felicità è il tema principale di Qoelet. Per ottenerla non bisogna esagerare nè da una parte nè dall'altra, e ricercare il giusto mezzo. Altri autori vedono un processo intentato da Qoelet contro la felicità. La morte rende caduco il piccolo piacere che l'uomo può strappare, non dà compensazione per le lunghe giornate di travaglio. Qoelet ha cercato in tutti i modi di raggiungere la felicità attraverso il piacere, ma è rimasto deluso. Il piacere è buono e raccomandabile, ma non dà la felicità; esso concede soltanto qualche momento di oblio. Qualcuno ha definito Qoelet un'edonista, ma tale definizione appare restrittiva. Per Qoelet la vita è assurda (7,15; 9,9), per non far naufragio nella vita vale la pena accettare dalla mano di Dio quei piccoli piaceri in essa inseriti. Comunque i giorni tristi saranno più numerosi di quelli felici. Qoelet non crede che la felicità sia possibile; l'uomo, dunque, può solo scegliere quello che è meno peggio, poiché non c'è niente di perfetto. Qoelet dà piccole r icette per tentare di raggiungere la fel ic i tà, ma sa che sono solo dei palliativi.

f. Qoelet di fronte a Dio: Qoelet dà per scontato che Dio è creatore, quello che lo turba è il “non rapporto" dell'uomo con Dio: il Dio di Qoelet non è il Dio dell'alleanza, ma un Dio concretamente irrilevante: l'uomo non può appellarvisi né dialogare con lui. Indirettamente sembra che Qoelet rimproveri a Dio il suo essere misterioso e l'imporre all'uomo delle limitazioni. L'uomo è desideroso di scoprire l'unità e, d'altra parte, non può farlo. Non si può raddrizzare ciò che Dio ha fatto curvo. Il problema di Dio non interessa a Qoelet in sé, ma solo in quanto interessa all'uomo. Ecco perché è difficile parlare di una teologia in Qoelet; comunque essa non è ritenuta capace di dare senso alla vita e alla morte degli uomini. Al tempo di Qoelet cominciano ad esserci aperture sull'aldilà e su una possibile retribuzione nell'aldilà; ma Qoelet rimane all'interno di una teologia tradizionale, pur criticandola.

2.6.7. Messaggio di Qoelet

Le opinioni sono molto diverse a seconda dei vari autori.

Podechard (1912). Il problema centrale di Qoelet è: quale vantaggio viene all'uomo da tutta la pena che egli si dà sotto il sole? Vale la pena vivere? L'uomo può raggiungere la felicità? Come? Questo in parte è vero, ma l'interesse di Qoelet non è aprire. una via per la felicità, gli basta dire che la felicità piena non è raggiungibile.

Buzy. Qoelet vuole condannare ogni eccesso; nel suo cammino verso la felicità, l'uomo deve collocarsi in un giusto mezzo, in equilibrio, non deve essere nè troppo virtuoso, nè troppo empio. Una felicità limitata. perché umana, ma non diminuita si può raggiungere.

Gordis. Non vuole ricavare da Qoelet una filosofia sistematica, il libro di Qoelet non ha una coerenza filosofica di pensiero, ma contiene dei flashes atti ad illuminare l'uomo. Qoelet denuncia i mali della società, ma mantiene una libertà di spirito sufficiente ad accettare la vita con coraggio e talvolta con gioia (sammah = gioire ricorre 17 volte). Gli ebrei leggono questo libro nella festa delle capanne, che è la festa della gioia per eccellenza.

Maillot. Qoelet è una riflessione sull'uomo polarizzata attorno alla scadenza della morte. La morte è presente in ogni pensiero di Qoelet, e relativizza ogni successo e impegno a cui l'uomo

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potrebbe attaccarsi La condizione umana viene contestata a partire dalla colpevolezza della morte.Lys. Qoelet è un libro di domande, una messa in questione di se stesso e di tutta la cultura

umana. Qoelet denuncia tutti i sistemi rassicuranti, che di fatto stravolgono la realtà, per farla accettare. L'uomo non può risolvere le domande fondamentali che egli stesso pone, perché non può abbracciare la totalità del tempo e dello spazio. L'esperienza umana porta l'uomo a non rifiutare un senso, ma nessuno può afferrarlo. Tensione tra un bisogno non sopprimibile e una realizzazione non possibile.

Barucq. Qoelet è una contestazione fondamentale della condizione umana, ha voluto giudicare con criteri di sapienza. Conclusione: vanità di tutto (parola chiave hebel). Vanità è: piacere, dignità, onore, giovinezza, lavoro, pena e profitto, ricchezza, il comportamento umano, la sorte che inghiottisce uomini e bestie, stolti e sapienti, la retribuzione che non distingue fra stolto e saggio, la sapienza tradizionale, i proverbi e gli aforismi della tradizione. C'è uno smarrimento intellettuale e sentimentale (cf la meditazione amara sulla vecchiaia e il poema sulla fuga vorticosa del vento con i salmi 49, 62, 73), condiviso da alcuni sapienti in Israele che contestavano l'ottimismo comune della sap ienza. C'è una contestazione intellettuale (Qo) oppure una preghiera inquieta (Sal): Qoelet non è dunque una voce del tutto isolata. Qoelet non è interessato alla storia degli imperi, ma alla condizione umana sottoposta al determinismo, come gli elementi cosmici; l'unica differenza è che per l'uomo il determinismo e la ripetizione cesseranno con la morte. Qoelet è un sapiente, ha ricevuto molto dalla tradizione sapienziale, ma guarda con un certo distacco í dati della elezione o alleanza, che non rifiuta, anche se non sono oggetto primario della sua riflessione. Qoelet non è uno scettico ateo, ma non ritiene idonea la teologia dell'alleanza a rispondere ai problemi individuali. Le promesse divine danno un senso alla storia del popolo, ma a Qoelet interessa l'individuo e allora si riferisce al Dio creatore, non al Dio redentore. L'uomo è creato da Dio ed è messo in mezzo agli altri. Qoelet non vede una via d'uscita, ma non cerca una soluzione qualsiasi; vuole cercare di risolvere i problemi. Si avvicina alla filosofia greca con un atteggiamento estraneo alla tradizione sapienziale precedente. Forse l'incontro con l'ellenismo ha provocato questi problemi; Qoelet è un libro aperto, e riceve provocazioni dagli ambiti culturali più diversi.

Von Rad. L'unità del libro di Qoelet è riconosciuta oggi da tutti gli autori, anche se non è un'unità lineare con un processo logico, ma unità di stile e di tema. Alcuni temi tipici: vanità, fame di vento, lavoro-fatica-pena, parte che spetta a qualcuno. Qoelet riconosce che c'è un'ordine negli avvenimenti, un tempo per ogni cosa (c. 3), ma questo non pone l'uomo al sicuro; l'uomo non riesce a dominare questo ordine, ne ha una conoscenza parziale (9,11-12), non riesce a dominarne il perché. E' Dio stesso che dirige gli avvenimenti e l'uomo può solamente subire questa realtà che gli si impone. All'uomo tocca temere Dio, riconoscergli potenza e libertà. L'uomo non può far entrare il piano di Dio nei suoi calcoli, non riesce a cogliere la successione dei momenti cosi come sono stabiliti da Dio. Qoelet ha il desiderio di conoscenza, ma ha anche il senso dell'irraggiungibilità di questa conoscenza - L'uomo deve godere la fe l i c i t à che Dio gli dona, è questa la sua parte. Qoelet non è un disperato, trova nella vita qualcosa con cui mettersi in sintonia con Dio, ma è un vivere che non soddisfa tutto il desiderio che c'è nel suo cuore. Che Dio sia il signore della storia è un dato costante nella Bibbia, ma che all'uomo sfugga completamente il piano di Dio è tipico di Qoelet (9,1).

Non c'è dialogo uomo-Dio e uomo-mondo. Da Dio l'uomo può solo accettare in silenzio la vita e il mondo, e Qoelet si rassegna, non si ribella. Nelle questioni di Giobbe si esprimeva l'impossibilità di stare senza Dio, in Qoelet la presenza di Dio è meno dominante. Qoelet non

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contesta solo alcune espressioni della sapienza tradizionale, ma l'impresa stessa della sapienza, secondo la quale è possibile orientarsi capire l'ordine che Dio ha posto. Per Qoelet il mondo e la storia sono impenetrabili. Il c 3 può essere letto come ordine oppure come caos: ogni azione è cancellata da un'altra opposta. I maestri tradizionale avevano fiducia nell'ordine stabilito da YHWH; questa serenità manca in Qoelet: egli sente l'insicurezza dell'avvenire, qualcosa davanti al quale egli è impotente, una ragione per cui ha perso la fiducia istintiva. Qoelet si pone un problema nuovo: il senso della vita, non si chiede semplicemente come comportarsi nella vita, come avviene in Proverbi. Tenta di rispondere partendo dall'esperienza, distillandola in forme astratte (es. vanità di vanità). E' un atteggiamento di rifiuto e di chiusura davanti al mondo: Qoelet guarda al mondo come dal di fuori, non lo accetta e ha sempre uno sguardo critico. Qoelet si guarda vivere, agire, senza introdursi del tutto nell'esperienza che sta facendo.

2.6.8 Conclusione

Interpretato da solo, Qoelet non è un libro molto religioso, ma rappresenta un momento dell'esperienza religiosa e spirituale dell'uomo e dell'israelita. Qoelet riduce all'assurdo una vita vissuta solo sotto il sole, distrugge gli idoli e le false sicurezze senza fornirne di nuove. Qoelet è un demitizzatore; dovrebbe far inquietare una persona troppo sicura di sé e aprire all'invocazione.

3. Analisi dei generi letterari dei Salmi con saggi di esegesi

3.1. La preghiera di supplica

Ci sono una serie di malanni fisici o morali che colpiscono il singolo o il popolo. Questa condizione non viene accettata passivamente (il destino non è una categoria cristiana!). Dio è presente anche nella disgrazia e l'uomo chiede il perché...:

«Signore Dio, perché hai fatto passare il Giordano a questo popolo, per poi abbandonarci nelle mani degli Amorrei?» (Gs 7,7)

Ciò suona come un rimprovero verso il Signore. E si dice:«Dio ci ha abbandonato».

Si registra la fine del rapporto di protezione:«Dove sono i tuoi prodigi di un tempo» (Gdc 6,13).

Si presentano allora i motivi per cui Dio deve intervenire:1- Il nome stesso di Dio. 2- Si presenta a Lui la rovina di Israele, che metterebbe in disonore lo stesso Dio.3- Segue una promessa di ringraziamento (promessa di un voto o glorificazione del nome di Dio).

Una maniera semplice di distinguere tra loro le suppliche si basa sui loro soggetti:A – comunitario;B – singolo.

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3.1.1. La supplica comunitaria

La grande motivazione della supplica è la perdita del benessere e della sicurezza in seguito ad una sconfitta, o ad una siccità. Quando si sta per verificare uno di questi fatti il popolo si raduna per invocare Dio (ciò può avvenire o come prevenzione o come conseguenza). Un accenno è in Gs 7,6: «Giosuè si stracciò le vesti. Con gli anziani sparsero polvere sul loro capo». Altri gesti penitenziali sono: togliersi il vestito e mettersi il sacco, tagliarsi i capelli, prostrarsi a terra, digiunare. E’ l'attesa dell'intervento di Dio…C'è poi il silenzio che esprime il dolore di fronte alla disgrazia. Anche Giobbe tace di fronte agli amici per 7 giorni. Dio poi interviene con la sua parola che in genere accompagna il sacrificio ed un oracolo del profeta, di salvezza o di castigo, che conclude la liturgia.

Possiamo individuare una struttura con 9 elementi, anche se non sempre sono presenti contemporaneamente:

1) Proclamazione del nome di Dio. Ci si appella a Dio: «Fino a quando continuerai a dimenticarmi?». Dio viene chiamato per nome;

2) Sommario della preghiera. Si illustra la situazione di abbandono e l'aiuto che Dio deve portare.

3) Memoria delle azioni del passato. "Continua ad essere quello che sei!" viene detto in pratica. Sal 44,2.10: «Con i nostri orecchi abbiamo udito l'opera che hai compiuto ai loro giorni nei tempi antichi. Ma ora ci hai respinti e coperti di vergogna e non esci più con le nostre schiere».

4) Lamento e descrizione del tempo della disgrazia. Il soggetto prega Dio, a cui ci si rivolge con confidenza: vengono descritti i nemici persecutori e malvagi: «Ruggirono i tuoi avversari nel tuo tempio». Sal 60,5 ma anche Dio come origine di tutto quanto accade «Hai inflitto al suo popolo dure prove, ci hai fatto bere vino da vertigini».

5) Dichiarazione di fiducia. Il Salmo non è un lamento funebre...Si cerca l'intervento di colui di cui si ha fiducia. «Non tornerai tu forse a darci vita...?». Chi prega, non si lamenta soltanto, ma sa di avere un interlocutore pronto a rispondergli.

6) La preghiera vera e propria. Affiora la necessità che risorgano rapporti di alleanza, che si riapra la relazione interrotta con Lui. Sal 80,4: «Rialzaci Signore nostro Dio, fa splendere il tuo volto e noi saremo salvi». Sono il braccio e la faccia di Dio con cui bisogna rientrare in rapporto diretto;Sal 80,8: «Rialzaci Dio degli eserciti»;Talvolta si rivolgono in prima persona plurale:Sal 60,3: «Dio, tu ci hai respinti, ci hai dispersi; ti sei sdegnato: ritorna a noi».

7) Ragioni per cui Dio deve intervenire. Gli avversari sono arroganti con il popolo d'Israele e così facendo sembra che mostrino la debolezza di Jahvè. L'umiliazione del popolo di Dio ha un peso blasfemo, in quanto gli dèi avversari sembrano vincenti e ciò ha un peso teologico che va rimosso. Viene offesa la gloria di Dio e Lui deve intervenire!

Sal 44,16: «L'infamia mi sta sempre davanti e la vergogna copre il mio volto».La vergogna è il primo attentato alla fede. Se uno ha vergogna non riesce a professare la propria fede in Dio e deve nascondersi! Vergogna significa sottomettersi agli dei stranieri.

«Per la voce di chi insulta e bestemmia, davanti al nemico che brama vendetta, poiché siamo prostrati nella polvere ... sorgi, vieni in nostro aiuto».8) L'augurio di salvezza per Israele e di rovina per gli avversari.

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Nel Sal 79,11-12: «Giunga fino a te il gemito dei prigionieri, con la potenza della tua mano salva i votati alla morte. Fa ricadere sui nostri vicini sette volte l'affronto con cui ti hanno insultato, Signore».

9) Annuncio della lode che la comunità promette a Dio per il suo intervento di salvezza.I salmi 13;19;79;80;90. In definitiva è bene ricordare che la supplica non è il canto del pessimismo, ma dell'ottimismo

fondato sulla fede. Si è sicuri che Dio aiuterà: «L'umile non torni confuso», che potrebbe anche essere letto: «L'umile non tornerà confuso, il povero loderà il tuo nome».Sal 69: «E noi tuo popolo e gregge del tuo pascolo ti renderemo grazie per sempre, di età in età proclameremo la tua lode».Sal 80: «Da te più non ci allontaneremo, ci farai vivere e invocheremo il tuo nome».Sal 90,14: «Saziaci al mattino con la tua grazia, esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni».

3.1.2. Sal 80 (79)

1 Al maestro di coro. Su «I gigli della testimonianza». Di Asaf. 2 Tu, pastore d' Israele, ascolta, tu che guidi Giuseppe come un gregge, tu che siedi sui cherubini, rifulgi 3 davanti a Efraim, Beniamino e Manasse. Risveglia la tua potenza e vieni in nostro soccorso. 4 O Dio delle schiere, rialzaci, fa' splendere il tuo volto e noi saremo salvi. 5 Signore, Dio delle schiere, fino a quando fremerai di sdegno contro la supplica del tuo popolo? 6 Hai dato loro da mangiare pane di lacrime, hai dato loro da bere lacrime in abbondanza. 7 Ci hai resi quale scherno dei nostri vicini e i nostri nemici si ridono di noi. 8 O Dio delle schiere, rialzaci, fa' splendere il tuo volto e noi saremo salvi. 9 Asportasti una vite dall' Egitto e la trapiantasti, dopo aver cacciato via le genti. 10 Preparasti per essa il terreno; mise radici in modo da riempire la terra. 11 Furono coperti i monti della sua ombra e i cedri maestosi dei suoi rami. 12 Allungò i suoi tralci fino al mare, sino al fiume i suoi germogli. 13 Perché hai abbattuto la sua cinta, in modo che la vendemmiano quanti passano per la via? 14 La devasta il cinghiale del bosco e se ne pasce l' animale del campo. 15 Dio delle schiere, ritorna, guarda dal cielo e vedi, visita questa vigna, 16 il giardino che la tua destra ha piantato, il germoglio che ti sei coltivato. 17 L' hanno bruciata col fuoco e l' hanno recisa; possano perire alla minaccia del tuo volto! 18 Sia la tua mano sull' uomo della tua destra, sul figlio d' uomo che ti sei allevato! 19 Non ci allontaneremo più da te; ci darai vita e invocheremo il tuo nome. 20 O Dio delle schiere, rialzaci, fa' splendere il tuo volto e noi saremo salvi.

Il Salmo 80 costituisce uno dei testi più cari alla pietà giudaica e cristiana. Si evocano le radici del popolo di Israele, la sua nascita nell'esperienza dell'Esodo e l'ingresso nella terra della libertà. Si tratta di una autobiografia di Israele, che però sente interrotto il suo contatto con Dio Salvatore.

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Anche se Jahvè è sempre presente, sembra essersi assopito. E' diventato distaccato e indifferente. Da questa condizione nasce la supplica: il salmista non dubita di Dio, ma non riesce a comprendere il suo comportamento. Non cerca spiegazioni teoriche, ma chiede che il volto di Dio si illumini e che nei suoi occhi si leggano di nuovo la benevolenza e la bontà.

Il salmo si inserisce strettamente nella raccolta di Asaf (salmi 73-83 il terzo libro del salterio), in particolare è legato col salmo 79 mediante richiami verbali e motivi. La finale del 79 e l'inizio del nostro sono strutturati concentricamente su: gregge, pascolo, pastore, gregge. Compare in ambedue i! tema della derisione dei popoli (80,7 - 79,4). In 80,14 il cinghiale e le bestie selvatiche devastano la vigna, gli stessi sono in 79,7 i pagani che devastano Giacobbe. Ambedue chiedono a Dio: fino a quando? (80,5b - 79,5). Molti richiami verbali anche con il salmo 78.

3.1.2.1. Struttura letteraria

Il Salmo 80, per quanto riguarda il genere letterario, è una lamentazione pubblica della collezione di Asaf. Si può suddividere in cinque brani (o strofe), con un ritornello che si ripete nei vv. 4.8.15-16.20. Ecco la struttura integrale che ne dà il Ravasi:

A. La grande introduzione (vv. 2-8): invocazione al pastore indifferente;a. Prima strofa (vv. 2-4): appello pressante al Dio dell'arca;

v. 4: antifonab. Seconda strofa (vv. 5-8): il drammatico silenzio di Dio e la tragedia nazionale presente; v. 8: antifona

B. Il cantico della vigna (vv. 9-17)a. Prima strofa (vv. 9-12): lo splendore del passato della vigna;b. Seconda strofa (vv. 13-17): l'amaro presente della vigna;

A'. La breve conclusione (vv. 18-19): invocazione a Dio e promessa di fedeltà; v. 20: antifona

L'antifona-ritornello si ripete in quattro punti del testo, pur nella sua costanza (vv. 4.8.20) presenta una variazione al v.15. L'antifona sviluppa il tema fondamentale della reintegrazione di Israele nel luminoso riflesso del volto di Dio cioè nel suo antico splendore (Nm 6,25). Il termine attorno a cui ruota l'antifona è il verbo sub nel duplice senso di "ritornare" "volgersi" (v. 15) e di "far ritornare" "restaurare" (vv. 4.8.20). Jahvè che "ritorna" ad Israele è la "restaurazione" dell’Israele "ritornato" a lui. Il "ritorno" è simbolicamente illustrato dall'irradiazione del volto divino (Sal 4,7; 3 1,17; Gb 29,2; Pro 16,15). Dal punto di vista del contenuto e della simbologia, i vv. 9-20 si possono considerare come una allegoria della vigna sul modello di Is 5,1-7.

3.1.2.2. Esegesi

2-8 PRIMO MOVIMENTO

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2-4 Prima unità

Ora, analizziamo il salmo anche nelle sue articolazioni minori. Si può notare come i vv. 2-4 costituiscano una unità letteraria. Si tratta dell'inizio di una supplica con una acclamazione a imperativi e participi con la menzione liturgica dell'arca, con la titolatura nazionale ("pastore d'Israele") e cultica ("assiso sui cherubini") di Jahvè col tema della luce in inclusione (vv. 2.4).

5-8 Seconda unità

Il v. 5 costituisce una nuova unità parallela alla precedente, è come una seconda introduzione nello stile delle suppliche. Al titolo "pastore d'Israele" del v. 2, ora corrisponde quello di "Jahvè, Dio degli eserciti". Al titolo divino segue: ”fino a quando?”, descrivendo di seguito la situazione drammatica in cui si trova Israele. Il tema "Dio degli eserciti" ("elohîm seba'ót) fa da inclusione alla strofa nei vv. 5.8 e conferma la funzione strutturale dell'antifona del v. 8.

9-17 Canto della vigna

2 PARTI: NEGATIVO-POSITIVO (=STORIA DI ISRAELE)Dal v. 9 inizia il simbolismo costruito attorno alla "vigna". Il cantico della vigna prosegue fino al

v. 17 nonostante la presenza dell'antifona nei vv. 15-16. Anzi l'antifona stessa sigilla il cantico: la centralità del tema provoca un allargamento del ritornello che accumula cinque imperativi e un iussivo (jo'bedu v. 17). Dividendo il cantico in due strofe si avrebbe una prima divisione nei vv. 9-12 in cui traspare l'aspetto positivo dell'azione divina, la piantagione e la cura assidua della vite. Con il v. 13, che si apre con il "perche?" delle suppliche inizia la parte negativa con la devastazione della vigna col tempo della prova e del giudizio.

18-19 Tema messianico

Arriviamo ora ai vv. 18-19 che si concludono con la solita antifona del v. 20: rappresentano una difficile e discussa preghiera finale con una giaculatoria regale (v. 18) simile a quella del Sal 72,15. Si parla di "Figlio dell'uomo" (ben'adam cfr. Sal 8,5), uomo della destra di Dio (Sal 10,5; Sal 18,36; 63,9), rivestito della potenza divina (Sal 89,22; cfr. 21,2). La preghiera rende chiaro l'aspetto teologico della rovina della vigna: il peccato ha spezzato la floridezza di Israele, ha prodotto morte, ma la conversione riporterà vitalità al tronco d'Israele che aderirà per sempre al Signore. I vv. 18-20 sono la conclusione teologica essenziale della metafora, la illustra e la applica alla vicenda spirituale e nazionale vissuta. Si ha quindi un parallelo con la ampia introduzione dei vv 2-8.

II carme rivela una grande armonia ed è soprattutto una meditazione simbolica sulla vocazione, la storia e il destino di Israele. Alle attese dell'Alleanza si oppone la cruda smentita dei fatti. E' interessante cogliere nel salmo il continuo trapasso dal simbolismo alla sua valenza teologica.

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3.1.2.3. Simbologia

Sono essenzialmente due le simbologie dominanti del Sal 80, luoghi comuni dell'Antico Testamento. La simbologia pastorale che ingloba più allusioni e più aspetti della figura di Jahvè: egli è guida, re, compagno di viaggio. Il secondo simbolo fondamentale è appunto quello della vigna, già noto all'antico oriente ed entrato nella tradizione simbolica cristiana. Ad esclusione del v. 19 in cui affiora anche il motivo del peccato di Israele, il salmo è un'analisi della psicologia divina, del suo amore e del suo silenzio. Orecchie (v. 2), volto (vv. 4.8.17.20), fremere, sbuffare del naso (v. 5), mani (vv. 9-13.16,18), occhi (v. 15) di Dio sono evocati nel loro atto d'amore e in quello del giudizio o di indifferenza. L'interrogativo e il dubbio sul silenzio divino sono cancellati dall'ottimismo di fondo del salmo: il Signore non può restare indifferente al grido del suo popolo. Egli si "convertirà di nuovo" secondo l'immagine del verbo súb dell'antifona, "ritornerà" per "restaurare" Israele con l'apparizione del suo volto e del suo braccio. La vigna e la vite (indicate in ebraico dalla medesima parola, ghefen) sono ricorrenti nel linguaggio biblico come metafora per designare Israele (Salmo 80,9; Isaia 5,1-7). Questa immagine sottolinea la cura premurosa di Dio, il padrone e coltivatore della vigna, per il suo popolo (versetti 9-12), ma anche lo stato di abbandono e devastazione in cui può venire a trovarsi (13-14).

3.1.2.4. Lettura cristiana

Nel Nuovo Testamento il simbolismo della vigna e della vite è ripreso da Gesù (Marco 12,1-12; Giovanni 15,18) e nella tradizione cristiana è stato spesso utilizzato per descrivere la Chiesa stessa.

3.1.3. La supplica individuale

Non è mai isolata dal contesto della comunità. Le motivazioni che portano l’uomo a recarsi al tempio a pregare e ad esprimere il proprio disagio con la supplica sono molteplici (malattia, vecchiaia, solitudine, esistenza di nemici). Lo stile è processuale ed è l'innocente che deve provare la sua non colpevolezza. Torna un tema teologico molto frequente che collega la malattia con la maledizione come conseguenza del peccato. Il salmo nascerebbe entro l'apposita liturgia con cui l'innocente viene riconosciuto come tale e riammesso nella comunità cultuale, tale liturgia chiamata "della porta" deve verificare lo stato di purità del fedele, richiesto per l'ammissione al santuario.La liturgia si articola su una domanda ed una risposta. I fedeli chiedono quali siano le caratteristiche necessarie per poter entrare.Sal 15,1: «Signore chi abiterà nella tua tenda, chi dimorerà sul tuo santo monte?". Sal 24,3: «Chi salirà il monte del Signore, chi starà nel suo luogo santo?»Sal 118,19: «Apritemi le porte della giustizia, entrerò a rendere grazie al Signore; è questa la porta

del Signore, per essa entrano i giusti».

Il sacerdote poi risponde enunciando le esigenze imprescindibili per l'ingresso al santuario. Sono esigenze non solo di tipo cultuale ma anche morale.

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Sal 24,4: «Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non pronuncia menzogna, chi non giura a danno del suo prossimo».

Infine i sacerdoti danno i1 benvenuto a chi ha potuto provare la sua giustizia.Sal 84,5: «Beato chi abita la tua casa, sempre canta le tue lodi».Sal 112,1: «Beato l'uomo che teme il Signore e trova grande gioia nei suoi comandamenti».Sal 128,1.4-5: «Beato l'uomo che teme il Signore e cammina nelle sue vie. Così sarà benedetto l'uomo che teme il Signore. Ti benedica il Signore da Sion!» (NB. da Sion perché il fedele sta entrando nel tempio).

Un secondo tipo di liturgia di supplica è la preghiera dell'innocente, che si rivolge al popolo e a Dio manifestando la sua condizione e chiedendo aiuto. In 1 Sam 12, Samuele si difende dalle accuse rivoltegli facendo un bilancio della sua vita: «Io non mi sono approfittato di niente e di nessuno».Nel Sal 27,2: «Quando mi assalgono i nemici per straziarmi la carne sono essi avversari e nemici a inciampare e cadere». Nel Sal 26,1-2: «Nell'integrità io ho camminato, scrutami Signore, mettimi alla prova». Segue poi il rito del lavaggio delle mani: «Lavo nell'innocenza le mie mani e giro intorno al tuo altare Signore». Talvolta si fanno anche giuramenti con imprecazioni: Sal 7: «Signore mio Dio, se così ho agito, se c'è iniquità nelle mie mani... il nemico mi insegua e mi raggiunga, calpesti la mia vita». È un'autoimprecazione che avvalora la prova di innocenza.

3.1.3.1. La struttura

La struttura della supplica singola è simile a quella comunitaria:1) La proclamazione del nome di Dio.2) Il sommario.Sal 102,2: «Signore ascolta la mia preghiera, a Te giunga il mio grido».3) Il ricordo dei benefici del tempo gassato.Sal 42,5: «Questo io ricordo e il mio cuore si strugge: attraverso la folla avanzavo tra i primi fino alla casa di Dio».4) Le parole di lamento. Si costruisce ancora il triangolo che comprende i nemici (loro), l’Io che soffre, e il Tu di Dio con la sua responsabilità nei confronti del fedele.5) La dichiarazione di fiducia. Dio agisce anche oggi e il fedele è convinto di quest'azione di Dio.Sal 55,17-18: «Io invoco Dio e il Signore mi salva. Di sera, al mattino, a mezzogiorno mi lamento e sospiro ed egli ascolta la mia voce».Sal 56,4-5: «Nell'ora della paura, io in Te io confido. In Dio, di cui lodo la parola, in Dio confido, non avrò timore».

6) La preghiera, che si muove attraverso vari verbi con cui si invoca Dio. Il verbo "ascolta" nel Sal 54, il verbo "salva" nel Sal 6, oppure "castiga" (gli avversari) nel Sal 5. E' una preghiera che intende suscitare un atteggiamento attivo di Dio nei confronti del dramma che si sta svolgendo.7) Le ragioni per cui Dio deve agire. La malvagità degli avversari, la morte vicina (Sal 22: ossa slogate, gola secca...)8) La promessa della lode. È la conseguenza... perché è l'uomo vivo che loda Dio. Non è un ricatto affettivo, ma la conseguenza del ritrovare la vita.9) Duplice augurio per il giusto e l'empio (meccanismo della retribuzione).10) La certezza di essere esauditi.

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11) Canto di lode dopo la grazia ottenuta. Nel Sal 22, dal v. 23 in poi c'è un canto di lode per la salvezza ricevuta. "Tu mi hai ascoltato" dice dopo aver detto nel v. 2 "Grido di notte e non ascolti". Nella liturgia probabilmente è presente un sacerdote che rassicura il fedele e conferma la sua fede. Testimonianze di questo oracolo di salvezza le troviamo in 1 Sam. Nel dialogo con Eli, Anna è rassicurata. Il sacerdote rafforza la fiducia di colui che prega.Dice C.Westermann: «La triste situazione di cui si lamentava il fedele e di cui era venuto a chiedere la liberazione ancora esiste Non si è verificato alcun miracolo ma qualcosa di diverso è ora accaduto. Dio ha sentito, ha avuto pietà: "Tu mi hai ascoltato". L'elemento decisivo si è realizzato. Quanto ancora si attende, il cambiamento della situazione penosa deve ancora realizzarsi ma si sa che esso avverrà immancabilmente. A questo conduce l'oracolo di salvezza del sacerdote».

3.1.4. Sal 26 (25)

Traduzione di Alonso Schökel

1Giudicami Signore, perché procedo onestamente; fiducioso nel Signore non crollo2 Scrutami, Signore, mettimi alla prova, saggia le mie viscere e il mio cuore;3 perché ho davanti agli occhi la tua lealtà e procedo secondo la tua fedeltà.4 Non mi siedo con gente falsa, con i furtivi non vado;5 detesto la banda di delinquenti, con gli empi non mi siedo.6 Mi lavo purificandomi le mani e giro intorno al tuo altare,7 facendo udire il mio rendimento di grazie, raccontando i tuoi prodigi.8 Signore, amo la casa ove dimori, il luogo dove risiede la tua Gloria.9 Non togliermi l'anima con i peccatori né con i sanguinari la vita;

10 perché la loro sinistra è colma di infamie riempiono la loro destra di subornazioni. 11 Io invece procedo onestamente: salvami, abbi pietà di me; 12 il mio piede si mantiene sulla retta via, nell'assemblea benedirò il Signore.

Note:v 4 G.Ravasi legge, con tono più religioso: idolatri, simulatori, malvagi, empi. V 6 G.Ravasi legge: Danzo attorno al tuo altare. V 12 G.Ravasi legge: su terra piana.

(NB. Per le note filologiche cfr. ALONSO SCHOKEL L. - CARNITI C., l Salmi, I-II, Boria, Roma 1992 -1993.)

3.1.4.1. La struttura (cfr. Ravasi)

Antifona (v 1 A) Giudicami e fammi giustiziaTema fondamentale (v. 1BC) ho camminato nell'integrità

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l ° strofa (vv. 2-5) Prima professione d'innocenza2° strofa (vv.6-10) Seconda professione d'innocenza

Tema fondamentale (vv. 11-12A) Io camminerò nell'integritàAntifona (v. 12B) Benedirò il Signore

3.1.4.2. La simbolica

Il movimento

Presenta due dimensioni: lineare e circolare. Il movimento lineare è indicato dal "camminare" (vv. 1.11) dal verbo hàlak (v.3 e dall'immagine della terra "retta" o "spianata" (v. 12A) dal verbo jàsàr dove si cammina bene. Il moto circolare dall'immagine del girare/danzare attorno all'altare (v 6)La simbolica del movimento indica la vita. Le due direzioni distinguono tra l’ambito morale e quello religioso/liturgico. I vv. 4-5 sottolineano il tema via/vita con la presentazione del cammino dei giusti in opposizione a quello degli empi.

Il corpo

L'individuo è connotato nella distinzione tra aspetto interno ed esterno del corpo: ciò che è visibile (mani, piedi, voce) e ciò che solo Dio vede (reni e cuore). La correttezza dell'esterno è invocata come prova della correttezza interna fondamentale, ma visibile solo dalla parte di Dio.

3.1.4.3. Esegesi

Il salmo si inquadra abbastanza bene nello schema di un giudizio d’appello, sia reale- oggettivo, sia espressione simbolica di un'esperienza spirituale. La prima parola è «giudicami». Al cospetto del giudice compare l’orante e protesta l'innocenza della propria condotta impeccabile (1.3.11.12). Questa si manifesta in atti esteriori osservabili e in una zona nascosta intima «cuore e reni» che solo Dio scruta (2) . L'orante compare di fronte a un gruppo anonimo, dal quale prende le distanze a motivo della propria condotta (4-5; cfr. Sal l; Sap 2) e chiede al giudice che nella sentenza non venga confuso con gli altri (9). L'orante però non presenta un caso concreto, ma solo affermazioni globali e generiche. Letto come imitazione letteraria, si può riassumere così il suo senso. La coscienza non mi accusa di gravi delitti, perciò, o nonostante ciò mi sottometto al giudizio la Dio (Pro 16,2; 21,2). L'orante però non adduce solo la sua innocenza; confida nel Signore (lb), conta sulla sua lealtà e fedeltà (3), chiede compassione e liberazione (1 lb). Si confronti il testo con la confessione di Paolo in 1Cor 4,3s. Inoltre si riferisce a delitti gravi (9), non a ogni specie di mancanze.

I versetti 6-8 introducono il tema del culto, senza chiarire la loro relazione con l'etica. Sono una parte di essa? La presuppongono? La confermano? Di certo sono complementari, come mostrano le opposizioni: «detesto i delinquenti/amo la tua casa» «non mi siedo con loro/giro intorno al tuo altare».

v.1 L'imperativo si ritrova anche in Sal 7,9; 35,24 e 43,1. Si può discutere la relazione dei tre verbi. Propongo: «sebbene onesto, non crollo, perché confido nel Signore».

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v.2 «Mettere alla prova» significa collocare l'uomo in una situazione in cui, decidendo, egli si realizza e si manifesta per quello che è: Dt 8,2.

v.3 «Lealtà e fedeltà»: l'orante non fa appello alla giustizia (Sal 35,14) né menziona la legge.vv.4-5 Non sono quattro gruppi differenziati, ma uno solo con varie caratteristiche. «Furtivi»:

nei confronti degli uomini (Sal 11,2); non è chiaro se si riferisce anche a Dio: cfr. Is 29,15.vv.6-8 La vita cultuale si articola in tre componenti: la lavanda e la processione, la lode e la

narrazione, l'amore e la dimora. La lavanda rituale delle mani può significare la purezza esistente o la purificazione: Dt 21,1-9; Is 1,15. «Intorno»: non indica se si tratta di una marcia processionale o di una danza: Sal 118,27. Si «ama» la dimora per riguardo a colui che la abita.

v.9 Distinzione e separazione tra innocenti e colpevoli, come in Gn 18,24; Nm 16,26. v.10 «Nelle mani» recano la prova del delitto. «Subornazioni»: Es 23,8; Dt 10,17; Is 1,23; ecc. vv.11-12 In parallelismo: i primi emistichi sono sinonimici, i secondi correlativi.

3.1.5. Inno di lode narrativo

Già nella supplica fa da continuazione l'inno di ringraziamento, inno di lode narrativo in cui si racconta l'intervento di Dio salvatore dell'uomo. Parliamo di inno narrativo piuttosto che di salmo di ringraziamento perché la terminologia biblica più che sul ringraziamento verte sulla lode di Dio. Non solo rendergli grazie, ma lodarlo nel contesto universale del suo agire nei confronti dell'uomo. E' un grazie in forma di lode che va al di là del mio caso personale. Il singolo aiuto si inscrive nella condizione di salvezza del popolo intero. Il beneficio ricevuto suscita in Israele una proclamazione che è sempre pubblica delle gesta di Dio. C'è sempre una comunità partecipante. Questi inni narrativi vengono usati all'interno di una liturgia particolare chiamata "della lode" o della Todah.

Il verbo Hodà, parallelo anche al verbo hallel, significa proprio lodare Dio per le sue opere di grandezza avvenute all'interno della storia di Israele o all'interno della storia personale. Dicevamo che negli inni i verbi dell'azione di Dio sono per lo più al passato, e intendono essere una documentazione di questa capacità salvifica di Dio nei confronti del singolo come nei confronti del popolo.

Nel salmo 26,6-7, per esempio, c'è un attestazione rituale di questa grandezza di Dio. Dice il salmista: «Lavo nell'innocenza le mie mani e giro tutt'intorno al tuo altare, Signore, per far risuonare voci di lode e per narrare tutte le tue meraviglie». Con una disposizione chiastica tra il v 6 e il v 7 si collegano il verbo hodà, rappresentato però dal sostantivo, e il verbo sapper (=narrare), è l’attitudine di colui che prega, quella di raccontare, quella di lodare Dio attraverso il racconto del suo intervento per lui.

3.1.6. Il rito della Todah (ringraziamento)

La liturgia della Todah (lode attraverso la narrazione) di solito comporta un sacrificio di comunione o sacrificio shelamim o shalam, di pace o pacifico, in cui una parte dell’animale viene mangiata insieme, previa cottura, dopo aver bruciato le interiora, il grasso, il sangue, ecc. Si simula cosi un banchetto in cui mangino insieme gli uomini e la divinità. Poi segue questo canto di lode che narra le azioni di Dio, o meglio, prima abbiamo il canto e poi il banchetto. Esempi di questo li abbiamo nel salmo 118: i presenti vengono invitati alla celebrazione, poi avviene il racconto degli avvenimenti di salvezza. I

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presenti ascoltano questa narrazione e ne sono fatti partecipi. In qualche modo funziona qui il meccanismo dell'attualizzazione, della memoria che rende partecipe dell'evento colui che lo ascolta. Nel Sal 66,16 per esempio l'invito è con queste parole: «Venite, ascoltate, voi tutti che temete Dio, e narrerò quanto per me ha fatto». Poi c'è una presentazione del fedele alla porta del santuario, già vista per i canti di supplica. Questa volta però, il rito d'ingresso è un canto gioioso. E' colui che è stato salvato che entra nel santuario, per cui nel Sal 118,19 dice: «Apritemi le porte della giustizia: entrerò a rendere grazie al Signore».

C'è un peso di fede nuova nell'espressione del fedele. Poi abbiamo dei gesti di sacrificio e di lode nel santuario, per esempio libagioni di vino. Nel Tempio di Gerusalemme esisteva il grande altare dei sacrifici animali ma esistevano altri altari su cui si bruciava l'incenso e su cui si offrivano sacrifici non cruenti (farina, l'olio, sotto forma di focaccia o sotto forma di materia che viene impastata e poi viene bruciata). Ci sono anche libagioni di vino, nel Sal 116,12-13: «Che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato? Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore».

Il gesto dell'alzare il calice è contemporaneamente avvalorato da una invocazione in senso laudativo del nome di Dio. A volte il sacrificio è cruento; si offre un animale e il sacrificio è seguito dal patto di comunione. Il sal 22,27: la Bibbia di Gerusalemme usa i verbi al futuro, quasi un futuro profetico, dicendo: «Mangeranno i poveri e si sazieranno», ma quei verbi possono essere anche letti come iussivi, esortativi: «Vengano avanti a mangiare i poveri, e si sazino», chi sono i poveri lo si dice nella riga seguente: «Lodino il Signore quanti lo cercano», i poveri sono coloro che cercano Dio, sono i fedeli che vengono ammessi a partecipare a questo gesto di comunione dopo il sacrificio; « Viva il loro cuore per sempre», conclude questa invocazione. I poveri di Dio approfittano della situazione e si uniscono a coloro che nel tempio banchettano: vengano e mangino, partecipando a ciò che Dio ha realizzato ber il suo popolo.

C'e un ultimo gesto importante, che è quello di una specie di ex-voto che viene de depositato nel tempio. Un rotolo attesta che il fedele ha adempiuto il voto che aveva promesso. Ha una funzione attestatrice dedicatoria: si dedica la persona, la parte del corpo malata, si dedica il bastone su cui uno si appoggiava prima di essere guarito, ecc. quindi c'è un'espressione presente dell'uomo sano che lascia memoria nel tempio. Dice, per esempio, il Sal 40,8b-9: «Sul rotolo del libro di me è scritto, di compiere il tuo volere. Mio Dio, questo io desidero, la tua legge è nel profondo del mio cuore», e poi il testo di questo rotolo, cioè l'adempimento del voto promesso, Sal 40,11: «Non ho nascosto la tua giustizia in fondo al cuore, la tua fedeltà e la tua salvezza ho proclamato. Non ho nascosto la tua grazia e la tua fedeltà alla grande assemblea». Il voto che in questo caso consisteva in una pubblica confessione di fede e dì ringraziamento non è stato tralasciato ma adempiuto, e questo viene lasciato scritto. Alla fine della liturgia, come in tutte le liturgie ebraiche, i sacerdoti benedicono il fedele che sta per lasciare il santuario. Le formule sono tante, nel Sal 118,26b c'è la benedizione più classica: «Vi benediciamo dalla casa del Signore». Da questa liturgia ci si può rendere conto della struttura dell'inno narrativo.

3.1.7. Struttura dell’inno di lode narrativo

Invito alla lode

C'è una prima parte che è un invito alla lode, parte iniziale della liturgia della Todà. Nel Sal 129,1-2

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abbiamo per lo più un inno pubblico, nazionale: «Dalla giovinezza molto mi hanno perseguitato, lo dica Israele, dalla giovinezza molto mi hanno perseguitato ma non hanno prevalso». Viene invitato il popolo a cantare questo canto, che diventa la premessa al gesto di salvezza di Dio.

Riassunto delle azioni divine di-salvezza

Dopo questa chiamata alla partecipazione, abbiamo il riassunto delle azioni di salvezza di Dio. Per es. nel Sal 124,1-3: «Se il Signore non fosse stato con noi, lo dica Israele, se il Signore non fosse stato con noi, quando uomini ci assalirono. Ci avrebbero inghiottiti vivi, nel furore della loro ira». Nel Sal 30,2: «Ti esalterò, Signore, perché mi hai liberato e su di me non hai lasciato esultare i nemici», siamo sempre di fronte a questa memoria generale un po' riassuntiva.

Dettaglio sulla salvezza specifica

Abbiamo poi una memoria più puntuale della situazione di difficoltà, dalla quale i fedeli sono stati salvati per l'intervento di Dio. Nel Sal 30,7-8: «Nella mia prosperità ho detto: "nulla mi farà vacillare!". Nella tua bontà, o Signore, mi hai posto su un monte sicuro; ma quando hai nascosto il tuo volto, io sono stato turbato». Questa memoria della situazione continua poi come racconto dell'azione di Dio liberatore. L'uomo ha invocato Dio e Dio è intervenuto. Sono due i momenti: l'uomo grida, il Signore lo ascolta. Nella supplica l'ascolto di Dio era solo dichiarato profeticamente, qui invece viene raccontato. Ancora nel Sal 30,3.9: «Signore Dio mio, a te ho gridato e mi hai guarito. A te grido, Signore, chiedo aiuto al mio Dio». La risposta a Dio che interviene, sempre nel Sal 30,4.12: «Signore, mi hai fatto risalire dagli inferi, mi hai dato vita perché non scendessi nella tomba. Hai mutato il mio lamento in danza, la mia veste di sacco in abito di gioia». Questa volta il racconto è dunque pienamente composto di due membri: il grido dell'uomo e la risposta di salvezza di Dio.

Ricordo del voto fatto

Un elemento ulteriore è l'accenno alla promessa della lode, che l'uomo aveva fatto e che ora rinnova dandogli attuazione. Ancora nel Sal 30,13 l'evento di salvezza ha avuto questo frutto: «Perché io possa cantare senza posa. Signore, mio Dio, ti loderò per sempre».C'è una continuità: il grido, la salvezza, la lode; una continuità a livello narrativo che dal passato arriva al presente. La lode promessa prima, viene ora pronunciata.

Conclusione: rinnovo della fiducia in Dio

Quando il salmo si conclude, riafferma, sia a livello individuale che comunitario, la fiducia nell'agire di Dio, perché ogni gesto di salvezza è un ulteriore conferma verso una mentalità di fede. Nel Sal 124,8: «Il nostro aiuto è nel nome del Signore che ha fatto cielo e terra» è, adesso, perché il corso della storia precedente lo ha dimostrato, come il salmo racconta. Questa proclamazione non è solo attestare la propria fede, ma è anche un invito a Dio a dare seguito a questa fiducia che il popolo gli attesta. Si invita Dio a fare giustizia, a portare avanti la sua azione di salvezza dai nemici. Sal 129,5-6: «Siano confusi e volgano le spalle quanti odiano Sion. Siano come l'erba dei tetti: prima che sia strappata, dissecca».

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3.1.8. Inno di lode descrittivo

Il passaggio dall'inno di narrazione a quello di descrizione è un po' come il passaggio dalla Torah ai Sapienziali, dal1a storia alla contemplazione della creazione. C'è un riversare l'attenzione dell'uomo alla ricchezza del mondo che lo circonda. Dio è al centro di questo mondo, la sua provvidenza viene descritta in tutte quante le qualità che l'uomo può elencare. Il mondo diventa la strada attraverso la quale l'uomo può entrare nel mistero della persona dì Dio, in quella che si chiama la teologia descrittiva, teologia degli attributi di Dio. E' descrittiva ma nello stesso tempo anche narrativa: non è 1'immagine che viene contemplata ma il costante movimento, la costante sensibilità e provvidenza di Dio Quindi ogni descrizione è anche narrazione di come nel quadro i personaggi si muovono. Quando Israele descrive il quadro che lo circonda, descrive sempre dei movimenti, delle azioni, una presenza dinamica di Dio. Un certo modo di far teologia partiva da un impianto filosofico di Dio e descriveva i suoi attributi metafisici: la Bibbia invece usa il terreno degli occhi, delle mani, dei piedi, dell'esperienza dell'uomo per risalire al mistero di Dio. È una teologia più positiva, nel senso che tiene conto dell'esperienza della persona. Israele, dunque, entra nel mistero della Persona di Dio attraverso questa strada: dalle azioni potenti di Dio alle sue qualità.

3.1.8.1. La descrizione delle qualità di Dio

Essa indica fedeltà, sia pure attraverso sinonimi, ma e soprattutto intervento di Dio che crea gratuitamente. In queste descrizioni il verbo è al presente, è l'adesso del mondo che viene descritto. Spesso si usano participi o sostantivi con una ricca simbologia per indicare chi è Dio, ma sempre usati in maniera analogica. Sta qui il problema del leggere i, salmi svelandone la ricchezza simbolica perché la poesia non si esprime mai direttamente ma sempre indirettamente attraverso il sirnbolo.Nel Sal 18,2-3: «Ti amo, Signore, mia forza, Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore; mio Dio, mia rupe, in cui trovo riparo; mio scudo e baluardo, mia potente salvezza».Qui il Salmo mette insieme una quantità impressionante di participi (liberatore, salvatore), e di simboli (fermezza, fortezza, rupe, roccia, scudo, baluardo), e indicano la solidità del{rapporto con Dio. L'uomo vi si aggrappa o ne viene difeso con tutta questa interezza. Naturalmente è necessaria una decifrazione dei simboli e anche il tener presente questa allusività del simbolo.

3.1.8.2. Struttura dell'inno di descrizione

La struttura dell'inno di descrizione è molto semplice:- invito a lodare Dio- motivi della lode

3.1.8.3. Salmo 117

C'è un duplice invito (forma chiastica) e una duplice motivazione: l'invito riguarda tutti i popoli e tu

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le nazioni, attraverso il verbo lodare e il verbo glorificare (hodà); le motivazioni riguardano l’amore e la fedeltà, la forza e l'eternità.

3.1.8.4. Salmo 33

1 Giubilate nel Signore, o giusti; ai retti s' addice la lode. 2 Celebrate il Signore con la cetra, con l' arpa a dieci corde a lui inneggiate. 3 Cantate a lui un cantico nuovo, salmodiate con arte in giubilo festoso. 4 Poiché retta è la parola del Signore e fedeltà ogni sua opera. 5 Egli ama la giustizia e l' equità; della misericordia del Signore è piena la terra. 6 Con la parola del Signore furon fatti i cieli e col soffio della sua bocca tutto il suo ornamento. 7 Egli riunì come in un otre le acque del mare, in serbatoi collocò gli abissi. 8 Tema il Signore tutta la terra, lo riveriscano tutti gli abitanti del mondo; 9 poiché egli parlò e fu fatto, egli comandò ed esso fu creato. 10 Sventa il Signore il piano dei popoli, rende vani i propositi delle nazioni. 11 Il piano del Signore sussiste per sempre, il proposito del suo cuore di generazione in generazione. 12 Beata la nazione il cui Dio è il Signore, il popolo ch' egli s' è scelto per eredità. 13 Il Signore guarda dal cielo, osserva tutti i figli dell' uomo. 14 Dal luogo della sua dimora guarda su tutti gli abitanti della terra. 15 Ad uno ad uno plasmò il loro cuore, egli scruta tutte le loro azioni. 16 Nessun re può salvarsi con la moltitudine dei suoi soldati; nessun prode trova scampo nell' abbondanza del suo vigore. 17 Impotente è il cavallo a portar salvezza e scampo non può portare con l' abbondanza della sua forza. 18 Ecco, l' occhio del Signore è sopra quelli che lo temono, su quelli che sperano nella sua misericordia, 19 per liberare dalla morte le loro anime, per farli sopravvivere in tempo di fame. 20 Verso il Signore anela l' anima nostra: egli è nostro aiuto e nostro scudo. 21 Sì, in lui gioisce il nostro cuore; sì, noi confidiamo nel santo suo nome. 22 Sia su di noi, o Signore, la tua misericordia, poiché in te abbiamo posto la nostra fiducia.

Abbiamo un invito abbastanza lungo alla lode. Vengono poi dettagliatamente descritti gli attributi di Dio:

vv. 4-5: la sua parola e la sua giustizia (è la parola che ristabilisce la giustizia o il regime di giustizia con cui Dio governa il mondo);

nei vv 6-9 viene cantata la parola di Dio che crea;nei vv 10-17 viene cantata la signoria di Dio su tutto il mondo;nei vv 18-22 si restringe il quadro e viene cantato l'amore di Dio per Israele: c'è un percorso a

cui il fedele viene costantemente chiamato che va dall'universale al particolare; è un'iter descrittivo.Possiamo fermarci alle conclusioni? No, dobbiamo percorrere il cammino che il salmista ci

indica. Questa storia della strada abbreviata non è la buona storia per la preghiera. Bisogna guardar fuori e poi guardare dentro, questo è il cammino che il salmo ci chiede.

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3.1.8.4.1. Le forme verbali usate

In queste composizioni è interessante la forma che assumono i verbi. Generalmente gli esegeti distinguono due fondamentali, a seconda che si usi il verbo all’imperativo o al participio; le due cose, spesso, sono composte insieme.

Imperativi

Quando si usano grandi quantità di verbi all'imperativo, il verbo "cantate", il verbo "lodate", verbi che implicano una sollecitazione, sia degli strumenti vocali che degli strumenti musicali, generalmente questo imperativo viene rafforzato con delle preposizioni causali che noi traduciamo con perché, infatti, e implicano un coinvolgimento nelle motivazioni di ciò che l'uomo sta vivendo. La logica è questa: «Coinvolgetevi interamente in questa espressione di lode, data la grande importanza che ha Dio con le sue opere, per la vita dell'uomo». Non solo coinvolgetevi voi, ma coinvolgete le nazioni in questo meccanismo di lode, in questa crescita dell'entusiasmo attorno alle opere di Dio (Sal 9). Il Sal 22,24-25: «Lodate il Signore, voi che lo temete, gli dia gloria la stirpe di Giacobbe. Lo tema tutta la stirpe di Israele; perché egli non ha disprezzato né sdegnato l'afflizione del misero, non gli ha nascosto il suo volto, ma, al suo grido d'aiuto, lo ha esaudito». Nel v. 25, quattro proposizioni causali, tre negative e una positiva, in cui si mostra l'articolazione dell'atteggiamento di Dio e la solidità della lode che il singolo individuo innalza chiamando a se tutta l'assemblea. «Gli dia gloria tutta la stirpe di Giacobbe, lo tema tutta la stirpe di Israele». C'è un climax, cioè un crescendo: lodate, gli dia gloria la stirpe, lo tema tutta la stirpe.

Participi

I participi servono a illustrare chi è Dio, le cose che lui fa. Il participio, in ebraico, ha il valore di rappresentare l'azione nel suo farsi: l'atteggiamento dell'ebreo non è quello della contemplazione statica ma dinamica. Dio è visto nel suo muoversi adesso, viene descritto nella sua dinamicità: non è una natura morta, ma il coinvolgersi in questo dinamismo costante della presenza di Dio nel mondo. Un esempio di espressione participiale, ci è data dal Sal 104, costruito principalmente su participi. Un altro esempio, il Sal 65,7-8: «Tu rendi saldi i monti con la tua forza, cinto di potenza. Tu fai tacere il fragore del mare, il fragore dei suoi flutti, tu plachi il tumulto dei popoli».Queste azioni non sono espresse con un perfetto, come se fossero passate, ma con il participio, perché sono presenti. C'è il senso di una creazione continua. Dio viene rappresentato nel suo continuo essere in premura per il mondo e quindi anche per l'umanità

3.1.9. Altri generi letterari

3.1.9.1.Teofania

Per es. Sal 18,14-15: «Il Signore tuonò dal cielo, l'Altissimo fece udire la sua voce: grandine e carboni ardenti. Scagliò saette e li disperse, fulminò con folgori e li sconfisse».

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3.1.9.2. Canto a lode di Dio

Perché protegge Sion, città in cui si identifica Israele come popolo. Sal 48,9: «Come avevamo udito così abbiamo visto nella città degli eserciti, nella città del nostro Dio; Dio l'ha fondata per sempre». È chiaro che lo squilibrio, la disparità che c'era tra il villaggio e la città che sorge in collina, stupisce e rassicura; stupisce perché rispetto alle grotte palestinesi, Gerusalemme ha una parvenza urbana; rassicura perché se Dio difende così la città madre, dà sicurezza a tutto il popolo di Israele.

3.1.9.3. I salmi del Regno, di Jahvè re

“Jahvè regna” è il grido della vittoria militare che veniva celebrata attorno all'arca dell'Alleanza, segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Questo grido diventa poi classico in tutte le celebrazioni che intendono mettere al centro la pace solida che regna in mezzo a Israele. Sal 24,7-10: «Sollevate, porte, i vostri frontali ed entri il re della gloria. Chi è questo re della gloria? Il Signore forte e potente, il Signore potente in battaglia ... Chi è questo re della gloria? Il Signore degli eserciti è il re della gloria». Si presuppone una recita a due cori nell'assemblea.

3.1.9.4. I salmi di fiducia

E’ un'espansione di quella professione di fede che troviamo alla fine degli inni o entro la struttura della supplica, soprattutto individuale. Il Salmo di fiducia ha dei toni maggiormente personali, più intimi nell'espressione del singolo, nel legame affettivo che lo lega al Signore. Sal 62,2-3: «Solo in Dio riposa l'anima mia; da lui la mia salvezza. Lui solo è mia rupe e mia salvezza, mia roccia di difesa non potrò vacillare». C'è questo continuo richiamo alla solidità della persona di Dio.

3.1.9.5. I salmi regali

Nel salterio ci sono diversi salmi che il re pronuncia in prima persona come espressione del popolo che prega. Per esempio il Sal 27, che sembra essere l'espressione di questa fiducia del re a nome di tutto il popolo. Ci sono poi salmi attraverso i quali il popolo prega per la salvezza del re, Sal 20,10 per esempio: «Salva il re, o Signore, rispondici quando ti invochiamo». Ci sono infine salmi che il popolo indirizza al re durante la. liturgia. Sono salmi di augurio oppure di celebrazione, oppure di augurio prima della guerra. Sal 21,9: «La tua mano raggiungerà ogni tuo nemico, la tua destra raggiungerà chiunque ti odii ".

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