Internazionale n° 866 [1/7 ottobre 2010]

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iN copertiNA14 Lula ha cambiato il Brasile22 Il Labourdi Ed Miliband ecologista, giovane, di sinistra24 Elezioni imprevedibili in Costa d’Avorio26 L’India si vergogna dei suoi Giochi28 I monumenti pubblicitari nel futuro di Venezia38 Lo scrittore che non leggeva46 Sarajevo domani54 La metropoli infinita60 I conini di Google64 Tra le parrocchie del deserto70 Eva Joly Puntando all’Eliseo74 La fattoria degli animali78 Cartoline dal Giappone81 Le radici folk di Tim Robbins96 Psicoterapia con i libri recuperati99 Le rovine della natura102 L’energia della pipì104 Il diario della Terra106 Avviso di tempesta sulle coste danesi

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Internazionale 866 | 1 ottobre 2010 3

Sommario

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ario

La settimana

1/7 ottobre 2010 • Numero 866 • Anno 17

Amici iN copertiNA14 Lula ha cambiato

il Brasile Prospect

europA22 Il Labour di Ed Miliband ecologista,

giovane, di sinistra The Independent

AfricA e medio orieNte24 Elezioni

imprevedibili in Costa d’Avorio

Jeune Afrique

AsiA e pAcifico26 L’India si vergogna

dei suoi Giochi Outlook

visti dAgli Altri28 I monumenti

pubblicitari nel futuro di Venezia

International Herald Tribune

scieNzA 38 Lo scrittore

che non leggeva The New Yorker

bosNiA erzegoviNA46 Sarajevo domani Prospect

ciNA54 La metropoli

ininita Foreign Policy

geogrAfiA60 I conini di Google The Washington

Monthly

portfolio64 Tra le parrocchie

del deserto Le foto di Giuliano

Matteucci

ritrAtti70 Eva Joly

Puntando all’Eliseo

Le Monde Magazine

viAggi74 La fattoria

degli animali The Daily Telegraph

grApHic JourNAlism

78 Cartoline dal Giappone

Kan Takahama

musicA81 Le radici folk

di Tim Robbins Froots

pop96 Psicoterapia

con i libri recuperati

Nick Hornby99 Le rovine

della natura Kgebetli Moele

scieNzA e tecNologiA

102 L’energia della pipì New Scientist104 Il diario della Terra

ecoNomiA e lAvoro

106 Avviso di tempesta sulle coste danesi

Politiken

cultura84 Cinema, libri,

musica, tv, arte

Le opinioni

21 Yoani Sánchez

25 Amira Hass

34 Manuel Castells

36 Loretta Napoleoni

86 Gofredo Foi

88 Giuliano Milani

90 Pier Andrea Canei

92 Christian Caujolle

101 Tullio De Mauro

103 Anahad O’Connor

107 Tito Boeri

le rubriche13 Editoriali

33 Italieni

111 Strisce

113 L’oroscopo

114 L’ultima

Foreign Policy È un bimestrale statunitense di politica internazionale. L’articolo a pagina 54 è uscito a settembre del 2010 con il titolo Chicago on the Yangtze ed è stato pubblicato su Internazionale per gentile concessione del Sole 24 Ore. Le Monde Magazine È il magazine del sabato del quotidiano francese Le Monde. L’articolo a pagina 70 è uscito il 14 agosto 2010 con il titolo Eva Joly, la nouvelle égérie écolo. The New Yorker Fondato nel 1923, è un settimanale newyorchese di qualità. L’articolo a pagina 38 è uscito il 28 giugno 2010 con il titolo A man of letters. Prospect È un mensile britannico di attualità, politica e

cultura. L’articolo a pagina 14 è uscito a ottobre del 2010 con il titolo Lula’s legacy. L’articolo a pagina 46 è uscito a settembre del 2010 con il titolo Divided they stand. The Washington Monthly È un mensile non proit di politica, con sede a Washington. L’articolo a pagina 60 è uscito a luglio del 2010 con il titolo The agnostic cartographer. Internazionale pubblica in esclusiva per l’Italia gli articoli dell’Economist.

le principali fonti di questo numero

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“La mia unica avvertenza è di scrivereromanzi brevi, ma molto, molto belli”

Nick HorNby, pAgiNA

Grazie. Ci vediamo a Ferrara.

Giovanni De [email protected]

La repubblica

Internazionale

La Gazzetta dello Sport

Corriere della Sera

L’Unità

Il Sole 24 Ore

Focus

Il Fatto Quotidiano

L’Espresso

Il Manifesto

222.882

100.055

83.661

56.391

56.121

45.111

29.910

28.412

24.441

15.925

Fonte: Facebook

Primi dieci giornali italiani per numero di amici su Facebook. dati aggiornati alle 20.30 del 28 settembre 2010.

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Immagini

Avanti tuttaAriel, Cisgiordania27 settembre 2010

Bulldozer e scavatrici all’opera in una delle maggiori colonie israeliane nei Territori occupati. Il 26 settembre dopo dieci mesi è scaduta la moratoria sugli insediamenti israeliani. I coloni hanno ricominciato subito la costruzione di nuovi ediici. Ad Ariel è prevista la co-struzione di centinaia di abitazioni de-stinate alle famiglie evacuate nel 2005 dalla colonia di Netzarim, nella Striscia di Gaza. Foto di Eduardo Castaldo

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Immagini

Agli ordiniKabul, Afghanistan23 settembre 2010

Il giuramento delle prime uiciali donne dell’esercito nazionale afgano al centro d’addestramento militare di Kabul. Svolgeranno soprattutto compiti ammi-nistrativi. Il passaggio di consegne tra le forze Nato e l’esercito afgano è previsto per il 2014. Nelle ultime settimane le truppe statunitensi hanno intensiicato gli attacchi contro i taliban nelle zone oltre il conine con il Pakistan, ucciden-do almeno trenta persone. Foto di Gemu-nu Amarasinghe (Ap/Lapresse)

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Immagini

Dopo la tempestaPort-au-Prince, Haiti28 settembre 2010

Il 24 settembre una tempesta ha provo-cato sei morti e 67 feriti sull’isola. I dan-ni più gravi sono stati registrati nelle tendopoli che ospitano più di un milione di persone rimaste senza casa dopo il devastante terremoto di gennaio. Ma l’allarme non è inito: la stagione degli uragani è ancora in corso e su Haiti po-trebbero abbattersi altre tempeste. Nel-la foto, l’arrivo di un carico di carbone al porto di Port-au-Prince. Foto di Ramon

Espinosa (Ap/Lapresse)

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[email protected]

Cara Milana, visto il modo in cui la Francia tratta i rom, mi chiedo dove sia i-nito lo spirito illuminista.

In ognuno di noi c’è una dose consistente di buio, che inevi-tabilmente inisce per manife-starsi. Così anche per la storia dell’umanità. Quando Hobbes scrisse Homo homini lupus lo pensava veramente.

La maggior parte delle per-sone concorda sul fatto che malvagità e crimini non do-vrebbero mai ripetersi. Invece puntualmente succede. Se l’uomo fosse in grado di impa-

rare la lezione, dopo la secon-da guerra mondiale non sareb-be stato sparato un solo colpo. Invece è successo il contrario. Questo per via del lato oscuro della natura umana, per la ten-denza a cercare sempre dei colpevoli, il più delle volte sce-gliendo tra i più deboli o tra i “diversi”. I genitori maltratta-no i bambini, i bambini grandi maltrattano quelli piccoli, e i partiti al potere maltrattano l’intero paese. Lo spirito dell’il-luminismo a cui fai riferimen-to ha portato alla Francia non solo i lumi ma anche molto buio. Criticando il buio è come

se volessimo dimenticare i no-stri lati oscuri, e questo è sba-gliato. Spesso i più radicali cri-tici del buio si dimostrano i personaggi più oscuri.

Come possono reagire i cit-tadini? Devono continuare a lottare, anche se l’esito è spes-so incerto. Anche la Francia deve lottare contro questo nuovo buio che si è creato. For-se per farlo ha bisogno di un nuovo presidente. Ma non mi va di parlare di politica. ◆ it

Milana Runjic risponde alle domande dei lettori all’indirizzo [email protected]

Cara Milana

Il buio francese

Nessun lavoro

◆ Sono d’accordo che le politi-che propagandistiche francesi e italiane sono assurde, discrimi-natorie e inadeguate a risolvere problemi di criminalità le cui cause sono ben più complesse.Tuttavia mi viene in mente una cosa: cioè che nei 12 anni di ge-stione della mia tabaccheria nel centro di Cattolica, a Rimini, non è mai venuto un rom a chiedermi un lavoro! Strana-mente, però, durante la stagio-ne turistica le strade sono afol-late di rom che si ingono zoppi, storpi e quant’altro. Siamo così sicuri che siano davvero inte-ressati a integrarsi nella nostra società?Flavio Montuschi

Veriicatori di lettori

◆ Gli economisti propongono la crescita ininita, facendo in-ta di non sapere che i sistemi ambientali che ci sorreggono non sono ininiti. Ora, nell’arti-colo “Alla conquista dell’eterni-tà” (24 settembre) vedo che vie-ne spacciata come scienza la possibilità della vita eterna. Il ine della medicina sembra es-

sere diventato la rimozione di ogni causa di morte, e quindi è normale che qualche pisquano possa credere alla promessa della vita eterna. Crescita ini-nita, vita ininita. È evidente che ancora abbiamo bisogno di favole, e chi le spara più grosse continua a trovare grande cre-dito (anche presso di voi, che pubblicate queste cose con l’eti-chetta “Scienza”). Ma voi ce l’avete dei fact checker, dei ve-riicatori di fatti? O degli stima-tori del coeiciente di intelli-genza dei lettori? Il fatto che ci siano dei matti che prevedono queste cose è vero, ma il fatto che le loro previsioni siano at-tendibili è tutt’altro che vero. Questo articolo è un bell’esem-pio di scientismo (Oxford lo de-inisce con “excessive belief in the power of scientiic know-ledge and techniques”) e lo userò a lezione.Ferdinando Boero

Dubbi sulla ginnasta

◆ A volte le vostre lettere sono davvero bizzarre, al limite del surrealismo. Ma davvero faccio fatica a pensare che Nadia Co-maneci, la famosa ginnasta ro-

mena, abbia scritto alla reda-zione per chiedere la nostra ri-vista in inglese (24 settembre). È un’omonima?Danilo Mourglia

Musica e futuro

◆ La vostra rivista è interessan-te, curiosa e ricca di spunti scritti con semplicità. Però mi chiedo come mai non avete pubblicato niente su Wood-stock 5 stelle, la grande festa che si è tenuta il 25 settembre a Cesena, presentata da Beppe Grillo. Si è parlato di fonti rin-novabili, acqua pubblica, riiuti zero e c’erano molti artisti tra cui Samuele Bersani, Max Gaz-zè e i Sud Sound System. Non sono argomenti importanti?Alice

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I pacchetti fedeltà delle compagnie aeree sono mol-to popolari in Australia, perché danno la possibilità a chi viaggia spesso per la-voro di ottenere beneici che li ricompensano per il fatto di non aver scelto una compagnia low cost. Ma co-sì non s’incentiva un fun-zionamento distorto del mercato? –Oliver Jones

Una giustiicazione dei pac-chetti fedeltà è che quando le compagnie aeree hanno dei posti liberi, il miglior modo per riempirli è assegnarli ai viag-giatori più fedeli. In questo modo i posti sono assegnati ma senza cannibalizzare il bu-siness. Queste formule, però, possono produrre un efetto perverso. Forniscono ai dipen-denti di un’azienda un incenti-vo per volare sempre con la stessa compagnia. L’azienda, invece, paga senza trarne be-neici. In altri contesti la chia-meremmo una mazzetta o bu-starella. È un problema serio, perché se la Bustarella Airlines corrompe i clienti per ottenere la loro fedeltà, l’AirMazzetta non sarà incentivata a compe-tere sui prezzi. Potrebbe peri-no aumentarli e la Bustarella Airlines potrebbe fare lo stes-so. Così iniremmo tutti per pagare di più i biglietti. Viene da chiedersi come sia possibile che le compagnie aeree conti-nuino a essere in perdita.

Tim Harford risponde alle do-mande dei lettori del Financial Times.

Il prezzo della fedeltà

Caro economista

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Internazionale 866 | 1 ottobre 2010 13

Editoriali

Questo ine settimana, in Cisgiordania, duemila estremisti ebrei e cristiani evangelici hanno fe-steggiato la ine della moratoria di Israele sulle nuove costruzioni negli insediamenti dei Territo-ri palestinesi occupati. Una mossa che rischia di compromettere i colloqui di pace sul Medio Oriente a poche settimane dal loro avvio alla Ca-sa Bianca.

Il presidente palestinese Abu Mazen è in una posizione molto diicile. Se di fronte a quest’umi-liazione si ritira dai colloqui, sarà accusato dagli israeliani di sabotare l’iniziativa di Washington. Se invece va avanti, sarà accusato dai gruppi pale-stinesi radicali di svendere il suo popolo. Abu Ma-zen ha detto che Israele deve scegliere: “O la pace o gli insediamenti”, ma ha rinviato la decisione a dopo l’incontro con i leader della Lega araba, il 4 ottobre al Cairo.

Tutte le parti in causa sono, o dicono di essere, in un vicolo cieco. Abu Mazen è debole: il suo mandato è scaduto, ma non ha potuto andare al voto a causa della lotta tra Al Fatah e Hamas. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu guida una coalizione di destra che vuole l’espansione degli insediamenti, in cui vive già quasi mezzo milione di coloni. E il mediatore Barack Obama

non vuole innervosire la lobby iloisraeliana a po-che settimane dalle elezioni di metà mandato.

Obama fa pressioni su Abu Mazen perché non lasci i negoziati. Bisognerebbe però spingere an-che sugli israeliani perché rinnovino la moratoria. Netanyahu non ha le mani legate: oggi il premier è lui e a destra non ha leader forti. Nulla gli impe-disce di rompere con una parte della sua coalizio-ne e di far entrare nel governo i centristi di Kadi-ma. Il punto è che non vuole. Occorre quindi che Washington gli ricordi, magari in privato, che Israele non ha un diritto incondizionato né ai due miliardi di dollari all’anno di aiuti militari statuni-tensi né al veto americano su tutte le risoluzioni Onu che criticano il suo governo. Insomma: non bisogna permettere a Netanyahu di riiutare la moratoria senza pagarne il prezzo. E anche se non vuole prorogarla esplicitamente, potrebbe impe-dire i lavori, per esempio riiutando nuove licenze edilizie e facendo capire a banche e costruttori che è imprudente impegnarsi su nuovi progetti.

Convincere i negoziatori palestinesi che le co-struzioni in Cisgiordania saranno limitate potreb-be spingerli a non lasciare i colloqui. Certo, è una soluzione pasticciata: ma oggi è l’unica speranza per non fermare i negoziati. u ma

Non c’è pace con le colonie

Verso la ine delle Farc

The Independent, Gran Bretagna

El Tiempo, Colombia

“Se questo è il benvenuto, vedrete quale sarà la risposta”, ha detto due settimane fa il presidente colombiano Juan Manuel Santos dopo l’attacco dei guerriglieri delle Farc a Putumayo, che ha causato la morte di otto militari. Il governo di Santos ha reagito con forza: i militari hanno ucci-so Jorge Briceño, il Mono Jojoy, stratega militare delle Farc e uno dei comandanti dell’organizza-zione. È il colpo più duro inferto alle Farc nella loro storia. La parabola di 35 anni di vita in armi di Víctor Suárez, vero nome di Jorge Briceño, è l’esempio perfetto di una cupola guerrigliera che ricorre a strategie come i sequestri di massa, i le-gami con il narcotraico e gli attentati terroristi-ci. Il Mono Jojoy è stato il boia di migliaia di se-questrati, l’inventore dei campi di concentra-mento nella foresta e uno spietato comandante che ha preso d’assalto interi villaggi.

Con la sua morte il governo ottiene un enor-me successo che avrà conseguenze su vari fronti. Il primo è quello militare. In poco più di tre anni

più o meno dieci uomini dello stato maggiore delle Farc sono stati neutralizzati. La cupola è decimata e ci sarà una crisi di leadership.

L’altro fronte è simbolico. Il mito di un vertice intoccabile è inito, e l’efetto che avrà sui guerri-glieri la morte del loro capo militare è un vantag-gio psicologico che le autorità devono sfruttare. Un terzo aspetto è politico. L’operazione ha dato a Santos la possibilità di cominciare il suo man-dato con un trofeo strategico di fronte all’opinio-ne pubblica. Ora il governo potrà concentrarsi sulle altre side: distribuzione delle terre, com-pensazione delle vittime e riforma della sanità, del lavoro e della giustizia.

Il “benvenuto” che Juan Manuel Santos ha dato alle Farc è stato più duro di quello che la guerriglia aveva immaginato. La morte del Mo-no Jojoy non si tradurrà subito in un dialogo sen-za condizioni né nella ine della guerriglia, ma è un passo deinitivo per obbligare le Farc a un’al-ternativa: la pace o la smobilitazione. u sb

“Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio,di quante se ne sognano nella vostra ilosoia”William Shakespeare, Amleto Direttore Giovanni De MauroVicedirettori Elena Boille, Chiara Nielsen, Alberto Notarbartolo, Jacopo ZanchiniComitato di direzione Giovanna Chioini (Asia e Paciico), Stefania Mascetti (Internazionale.it), Martina Recchiuti (Internazionale.it), Pierfrancesco Romano (copy editor)In redazione Liliana Cardile (Cina), Carlo Ciurlo (viaggi), Camilla Desideri (America Latina), Simon Dunaway (attualità), Mélissa Jollivet (photo editor), Alessandro Lubello (economia), Maysa Moroni, Andrea Pipino (Europa), Claudio Rossi Marcelli (Internazionale.it), Francesca Sibani (Italieni), Piero Zardo (cultura), Giulia Zoli (Stati Uniti) Impaginazione Pasquale Cavorsi, Valeria Quadri Segreteria Teresa Censini, Luisa Cifolilli Correzione di bozze Sara EspositoTraduzioni I traduttori sono indicati dalla sigla alla ine degli articoli. Marina Astrologo, Sara Bani, Giuseppina Cavallo, Diana Corsini, Stefano Costa, Stefania De Franco, Andrea De Ritis, Monica Martignoni, Nazzareno Mataldi, Floriana Pagano, Fabrizio Saulini, Andrea Sparacino, Francesca Spinelli, Ivana Telebak, Bruna Tortorella, Stefano Valenti, Nicola VincenzoniDisegni Anna Keen. I ritratti dei columnist sono di Scott Menchin Progetto graico Mark Porter Hanno collaborato Gian Paolo Accardo, Isabella Aguilar, Luca Bacchini, Francesco Boille, Annalisa Camilli, Gabriele Crescente, Catherine Cornet, Giovanna D’Ascenzi, Marzia De Giuli, Sergio Fant, Andrea Ferrario, Francesca Gnetti, Anita Joshi, Alessio Marchionna, Jamila Mascat, Odaira Namihei, Lore Popper, Fabio Pusterla, Michael Robinson, Marta Russo, Andreana Saint Amour, Diana Santini, Junko Terao, Laura Tonon, Pierre Vanrie, Guido Vitiello, Abdelkader ZemouriEditore Internazionale srl Consiglio di amministrazione Brunetto Tini (presidente), Giuseppe Cornetto Bourlot (vicepresidente), Emanuele Bevilacqua (amministratore delegato), Alessandro Spaventa (amministratore delegato), Antonio Abete, Giovanni De Mauro, Giovanni Lo StortoSede legale via Prenestina 685, 00155 Roma Produzione e difusione Francisco Vilalta Amministrazione Tommasa Palumbo, Arianna CastelliConcessionaria esclusiva per la pubblicità Agenzia del marketing editorialeTel. 06 809 1271, 06 80660287 [email protected] Download Pubblicità S.r.l.Stampa Elcograf Industria Graica, via Nazionale 14, Beverate di Brivio (Lc) Distribuzione Press Di, Segrate (Mi)Copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Signiica che può essere riprodotto a patto di citare Internazionale, di non usarlo per ini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Per questioni di diritti non possiamo applicare questa licenza agli articoli che compriamo dai giornali stranieri. Info: [email protected]

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In copertina

Le notizie che arrivano dall’estero raccontano qua-si sempre disastri: fallimen-ti, crisi, scandali e popola-zioni che soffrono. È raro che una buona notizia ini-

sca sulle prime pagine dei giornali. Succes-se nel 1977, quando il presidente egiziano Anwar Sadat atterrò a Tel Aviv, aprendo la strada agli accordi di pace di Camp David del 1978. Da allora ho assistito di persona solo a un altro momento di ottimismo e di entusiasmo simile: otto anni fa, la sera delle elezioni in Brasile. Mi trovavo a São Paulo, sull’avenida Paulista, la strada della inanza latinoamericana piena di grattacieli. I mar-ciapiedi davanti ai negozi di Armani e della Ferrari si riempirono di gente dalle periferie con tamburi e striscioni per festeggiare la vittoria del Partito dei lavoratori (Pt) e l’ele-

zione di Luiz Inácio Lula da Silva. Camion con altoparlanti e ballerini di samba sbuca-vano da ogni angolo. Il quartiere degli afari si trasformò in un carnevale di bandiere rosse, poster di Ernesto Che Guevara e slo-gan rivoluzionari.

In una sala da tè intervistai alcune an-ziane signore della borghesia che si prepa-ravano al peggio: um operario avrebbe go-vernato il paese. Da giovane Lula aveva la-vorato al tornio, ma per il resto della sua vita era stato dietro a una scrivania, prima come leader del sindacato e poi come politico. In un paese come il Brasile ossessionato dalle diferenze di classe, però, la parola “opera-io” indica più l’appartenenza a una tribù che un lavoro.

Ero commosso dall’euforia che vedevo nelle strade, ma anche un po’ preoccupato. L’ottimismo che aveva accompagnato l’ele-zione di Lula era stato reso possibile dalle riforme di mercato cominciate dieci anni prima. Alcuni inluenti personaggi della si-nistra volevano cancellarle. Molte delle persone in festa in quel momento erano convinte che il Pt fosse pronto a spendere come stavano facendo i peronisti in Argen-tina, dove di solito i ricavi delle esportazioni vengono buttati per corrompere i politici dell’opposizione e sovvenzionare gli alleva-tori.

Nel periodo successivo alle elezioni ci furono segnali preoccupanti. La paura del socialismo determinò una fuga di capitali che fece scendere il tasso di cambio e co-strinse il governo uscente a vendere le sue

riserve in dollari. Nessuno comprava i titoli di stato brasiliani e l’aidabilità creditizia del paese crollò: sembrava che lo stato po-tesse fallire a causa del suo enorme debito estero.

Poco dopo l’insediamento di Lula, il 1 gennaio 2003, il Brasile organizzò il terzo social forum di Porto Alegre. La star della conferenza era Noam Chomsky, che gettò un po’ d’acqua gelata sull’ottimismo dei brasiliani. “Non funzionerà mai”, disse. “Guardate i tassi d’interesse brasiliani. Guardate il debito. Gli Stati Uniti non per-

Lula ha cambiaNathan Shachar, Prospect, Gran Bretagna

Dopo otto anni, Lula lascia la presidenza conun indice di popolarità altissimo e l’economia in pieno boom. Il 3 ottobre i brasiliani scelgono il suo successore. La strada è in discesa, ma resta molto da fare

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14 Internazionale 866 | 1 ottobre 2010

Da sapereIl pil pro capite dei paesi del Bric calcolato in base alla parità di potere d’acquisto, migliaia di dollari

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metteranno che succeda. E neanche le ban-che. Se cercheranno di fare qualcosa di se-rio, qui scoppierà il caos”.

Queste cupe previsioni non si sono av-verate. Quasi otto anni dopo, i due mandati di Lula sono considerati un grande succes-so. Il 3 ottobre i brasiliani eleggeranno il prossimo presidente. La candidata favorita per succedere a Lula è la sua protetta Dilma

Rousseff, ex guerrigliera, economista e donna forte del Pt.

L’immagine del Brasile è cambiata. Quello che un tempo era solo un incantevo-le fascio di contraddizioni sempre sull’orlo della crisi, oggi è considerato un modello di progresso da tutto il mondo in via di svilup-po. La sua economia è l’invidia dei paesi più ricchi. Un amico che lavora alla borsa di São Paulo, che aveva accolto con preoccupazio-ne l’elezione di Lula, mi ha detto che lui e molti suoi colleghi sperano che vinca Dilma Roussef “per garantire la stabilità”. L’iro-

cambiato il Brasile

nia è accentuata dal fatto che il suo princi-pale avversario è José Serra, del Partito so-cialdemocratico di centrosinistra (Psdb). Serra è il governatore dello stato di São Pau-lo e l’autore di testi che hanno costituito la base teorica per le riforme di mercato degli anni novanta contestate dal Pt.

L’economia brasiliana è in pieno boom. Il suo già iorente settore agroalimentare sarà rafforzato nel 2012 con il completa-mento dell’autostrada Transoceanica che attraverserà il continente. Questo mostro, la cui costruzione ha aperto un corridoio

u Nel 2002 l’ex sindacalista Luiz Inácio Lula da Silva, del Partito dei lavoratori (Pt), viene eletto presidente. Promette riforme economiche e politiche e s’impegna a combattere la fame. u Nel 2003 Lula avvia Bolsa família, un programma di aiuto alle famiglie più povere. Le famiglie che guadagnano meno di 140 real (60 euro) pro capite al mese ricevono 22 real per ogni bambino che frequenta la scuola.u Nel 2006 Lula viene rieletto al secondo turno.u Il 16 settembre 2010 Erenice Guerra, capo di gabinetto di Lula, si dimette dopo le accuse di corruzione pubblicate dal settimanale Veja. u Il 3 ottobre in Brasile si vota per il primo turno delle elezioni presidenziali. La costituzione brasiliana non prevede la possibilità di essere rieletti per più di due mandati consecutivi. La candidata del Pt è Dilma Roussef. Gli altri candidati sono José Serra, del Partito socialdemocratico, e Marina Silva dei Verdi.

Da sapere

Internazionale 866 | 1 ottobre 2010 15

Angra dos Reis, Brasile. Lula all’inaugurazione della piattaforma P51 di Petrobras, nel 2008

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In copertina

aiutava a svegliarsi presto, gli immigrati ar-rivarono a milioni. All’inizio il cafè era rac-colto dagli schiavi africani. Quando la schiavitù fu abolita, i coltivatori cercarono la manodopera all’estero e richiamarono intere famiglie, prima dall’Italia e poi dal Giappone. Il mercato del cafè continuò a espandersi, gli immigrati lavoravano sodo e i loro igli si trasferivano nelle città, come succedeva in tutto il resto dell’America La-tina.

Poco a poco si crearono le condizioni di un fenomeno unico in quello che allora si chiamava il terzo mondo: uno sviluppo in-dustriale alimentato da capitale nazionale. I fattori principali di questa trasformazione furono due: i proprietari delle piantagioni di cafè erano brasiliani e il prodotto poteva essere raccolto senza bisogno di una tecno-logia costosa. Diversamente dallo zucchero di Cuba, dal petrolio del Messico e dallo

stagno della Bolivia, il cafè si poteva pro-durre senza ipotecare i raccolti futuri per accedere a capitale e macchinari stranieri. L’immigrazione teneva bassi i salari e gra-zie alle esportazioni i proprietari delle pian-tagioni accumularono enormi capitali. Il risultato fu il rapido sviluppo industriale dello stato di São Paulo.

La vecchia aristocrazia del caffè e la classe in ascesa degli immigrati cambiaro-no il paese. I proprietari terrieri e gli immi-grati non si odiavano, come in Argentina. Si sposavano tra loro e, dopo la prima guerra mondiale, esisteva un’élite brasiliana abba-stanza uniforme, convinta che il futuro ap-partenesse all’industria e non al cafè. L’éli-te brasiliana tendeva al protezionismo.

Il Brasile non è mai stato costretto dalle banche o dai governi stranieri a produrre cafè. Alcuni economisti, “i teorici della di-pendenza”, sostengono che le esportazioni

attraverso le foreste pluviali e gli altipiani inca, porterà ferro e cibo dall’interno del Brasile ai porti del Perù, per poi raggiunge-re la Cina. La maggior parte dei rappresen-tanti della sinistra ha rinunciato al sogno statalista. Anche il centro e la destra sono cambiati e hanno cominciato a inserire nel-le loro piattaforme elettorali i progetti so-ciali del Pt di Lula e del Psdb. Pochi politici sono contrari al programma di lotta alla po-vertà lanciato nel 2002 con il nome di Fome zero, che oggi si chiama Bolsa família e dà sostegno economico a 16 milioni di poveri.

Gli investitori hanno ripreso a comprare le azioni e i titoli di stato brasiliani. Ultima-mente i titoli di stato si sono dimostrati così redditizi che molti osservatori stranieri li valutano positivamente, presumendo che il paese avrà presto istituzioni solide e riusci-rà a ridurre la povertà.

Il Brasile ha ottenuto due riconoscimen-ti che hanno raforzato la sua immagine a livello internazionale: nel 2014 ospiterà i Mondiali di calcio e nel 2016 Rio de Janeiro sarà la sede dei Giochi olimpici. Niente sa-rebbe stato possibile senza Lula.

Strada a ostacoliMa i tempi diicili non sono initi. La pover-tà e la corruzione sono ancora endemici e c’è un enorme spreco di capitale umano. In Europa occidentale sono pochi i giovani ta-lenti che si perdono per mancanza di op-portunità. Invece in Brasile migliaia di ra-gazzi che potrebbero diventare geni dell’al-ta tecnologia chiedono l’elemosina o spaz-zano le strade. Come ha osservato Chom-sky, è un paese caotico.

Ma il caos del Brasile non è il risultato, come pensava Chomsky, delle interferenze straniere. Il Brasile è stato l’unico paese su-damericano a liberarsi di una potenza colo-niale senza una guerra civile. È diventato una monarchia in modo paciico, nel 1888 ha abolito la schiavitù senza spargimenti di sangue e un anno dopo è diventato una re-pubblica senza che si sparasse un colpo. Per centinaia d’anni il paese si è creato da solo le sue crisi e si è ubriacato dei suoi miti. Dal 1807, quando Napoleone invase il Portogal-lo preparando l’indipendenza del Brasile, nessuna decisione importante per il paese è stata presa all’estero.

L’evoluzione del Brasile moderno è sta-ta influenzata dalle dinamiche del com-mercio globale, in particolare quello del cafè. Appena si scoprì che la bevanda, ino a quel momento riservata alle classi alte,

Porto Alegre, Brasile. Lula e Dilma Roussef, il 24 settembre 2010

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Il Brasile in cifre

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Indicatori economici, tassi di crescitain percentuale

Redditi mensili, percentualedella popolazione

Pil Pil pro capite Inlazione

2,33,4

0,7

2,7

Presidenza di Cardoso, 1995-2002

Presidenza di Lula, 2003-2009

14,9

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2014

8

9

60

23

2009

17,4

13,4

53,6

15,6

2003

29,9

16,4

43

10,7 Superiore a 2.085 euro

Tra 484 e 2.084 euro

Tra 349 e 483 euro

Inferiore a 348 euro

16 Internazionale 866 | 1 ottobre 2010

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di prodotti agroalimentari monopolizzano il capitale e, di conseguenza, entrano in conlitto con lo sviluppo industriale. Ma nel caso di São Paulo, il culmine degli investi-menti industriali coincise con quello dell’esportazione di cafè. La strada verso il capitalismo, però, era piena di ostacoli. Per gestire l’economia delle esportazioni e di-fenderla dalle oscillazioni dei prezzi com-prando il cafè in eccesso, nacque una farra-ginosa burocrazia. Lo stato allargò la sua inluenza in altri settori, diventando sem-pre più costoso, e raggiunse il massimo li-vello di congestione dopo gli anni trenta, quando diventò presidente Getúlio Var-gas.

Vargas fu il primo populista latinoame-ricano. Era un ranchero delle pampas, ma credeva nell’industria nazionale. Durante il suo governo si costruirono dighe e ponti, e nacquero sindacati controllati dallo stato. Ma la crescita e il progresso a poco a poco rallentarono e nel 1956, quando Juscelino Kubitschek prese il posto di Vargas, la crea-zione dei posti di lavoro non riuscì più a sta-re al passo con la crescita della popolazione. Il deicit di bilancio e l’inlazione diventaro-no un problema cronico. Scoppiarono i con-litti sociali.

Nel 1964 ci fu un colpo di stato militare, ma i generali proseguirono sulla strada del protezionismo e delle industrie controllate dallo stato. Questo modello statalista, che puntava sulle industrie locali per limitare le importazioni, si era difuso in tutta l’Ameri-ca Latina. Negli anni ottanta in Sudamerica c’era una desolazione spaventosa. Non si faceva credito, l’inflazione continuava a crescere e non c’erano scambi commercia-li con gli altri paesi.

Dopo quarant’anni di populismo di sta-to, i capitalisti latinoamericani avevano smesso di rischiare. Impiegavano tutte le loro energie per coltivare amicizie politiche e assicurarsi che i dazi rimanessero alti. Gli economisti lanciarono l’allarme, ma non bastò. Dal punto di vista ideologico, le rifor-me di mercato assunsero un signiicato si-nistro: in Cile Augusto Pinochet aveva otte-nuto qualche successo, ma il tentativo della giunta argentina aveva provocato ancora più corruzione e spargimenti di sangue. Il capitalismo e il commercio internazionale cominciarono a essere associati ai dittatori assassini.

In Brasile il tabù fu infranto da Fernan-do Henrique Cardoso, uno dei più impor-tanti intellettuali del paese. Dopo essere

In Brasile non c’è mai stata una vera riforma agraria. Quella avviata timi-damente dal presidente José Sarney

dopo vent’anni di dittatura e quella di Henrique Cardoso non hanno cambiato la struttura delle proprietà terriere. Nel nordest del paese la distribuzione della proprietà rurale è rimasta uguale.

Il Brasile moderno, capitalista e glo-balizzato, coesiste con un Brasile pove-ro, arretrato e semifeudale. È strano che sia così, perché il Partito dei lavoratori (Pt) ha preso in dall’inizio un impegno con la sua base sociale per realizzare “un’ampia riforma agraria”. Ma questa resta una delle grandi questioni in so-speso degli otto anni di governo Lula.

Richieste antiquateIl ministro per lo sviluppo agrario, Guil-herme Cassel, accetta d’incontrarmi per mezz’ora. Comincia citando cifre che in un paese delle dimensioni del Brasile sorprenderebbero chiunque: “Il gover-no ha sistemato 550mila famiglie, ha assegnato 40 milioni di ettari di terra al-la riforma agraria. L’area che abbiamo distribuito è più grande della supericie di Paesi Bassi, Belgio, Svezia e Danimar-ca messi insieme”.

Ma secondo i Sem terra (Mst), il mo-vimento sociale più numeroso dell’Ame-rica Latina, rispetto alla presidenza di Cardoso il governo di Lula ha fatto pochi progressi nella distribuzione delle terre. Evelaine Martinez, membro del coordi-namento nazionale dell’Mst, spiega: “La maggior parte della terra distribuita è stata comprata e non espropriata. In questo modo la struttura della proprietà nel paese non cambia”.

L’atteggiamento nei confronti della

riforma agraria è cambiato all’interno dello stesso Pt. Glauco Piai, alto funzio-nario del partito a São Paulo, aferma: “In poco tempo il Brasile potrebbe di-ventare il principale esportatore di cerea li in Cina. Le persone che hanno la terra devono imparare a usare la tecno-logia. Il punto non è più chi è senza terra o chi ce l’ha. Il punto è chi ha un compu-ter e chi no. Le richieste dei Sem terra sono antiquate”.

Gilberto Carvalho, capo del gabinet-to del presidente, spiega: “La visione romantica di una riforma agraria realiz-zata suddividendo e distribuendo le ter-re è superata. Servono investimenti per la produzione agricola delle piccole pro-prietà e delle cooperative”. Luiz Dulci, segretario generale della presidenza, di-fende il governo: “Nel suo anno migliore Cardoso assegnò 2,4 milioni di real all’agricoltura a conduzione familiare. Quest’anno ne abbiamo assegnati già 13 miliardi”. La situazione si chiarisce quando parlo con due militanti della Confederazione nazionale dei lavorato-ri dell’agricoltura, un’altra organizzazio-ne per anni alleata del Pt: “Per il governo la questione rurale è un problema”, so-stengono. “Lula non vuole conlitti. I la-tifondisti in parlamento formano un gruppo che conta su più di cento deputa-ti e la maggior parte appartiene alla base alleata del presidente”.

Secondo Osvaldo Russo, specialista del Pt per la questione agraria, “la posi-zione di Lula non è cambiata. È sempre stato un amministratore dagli interessi contraddittori. La riforma non è andata avanti perché Lula la considera un fatto-re d’ingovernabilità”.

È chiaro che l’assenza di una maggio-ranza del Pt in parlamento ha limitato le possibilità di trasformazione. Lula – a volte ce ne dimentichiamo – ha governa-to rispettando i limiti legali e istituziona-li. Non tutto in politica è un problema di volontà. u sb

Lula aveva promessola riforma agraria. Ma la distribuzione delle terrenon è cambiata

Una questione in sospeso

Hernán Gómez Bruera, La Jornada, Messico

Sem terra

Internazionale 866 | 1 ottobre 2010 17

Page 18: Internazionale n° 866 [1/7 ottobre 2010]

In copertinastato un teorico della dipendenza, Cardoso cambiò idea durante il lungo esilio in Cile e negli Stati Uniti. Nel 1992 diventò il mini-stro delle inanze del Psdb e fu eletto presi-dente nel 1994 e nel 1998, battendo in en-trambe le occasioni Lula. La situazione era diicile. Il rientro del Brasile nell’economia globale non era scontato. Imporre riforme di mercato senza l’opposizione, in assenza di un parlamento, di elezioni, di mezzi d’in-formazione liberi, di sindacati e di scioperi, com’era successo in Cile e nella Cina di Deng Xiaoping, era più semplice. La vera diicoltà era riuscirci in una democrazia mal governata, con un controllo centrale insufficiente, un sistema giudiziario che funzionava male, la polizia corrotta, un’op-posizione feroce.

Il Brasile ci è riuscito. Molti scettici pen-savano che la riforma valutaria avrebbe fatto aumentare il prezzo dei carburanti im-portati e che il costo dei trasporti pubblici sarebbe salito alle stelle. Pensavano anche che la riduzione dei sussidi alimentari avrebbe provocato delle rivolte e portato alla sconitta elettorale.

Uno come noiQuando è stato eletto la prima volta, Lula si è trovato davanti una strada in salita. Per quasi tutto il suo primo mandato la crescita economica è stata bassa. Il suo ministro delle inanze, Antonio Palocci, un ex pedia-tra trotskista, gli aveva consigliato di man-tenere la rotta e d’insistere con le riforme. All’interno del Pt le pressioni per tornare al populismo erano forti e alcuni militanti di sinistra hanno abbandonato il partito. I col-laboratori di Lula sono stati coinvolti in brutti episodi di corruzione. Ma nonostante tutto, nel 2006 Lula è stato rieletto.

Barack Obama lo ha deinito “il politico più popolare del mondo”. Il carisma di Lula è diverso da quello del presidente degli Sta-ti Uniti: non è imperturbabile né brillante né originale. È uno come noi. In alcune oc-casioni sembra in troppo uno come noi: guarda le partite di calcio, beve un po’ trop-po e fa delle gafes, come quando è andato con un vestito di Armani all’appuntamento con i vecchi compagni del sindacato. Come molti brasiliani, ha avuto una iglia fuori dal matrimonio.

Eppure il suo successo ha poco a che ve-dere con la sua personalità o la sua immagi-ne. Lula non ha vinto andando a caccia di popolarità, ma riiutando di allontanarsi da princìpi e politiche che in teoria appartene-

18 Internazionale 866 | 1 ottobre 2010

La maggioranza dei brasiliani non si è resa conto che siamo in guerra, almeno sul fronte

dell’istruzione. Se continueremo a for-mare così pochi giovani qualiicati non riusciremo a trasformare il Brasile in un paese del primo mondo.

Ci sono due strade per far crescere un’economia. La prima è aumentare i fattori di produzione, il lavoro e il capi-tale. La seconda è aumentare la pro-duttività. A lungo termine, solo la se-conda soluzione è sostenibile. E il cam-mino per raggiungere una crescita della produttività è uno solo: la scuola. In Brasile il fallimento è totale. Per quanto riguarda l’istruzione post lau-rea, solo 58mila persone fanno un dot-torato di ricerca e, di queste, 31mila sono concentrate negli stati di São Pau-lo e Rio de Janeiro.

Per quanto riguarda l’università, il tasso d’immatricolazione è intorno al 20 per cento. Il nostro sistema scolasti-co è arcaico, sofoca i ragazzi con un programma enorme e gli insegna poco. Nella classiica del rapporto Pisa, che analizza il livello di apprendimento de-

gli alunni di 15 anni in 57 paesi, il Brasile si è piazzato 54° in matematica, 52° in scienze e 49° in lettura.

Le indagini sull’alfabetizzazione della popolazione mostrano che solo un brasiliano su quattro è alfabetizzato. La maggior parte delle scuole non riesce ad alfabetizzare gli studenti entro i pri-mi due anni di studio.

Trascurare l’essenzialeIl fatto sorprendente è che in Brasile, anche nelle zone più povere, esistono decine di scuole e professori che alfa-betizzano il 100 per cento degli alunni entro il secondo anno di scuola. Ci sono quindi delle soluzioni perfettamente replicabili e a basso costo.

Una delle tragedie del sottosvilup-po, soprattutto in un paese democrati-co, è che le necessità della popolazione superano sempre la capacità di soddi-sfarle. Per questo i politici sono tentati di trascurare una delle loro funzioni più importanti, quella di individuare le priorità.

L’eccesso di problemi del nostro si-stema scolastico è un invito al populi-smo, e qualunque leader che non af-fronti tutti i problemi del sistema edu-cativo corre il rischio di essere accusato d’indiferenza o elitarismo.

Per fare in modo che gli studenti escano dalla scuola con una buona for-mazione e preparati per il mondo del lavoro servono misure radicali che sca-tenerebbero le proteste dei sindacati della scuola. Speriamo che un giorno un presidente brasiliano si assumerà quest’impegno: “Alla ine del mio man-dato, nessun bambino arriverà al terzo anno di scuola senza saper leggere e scrivere”.

L’alfabetizzazione è una condizione necessaria per raggiungere lo sviluppo. Con un sistema educativo migliore, si risolverebbero anche molti altri proble-mi del Brasile. u as

Il Brasile deve investire nell’istruzione. Oggi soloil 25 per cento degli abitanti è completamente alfabetizzato

Il futuro è nella scuola

Gustavo Ioschpe, Veja, Brasile

Società

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Da sapereAnni di scolarizzazione tra la popolazionecon più di 25 anni

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01992 20001996 2004 2008

Page 19: Internazionale n° 866 [1/7 ottobre 2010]

vano ai suoi avversari politici: bilanci equi-librati, un’attenzione continua per evitare l’inlazione, e la disponibilità a rinunciare a vittorie facili in nome di una strategia a lun-go termine. Durante la crisi economica dell’anno scorso, l’economia brasiliana è stata una delle ultime a rallentare e una del-le prime a riprendersi. Oggi la crescita è straordinaria e inalmente il paese può in-vestire nel progetto che sta più a cuore a Lula: sconiggere la povertà nel nordest del paese.

Nel 2006 Lula ha vinto le elezioni sulla iducia. I latinoamericani non protestano sempre per l’aumento irresponsabile del deicit, sanno sopportare gli aggiustamenti dolorosi se pensano che siano fatti in buona fede. In Argentina Carlos Menem ha preso diverse decisioni assurde e pericolose, ma era amato dai poveri e fu rieletto per un se-condo mandato. I cileni non cancellarono le riforme di Pinochet dopo che il dittatore lasciò il potere nel 1990. Il peruviano Alber-to Fujimori è stato condannato a 25 anni di prigione, ma è ancora l’idolo dei poveri. In Brasile Cardoso ha vinto due elezioni presi-denziali, e Lula è stato rieletto senza aver ottenuto grandi risultati.

Il Brasile ha fatto le scelte giuste ed è sta-to anche fortunato: ha tratto vantaggio dal-la crescita cinese, dal boom della soia, dallo smantellamento del settore agricolo del Venezuela da parte del suo stesso presiden-te e dalla scoperta di grandi giacimenti di petrolio nell’Atlantico, che potrebbero met-tere ine alla dipendenza brasiliana dai car-buranti stranieri. Ma otto anni fa, la sensa-

zione che quello fosse un momento storico non era un’illusione. È stato un vero spar-tiacque politico. Fino a quel momento l’economia di mercato e il commercio in-ternazionale erano i due argomenti che più dividevano i politici brasiliani. Oggi non c’è nessun candidato importante che si presen-ti con un programma statalista o populista.

Cosa succederà ora? È probabile che Dilma Roussef vinca le elezioni, soprattut-to grazie all’intensa campagna di Lula a suo favore. Ma all’interno del Pt l’ex guerriglie-ra è considerata un compromesso e non ha certo la stessa popolarità del presidente uscente: Lula ha l’82 per cento dei consensi. Rousseff è diventata capo di gabinetto nel 2005, quan-do ha sostituito José Dirceu, che si è dimesso a causa di uno scan-dalo di corruzione. Anche l’eroe della riforma economica del Pt, Antonio Palocci, è stato costretto a dimettersi per lo stesso motivo. I brasiliani hanno votato Lu-la per combattere la corruzione, ma l’ex sindacalista è stato coinvolto in alcuni dei più gravi episodi di compravendita di voti della storia del paese.

Le colline di Rio

Questi episodi non sono nulla di fronte ai problemi del Brasile. Gli indicatori econo-mici e politici non rispecchiano la realtà. Se il Comitato olimpico internazionale avesse passato più tempo nella “città più bella del mondo” prima di assegnare le Olimpiadi del 2016 a Rio de Janeiro, le sue rilessioni sarebbero state disturbate dai

colpi di armi da fuoco e dal ronzio degli eli-cotteri dell’esercito. La guerra alla droga continua senza tregua. A Rio i traicanti sono riusciti a rubare gli elicotteri alle for-ze dell’ordine. Le bande armate si conten-dono il territorio o si scontrano con la te-muta Bope, la polizia militare che ha come simbolo un teschio. Spesso gli automobili-sti devono cambiare percorso per aggirare uno scontro a fuoco su una delle superstra-de a otto corsie della città.

Il contrasto tra l’economia e l’atroce routine della vita quotidiana è più evidente a Rio che in qualsiasi altro posto del paese. Ma la situazione è simile in quasi tutte le città brasiliane. In molte zone di provincia, soprattutto in Amazzonia, per i poliziotti e i giudici sarebbe un suicidio cercare di con-trastare gli interessi della criminalità orga-nizzata. Spesso gli agenti federali che pro-vano a indagare sui casi di schiavismo nelle piantagioni sono uccisi a colpi di pistola. Le favelas – abbandonate dallo stato, dal governo e dalle forze dell’ordine – sono de-scritte come zone di guerra hobbesiana. Ma se il problema fosse solo questo, lo sta-to potrebbe riportare l’ordine, come hanno fatto alcuni sindaci a New York riducendo il tasso di criminalità. Sfortunatamente il problema è molto più profondo. A mante-nere lo status quo contribuisce un’incredi-bile e intensa concentrazione di forze e d’interessi che coinvolge anche i politici.

Tra gli anni cinquanta e gli anni settan-ta molte favelas di Rio de Janeiro si orga-

nizzarono in modo ammirevol-mente democratico. I capi delle associações de moradores (le orga-nizzazioni dei residenti) collabo-ravano con il mondo degli afari, la chiesa e i politici per assicurare

servizi e scuole ai loro quartieri. Ma negli anni ottanta, quando il governo degli Stati Uniti cominciò a combattere il traico di cocaina tra la Colombia e la Florida, i car-telli di Medellín e di Cali furono costretti a trovare percorsi alternativi. Rio era il punto di distribuzione più promettente, con tutte le insenature della sua costa e il suo ininito serbatoio di giovani disoccupati. Le bidon-ville appollaiate sulle sue colline a forma di cono erano come i castelli dei baroni me-dievali. Quando i soldi della droga comin-ciarono a circolare in grande quantità, il narcotraico si trasferì in questi bastioni naturali, dove la popolazione era anche un comodo scudo umano durante le incursio-ni della polizia.

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Guarulhos, Brasile. La candidata dei Verdi Marina Silva, a destra

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In copertinaIn passato, durante le campagne eletto-

rali i politici facevano il giro delle favelas. Oggi i voti dei loro abitanti sono merce di scambio. Mentre alcune unità della polizia sono impegnate in una sanguinosa batta-glia con i traicanti, altre vendono armi ai banditi e prendono mazzette. I proitti del-la droga inanziano le campagne elettorali di alcuni politici brasiliani. Lo stato non è assente dalle zone dove regnano il crimine e la povertà, ma è presente in modo per-verso. Solo i più coraggiosi raccolgono la sida e combattono l’industria della droga. Nello stato di São Paulo i sindacati del cri-mine hanno paralizzato i trasporti pubblici per giorni per ricordare ai politici quello che potrebbe succedere. Durante le Olim-piadi sarebbe un incubo.

Il Brasile si sta afermando sulla scena internazionale, sidando gli Stati Uniti sul-la questione dell’Iran, insistendo per avere un seggio al Consiglio di sicurezza dell’Onu, ma è inerme di fronte ai suoi pro-blemi interni. Non è più sull’orlo della crisi economica, ma rimane instabile, paraliz-zato tra i suoi demoni e il desiderio di svi-luppo. La scelta dell’economia di mercato, da parte di Lula e del Pt, rilette un cambia-mento ideologico del continente ancora troppo fragile. In Europa occidentale non si discute più di capitalismo e di commer-cio globale, ma in America Latina, le espor-tazioni e le multinazionali sono ancora un tema caldo.

I peronisti, i populisti, i castristi, i chavi-sti e i pochi marxisti latinoamericani rima-sti vorrebbero ancora assistere alla caduta del capitalismo. Dopo il terremoto di feb-braio, in alcune città del Cile meridionale ci sono state sommosse per il cibo. In Ar-gentina e in Bolivia le riviste di sinistra hanno pubblicato foto con didascalie come “La triste realtà che si nasconde dietro il miracolo cileno”.

Non c’è da meravigliarsi se il continente tiene gli occhi puntati sui progressi del Bra-sile. Se questi progressi continueranno, il Brasile inluirà sulla politica di tutti gli altri paesi latinoamericani. Ma un suo eventua-le fallimento sarebbe altrettanto importan-te. u bt

“Mi comporterò come un buon ex presidente. Viag-gerò per tutto il paese e se

vedrò che qualcosa va male lo dirò”. A qualche giorno dal primo turno delle elezioni presidenziali del 3 ottobre, po-chi in Brasile si domandano chi sarà il vincitore. Secondo tutti i sondaggi Dil-ma Roussef, 62 anni, la candidata di Lula e del Partito dei lavoratori (Pt), è in netto vantaggio, al punto che potrebbe vincere al primo turno contro il social-democratico José Serra, ottenendo po-co più del 50 per cento dei voti.

Le domande e i dubbi riguardano il ruolo che avrà in futuro Luiz Inácio Lula da Silva, che lascia la presidenza con l’indice di gradimento più alto della sto-ria del Brasile, e la distribuzione del po-tere nel primo governo di Roussef. “Vi sbagliate se credete che Dilma avrebbe accettato di essere una bella statuina”, ripete sempre Lula.

Probabilmente Rousseff, ex mini-stra dell’energia ed ex capo di gabinetto di Lula, sarà la prima donna presidente del gigantesco Brasile (192 milioni di abitanti), ma anche la seconda presi-dente ad aver combattuto in una guerri-glia armata negli anni settanta, a essere stata arrestata e torturata. L’unico pre-cedente è l’ex tupamaro José Mujica, nel piccolo Uruguay.

Roussef, iglia di un immigrato bul-garo, si è sempre distinta per il suo ca-rattere forte (ha appena sconfitto un tumore) e per le sue capacità dirigenzia-li. È riuscita a far aumentare la sua scar-sa popolarità iniziale (meno di un anno fa era venti punti sotto Serra) grazie al sostegno del presidente Lula, che l’ha scelta come erede e si è fatto in quattro

per garantirle alleati e accompagnarla in giro per il paese: non passano tre gior-ni senza che i due si presentino insieme in qualche evento pubblico.

L’incredibile rimonta di Rousseff non è dovuta solo al sostegno fonda-mentale di Lula, ma anche alla bravura che ha dimostrato nei dibattiti televisivi e agli errori commessi dall’avversario, il governatore di São Paulo José Serra, che inaspettatamente non ha saputo entra-re in contatto con molti brasiliani.

Equilibri politiciLe elezioni si svolgeranno in un clima animato, ma nessuno dei candidati più importanti rappresenta un rischio per la stabilità di un processo politico comin-ciato alla ine della dittatura militare, prima con la presidenza di Fernando Henrique Cardoso, del partito socialde-mocratico (Psdb), e poi con i due man-dati del presidente Lula, che si chiudo-no con uno straordinario bilancio eco-nomico e sociale.

Né Dilma Roussef né José Serra né Marina Silva dei Verdi – a cui i sondaggi danno dall’8 al 10 per cento dei voti – mettono in discussione la igura di Lula, i progressi raggiunti con le sue politiche o i programmi sociali di successo (come la Bolsa família) che hanno fatto uscire quasi trenta milioni di persone dalla po-vertà e hanno fatto crescere la classe media in un paese storicamente deva-stato dalle diseguaglianze.

I dubbi riguardano la composizione del futuro governo, perché in base al si-stema politico brasiliano – straordina-riamente frammentato – è quasi impos-sibile che un partito raggiunga la mag-gioranza parlamentare nelle due came-re. Lula cercò l’appoggio dei piccoli partiti di sinistra e dell’importante Par-tito del movimento democratico. Il fu-turo presidente dovrà trovare gli equili-bri necessari per governare, come ha fatto Lula in questi otto anni. u sb

Ex guerrigliera e ministra dell’energia di Lula, può diventare la prima donna presidente del Brasile

I numeri di Dilma Roussef

Soledad Gallego-Díaz, El País, Spagna

Elezioni

l’autoRE

Nathan Shachar è un giornalista svedese. È stato inviato in America Latina e oggi è corrispondente da Gerusalemme del quotidiano Dagens Nyheter. Ha scritto The

Gaza Strip (Sussex Academic Press 2010).

20 Internazionale 866 | 1 ottobre 2010

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stati uniti

La grande fugada Washington “Il grande esodo è cominciato”, annuncia Marc Ambinder, il di-rettore delle pagine politiche dell’Atlantic. “Anticipando il rimpasto che tradizionalmente segue le elezioni di metà man-dato, lo staf di Barack Obama è in fase di rinnovamento”. A co-minciare dal capo, Rahm Ema-nuel, che alla ine di ottobre la-scerà l’incarico per provare a conquistare la poltrona di sinda-co di Chicago. In primavera lo seguiranno il suo vice, Jim Mes-sina, e David Axelrod, l’uomo chiave dalla campagna elettora-le di Obama. Il portavoce Ro-bert Gibbs resterà alla Casa Bianca, ma come semplice con-sigliere. Il generale James Jones, consigliere per la sicurezza na-zionale, se ne andrà all’inizio del 2011, dopo la seconda revi-sione della strategia sull’Afgha-nistan e poco prima che lasci an-che il segretario alla difesa Ro-bert Gates. Nel frattempo anche la squadra economica di Obama perde pezzi. Dopo l’uscita del capo dell’uicio budget, Peter Orszag, e di Christina Romer, responsabile del consiglio degli esperti economici, anche Larry Summers, il massimo consiglie-re per l’economia del presiden-te, abbandona l’incarico. “E senza aver inito il suo lavoro”, scrive l’Economist, “risanare l’economia”.

Internazionale 866 | 1 ottobre 2010 21

Siete favorevoli o contrari agli obiettivi del movimento?

stati uniti

Tea party

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Democratici

Repubblicani

Indipendenti

Favorevoli Contrari Indecisi

Lunedì è stato un giorno stra-no. Quando i vecchietti sono andati a comprare il Granma, hanno notato che le elezioni legislative venezuelane erano a malapena nominate. Quella stessa mattina i gestori dei benzinai hanno ricevuto una busta sigillata con i nuovi prezzi della benzina. Ma l’hanno potuta aprire solo do-po aver saputo che il partito di Hugo Chávez non aveva otte-nuto i due terzi all’assemblea nazionale. L’operazione di rin-caro del combustibile è stata organizzata in assoluta segre-

tezza. Quando gli automobili-sti sono andati a fare benzina, hanno scoperto che dovevano pagare ino al 20 per cento in più. I cubani hanno associato il risultato delle elezioni in Ve-nezuela all’improvviso rinca-ro del carburante. E alcuni si sono accaparrati decine di litri di diesel, per paura che nei prossimi giorni il prezzo au-menti ancora.

All’Avana la preoccupazio-ne è tangibile. Perino i bam-bini delle elementari lo sanno: senza il sostegno incondizio-nato di questo vicino che ci

vende petrolio a prezzi di fa-vore, il sistema energetico na-zionale potrebbe collassare da un momento all’altro. Ma sap-piamo anche che se Caracas continuerà a inviarci aiuti così sostanziosi, il governo cubano non sarà obbligato a prosegui-re sulla strada dell’apertura economica e politica. Il 26 set-tembre si decideva anche il nostro futuro. Ma la stampa e la tv di stato non hanno parla-to della sensazione – a metà tra la paura e il sollievo – che ha attraversato l’isola da un capo all’altro. u sb

Dall’avana Yoani Sánchez

La benzina di Caracas

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il riiutodei mapuche Il 21 settembre i rappresentanti dei mapuche hanno riiutato l’apertura di un tavolo di nego-ziati oferta dal presidente cile-no Sebastián Piñera. “I 34 indi-geni in carcere”, scrive La Na-ción, “hanno annunciato che continueranno lo sciopero della fame cominciato ottanta giorni fa”. I mapuche chiedono di non essere processati in base alla legge antiterrorismo.

in breve

Paraguay Il 23 settembre il pre-sidente Fernando Lugo è risul-tato negativo a un test di pater-nità a cui si era sottoposto su ri-chiesta di una donna. Nel 2009 Lugo aveva ammesso di essere padre di un altro bambino.Stati Uniti Il 23 settembre in Virginia è stata eseguita la con-danna a morte di Teresa Lewis, una donna di 41 anni con pro-blemi mentali condannata per aver ucciso il marito e il iglia-stro.

Il 26 settembre il 66,45 per cento dei venezuelani è andato a votare per rinnovare l’assemblea nazionale. I partiti dell’opposizione, riuniti nella Mesa de la unidad democrática, hanno conquistato 65 dei 165 seggi in gioco, un numero suiciente per bloccare le cosiddette leggi organiche. “Il Partito socialista unidad de Venezuela del presidente Hugo Chávez ha ottenuto la maggioranza assoluta”, scrive El Universal, “anche se non ha conquistato la maggioranza qualiicata di 110 seggi, che gli avrebbe dato una libertà d’azione quasi totale”. u

venezuela

Chávez vince a metà

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Europa

Ed Miliband è il nuovo leader del Partito laburista britannico. Elet-to con un margine strettissimo, è stato incoronato al congresso di

Manchester il 26 settembre. La sua prima mossa è stata, comprensibilmente, tendere la mano al 49,35 per cento dei militanti che avevano votato per suo fratello maggiore, David. Ma il nuovo leader laburista non si è limitato a cercare di ricompattare il partito intorno a sé. Il giovane Miliband ha detto buona parte delle cose che il Labour – e il paese nel complesso – avevano bisogno di sentirsi dire. Innanzitutto ha chiarito che non dipenderà da nessuno: non sarà, in-somma, “l’uomo di Bob Crow”, il capo del sindacato dei ferrovieri. Tuttavia, il fatto che abbia sconitto il fratello proprio grazie ai voti dei sindacati lo esporrà inevitabil-mente alle critiche dei conservatori. L’accu-sa di essere “in debito verso le trade unions” è destinata a perseguitarlo nei prossimi me-si, ma gli resterà attaccata addosso per sem-pre solo se lui lo permetterà. Ed Miliband deve dimostrare che non si lascerà dare or-dini dai sindacati, ma anche che non trascu-rerà le preoccupazioni dei lavoratori.

In secondo luogo, Miliband ha sottoli-neato che parlerà al cuore del paese e che non ha intenzione di portare il partito radi-calmente a sinistra. Quest’ultima aferma-zione ha richiesto una piccola marcia indie-tro: non tanto per quello che aveva detto in campagna elettorale, quanto per il modo in cui le sue parole erano state interpretate. Per questo Ed ha promesso, in linea con il blairismo, che il Labour starà dalla parte delle classi medie in diicoltà e di “chiun-que lavora duramente e cerca di andare avanti”. Nel terzo punto del discorso, però,

il nuovo leader laburista ha dichiarato di volersi lasciare alle spalle l’eredità di Tony Blair e Gordon Brown e ha afermato di vo-ler rappresentare il futuro. In questo modo ha dimostrato di essere determinato ad an-dare avanti sulla sua strada più che a demo-lire il passato. Come ha detto chiaramente, “l’era del New Labour è inita”.

Un’eredità pesanteInine, nel quarto punto del discorso pro-nunciato la sera della vittoria, Ed Miliband ha annunciato che non si opporrà al gover-no per partito preso, ma che sceglierà quali battaglie combattere. Si comporterà, in-somma, come ha fatto David Cameron quando era all’opposizione, cercando di non farsi nemici inutilmente: una posizione saggia con al potere un governo di coalizio-ne. Ma c’è un rischio. Quest’opposizione potrebbe mancare di mordente. Il sostegno a favore della riforma elettorale e della gra-duate tax per il inanziamento dell’istruzio-ne superiore, oltre all’ammissione che an-che con i laburisti al governo ci sarebbero stati tagli al settore pubblico, potrebbero creare disaccordi all’interno del partito. Come leader dell’opposizione, Miliband dovrà essere in grado di attaccare l’esecuti-

Il Labour di Ed Milibandecologista, giovane, di sinistra

Rinnovare il partito, fare opposizione in modo deciso, non lasciarsi schiacciare dai sindacati. Gli obiettivi del nuovo leader laburista britannico sono complessi e ambiziosi

The Independent, Gran Bretagna

vo e, al tempo stesso, di presentare alterna-tive credibili.

Inoltre, la sconitta di David, anche se di misura, fa capire dove sta andando il parti-to. È vero che Ed ha corteggiato con succes-so i sindacati, ma non è solo questa la spie-gazione del suo successo. David era l’erede di Tony Blair, legato al New Labour e asso-ciato alla guerra in Iraq. Ora dovrà prendere delle decisioni diicili. Avendo scommesso pesantemente su un obiettivo che non ha raggiunto, oggi potrebbe anche decidere di farsi da parte. Gli scenari futuri dipende-ranno in gran parte dalle nomine dei mini-stri del governo ombra.

Il punto è che ora spetta a Ed plasmare il partito: il giovane Miliband ha dalla sua non solo la vittoria, ma anche un rinnovato cli-ma di unità, costruito dopo una dura scon-itta elettorale e anni di rivalità interne. Il partito di Ed Miliband sarà diverso da come sarebbe stato se avesse vinto David: senz’al-tro più moderno e innovativo. Ma il suo pri-mo compito sarà fare opposizione. E come hanno dimostrato gli ultimi dieci anni, il nostro sistema politico ha bisogno di un’op-posizione forte e decisa. È proprio su questo tema che sarà giudicato il nuovo leader la-burista. u nm

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Ed Miliband e il fratello David, a Manchester il 27 settembre 2010

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paesi bassi

il successo di Wilders Quasi quattro mesi dopo il voto del 9 giugno, il Partito cristiano-democratico (Cda), guidato da Maxime Verhagen, e i liberali (Vvd) di Mark Rutte hanno rag-giunto un accordo per formare un esecutivo di minoranza. La nuova coalizione di centrode-stra avrà i numeri per governare grazie all’appoggio esterno del Partito della libertà, la forma-zione xenofoba di Geert Wil-ders (nella foto) che con i suoi 24 seggi è diventata l’ago della bi-lancia della politica olandese. “Un successo storico”, titola Trouw, per il leader dell’estre-ma destra, che tra pochi giorni sarà processato ad Amsterdam per istigazione all’odio razziale.

unione europea

bruxelles è al verde “Le casse dell’Unione europea sono vuote”, rivela Le Monde. Nonostante l’aumento dei com-piti dell’Ue, il suo bilancio è fer-mo ai livelli degli anni ottanta. Per il 2011 la Commissione ha presentato una bozza da 126,6 miliardi di euro, pari ad appena l’1,02 per cento del reddito na-zionale lordo dei ventisette. Ma per gli stati membri, alle prese con il risanamento dei conti pubblici, è ancora troppo. Per ri-solvere l’impasse, scrive il quoti-diano, è necessario dotare l’Ue di una fonte di entrate alternati-va ai contributi nazionali. I po-polari hanno proposto una tassa sulle transazioni inanziarie o sulle emissioni di CO2, mentre altri preferirebbero devolvere a Bruxelles l’iva su alcuni prodotti.

in breve

Spagna Il 29 settembre il paese è stato paralizzato da uno scio-pero generale, il primo dell’era Zapatero, proclamato dai sinda-cati contro la riforma del merca-to del lavoro.Kosovo Il presidente Fatmir Sejdiu si è dimesso il 27 settem-bre dopo che la corte costituzio-nale ha dichiarato incompatibili la carica di capo di stato e di lea-der di partito.Romania Il 27 settembre il mi-nistro dell’interno Vasile Blaga si è dimesso dopo che migliaia di poliziotti hanno partecipato a una manifestazione non auto-rizzata contro il governo.

La riuniicazione della Germania nel 1990 fu osteggiata da molti leader politici. Erano contrari i governi di Francia e Gran Bretagna, mentre il capo del Cremlino, Michail Gorbaciov, cercò ino all’ultimo di salvare la Ddr. Der Spiegel pubblica una serie di documenti del ministero degli esteri tedesco, rimasti inora

segreti, che oltre a provare l’ostilità nei confronti della riuniicazione spiega in che modo il governo della Germania Occidentale, guidato da Helmut Kohl, sia riuscito a superare tutti gli ostacoli diplomatici. Una delle rivelazioni destinate a suscitare più polemiche riguarda le trattative con Parigi: all’epoca il presidente francese François Mitterrand condizionò il suo assenso al sì della Germania all’introduzione dell’euro. Quindi la ine del marco tedesco è stato il prezzo per la riuniicazione? “A questa domanda”, conclude il settimanale, “non si può rispondere con un sì netto, anche perché le decisioni più importanti sull’euro sono state prese molto più tardi. Ma è indubbio che la caduta del muro abbia fatto fare un grande passo in avanti al progetto della moneta unica”. ◆

Germania

il prezzo della riuniicazione

Der Spiegel, Germania

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Al termine di un lungo braccio di ferro con il Cremlino, il sindaco di Mosca, Yuri Luzhkov, è stato rimosso dal suo incarico dopo 18 anni alla guida della capitale. La decisione, spiega Gazeta.ru, è stata presa dal presidente Dmi-trij Medvedev durante la visita

russia

Medvedevsilura Luzhkovsvizzera

più donne al governo Per la prima volta il governo svizzero è formato in maggio-ranza da donne: quattro sui sette membri dell’esecutivo. Il 22 set-tembre il parlamento ha eletto nel consiglio federale la sociali-sta Simonetta Sommaruga e il radicale Johann Schneider-Am-mann, che prendono il posto dei dimissionari Hans-Rudolf Merz (radicale) e Moritz Leuenberger (socialista). Il “grande rimpasto di governo”, scrive Le Temps, rappresenta “una sconitta per i socialisti”, che occupano ora i due dipartimenti ritenuti meno inluenti: giustizia ed esteri.

in Cina dei giorni scorsi. Luzhkov, siduciato dal Cremli-no “perché ritenuto inaidabi-le”, si è subito dimesso anche dal suo incarico in Russia unita, il partito al potere di cui era stato uno dei fondatori. Secondo mol-ti commentatori, Medvedev “si è comportato per la prima volta come un presidente indipenden-te”. Nel corso del viaggio a Pe-chino il presidente ha anche inaugurato, insieme al collega cinese Hu Jintao, un oleodotto che trasporterà il petrolio russo direttamente in Cina in base a un contratto ventennale. Le due parti hanno deinito l’apertura del nuovo condotto “un evento storico”, anche se sul prezzo del-le forniture non c’è ancora un accordo. Medvedev e Hu Jintao hanno inoltre avviato le trattati-ve per la vendita di gas russo alla Cina a partire dal 2015.

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Africa e Medio OrienteNon con le armima con il voto

Elvis Kodjo, Fraternité Matin, Costa d’Avorio

Il 21 settembre nel palazzo presiden-ziale di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, c’erano tutti gli attori del Quadro permanente di concerta-

zione riuniti per la settima, e forse ultima, volta: il presidente burkinabé, e mediatore della crisi ivoriana, Blaise Compaoré, l’at-tuale presidente della Costa d’Avorio Lau-rent Gbagbo, il primo ministro Guillaume Soro, l’ex presidente Henri Konan Bédié (1993-1999), oggi alla guida del Partito de-mocratico della Costa d’Avorio, e Alassane Ouattara, leader del Raggruppamento dei repubblicani. Chi conosce bene i retroscena della crisi ivoriana - una guerra civile tra il 2002 e il 2004 e le elezioni rinviate varie volte dal 2005 – ha assistito a un’atmosfera surreale: sembrava una riunione di vecchi compagni di scuola che rievocavano con nostalgia il passato, senza rancori e con tan-ti sorrisi.

Tutti in coro hanno ripetuto che non c’è nessun ostacolo al regolare svolgimento del primo turno delle elezioni presidenziali previsto per il 31 ottobre. Le liste elettorali sono state convalidate, la distribuzione del-le carte di identità necessarie per votare sarà completata al più presto, la formazione dei dipendenti pubblici che si occuperanno di seguire lo svolgimento del processo elet-

torale è in corso. A quanto pare tutte le ra-gioni di disaccordo sono state rimosse.

Alle consultazioni più costose del mon-do (oltre 300 milioni di euro) parteciperan-no 5.725.720 elettori. Secondo i candidati, le elezioni saranno trasparenti, democratiche e non escluderanno nessuno dei leader che si contendono l’eredità di Félix Houphouët-Boigny, presidente ivoriano dal 1960 al 1993.

Gbagbo, Bedié e Ouattara sono i tre fa-voriti. La situazione è arrivata a una svolta psicologica: i candidati ammettono che tut-to è possibile e sono pronti a giocarsi le loro carte, soprattutto Laurent Gbagbo, rassicu-rato dai risultati dei sondaggi commissio-nati dalla presidenza ivoriana. Ma iducia non signiica certezza e fare previsioni sia per il primo sia per il secondo turno (27 no-vembre) è impossibile. Le variabili sono tante. Quale sarà l’impatto della campagna elettorale? Il voto sarà principalmente etni-co, come spesso accade in Africa? Con chi si schiereranno i giovani che hanno vissuto solo la guerra e la crisi e di cui nessuno co-nosce le aspirazioni e le inclinazioni politi-che? Una sola cosa è certa: chi romperà la tregua in vigore dovrà assumersi la respon-sabilità di non voler aiutare la Costa d’Avo-rio a superare l’impasse. u sv

Elezioni imprevedibiliin Costa d’Avorio

Marwane Ben Yahmed, Jeune Afrique, Francia

La Commissione nazionale per la lotta contro la proliferazione e la circolazione illegale delle armi leggere e di piccolo calibro ha or-

ganizzato una campagna di sensibilizza-zione in vista delle elezioni presidenziali del 31 ottobre.

Lo slogan della campagna, lanciata il 25 settembre, è “Mon arme, c’est mon vote” e l’obiettivo dell’iniziativa è contribuire alla preparazione di un clima elettorale sicuro e paciico in cui tutti i cittadini possano an-dare a votare liberamente.

Il presidente della Commissione, il ge-nerale Désiré Adjoussou, ha precisato che lo scopo del progetto non è solo quello di combattere il possesso illegale di armi, ma anche l’uso abusivo che ne fanno i detento-ri regolari.

Secondo Adjoussou, la Costa d’Avorio non si è mai davvero risollevata dalla crisi provocata dalla guerra civile. “Le frontiere sono diventate poco sicure e la criminalità è aumentata in modo esplosivo”, ha dichia-rato il generale. Su questa situazione, inol-tre, si sono innestati nuovi problemi eco-nomici: la crisi dell’ultimo raccolto di ca-cao, dovuta a un’epidemia delle piantagio-ni, e l’aumento della disoccupazione gio-vanile.

Per questo le elezioni ivoriane potreb-bero essere a rischio e il pericolo delle armi non deve essere sottovalutato. Le varie forze politiche, in ogni caso, sembrano in-tenzionate a prenderlo sul serio e hanno deciso di sostenere attivamente la campa-gna nazionale. u

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Sostenitori del presidente Laurent Gbagbo ad Agboville

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Le elezioni in Nigeria dovrebbero svolgersi a gennaio del 2011, ma sembrano destinate a slittare. Il settimanale The News dedica la copertina ai preparativi elettorali. Secondo alcuni sondaggi per ora il candidato favorito è il generale in pensione Muhammadu Buhari, ex capo di stato militare tra il 1983 e il

1985. I nigeriani lo considerano una persona onesta e attenta alle questioni di giustizia sociale. Il quadro elettorale è ancora molto confuso e si deinirà nelle prossime settimane, quando tutti i candidati si saranno uicialmente registrati. Il presidente ad interim Goodluck Jonathan è al momento l’unico candidato cristiano alle primarie del Partito democratico del popolo (Pdp) che si terranno a ine ottobre e sembra il favorito per la regola non scritta del Pdp che prevede l’alternanza alle presidenziali di candidati musulmani e cristiani. La novità principale è la nascita del Fronte democratico per una federazione dei popoli, la formazione del premio Nobel per la letteratura Wole Soyinka, che non si presenterà alle elezioni, ma vuole combattere la corruzione. ◆

Nigeria

Corsa alle candidature

The News, Nigeria

Khalida Jarrar, 47 anni, è una vecchia militante del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. A metà luglio un medico le ha prescritto de-gli esami al cervello, ma le at-trezzature per farli a Ramallah non ci sono. Il ministero della salute l’ha informata che non avrebbe coperto le sue visite in Israele, ma solo nell’ospedale di Amman, in Giordania. Un avvocato ha presentato a suo nome la richiesta di lasciare Ramallah ai funzionari israe-liani. Dopo due settimane le è stato detto che lo shabak (i ser-

vizi di intelligence israeliani) le avevano dato l’autorizzazio-ne. Il 30 agosto ha raggiunto il ponte di Allenby, la frontiera con la Giordania, ma un fun-zionario l’ha rimandata indie-tro. Un portavoce dello shabak mi ha scritto che: “La sua per-manenza all’estero è un ri-schio per la sicurezza. Le visite mediche dovrebbero essere autorizzate dall’amministra-zione civile”. L’amministrazio-ne civile mi ha promesso che la sua nuova richiesta formale sarebbe stata accettata. Ho pubblicato le due risposte (del-

lo shabak e dell’amministra-zione civile) a settembre. Pen-savo che dopo una settimana Jarrar avrebbe potuto viaggia-re. In passato, forse ino a otto anni fa, un articolo su un per-messo di viaggio negato a una persona malata spingeva subi-to le autorità a rilasciare un’au-torizzazione eccezionale. Allo-ra sentivo che il mio lavoro aveva un certo potere, almeno quando c’era di mezzo la vita di una persona. Ora la situa-zione è peggiorata: è passato un mese e Jarrar è ancora a Ra-mallah. ◆ nm

Da Ramallah Amira Hass

Per una visita medica

SENEGAL

Gli orfani del Joola Il naufragio del battello senega-lese Le Joola, avvenuto nelle ac-que territoriali del Gambia il 26 settembre del 2002, è il secondo più grande disastro marittimo non militare della storia. Le vit-time (almeno 1.836) sono più di quelle del Titanic. Con una leg-ge speciale, approvata nel 2006, il presidente Abdoulaye Wade ha deciso di risarcire i bambini rimasti orfani a causa di questo incidente. “Ma le famiglie sono ancora in attesa”, osserva Le Messager.

GUINEA

Il massacroimpunito “Verità, giustizia e riconciliazio-ne sono lontane”, commenta Le Pays. Il 28 settembre del 2009 una manifestazione organizzata dalle forze dell’opposizione nel-lo stadio di Conakry è stata re-pressa nel sangue dalla giunta militare al potere. Poco dopo la commissione d’inchiesta nomi-nata dall’Onu ha condannato queste violenze come “crimini contro l’umanità”, attribuendo-ne la responsabilità penale a Moussa Dadis Camara, l’ex ca-po della giunta, ora esiliato in Burkina Faso. Ma le organizza-zioni dei diritti umani ricordano che le 157 vittime del massacro, i mille feriti e le centinaia di donne violentate non hanno an-cora avuto giustizia.

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KUWAIT

Lo scandalo di Al Habib Il religioso sciita Yasser al Habib continua a soiare sul fuoco delle divisioni confessionali del suo paese, in cui gli sciiti sono il 10 per cento della popolazione, scrive il settimanale iracheno Al Esbouyia. Al Habib vive in esilio a Londra per sfuggire a una condanna ricevuta nel 2004 per insulti religiosi di ca-rattere confessionale. Ora le sue provocatorie dichiarazioni sulla moglie del profeta Maometto, Aisha, una igura poco amata dagli sciiti, hanno scatenato re-azioni violente in Kuwait, dove molti sunniti hanno manifestato per chiedere la revoca della sua cittadinanza. Il governo ha ce-duto alle pressioni e ha tolto la cittadinanza ad Al Habib.

IN BREVE

Somalia Il 23 settembre 19 civili sono morti in un attacco dei ri-belli di Al Shabaab contro le for-ze governative a Mogadiscio.

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26 Internazionale 866 | 1 ottobre 2010

Asia e Paciico

A d appena dodici giorni dall’ini­zio dei Giochi del Common­wealth, che si apriranno a New Delhi il 3 ottobre, il portavoce

del comitato organizzatore aveva assicura­to che il settanta per cento dei lavori per il villaggio degli atleti era stato ultimato. Mancava solo un piccolo 30 per cento. Ba­sta fare due conti per capire che questa di­chiarazione sarebbe stata accettabile solo se i lavori fossero cominciati quaranta gior­ni prima, ma non è così. Eppure il portavo­ce non riusciva a capacitarsi del clamore suscitato dalle sue parole. In fondo manca­vano ancora dodici giorni!

Neanche Lalit Bhanot, il segretario ge­nerale del comitato, riusciva a capacitarsi del putiferio suscitato dalla sua tesi secon­do cui gli standard d’igiene sono diversi nel mondo: ora sappiamo che gli occiden­

tali inorridiscono se dei cani randagi defe­cano sui loro letti (come dimostrano le foto degli alloggi che hanno fatto il giro del mondo). Il sindaco di New Delhi, Sheila Dikshit, è stata altrettanto brava a sminui­re il crollo del ponte pedonale avvenuto il 21 settembre: non era stato costruito per gli atleti ma per la gente comune, quindi non è il caso di indignarsi.

Per non essere da meno, il responsabile del villaggio, Dalbir Singh, ha ricordato che tutte le cose nuove presentano dei pro­blemi, quindi dobbiamo essere compren­sivi. E il ministro dello sport, M.S. Gill, ha paragonato i Giochi a un grande matrimo­nio del Punjab, dove, appena parte la mu­sica, tutto va magicamente a posto. Le au­

torità sembrano voler dire: è vero, ci sono dei problemi, ma noi indiani siamo fatti così, e non è un problema se uriniamo in pubblico.

Ma la popolazione e i mezzi d’informa­zione hanno respinto questa retorica asso­lutoria. Avendo ricevuto la promessa di un evento di livello mondiale, degno della vo­lontà dell’India di afermarsi come super­potenza, hanno reagito con rabbia a questo disastro organizzativo. Siamo stanchi di essere considerati un paese del terzo mon­do, che non sarà mai all’altezza degli altri, nemmeno quando stanzia enormi somme di denaro per ospitare i Giochi del Com­monwealth più costosi della storia.

Esame di coscienzaDi fronte a questa vergogna nazionale, for­se dovremmo fare un esame di coscienza. Abbiamo forse un morbo che si annida nel­le ossa? Amiamo troppo il nostro jugaad (l’arte di arrangiarsi)? In fondo tutte le di­chiarazioni degli organizzatori dei Giochi sembrano andare in questa direzione. Ma secondo me siamo sulla strada sbagliata. L’arte di arrangiarsi è una qualità solo in condizioni d’insuicienza: quando si tro­vano soluzioni creative per ricavare impor­tanti beneici da risorse scarse.

Ma nel caso dei Giochi del Common­wealth non c’è un problema di risorse. Stia­mo spendendo somme da capogiro che, investite in qualsiasi altro settore, avrebbe­ro fruttato risultati decisamente migliori. Noi indiani abbiamo la capacità di realiz­zare grandi opere. In questo caso, invece, gli organizzatori cercano di spacciare per jugaad la loro incompetenza. Per loro il ve­ro problema è la pignoleria dei governi e dei mezzi d’informazione esteri. Gli stra­nieri sono diversi da noi, non tanto per i loro standard d’igiene, ma perché si aspet­tano che manteniamo le nostre promesse.

La popolazione indiana, che a causa di un complesso d’inferiorità dà grande im­portanza alle opinioni degli altri, si è giu­stamente infuriata: l’unico buon motivo per spendere la cifra esorbitante di 700 miliardi di rupie (circa 11 miliardi di euro) era migliorare l’immagine dell’India nel mondo. Ora questo sogno sembra solo uno scherzo crudele. u sdf

Santosh Desai è un editorialista indiano che si occupa di società. Il suo ultimo libro è Mother pious lady. Making sense of eve­ryday India (HarperCollins 2010).

L’India si vergognadei suoi Giochi

I Giochi del Commonwealth potevano essere l’occasione per migliorare l’immagine del paese nel mondo. Ma il governo e il comitato organizzatore hanno fallito su tutta la linea

Santosh Desai, Outlook, India

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New Delhi, 21 settembre 2010. Il ponte pedonale dopo il crollo

u Il comitato organizzatore dei Giochi del Commonwealth è da mesi al centro delle polemiche. Già alle prese con le accuse di scarso rispetto dei diritti umani, gare d’appalto truccate, budget goniati e corruzione dilagante, il 23 settembre ha suscitato lo sdegno internazionale quando sono circolate le foto delle disastrose condizioni igieniche e strutturali del villaggio che ospiterà gli atleti.

Da sapere

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Cina-Giappone

pechinocontro Tokyo Il 24 settembre il governo giap-ponese ha ordinato la liberazio-ne del capitano del pescherec-cio cinese arrestato al largo del-le isole Senkaku, controllate dal Giappone ma rivendicate dalla Cina (e da Taiwan). Il gesto non è servito però a mettere ine alle tensioni tra Tokyo e Pechino. La vicenda potrebbe modiicare gli equilibri regionali, scrive The Diplomat: “La vittoria appa-rente della Cina rischia di spin-gere il Giappone verso un lega-me più stretto con gli Stati Uni-ti, alimentando la corsa agli ar-mamenti nell’area del Paciico. Negli ultimi mesi Pechino ha avanzato rivendicazioni territo-riali anche nei confronti di In-dia e Vietnam. Forse dietro alla linea dura portata avanti da Hu Jintao e Wen Jiabao c’è solo il tentativo di nascondere i pro-blemi interni. Ma la conseguen-za sarà un aumento dell’in-luenza statunitense nella re-gione”.

pakisTan

il ritorno di Musharraf L’ex presidente pachistano Per-vez Musharraf, 67 anni, ha lan-ciato uicialmente il suo nuovo partito, la All Pakistan muslim league. L’ex uomo forte del Pa-kistan, scrive il quotidiano Dawn, vuole tornare sulla sce-na politica del paese e candidar-si alle elezioni presidenziali del 2013. In esilio volontario a Lon-dra da quando fu costretto alle dimissioni dopo aver perso le elezioni nel 2008, Musharraf ha dichiarato di non temere azioni legali nei suoi confronti al mo-mento del ritorno in patria. “Dobbiamo introdurre una nuova cultura politica nel paese, che sia veramente democrati-ca”, ha detto, spiegando la sua decisione.

BirMania

Un giornale nel mirino Il sito internet di The Irrawad-dy, il network di informazione indipendente della comunità birmana in esilio, è stato oscu-rato per tutta la giornata di lune-dì da un attacco di pirati infor-matici. “L’episodio è avvenuto nel secondo anniversario della rivoluzione zaferano”, scrive Asia Sentinel. “A meno di due mesi dalle elezioni di novembre in Birmania, The Irrawaddy è uno dei pochi mezzi di informa-zione che ancora riescono a elu-dere la censura”. Il suo fondato-re, Aung Zaw, parla di mandan-ti: “Dietro l’attacco c’è sicura-mente la giunta militare”. In-tanto, la leader dell’opposizione Aung San Suu Kyi, che si trova agli arresti domiciliari, è stata autorizzata a votare ma non a candidarsi.

in Breve

Cambogia Il 23 settembre il lea der dell’opposizione Sam Rainsy è stato condannato a dieci anni di prigione per aver pubblicato sul sito del suo parti-to una mappa, considerata fal-sa, dei presunti nuovi conini con il Vietnam. Rainsy, che vive in esilio in Francia, accusa il pri-mo ministro Hun Sen di aver ce-duto alcune terre al Vietnam.Pakistan Il 24 settembre alcuni elicotteri della Nato provenienti dall’Afghanistan hanno efet-tuato un raid oltreconine ucci-dendo circa trenta ribelli islami-ci. Il governo pachistano ha pro-testato con la Nato.

Il 21 settembre undici persone che avevano chiesto asilo politico, tra cui nove srilanchesi, sono saliti sul tetto del centro di detenzione di Villawood, a Sydney, per denunciare la politica dei rimpatri del governo australiano. Sono scesi solo dopo aver ottenuto la promessa del trasferimento in un paese che ha irmato la convenzione di

Ginevra sui rifugiati. Il giorno prima Josefa Rauluni, 36 anni, un oppositore della giunta militare al potere nelle isole Figi, si era suicidato saltando dallo stesso tetto pur di non tornare nel suo paese. Sedici dei circa trecento detenuti nel centro di Villawood sono attualmente in sciopero della fame. Gli eventi degli ultimi giorni, scrive il Green Left Weekly, mettono in luce il trattamento disumano dei richiedenti asilo in Australia (ventisette vittime dal 2000). Mentre il governo esamina i loro dossier, sono rinchiusi nei centri di detenzione. Prima c’era solo quello dell’isola di Christmas, nell’oceano Indiano. Ma l’aumento del numero dei rifugiati (più di quattromila arrivi nel 2010) ha spinto il governo a riaprire il centro di Sydney. ◆

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storica riunione in Corea del nordIl 28 settembre si è svolta a Pyongyang una storica riunione del Par-tito dei lavoratori di Corea, la prima dal 1980. L’incontro, scrive il quotidiano sudcoreano Chosun Ilbo, ha aperto la strada alla suc-cessione di Kim Jong-il, al potere dal 1994, con il più giovane dei suoi igli, Kim Jong-un, 27 anni. L’agenzia di stampa uiciale Kcna ha confermato queste indiscrezioni annunciando la nomina di Kim Jong-un alla carica di generale a quattro stelle. La tv di stato ha inve-ce sottolineato la conferma di Kim Jong-il alla guida del partito, no-nostante le precarie condizioni di salute del leader, colpito da un ic-tus nell’agosto del 2008.

L’arrivo dei delegati a Pyongyang, il 26 settembre 2010

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Secondo la leggenda il Ponte dei So-spiri, che collega il Palazzo Ducale di Venezia alle antiche prigioni, prende il nome dai sospiri dei con-

dannati che da qui vedevano per l’ultima volta la laguna prima di essere rinchiusi in carcere. Se la prigione fosse ancora in uso, i carcerati oggi vedrebbero qualcosa di mol-to diverso: enormi cartelloni con l’attrice Julianne Moore che reclamizza i gioielli di Bulgari.

Le pubblicità stampate su teloni copro-no le facciate dei palazzi in restauro e la vendita di questi spazi inanzia la manuten-zione dei monumenti veneziani. Tra le aziende che li hanno comprati ci sono il pro-duttore di champagne Moët & Chandon e la Coca-Cola.

Quest’estate, però, la pazienza della cit-tà ha raggiunto il limite. Alcune organizza-

euro per il restauro di beni architettonici. Tra questi, 1,4 milioni sono destinati agli interventi in tutto il Veneto. Codello dichia-ra che il suo dipartimento ha ricevuto 150mila euro per i restauri del 2010, una somma molto inferiore ai due o tre milioni che richiede ogni anno per sistemare i mo-numenti più precari. Inoltre sottolinea che Venezia ha pochi spazi pubblicitari rispetto a città d’arte come Roma e Firenze, dove i cartelloni sono molto più difusi. “Non pos-siamo permetterci di riiutare del denaro per motivi estetici”, sostiene. “Non posso dire no all’immagine di una bottiglia quan-do il Palazzo Ducale cade a pezzi”.

Una legge del 2004 favorisce le sponso-rizzazioni private dei progetti a tutela dei beni culturali, e permette alle aziende un coinvolgimento più diretto nei restauri, compresa l’esecuzione dei lavori. Prima i privati potevano solo sponsorizzare i pro-getti. Tuttavia, secondo un funzionario del ministero dei beni culturali, la nuova legge non ha avuto molto efetto. In Italia si conti-nua a discutere dei limiti alla partecipazio-ne delle imprese private negli interventi sul patrimonio pubblico. Anche se i privati so-no attivi in questo settore da più di dieci an-ni – attraverso, per esempio, la gestione di bookshop, servizi di ristorazione e bigliette-ria – molti funzionari del ministero dei beni culturali rimangono scettici.

Bisogna stabilire dei limiti, dichiara Alessandra Mottola Molino, presidente di Italia Nostra, un’associazione per la tutela dei beni culturali, artistici e naturali. “È giu-sto aumentare l’eicienza e migliorare i ri-sultati in questo settore, ma non possiamo commercializzare tutto”, dice. “La morale di questa vicenda sembra essere che tutto ha un prezzo”.

Interventi in convenzioneNel 2008 il comune di Venezia ha stipulato una convenzione con il Dottor Group, un’azienda specializzata nel restauro archi-tettonico e monumentale di ediici storici e artistici, che permette alla ditta di vendere spazi pubblicitari per pagare i lavori conser-vativi. Dopo la conclusione di una prima fase dei lavori, il 9 settembre 2010 sono sta-ti tolti alcuni teloni da Palazzo Ducale. L’impresa prevede di inire gli interventi di restauro entro l’ottobre del 2011.

“Le casse della città erano vuote e ci ser-vivano degli sponsor”, si giustiica il sinda-co di Venezia, Giorgio Orsoni.

Il Dottor Group, con sede a San Vende-

zioni di tutela dei beni culturali, sostenute da buona parte dei cittadini, hanno detto basta a quello che considerano un imbrutti-mento dell’immagine di Venezia.

“Mancano i criteri per rendere le pubbli-cità compatibili con l’ambiente circostante in modo da non deturpare gli ediici, che devono rimanere parzialmente visibili”, sostiene Maria Camilla Bianchini d’Alberi-go, capo delegazione del Fondo ambiente italiano (Fai) a Venezia.

Negli ultimi anni questi cartelloni pub-blicitari sono diventati sempre più comuni nel capoluogo veneto. Forse troppo. Quan-do sono apparse le pubblicità della Coca-Cola su alcuni ediici del centro, il Fai ne ha criticato l’invadenza scatenando un dibat-tito pubblico.

Ma l’amministrazione comunale si di-fende: senza i cartelloni la città non avrebbe i soldi per la manutenzione dei monumenti. “Le sponsorizzazioni inanziano il restauro di ediici pubblici”, che altrimenti non ver-rebbero restaurati “anche se comportano rischi per la sicurezza”, fa notare Renata Codello, sovrintendente per i beni architet-tonici di Venezia.

Quest’anno il ministero dei beni cultu-rali ha stanziato poco più di 36 milioni di

I monumenti pubblicitari nel futuro di Venezia

I teloni sui palazzi in restauro nel centro di Venezia sono diventati spazi pubblicitari che servono a inanziare i lavori. Ma sono troppo invadenti e rovinano l’immagine della città

Elisabetta Povoledo, International Herald Tribune, Francia

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Piazza San Marco a Venezia, il 6 maggio 2010

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miano, in provincia di Treviso, si è impe-gnato a raccogliere 1,5 milioni di euro nell’arco di tre anni. Pietro Dottor, il presi-dente del gruppo, non risponde alle polemi-che: “Preferisco concentrarmi sul lavoro. Stiamo realizzando progetti di alta qualità a costo zero per il comune. Questo è quello che conta”.

I costi complessivi per il restauro della facciata del Palazzo Ducale sul rio della Ca-nonica si aggirano sui 2,8 milioni di euro. “Perché non dovremmo sfruttare quest’oc-casione? Cosa ci guadagniamo a lasciare in bianco le impalcature?”, si chiede Orsoni.Secondo l’accordo, le pubblicità non devo-no essere di cattivo gusto. “Ci sono cose che non sta bene mostrare, ma non capisco le critiche alla bottiglia di Coca-Cola”, si di-fende Orsoni. “Certo, i colori sono sgar-gianti, ma siamo abituati a vederli in tutto il mondo”.

Cercasi sponsor per il ColosseoI tagli del governo alla cultura hanno au-mentato la necessità di inanziamenti pri-vati. Alla ine di luglio il ministero dei beni culturali ha annunciato di essere alla ricer-ca di sponsor privati per raccogliere i 25 mi-lioni di euro necessari a restaurare il Colos-seo. Le proposte di sponsorizzazione po-tranno essere presentate ino al 30 ottobre.

Associazioni come il Fai riconoscono l’importanza degli sponsor privati, ma so-stengono che il patrimonio culturale italia-no non è ben tutelato se non si regolamenta meglio la pubblicità. “Non è una questione ideologica”, spiega Bianchini D’Alberigo. “Siamo preoccupati perché i cartelloni pub-blicitari stanno invadendo luoghi emble-matici come piazza San Marco”.

Altre persone criticano i cartelloni per motivi diversi. Il comune “non riesce a ven-dere bene il ‘concetto’ di piazza San Marco”, sostiene Pieralvise Zorzi, discendente di una delle famiglie storiche di Venezia e pubblicitario. “È una posizione che potreb-be essere valorizzata meglio”. Altri ancora pensano che una raccolta fondi diretta sa-rebbe più eicace, e che il comune dovreb-be assumersi il compito di vendere gli spazi pubblicitari. “Il comune non è un’agenzia pubblicitaria, non è il nostro lavoro”, ribatte Orsoni. Che come molti politici italiani, de-ve trovare un delicato equilibrio tra arte e afari. “È chiaro che cerchiamo di sfruttare queste occasioni al meglio delle nostre pos-sibilità, assicurandoci che gli afari non pre-valgano sulla cultura”. u sc

All’inizio di settembre si è svolto a Sarzana il Festival della Men-te: musicisti, artisti e scienziati

hanno parlato di crea tività, attirando nella cittadina ligure di 21mila abitanti quasi quarantamila visitatori. A metà settembre il Festivaletteratura di Man-tova, 48mila abitanti, ha registrato centomila presenze. Pochi giorni dopo Modena, Carpi e Sassuolo hanno ospi-tato il Festivalilosoia, con ospiti del calibro di Marc Augé, Zygmunt Bau-man e Remo Bodei che hanno parlato del tema di quest’anno: la fortuna.

L’Italia è un paese fortunato: dal 23 al 26 settembre a Matera si è svolto il Women’s iction festival, l’unico festi-val europeo dedicato alla narrativa femminile. Negli stessi giorni si è svol-to Torino Spiritualità, a ottobre Parma, Reggio Emilia e Modena inaugureran-no il Festival dell’architettura e la pri-ma settimana di novembre a Genova si terrà quello della scienza. Per non par-lare del Festival Economia di Trento, di quello della pace di Udine, di quello della matematica a Roma e della Mila-nesiana. I festival sono “spuntati come iori in questo paese disgraziato”, afer-ma l’attore e scrittore Moni Ovadia, di-rettore del Mittelfest di Cividale del Friuli.

Oggi in Italia si contano 1.200 festi-val annuali: più che in qualunque altro paese europeo. Alle manifestazioni partecipano in totale circa nove milioni di persone, soprattutto donne, e questo senza tener conto dei tradizionali festi-val del cinema, della musica e del tea-tro. Secondo uno studio di Guido Guerzoni, esperto di management del-la cultura dell’università Bocconi di

Milano, il fenomeno è relativamente recente e si basa sul “modello Manto-va”.

Il Festivaletteratura nella città dei Gonzaga, giunto alla tredicesima edi-zione, si ispira a quello organizzato a Hay-on-Wye, in Galles, che è frequen-tato da scrittori importanti. A Mantova si organizzano reading e dibattiti nei palazzi storici, sotto i portici, nei giar-dini e agli incroci delle strade. Nel 1997 i visitatori sono stati dodicimila, dieci anni dopo settantamila.

All’inizio il festival era inanziato in gran parte da denaro pubblico, ma oggi le spese (circa 1,4 milioni di euro) sono coperte per due terzi da sponsor priva-ti. Guerzoni ha calcolato che per ogni euro investito nell’evento se ne genera-no dieci in tutta la provincia. Sono stati creati nuovi posti di lavoro, il gettito i-scale è aumentato e Mantova ha mi-gliorato la sua immagine. La città ha attirato altre manifestazioni di musica, teatro e danza. Mantova, tradizional-mente di sinistra, alle ultime elezioni è passata al centrodestra. La nuova giun-ta ha criticato le iniziative per la “pole-mica spesso unilaterale rivolta contro il governo Berlusconi”.

Ma senza la collaborazione tra pub-blico e privato, il successo del modello Mantova non durerà. A impegnarsi per la sua riuscita sono soprattutto le fon-dazioni bancarie del nord e del centro: tenute per statuto a promuovere lo svi-luppo locale, negli ultimi anni hanno i-nanziato le iniziative più disparate. Molti festival italiani hanno uno scarso rilievo: ci sono manifestazioni pittore-sche come il festival del vento in Ligu-ria, quello della zampogna in Basilicata e quello della “decrescita felice” in Emilia-Romagna. Ma in ogni caso, co-me fa notare Ovadia, sono tutte occa-sioni buone per capire “che la testa si può usare in modi diversi invece di te-nerla ferma davanti alla tv”. u fp

Negli ultimi anni in Italia sono nati 1.200 festival e manifestazioni culturali. Un primato in Europa

Un iorire di festival

Henning Klüver, Süddeutsche Zeitung, Germania

Cultura

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Il sindaco rivoluzionario

Angelo Vassallo, ucciso il 5 settembre 2010, era un leader politico esemplare. Il suo obiettivo era creare una comunità senza diseguaglianze

Alain Faure, Le Monde, Francia

Angelo Vassallo, il sindaco di Pol-lica, è stato ucciso nella notte tra il 5 e il 6 settembre 2010 con sette colpi alla testa e al cuore.

La notizia ha sconvolto tutti quelli che in Campania, in Italia e nelle organizzazioni ambientaliste internazionali l’avevano co-nosciuto o avevano lavorato con lui.

Vassallo sembrava avere successo in tutto quello che faceva. A vent’anni aveva organizzato la rivolta dei pescatori locali, a trenta aveva fatto rivivere il porto turistico del suo paese, a quaranta aveva rilanciato la iliera olivicola nel Cilento, a cinquanta aveva puntato sull’ecologia in Campania e poi promosso le sue idee su urbanizzazio-ne, tutela ambientale e sviluppo locale in Europa e in Cina (dov’era andato in occa-sione del suo ultimo viaggio come rappre-sentante di Cittaslow, la rete internaziona-

le della proprietà fondiaria e dei poteri consolidati o, come diceva lui, con “l’abis-so incolmabile che separava, quando ero giovane, i pescatori da chi possedeva tutto: terre, immobili, attività commerciali, po-tere politico”.

Era stato eletto sindaco, presidente dell’assemblea dei sindaci (di tutte le ten-denze politiche) della comunità del parco nazionale del Cilento e consigliere provin-ciale con i Verdi. Vassallo ha accettato re-sponsabilità sempre più grandi proprio per colmare “l’abisso” di cui parlava. Ai suoi interlocutori, ai collaboratori e agli avver-sari politici spiegava che l’obiettivo del suo progetto era ridare dignità ai poveri, agli emarginati e a chi non poteva esprimersi.

Il nostro incontro, però, si era concluso con una nota pessimista: Vassallo aveva evocato la resistenza al cambiamento, il peso della tradizione, il classismo e la cap-pa di piombo imposta dai clan perché la politica resti una questione di clientele.

Vassallo aveva ricevuto molte oferte di denaro, vantaggi o proprietà perché rinun-ciasse al suo atteggiamento da Robin Hood. Ma aveva sempre detto di no, sere-namente e fermamente convinto che la sua condotta fosse giusta e necessaria. Iro-nizzava sulla cecità dogmatica, a volte eli-taria, dei suoi amici ambientalisti, era rat-tristato dai compromessi bizantini dei suoi colleghi ex socialisti ed ex comunisti, am-mirava i sindaci dei piccoli comuni con cui collaborava quotidianamente, criticava le campagne elettorali basate sulle promesse individuali, credeva in politiche regionali ambiziose incentrate sulla scuola e l’edu-cazione civica.

In termini di scienza politica, possiamo dire che la sua lotta nasceva dalla necessità di denunciare i pericoli che minacciano la coe sione sociale, non solo nell’Italia del sud: le diseguaglianze sociali, il dominio dei soldi, il riiuto del cambiamento, le al-terazioni dell’equilibrio ecologico, il nepo-tismo, l’isolazionismo, la criminalità orga-nizzata.

Uccidendo Angelo Vassallo, la mafia non ha voluto solo difendere le attività le-gate al narcotraico e all’edilizia. Ha ucci-so un profeta. Un eletto dal popolo che af-frontava con intensità e coraggio le disfun-zioni più evidenti della società contempo-ranea. u sv

Alain Faure è direttore di ricerca all’Istitu-to di studi politici di Grenoble.

le delle città del buon vivere). Vassallo aveva una forza vitale eccezio-

nale, si preoccupava del destino dei suoi concittadini più deboli e voleva creare una comunità più rispettosa dell’ambien-te. Due anni fa, nel corso di una ricerca sul-le passioni politiche a Napoli e in Campa-nia, ho avuto l’occasione di discutere con lui delle sue iniziative e delle sue idee. Vas-sallo ci ha ricevuti in un vecchio ediicio, che era stato donato al comune da un citta-dino ed era stato trasformato nella Casa del mare. Poi ci ha fatto visitare il paese perché voleva mostrarci come aveva realizzato sul territorio il suo progetto sociale.

Contro i privilegiIl suo modo di fare politica era molto parti-colare. Si basava sul concetto rivoluziona-rio (nel senso storico del termine) che il ruolo di eletto consiste innanzitutto nel combattere i privilegi e l’ordine costituito. Questa lotta signiicava prendere delle de-cisioni molto concrete sui servizi pubblici comunali e intercomunali, per ridurre le diseguaglianze all’interno della comunità. Nel corso della sua carriera Vassallo si è scontrato più volte con lo scoglio ancestra-

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I funerali di Angelo Vassallo ad Acciaroli, 10 settembre 2010

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Ovidiu Morgos, 23 anni, è uno studente e fotografo romeno. Vive a Rossano Calabro dal 2003. I momenti più belli che ha vissuto sono la nascita del nipote e la vittoria del Guinness world records per la cartolina panoramica più grande del mondo. Nel 2009 Ovidiu ha ripro-dotto i monumenti di Rossano facendo un mosaico con le immagini dei volti degli abitanti.

Volti nuovi

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Ingy Mubiayi Kakese

Roma

Nel 2011 ricorrerà il centenario della nascita dello scrittore Giorgio Scerbanenco. Era arrivato in Italia

da bambino e nonostante la madre fosse italiana, si è sempre sentito uno straniero. L’Italia dei suoi romanzi è un paese lacera-to, triste e qualche volta cattivo: tutt’altra immagine rispetto a quella dei favolosi an-ni sessanta di cui si parla sempre.

È la stessa immagine che si è fatta Na-talya, che è ucraina e fa la badante da otto anni. Laureata in letteratura e biologia, in Ucraina lavorava in una casa editrice scientiica e non avrebbe mai immaginato di ritrovarsi ad accudire gli anziani. Non immaginava neanche di ritrovarsi in un paese triste e cattivo. Non era questa l’Ita-lia che raccontavano i libri. Evidentemen-te non aveva letto Scerbanenco. Natalya si stupisce quando le rivolgono frasi come “torna nel tuo paese”, perché le considera lapalissiane. Certo che vorrebbe tornare nel suo paese, ma è evidente che non può perché, a cinquant’anni passati, si sente presa in ostaggio dalla storia, dalla sua fa-miglia e dal datore di lavoro.

Il racconto di Natalya è simile a miglia-ia di altri, se non per un particolare. Pro-prio come nelle storie dello scrittore mila-nese a un certo punto appare una pistola. È stato il suo datore di lavoro a tirarla fuo-ri: l’ha posata sul tavolo per chiarire i loro rapporti, dicendo che lui può fare quello che vuole e lei è solo una badante come tante altre.

Questa storia sarebbe stata un’ottima trama per un romanzo di Scerbanenco. Anche Natalya lo ha capito e per questo ha deciso di spendere un po’ dei suoi rispar-mi comprando i libri dello scrittore. Tra-duce Vladimir Giorgio Šerbanenko in rus-so, cercando di inire in tempo per l’anni-versario della sua nascita. Un omaggio al connazionale e un riscatto per la sua con-dizione di ostaggio. u

Ingy Mubiayi Kakese è nata al Cairo da madre egiziana e padre congolese. Vive a Ro-ma dal 1976 ([email protected]).

Come un romanzo di Scerbanenco

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Turchi, romeni, marocchini, polacchi e italiani: sono loro i veri zingari in Europa. Ma agli italiani chi glielo dice?

Guerra tra poveri

Maksim Cristan

Nei 27 paesi dell’Unione europea vi-vono in totale 32 milioni di stra-nieri, il 6,4 per cento della popola-

zione complessiva. Si tratta sia di persone originarie di paesi extracomunitari sia di persone che si sono trasferite da un paese all’altro dell’Ue. Lo afermano gli ultimi dati di Eurostat, secondo cui le popolazio-ni più numerose provengono dalla Tur-chia, dalla Romania, dal Marocco, dalla Polonia e, udite udite, dall’Italia.

Molti europei sono convinti che la pre-senza di immigrati peggiori la qualità della vita. Secondo i risultati di un sondaggio pubblicato dal Financial Times il 6 set-tembre 2010, il 64 per cento dei cittadini britannici sostiene che l’immigrazione ha avuto conseguenze negative sull’econo-

mia, sui servizi pubblici e sul mercato del lavoro in Gran Bretagna.

Turchi, romeni, marocchini, polacchi e italiani: sono loro i veri neri e zingari. Ap-pena ho saputo questa notizia ho pensato: e ora agli italiani chi glielo dice? Berlino, per esempio, è una città stupenda ma con un tasso di xenofobia in continua crescita. Ti può capitare di incontrare un gruppetto di neonazisti che insulta qualcuno: “Zigoi-ner, go home!”. A quel punto le ipotesi so-no due: chi viene insultato è un turco o è un italiano. Gli italiani in patria continua-no a prendersela con i rom. È un parados-so: gli “zingari” contro i rom, una guerra tra poveri. In Italia da quando Roberto Maroni è ministro dell’interno sono stati sgomberati moltissimi campi nomadi. Gli altri politici non intervengono. E neanche l’Unione europea. Perché? Perché è un af-fare interno italiano. Tra zingari. u

Maksim Cristan è uno scrittore croato na-to nel 1966. Nel 2001 è arrivato in Italia ([email protected]).

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Le opinioni

Il problema non è Sarkozy che espelle i rom sen-za rispettare i loro diritti, ma l’82 per cento dei francesi che lo applaude. È come quei marsi-gliesi che, in una città con il 25 per cento di mu-sulmani, sono favorevoli al divieto del richiamo dei muezzin alla preghiera: sarebbe come vie-

tare il suono delle campane delle chiese. Gli svizzeri sono stati più diretti, approvando per referendum il di-vieto di costruire nuovi minareti. A tedeschi e francesi sarebbe piaciuto imitarli. Il divieto di in-dossare il velo integrale per strada (Fran-cia, Italia) o negli ediici pubblici (Cata-logna) è un’espressione di razzismo e intolleranza mascherata da difesa delle donne (a cui peraltro non si chiede nem-meno un parere). Anche se le persone esplicitamente razziste sono una mino-ranza, la xenofobia è in rapido aumento e sta diventando un atteggiamento mag-gioritario in tutt’Europa.

Nel 2000 in Spagna il 36 per cento dei cittadini voleva leggi più restrittive sull’immigrazione, nel 2004 era il 56 per cento e oggi è il 75 per cento. Gli studi dimostrano che la xenofobia ha un fondo di razzismo. Perché la percezione dello stra-niero è legata all’immigrazione, che a sua volta è legata a culture ed etnie diverse. Ma a essere riiutate sono solo certe culture e certe etnie. In Spagna c’è rispetto per i tedeschi, gli inglesi o i francesi, mentre i rom con-tinuano a essere vittime della discriminazione e dell’ostilità popolare. Essere nato in Francia ed essere naturalizzato francese a 18 anni non garantisce il diritto di rimanere cittadino, secondo un’altra legge di Sar-kozy, che però non si applica ai francesi “purosangue”. In Italia un immigrato irregolare può inire in carcere, ma il suo datore di lavoro rischia solo una multa. In questo cocktail d’intolleranza, l’ostilità all’islam è l’in-grediente principale, legato al marchio d’infamia di essere potenziali terroristi. Il 55 per cento dei musul-mani europei si sente sempre più discriminato. Con 25 milioni di musulmani nei paesi dell’Unione europea, concentrati nelle grandi città, lo scontro religioso-cul-turale può far temere il peggio. I politici incitano o tol-lerano la xenofobia per meschini interessi elettorali. Alcuni lo fanno per guadagnare voti, altri per non per-derli. È un atteggiamento comune a quasi tutti i partiti e a tutti i paesi, salvo poche eccezioni.

Le cause di questo aumento della xenofobia sono note, perché ci sono molte ricerche sull’argomento. La prima è la crisi economica e l’aumento della disoccupa-zione. Molti credono che gli immigrati tolgano il lavoro e contribuiscano a far diminuire gli stipendi. Anche il

degrado della scuola pubblica è attribuito alle classi multietniche. La delinquenza, piccola o grande che sia, è associata all’immigrazione. Tutte idee senza fonda-mento. In Spagna, per esempio, l’immigrazione è stata un fattore molto positivo per la crescita tra il 1995 e il 2005: ha contribuito ad aumentare l’oferta di lavoro e la domanda di beni e servizi per i nuovi residenti. Il tas-so di delinquenza è più alto tra la popolazione autocto-na che non tra gli immigrati, tenuto conto dell’efetto

dell’età. Ma non insisterò nel contrap-porre dati a emozioni, perché non si trat-ta di un problema di conoscenza ma di sensazioni. E tra le sensazioni prevale la paura: paura di una globalizzazione in-controllata, di un’identità culturale mi-nacciata, di un’economia in crisi e dell’insicurezza del lavoro.

Ma perché dovremmo preoccuparci dell’ondata di razzismo e intolleranza che attraversa l’Europa? Dato che quanto restava dell’amore cristiano per il prossi-mo se l’è portato via lo scandalo dei preti

pedoili e dato che i diritti umani sono rimasti tali solo per i benestanti, perché non chiuderci in trincea, far rispettare le nostre leggi e i nostri costumi e tenere per noi i posti di lavoro, l’istruzione pubblica e la sanità? Prima di tutto perché non possiamo: non c’è economia europea (salvo quelle scandinave) che potrebbe resi-stere, sia per il bisogno di manodopera sia perché gli immigrati costano meno e sono più disposti ad accetta-re qualsiasi lavoro. Secondo, perché ormai sono qui e ci resteranno inché possono, se non migliorano le condi-zioni di vita nei paesi d’origine. E terzo, perché non si tratta solo di immigrati, ma di minoranze etniche e cul-turali ormai radicate in Europa. Obbligarli a rinunciare alla loro identità è una provocazione che rischia di ali-mentare uno scontro tra milioni di persone e reazioni estreme. In nome di cosa la religione islamica è dichia-rata estranea alla nostra cultura? Stiamo tornando alle guerre di religione?

Insomma, venire meno alla tolleranza e al rispetto dell’altro che ci inorgoglivano come europei è un viag-gio senza ritorno. In un mondo interdipendente, con un’economia in crisi, mentre cerchiamo investitori ci-nesi per salvare l’industria dell’auto e capitali arabi per riportare a galla le banche, in un pianeta in cui l’Europa rappresenta il 15 per cento della popolazione, ci resta solo il rispetto dei valori di tolleranza e di pace per farci sopravvivere in un ambiente competitivo e violento. Male che vada, perderemo. La nostra ultima speranza è conquistare il rispetto del nuovo mondo grazie al no-stro valore morale. u sb

Europa xenofoba

Manuel Castells

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CASTELLS è un sociologo spagnolo che insegna all’University of Southern California. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Comunicazione e

potere (Università Bocconi editore 2009).

Perché non chiuderci in trincea e tenere per noi i posti di lavoro, l’istruzione pubblica e la sanità? Perché non possiamo permettercelo, perché non ha senso e perché è pericoloso

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Le opinioni

II verdetto elettorale sull’amministrazione Oba-ma, e forse anche quello su altri governi della coalizione impegnata a Kabul, potrebbe dipen-dere dai delicatissimi equilibri delle repubbli-che dell’Asia centrale, da quelle nazioni che hanno il nome che inisce in “-stan”. A inluen-

zarlo è la difusione del morbo taliban, che ha già co-minciato a difondersi nei paesi vicini. Nelle ultime settimane il Tagikistan è diventato teatro di scontri violenti tra gruppi armati ilotaliban e forze di sicurez-za, un fatto che ha subito messo in allarme il Pentago-no. Dal 2008, infatti, i convogli di approvvigionamento per le truppe statunitensi in Afghanistan non attraver-sano più il Pakistan, dove venivano regolarmente at-taccati dai taliban, ma transitano in Ta-gikistan. Si tratta dunque di un paese strategicamente importante per la guer-ra in Afghanistan.

Nonostante questo, all’inizio di set-tembre i miliziani del mullah Abdullo Rahimov hanno liberato un gruppo di detenuti nel penitenziario della capitale, Dushanbe, con un attacco spettacolare. Rahimov è stato un personaggio di spic-co della guerra civile tagica. Nel 1997 si è rifugiato in Afghanistan, dove ha com-battuto a ianco dei taliban. L’anno scor-so è tornato in patria con una nuova armata jihadista: accanto ai fedelissimi tagichi combattono uzbechi, pa-chistani, ceceni e anche afgani. Questo fatto conferma i timori dei servizi segreti di mezzo mondo, cioè che il Waziristan, dove i taliban e i loro seguaci hanno stabi-lito il quartier generale dopo la battaglia di Tora Bora, è stato per anni il centro di addestramento di una nuo-va generazione di jihadisti, non più al comando di Bin Laden e di Al Qaeda, ma della leadership taliban. E tut-to questo è successo a poche centinaia di chilometri dalle truppe della coalizione guidata da Washington.

Sembra che l’attacco al carcere di Dushanbe, segui-to ad altri condotti contro l’esercito tagico, sia stato portato a termine da veri professionisti della guerri-glia. La scuola dei taliban è dunque una delle migliori e sicuramente è superiore ai centri di addestramento di Al Qaeda: i nuovi jihadisti si sono fatti le ossa su campi di battaglia veri, combattendo ianco a ianco con i taliban contro le forze della coalizione. Ci trovia-mo di fronte a guerrieri incalliti, non a fanatici religiosi o a giovani musulmani sognatori. Come Rahimov, molti leader jihadisti dei paesi dell’Asia centrale che negli ultimi anni hanno trovato rifugio in Afghanistan stanno tornando a casa. Lo conferma la ripresa dell’at-tività terroristica in tutte le repubbliche dell’area, in-

cluso l’Uzbekistan, il paese più popoloso, dove un regi-me repressivo e corrotto aveva fatto piazza pulita dei ribelli ilojihadisti nella valle di Fergana. Il rimpatrio coincide con la conquista taliban delle province del nord, quelle coninanti con le nazioni “-stan”. Per ora gli attacchi contro le forze di sicurezza si concentrano nelle aree limitrofe all’Afghanistan. L’ultimo avvenuto nel Tagikistan ha ucciso 23 soldati nella gola di Rasht, ad appena cinquanta chilometri dal conine afgano. Ma episodi come l’assalto al carcere di Dushanbe, nel cuore delle repubbliche, diventano sempre più fre-quenti.

Dopo le scorribande lungo il conine afgano, i jiha-disti si rifugiano in Afghanistan, spesso negli stessi

villaggi da cui parte il traico di eroina e oppio per i ricchi mercati dell’Asia cen-trale. Le conseguenze del difondersi del morbo taliban sono due: narcotraico e terrorismo, due fenomeni che vanno a braccetto, perché il primo inanzia il se-condo, che a sua volta indebolisce le for-ze dell’ordine, le quali dovrebbero ap-punto combattere il narcotraico. Spes-so narcotraicanti e terroristi attraversa-no i conini insieme e viaggiano in caro-vana ino alle capitali delle nazioni con il nome in “-stan”. Il tutto con il consenso

del governo di Karzai, ottenuto al suono dei soldoni della droga. Secondo una delegazione dell’Onu in visi-ta semiuiciale e rientrata la scorsa settimana, l’alle-anza tra narcotraicanti, jihadisti e politici corrotti sta creando delle bande di criminali che terrorizzano la popolazione afgana e presto faranno lo stesso anche con quelle delle repubbliche dell’Asia centrale.

Ecco dunque proilarsi uno scenario che fa paura a tutti, soprattutto alla Casa Bianca. A dieci mesi dall’an-nunciato ritiro delle truppe statunitensi, in tempo per una campagna elettorale trionfalistica che punterà sul-la riforma sanitaria e sul rimpatrio dei soldati, l’avan-zata dei taliban e l’inluenza nefasta dei loro successi oltreconine potrebbe far crollare le strategie elettora-li di Barack Obama.

E dato che l’elettorato ha la memoria corta, il Parti-to democratico potrebbe cadere vittima della retorica del Tea party, che lo accuserà di aver avuto nella regio-ne una politica ambigua e debole e ribadirà che in guerra è sempre meglio farsi guidare dai repubblicani. Speriamo che almeno questo pericolo spinga gli Stati Uniti e la comunità internazionale a salvare dal loro tragico destino quei milioni di persone che hanno avu-to la sfortuna di nascere in una nazione con il nome che inisce in “-stan”. u

Il pericolo vienedall’Asia centrale

Loretta Napoleoni

LORETTA NAPOLEONI è un’economista italiana che vive a Londra. Ha appena pubblicato Maonomics. L’amara medicina cinese contro gli scandali della nostra economia (Rizzoli 2010). Sarà a Ferrara dal 1 al 3 ottobre.

La nuova generazione di jihadisti dei paesi con il nome che inisce in “-stan” si è fatta le ossa sui campi di battaglia, combattendo con i taliban contro le forze occidentali

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Nel gennaio 2002 ho rice-vuto una strana lettera dal giallista canadese Howard Engel. Una mattina di qualche me-se prima si era svegliato,

si era vestito, aveva fatto colazione e poi era uscito sulla veranda a prendere il gior-nale. Ma sembrava che il giornale avesse subìto una trasformazione. Engel racconta così l’episodio:

“Il Globe & Mail del 31 luglio 2001 aveva lo stesso formato di sempre, ma non riuscivo più a leggere cosa c’era scritto. Le lettere dell’alfabeto erano quelle che conoscevo in da bambino. Solo che ora, quando le mettevo a fuoco, sembravano scritte in ci-rillico e un attimo dopo in coreano. Era un’edizione serbocroata del Globe & Mail? Ero vittima di uno scherzo?

Dopo un’esperienza del genere sarei dovuto cadere in preda al panico. Invece, ero invaso da una calma razionale e impas-sibile. Visto che nessuno farebbe mai uno scherzo simile, pensavo, l’unica spiegazio-ne era che avevo avuto un ictus”.

In seguito gli è tornato in mente un mio libro, Un antropologo su Marte – Sette rac-conti paradossali (Adelphi 1998) e in parti-colare il racconto Il caso del pittore che non vedeva i colori, in cui il mio paziente, il si-gnor I., non era riuscito a leggere un rap-

porto della polizia a causa di un trauma cranico: vedeva caratteri di diverso tipo e grandezza, ma non era capace di interpre-tarli e diceva che gli sembravano “greco o ebraico”. Questa incapacità di leggere, l’alessìa, era durata cinque giorni.

Howard continuava a voltare le pagine e a sforzarsi di leggere, sperando che all’improvviso tutto tornasse normale. Poi è andato nella sua biblioteca: forse, ha pen-sato, “con i libri andrà meglio”. Nella stan-za tutto gli sembrava normale, e riusciva ancora a leggere l’ora sull’orologio, ma i li-bri erano incomprensibili. Quindi ha sve-gliato suo iglio Jacob, che l’ha accompa-gnato in taxi all’ospedale. Lungo il tragitto, Howard ha avuto l’impressione di vedere “alcuni punti di riferimento familiari in luoghi sconosciuti” e non è riuscito a leg-gere i nomi delle strade né le parole “Pron-to soccorso” quando è arrivato in ospedale,

anche se ha riconosciuto l’immagine dell’ambulanza sulla porta. Poi si è sotto-posto a una serie di analisi che hanno con-fermato i suoi sospetti: aveva avuto un ic-tus. I medici gli hanno detto che era stata colpita un’area limitata del cervello visivo, sul lato sinistro. Durante il colloquio per il ricovero si sentiva confuso: “Non riuscivo a deinire con precisione il mio legame con Jacob, avevo dimenticato il mio nome, la mia età, il mio indirizzo e una decina di al-tre cose”.

Howard ha passato la settimana suc-cessiva nel reparto di neurologia del Mount Sinai hospital di Toronto. In quei giorni è risultato chiaro che aveva altri problemi visivi, oltre a quello della lettura: c’era un’ampia zona cieca nel quadrante supe-riore destro del suo campo visivo, e aveva diicoltà a riconoscere i colori, le facce e gli oggetti di uso quotidiano. In quei giorni osservava:

“All’improvviso oggetti familiari come le mele e le arance mi apparivano strani ed esotici come un frutto orientale, un rambu-tan. Non sapevo se stavo tenendo in mano un arancio o un pompelmo, un pomodoro o una mela. Di solito, li riconoscevo dall’odore o dalla consistenza”.

Spesso dimenticava cose che una volta sapeva benissimo e ha cominciato a evitare ogni conversazione, scriveva nella sua let-

Lo scrittore che non leggeva

Oliver Sacks, The New Yorker, Stati Uniti. Foto di Horacio Salinas

Un giorno il romanziere canadese Howard Engel apre il giornale e non riconosce più le lettere dell’alfabeto. Cos’è successo? I processi alla base della lettura spiegati dal più famoso neuroscienziato del mondo

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All’improvviso oggetti familiari come le mele e le arance mi apparivano strani ed esotici come un frutto orientale, un rambutan

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tera, “per paura di non ricordare il nome di un primo ministro o l’autore dell’Amleto”. Eppure, con sua grande sorpresa, un’infer-miera gli ha ricordato che sapeva ancora scrivere: l’espressione medica è “alessìa senza agraia”. Howard era incredulo. Si-curamente lettura e scrittura sono legate: come aveva potuto perdere l’una e non l’al-tra? L’infermiera gli ha suggerito di scrive-re il suo nome. Lui ha esitato, ma poi si è accorto che la scrittura scivolava via da so-la. L’atto di scrivere gli sembrava abbastan-za normale: facile e automatico come cam-minare e parlare. L’infermiera non ha avu-to difficoltà a leggere quello che aveva scritto, ma lui non c’è riuscito. Ai suoi occhi appariva lo stesso “serbocroato” del gior-nale.

Cecità psichicaNoi pensiamo che la lettura sia un processo ininterrotto e indivisibile. Quando leggia-mo, registriamo il signiicato e, forse, la bellezza del linguaggio scritto, ma ignoria-mo i meccanismi che sono alla sua base. Ci vuole un caso come quello di Engel per ca-pire che in realtà la lettura dipende da una serie di processi che possono interromper-si in un punto qualsiasi.

Nel 1890 il neurologo tedesco Heinrich Lissauer usò il concetto di “cecità psichica” per descrivere cos’era successo ad alcuni suoi pazienti che, in seguito a un ictus, ave-vano perso la capacità di riconoscere gli oggetti. Le persone colpite da questo di-sturbo, che Freud chiamava “agnosia visi-va”, mettono bene a fuoco gli oggetti, ma non riescono a riconoscerli.

L’alessìa è una particolare forma di agnosia visiva. Nel 1861 il neurologo fran-cese Paul Broca identiicò il centro verbo-motore (o centro di Broca), sede della componente motoria del linguaggio, mentre qualche anno dopo il collega tedesco Carl Wer-nicke ne identiicò un altro che è sede della componente uditiva del linguaggio. Ai neurologi dell’epoca sembrò naturale supporre che nel cervello ci fosse anche un’area per le forme visive delle parole. Un’area che, se danneggiata, avrebbe reso impossibile la lettura, produ-cendo una “cecità verbale”. Nel 1887 l’of-talmologo francese Edmund Landolt chie-se al neurologo Joseph Jules Dejerine di visitare un uomo molto colto e intelligente, Oscar C., che all’improvviso aveva perso la capacità di leggere. Pensando di avere un problema agli occhi, il paziente aveva con-sultato Landolt, che scrisse:

“Quando gli chiedo di leggere una tavola optometrica, C. non è in grado di nominare le lettere, anche se dice di vederle bene. D’istinto, disegna con la mano la forma delle lettere, ma poi non sa identiicarle. Quando gli chiedo di scrivere sulla carta quello che vede, con grande diicoltà rie-sce a copiare le lettere, linea dopo linea, come se stesse facendo un disegno tecni-co. Per essere sicuro di non sbagliare, esa-mina attentamente ogni segno che traccia. Ma, nonostante i suoi sforzi, è incapace di dare un nome alle lettere. Paragona la A a un cavalletto, la Z a un serpente e la P a una ibbia. La sua incapacità di esprimersi lo spaventa. Pensa di essere “impazzito”, perché si rende perfettamente conto che i segni a cui non riesce a dare un nome sono lettere”.

Come Howard Engel, Oscar C. non riu-sciva a leggere neppure i titoli del quotidia-no Le Matin, anche se lo riconosceva dal formato. E, come Howard, era in grado di scrivere:

“Anche se non può leggere, il paziente è in grado di scrivere scorrevolmente e senza errori qualsiasi cosa gli si detti. Ma se viene

interrotto a metà di una frase si blocca e non riesce più a prose-guire. Inoltre, se fa un errore non riesce a individuarlo. Non è mai in grado di rileggere quello che ha scritto. Non distingue nean-

che le singole lettere. Per riconoscerle, de-ve disegnarne i contorni con la mano. Quindi, è la sensazione del movimento muscolare che dà origine al nome della let-tera. Dal momento che riconosce i numeri con relativa facilità, sa fare le addizioni semplici. Ma è molto lento, perché non ri-conosce il valore dei numeri con più cifre. Quando gli mostro il numero 112, dice: ‘È un 1, un 1 e un 2’. Solo quando scrive il nu-mero riesce a dire centododici”.

Oscar C. accusava anche altri disturbi visivi: gli oggetti gli apparivano meno lu-

minosi e un po’ sfocati sulla destra, e com-pletamente incolori. Questi disturbi, insie-me ai sintomi speciici dell’alessìa, segna-lavano che il problema non riguardava gli occhi, ma il cervello. E così Landolt mandò il suo paziente da Dejerine, che in un sag-gio del 1892 descrisse così la vita del pa-ziente:

“C. passa le sue giornate facendo lunghe passeggiate con la moglie. Non ha diicol-tà a camminare: ogni giorno fa le sue com-missioni a piedi, da Montmartre all’Arco di Trionfo, e ritorno. È consapevole di quello che succede intorno a lui, si ferma davanti ai negozi, guarda i quadri nelle vetrine del-le gallerie d’arte. Solo i manifesti e i cartel-li nei negozi restano lettere senza signiica-to. Spesso questo lo esaspera. È malato da quattro anni, ma non ha mai accettato l’idea di non poter leggere, anche se riesce a scrivere. Nonostante gli esercizi il pa-ziente non ha mai imparato di nuovo a ri-conoscere le lettere e le parole scritte, né ha mai imparato di nuovo a leggere le note musicali”.

Dejerine scriveva comunque che Oscar C. era un ottimo cantante e riusciva ancora a imparare a orecchio una melodia. Inoltre continuava a fare musica con la moglie tut-ti i pomeriggi. Quando Oscar C. morì, dopo un secondo ictus, Dejerine fece un’autop-sia e trovò due lesioni al cervello: una re-cente, che probabilmente era stata la causa della morte, e una più vecchia, che aveva distrutto parte del lobo occipitale sinistro e doveva aver causato l’alessìa. Dejerine era convinto di aver dimostrato l’esistenza di quello che chiamava un “centro visivo per il riconoscimento delle lettere”. La sua sco-perta sarebbe stata confermata nel nove-cento da una lunga serie di casi simili e di autopsie di pazienti alessici.

Negli anni ottanta la tac e le risonanze magnetiche hanno permesso di visualizza-re il cervello delle persone mentre svolgo-no un’attività. Grazie a queste tecnologie, Antonio e Hanna Damasio e, più tardi, altri ricercatori hanno potuto confermare le scoperte di Dejerine, individuando i lega-mi tra i sintomi dei loro pazienti alessici e alcune lesioni cerebrali estremamente speciiche. A volte, però, l’alessìa è transi-toria ed è provocata da un disturbo tempo-raneo nei sistemi di riconoscimento delle parole. Ho avuto un’esperienza del genere una mattina, mentre andavo in macchina a un appuntamento. All’improvviso non riu-scivo più a leggere i nomi delle strade. Ho pensato a un fattore esterno. New York è

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Naturalmente la lettura non inisce con il riconoscimento della forma visiva delle parole: sarebbe più esatto dire che comincia da lì

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una città dove si girano molti ilm, e i car-telli stradali “alterati” potevano far parte di qualche set cinematografico. Poi una specie di luminescenza intorno alle lettere mi ha messo sulla pista giusta: la mia ales-sìa faceva parte di un’aura emicranica.

Con uno studio pionieristico del 1988, realizzato con la tomograia a emissione di positroni (Pet), Steven Petersen, Marcus Raichle e i loro colleghi hanno mostrato le aree del cervello che si attivano leggendo, ascoltando, pronunciando e associando parole. Come ha scritto Stanislas Dehaene nel suo libro I neuroni della lettura (Rafael-lo Cortina 2009), “per la prima volta nella storia erano state fotografate le aree re-sponsabili del linguaggio in esseri umani viventi”. Dehaene è psicologo e neuro-scienziato, ed è specializzato nello studio dei processi alla base della percezione visi-va, in particolare del riconoscimento e del-la rappresentazione di parole, lettere e nu-meri. Usando la risonanza magnetica fun-zionale, più rapida e sensibile della Pet, lui e i suoi colleghi sono riusciti a isolare anco-ra meglio quella che deinisce l’area per la forma visiva delle parole (Vwfa) o, in modo più informale, “la cassetta delle lettere del

cervello”. Gli studi di Dehaene (insieme a quelli di Laurent Cohen e di altri) hanno mostrato come l’area possa essere attivata in una frazione di secondo da un’unica pa-rola scritta. E come questa attivazione pu-ramente visiva si estenda ad altre aree del cervello, soprattutto ai lobi temporali e frontali.

Naturalmente la lettura non inisce con il riconoscimento della forma visiva delle parole: sarebbe più esatto dire che comin-cia da lì. Il linguaggio scritto, infatti, serve a comunicare non solo il suono delle paro-le, ma anche il loro signiicato. E l’area per la forma visiva delle parole è strettamente collegata alle aree uditive e verbali, a quel-le intellettuali ed esecutive, e alle aree che controllano la memoria e l’emozione.

Cambiamento radicale

In un mondo pieno di cartelli stradali, eti-chette e istruzioni per l’uso di qualsiasi co-sa, dai medicinali al televisore, la vita quo-tidiana è una continua battaglia per chi soffre di alessìa. Per uno scrittore come Howard la situazione era ancora più dram-matica. Come poteva sperare di tornare a fare il suo lavoro? Avrebbe dovuto farsi leg-

gere da altri quello che scriveva o procurar-si uno di quei software che scansionano i testi e li fanno leggere dalla voce del com-puter. Entrambe le soluzioni comportava-no un cambiamento radicale: il passaggio da una lettura visuale, l’immagine delle parole su una pagina, a una modalità di percezione essenzialmente uditiva. In pra-tica si trattava di un passaggio dalla lettura all’ascolto e, forse, dallo scritto al parlato. Era una cosa auspicabile, o per lo meno possibile?

Questa stessa domanda era stato co-stretto a porsela un altro uomo di lettere che mi aveva scritto dieci anni prima: Charles Scribner Jr., capo della casa editri-ce fondata dal bisnonno nell’ottocento. Intorno ai sessant’anni aveva sviluppato un’alessìa visiva, probabilmente causata da un processo degenerativo delle aree vi-sive del cervello. Era un problema deva-stante per un uomo la cui vita ruotava in-torno alla lettura e alla scrittura. Come Howard, Scribner aveva conservato la ca-pacità di scrivere. Per la lettura ricorreva agli audiolibri, ma era così angosciato dal fatto di non poter leggere quello che lui stesso scriveva, che aveva deciso di passa-

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re alla dettatura, un’esperienza totalmente nuova per lui. Nel suo caso, per fortuna, ha funzionato bene, visto che ha scritto più di ottanta rubriche per i giornali e due libri sulla sua vita di editore. “Forse”, mi scrive-va, “è l’ennesimo caso di un handicap che aina un talento”. A parte i familiari e gli amici più stretti, però, nessuno sembrava rendersi conto che quei successi li aveva ottenuti aidandosi a una modalità di “let-tura” e scrittura totalmente nuova.

Howard avrebbe potuto fare come lui, ma ha scelto una modalità molto diversa. Dopo una settimana in ospedale è stato trasferito in un centro di riabilitazione, do-ve ha trascorso quasi tre mesi osservando se stesso, studiando quello che poteva e non poteva fare. E ha scoperto che quando non cercava di leggere un giornale o il bi-glietto di un amico, poteva dimenticarsi completamente della sua alessìa:

“Il cielo era blu, il sole splendeva sulle ine-stre dell’ospedale, il mondo non mi era di-ventato improvvisamente sconosciuto. La mia alessìa esisteva solo quando avevo la testa sepolta in un libro. La stampa la risve-gliava e mi ricordava che sì, avevo un pro-blema. Così, mi è venuta la tentazione di evitare semplicemente di leggere”.

Ma presto si è reso conto che era una cosa inaccettabile per un lettore e uno scrittore come lui. E non voleva sentir par-lare di audiolibri. Due mesi dopo l’ictus, Howard aveva difficoltà a riconoscere i luoghi: si perdeva all’interno del centro di riabilitazione. Non riusciva mai a ritrovare la sua stanza, inché non ha imparato a ri-conoscere il pavimento “dal modo in cui la luce illuminava il pianerottolo davanti all’ascensore”. Continuava ad avere dii-coltà a riconoscere gli oggetti. Tre mesi dopo il suo ritorno a casa trovava ancora “scatolette di tonno nella lavapiatti e astuc-ci di matite nel freezer”. Ma nella lettura notava qualche miglioramento: “Le parole non sembravano più scritte in un alfabeto sconosciuto”.

Esistono due forme di alessìa: una gra-ve, che impedisce di riconoscere perino le singole lettere, e una più leggera, che per-mette di riconoscere le singole lettere ma non la parola intera. A questo punto sem-brava che Howard fosse passato alla forma più lieve e potesse sperimentare insieme ai suoi terapisti nuovi metodi di lettura. Con-tinuava a sforzarsi di decifrare i nomi di strade e negozi o i titoli dei giornali, identi-icando lentamente e faticosamente le pa-role, lettera per lettera. Racconta:

“Le parole conosciute, compreso il mio no-me, mi appaiono come blocchi di caratteri sconosciuti e devono essere scandite ad alta voce. Ogni volta che in un articolo o in una recensione incontro un nome ricorren-te, mi suona sempre sconosciuto come la prima volta”.

Eppure ha insistito:

“La lettura era lenta e diicoltosa – a volte terribilmente frustrante – ma ero ancora un lettore. Il brutto colpo al cervello non era riuscito a cambiarmi. Leggere faceva parte di me: smettere sarebbe stato come smettere di respirare. L’idea di separarmi da Shakespeare e compagni mi indeboliva. Ero cresciuto leggendo qualsiasi cosa mi capitasse a tiro”.

Con la pratica, Howard ha cominciato a leggere con più facilità, anche se impiega-va alcuni secondi per decifrare una parola. “La mia testa elabora a un ritmo diverso parole di grandezza diversa come gatto e ippopotamo”, osservava. “Ogni lettera in più appesantisce il carico”. Arri-vare in fondo alla pagina era una fatica estenuante.

A volte, però, quando guarda-va una parola, gli balzavano agli occhi un paio di lettere che rico-nosceva immediatamente: per esempio la sillaba “bi” al centro del nome del suo edi-tor. Ma le lettere precedenti e quelle suc-cessive restavano indecifrabili. Howard si chiedeva se questo “spezzettamento” ri-lettesse il modo in cui aveva imparato a leggere da bambino.

Allucinazioni lessicali

Quando leggiamo, si attiva sempre la stes-sa zona della corteccia inferotemporale, l’area per la forma visiva della parola. Fa poca diferenza se la lingua del testo usa un alfabeto, come il greco o l’inglese, o gli ideo grammi, come il cinese. Questo dato è stato confermato dagli studi sulle lesioni

cerebrali come quelli di Dejerine, ma an-che da disturbi come gli eccessi e le distor-sioni funzionali prodotti da un’iperattività della stessa aerea. L’opposto dell’alessìa, in questo senso, sono le allucinazioni lessica-li o di testo. Le persone che sofrono di di-sturbi del percorso visivo possono avere allucinazioni visive. Lo psichiatra Dominic Ffytche e altri stimano che circa un quarto dei pazienti soggetti ad allucinazioni “ve-de allucinazioni di testo, parole isolate, singole lettere, numeri o note musicali”. Le allucinazioni lessicali sono associate a una sensibile attivazione della regione occipi-totemporale, e soprattutto dell’area per la forma visiva delle parole: quella che, se danneggiata, produce l’alessìa. Quindi, sia con i soggetti sani sia con i pazienti che sof-frono di alessìa o di allucinazioni lessicali siamo costretti a trarre la stessa conclusio-ne: nell’emisfero dominante (quello del linguaggio) di ogni essere umano alfabe-tizzato c’è un sistema neuronale potenzial-mente in grado di riconoscere lettere e pa-role. Questo solleva un grosso interrogati-vo: come mai gli esseri umani dovrebbero

essere dotati di questo apparato per la lettura, se la scrittura è un’invenzione culturale relativa-mente recente?

La comunicazione verbale – e quindi la sua base neurale – sem-

bra essersi evoluta attraverso graduali pro-cessi di selezione naturale. Le modiicazio-ni anatomiche del cervello avvenute nell’uomo preistorico, come pure le modi-icazioni del tratto vocale, sono state docu-mentate da calchi endocranici e altre testi-monianze fossili. Sappiamo che le origini del linguaggio risalgono a centinaia di mi-gliaia di anni fa. Ma questo non vale per la lettura, perché la scrittura è emersa solo cinquemila anni fa: troppo recente per con-siderarla frutto della selezione naturale. E anche se l’area del cervello umano per la formazione visiva delle parole sembra par-ticolarmente funzionale alla lettura, non può essersi evoluta per questo scopo speci-ico.

Potremmo chiamarlo il problema di Wallace, perché Alfred Russel Wallace (che scoprì la selezione naturale nello stes-so periodo di Darwin) aveva sviluppato un interesse profondo per il paradosso delle potenzialità del cervello umano che dove-vano essere state quasi del tutto inutili in una società primitiva o preistorica. E se la selezione naturale poteva spiegare la com-parsa di abilità immediatamente utili, solo un creatore divino, pensava Wallace, avrebbe potuto spiegare l’esistenza di po-

La scrittura è emersa solo poco più di cinquemila anni fa: troppo recente per considerarla frutto della selezione naturale

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tenzialità che si sarebbero manifestate centinaia di migliaia di anni dopo. Darwin era inorridito da questa idea, e scrisse a Wallace: “Spero che non abbiate deiniti-vamente assassinato la creatura vostra e mia”. Dal canto suo, Darwin aveva già in-tuito che le strutture biologiche potevano trovare usi molto diversi da quelli per cui si erano originariamente evolute. Com’è na-ta, allora, l’area per la formazione visiva delle parole? Esiste nel cervello delle per-sone analfabete? Ha un precursore nel cer-vello di altri primati?

Forme e supericiNoi viviamo in un mondo fatto di immagi-ni, suoni e altri stimoli, e la nostra soprav-vivenza dipende dalla velocità e dalla pre-cisione con cui li decifriamo. La compren-sione del mondo deve basarsi su un modo rapido e sicuro di analizzare l’ambiente. Non vediamo gli oggetti in quanto tali, ma forme, superici, contorni e conini che si presentano in una luce e in contesti diversi, in una prospettiva che cambia in base al loro e al nostro movimento. In questo mu-tevole caos visivo ci serve un vocabolario inito di forme da combinare in un numero

ininito di modi, proprio come le lettere dell’alfabeto vengono assemblate per for-mare le parole di cui ha bisogno una lin-gua.

Ci sono oggetti che siamo in grado di riconoscere in dalla nascita, come le fac-ce. Ma per il resto, conosciamo il mondo attraverso l’esperienza, guardando, toc-cando, maneggiando, collegando la sensa-zione tattile degli oggetti al loro aspetto i-sico. Il riconoscimento visivo dell’oggetto dipende dai milioni di neuroni presenti nella corteccia inferotemporale, dove la funzionalità neuronale è molto plastica e aperta, e molto sensibile all’esperienza e all’apprendimento. I neuroni inferotempo-rali si sono evoluti per il riconoscimento visivo generale, ma possono essere reclu-tati anche per altri scopi, in particolare per la lettura.

Questo ridispiegamento di neuroni è facilitato dal fatto che tutti i sistemi di scrit-tura (naturali) hanno alcuni tratti topologi-ci in comune con l’ambiente, tratti per i quali si è evoluto il nostro cervello. Mark Changizi e i suoi colleghi del California in-stitute of technology hanno studiato più di un centinaio di sistemi di scrittura moder-

ni e arcaici, tra cui i sistemi alfabetici e gli ideogrammi cinesi, e da un punto di vista computazionale hanno dimostrato che tut-ti quanti condividono certe somiglianze topologiche di base, pur essendo molto di-versi geometricamente. Changizi e i suoi collaboratori hanno trovato delle somi-glianze simili in una serie di ambienti na-turali e questo li ha portati a ipotizzare che le forme delle lettere siano state “scelte per somigliare ai conglomerati di forme pre-senti in natura, quindi sfruttando i nostri meccanismi preesistenti di riconoscimen-to degli oggetti”.

La scrittura, che è un prodotto cultura-le, si è evoluta per usare la preferenza dei neuroni inferotemporali per certe forme. “La forma della lettera”, scrive Dehaene, “non è una scelta culturale arbitraria. Il cervello controlla così severamente l’uso di un sistema di scrittura eicace che lascia poco spazio al relativismo culturale. Il no-stro cervello da primati accetta solo una serie limitata di forme scritte”. Ecco una soluzione elegante al problema di Wallace: dimostra che il problema non esiste. L’ori-gine della lettura e della scrittura non può essere concepita come un adattamento

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evolutivo diretto. È legata alla plasticità del cervello e al fatto che l’esperienza è un agente di cambiamento potente quanto la selezione naturale.

Mentre Howard era ancora ricoverato nel centro di riabilitazione, uno dei suoi terapisti gli ha suggerito di tenere un “tac-cuino della memoria” per ricordare gli ap-puntamenti e registrare i suoi pensieri. Un’idea che Howard ha accolto subito con entusiasmo. Il taccuino è stato un aiuto prezioso sia per stabilizzare la sua memo-ria ancora incerta sia per raforzare la sua identità di scrittore:

“Sapevo di non poter più contare sul ‘ce-rotto’ della memoria. Potevo dimenticare una parola a metà del discorso, anche se l’avevo usata solo un attimo prima. Ho im-parato a scrivere le cose sul ‘tac-cuino della memoria’ [non appe-na mi venivano in mente]. Il tac-cuino mi ha restituito la sensa-zione di avere il controllo della mia vita. È diventato il mio fede-le compagno: un po’ diario, un po’ agenda, un po’ libro. Gli ospedali, in qualche misura, inducono un atteggia-mento di passività: l’agenda della memoria mi ha restituito una parte di me”.

Il taccuino della memoria lo costringe-va a scrivere tutti i giorni: non solo al livello di frasi e parole leggibili, ma anche a un li-vello più profondo e creativo. Il diario della vita di ospedale ha cominciato a risvegliare la sua immaginazione di scrittore. Ogni tanto, di fronte a parole insolite o a nomi propri, Howard poteva essere indeciso sull’ortografia: non riusciva a “vederle” con gli occhi della mente, a immaginarle, così come non riusciva a distinguerle quan-do ce le aveva stampate davanti. Senza questo immaginario interno, aveva dovuto impiegare altre strategie: la più semplice era quella di scrivere in aria col dito.

Sempre di più, e spesso inconsapevol-mente, Howard ha cominciato a muovere le mani leggendo. Ma, soprattutto, mentre leggeva ha cominciato a muovere anche la lingua, tracciando la forma delle lettere sui denti o sul palato. Questo gli permetteva di leggere molto più rapidamente. Così Ho-ward ha sostituito la lettura con una sorta di scrittura. In pratica, leggeva con la lin-gua. Di recente, mangiando e parlando in-sieme si è morso per sbaglio la punta della lingua e per qualche giorno non ha potuto muoverla. “Per uno o due giorni”, ha rac-contato, “sono tornato analfabeta”.

Più di tre mesi dopo l’ictus, Howard ha

lasciato il centro di riabilitazione ed è tor-nato a una casa che gli era completamente sconosciuta:

“La casa mi appariva estranea e familiare al tempo stesso. Era come un set cinemato-graico realizzato dai bozzetti della vera

casa e delle sue stanze. La cosa più curiosa era il mio studio. Ho guardato il mio computer con una sensazione strana. Tutto il mio ufficio, dove avevo scritto tanti miei libri, somigliava a uno di quei diorama che si vedono

nei musei. Su foglietti adesivi di appunti scritti a mano, la mia calligraia sembrava misteriosa e sconosciuta”.

Avrebbe mai più usato il computer? Con l’aiuto di suo iglio ha cominciato a mettere alla prova le sue vecchie competenze infor-matiche e, con sua grande sorpresa, ha scoperto che le stava recuperando. Ma scrivere qualcosa di creativo era tutt’altra cosa. E leggere era ancora penosamente lento e diicoltoso. Inoltre ha scritto:

“Ero vissuto per mesi fuori dal mondo. Non riuscivo più a pensare lucidamente. Come mi era venuto in mente di potermi sedere alla mia vecchia scrivania e rimet-termi al lavoro? Ero chiaramente inadatto alla narrativa. Ho spento il computer e ho fatto una lunga passeggiata”.

Eppure, Howard si era tenuto in allena-mento: tutti i giorni aveva scritto qualcosa sul suo taccuino della memoria. All’inizio, scriveva:

“Non avevo la minima intenzione di scri-vere un libro. Era una cosa che andava ben oltre le mie possibilità, e al di là della mia immaginazione. Ma senza che me ne ren-dessi conto, un’altra parte del mio cervello stava già lavorando a una storia. Immagini, intrecci e colpi di scena hanno cominciato ad afollarsi nella mia mente e a occupare la mia fantasia. Nel mio letto di ospedale

non avevo fatto altro che pensare alla sto-ria, ai personaggi e alle situazioni del libro che ancora non sapevo di stare scriven-do”.

E così ha deciso di scrivere un romanzo, seguendo il consiglio di sua madre:

“Scrivi di quello che conosci. E in quel mo-mento quello che conoscevo era la mia ma-lattia. Conoscevo la quotidianità dell’ospe-dale e le persone che mi stavano intorno. Potevo scrivere un libro per raccontare co-sa signiicava essere fuori dalle cose, steso sulla schiena per un certo periodo, con in-fermiere e medici che ordinavano e riordi-navano le mie giornate”.

Avrebbe riproposto il protagonista dei suoi gialli, il detective Benny Cooperman, ma sarebbe stato un Cooperman che si sve-glia in un letto di ospedale e si ritrova colpi-to non solo dall’alessìa ma anche dall’am-nesia. Le sue capacità deduttive, però, so-no intatte e gli permettono di collegare i vari indizi per ricostruire come sia inito in ospedale.

Howard è partito in quarta, passando ore e ore al computer tutti i giorni. Nel giro di poche settimane la sua immaginazione e il suo lusso creativo gli hanno consentito di produrre una prima stesura. Ora il pro-blema era correggere e rivedere il mano-scritto. Ha chiesto al suo editor di leggergli il libro per intero, per memorizzarne la struttura e riorganizzarla nella sua mente. Questo processo meticoloso ha richiesto mesi di duro lavoro, ma la memoria e la ca-pacità di correggere mentalmente sono aumentate progressivamente con la prati-ca.

Nel 2005 è uscito il suo nuovo romanzo, Il cacciatore di parole (Biblioteca Universa-le Rizzoli 2008), seguito in rapida succes-sione da un altro giallo e da un’autobiogra-ia, da cui ho citato alcuni brani. Howard Engel sofre ancora di alessìa, ma ha trova-to il modo di restare un uomo di lettere. “I problemi non se ne sono mai andati”, scri-ve, “ma sono diventato più bravo a risol-verli”. Il fatto che ci sia riuscito è la testi-monianza dell’adattabilità del cervello umano. u dic

Mentre leggeva, Howard Engel ha cominciato a muovere anche la lingua, tracciando la forma delle lettere sui denti o sul palato

L’AUTORE

Oliver Sacks è un medico e autore britannico. Nato a Londra nel 1933, insegna neurologia e psichiatria al Columbia university medical center. In Italia i suoi libri sono pubblicati da Adelphi. L’ultimo è Musicoilia, uscito nel 2009.

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Bosnia Erzegovina

Tucidide ha scritto che la guerra è una “maestra vio-lenta”. Immagino volesse dire che bisogna imparare dalle brutalità del passato. Eppure i Balcani, un luogo

che ha patito più orrori di quanti se ne pos-sano tollerare, sembrano destinati a ripete-re ancora gli stessi sbagli. La guerra che ha dilaniato la Bosnia è inita da quindici anni, ma il processo di riconciliazione non si è

devastato la piccola repubblica ex jugoslava causando, secondo alcune stime, almeno centomila vittime. Quella guerra l’ho se-guita di persona, e ancora oggi torno spesso in Bosnia, soprattutto nella capitale Saraje-vo, che all’inizio degli anni novanta ha su-bìto un assedio lungo 1.425 giorni. Il fumo degli incendi, la puzza di bruciato e i cec-chini appostati sulle colline sono solo ricor-di del passato. Lungo il “viale dei cecchini”, l’arteria principale che collega l’aeroporto al centro cittadino, la scritta “Benvenuti all’inferno” è stata coperta con uno strato di vernice. Le strade di montagna che attra-versano la Bosnia centrale non sono più costellate di ostacoli anticarro arrugginiti e di soldati armati di kalashnikov. Il “tunnel della speranza”, usato per rifornire la capi-tale assediata di medicine e armi, è stato trasformato in museo.

Molti osservatori, però, ritengono che la situazione possa precipitare di nuovo. Pri-ma della guerra nessuno dei miei amici bo-sniaci sapeva dirmi a che gruppo etnico apparteneva: erano mezzi croati, serbi per un quarto, avevano un po’ di sangue ebrai-co e origini musulmane. Oppure si deini-vano semplicemente jugoslavi. Oggi non è più così. Quando gli chiedo se temono dav-vero il ritorno della violenza, alcuni cam-biano discorso, mentre altri annuiscono e mi rispondono che i tassisti di Sarajevo, quasi tutti ex combattenti, non parlano d’altro. A esasperare le tensioni nell’ultimo periodo ha contribuito anche la campagna elettorale per il voto parlamentare e presi-denziale del 3 ottobre. Nonostante il piano internazionale di ricostruzione, costato cir-

ancora compiuto. Ricostruire un paese do-po un conlitto è sempre un’impresa impe-gnativa. Ma in Bosnia lo è in modo partico-lare. Perché?

Bosniaci o jugoslavi?Nel dicembre del 1995 i leader bosniaci si sono seduti intorno a un tavolo in una base aerea dell’Ohio per sottoscrivere gli accor-di di pace di Dayton. Hanno messo così ine ai tre anni di combattimenti che avevano

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Sarajevodomani

Janine di Giovanni, Prospect, Gran BretagnaFoto di Simona Ghizzoni

Malgrado gli sforzi per la ricostruzione, quindici anni dopo la ine della guerra la Bosnia è ancora un paese diviso. E alla vigilia delle elezioni c’è il rischio di una nuova esplosione di violenza

Sarajevo, gennaio 2006 Un elicottero distrutto nel conlitto degli anni novanta

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ca 4,8 miliardi di euro, il paese è nel caos: l’economia arranca, la corruzione è difu-sissima e le divisioni etniche sono ancora evidenti.

Considerate le soferenze patite dai bo-sniaci negli ultimi vent’anni, non c’è da stu-pirsi più di tanto. Qualche tempo fa un mio amico, inviato al fronte durante il conlitto, mi ha raccontato le diicoltà che aveva do-vuto afrontare: “Cosa potevo saperne della guerra? Sono un avvocato”. Come lui molte altre persone che non avevano nessuna vo-glia di combattere sono inite di punto in bianco a difendere armi in pugno la loro strada, il loro quartiere, la loro città. Finito il conlitto, si sono ritrovate in un mondo che non conoscevano più: la vita in tempo di pace non è mai semplice come la imma-gina chi sta appostato in trincea.

Dopo Dayton

La guerra in Bosnia è stata una delle conse-guenze dello smembramento della Jugo-slavia. Gli accordi di Dayton hanno messo ine ai combattimenti, ma hanno inito per sancire le divisioni etniche generate dal conflitto. Il nuovo stato emerso da quel compromesso, la Bosnia Erzegovina, oggi è diviso in due entità politico-amministra-tive: la Repubblica Serba, patria dei serbo-bosniaci, e la Federazione di Bosnia ed Er-zegovina, dove vivono i musulmani e i croa ti. Entrambe sono caratterizzate da ul-teriori divisioni interne: la Federazione di Bosnia Erzegovina, per esempio, è suddivi-sa a sua volta in dieci province. Sarajevo è sempre la capitale, ma le due entità hanno più potere dello stato federale. Lo stesso si

con appena 4,6 milioni di abitanti. Come si poteva prevedere, gli accordi di pace del 1995 hanno alimentato tensioni e lotte in-testine. “Dayton ha fermato la guerra”, ha detto un diplomatico, “ma non il conlitto politico”. Finora la comunità internaziona-le ha supervisionato il governo della Bosnia attraverso l’Uicio dell’alto rappresentante (Ohr), istituito per sorvegliare e difendere lo stato nato nel 1995. L’Ohr ha il compito di collaborare con le comunità locali per “ga-rantire che in Bosnia si sviluppi una demo-crazia paciica”. Eppure i bosniaci conside-rano quest’organismo con diidenza. Se-condo alcune voci, l’Ohr potrebbe essere presto smantellato. Al suo posto dovrebbe arrivare un inviato europeo investito di maggiori poteri e incaricato di promuovere un nuovo assetto istituzionale.

Una mossa del genere sarebbe più che giustiicata: dalla ine della guerra in Bo-snia le divisioni etniche non hanno fatto che aggravarsi. Conosco molti serbi che so-no rimasti a Sarajevo e hanno afrontato l’assedio al ianco dei loro vicini musulma-ni. Di recente ho parlato con una donna croata vedova di un serbo morto nella dife-sa della città, ucciso da un cugino schierato con i serbobosniaci. Oggi i suoi vicini di ca-sa musulmani scrivono regolarmente in-sulti sulla sua cassetta delle lettere. Cose simili – mi racconta la donna – non erano mai successe prima della guerra.

Il vero problema è che il sistema attuale accentua le diferenze etniche invece di at-tenuarle. Dopo la ine del conlitto si è dif-fuso l’uso del termine bošnjak (bosgnacco) per indicare i musulmani di Bosnia. Oggi in

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può dire dei loro presidenti, dei parlamenti e dei governi. Le due entità controllano la giustizia, il commercio, l’istruzione, il siste-ma sanitario e la pubblica sicurezza, men-tre lo stato federale si occupa delle questio-ni doganali, delle inanze, dell’esercito e del controllo del traico aereo. tutto que-sto in un paese grande un sesto dell’Italia e

Da sapere

u Gli accordi di Dayton, che nel 1995 hanno messo ino alla guerra nella ex Jugoslavia, hanno sancito la divisione della Bosnia Erzegovina in due entità amministrative: la Repubblica Serba di Bosnia Erzegovina e la Federazione di Bosnia ed Erzegovina, abitata in maggioranza da croati e musulmani bosniaci.u Il 3 ottobre in Bosnia si terranno le elezioni legislative e presidenziali. I bosniaci eleggeranno i tre membri della presidenza federale (un croato, un serbo e un musulmano), la camera dei rappresentanti, cioè la camera bassa del parlamento federale, e le assemblee delle due entità.

Sarajevo, davanti alla moschea Ferhadija La periferia di Mostar

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Bosnia Erzegovina

molte scuole della Federazione di Bosnia ed Erzegovina c’è un regime di segregazio-ne etnica. I bambini studiano nel loro dia-letto (il bosanski per i musulmani, il croato per i croati) e seguono i corsi di religione in aule separate. “Abbiamo ceduto ai nazio-nalisti il sistema scolastico, che ha un’im-portanza strategica anche in campo politi-co”, ha ammesso un deputato con cui ho parlato di recente. A quanto pare, decisioni simili sono state prese partendo dal presup-posto che un certo grado di separazione etnica sarebbe stato inevitabile in seguito alla guerra e che con il passare del tempo le diverse etnie avrebbero ricominciato spon-taneamente a fondersi. Ma non è andata così.

I problemi economici non hanno certo facilitato le cose. In Bosnia il tasso di disoc-cupazione è al 40 per cento e il reddito me-dio ammonta a meno di seimila euro all’an-no. I giovani non hanno i soldi per muover-si e non hanno idea di come sia la vita nelle zone del paese che non conoscono. “Prima della guerra andavamo in giro”, racconta uno studente della Repubblica Serba, “ma oggi è diicile. Non ci sono i soldi. E poi il paese è diviso. Ci siamo isolati”.

Sarajevo, un tempo tra le città più mul-tietniche d’Europa, oggi è in prevalenza musulmana. Le moschee ediicate in segui-to al conlitto sono sempre afollate, e la città è stata invasa dai profughi della Bosnia orientale, musulmani e quasi tutti analfa-beti, che sono stati cacciati dalle loro case dai nazionalisti serbobosniaci. Intanto i “veri” abitanti di Sarajevo si lamentano del declino culturale della loro città. Negli ulti-mi anni la Federazione di Bosnia ed Erze-govina è diventata un’enclave musulmana in Europa. La Turchia, il Kuwait e l’Arabia Saudita si battono per afermare la loro in-luenza sul paese, anche se – a quanto mi dicono alcuni osservatori – preferirebbero fare afari con la più ricca Serbia.

Nelle città della Bosnia centrale, per esempio Zenica e Travnik, gli imam tengo-no sermoni sempre più violenti, contri-buendo ad alimentare quella che il ministro dell’interno della Repubblica Serba, Stani-slav Čađo, ha deinito la cultura del “terro-rismo di casa nostra”. La Bosnia non è l’Af-ghanistan, certo. Ma, a diferenza di quin-dici anni fa, oggi capita spesso di vedere donne con il capo coperto. Per le strade del-la città vecchia di Sarajevo ho perino visto qualche wahhabita.

Tensione e insicurezza si respirano an-che a Sarajevo Est, il punto d’accesso alla Repubblica Serba. Durante l’assedio della città i giornalisti impiegavano un giorno

rio tutto loro. Il problema politico centrale è rappresentato dallo squilibrio nella distri-buzione del potere tra le due entità e lo sta-to federale. Questo squilibrio ha fatto na-scere un conlitto inutile e pericoloso tra Haris Silajdžić, il rappresentante musul-mano alla presidenza federale del paese, e Milorad Dodik, il primo ministro della Re-pubblica Serba. I due leader sembrano bambini che si azzufano per lo stesso gio-cattolo. Si disprezzano, ma ingono che non sia così. Dodik lascia intendere – o minac-cia apertamente, come nel 2006 – che i ser-bobosniaci prima o poi si separeranno dalla Bosnia Erzegovina, proprio come il Monte-negro ha fatto con la Serbia, mentre Silajdžić ribatte che il trattato di Dayton li vincola a rimanere legati allo stato federa-le. Quando gli ho chiesto se Dodik avesse davvero intenzione di proclamare la seces-sione, Silajdžić ha risposto: “Potrebbe deci-dere di farlo”. Poi ha fatto una pausa e, con un sorriso furbo, ha aggiunto: “E io potrei decidere di andarmene alle Hawaii”.

Dopo una delle più costose ricostruzioni postbelliche della storia contemporanea, la Bosnia sta andando a rotoli anche per colpa dei suoi leader politici. A Dayton si sarebbe potuto fare di più per eliminare le divisioni etniche, ma le responsabilità sono in parte dei bosniaci stessi, anche se non sono in molti a volerlo ammettere. “La colpa di quello che è successo non è collettiva”, af-ferma una ragazza serbobosniaca, giovane e istruita, che incontro in un cafè di Banja Luka. Poi sottolinea che non dovrebbe es-sere tutta la Serbia a pagare per la guerra degli anni novanta, ma solo un manipolo di paramilitari ed estremisti nazionalisti. “Io non sono andata a Srebrenica e non ho uc-ciso nessuno”, aggiunge sorseggiando il suo espresso e sistemandosi i Ray-Ban sulla testa. “Non sono stata io a scavare le fosse comuni. Perché tutto il popolo serbo do-vrebbe farsi carico di quell’infamia?”.

Molti altri, invece, e in particolar modo i musulmani, sono convinti che il paese non raggiungerà mai una vera paciicazione na-zionale – com’è successo in Sudafrica – in-ché non ci sarà un’assunzione di colpa col-lettiva per il massacro di Srebrenica, la strage in cui nel 1995 quasi ottomila musul-mani furono sterminati dalle milizie serbo-bosniache. All’inizio di quest’anno, per l’esattezza a marzo, il parlamento della Ser-bia ha approvato con una maggioranza risi-cata una risoluzione che condanna i crimini di guerra perpetrati a Srebrenica: un atto formale di scuse che però non arriva a dei-nire la strage “un genocidio”.

C’è poi da considerare la complessa

intero per andare e tornare da Pale, una lo-calità distante appena 18 chilometri, che all’epoca era la capitale dei serbi di Rado-van Karadžić e dove si potevano comprare uova direttamente dai contadini e benzina al mercato nero. Per raggiungerla bisogna-va oltrepassare la pericolosissima linea del fronte dell’aeroporto, oppure prendere la strada ghiacciata verso le montagne, dove si era costretti a tracannare acquavite di prugne insieme ai cecchini serbi, sdentati e ubriachi, che si divertivano a sparare alle donne e ai bambini della città in basso. Og-gi il viaggio tra le montagne che circondano Sarajevo, dove si sono svolte le Olimpiadi invernali del 1984, è un’esperienza magni-ica e pittoresca. Ma via via che l’aria si fa più rarefatta ci si accorge di essere in un po-sto completamente diverso dalla capitale. Nella Repubblica Serba si percepisce chia-ramente l’ostilità verso gli estranei: qui tut-ti sembrano temere che qualcuno possa strappargli il loro piccolo staterello.

Responsabilità collettiveQuando si parla degli accordi di Dayton, quasi tutti i cittadini della Federazione croato-musulmana hanno qualcosa da re-criminare: pensano di essere stati piantati in asso dai loro leader, ritengono che la guerra abbia trasformato in conini le vec-chie linee del fronte e hanno l’impressione che i prepotenti siano stati premiati. Nella Repubblica Serba, invece, gli accordi del 1995 sono apertamente difesi. “Per i serbo-bosniaci gli accordi di Dayton sono fonda-mentali”, mi spiega Tanja Topić, una poli-tologa di Banja Luka, la capitale della Re-pubblica Serba. “È stato quel trattato a sancire la nascita del paese e a riconoscerli come popolo”. Dayton non ha favorito i ser-bi di Bosnia, ma gli ha assegnato un territo-

Nonostante gli investimenti, il paese è nel caos. L’economia arranca, la corruzione è ovunque e le spaccature etniche sono ancora evidenti

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questione dell’identità. Chi sono i bosnia-ci? Sono ex jugoslavi? Musulmani, croati, serbi, slavi, ebrei, slovacchi, rom? Un aspet-to negativo dell’accordo di Dayton è rap-presentato dalla clausola che impone a chiunque voglia candidarsi alle elezioni, legislative o presidenziali, di far parte di uno dei tre “popoli costituenti” della Bo-snia: i bosgnacchi, i croati e i serbi. Per cita-re le parole di Srečko Latal, un ex giornali-sta che oggi lavora come analista per l’In-ternational crisis group, un’ong impegnata nella risoluzione dei conlitti, “questo è un matrimonio in cui i tre coniugi si violentano a vicenda”.

Invece di attaccarsi reciprocamente, i leader bosniaci dovrebbero impegnarsi per ottenere l’ingresso del paese nell’Unione europea e nella Nato. La Bosnia può vanta-re una popolazione giovane, un settore agricolo in espansione e consistenti risorse naturali. Ma molti dei suoi abitanti non si sono ancora lasciati la guerra alle spalle. Una psichiatra che ho incontrato a Sarajevo ritiene che quasi tutti i bosniaci che hanno vissuto il conlitto sulla loro pelle sofrano di disturbi post-traumatici da stress. “Que-sto paese è un grande manicomio a cielo aperto”, aferma seccamente.

Un’altra conseguenza del conflitto è

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rappresentata dalla difusione della delin-quenza e dalla cultura criminale. ostacola-ti dall’embargo sulle armi imposto dall’onu, i musulmani bosniaci si sono ri-volti alle organizzazioni criminali per rifor-nire i loro arsenali. Nel vuoto politico segui-to alla ine della guerra, spiega il ministro Stanislav Čađo, questi gruppi di delinquen-ti si sono dedicati al traico di esseri umani e di stupefacenti. Čađo sostiene che negli ultimi anni molti di questi problemi sono stati arginati grazie alla riforma della poli-zia, segno che in alcune zone del paese la situazione sta migliorando. Ma troppi com-piti spettano ancora alle amministrazioni locali, che spesso non sono all’altezza delle loro responsabilità.

“Qui la corruzione è parzialmente lega-lizzata”, sostiene Srđan Blagovčanin dell’ong transparency international. “E a un certo livello è tutt’uno con il governo”. anche in questo caso la colpa è di Dayton: “L’accordo ha creato uno stato debole e ha dato troppo potere alle due entità politico-amministrative e alle province, senza però assegnare anche le relative responsabilità. Sono monarchie assolute in scala ridotta”. Di recente Blagovčanin è stato costretto a chiudere il suo uicio di Banja Luka e a la-sciare la città. Quando gli chiedo chi siano i

Oslobodjenje,Bosnia Erzegovina

L’opinione

Inaugurando la nuova amba-sciata statunitense a Sarajevo, l’ambasciatore Patrick Moon

ha afermato che “da quindici anni Washington sostiene una Bosnia Erzegovina sovrana, stabile, pacii-ca e prospera”. Quindici anni dopo la irma del trattato di Dayton, tut-tavia, la Bosnia non è né sovrana né stabile né tantomeno prospera. Il paese ha fatto gravi passi indietro, tornando al periodo in cui il ruolo dominante era svolto dalla compo-nente che sognava la grande Serbia. E le autorità internazionali lo han-no permesso. La cosa peggiore è l’inadeguatezza della struttura isti-tuzionale. Indipendentemente dal-le dichiarazioni di fedeltà al paese, per la maggior parte dei politici l’assetto stabilito nel 1995 è conve-niente: la divisione in entità ammi-nistrative su base etnica permette ai partiti di dominare la vita politica e di esercitare il potere in modo pa-rassitario. Continuano a manipola-re i cittadini sfruttando la tragedia della guerra per ottenere qualche vantaggio politico. Ma il problema non è solo la struttura dello stato: è soprattutto l’assenza di una mag-gioranza politica che voglia fare della Bosnia un paese di orienta-mento euroatlantico.

a diciannove anni dalle prime elezioni multipartitiche, a diciotto anni dal referendum sull’indipen-denza, a quindici anni dalla irma del trattato di pace – e a pochi giorni dal voto del 3 ottobre – non c’è an-cora una forza in grado di trasfor-mare la Bosnia in uno stato vera-mente indipendente e responsabi-le. La maggioranza dei cittadini è favorevole all’ingresso nell’Unione europea e nella Nato. Ma ci s0no forze che si oppongono: non solo i nemici interni, ma anche alcuni dei partiti che ogni giorno giurano fe-deltà al paese. u af

Le colpedella politica

La valle del iume Miljacka, nei pressi di Sarajevo

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Bosnia Erzegovina

suoi persecutori, il primo di cui fa il nome è Bakir Izetbegović, iglio di Alija, il presi-dente musulmano ai tempi della guerra.

Bakir Izetbegović, che oggi guida il Par-tito dell’azione democratica, la formazione di centrodestra fondata dal padre nel 1990, ha tutto l’aspetto della persona equilibrata e somiglia molto ad Alija, morto nel 2003. “In questa guerra non ci sono stati vincito-ri”, mi dice in un inglese quasi perfetto. “L’incendio è stato spento dalla comunità internazionale, ma gli scontri non sono i-niti: la diferenza è che oggi si combatte in parlamento”. Poi accusa i serbi di aver divi-so la Bosnia, ma subito dopo sottolinea che il suo testimone di nozze era serbo. Duran-te la guerra, racconta, erano tutti uniti: “Le granate non avevano etnia: a Sarajevo sono rimaste uccise dodicimila persone. Duemi-la erano serbe”. Mentre sto per lasciarlo, Bakir mi mette in guardia dai nazionalisti dell’ultima generazione: “I serbi sono stati trattati da colpevoli”, spiega, “e i più giova-ni hanno accumulato un forte risentimen-to”.

Gli stessi erroriDurante il conlitto nell’ex Jugoslavia, con il collasso di tutte le istituzioni centrali, i giornalisti potevano andare in giro ovun-que. Chi era abbastanza pazzo da partire con i soldati bosniaci, che ripetevano nema problema anche di fronte alle situazioni più pericolose, poteva perino arrivare al fron-te.

E le porte dei leader politici erano sem-pre aperte. Il vice di Alija Izetbegović, Ejup Ganić (di cui i serbi hanno di recente chie-sto, senza successo, l’estradizione per cri-mini di guerra), sosteneva che se un giorna-lista rischiava la vita per arrivare dall’Holi-day Inn al palazzo presidenziale meritava una tazza di cafè e un’intervista. Ho tra-scorso pomeriggi interi rinchiusa nel suo comodo uicio (dotato di riscaldamento, cosa rara durante la guerra) mentre lui mi raccontava la storia della Jugoslavia. Nell’ufficio passava spesso anche Haris Silajdžić, l’attuale presidente federale mu-sulmano: allora era un uomo cupo e malin-conico, con i capelli lunghi e le pose roman-tiche da rock star. Gli era stata aidata la missione impossibile di aggirare l’embargo sulle armi: faceva spola in continuazione con l’esterno attraverso il “tunnel della spe-ranza”. La salvezza della città dipendeva in buona parte da lui. “Ci annienteranno”, mi diceva. “Ci distruggeranno. E non abbiamo nemmeno i mezzi per difenderci”. Negli anni novanta era diicile non innamorarsi della Bosnia e della sua lotta per la soprav-

la Bosnia. Per citare le parole di un altro di-plomatico, “quel che abbiamo imparato in questo paese dovrebbe servirci in posti co-me l’Afghanistan. Dobbiamo riconoscere i nostri errori con franchezza brutale”.

Ma cosa c’è da imparare da questa sto-ria? Innanzitutto che la guerra si sarebbe potuta fermare prima: nel 1999 l’intervento della Nato in Kosovo è durato appena tre mesi. Inoltre, la speranza che in Bosnia le divisioni etniche si attenuassero con la ine della guerra si è rivelata irrealistica. Oltre ad adottare misure per garantire che tutti i gruppi etnici avessero la loro rappresentan-za, gli accordi di Dayton avrebbero dovuto fare di più per creare uno spazio politico e sociale comune e costruire una nuova idu-cia tra le diverse comunità.

In una situazione così complessa, cosa rimane da fare oggi? Sbarazzarsi dell’Ui-cio dell’alto rappresentante e lasciare che la Bosnia se la cavi da sola, come è stato pro-posto da Bruxelles nel quadro di alcuni col-loqui bilaterali, sarebbe un buon punto di partenza. “Poi si tratterà di capire come af-fermare lo stato di diritto. E in seguito biso-gnerà valutare in che condizioni si troverà il paese una volta che l’Ohr sarà stato aboli-to”, sostiene Srđan Blagovčanin. La sua opi-nione è condivisa da molti uomini politici di primo piano.

Ma la questione più importante riguarda problemi quasi ilosoici. “Noi vogliamo so-lo sapere chi siamo”, aferma Srečko Latal. “Ci stiamo battendo per l’anima del popolo bosniaco”. E aggiunge che ormai i bosniaci hanno smesso di aspettarsi aiuti dall’ester-no. L’ex ministro degli esteri britannico Da-vid Owen, che durante il conlitto ha contri-buito all’ideazione dei fallimentari piani di pace Vance-Owen e Owen-Stoltenberg, in quegli anni ha detto chiaramente ai bosnia-ci che l’occidente non sarebbe venuto a sal-varli. Alle inestre dei palazzi di Sarajevo sventrati dai bombardamenti allora erano appese bandiere statunitensi fatte in casa. Tutti si aspettavano che prima o poi gli Stati Uniti avrebbero compiuto incursioni aeree per interrompere l’assedio. Ma la città ha dovuto aspettare più di mille giorni prima che qualcuno arrivasse. Se le cose si mette-ranno male, dice Latal, stavolta “sappiamo già che dovremo cavarcela da soli”. u fp

vivenza. Quando quest’estate ho rivisto Silajdžić, dopo un intervallo di quindici an-ni, il mio atteggiamento verso la Bosnia era cambiato. Ormai presidente, Silajdžić sem-brava esausto. Mentre ci accomodavamo nello studio dove anni fa avevo incontrato Alija Izetbegović, mi è tornata in mente una frase che una volta mi aveva conidato un diplomatico: “I politici bosniaci hanno molte responsabilità nei disastri del paese. Ne ha anche la comunità internazionale, certo, ma i leader locali non sono innocen-ti”.

La guerra può rendere idealisti. Ma nel periodo successivo alla ine dei combatti-menti – con la costruzione dello stato, i mer-canteggiamenti e le inevitabili delusioni – spesso è facile dimenticare gli ideali per cui si è lottato: la democrazia e la libertà indivi-duale e politica. Fumando una sigaretta dopo l’altra, Silajdžić mi ha parlato degli “errori del passato”: Dayton, il fallimento delle privatizzazioni, i profughi che non hanno il diritto di tornare a casa, la riforma costituzionale. “Dobbiamo adottare un si-stema che ci aiuti a sbloccarci”, ha detto. “Siamo un paese immobilizzato”.

Questioni simili dovrebbero essere in cima alle preoccupazioni dell’Europa. Gli europei hanno molto da temere da una Bo-snia Erzegovina ridotta a failed state. “In Europa non c’è stato attacco terroristico in cui non siano stati implicati cittadini bo-sniaci”, ha afermato Milorad Dodik dopo l’attentato che a ine giugno ha ucciso un poliziotto a Bugojno, a ovest di Sarajevo. La stravagante esagerazione del primo mini-stro della Repubblica Serba nasconde però un problema concreto. Impegnato a osser-vare le conseguenze della guerra in Iraq e a cercare una via d’uscita dall’Afghanistan, l’occidente non dovrebbe dimenticarsi del-

La guerra può rendere idealisti. Ma quando i combattimenti sono initi è facile dimenticare gli ideali per cui si è lottato: la democrazia e la libertà

L’AUTRICE

Janine di Giovanni è una giornalista britannica. Negli anni novanta ha seguito la guerra in Bosnia per il Times. Sull’argomento ha scritto The quick and the

dead: under siege in Sarajevo (Phoenix Illustrated 1995).

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Cina

Yan Qi ha trascorso buona parte della sua infanzia con i nonni, in un villag-gio di montagna alla pe-riferia di Chongqing. Pioveva sempre, ricorda,

e sembrava che non succedesse mai niente. Non c’erano ponti sul iume Chang Jiang e per raggiungere la città – che oggi è a 40 mi-nuti di auto – ci volevano ore e ore di viaggio in pullman.

Adesso Yan Qi lavora vicino a dove è cresciuta, a nord di Chongqing. A 43 anni è una delle donne più ricche della Cina, un’imprenditrice della ristorazione che con la sua catena Tao Ran Ju, “ristoranti gioio-si”, gestisce oltre novanta locali in 26 pro-vince, da modeste tavole calde a lussuosi locali da ricevimento. La primavera scorsa, quando ci siamo incontrate nei suoi nuovi uffici da 30 milioni di dollari, Yan Qi ha commentato con modestia il suo successo:

“Comunque vadano le cose, i cinesi voglio-no mangiare”, ha spiegato. “Soprattutto quando le cose vanno bene”.

E stanno andando davvero bene per Chongqing, che ospita 32 milioni di persone e cresce talmente in fretta che le sue mappe non fanno in tempo a uscire dalla tipograia che già devono essere aggiornate. Questo gigantesco comune ha un nucleo urbano circondato da distretti rurali in continua trasformazione, che messi insieme occupa-no circa la stessa supericie dell’Austria e hanno più abitanti dell’Iraq. Chong qing è la porta dell’ovest cinese, sempre più popolo-so. Ambizioni e limiti qui entrano in colli-sione con la stessa rapidità con cui è esplosa la città, spalancando nuove prospettive ai suoi residenti più fortunati.

Chongqing è passata dai 200mila abi-tanti degli anni trenta, quando era un oscu-ro porto sul Chang Jiang (noto anche come Yangtze), ai due milioni del 1967, quando è

La metropoli ininita

Era solo un porto isolato e avvolto nella nebbia. Oggi, con un milione di nuovi abitanti ogni anno, Chongqing è la città che cresce più rapidamente al mondo. Insieme alle ambizioni della Cina

nata Yan Qi, e oggi è un’autentica megalo-poli deinita nel 2006 dalla tv britannica Channel 4 “il centro urbano in più rapida crescita del pianeta” (sulla base di immagi-ni satellitari che mostravano a quale ritmo le varie città inglobassero la terra della campagna circostante). Nel New District, la zona nord di Chongqing, dove cinque an-ni fa c’erano solo campi coltivati, oggi si può guidare per più di mezz’ora vedendo sila-re, isolato dopo isolato, grattacieli di cin-quanta piani. Nel 1998 Chongqing aveva un pil di 21 miliardi di dollari, nel 2009 questa cifra era quadruplicata passando a 86 mi-liardi di dollari. L’anno scorso è cresciuta di uno sbalorditivo 14,9 per cento, quasi il doppio dello spettacolare tasso di crescita di tutta la Cina.

Storicamente e geograficamente, Chong qing non sembrava destinata alla grandezza. Anzi, non era scontato che un’antica città nebbiosa, costruita sulle rupi scoscese del Chang Jiang, diventasse una metropoli globale in vertiginosa espansio-ne e neppure che un giorno avrebbe fatto il successo di un’imprenditrice come Yan Qi.

Christina Larson, Foreign Policy, Stati UnitiFoto di Matthew Niederhauser

Chongqing

Da sapere

Le più grandi aree metropolitane del mondo, milioni di abitanti

Fonte: Wikipedia

32,6 milioni

Chongqing

22,0

Pechino

19,2

Shanghai

18,0

Karachi

13,8

Delhi

13,0

Tokyo

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In realtà, l’irresistibile ascesa di Yan Qi, co-me quella della sua città, è diicile da spie-gare con il solo aiuto della logica. Però è emblematica: il tempismo, la fortuna, la geograia, la liberalità del governo e, nel suo caso, un’oscura lumaca del Chang Jiang, sono tutti fattori che hanno avuto un ruolo importante.

Figlia di dipendenti pubblici, Yan Qi si era preparata per una tranquilla carriera di ragioniera nella pubblica amministrazione. Ma a 28 anni, nel 1995, decise di aprire il suo primo ristorante. Mentre cercava il modo di attirare la clientela creò un nuovo piatto scoprendo un mollusco sconosciuto delle rive melmose del Chang Jiang e battezzan-dolo “lumaca piccante di iume”. I clienti lo mangiano indossando un guanto di gomma sulla mano sinistra e usando la destra per estrarre il mollusco dal guscio con una lun-ga bacchetta prima d’intingerlo in una salsa speciale. Il piatto ha conquistato il palato dei clienti, che amano i sapori piccanti e le novità.

In un grande mercato, una piccola intui zione al momento giusto può cambia-

re tutto e in fretta. Alla ine degli anni no-vanta la Cina stava diventando più ricca e aumentavano i consumatori della nuova classe media che potevano permettersi di mangiare fuori. Nel 1997 Yan Qi ha inaugu-rato il suo secondo ristorante nella vicina città di Chengdu, e nel 2000 ha aperto qua-si ogni mese un nuovo locale in franchising. Nel 1999 il fatturato di Tao Ran Ju raggiun-geva gli otto milioni di dollari all’anno e nel 2009, con iliali in tutta la Cina occidentale, la cifra era aumentata di oltre 40 volte, schizzando a 350 milioni di dollari.

In un periodo in cui la Cina stava en-trando in una fase di rapida crescita e di aumento dei consumi, Yan Qi si preparava a diventare l’imperatrice del franchising. Ed è proprio a questo, in efetti, che sta la-vorando: studia i modelli commerciali di Kentucky Fried Chiken e McDonald’s per lanciare una catena nazionale di fast food che non serva Big Mac e patatine, ma invol-tini e ravioli al vapore.

Ovviamente, sia per una milionaria co-me Yan Qi sia per una megalopoli come Chongqing è diicile pianiicare una cresci-

ta su scala così grande. Eppure, governare l’inimmaginabile è proprio la sida con cui deve misurarsi la Cina del boom economi-co: entro il 2030 si prevede che 400 milioni di persone – più dell’intera popolazione sta-tunitense – si trasferiranno dai villaggi alle città. La Gran Bretagna, patria della rivolu-zione industriale, ha solo due città con una popolazione superiore al milione di abitan-ti e gli Stati Uniti ne hanno appena dieci. In Cina, invece, sono già 43 e il McKinsey glo-bal institute prevede che nel 2030 saranno 221. In efetti, il ruolo della Cina nel ventu-nesimo secolo probabilmente non dipen-derà dalle dimensioni della sua marina, dall’abilità della sua diplomazia o dalle prossime nomine del politburo, ma da co-me il paese riuscirà a gestire la più grande urbanizzazione di massa della storia. Chon-gqing, che assorbe circa un milione di nuovi residenti ogni anno, è la punta di lancia di questo esperimento.

Urbanizzazione involontaria

Ma la Cina non è preparata come potrebbe sembrare. Anche se i suoi leader sono bravi a realizzare grandi progetti infrastrutturali, non sempre sanno prevederne adeguata-mente le conseguenze. Pechino può per-mettersi di dirottare fondi su iniziative co-lossali che in qualsiasi altro paese del mon-do sarebbero impossibili (o prenderebbero molto più tempo), ma c’è il rovescio della medaglia: quando fallisce, Pechino fallisce alla grande. A un giorno di macchina da Chongqing sorge la diga delle Tre Gole, il più grande progetto del mondo per la pro-duzione di energia idroelettrica. Simbolo delle ambizioni ingegneristiche cinesi ma anche causa di frane e inondazioni che l’an-no scorso hanno costretto le autorità ad ammettere la possibilità di una “catastro-fe” ambientale.

Perciò è più esatto dire che esiste una pianiicazione solo apparente, per l’urba-nizzazione come per molte altre cose. “La pianiicazione in efetti è una forma di pub-blicità”, mi dice a Pechino un ricercatore

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del ministero degli alloggi e dello sviluppo rurale e urbano. E poi spiega: “È un para­dosso. Le cose qui sono molto pianiicate, in teoria. Ma in pratica c’è una gran confu­sione. Dipende dal modo in cui i piani ven­gono usati, e se vengono usati”. Quanto alle megalopoli che ora spuntano in tutto il pae­se, “in teoria, tutto lo sviluppo dev’essere pianiicato. Ma i comuni prendono iniziati­ve autonome perché i piani non sono vinco­lanti. Fare l’urbanista è più un’aspirazione che un mestiere: per lo più si tratta di appro­vare piani già in via di realizzazione”.

Il progetto di sviluppo urbano più impo­nente del mondo sta crescendo senza se­guire un piano preciso: la Cina ha intrapre­so la strada di quella che Jefrey Wasser­strom, autore di China in the 21st century, deinisce “urbanizzazione involontaria” . Immaginate una carrozza ferroviaria che sfreccia sui binari mentre gli addetti si dan­no da fare per posare le traversine.

Per secoli Chongqing è stata una inis terrae, un avamposto determinato dal suo isolamento. Il Chang Jiang, uno dei due grandi iumi cinesi, scende dall’altopiano del Tibet e sfocia nell’oceano Paciico attra­versando una serie di gole non lontano da dove fu costruita l’antica città di Chong­qing, su una lingua di terra vicino alla con­vergenza del iume con il più piccolo Jialing. Le due rive sono sovrastate da ripide sco­gliere e la nebbia avvolge le montagne per sei mesi all’anno. I contadini un tempo co­struivano le case su palaitte di legno appol­laiate su rupi di pietra. Nella città monta­gnosa di solito piove o il cielo è coperto. L’unica diferenza rispetto al passato è che ora la nebbia, mescolandosi allo smog, oscura le cime dei grattacieli. La maggior parte delle grandi città cinesi è vasta e piat­ta, ma a Chongqing tutto sale o scende. È possibile vedere dove comincia qualcosa, ma non dove inisce. Le strade spariscono all’improvviso dentro gallerie o svoltano sui cavalcavia. La nebbia costringe i tassisti a brusche sterzate obbedendo all’istinto più che alla vista. È una città in cui nessuno sa esattamente dove sta andando.

Chiusa al mondo esterno

Chongqing è stata a lungo un bastione con­tro i cicli della storia, il porto principale del­la riottosa provincia di Sichuan, che respin­se ondate d’invasioni riiutando l’assimila­zione con la parte orientale del paese. La popolazione diffidava degli stranieri. La nebbia, si diceva, serviva a isolarli. I rap­porti con il resto del mondo furono costrui­ti poco a poco. La prima società telefonica aprì i battenti nel 1931, l’elettricità arrivò

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allora la città ha trasformato i vecchi osta­coli geograici in altrettanti vantaggi.

La costruzione della diga delle Tre Gole, che ha sbarrato una serie di vertiginosi pre­cipizi a valle di Chongqing, è cominciata nel 1994, provocando un milione di sfollati e una profonda ridefinizione sociale ed economica della città. Per afrontare que­sto spaventoso alusso di persone, nel 1997 il governo centrale ha elevato Chongqing allo status di “città amministrata diretta­mente”, che di fatto equivale a quello di provincia, e le ha permesso di diventare, insieme a Pechino, Shanghai e Tientsin, una delle quattro città della Cina libere dal controllo di un governo regionale. Il suo territorio è stato ampliato e all’amministra­zione comunale è stata concessa la giurisdi­zione su tutti i distretti rurali adiacenti, con una capacità quasi illimitata di costruire sui loro terreni. E costruire è diventata la paro­la d’ordine. La vendita dei diritti di proprie­tà per l’urbanizzazione, che assicura oltre un quarto delle entrate annue dell’ammini­strazione locale, nel 2009 è aumentata del 18 per cento. La possibilità di Chongqing di espandersi nella campagna provoca l’invi­dia di altre città cinesi.

La sua collocazione geografica è ora l’elemento che più attira i fondi di Pechino e, da poco, gli investimenti stranieri. Come eredità dei tempi in cui era il quartier gene­rale di Chang Kai­shek, Chongqing rimane il centro dell’industria cinese delle armi, e con la conversione di molte fabbriche mili­

tari a uso civile è diventata un importante produttore di mate­riali chimici e cemento. La città è anche il maggior produttore ci­nese di moto, e sforna le onnipre­senti Lifan che si vedono sfrec­

ciare per le città di tutta la Cina e del sudest asiatico. Dal 2002, inoltre, il governo cen­trale invia fondi a Chongqing nell’ambito della sua campagna per lo sviluppo della Cina occidentale, che è a lungo rimasta il cugino povero delle iorenti regioni orien­tali.

Eppure Chongqing si sta sviluppando in modo diverso rispetto ai centri industriali orientali come Guangzhu e Shenzhen, che producono milioni di televisori, iPhone e costose scarpe da ginnastica da esportare in occidente. Il “modello Chongqing”, co­me lo ha ribattezzato nel 2009 il settimana­le Yazhou Zhoukan di Hong Kong, consiste nel soddisfare le esigenze del crescente mercato interno cinese: un buon 90 per cento dei prodotti industriali realizzati a Chongqing, dal cemento alle automobili, si vende in patria. E sempre più spesso questi

nel 1935. E poi, all’improvviso, l’isolamento delle montagne di Chongqing cominciò ad attirare le persone. Nel 1938 la vulnerabilità dei centri urbani sulla costa orientale della Cina attaccata dai bombardieri giapponesi convinse il leader nazionalista Chang Kai­shek a scegliere quella città isolata come suo centro di comando e il governo trasferì strutture e fabbriche militari tra le monta­gne circostanti. Gli sfollati invasero la città e la sua popolazione in meno di un anno si goniò ino a raggiungere il milione. Questo dette a Chongqing nuovo vigore, ma richia­mò anche l’attenzione dei bombardieri giapponesi: le loro incursioni aeree trasfor­marono i ianchi fangosi delle colline in ci­miteri e ridussero in macerie le antiche mura.

Quando inirono i combattimenti – e la guerra civile cinese –, il nuovo governo co­munista riassegnò la città alla provincia di Sichuan. Come scrissero i corrispondenti di Time, Theodore White e Anna Lee Ja­coby, “Chongqing esisteva solo in funzione della guerra, era un punto nel tempo. Ora è morta, e le grandi speranze e le nobili pro­messe con cui aveva iniammato tutta la Cina sono morte con lei”. Ma og­gi la città non è morta, e non è più alla ine del mondo. Furono i so­vietici a contribuire al suo rilan­cio, collaborando alla costruzio­ne del primo ponte sul Chiang Jiang, completato nel 1965. Ora le due sponde del iume, che un tempo separava villaggi isolati, sono collegate da una deci­na di ponti: uno dei più recenti è una ripro­duzione del Golden Gate di San Francisco.

Del passato rimangono solo pochi resti, ma sul lungoiume è esposta una ricostru­zione moderna della città antica, con case su palaitte abbarbicate le une alle altre e realizzate in cemento camufato da legno, dove sono stati allestiti ristorantini e nego­zietti di cianfrusaglie. Qualche tempo fa hanno inaugurato anche uno Starbucks.

Nel 1983, poco dopo l’introduzione del­le riforme di mercato in tutta la Cina, Chong qing diventò il primo porto interno del paese aperto agli scambi con l’estero. Quell’anno fu scelta da Pechino come una delle poche città autorizzate a sperimenta­re una politica economica più liberale. Da

Le due sponde sono collegate da una decina di ponti. Uno sembra il Golden Gate

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prodotti sono fabbricati da imprese stranie­re. Di recente la Ford ha dislocato i suoi im­pianti di montaggio alla periferia di Chong­qing. Tutte le Ford Focus che oggi percorro­no le strade di Pechino e Shanghai sono state montate nel nuovo stabilimento. Nel 2008 la Hewlett­Packard ha aperto un call center in città, e ora sta costruendo una fab­brica per produrre computer portatili. Chongqing riesce già ad attirare più investi­menti stranieri di qualunque altra città del­la Cina centrale e occidentale: 2,7 miliardi di dollari nel 2008. L’amministrazione lo­cale ha issato l’imposta sul reddito delle società al 15 per cento – dieci punti in meno dello standard nazionale – per invogliare gli investitori.

Chongqing pensa al futuro, sborsando cifre gigantesche per migliorare le infra­strutture della città, ino a ieri disastrose. Tra le spese previste quest’anno ci sono 1,5 miliardi di dollari per l’espansione della metropolitana leggera, 1,2 miliardi per le linee ferroviarie e 2,3 miliardi per le super­strade dirette alle altre città della Cina occi­dentale. Un progetto importante è l’espan­sione dell’aeroporto Jiangbei, dove saranno costruiti due nuovi terminal. Attualmente l’aeroporto può gestire ogni anno 14 milioni di passeggeri, che secondo il piano dovran­

no salire a trenta entro il 2011 e a settanta entro il 2020.

Da quando è stata dichiarata “città am­ministrata direttamente”, l’economia di Chongqing è cresciuta a un ritmo ancora più intenso. Ma anche se l’area urbana si sviluppa rapidamente, non si può dire che la maggioranza degli abitanti sia ricca. Il reddito medio di Chongqing si aggira intor­no ai 3.300 dollari l’anno, contro gli oltre 10mila di Pechino, i 44mila di Hong Kong e i 73.300 di New York.

Con le porte di metalloPerciò i grattacieli e i nuovi, scintillanti cen­tri commerciali della città rivelano un qua­dro solo parziale di come vive la popolazio­ne. Perino il nuovo sfarzoso alloggio di Yan Qi, in quella che in Cina viene deinita una “villa”, non è all’altezza di un grande im­prenditore occidentale: “Due piani e un giardino”, dice lei. Eppure, nell’aria si respi­ra la sensazione inebriante di una città che si arricchisce. Al centro, i blocchi di nuovi grattacieli hanno fama di essere più alti che in qualunque altra città cinese e, poiché lo spazio è poco, sono anche molto ravvicina­ti. A Chongqing circola il detto che se hai bisogno di prendere in prestito dei soldi, non devi far altro che sporgerti dalla ine­

stra di un grattacielo e aferrare una busta dal grattacielo di fronte.

Nei quartieri di recente urbanizzazione, i grattacieli in vetro e acciaio sono sormon­tati da tetti con le decorazioni più disparate che magniicano la ricchezza dei loro nuovi inquilini. I complessi residenziali hanno nomi che evocano luoghi improbabili: Palm Springs, giardino di primavera, giardini olimpici, case dell’Hampshire, castello mo­derno. Ma gli interni non sono lussuosi co­me i nomi possono far pensare. Gli apparta­menti spesso hanno porte di metallo dipin­te di marrone. I bagni sono un ampio spazio piastrellato, senza divisioni tra la doccia e la toilette. Questi espedienti per ridurre i costi sono frequenti negli ediici cinesi co­struiti in fretta. Perino nei nuovi condomi­ni eleganti gli ingressi spesso sono fatiscen­ti e poco invitanti.

Chongqing è ancora una città in transi­zione. La migliore veduta del nuovo teatro dell’opera da 200 milioni di dollari si ha dalle inestre dei vecchi caseggiati dall’altra parte del iume, dove vivono lavoratori a giornata o migranti che fanno i facchini, e dove ancora manca l’acqua corrente. Un giorno sono andata con degli amici al Pa­lazzo di Chongqing, un ristorante che sfog­gia tovaglie rosa, mazzi di rose e colonne di

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Chongqing. Il nuovo teatro dell’opera

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marmo. Ma era chiuso perché ogni giorno l’erogazione di gas è sospesa dall’una alle cinque del pomeriggio per risparmiare energia. In quelle ore il personale aspetta al buio.

Un tributo rapAd aprile, quando ho intervistato Yan Qi nei suoi uici, ci siamo sedute nella sala del consiglio d’amministrazione, all’estremità di un lungo tavolo da riunione nero. “Il marchio è molto importante”, mi ha detto mentre parlavamo dei suoi piani per espan­dersi nel settore del fast food. Aveva una giacca nera su una camicetta bianca, una minigonna nera, calze nere e scarpe di pelle sintetica nera con ibbie di strass. I suoi lun­ghi capelli erano pettinati all’indietro e fer­mati da un cerchietto rosa. Mi ha spiegato che in Cina il segreto del successo consiste nel trovare un buon marchio e “capire l’eco­nomia politica”.

Il biglietto da visita di Yan Qi elenca una lunga serie di premi e di titoli, da presidente della camera di commercio di Chongqing per il catering a, ben più importante, mem­bro della conferenza politica consultiva del popolo cinese, un organismo che si riunisce ogni anno a Pechino per dare raccomanda­zioni alle autorità del partito comunista. Sulle pareti fuori dal suo ufficio sono allinea te foto incorniciate in cui lei stringe la mano a importanti funzionari, come l’at­tuale capo del partito a Chongqing, Bo Xi­lai. Poco dopo quell’incontro è cominciata la costruzione del nuovo quartier generale di Yan Qi da 30 milioni di dollari, a spese del governo. Come dice un suo amico, lo scrittore Huang Jiren: “Se la tua impresa vuole crescere, l’appoggio del governo è molto importante, è un ‘valore invisibile’”. In realtà, Bo Xilai si vede dappertutto. Ho trovato un’altra foto del suo volto sorriden­te quando ho visitato la sede della più im­portante impresa edilizia di Chongqing. Mentre aspettavo sui divani di pelle bianca, in quella che l’azienda deinisce la sua “sala della gloria”, ho notato alla parete un poster di Bo accanto ai premi che l’impresa ha ri­cevuto dal governo e da diversi gruppi in­dustriali.

C’erano anche foto del presidente della società che stringeva la mano ad altri nota­bili della politica, come il presidente Hu Jintao e il premier Wen Jiabao. Jiang Hon­glin, vicecapo ingegnere dell’azienda, indi­ca le foto e ne spiega il signiicato pratico: “La reputazione è importante per gli afa­ri”. Alto, carismatico ed esperto di mezzi d’informazione – tutti tratti piuttosto rari in un politico cinese – Bo Xilai è quanto di più

pero dei tassisti nel 2008. Bo ha invitato le parti a negoziare pubblicamente in un di­battito trasmesso dalla tv di stato e seguito con grande attenzione e curiosità. Più re­centemente, l’uicio di Bo ha mandato una pioggia di sms con i suoi pensieri e una sele­zione di citazioni del presidente Mao a mi­lioni di studenti cinesi. In netto contrasto con la burocrazia elefantiaca, Bo sembra moderno, spigliato e populista. Ha ideato cinque parole d’ordine molto pubblicizzate per trasformare Chongqing puntando non solo sulla crescita del pil, ma anche sulla qualità della vita: “Una Chong qing sicura, vivibile, accessibile, sana, ecologica”.

Maia e sicurezzaL’obiettivo che ha richiamato più attenzio­ne è la sua volontà di creare “una Chong­qing sicura”. Dal 2009 Bo ha dichiarato guerra alle famigerate organizzazioni cri­minali della città, considerate tra le maie più pericolose della Cina. Stando ai comu­nicati stampa dell’amministrazione, una imponente operazione dell’uicio sicurez­za nel 2009 ha “risolto 32.771 casi”, portan­do all’arresto di 31 boss maiosi, che all’ini­zio di ottobre del 2009 hanno silato nei corridoi di un tribunale della città. Sei sono stati condannati a morte e il primo è stato giustiziato a luglio con un’iniezione letale. Gli altri dovranno scontare molti anni di prigione. I processi hanno ispirato servizi giornalistici appassionanti, che per lo più

descrivevano Bo come un eroe.Il giro di vite di Bo ha riscosso

molti consensi, ma ha anche in­nervosito alcuni alti funzionari del partito. I processi hanno di­mostrato ino a che punto le atti­

vità criminali siano rese possibili dai rap­porti con le autorità, una tesi che dal punto di vista dei leader più conservatori è un vero tabù. Ma Bo non è un riformista in senso assoluto: la sua amministrazione ha anche incarcerato, con accuse discutibili, uno sti­mato avvocato locale, Li Zhuang, che era stato incaricato di difendere gli imputati maiosi. Una sola cosa è chiara: Bo è un in­dipendente che aspira apertamente a di­ventare il nono membro del comitato per­manente del politburo – il massimo organi­smo decisionale del paese – e considera la città un trampolino per le sue ambizioni. Tutto sommato questo è un bene per gli abitanti di Chongqing, tranne per quelli che lo intralciano. La sua faccia sorridente ap­pare dappertutto, dai cartelloni stradali alle copertine delle riviste. Se avete una foto in­corniciata in cui stringete la mano a Bo Xi­lai, farete molta strada a Chongqing. u gc

simile esista a un sindaco star in Cina. Fi­glio di Bo Yibo, uno dei leggendari leader del partito ribattezzati gli “otto immortali” che raforzarono il loro potere dopo la re­pressione di piazza Tiananmen, Bo Xilai è nato nel 1949. Prima di arrivare a Chong­qing, tre anni fa, è stato sindaco di Dalian, una città della costa orientale dove ha mes­so a punto un suo peculiare stile populisti­co­autoritario. Parlava molto di migliorare la qualità della vita dei cittadini e intanto imponeva le sue decisioni con una spieta­tezza che gli ha procurato il rispetto e il ti­more dell’élite politica. Attirando gli inve­stimenti stranieri, ha trasformato Dalian in un centro tecnologico e manifatturiero, ha aumentato gli spazi verdi e ha raforzato la legge e l’ordine con iniziative a efetto (co­me ingaggiare poliziotte molto alte e gra­ziose che pattugliano le aree pubbliche a cavallo).

Anche nella sua nuova carica di segreta­rio del partito di Chongqing – una promo­zione importante, considerato lo status di provincia assegnato alla megalopoli – Bo continua a fare notizia ed è sempre in primo piano. Il Quotidiano del Popolo l’ha proclamato “uomo dell’an­no”. Un tributo rap a Bo scritto da un uomo che si deinisce un sem­plice operaio ha avuto grande successo nella rete (“I tuoi occhi sono come un paio di spade che mandano lampi di luce fredda… I corrotti tremano al solo sentire il tuo nome”).

In un discorso di fine giugno, Bo ha enunciato il nuovo concetto di “salute spiri­tuale” – una sorta di antimaterialismo reto­rico – spiegando che “una vita migliore non signiica solo mangiare arrosto di maiale in salsa di soia o indossare bei vestiti”. E con accenti più tradizionali ha anche detto, co­me riferito dal Chongqing Evening News: “Dobbiamo portare avanti la vecchia tradi­zione di partito dell’amicizia con i lavorato­ri, i contadini e le persone in diicoltà”. Al­cuni analisti politici hanno cominciato a parlare di Bo come della personiicazione di un “nuovo Mao”.

Quel che è insolito per un politico cinese è la sua continua ricerca di visibilità. Una delle prime mosse a procurargli consenso a Chongqing è stata la gestione di uno scio­

L’uicio di Bo ha inviato una selezione di citazioni di Mao a milioni di studenti

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Geograia

In un fatidico giorno all’inizio di agosto, Google Maps ha assegna-to l’Arunachal Pradesh alla Cina. Il passaggio è avvenuto senza preavviso: un minuto prima, lo stato montano al conine con il

Tibet era ancora indicato con i soliti nomi indiani. All’improvviso sono spuntati i ca-ratteri cinesi, come se la regione fosse stata virtualmente annessa alla Repubblica Po-polare.

Diicile immaginare una gafe più im-barazzante. L’Arunachal Pradesh, gover-nato dall’India ma rivendicato dalla Cina, è da decenni oggetto di furiose dispute tra i due paesi. L’improvvisa ricatalogazione della provincia da parte di Google è appar-sa come un favore a Pechino. Per di più, il momento non poteva essere peggiore: i server di Google hanno cominciato a tap-pezzare lo stato di caratteri cinesi poche ore prima che a New Delhi cominciassero i negoziati tra i due paesi sulla delicata que-stione dei conini. Google ha subito am-messo l’errore, ma su internet si era già scatenata la furia dei blogger e dei giorna-listi indiani. Alcuni ipotizzavano un com-plotto. “Nella disputa sul conine dell’Aru-nachal Pradesh, Google Maps ha sempre parteggiato per la Cina”, ha scritto un blog-ger indiano. Un ex deputato del parlamen-to ha dichiarato al Times of India: “I cinesi sanno come rendere note le loro posizioni prima di un incontro bilaterale”.

A riprova della sua inquietante onnipre-senza, Google ha pubblicato una risposta

I conini di GoogleJohn Gravois, The Washington Monthly, Stati Uniti

Raccogliendo mappe uiciali e dati forniti dagli utenti, Google Maps ha creato la carta del pianeta più precisa che esista. E per questo è stato coinvolto in molte contese geopolitiche

dati destinati alla versione cinese della mappa devono essere initi su quella inter-nazionale”. È stata una semplice svista? Qualsiasi cosa sia successa, l’episodio ha messo in luce i rischi della geopolitica nell’era della neogeograia.

Ad appena cinque anni dal lancio di Goo gle Maps e Google Earth, Google è for-se il più importante produttore mondiale di carte geograiche. Più di 600 milioni di persone nel mondo hanno scaricato Goo-gle Earth. È un numero impressionante, ma l’azienda sta andando oltre, modiican-do l’idea stessa di carta geograica. Invece di produrre un’unica mappa, Google ofre tante interpretazioni diverse della geogra-ia del pianeta. A volte queste interpreta-zioni assumono la forma di mappe che ri-spondono al punto di vista di un paese. Più spesso, Google si comporta da cartografo agnostico, limitandosi a fornire un naviga-tore che contiene una varietà di punti di vista invece delle tradizionali, univoche, autorevoli carte geograiche. “Lavoriamo per ofrire il maggior numero possibile di informazioni disponibili, in modo che gli utenti possano farsi un’opinione sulle di-spute geopolitiche”, scrive Robert Boor-stin, responsabile delle relazioni esterne di Google.

Dai topograi ai satellitiParadossalmente questo approccio alla cartograia ispirato alla neutralità più che al dominio rischia di coinvolgere Google in alcune delle dispute più scottanti del mon-do. Seguendo la logica dei suoi software e

dei suoi interessi economici, Go-ogle si è trovato invischiato in una serie di polemiche, da Israe-le alla Cambogia ino all’Iran. Si dice che ogni mappa è una di-chiarazione politica. Cercando

di rovesciare quest’idea, Google rischia di surriscaldare ancora di più la temperatura della politica.

L’era moderna – quella che ci ha portato l’industrializzazione, il colonialismo e la guerra meccanizzata – è stata un periodo d’oro per i produttori di carte geograiche. Le autorità coloniali, come la British Royal Engineers, inviavano i loro emissari negli angoli più sperduti del globo per sostenere la marcia espansionistica delle potenze eu-ropee. Con la lungimiranza tipica dell’era industriale i cartograi consacrarono la lo-ro professione agli ideali dell’oggettività scientiica e della standardizzazione razio-nale, anche se il loro lavoro rispondeva agli obiettivi mercantili e strategici degli stati committenti. Questo approccio scientiico

nei commenti di tutti i siti che partecipava-no alla discussione sul tema: “La modiica è dovuta a un errore di elaborazione dei nuovi dati delle carte geograiche. Stiamo provvedendo a ripristinare i dati, la modi-ica dovrebbe essere visibile tra breve”.

Un mistero, però, rimane: come si è po-tuto veriicare un errore del genere? Come mai Google aveva già nel cassetto tutti i nomi cinesi, pronti a prendere il posto di quelli indiani? Google non ha rilasciato commenti in proposito, ma il blogger belga Stefan Geens ha avanzato un’ipotesi convincente. In Cina, ha spiegato Geens, la legge im-pone che su ogni carta geograica il Tibet del sud, cioè l’Arunachal Pradesh, appaia come una regio-ne cinese. Infatti, per gli utenti cinesi Goo-gle gestisce un sito di mappe separato, di-tu.google.cn, che funziona all’interno del firewall cinese. Non è una concessione speciale ai leader del partito di Pechino: Google ha 32 versioni di Maps per altret-tanti paesi del mondo, ognuna delle quali rispetta le leggi locali. Per esempio nella versione indiana di Google Maps il Kashmir igura integralmente e indiscuti-bilmente come parte del paese, perché co-sì stabilisce la legge indiana. Allo stesso modo l’Arunachal Pradesh non esiste su ditu.google.cn. Al suo posto ci sono le indi-cazioni toponomastiche che ad agosto hanno scatenato un putiferio su Google Maps.

“In qualche modo”, ipotizza Geens, “i

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e progressista alla cartograia trovò la sua espressione più alta nel 1891, quando il ge-ografo tedesco Albrecht Penck propose ai cartografi di tutto il mondo di creare un’unica carta internazionale del mondo composta da 2.500 mappe standardizzate, ognuna delle quali avrebbe dovuto rappre-sentare quattro gradi di latitudine e sei di longitudine, in una scala di uno a un milio-ne. Tra grandi annunci internazionali, il progetto partì nel 1913, proseguì con alti e bassi durante la prima guerra mondiale, e ricevette un colpo da cui non si sarebbe più ripreso del tutto quando l’uicio centrale responsabile del programma, in Gran Bre-tagna, fu distrutto in un raid aereo durante la seconda guerra mondiale. Le stesse po-tenze che avevano messo in piedi l’ambi-zioso progetto erano ora impegnate in un’altra impresa, quella di distruggersi a vicenda. La ine dell’epoca coloniale, acce-lerata dalla seconda guerra mondiale, por-tò a una crisi generale della raccolta dei dati geograici. “L’età moderna era crollata sotto il suo stesso peso”, spiega Michael Frank Good child, geografo angloamerica-no della University of California a Santa Barbara. “Negli anni settanta si capì che non era più sostenibile un mondo in cui le informazioni geograiche rilettevano le diverse posizioni dei governi nazionali”.

Per certi aspetti, la crisi postcoloniale delle informazioni non è mai inita. “Oggi una carta topograica standard degli Stati Uniti è mediamente vecchia di trentacin-que anni”, spiega Goodchild, che molti considerano il padre fondatore della scien-za della geograia informatica. “I metodi di raccolta dei dati tipici dell’età moderna, come il censimento, sono in declino in tut-to il mondo”. In alcune zone dell’Africa, le carte coloniali britanniche sono ancora il meglio che ci sia a disposizione.

Dove si sono fermati i topograi dei go-verni sono arrivati i satelliti. Ma non tutto può essere registrato da un occhio inani-mato nello spazio. Per esempio, i satelliti non conoscono i nomi dei luoghi di riferi-mento nelle topograie locali. E qui viene in aiuto un’altra funzione di Google. Negli ultimi due anni, Google ha creato le carte geograiche di città quasi mai censite in Africa, nel sud dell’Asia e nel Paciico at-tingendo alla stessa straordinaria risorsa che ha determinato la difusione di inter-net: la gente comune. Attraverso uno stru-mento abbastanza semplice chiamato Go-ogle Map Maker, i volontari in ogni angolo del pianeta possono creare, correggere e arricchire le mappe delle zone che cono-scono. “Sostanzialmente”, dice Goo-

dchild, “stanno sostituendo i sistemi di produzione tradizionali che i governi non vogliono più inanziare”.

Questo nuovo sistema di produzione alimentato dagli utenti, insieme alla tec-nologia dei “mondi virtuali” come Google Earth, ha dato impulso a quella che qual-cuno comincia a chiamare “neogeograia”. In epoca coloniale, l’imperativo del carto-grafo era mettere ordine nei luoghi selvag-gi assegnando nomi e conini, riducendo

una profusione di fatti e rivendicazioni a un insieme di dati ristretto e imposto dall’alto. Oggi, la profusione di fatti e ri-vendicazioni è una funzione in più, non un baco del sistema. Grazie alla possibilità di zoomare con una risoluzione sempre mag-giore, le mappe digitali possono contenere moltissime informazioni: nomi diversi per lo stesso luogo, annotazioni personali, l’immagine del cane di qualcuno. Con una serie di scelte che spesso favoriscono l’am-

ArunachalPradesh

Kashmir

ditu.google.cn

maps.google.com

In alto, nella versione cinese di Google Maps una regione del Kashmir e l’Arunachal Pradesh fanno parte della Cina.

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Geograia

biguità, Google mantiene il controllo di quasi tutti i dati uiciali delle sue carte ge­ograiche (conini nazionali, bacini idrici e simili), mentre gli utenti possono interve­nire sul community layer, lo spazio dove s’inseriscono le informazioni. La geograia è stata democratizzata.

Questo non signiica che Google sia de­mocratico. Nell’ottocento le potenze euro­pee avevano un approccio imperiale al territorio, oggi Google ha un approccio al­trettanto imperiale nei confronti della co­noscenza. L’azienda punta ad avere il do­minio della ricerca sul maggior numero possibile di dati: più plurali e locali sono, meglio è. Contemporaneamente, poiché va a colmare il vuoto informativo lasciato dai vecchi poteri statali, a volte viene inevi­tabilmente confusa con loro.

Di chi è il golfoGoogle ha raggiunto un tale grado di auto­revolezza che quando viene coinvolto in una disputa geograica la questione si tra­sforma quasi sempre in un incidente diplo­matico. Qualche mese fa, il governo cam­bogiano ha scritto una lettera formale di protesta all’azienda – difondendola anche alla stampa – per il modo in cui era stato rappresentato un conine conteso con la Thailandia nelle vicinanze di un comples­so di templi khmer, nella provincia di Pre­ah Vihear. Nella lettera un alto funzionario cambogiano ha deinito la rappresentazio­ne del conine data da Google “destituita di ogni senso di verità e realtà, e professio­nalmente irresponsabile, se non presun­tuosa”, oltre che “profondamente errata e non riconosciuta a livello internazionale”. L’azienda di Mountain View è inita sulle prime pagine dei giornali come parte in causa in un conlitto in una giungla lonta­na. Google ha promesso di riesaminare le informazioni e ha girato l’accusa a Tele A tlas, l’azienda che aveva fornito i dati.

Altre dispute nascono direttamente dal modello cartograico partecipativo di Go­ogle. Nel 2008 la cittadina israeliana di Ki­ryat Yam ha citato l’azienda per difama­zione dopo che un palestinese di nome Thameen Darby si è collegato a Google Earth e ha segnalato la città come il luogo di un villaggio arabo distrutto dagli israe­liani nel 1948. Darby aveva contrassegnato centinaia di altri siti in tutto il paese, se­gnalando i presunti luoghi di precedenti insediamenti palestinesi spazzati via du­rante gli anni della formazione dello stato di Israele. Le autorità di Kiryat Yam, però, non hanno lasciato correre, rispondendo che la città era stata costruita dai soprav­

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dichiarazione in cui spiega che la denomi­nazione dei siti geograici viene stabilita unicamente in base ai nomi in uso. Google Earth “mostra i nomi locali dati a un baci­no idrico dalle nazioni sovrane coninan­ti”, ha scritto Andrew McLaughlin, l’ex re­sponsabile delle relazioni esterne di Goo­gle (che oggi è nell’uicio delle politiche tecnologiche del presidente Obama). “Se paesi diversi sono in disaccordo sul nome di un bacino idrico, la nostra politica e di mostrare tutti i nomi usati”.

Poi la dichiarazione allarga il discorso alla democratizzazione dell’informazione. “Una delle caratteristiche più straordina­rie di Google Earth è che ci consente di of­frire una quantità di informazioni molto maggiore rispetto alle mappe cartacee”, scrive McLaughlin. “Ci auguriamo che le diverse comunità usino Google Earth co­me una piattaforma aperta per creare con­tenuti che rilettano correttamente il loro punto di vista”. Naturalmente, una piatta­forma aperta alle discussioni è esattamen­te quello che gli iraniani si aspettano da un sito come PetitionOnline, ma non da una carta geograica internazionale.

Un ruolo ambiguoIn una contesa, l’ultima cosa che le parti vogliono è un arbitro indeciso. Ma per quanto possa risultare impopolare, questa incertezza è diventata una dinamica fon­damentale della vita su internet. Dall’ero­

sione dell’autorità tradizionale si è passati alla preoccupazione per la sua assenza: vale per Google e Wikipedia, ma anche per la me­no nota PetitionOnline, dove milioni di persone esprimono le

loro proteste lanciandole direttamente nell’etere, invece di rimetterle a un arbitro uiciale. Il risultato è paradossale. La cul­tura digitale che incoraggia la pubblicazio­ne di nomi multipli per un unico sito geo­graico è la stessa che spinge migliaia di iraniani a protestare online. Lo stesso mez­zo incita al nazionalismo e contemporane­amente lo frustra. Questo ci riporta alla domanda di fondo: cos’è Google? Il depo­sitario di una serie di rivendicazioni che si escludono a vicenda o un potere superiore a cui ci appelliamo? Non può essere en­trambe le cose. Andando avanti, le tensio­ni aumenteranno. “In un mondo in cui la produzione delle carte geografiche è a buon mercato e alla portata di tutti”, osser­va Goodchild, “la realtà diventerà sempre più locale”. In un futuro così, o ci rasse­gniamo all’assenza di un arbitro unico, o i conlitti esploderanno. u fas

vissuti all’Olocausto su una distesa di du­ne, e non sulle rovine di un villaggio pale­stinese evacuato. Sostenevano che Darby aveva infangato la reputazione della città. Invece di fare causa a Darby, però, l’hanno fatta a Google. In altre parole, l’azienda è stata ritenuta responsabile per le informa­zioni pubblicate sullo spazio a disposizione degli utenti di Google Earth.

Un’altra tipologia di dispute geopoliti­che riguarda i nomi. Un esempio è la cam­pagna iraniana lanciata sul sito Petition­Online, che sta riscuotendo un enorme successo. Non è un’iniziativa collegata agli abusi nella Repubblica Islamica dell’Iran. L’oggetto della petizione è Google, e l’obiettivo è assicurare “la cancellazione immediata e incondizionata del golfo Ara­bico da Google Earth”. Pubblicata online il 19 febbraio 2008, la petizione ha raccolto inora 1.235.743 irme.

Fin dagli anni sessanta, la questione del nome da assegnare al bacino idrico che se­para l’Iran dalla penisola Arabica è una delle faide irrisolte della geograia. “Golfo Persico” è il nome riconosciuto dalle Na­zioni Unite, mentre “golfo Arabi­co” è un nome relativamente re­cente che si è diffuso ai tempi d’oro del nazionalismo arabo. Per gli iraniani, il nome “golfo Arabico” è un attacco alla storia nazionale. La difesa del nome “golfo Persi­co” è diventata uno dei pochi temi unii­canti della politica iraniana.

All’inizio del 2008 Google Earth ha de­ciso di pubblicare i nomi “golfo Persico” e “golfo Arabico” uno accanto all’altro. La petizione iraniana, che prende a modello i valori dei vecchi cartograi dell’ottocento, accusa Google di essere “antiscientiico” e di ignorare “gli standard internazionali”. La campagna si rimette all’autorità delle Nazioni Unite, che uicialmente sostengo­no il nome “golfo Persico” in base a una piccola letteratura di mappe d’archivio, ri­ferimenti letterari e fonti storiche.

Google ha risposto invocando un siste­ma completamente nuovo di norme carto­graiche, che fa a meno di tutti i criteri sto­rici. Due mesi dopo la pubblicazione della petizione sulla “cancellazione immediata e incondizionata”, l’azienda ha postato una

In una contesa, l’ultima cosa che le parti vogliono è un arbitro indeciso

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Il fotografo Giuliano Matteucci ha vi-sitato tre paesi dell’Africa occidentale – Mali, Burkina Faso e Ghana – per ri-trarre le chiese che sorgono nelle zo-

ne rurali. Sono, per la maggior parte, picco-li ediici di paglia e fango costruiti, a partire dalla ine dell’ottocento, lungo le piste per-corse dai missionari cattolici nella loro ope-

Portfolio

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Tra le parrocchiedel deserto

Più di un secolo fa i missionari cattolici hanno avviato la costruzione di chiese nelle zone rurali di molti paesi dell’Africa occidentale. Oggi sono parte integrante della vita delle comunità locali. Il reportage di Giuliano Matteucci

ra di evangelizzazione. Le chiese, che si trovano quasi sempre ai margini dei villag-gi, sono oggi gestite dalle comunità locali in autonomia dalle diocesi di appartenenza. Di solito un catechista organizza le princi-pali attività settimanali, mentre la messa della domenica è celebrata da un sacerdote in visita da una missione vicina. Le caratte-

ristiche degli ediici, gli arredi interni e an-che i testi delle preghiere sono fortemente inluenzati dalle tradizioni locali. u

Giuliano Matteucci è nato a Roma nel 1976. Il progetto presentato in queste pagine, Ecclesia, ha vinto il premio internazionale di fotograia Baume e Mercier 2009.

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In alto: chiesa di Peresugue, in Mali. Qui sopra: chiesa di Yongduni, in Ghana. Il progetto Ecclesia di Giuliano Matteucci

è esposto al Macro Testaccio, a Roma, ino al 24 ottobre 2010. L’evento fa parte del FotoGraia festival internazionale di Roma,

incentrato quest’anno sul tema Futurspectives (può la fotograia interpretare il futuro?). Gli scatti di Matteucci sono raccolti

anche nel catalogo Ecclesia, Punctum 2010.

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Portfolio

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In alto: chiesa vicino a Kaya, in

Burkina Faso. Qui sopra: il prete

Moses Imoro nella chiesa di

Gumu, in Ghana. A sinistra:

missione di Fatoma, in Mali

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Portfolio

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In alto: chiesa vicino a Kita, in Mali. Qui sopra: chiesa

vicino a Fada N’Gourma, in Burkina Faso. A sinistra:

vista dalla falesia di Bandiagara, in Mali

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Ritratti

Eva Joly corre da una radio all’altra, moltiplica le inter-viste, denuncia gli errori dei ministri e del governo. È l’ora della politica. “La giudice rossa” è a suo agio

quando si scaglia contro l’immoralità di una repubblica corrotta e lancia accuse che sembrano editti, con la voce pacata e gli oc-chi sbarrati dietro gli occhiali rossi da clown.

Dopo aver conquistato il movimento dei Verdi, la nuova leader ecologista ha lancia-to un’ofensiva. Il 20 giugno, in un’intervi-sta al quotidiano online Mediapart, è stata la prima in Francia a chiedere le dimissioni del ministro del lavoro Eric Woerth, accu-sato di conlitto d’interessi, favoritismi e tangenti. Joly ha parlato di uno “scandalo di stato” e ha chiesto l’apertura di un’indagine indipendente. “Il finanziamento illecito della campagna elettorale comporta l’an-nullamento delle elezioni”, ha azzardato il 23 giugno, alludendo alle voci secondo cui nell’ultima campagna per le presidenziali il partito del presidente Nicolas Sarkozy avrebbe ricevuto delle tangenti dall’ex con-tabile dell’ereditiera Liliane Bettencourt.

L’ex magistrato anticorruzione, attuale eurodeputata, moltiplica i colpi. Dietro

che oggi sembra una scommessa rischiosa sarebbe stata impensabile ino a pochi mesi fa, quando, vincendo la sua timidezza, Joly aveva appena cominciato a frequentare i comizi politici. “Sono una late bloomer, un iore tardivo”, si scusava. E aggiungeva a bassa voce: “Mi sento a mio agio con i Ver-di”. La platea si è commossa.

Dopo l’elezione al parlamento di Stra-sburgo, Joly si è trasformata nella star degli incontri di Europe Ecologie. “I militanti so-no afascinati in un modo quasi irraziona-le”, dice Patrick Farbiaz, membro del consi-glio nazionale dei Verdi. Lei s’impegna molto e non manca mai a un evento pubbli-co per sostenere il suo partito.

Il 24 giugno, il giorno dello sciopero na-zionale contro la riforma delle pensioni, è andata a Rambouillet per appoggiare Anny Poursinof, candidata dei Verdi alle elezioni nel dipartimento di Yvelines. Seduta tra Be-noît Hamon, portavoce del Partito sociali-sta, e Jean-Paul Huchon, presidente socia-lista del consiglio regionale dell’Île-de-France, Joly era raggiante. “Adoro fare poli-tica”, ha esordito. Poi ha cominciato a invei-re contro “il disprezzo di quei politici e di quei banchieri che vivono in un altro mon-do”. “Secondo alcuni, è tutto permesso quando il paese si trova in una situazione drammatica”, ha detto rivolgendosi al pub-blico in sala. Poi ha parlato dell’Islanda, del Fondo monetario internazionale, delle ele-zioni in Ciad a ine anno, delle pressioni di Sarkozy sui mezzi d’informazione. Il discor-so sembrava un po’ sconnesso, ma il pubbli-co la seguiva ipnotizzato. È “l’efetto Eva”, ha detto scherzando uno dei presenti. “Non segue il ilo del discorso ma ha un successo strepitoso. I socialisti stanno cominciando a preoccuparsi”.

La sua igura di giudice onesto e inlessi-bile che sida i potenti piace molto nell’am-biente ecologista. Nel giugno del 2009 Eu-rope Ecologie ha ottenuto ben il 20,86 per cento dei voti nell’Île-de-France. Da questa inattesa popolarità è nata l’idea di presen-tarsi alle primarie ecologiste in vista delle presidenziali del 2012.

“Quando saltano tutti i punti di riferi-mento, le persone cercano l’etica”, aferma Yannick Jadot, eurodeputato ed ex direttore delle campagne di Greenpeace France. L’idea che questa sessantenne dall’aria bor-ghese, vagamente dissonante in questo pic-colo mondo, porti la bandiera degli ecologi-sti indipendenti ha preso piede in Europe Ecologie. “In un mondo politico dove man-ca la trasparenza, la sua integrità è afasci-nante”, spiega Cohn-Bendit.

Alcuni militanti di Europe Ecologie am-

Eva Joly Puntandoall’Eliseo

Ex magistrato, è entrata in politica a 65 anni. È diventata la star degli ecologisti francesi e oggi guarda alle elezioni presidenziali del 2012

Sylvia Zappi, Le Monde Magazine, Francia Foto di Frédéric Stucin

questa improvvisa sovraesposizione c’è la convinzione dell’importanza di temi come la trasparenza e l’etica politica. Ma c’è an-che la volontà di giocare tutte le carte a sua disposizione per diventare la candidata ecologista alle elezioni presidenziali del 2012. “Non è un pensiero isso”, precisa. Ma intanto si prepara.

Un iore tardivoEva Joly ha cominciato a fare politica solo un anno fa. In occasione delle elezioni eu-ropee, l’eurodeputato verde Daniel Cohn-Bendit le ha chiesto di presentarsi nella re-gione Île-de-France come vicecapolista della coalizione di partiti di sinistra Europe Ecologie. Lei si è innamorata subito della politica. Oggi è convinta di poter ampliare la base del movimento e di poterlo rappre-sentare alle prossime presidenziali. Quella

◆ 5 dicembre 1943 Nasce a Oslo, in Norvegia.◆ 1964 Si trasferisce a Parigi dove lavora come ragazza alla pari.◆ 1971 Si laurea in legge a Paris II.◆ 1981 Passa il concorso da magistrato.◆ 1993 È tra i giudici del polo inanziario di Parigi che indagano sullo scandalo politico-inanziario Elf.◆ 2002 È consulente per la lotta alla corruzione del governo norvegese.◆ marzo 2009 Il governo di Reykjavik le aida l’incarico di indagare sul fallimento delle banche islandesi.◆ giugno 2009 È eletta al parlamento europeo con la lista francese Europe Ecologie.

Biograia

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Ritratti

mettono a mezza voce che preferirebbero la candidatura di Cécile Dulot, la segretaria nazionale dei Verdi. È più di sinistra, più giovane, più esperta. Ma l’efetto Joly sem-bra inarrestabile. La nuova ispiratrice eco-logista incarna meglio di chiunque altro la lotta per l’interesse pubblico e sembra l’uni-ca in grado di conquistare un elettorato più ampio.

Anche Dulot sembra rassegnata. Lei e Joly hanno stretto un patto: non si afronte-ranno in un duello interno. Quando gli am-bientalisti lanceranno il loro nuovo movi-mento politico non dovranno nascere di-spute. Inoltre, afermano di provare grande rispetto l’una per l’altra. “Il movimento è molto vicino a me e a Cécile. Abbiamo fatto decine di incontri insieme e i suoi successi sono stati anche i miei. Non ho nessuna in-tenzione di mettere in discussione il nostro rapporto”, aferma Joly.

Troppo centristaNelle ultime settimane, per cancellare un’immagine di sé troppo centrista e con-sensuale, Joly ha enfatizzato i temi che la legano alla sinistra. Ha invitato Cécile Du-lot e il giornalista e politico dei Verdi, Noel Mamère, alla conferenza stampa sul caso Woerth in parlamento. In un’intervista al Journal du Dimanche ha dichiarato di esse-re sempre stata “di sinistra”. Ha preso le distanze da Cohn-Bendit sulle pensioni, spiegando che vuole mantenere l’età pen-sionabile a sessant’anni. E ha precisato che la priorità della campagna presidenziale saranno le banlieues, “il punto da cui partire per impedire che milioni di persone vadano alla deriva”.

Per il momento è completamente presa dal suo incarico al parlamento europeo, dov’è presidente della commissione per lo sviluppo. Nel suo uicio di Bruxelles rac-conta che sedere nell’assemblea è un “im-menso piacere”. Per lei, un’europea divisa tra due culture, il parlamento ha un ruolo molto importante.

Il primo successo che ha ottenuto è stata la bocciatura dell’accordo sulla pesca tra l’Unione europea e la Guinea: è riuscita a convincere i colleghi che era rischioso de-stinare fondi a un paese governato da una giunta militare. A ine maggio, invece, ha guidato una delegazione di eurodeputati a Gaza. Le autorità israeliane non volevano farli entrare, allora lei li ha fatti viaggiare su un pullman attraverso l’Egitto. Le sessioni parlamentari, quattro volte alla settimana, e gli impegni politici non le lasciano molto tempo libero. Ma Joly si sente “incredibil-mente fortunata”.

A 66 anni ha vissuto molte esperienze, sempre seguendo il motto che le ha inse-gnato suo padre, sarto in un quartiere ope-raio di Oslo: “Volere è potere”.

Nata a Oslo nel 1943, Joly a ventun anni vinse una borsa di studio e si trasferì in Francia come ragazza alla pari. Lì scoprì l’ambiente della borghesia parigina. “Che mancanza di semplicità!”, commenta ri-pensando a quel periodo. Non racconta gli episodi umilianti come il matrimonio clan-destino con il figlio della famiglia che la ospitava.

Ricorda, però, i lavori che fece in quel periodo (segretaria della casa discograica Barclay, dattilografa da Technip, sarta a do-micilio) e il corso di diritto all’università Panthéon-Assas. “Ho scoperto la perfezio-ne della lingua nei manuali di diritto civile”, dice divertita. Alla ine dell’università, ha migliorato il suo francese in una scuola di dizione. “Era così diicile pronunciare la ‘u’ di ‘rue’”, racconta.

A 31 anni fu assunta come consulente legale da un ospedale e nel 1981 superò il concorso per entrare in magistratura. Il suo primo incarico fu quello di procuratore ag-giunto a Orléans e poi a Evry. Nel 1993 entrò nel pool di magistrati parigini che si occu-pavano di reati inanziari. Fu la sua consa-crazione. Le sue indagini sul caso Elf porta-rono all’incriminazione dell’ex ministro degli esteri francese Roland Dumas e dell’ex amministratore delegato della so-cietà petrolifera, Loïk Le Floch-Prigent, svelando un vasto sistema di corruzione e favoritismi che coinvolgeva l’ex presidente del Gabon Omar Bongo, alcuni dirigenti della Elf e diversi politici francesi.

Un po’ di respiroA quell’epoca aveva i rilettori puntati ad-dosso, la sua famiglia era oggetto di minac-ce, viveva sotto scorta e riceveva continua-mente calunnie. Per questo preferì tornare a vivere in Norvegia per lavorare come con-sulente del governo. “Quando me ne sono andata dalla Francia, molti mi accusavano di essere una donna malvagia. Avevo biso-

gno di respirare”. Poi è tornata a vivere in Francia, “voltando pagina rispetto alla Nor-vegia”, perché le mancava il modo di vivere francese. “In Norvegia non si fanno media-zioni, esistono le regole e basta. Provate a farvi dare un collirio in farmacia senza la prescrizione medica o ad attraversare la strada in bicicletta quando il semaforo è rosso ma non c’è nessuno… Per strada sono tutti giudici. Niente a che vedere con la cul-tura della trattativa, che è così importante in Francia”. Alla Norvegia preferisce la dol-cezza di Parigi e la sua terrazza di trenta metri quadrati nel quattordicesimo arron-dissement. Joly è orgogliosa di aver vissuto fuori dalla traiettoria “della predestinazio-ne”. Aferma di non avere nessun rimpianto ed è convinta di aver svelato un sistema di corruzione che non è ancora stato del tutto smantellato. “Almeno sono riuscita a la-sciare una traccia”, aggiunge.

Secondo lei non bisogna imporre dei li-miti ai propri desideri, perché la vita è piena di sorprese: “Ognuno di noi è padrone del suo destino. Non esiste il determinismo. Non accetto l’idea di dover rinunciare a qualcosa solo perché ho più di sessant’an-ni”, dice scaldandosi.

Nel suo appartamento ha appeso la fo-tograia di una donna anziana portatrice di handicap, con una protesi all’anca, che si immerge in acqua. “È magniica!”, com-menta.

A proposito della sua origine straniera e del suo accento dice: “Dopo aver vissuto in Francia per 39 anni, mi sento completa-mente francese. Le persone sono contente di vedere che si può diventare magistrato anche quando si comincia come ragazza straniera alla pari, o che si può essere eletti pur essendo entrati in politica a 65 anni”.

Sulla sua scrivania, in bella mostra, c’è una copia della versione islandese della ri-vista Elle. In copertina c’è Eva Joly, con i riccioli biondi e gli occhiali rossi. Oltre ai suoi frequenti viaggi tra Parigi, Bruxelles, Strasburgo e Reykjavik, i suoi interventi po-litici e sui mezzi d’informazione, sta scri-vendo un romanzo poliziesco assieme alla giornalista Judith Perrignon. “Sarà un thril-ler geopolitico”, dice. La pubblicazione è prevista per la primavera del 2011. Ma la da-ta potrebbe essere posticipata a dopo il 2012. L’11 giugno Joly ha dichiarato a un giornale norvegese: “Se il movimento me lo chiede, mi presenterò”. La sua candidatura è stata rilanciata immediatamente da un blog, poi su una pagina di Facebook, da una petizione. Prima di andarsene aggiunge: “I miei igli sono d’accordo”. La campagna è cominciata. u sv

Alla Norvegia preferisce la dolcezza di Parigi e la sua terrazza di trenta metri quadrati nel quattordicesimo arrondissement

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Viaggi

che ci ripara una foratura agli intagliatori di legno che trasformano i rami di mopane in facoceri. Le donne herero camminano per la strada principale indossando crino-line tradizionali di cotone stampato e cap-pelli a forma di corno. Sembrano comparse di Via col vento. Una donna chiede a Brenda dove ha preso il suo abito anni cinquanta con le grandi rose rosse. “È bellissimo!”, esclama. Brenda le dice che il vestito è fat-to a mano. “Sono sempre i più belli. Siete fortunati ad avere una vasta scelta di stofe in Gran Bretagna”.

Mentre ci dirigiamo a ovest attraverso il deserto del Namib, le montagne appuntite di basalto nero prendono il posto delle si-nuose colline di granito. Spingo il freno in una delle rare curve lungo la strada di ghia-ia. Grave errore. L’auto slitta. Mentre lotto con il volante cominciamo a essere sballot-tati da una parte all’altra. “Lascialo, lascia-lo”, grida Brenda, che prima di partire ha frequentato una lezione di guida su fuori-strada. Evito di controllare l’auto, che esce di strada e si ferma sull’erba. Scoprirò più tardi che il mio è un errore comune tra i principianti. Per diminuire la velocità avrei dovuto scalare marcia.

Rischio estinzionePer raggiungere il Desert rhino camp cam-biamo auto e prendiamo una jeep di pro-duzione russa, più adatta per il safari. Il paesaggio ricorda la Monument valley in Arizona, ma è ancora più bello. Montagne dalle cime piatte e gruppi di ciminiere di basalto s’innalzano dalla pianura ghiaiosa. Gli orici e le gazzelle si fermano sui crinali appuntiti per cogliere la brezza. Nel 1970 in Africa c’erano 65mila rinoceronti neri. Da allora la caccia li ha quasi portati all’estinzione: gran parte dei loro preziosi corni è stata trasformata in impugnature per le spade da cerimonia dei ricchi yeme-niti. Oggi ci sono meno di quattromila ri-noceronti e molti si nascondono in questo

angolo sperduto della Namibia. Dopo colazione, Brenda e io ci mettia-

mo in marcia insieme a Kapoi, la nostra guida, ansimando dietro a lui nelle salite. Marco, che come noi sta facendo il safari, è appostato dietro un cespuglio con lo zoom pronto. Un anziano rinoceronte maschio, che si chiama Don’t worry, dorme appog-giato a un cespuglio di euforbia. Ci avvici-niamo ino a una sessantina di metri e os-serviamo l’orecchio a forma di tromba, che si muove per captare meglio i suoni. Prima di partire mi sono preparato e so che il ri-noceronte nero raggiunge una velocità di 56 chilometri orari.

Don’t worry da questa distanza non può vederci, ma può sentirci. Brenda prende il binocolo dalla custodia e il rumore causato dal velcro esplode nell’aria calda e ferma.

Gelasius si è ammutolito. Continua a indicare verso il bosco di acacie. Temo che sia vittima di un attacco di panico e che dovrò riportarlo al

campo. Finalmente riesce ad aprire la boc-ca: “Nella boscaglia, sopra la boscaglia, là. La roccia, la roccia”. Alziamo gli occhi e vediamo un grande leopardo maschio che cammina lungo uno stretto costone. Ades-so nessuno di noi iata. Il leopardo si siede e ci guarda con i suoi occhi gialli. Di tanto in tanto si lecca le labbra con la lingua. Ha un bellissimo manto e una coda lunga co-me il corpo. I leopardi sono creature not-turne, talmente schive che si vedono rara-mente. Ora che ha ritrovato la parola, Ge-lasius ci dice di non aver mai visto un leo-pardo a Erongo.

A due ore di auto a nord di Windhoek, Erongo è la tappa ideale per un viaggio in macchina nella Namibia settentrionale. Io e la mia amica Brenda stiamo attraversan-do il deserto del Namib in auto. Potrà sem-brare strano, ma in Namibia ci sono le stra-de migliori di tutta l’Africa. Le auto sono poche e i camion ancora meno: la strada è vuota e taglia in due il paesaggio.

Le cittadine sono accoglienti. Quando si arriva a Omaruru, fondata nell’ottocento dai missionari tedeschi, sembra di entrare in una pagina di un romanzo di Alexander McCall Smith. Tutti parlano l’inglese con la studiata precisione di Precious Ramsto-we (la detective protagonista della serie di racconti di McCall Smith) e hanno il tempo di scambiare due chiacchiere, dal signore

La fattoriadegli animali

Gill Charlton, The Daily Telegraph, Gran Bretagna

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Un safari nei parchi nazionali della Namibia settentrionale. Con il rinoceronte di nome Don’t worry e il leopardo dagli occhi gialli

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Internazionale 866 | 1 ottobre 2010 75

◆ Arrivare Il prezzo di un volo dall’Italia (South African Airways, British Airways, Lufthansa) per Windhoek parte da mille euro a/r. Per aittare un’auto o trovare da dormire si può consultare il sito namibiareservations.com. Aittare una jeep da cinque posti costa 150 euro al giorno.◆ Clima Il periodo migliore va da maggio a ottobre, quando il clima è secco e mite. A febbraio le piogge sono molto frequenti.◆ Dormire La Namibia wildlife resort (Nwr) ha dei lodge nei vari parchi nazionali

del paese. Tra questi c’è anche il lussuoso ecoresort Onkoshi camp all’interno del parco nazionale Etosha. Il prezzo parte da 328 euro a persona al giorno, in pensione completa, compresa l’entrata al parco e

le escursioni guidate. La stessa formula in un lodge per due al Desert rhino camp (wilderness-safaris.com) costa 387 euro al giorno. L’Etosha safari lodge & camp ha 65 bungalow. Una doppia costa 164 euro al giorno in b&b.◆ Leggere Gabr’Aoun Robo, Savana. La Namibia

raccontata da una guida, Efatà 2009, 19,50 euro.◆ La prossima settimana Viaggio in Giordania. Ci siete stati e avete suggerimenti su tarife, posti dove mangiare o dormire, libri? Scrivete a [email protected].

Informazioni praticheL’animale si alza in piedi e fa qualche pas-so. Ha l’aria contrariata, e francamente non posso dargli torto. Adesso le sue orec-chie mulinano all’impazzata. “Gli hanno dato questo nome perché non carica mai”, prova a tranquillizzarci Kapoi. Intanto, pe-rò, sta avanzando con decisione verso di noi. “Dobbiamo metterci dietro questo ce-spuglio”, dice Kapoi. Mentre indietreggia-mo sento il cuore battere a mille. Don’t worry è alto quanto me e ha un corno aila-to come un coltello. “Dobbiamo arretrare ancora”, dice Kapoi, armato solo di un ba-stone. Smetto di respirare. Don’t worry non si muove più. Si gira per regalarci qual-che scatto di proilo (rivedendoli, mi accor-go che i miei sono tutti sfocati) e ritorna indolente verso il suo giaciglio.

Al nostro ritorno al campo, Marco ci

Un gruppo di orici nel deserto del Namib

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Viaggi

racconta di aver visto un leopardo e due ghepardi nel letto di un iume ormai secco. Non gli crediamo inché non ci fa vedere le foto. E dire che c’è chi aferma che in Na-mibia si vedono pochi animali.

L’Etosha, il più grande parco naturale del paese, si attraversa in auto, come il Kru-ger in Sudafrica, ma è meno afollato. Da una parte si vede il bianco delle saline, dall’altra le pozze d’acqua nascoste tra la boscaglia di acacie e mopane. Nel parco si possono ammirare girafe, cuccioli di gnu, kudu e ogni genere di uccelli predatori ap-pollaiati sui rami secchi. Non riusciamo quasi a credere ai nostri occhi quando avvi-stiamo due ghepardi che attraversano la strada principale del parco. Li seguiamo con l’auto mentre una giovane gazzella viene trascinato via dalla madre. I ghepar-di camminano lungo la salina mettendosi in posa perfetta per una foto.

L’Onkoshi, un nuovo lodge di proprietà dello stato, che ricorda i villaggi di bunga-low sull’acqua delle Maldive, è l’unico che si afaccia sulle saline. La nostra stanza è grande come un ranch ed è circondata da una veranda, per poter osservare i fenicot-

teri che arrivano qui a riprodursi. Le guide dell’Onkoshi sono molto preparate e han-no una particolare predilezione per gli uc-celli. E questa zona al conine orientale del parco è popolata come una voliera. Quan-do faccio notare che non abbiamo ancora visto un elefante, Victor ci porta a una poz-za, dove tre mamme e due piccoli si fanno strada lungo il terreno pietroso.

Dall’Etosha ci spostiamo a sud verso i monti Otavi, pieni di vegetazione. Ci fer-miamo a Mundulea, una riserva naturale privata. Il proprietario è Bruno Nebe, che ha lavorato come fotogiornalista in Europa ed è tornato in Namibia nel 1990, dopo l’indipendenza. Ha comprato Mundulea da un allevatore di bestiame tedesco nel 2002. Ha abbattuto le recinzioni interne, creando un enorme rifugio naturale. “Ho aspettato sei mesi prima di vedere il primo animale selvatico”, racconta Bruno.

Adesso nella riserva naturale ci sono più di duemila capi di selvaggina: rinoce-ronti, leopardi e il raro impala dalla faccia nera. Ma non è facile ricreare l’ecosistema che c’era ino a un paio di secoli fa. “Ho ac-

quistato sessanta gazzelle da una riserva di caccia e nel giro di sei mesi i ghepardi ne hanno uccise 43”, racconta Bruno. “Non erano abbastanza furbe. Fortunatamente quelle sopravvissute si sono riprodotte ve-locemente e adesso sono di nuovo 58. I più giovani hanno imparato a guardarsi dai ghepardi, dai leopardi e dalle iene”.

È una storia avvincente, che dimostra la passione di Bruno per la conservazione della fauna. Bruno, zoologo e genetista quasi completamente autodidatta, riesce a spiegare ai profani gli aspetti più complica-ti della scienza. Discute delle varie specie di erba come un giardiniere parlerebbe di rose. Come molte delle migliori guide, ha una passione per gli uccelli.

Le uova nel nido A Mundulea ci sono 240 specie tra le più colorate dell’Africa. Osserviamo una cop-pia di granatini che cercano di distrarre una femmina di cuculo giacobino. “Il cu-culo vuole deporre le uova nel loro nido, ma le sue uova si aprono un giorno prima di quelle del granatino e le ali dei nuovi na-ti rischierebbero di buttare fuori quelle del granatino”, spiega Bruno. Sono spettacoli come questo a rendere incantevole il bush africano.

Il campo di Mundulea è un’opera d’ar-te. Una staccionata costruita con i rami caduti dagli alberi circonda quattro grandi tende. Faccio la doccia osservando il rito di corteggiamento di due pigliamosche del paradiso. Durante la cena all’ombra di un tendone, Bruno ci spiega i danni provocati dalla caccia: sparare agli zibellini rari e alle antilopi roane per collezionarne le corna abbassa la qualità del pool genico, perché elimina i maschi alfa prima che abbiano la possibilità di proliicare a suicienza.

Il governo namibiano ha aidato a Bru-no la cura di sei rinoceronti, tra cui Hooker, ultimo esemplare della sottospecie cho-biensis, che è stata bandita dall’Etosha perché attacca le auto.

“Speriamo che monti tutte le femmine e poi anche le iglie, così forse potremo sal-vare la sottospecie. Non vorrei ritrovarmi un giorno a leggere ai miei nipoti un libro sui leoni, i rinoceronti o gli elefanti sapen-do che non li vedranno mai allo stato bra-do”, dice Bruno.

Su questo siamo tutti d’accordo, ma so-no pochi quelli che fanno qualcosa a ri-guardo. Bruno è una rarità, un uomo che si è dato una missione quasi impossibile. Non posso fare altro che dargli tutti i dollari che mi sono rimasti per aiutarlo a occuparsi della progenie di Hooker. u fas

Increduli vediamo due ghepardi che attraversano la strada principale del parco

A tavola

u Dal 1884 al 1914 il territorio dell’attuale Namibia (con l’ecce-zione dell’enclave britannica di Walvis bay, sull’oceano Atlanti-co) è stato una colonia tedesca con il nome di Africa del Sud Ovest. Questi trent’anni di domi-nio coloniale hanno lasciato trac-cia nella società del giovane pae-se africano, che ha ottenuto l’in-dipendenza dal Sudafrica nel 1990. In Namibia, infatti, vive una piccola comunità che ha con-servato la lingua e le tradizioni tedesche, comprese quelle ga-stronomiche: quindi birra, salsic-ce e carni afumicate. Nella città portuale di Swakopmund, per esempio, c’è la Kaiser Werner Willi, un’antica Brauhaus tedesca che ofre boccali di pils e piatti ti-pici. E a proposito di tradizioni tedesche, dopo vent’anni d’as-senza è tornata la versione nami-biana della Oktoberfest, che si è aperta il 23 settembre a Walvis Bay.

Una delle curiosità gastrono-miche del paese, racconta il quo-tidiano in lingua tedesca Allge-meine Zeitung, è una particola-re variante del tartufo che cresce sotto le sabbie del deserto del Ka-lahari vicino ad alcuni tipi di al-beri e arbusti. Venduto in molti supermercati del paese al prezzo medio di 50-70 dollari namibiani al chilo (tra i cinque e i sette euro, una cifra proibitiva per gli stan-dard di vita locali), il tartufo del deserto è anche la base di diversi piatti della cucina namibiana. Da Gathemann, nella capitale Wind-hoek, è possibile mangiarlo ta-gliato a fettine sottili, accompa-gnato da fagioli coltivati nel nord del paese, e condito con l’olio estratto dai noccioli del Nara, una pianta endemica del deserto del Kalahari. Oppure come ripie-no degli avocado, arricchito da besciamella e burro.

Birra e tartuinel deserto

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Graphic journalism Cartoline dal Giappone

Il Giappone è un grande paese salutista con molti ultracentenari.Il Giappone è un grande paese salutista con molti ultracentenari.

In tv molti spot sono rivolti agli anziani. I rimedi naturali e gli integratori per mantenersi in salutesono tantissimi.

L’altro giorno una notizia sconvolgente ha fatto tremare il paese.

L’altro giorno una notizia sconvolgente ha fatto tremare il paese.

Una famiglia ha nascosto tra le montagne il cadavere di un anziano continuando per decenni a ritirare la sua pensione.

E non si tratta di un caso isolato.E non si tratta di un caso isolato.

Le autorità hanno scoperto che decine di ultracentenari sono scomparsi nello stesso modo.

Le autorità hanno scoperto che decine di ultracentenari sono scomparsi nello stesso modo.

Mio padre è uscito di casa più di trentAanni fa e se ne sono perse le tracce.

Alcuni anziani scomparsi sono stati rintracciati, ma di altri è stato ritrovato solo lo scheletro. Alcuni anziani scomparsi sono stati rintracciati, ma di altri è stato ritrovato solo lo scheletro.

La maggior parte dei casi non è ancora chiarita. Le indagini sono in corso.

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A proposito di longevità, il signor Shigechiyo Izumi è morto qualche anno fa a 120 anni.

Dopo la morte di Izumi, il signor A eradiventato il più anziano del paese, ma lerecenti indagini hanno rivelato che in realtàè morto.

Dopo la morte di Izumi, il signor A eradiventato il più anziano del paese, ma lerecenti indagini hanno rivelato che in realtàè morto.

E non è finita qui!!

All’anagrafe sono registrate persone che hanno più di 130 anni!!All’anagrafe sono registrate persone che hanno più di 130 anni!!

E continuano a saltarfuori nuovi casi.

Solo nel municipiodi Osaka ci sarebbero5.125 personecon più di 120 anni (fino al 26 agosto 2010).

Solo nel municipiodi Osaka ci sarebbero5.125 persone con più di 120 anni (fino al 26 agosto 2010).

Però, però!!Però, però!!

Man mano che le indagini proseguono si scopre che ci sarebbero personedi 138, 150, 180 e perfino 200 anni.

Man mano che le indagini proseguono si scopre che ci sarebbero personedi 138, 150, 180 e perfino 200 anni.

Le autorità hanno dichiarato che questa situazione è dovuta alla confusione degli anni della guerra e aglierrori fatti durante la digitalizzazionedei dati, ma l’anagrafeè molto imprecisa.

Le autorità hanno dichiarato che questa situazione è dovuta alla confusione degli anni della guerra e aglierrori fatti durante la digitalizzazionedei dati, ma l’anagrafeè molto imprecisa.

Se una persona ha 200 anni, significa che ènata nel 1810, quandoè stato firmato iltrattato di Parigi esono nati Chopine Schumann.

Ahh! Ohh!!

“Che tipodi donna le piace?”

…così abbiamo studiato di nuovo la storia.…così abbiamo studiato di nuovo la storia.

“Mi piacciono le donne più vecchie di me”

Kan Takahama è un’autrice di fumetti giapponese nata ad Amakusa nel 1977. Vive a Kumamoto.

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Cultura

Musica

Tutto è cominciato con una te-lefonata di Barbara Charone, la leggendaria pr di Chicago che si prende cura di Madon-na, Christina Aguilera e altri

vip irraggiungibili: Tim Robbins è a Londra per registrare un album e ha chiesto espres-samente di essere intervistato da Froots. Non ci capita spesso di avere a che fare con una superstar di Hollywood e la notizia che Robbins, a 51 anni, sta lanciando Tim Rob-bins, il suo primo album come cantautore può far pensare (cinicamente ma realisti-camente) al capriccio di un ego esuberante. Bastano pochi minuti di conversazione per spazzare via ogni dubbio.

“Le mie radici afondano nel folk”, dice Tim Robbins con un accento volutamente calcato. “E poi attraverso la musica ho avu-to la fortuna di incontrare persone fanta-stiche. Quando ho fatto il ilm Bob Roberts cercavo un pezzo di chiusura che ispirasse un’idea di purezza, e ho scelto I gotta know delle Sweet Honey in the Rock. Per i diritti ho dovuto contattare la famiglia Guthrie. Ho chiamato Nora, la iglia di Woody, che si è innamorata del ilm. In seguito ho or-ganizzato dei tributi a suo padre e dei con-certi di beneicenza con Billy Bragg, Steve Earle e Tom Morello. Grazie a loro sono entrato in contatto con Pete Seeger e…”.

Robbins è un uomo incredibilmente piacevole, anche se è così alto da metterti a disagio. Ogni tanto scoppia in una risata potente e contagiosa che sembra far tre-mare tutto l’ediicio. Sulla sua strada ha sempre incrociato la musica. È cresciuto nel Greenwich Village negli anni della pro-testa, quando il quartiere era frequentato

da musicisti come Dave Van Ronk, Erik Andersen, Sonny Terry & Brownie Mc-Ghee o Tim Hardin. All’epoca suo padre Gil era un membro degli Highwaymen, che nel 1961 avevano raggiunto la vetta delle classiiche con Michael, un pezzo ricavato dal vecchio spiritual Michael row the boat ashore.

Davanti a casa di Bob Dylan“Non ho mai incontrato Dylan di persona, ma giocavo a palla proprio nel parchetto di McDougal street davanti a casa sua”. Tra i suoi ricordi di quegli anni c’è anche quello del padre che ogni tanto lo trascinava sul palco del Cafè Lena a Saratoga Springs, insieme ai fratelli e alle sorelle, per cantare una canzone.

Mentre la carriera cinematograica de-collava Tim ha continuato a scrivere can-zoni insieme a suo fratello David. Alcuni pezzi, nel 1992, sono initi nella colonna sonora di Bob Roberts. Nel ilm, il primo scritto, diretto e interpretato da Robbins, un politico conservatore, cantante folk, cerca di farsi eleggere al senato.

“C’era l’opportunità di fare un album con la colonna sonora di Bob Roberts, ma non volevo che quelle canzoni fossero ascoltate fuori dal contesto. Mi hanno fatto diverse proposte, ma sembravano poco ge-nuine, legate al mio successo a Hollywood. Vengo da una famiglia di musicisti e per me la musica è una cosa seria, non si può improvvisare”.

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L’attore debutta come cantautore a 51 anni. Ma da sempre ha un rapporto privilegiato con la musica

Le radici folk di Tim RobbinsColin Irwin, Froots, Gran Bretagna

Tim Robbins a Sydney, febbraio 2010

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Non c’è niente di improvvisato né di po­co genuino nell’album Tim Robbins. Ogni brano è legato a qualche esperienza. Time to kill, per esempio, nasce dall’incontro ca­suale in un bar del Colorado con un vetera­no di guerra perseguitato dal rimorso per aver ucciso accidentalmente dei bambini in Iraq. Robbins è stato un aperto opposito­re all’invasione dell’Iraq, e per questo è i­nito nel mirino dell’establishment. “Cer­cano di ridurti al silenzio non appena vuoi dire la tua. Io mi sono espresso contro la guerra ogni volta che hanno chiesto la mia opinione, per questo sono stato tenuto alla larga dalla maggior parte dei programmi tv. Ma più di quello non possono fare, per­ché la loro forza è illusoria. Non hanno il sostegno della gente e hanno creato una falsa immagine di consenso popolare. So­no riusciti a tenere in piedi l’illusione solo attraverso i mezzi d’informazione, talmen­te asserviti da trasmettere ogni falsità pro­pagandistica. Comunque nessuno ha cer­cato di uccidermi o di rinchiudermi in un gulag. La nostra è una società libera. Il pro­blema è se rinunciamo alla nostra libertà di parola”.

Secondo Robbins ogni forma di espres­sione artistica ha un ruolo fondamentale: “L’arte ha il potere di cambiare le persone. Per questo è così temuta. Se riesci a com­muovere puoi essere molto più potente di

qualsiasi politico. Dead man walking ha cambiato il dibattito sulla pena di morte”.

Lightning calls, un tributo a Nelson Mandela, è nata da un pranzo con il presi­dente sudafricano e da una chiacchierata su Catch a ire di Phillip Noyce, ambientato nel Sudafrica dell’apartheid.

Crisi di mezza età

Un paio d’anni fa Robbins ha attraversato quella che deinisce candidamente la sua “crisi di mezza età” (tanto da pensare se­riamente di chiamare il disco Midlife crisis album). In piena crisi inanziaria Robbins aveva buttato un bel po’ di soldi in un ilm da girare in Oregon, poi abbandonato. In più la sua lunga relazione con Susan Saran­don aveva imboccato un binario morto.

“Una sera in Oregon ero sulla soglia del baratro. Mi sono chiesto cosa avrei rim­pianto di più di non aver fatto. Mi sono reso conto di avere questi appunti pieni di testi di canzoni e di accordi ma di essere l’unico a conoscere le melodie. Il giorno dopo so­no tornato a New York, ho aittato uno stu­dio e ho registrato 15 canzoni solo con la mia chitarra. Volevo metterle in salvo in qualche modo. Un paio di mesi più tardi, dopo essermi leccato le ferite, mi è capitato il cd tra le mani, l’ho ascoltato e mi è sem­brato buono. Allora ho chiamato Hal Will­ner, produttore e compositore, che è un mio amico, e gli ho detto: ‘Devi essere sin­cero, dimmi se questa roba è uno schifo’. E lui mi ha risposto: ‘Questo è un album fatto

e inito, e io ho la band perfetta per te’”. Willner pensava al gruppo di musicisti (tra cui la strepitosa Kate St John) messi insie­me per Rogue’s gallery, il bellissimo album di ballate piratesche nato sul set di Pirati dei Caraibi. La band era in tour, in Gran Bretagna, Tim l’ha incontrata a Dublino, e in due giorni liberi tra le date di Gateshead e Londra hanno registrato l’album.

Aggiungete la partecipazione straordi­naria di Joan As Policewoman, le folli cor­de della ghironda, il corno inglese, l’armo­nium, la sega ad arco e il risultato è un al­bum intenso in cui si ritrovano le sugge­stioni di molti degli idoli di Robbins: Tom Waits, Patty Smith, Bruce Springsteen, Leo nard Cohen, Dylan e, naturalmente, Woo dy Guthrie.

L’anno scorso, per il novantesimo com­pleanno di Pete Seger, Tim è salito sul pal­co del Madison square garden insieme al iglio Miles (che ha una sua band, The Tan­gents), Rufus e Martha Wainwright, e le sorelle McGarrigle. Hanno cantato un ver­so per uno di Michael row the boat ashore e il cerchio si è chiuso.

Robbins non lascerà il cinema, ma si dedicherà seriamente anche alla musica e in autunno vorrebbe mettere in ila qualche data dal vivo: “Vediamo come va. Per un po’ potrei suonare dal vivo. Se la gente non mi tira pomodori… Potrei chiedergli di ti­rarmi la lattuga, che è molto meno doloro­sa”. Ed esplode di nuovo nella sua inconte­nibile risata. u nv

Cultura

Musica

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Tim Robbins nel 2007, durante una manifestazione a Washington

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84 Internazionale 866 | 1 ottobre 2010

Cultura

Cinema

Dieci ilm nelle sale italiane giudicati dai critici di tutto il mondo

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the american 11111- - 11111 - - - 11111 - 11111 11111

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Italieni I ilm italiani visti da un corrispondente straniero. Questa settimana gerhard mumelter, del quotidiano austriaco Der Standard.

LA PASSIONE

Di Carlo Mazzacurati. Con Silvio Orlando, Giuseppe Battiston, Cristiana Capotondi, KasiaSmutniak. Italia 2010, 106’ ●●●●●

Tre anni dopo il discusso ilm La giusta distanza, Carlo Maz-zacurati torna al cinema con una commedia grottesca e iro-nica, che prende spunto da un’idea abbastanza scontata: quella del personaggio in pro-fonda crisi, in un vicolo cieco nel lavoro e nella vita. Il prota-gonista è Silvio Orlando, anco-ra una volta nel ruolo di un eterno perdente: qui veste i panni del regista fallito Gianni Dubois, che non riesce nem-meno a scrivere la sceneggia-tura di una banale iction tv. Costretto a precipitarsi nel suo appartamento in un borgo to-scano per far riparare una tu-batura, Dubois è obbligato a dirigere la tradizionale rappre-sentazione del venerdì santo. La comicità del ilm esplode con le prove dello spettacolo: nel ruolo di Gesù c’è il bizzarro meteorologo di una tv locale interpretato da Corrado Guz-zanti e la bella barista polacca in quello di Maria Maddalena, il pregiudicato Ramiro è l’aiuto regista e gli abitanti del paese sono pittoreschi personaggi del Vangelo. Come in molte commedie italiane l’umorismo appare spesso un po’ esaspera-to e sopra le righe, ma il ilm nella sua tragicomicità riesce a commuovere con immagini autenticamente poetiche co-me la croceissione notturna sotto un temporale.

il sublime e il ridicolo s’in-contrano nel programma del festival di sarajevo I ilm più interessanti visti al festival di Sarajevo, che si è svolto negli ultimi giorni di lu-glio, provengono dai Balcani: Romania, Ungheria, Serbia, Turchia e il meglio del cinema bosniaco. È stato magniico, poi, recuperare Francesco, giul-lare di dio di Rossellini, che Bruno Dumont ha inserito nel-la retrospettiva a lui dedicata come un punto di riferimento della sua opera. Purtroppo ac-canto al ilm di Rossellini, quelli di Dumont non fanno una gran igura.

Volendo procedere verso il basso s’incontra il fantasioso Bibliothèque Pascal, dell’un-gherese Szabolcs Hajdu. È la storia di una donna gitana che inisce in un bordello d’alto bordo di Liverpool, dove le prostitute sono costrette a re-citare brani di grandi scrittori

(da Shaw a Shakespeare). L’au-tore sostiene che sia una storia vera, ma ha l’odore del reali-smo magico, una parabola vi-siva che non riesce a incanta-re. Meglio comunque dello sdolcinato Jasmina del serbo Nedzad Begović, capace di strappare qualche lacrima, forse proprio perché banale in modo estenuante. Tra i ilm migliori va segnalato il turco Vavien. Sarà perché gli autori sono i fratelli Taylan, ma que-sta commedia su un uomo os-sessionato da una cantante, un curioso tributo al cinismo, mi ha fatto pensare ai Coen.nick James, sight & sound

Dalla Bosnia Erzegovina

Santi e peccatori

bibliothèque pascal

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Internazionale 866 | 1 ottobre 2010 85

In uscita

UN WEEKEND DA BAMBOCCIONI

Di Dennis Dugan. Con Adam Sandler, Chris Rock, David Spade. Stati Uniti 2010, 145’●●●●●

Quando Adam Sandler, prota-gonista di Un weekend da bam-boccioni, schiafeggia ripetuta-mente Rob Schneider con una banana disidratata, ho provato invidia per il malcapitato. Me-glio essere schiafeggiati con una banana secca che martellati da questa commedia avariata. Sandler e Schneider, insieme a David Spade, Kevin James e Chris Rock, interpretano degli ex compagni di scuola e di una squadra di pallacanestro che si ritrovano al funerale del loro vecchio allenatore e ne approit-tano per una rimpatriata con le rispettive famiglie in riva a un lago del New England. Ogni personaggio ha una caratteristi-ca che dovrebbe servire a movi-mentare la commedia. Schnei-der è un vegan new age con un debole per le donne mature, Ja-mes sofre di problemi urinari (il che la dice lunga sulla debo-lezza della sceneggiatura), Chris Rock è un uomo di casa e così via. Le situazioni e le gag sono assurde e noiose e, alla i-ne, il ilm risulta patetico, alla disperata ricerca di qualche ap-plauso. La sceneggiatura è in-consistente. Sandler, che ne è coautore, si è addirittura di-menticato di dare continuità al personaggio che si è creato. All’inizio è uno spietato mana-ger di Hollywood, ma dopo un

po’ diventa un qualsiasi bravo papà che vuole il meglio per i suoi igli. Per il resto i bamboc-cioni ammiccano alle belle ra-gazze e fanno pipì in piscina mentre noi impariamo che biso-gnerebbe vivere più intensa-mente la propria esistenza pri-ma che il tempo sia scaduto. Un peccato. Perché Adam Sandler (le cui prime e molto più riuscite commedie sono state ingiusta-mente smontate dalla critica) potrebbe essere un ottimo auto-re e attore. Ma ogni volta che si spaventa per l’accoglienza tiepi-da di qualche suo progetto più maturo, come è successo per Funny people, l’anno scorso, si ri-fugia in sentieri molto meno in-sidiosi e meno impegnativi.Kyle Smith, New York Post

THE HORDE

Di Yannick Dahan e Benjamin Rocher. Con Clif Eriq Ebouaney. Francia 2008, 90’●●●●●

Troppo povero di mezzi, troppo cerebrale, l’horror francese non ha mai convinto ino in fondo, incapace di spaventare come i ilm di Hollywood, a diferenza di certi thriller spagnoli o giap-ponesi. Ma ora rinasce qualche barlume di speranza grazie a questa opera prima irmata a quattro mani da Yannick Dahan e Benjamin Rocher, due tren-tenni appassionati di b-movie. L’inizio del ilm fa pensare al peggio con una scena funebre degna di una brutta serie tv po-liziesca. Ma quando gli sbirri si avventurano nelle banlieues pa-rigine infestate di morti viventi, il ilm trova il suo ritmo, tra am-bienti claustrofobici alla Car-penter e parabola sociale alla Romero. Seguendo una delle re-gole d’oro del genere, guardie e ladri sono costretti a fare squa-dra per sfuggire alle orde di can-nibali (molto riuscite le scene di folla) lanciati alle loro calcagna. Con il naso iccato nella polvere per farsi coraggio, gli spacciato-ri di Seine-Saint-Denis e i poli-ziotti corrotti si ritrovano a

scappare dagli sfortunati abi-tanti della città, trasformati in putridi predatori. Gli abusi della polizia diventano uno strumen-to di sopravvivenza: un ilm di denuncia sulle banlieues, rivisto e corretto in chiave horror. In questa accozzaglia di generi e anacronismi Yves Pignot, vete-rano dell’Indocina, con il pigia-ma sporco, la pancia prominen-te e il linguaggio colorito, sem-bra uscito dritto dritto da un ilm di Audiard padre. Con un’ascia insanguinata in più.Jérémie Couston, Télérama

Ancora in sala

INCEPTION

Di Christopher Nolan. Con Leonardo DiCaprio, Cillian Murphy. Stati Uniti 2010, 145’●●●●●

Scritto e diretto da Christopher Nolan, il nuovo beniamino bri-tannico di Hollywood, Inception avrebbe potuto intitolarsi, meno astrattamente, Nei tuoi sogni, vi-sto che Leonardo DiCaprio ef-fettivamente entra nel subcon-scio di un giovane industriale (Cillian Murphy), appositamen-te addormentato durante un vo-lo aereo, per installare al suo in-terno un’idea rivoluzionaria. E avrebbe anche potuto intitolarsi The dream team, visto che la squadra guidata da DiCaprio è proprio questo: un gruppo di in-cursori nei sogni degli altri. Ma sarebbe rimasto comunque una delle follie più cervellotiche del panorama cinematograico. Al di là delle scene di azione, la tra-ma è così complessa che per de-cifrarla completamente serve

un quoziente intellettivo molto alto o la freschezza cerebrale di un bambino. DiCaprio si lancia in un’altra Babele psichica a po-chi mesi da Shutter Island. E lo fa con la solità abilità. Ma la ve-ra star del ilm è Christopher Nolan. O meglio, la sua mente. Non tanto per i continui passag-gi tra sonno e veglia, sogno e re-altà. Ne abbiamo già visti tanti in Nightmare e in molti altri ilm. Ma per la sua fantasia visiva. Nolan ci regala immagini ecce-zionali, dalle strade di Parigi che si ripiegano su loro stesse ai personaggi che camminano sui soitti. Forse proprio qui è il problema del ilm. La materia dei sogni di solito è la realtà. Nei sogni non camminiamo sul sof-itto. Forse con un budget milio-nario a disposizione Nolan ha perso un po’ la bussola. Chissà che avrebbe fatto se avesse avu-to a disposizione un budget più basso, come ai tempi del mera-viglioso Memento.Nigel Andrews, Financial Times

MANGIA PREGA AMA

Di Ryan Murphy. Con Julia Ro-berts. Stati Uniti 2010, 133’●●●●● La scrittrice newyorchese Eliza-beth Gilbert (Julia Roberts) vive un momento di crisi. Scarica marito e amante, e parte in cer-ca di nuove esperienze materiali e spirituali in Italia, in India e a Bali. Il ilm sbrodola per un’eter-nità. A tratti in modo intelligen-te, ma in altri momenti gira a vuoto. Poi, verso la ine, a Bali, Javier Bardem, mal rasato e con un bel paio di occhiaie, arriva con la sua jeep e manda fuori strada la bicicletta di Julia Ro-berts. Il ilm smette di sbandare e si trasforma in una più conven-zionale commedia sentimenta-le. Julia Roberts, in un momento di transizione della sua carriera, cerca di sembrare smarrita, a di-sagio con se stessa. Ma alla ine salta fuori il suo classico sorriso. David Denby, The New Yorker

INCEPTION

Di Christopher Nolan (Stati Uniti, 145’)

SOMEWHERE

Di Sophia Coppola (Stati Uniti, 98’)

BRIGHT STAR

Di Jane Campion(Gran Bretagna/ Australia, 119’)

The horde

I consigli della

redazione

Adam Sandler

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86 Internazionale 866 | 1 ottobre 2010

Cultura

LibriItalieni I libri italiani letti da un corrispondente straniero. Questa settimana Vanja Luksic, del quotidiano belga Le Soir e del settimanale francese L’Express.

MARCO BOBBIO

Il malato immaginato Einaudi, 217 pagine, 18,00 euro●●●●●

“Ogni individuo ha diritto alla cura migliore. Ma qual è la cu-ra migliore?”. Il malato imma-ginato di Marco Bobbio, pri-mario di cardiologia all’ospe-dale di Cuneo, si apre con questo interrogativo. La rispo-sta la troviamo in un libro che tutti i medici dovrebbero leg-gere. Scritto da un medico co-me lo sogniamo, che mette in primo piano la spesso dimen-ticata “componente umana”: “Nelle facoltà di medicina, serve un esame di umanità”, scrive Bobbio, citando un col-lega che quando si è ammala-to, si è accorto con orrore che quello che conta ormai non sono i pazienti. I piccoli di-sturbi ora sono trattati come nuove malattie. Si abbassano sempre di più i livelli conside-rati normali di colesterolo o di zuccheri nel sangue o della pressione arteriosa. I malati sono sempre di più e compra-no sempre più medicinali. La ricerca è condizionata dall’in-dustria farmaceutica, tutto sulla pelle dei pazienti. In una società dove si fa inta che la morte non esiste, “il paziente diventa impaziente” e “il me-dico non riconosce più i suoi limiti”. Purtroppo, si accon-tenta spesso di essere un bra-vo tecnico. “A volte”, scrive Bobbio, “sarebbero più eica-ci dieci minuti dedicati al pa-ziente che la ripetizione di una tac”.

LETIZIA MURATORI

Sole senza nessuno Adelphi, 134 pagine, 16,00 euro

Ancora una scrittrice di valore. Con Rosa Matteucci, Simona Vinci, Michela Murgia e poche altre, Letizia Muratori è ormai una sicura presenza nel nostro panorama letterario, il cui miglior libro è lo sconcertante Il giorno dell’indipendenza, sempre di Adelphi.

Muratori sa come sorprenderci tenendoci sul ilo del rasoio di un’azione apparentemente banale, sottilmente ambigua che

precipita pian piano o all’improvviso verso lidi inattesi e spiazzanti. Sceglie ambientazioni insolite nel passato (il mondo romano della moda negli anni cinquanta delle Fontana e degli Schubert, delle Ava Gardner e delle Audrey Hepburn, dove Emilia, la protagonista, si è formata come modella) e nel presente (quello che ne è un derivato, delle messinscene per turisti esigenti e un po’ cafoni). Nel passato c’è un mistero che incide sulle scombinate esperienze sentimentali di

Emilia, della iglia fotografa e dell’ex marito. Una tragedia non chiara, rimossa e che va ancora rimossa. Con grande abilità, la Muratori precipita dall’apparente e un po’ noiosa banalità del racconto borghese, nel pozzo di una complessità un po’ torbida, certamente dolorosa.

Più “normale” degli altri romanzi, Sole senza nessuno (dove è il sole che sembra essere senza nessuno e non le donne) è però la prova di una raggiunta maestria e di un’ispirazione insolita, mai rassicurante. u

Il libro Gofredo Foi

Un mistero nel passato

Nel bicentenario della sua indipendenza, l’Argentina sarà la protagonista alla ie-ra del libro di Francoforte

Durante la iera del libro di Francoforte (buchmesse.de, frankfurt2010.gov.ar) l’Argen-tina dispiegherà tutta la forza della sua immaginazione. Per l’appuntamento più importan-te del panorama editoriale mondiale, in programma dal 6 al 10 ottobre, dal paese suda-mericano arriveranno 48 case editrici. Il governo di Buenos Aires (che sarà rappresentato dalla presidente Cristina Fer-nández de Kirchner), grazie al suo programma Sur, negli ulti-mi 14 mesi ha sostenuto la tra-duzione in 33 lingue di trecen-to opere di oltre duecento au-tori argentini.

E, a proposito di autori, sa-ranno 55 quelli presenti in Ger-mania, per promuovere le loro opere. Tra questi Martín Ko-han, Alan Pauls, Fabián Casas, Diana Bellessi, Claudia Piñei-ro, Leopoldo Brizuela, Pablo de Santis e Ana María Shua.

Un francobollo commemorati-vo celebrerà inine l’opera di Borges. Anche i fumetti avran-no il loro spazio, in particolare nella mostra Nos tocó hacer reir, già inaugurata a Franco-forte. El País

Dall’Argentina

Invasione a Francoforte

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Francoforte, 2007

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PERCIVAL EVERETTNon Sono Sidney PoitierNutrimenti, 256 pagine, 16,50 euro ●●●●●

Nel suo ultimo meraviglioso ro-manzo Percival Everett ha crea-to un protagonista che vive una sorta di doppia vita. Da una parte è Non Sono Sidney, un bambino con un nome bizzarro e una valanga di soldi che prova a diventare il protagonista della propria vita. Dall’altra è proprio Sidney Poitier, la luccicante (per quanto datata) incarnazio-ne di ciò che – secondo l’idea in-vidiosa e bizzarra nata dalla presunzione culturale e dall’inerzia – può e dovrebbe essere un nero. Everett esplora questa premessa attraverso una successione di situazioni comi-che. Non Sono Sidney è cresciu-to nella casa del magnate dei media Ted Turner, dove ha stu-diato gli inaidabili segreti del controllo della mente. E all’uni-versità instaura una relazione con una ragazza che lo porta nella sua famiglia snob e con-servatrice di Washington quasi come in Indovina chi viene a ce-na?. Il libro è divertente ma è anche una seria meditazione sulle esigenze dell’individuo più che una parodia comica di un’America andata fuori strada. Alla ine Non Sono Sidney forse abbraccerà il suo Sidney inte-riore (o forse esteriore). Ma è chiaro che è lui a dover guarda-re nell’abbagliante rilettore da cui è stato illuminato per tutto il romanzo, voltarsi verso il pub-blico e decidere se inchinarsi.Laird Hunt, The Believer

PETE DEXTER

SpoonerEinaudi, 508 pagine, 21,00 euro

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Pete Dexter scrive libri su uo-mini (mai sulle donne) che sono deiniti dalle loro stesse azioni ma che agiscono senza saper bene perché. Alcuni sono dei ti-pi indubbiamente pericolosi, al-

tri emergono come nobili inno-centi. Spooner racconta la storia di uno di questi sventurati pa-sticcioni che spinti da impulsi casuali, danneggiano involon-tariamente le persone intorno a loro. Ma stavolta c’è una dife-renza: il romanzo è ispirato alla vita dell’autore ed è diicile ca-pire dove iniscono i fatti e dove comincia la inzione. Spooner è un libro colorato, divagante e spesso divertentissimo. Natu-ralmente la strada è dissemina-ta di disastri. Ma fuori c’è il sole e gli uccelli cantano. È un ro-manzo di formazione, ma an-che una sincera dichiarazione d’amore agli spiriti indipenden-ti fatta in un’epoca conformista. La prima metà della storia pre-senta il suo eroe come una spe-cie di idiota diretto al disastro. Nella seconda, però, atterra in quella che sembra essere una soddisfatta e compiaciuta mez-za età. La prima metà è delizio-sa, indisciplinata e a tratti com-movente. La seconda è intrap-polata in un dubbio tono di sen-timentalismo machista. Se c’è un problema nel libro, è che i personaggi non sembrano fatti per sopravvivere: piombano in scena come se fossero carichi di esplosivi e vivono vite brevi e violente. Solo l’eroe Warren Spooner, contro ogni aspettati-va, rimane vivo ino alla ine. Il libro non ha la stessa fortuna.Xan Brooks, The Guardian

DOUGLAS COUPLAND

Generazione AIsbn, 400 pagine, 15,00 euro●●●●●

In un prossimo futuro tutte le api sono estinte. L’agricoltura è in crisi e i iori devono essere impollinati a mano. Poi, cinque anni dopo l’estinzione, cinque persone – negli Stati Uniti, in Sri Lanka, in Canada, in Francia e in Nuova Zelanda – sono punte da api. Ciascuna di loro è prele-vata all’istante, coninata in un laboratorio e sottoposta a mi-riadi di test per scoprire cosa ha

HUGO PAREDERO

I signori col berretto (Minimum fax)

NDUMISIO NGOCOBO

Alcuni dei miei migliori amici sono bianchi (Voland)

TRISTRAM HUNT

La vita rivoluzionaria di Friedrich Engels (Isbn)

MICHEL HOUELLEBECQ

La carta e il territorio Bompiani, 364 pagine, 20,00 euro

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Niente sesso, orge o puttane a Pattaya. Ma il nuovo Houelle-becq, meno spettacolare e con tonalità più dolci dei preceden-ti, rimane comunque visionario e forse più profondo. Una delle tante letture possibili è quella di una visione del mondo abituato alla produzione di tutto, all’af-fermazione del re denaro che al suo passaggio uccide tutti, scrittori compresi. Ma il libro è anche la prova che Houellebecq riiuta di produrre se stesso.

Invece di imitarsi, l’autore cerca di demoltiplicarsi. Perché La carta e il territorio è prima di tutto un formidabile autoritrat-to di Houellebecq scrittore, ar-tista, investigatore, uomo o ca-ne, personaggio solitario che non si aspetta più nulla da un’umanità passata dalla socie-tà dello spettacolo a quella dei consumi. Al di là della sua ap-parizione, l’autore s’incarna an-che in altri personaggi, diventa-ti altrettanti avatar.

Così è Jed Martin, l’artista con il quale comincia il roman-zo e che farà fortuna esponendo prima delle riproduzioni delle carte Michelin della Francia, poi dei quadri di “mestieri”, elementi della catena di produ-zione che culmineranno in Ste-ve Jobs e Bill Gates, protagoni-sti di uno dei suoi quadri. Ma nella prima parte del libro è an-che il poliziotto incaricato dell’inchiesta sulla terribile uc-cisione di Michel Houellebecq, Jasselin, che vive solo con la moglie, senza igli, e che ha do-vuto imparare a guardare in faccia la morte. E poi è anche Houellebecq, scrittore che si è ritirato dal “commercio” degli

Il romanzo

Artista, poliziotto, scrittore

uomini, si è trasferito in Irlanda e poi nella provincia francese, si rimpinza di afettati industriali e beve grandi quantità di vino argentino. Inine è anche Mi-chel, detto Michou, il cane mal-tese della coppia Jasselin, di-ventato sterile a causa di una malattia. Ma è così grave se il sesso, come pensa l’ispettore, è solo “lo scontro brutale per il dominio, per l’eliminazione del rivale e la moltiplicazione ca-suale dei coiti senza alcuna ra-gion d’essere se non quella di assicurare la più ampia difusio-ne dei geni”? Un domanda che per l’autore riguarda anche ogni struttura capitalistica.

È il romanzo di uno scrittore arrivato a maturità, romanzo stoico sullo stato del mondo, la ine di Houellebecq-personag-gio sacriicato, come tutto, sull’altare del denaro. Sono pre-senti l’amore e la poesia, ma co-me cose preziose, fugaci, ei-mere. Questo romanzo labirin-tico, pieno di visioni metaisi-che, non deve essere letto come un documento sulla società, perché è più interessante di qualunque realtà. Nelly Kaprièlan, Les Inrockuptibles

I consigli della

redazione

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Michel Houellebecq

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Cultura

Libriattirato gli insetti. Senza suc-cesso. Una volta rilasciate, le cinque persone – un sarcastico giovane contadino dello Iowa che gira in trattore nudo e dise-gna forme falliche nei campi di grano, una canadese afetta da sindrome di Tourette che lavora in uno studio dentistico, un nerd parigino maniaco dei vi-deogiochi di guerra, un addetto alle televendite sopravvissuto allo tsunami, una ragazza neo-zelandese con strane manie – si riuniscono su un’isola per con-dividere la loro esperienza. Le loro storie esilaranti e bizzarre sono allegorie dello stato del pianeta. L’ultima parte del ro-manzo si trasforma in una spe-cie di thriller, con un bel cattivo all’antica. Coup land è uno dei pochi scrittori che ha capito co-me e quanto stia cambiando al giorno d’oggi il modo in cui vi-viamo e pensiamo, soprattutto a causa della tecnologia. Il libro però non è solo intelligente: è anche afascinante, umano e fondamentalmente ottimistico. Un puro piacere.Brandon Robshaw, The Independent

frédériC pagès

La ilosoia o l’arte di chiu-dere il becco alle donneIl Melangolo, 80 pagine, 8,00 euro ●●●●●La ilosoia è misogina? È l’enigma esplorato qui da Frédéric Pagès, ilosofo e penna temutissima del Canard En-chaîné, noto soprattutto per le sue vere/false interviste. Ap-poggiandosi ancora una volta all’opera orale di Jean-Baptiste Botul, immaginario ilosofo di cui è a un tempo inventore e ar-dente propagatore, Pagès riper-corre la storia della ilosoia e si chiede: dove sono le donne? Da Aspasia, geisha ateniese com-pagna di Pericle, passando per Julie de Lespinasse, ne trova ovunque, ma soprattutto nei boudoir. L’autore si riiuta ma-gnanimamente di concludere che c’è qualche limitazione congenita del cervello femmi-nile: la sua tesi è che la ilosoia sia stata appunto concepita co-me una no sex land, una zona franca del pensiero, un club di ragazzi invecchiati che si riuni-scono per prendere delle misu-

re contro “la Donna”, nome di un’energia sovrumana che fa una paura matta. Aude Lancelin, Le Nouvel Observateur

Jaume Cabré

L’ombra dell’eunucoLa Nuova Frontiera, 442 pagine, 19,00 euro ●●●●●

In due parti e quattro movi-menti, modellati sul Concerto alla memoria di un angelo di Al-ban Berg, questo malinconico romanzo intreccia il destino di due uomini, Miquel Gensana e suo zio Maurici Sicart, eredi di una grande famiglia borghese di Barcellona. Miquel in giovi-nezza è stato antifranchista, ma gliene resta solo il ricordo, come quello della sua passione per una giovane violinista e delle sue ambizioni. Quanto a Maurici, storico e memoriali-sta della famiglia, ha imbro-gliato le carte a modo suo, per disperazione e per vendetta. Tutto questo è raccontato in uno stile che si prende gioco delle convenzioni.Le Monde

pauL CoLLier

Guerre, armi e democrazia Laterza, 248 pagine, 18,00 euro

“In democrazia ci sono due cose importanti: la prima sono i soldi, la seconda non me la ricordo”, diceva alla ine dell’ottocento il consigliere elettorale americano Mark Hanna. Dopo la lettura del nuovo saggio di Paul Collier la battuta rischia di assumere un senso assai più serio e profon-do. La tesi sostenuta da que-sto economista di Oxford spe-cializzato nello studio dell’Africa è che nei paesi con

un reddito annuo inferiore a 2.700 dollari pro capite le ele-zioni non riducono i conlitti e le violenze, ma li alimentano.

Usando le statistiche, nar-rando le vicende degli ultimi decenni e dando conto con passione e onestà del proprio percorso di ricerca, Collier spiega in modo convincente che in questi paesi “la demo-crazia non è né responsabile, né legittima”. Il circolo vizioso in cui si succedono disegua-glianze, corse agli armamenti, colpi di stato e guerre civili è innescato dalla mancanza di

elementi necessari allo svilup-po, come le procedure per controllare l’operato dei poli-tici o la capacità di chi è al po-tere di garantire la sicurezza. Per colmare questi vuoti Col-lier propone un sistema desti-nato a far discutere: un patto in cui i governi dei paesi pove-ri si impegnano a rispettare le regole democratiche e a gesti-re onestamente la spesa pub-blica, mentre la comunità in-ternazionale, in cambio, pro-mette che li difenderà, anche con l’intervento militare, da eventuali colpi di stato. u

Non iction Giuliano Milani

democrazie in via di sviluppo

Cina

yaNg XiaNhui

Le chant des martyrs BallandTra il 1957 e il 1960 quasi tremi-la cittadini cinesi sospettati di ribellione contro il regime co-munista sono stati inviati al campo di rieducazione Jiabian-gou, un campo di lavoro che as-somiglia a un campo di concen-tramento. Solo cinquecento so-no sopravvissuti. Yang Xianhui li ha intervistati.

Cui Zi’eN

Lèvres pêche Gallimard Primo romanzo sull’omoses-sualità pubblicato in Cina. Per aver castrato il iglio con un bi-sturi, un medico violinista omo-sessuale è chiuso in prigione, ossessionato dagli incubi. Cui Zi’en è nato nel 1958, è regista e professore di cinema all’univer-sità di Pechino.

yu JiaN

Un vol GallimardUn lungo poema narrativo che parla di un viaggio simbolico. Sul suo aeroplano, Yu Jian attra-versa lo spazio e il tempo, dialo-gando con l’Himalaya e T.S. Eliot, ripensando alla rivoluzio-ne culturale e al maoismo, pren-dendo in giro i turisti cinesi in visita ad Amsterdam.

bei bei

Mon petit coin de monastère GallimardSotto l’apparenza di un giallo per bambini, questo libretto è in realtà una satira pungente della società cinese moderna, vista da una prospettiva piuttosto in-solita: i gabinetti di un monaste-ro buddista. Bei Bei, il cui vero nome è Lin Lan, è nata nel 1961 nella provincia di Fujian.Maria Sepa T

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Fumetti

Saggezza al margine

DAVID SMALLStitches. Ventinove puntiRizzoli Lizard, 336 pagine, 19,90 euro●●●●●

Una famiglia degli Stati Uniti con una madre iperpresente e un padre piuttosto assente, un iglio – il protagonista – quasi simbolo di purezza, di candore: a tratti pare una maschera da Pierrot. Con il tempo imparerà a sue spese che la famiglia è inta e la purezza è cosa aliena.

Alla sottile dimensione onirica, di straniamento, contribuiscono la tecnica della mezzatinta e la costruzione delle sequenze con inquadrature sempre oblique, dilatate. Il senso di oppressione e cupezza provocato da un puritanesimo ossessivo è messo in opposizione alla leggerezza espressa dal tratto graico e dal montaggio delle tavole, portatore di una luidità narrativa degna di un manga, come dice Françoise Mouly.

In viaggio nella follia celata nel quotidiano, e di converso nella società statunitense, tutti i familiari sono in preda a una maledizione (di cui la malattia del ragazzo pare una metafora) che passa ineluttabilmente da una generazione all’altra.

Paradossalmente, chi è marginale, cioè il protagonista, e i marginali che frequenta, sono gli unici savi, forse gli unici che si possono salvare dal desiderio di punizione e dalla cattiveria inumana che si cela nell’ossessione verso presunti precetti morali e religiosi.

In questa autobiograia il mondo reale assurge a iaba tetra, a mondo dell’assurdo, come dice all’autore (illustratore di libri per bambini) lo psichiatra-coniglio di Alice, tirandolo fuori brutalmente dal mondo dell’infanzia in cui si era rifugiato e salvandolo. L’unico atto d’amore del libro? Francesco Boille

Ricevuti

PAOLO RANDAZZO

L’immagine femminile in ShakespeareTerre Sommerse, 190 pagine, 18,00 euro Desdemona, Giulietta, Ofelia, lady Macbeth. Chi pensa che sui personaggi femminili delle più celebri tragedie di Shakespeare non ci sia più niente da dire, si sbaglia. E poi, perché queste eroine letterarie devono sempre morire?

INGRID BETANCOURT

Non c’è silenzio che non abbia ineRizzoli, 717 pagine, 21,00 euroIngrid Betancourt, rapita dalle Farc nel 2002, racconta la vita ai conini della civiltà e, spesso, oltre quelli dell’orrore. Dove le persone non sono mai quello che sembrano: le compagne di prigionia, i soldati, gli amici, gli aguzzini nascondono ciascuno segreti e traumi.

FRANCIS WHEEN

Karl Marx. Una vita Isbn, 400 pagine, 27,00 euroAttingendo da testimonianze epistolari e da una sterminata bibliograia, Wheen riscostruisce la vita di Marx.

A CURA DI FABRIZIO TONELLO

La costituzione degli Stati UnitiBruno Mondadori, 175 pagine, 16,00 euro Accanto al testo originale, si forniscono una nuova traduzione, un’amplissima introduzione che ne inquadra il percorso storico, il signiicato politico e giuridico e i rapporti con le altre carte costituzionali, un ampio apparato di note e una bibliograia.

SERGIO RAMAZZOTTI

Afghanistan 2.0Leonardo international, 160 pagine, 29,00 euroDieci storie dall’Afghanistan di

oggi raccontate attraverso le foto di Sergio Ramazzotti scattate tra il 2007 e il 2009.

PIETRO CALOGERO, CARLO FUMIAN E MICHELE SARTORI

Terrore rossoLaterza, 230 pagine, 16,00 euroIl periodo dalla ine degli anni sessanta a metà degli anni ottanta durante il quale l’Italia è stata attanagliata dal terrorismo, è ricostruito da tre diversi, ma conluenti, punti di vista.

AUTORI VARI

The coveFeltrinelli, 158 pagine+dvd, 16,90 euro Il documentario di Louie Psihoyos (premio Oscar 2010), un’indagine sull’industria che rende schiavi o uccide ogni anno migliaia di delini. Nel libro approfondimenti sul ilm.

MUHAMMAD YUNUS

Si può fare!Feltrinelli, 253 pagine, 16,00 euro La nuova scommessa di Yunus sta nel pensare un capitalismo diverso, basato su imprese che abbiano per scopo non solo il raggiungimento del proitto ma anche la ricchezza sociale.

GIORGIO MELETTI

Nel paese dei MorattiChiarelettere, 243 pagine, 14,60 euro Gli afari della famiglia Moratti: i dividendi della raineria Saras e della sua quotazione in borsa, le inchieste giudiziarie, le perdite dell’Inter.

GIAN LUPO OSTI

Invecchiare in giardinoPonte alle grazie, 86 pagine, 11,00 euroColtivare la terra, prendersi cura di creature viventi, stare all’aria aperta, fare un lavoro manuale, ascoltare i ritmi delle stagioni, comprendere le esigenze profonde di un iore.

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Cultura

1Perturbazione (feat. Dente) Buongiorno buonafortuna

A Ferrara quest’anno si disim-balla il videoclip dell’ultimo singolo della band torinese: sottratto alla carta da pacchi e al nastro isolante del loro for-midabile album, Del nostro tempo rubato, il loro epico rac-conto di destini incrociati e re-trogusto di benzina delle nove di mattina – va in anteprima, sul megaschermo di piazza Castello e in streaming su in-ternazionale.it alle 22 del 1 ot-tobre. Un risveglio per il pop italiano, un antipasto ferrare-se più leggero della salama da sugo ma farcito di sapori intel-ligenti.

2 Philip Selway The witching hour Prima che il gallo canti,

ecco le ore spiritate del batte-rista dei Radiohead, che ha esiliato dal suo primo album solista, Familial, quasi ogni tipo di battito (a parte qual-che carezza di percussioni in penombra) e si dedica alla vi-ta semplice, alle chitarre acustiche, alle armonie an-siolitiche. Un giusto break dal baccano ermetico d’ordi-nanza; un modo tutto inglese di dire “voglio una vita tranquilla”, una storia sussurrata da seguire, o da sognare. Copertina da incubo, ma la musica è a tratti celestiale.

3 Smoke Fairies Morning bluesUn’alba alternativa, an-

gloamericana, dai delta della Louisiana dove due scolarette vagabonde partite dal Sussex hanno scelto di intrecciare le loro chitarre, ainare i loro ta-lenti, trasformarsi in fatine turchine blues, e farsi apprez-zare da Jack White, il retrò-vi-sionario dei White Stripes che ha battezzato i lavori del loro primo album di viaggio e d’in-canti, Through Low Light And Trees. Una grande raccolta di favole, da una soprannaturale solitudine femminile a due. Dal 19 ottobre il cd; intanto, prima dell’alba, su myspace.com/smokefairies.

MusicaDal vivoGRINDERMAN

Trezzo sull’Adda (Mi), 6 ottobre, liveclub.it; Roma, 7 ottobre, atlanticoroma.it

HAYSEED DIXIE

Treviso, 8 ottobre, newageclub.it; Bologna, 9 ottobre, estragon.it

BRANDoN FlowERS +

REwARD

Milano, 4 ottobre, alcatrazmilano.com; Roma, 5 ottobre, circoloartisti.it

FICtIoN plANE

Milano, 8 ottobre, lacasa139.com

StEvE wINwooD

Milano, 2 ottobre, teatroarcimboldi.it; Roma, 3 ottobre, santacecilia.it

BRANDoN FlowERS

Brescia, 25 settembre, myspace.com/vinile45; Pistoia, 26 settembre, myspace.com/arcapuccini

lovE AMoNGSt RuIN

Torino, 4 ottobre, spazio211.com; Milano, 5 ottobre, magazzinigenerali.it; Roma, 6 ottobre, circoloartisti.it; Bologna, 7 ottobre, locomotivclub.it

MIStERY jEtS

Milano, 6 ottobre, lacasa139.com; Roma, 7 ottobre, circoloartisti.it; Bologna, 8 ottobre, covoclub.com; Roncade (Tv), 9 ottobre, newageclub.it

Dopo i successi da solista, il cantautore svedese José González è tornato alle ra-dici con i Junip

La classica vecchia storia hollywoodiana. Compagni di scuola che formano una band; ce n’è uno di grande talento che però vuole solo essere il frontman della band, il leader indiscusso. Così il talento comincia la carriera da solista e vende milioni di dischi.

Potrebbe essere la storia dei Junip, se non fosse per il fatto che la star in questione, il cantautore svedese José González, e i suoi compagni Tobias Winterkorn ed Elias

Araya non hanno mai smes-so veramente di suonare in-sieme.

Mentre González regi-strava i suoi successi, Araya studiava arte in Finlandia e Winterkorn lavorava part ti-me come insegnante, aspet-tando che il loro amico fosse pronto per realizzare il sogno

di qualche anno prima. Fields è il risultato di questo percor-so. C’è un’energia potente nell’album dei Julip, all’in-crocio tra il krautrock e il country soul, che spesso suo-na non molto diverso dal dance rock mistico di Ian Brown.

Le canzoni sono allo stes-so tempo intense e sorpren-dentemente semplici. I fan storici di González, abituati al suo folk solista da camera da letto, potrebbero restare sorpresi di fronte alle cam-pane e ai ischi caleidoscopi-ci di Fields, ma per tutti gli altri sarà una piacevolissima sorpresa.Andy Fyfe, Q

Dalla Svezia

Ritorno a casa

playlist Pier Andrea Canei

Risvegli perturbati

Jon

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RG

MA

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Grinderman

Junip

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Rock

NO AGE

Everything in between(Sub Pop)●●●●● Questo duo post punk di Los Angeles manca completamente di inezza, ma compensa alla grande con un’innata capacità di comprendere le dinamiche della musica. Molto simile in al-cuni momenti ai Sonic Youth, Everything in between esplora con insistenza la relazione tra immediatezza melodica ed esplosioni di rumori primitivi. Il primo singolo, Glitter, comincia come una My Sharona lo-i per poi essere avviluppato da fram-menti di urla di chitarra, mentre la deliziosa Chem trails si fa stra-da elegantemente prima di esplodere sotto un assolo di chi-tarra. La viscerale Fever drea-ming è bilanciata dalla Deerhun-teresca Common beat e una serie di pezzi strumentali aiutano a dare consistenza a un album che poggia soprattutto sulla relazio-ne profonda tra batteria e chi-tarra. Michael Cragg,

The Guardian

DEERHUNTER

Halcyon digest(4AD)●●●●● Ai Deerhunter non è mai man-cata l’ambizione. Nei tre album precedenti hanno spaziato dal post punk all’ambient allo psych pop, dimostrando una notevole cultura musicale. Halcyon digest segna un netto cambiamento

mi dischi e allo stesso tempo fa-cendo esperienza nel mondo del cinema, della tv e del teatro. Ora questo album di standard blues, al quale hanno partecipato nomi del calibro di B.B. King e Allen Toussaint, potrebbe sembrare una mossa studiata per riacqui-stare credibilità. Ma Lauper si muove con grande padronanza. Su Romance in the dark di Lil Green o su Rolling and tumbling dimostra convinzione e caratte-re. E nei momenti di diicoltà le dà man forte una band straordi-naria.Neil Spencer, The Observer

Hip-hop

SOWETO KINCH

The new emancipation(Kinch Recordings)●●●●● Il sassofonista e rapper britanni-co Soweto Kinch è un ottimo ar-tista, con un’invidiabile gamma di riferimenti sociali e intellet-tuali, da Duke Ellington a Mad-lib e Delius, ino ai canti di lavo-ro e al blues delle origini. Ma questo terzo album va cataloga-to ancora una volta nella catego-ria “promettente”, perché non manda un messaggio musicale davvero convincente. Gli ele-menti hip-hop sono troppo fra-gili, il rap è ancora troppo acer-bo e l’estetica da socialismo rea-le troppo semplicistica. C’è co-munque una grande canzone, la delicata ballata d’amore Help, che dimostra le sue grandi po-tenzialità.Phil Johnson, The Independent

World Music

MOUSSU T E LEI JOVENTS

Putan de cançon(Le Chant du Monde)●●●●● Moussu T e lei Jovents possie-dono uno dei suoni più distintivi della roots music. La loro è una sorta di combinazione sganghe-rata di cultura occitana e inlu-enze blues, caraibiche e africa-ne. A volte il mix tende a essere un po’ troppo sgangherato (so-prattutto nelle esibizioni dal vi-vo), e anche se i tre album arri-vati dopo il debutto del 2005 avevano tutti molto da ofrire, la band non ha più toccato le vette del primo disco, Mademoiselle Marseille. In Putan de cançon la band ha cercato di alzare il tiro, con un approccio più serio. E l’efetto inale è tutto sommato positivo. Jamie Renton, Froots

Classica

KRZYSZTOF PENDERECKI

Penderecki: Concerto per violino n. 1, Concerto per corno Winterreise.Robert Kabara, violino: Radovan Vlatkovic, corno. Sinfonietta Cracovia, direttore: Krzysztof Penderecki (Channel classics)●●●●● Ecco un disco veramente ma-gniico. Il primo concerto per violino di Penderecki (1977) è un lavoro imponente che evoca la grande tradizione romantica senza limitarsi a un’imitazione. È uno dei pezzi con i quali il compositore polacco ha abban-donato l’avanguardia: musica cupa, profondamente intensa e quasi compattamente tragica, ma ricca di melodia. L’autore ne ha lasciato molte altre regi-strazioni, ma questa è superio-re. Il concerto per corno (2008) ha una grazia lirica sorprenden-te: è semplicemente il più gran-de concerto per questo stru-mento dell’ultimo secolo. David Hurwitz, ClassicsToday

d’approccio, più lineare e spar-tano. Nei suoi momenti più fru-gali ricorda l’intimità e sponta-neità di dischi come Tonight’s the night di Neil Young o I am the co-smos di Chris Bell. I fan potreb-bero sentire la mancanza del consueto clamore di chitarre elettriche, ma la vasta gamma di strumenti – chitarre acustiche, percussioni elettroniche, banjo, armonica e sassofono – crea in-initi abissi di complessità e sfu-mature da esplorare in cuia.Marc Hogan, Pitchforkmedia

Pop

BEN FOLDS E NICK HORNBY

Lonely avenue(Nonesuch)●●●●● Il semplice annuncio della colla-borazione tra due artisti talen-tuosi e brillanti come Ben Folds e Nick Hornby, con il primo a comporre le musiche e il secon-do a occuparsi dei testi, deve aver mandato in ibrillazione un bel po’ di appassionati. L’album non delude le attese. L’intesa è tale che i testi potrebbero benis-simo essere opera di Folds, ed è evidente che il musicista statu-nitense dà il meglio di sé quan-do è sostenuto dalla sensibilità musicale dello scrittore. A wor-king day, con i suoi schizzi di sin-tetizzatore ben posizionati, rac-chiude l’angoscia, l’ispirazione e il disgusto comuni ai due scrit-tori. E Picture window è un vero capolavoro, che mescola deli-ziosamente speranza e malinco-nia. Sarah Rodman, Boston Globe

Blues

CYNDI LAUPER

Memphis blues(Downtown)●●●●● Dai tempi del suo esordio come diva pop, Cyndi Lauper ha con-dotto la sua carriera in modo molto attento, producendo otti-Cyndi Lauper

Soweto Kinch

MY

SPA

CE

MY

SPA

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BEN FOLDS & NICK HORNBY

Lonely avenue (Nonesuch)

Pop/rockScelti da

Luca Sofri

BRIAN WILSON

Brian Wilson reimagines Gershwin(Disney Pearl Series/Emi)

JAMES

The morning after(Mercury)

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92 Internazionale 866 | 1 ottobre 2010

Cultura

l’italia Chiamò

Lunedì 4 ottobre, ore 21.10 Current

Quattro militari italiani che hanno partecipato alle missioni di pace in Bosnia, Kosovo e Iraq cercano un diicile ritorno alla vita civile dopo essersi ammala-ti di tumore operando in zone bombardate con proiettili all’uranio impoverito. Sul sito litaliachiamo.net la versione multimediale dell’inchiesta di Brogioni, Miotto e Scanni.

non dire a mia madre Che…

Lunedì 4 ottobre, ore 21.30 NatGeo Adventure

Il pluripremiato giornalista tele-visivo spagnolo Diego Buñuel (nipote di Luis) ha lavorato co-me corrispondente di guerra dalle zone più calde del pianeta. La serie raccoglie i suoi reporta-ge sulle grandi metropoli.

vanguard

Martedì 5 ottobre, ore 22.10 Current

La giornalista Laura Ling rac-conta in un’intervista la sua de-tenzione in Corea del Nord e il reportage sui profughi nordco-reani al conine con la Cina, che stava realizzando quando fu ar-restata nel marzo 2009.

les éColiers Chinois sous pression

Martedì 5 ottobre, ore 23.25, Arte

Un anno con cinque studenti della prestigiosa Middle School di Chongqing, uno dei licei d’élite cinesi, dove gli allievi so-no impegnati quindici ore al giorno, sei giorni a settimana.

ereCtionman

Mercoledì 6 ottobre, ore 22.40 Arte

Lo sbarco sul mercato di Viagra e simili è stato sostenuto da campagne pseudoscientiiche che hanno fatto breccia nella psiche degli uomini, generando una remunerativa inquietudine, non sempre giustiicata, per le “disfunzioni erettili”.

tv

planetgalata.com La programmazione speciale di Arte dedicata a Istanbul, una delle capitali europee della cultura 2010, si completa online con questo documentario sul ponte Galata, vero microuniverso all’interno della metropoli turca, specchio della sua diversità sociale e culturale. Il racconto tessuto da Florian Thalhofer è pensato per condurre lo spettatore in modo interattivo non lineare, grazie a un software open source chiamato Korsakow (korsakow.org), sviluppato per assistere anche chi non è esperto di informatica nella creazione di web ilm e presentazioni basati su database di unità narrative. In questo caso le persone che vivono e lavorano intorno al ponte sono i protagonisti delle singole unità.

in rete

planète galata

Federico Aldrovandi, 18 anni appena compiuti, nel settem-bre 2005 viene fermato a Fer-rara dalla polizia. Poche ore dopo viene notiicata alla fa-miglia la morte del ragazzo. La vicenda è stata oggetto del processo di primo grado che nel luglio 2009 ha portato alla condanna di quattro agenti. Il documentario di Filippo Ven-

demmiati (realizzato con la collaborazione di Articolo 21) tenta di ricostruire i fatti di quella notte e il destino me-diatico e processuale del caso, che ha visto protagonisti in-stancabili, alla ricerca della verità, i genitori di Federico. Il dvd è pubblicato da Promo Music e accompagnato da un libro-inchiesta.

dvd

“È stato morto un ragazzo”

Segno dei tempi, al New Mu-seum di New York, uno dei luoghi più particolari e corag-giosi per l’arte contemporanea (e in ogni caso uno dei più tur-bolenti), debutta un’esposizio-ne intitolata The last news-paper, l’ultimo quotidiano. L’idea non è quella di cercare una soluzione miracolosa per salvare la stampa quotidiana o di inventare un nuovo tipo di mezzo di informazione, ma di chiedere ad alcuni artisti, la maggior parte dei quali molto famosi (Alighiero Boetti, Sa-

rah Charlesworth, Luciano Fa-bro, Hans Haacke, Emily Jacir, Larry John son, Mike Kelley, Sarah Lucas, Aleksandra Mir, Allen Ruppersberg, Dexter Si-nister, Dash Snow, Rikrit Tira-vanija e Wolfgang Tillmans), di rivolgere la loro attenzione all’evoluzione della stampa e al concetto d’informazione. Con il loro punto di vista, il lo-ro linguaggio, la loro creativi-tà. Tutto questo per interro-garsi, in modo più o meno pro-vocatorio, sull’attuale crisi del-la carta stampata.

L’iniziativa, pur partendo dalla constatazione della scomparsa negli Stati Uniti di molti quotidiani locali e della diicoltà che vivono tutte le grandi testate, ha il merito di non cercare spiegazioni, ma visioni originali. E di porre agli artisti questioni per cui di soli-to ci si rivolge a esperti di eco-nomia. Per tutta la durata del-la mostra, un settimanale di 12 pagine farà il punto della situa-zione. Alla ine questi giornali, riuniti in un unico volume, for-meranno il catalogo. u

Fotograia Christian Caujolle

l’ultimo quotidiano

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You Tube plaY

21 ottobre, youtube.com/playIl 21 ottobre una commissione di 12 membri, tra cui l’artista giapponese Takashi Murakami, selezionerà i venti video inalisti del concorso biennale bandito dalla fondazione Guggenheim e da YouTube. Sul sito si possono vedere tutti i 123 ilmati in concorso. Alcuni sono molto belli, come Yelp, rivisitazione di Howl di Allen Ginsberg. I video inalisti saranno presentati al Guggenheim di New York dalla curatrice del museo Nancy Spector.The New York Times

HarrY CallaHan

Fondation Cartier-Bresson, Parigi, ino al 19 dicembre, henricartierbresson.com

Una mostra consacra il lavoro in bianco e nero di Harry Calla-han, statunitense conosciuto soprattutto per le sue foto citta-dine, anche se, a dire il vero, gli scatti rubati ai passanti non so-no forti quanto quelli di altri fo-tograi di strada. Callahan era famoso per l’adorazione che eb-be per la sua donna Eleanor. Non era troppo bella ma in omaggio al suo corpo Callahan eresse un mausoleo fotograico. Le Monde

20/21 briTisH arT fair

Royal College Art, Hyde Park, Londra, britishartfair.co.uk

Mentre la folla accorreva a Hyde Park per vedere Benedet-to XVI in visita a Londra, il graf-itista Nick Walker era al lavoro con la sua bomboletta spray sul-la parete fronte-parco del Royal College Art che dal 15 al 19 set-tembre è stata la sede della iera di arte britannica moderna e contemporanea. Alcuni hanno giudicato di cattivo gusto il suo ritratto del ponteice con un gat-to bianco sulle ginocchia, ma i mercanti in iera non hanno esi-tato a fare un’oferta per l’opera che è entrata nelle collezioni del Royal College. The Telegraph

TouCHeD

Sedi varie, Liverpool, ino al 28

novembre, www.biennial.com

Da qualche parte alla Biennale di Liverpool c’è una molazza che impasta crema solare alla noce di cocco invece di cemen-to. Mi si è fuso il cervello nel tentativo di placare le domande, la frustrazione e i dubbi che mi hanno accompagnato per tutta la visita dell’esposizione di Li-verpool biennale. Di fronte al modello di Do-Ho Suh di un’abitazione tradizionale co-reana sofocata tra due ediici vittoriani imponenti e sbiaditi, è

suiciente chiedersi se i diso-rientati siamo noi o l’artista. È un conlitto culturale? Non rie-sco a trovare una buona ragione per giustiicare Sachiko Abe in un impeccabile abito bianco che siede tutto il giorno su una piat-taforma sminuzzando foglietti di carta. I frammenti cadono dalla piattaforma e si deposita-no in un delicato cono che li at-tira verso il pavimento. Ma que-sto è niente in confronto al ten-tativo di Antti Laitinen, docu-mentato da un video, di attra-versare il Baltico su una zattera fatta in casa o della videoespe-

rienza del texano Ryan Trecar-tin, raccolta in una trilogia.

Quella di Trecartin è una miscela di storie e immagini in-comprensibili. Blackberry appe-si ai muri, inti annegamenti in piscina, un falso incidente aereo girato in un magazzino, spoglia-rellisti e molti ragazzi dall’iden-tità incerta. Il suo lavoro è il mi-gliore di questa biennale: è pie-no di vita, umorismo e inventi-va. Eppure molte cose, sebbene le intenzioni siano buone, poi vengono a noia. Ma il mondo spesso è noioso.Adrian Searle, The Guardian

liverpool

un mondo molto noioso

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Cultura

arte

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96 Internazionale 866 | 1 ottobre 2010

Se state leggendo questo pezzo e vivete negli Stati Uniti, per noi inglesi signiica che ave-te appena inito una seduta con il vostro strizzacervelli o che state per cominciarne una. Cosa che, per motivi tutti nostri, di-sapproviamo, esattamente come disappro-

viamo la vostra mania di correre a iscrivervi a un pro-gramma di disintossicazione solo perché vi scolate una bottiglia di vodka ogni sera dopo il lavoro e vomitate per strada tornando a casa. “È la vita”, diciamo noi, “af-frontatela e basta” (al che voi probabil-mente risponderete: “Ma la stiamo af-frontando! Per questo ci siamo iscritti al programma!”. E allora noi: “Be’, afron-tatela in modo meno egocentrico”. Che per noi signiica: “Non afrontatela afat-to! Sopportate in silenzio!”. Ma che ne sappiamo, noi? Siamo quasi sempre ubriachi fradici). Di recente ho letto un’intervista con una comica britannica, un’attrice interessante e in gamba, che esprimeva in modo piuttosto eloquente i nostri bizzarri giudizi e pregiudizi sulla cura senza farmaci. “È una cosa che mi lascia molto perplessa. Per me, se devi pagare una persona signiica che a lei di te non gliene importa niente, che non ti ascolta come farebbe qualcuno che ti vuole bene”.

C’è un mucchio di carne al fuoco in questa frase. Trovo curiosa l’idea che se paghi qualcuno, automati-camente lui se ne inischia di te: se c’è una cosa che rim-provero al mio dentista è che di me gliene importa trop-po e non fa che dirmi di non mangiare questo o di non fumare quello. Secondo questa attrice, invece, lui se ne va sghignazzando con i miei soldi. E gli asili, allora? Forse lei non si ida, ma in casa nostra paghiamo efet-tivamente delle persone per amare i nostri igli (ed è l’unico modo per convincerle a farlo). Ma il vero colpo basso viene dopo, con quel “non ti ascolta come fareb-be una persona che ti vuole bene”. Aaargh! Ma dai! Ma è proprio questo il punto! Lamentarsi che gli psicologi non sono degli amici è come lamentarsi perché gli osteo pati non sono degli animali domestici.

Uno dei rapporti descritti in Who is it that can tell me who I am? – l’avvincente, sincera e toccante autobiogra-ia della psicoterapeuta Jane Haynes – è stato fonda-mentale nella vita dell’autrice, una storia d’amore in tutti i sensi tranne quello convenzionale. È il rapporto con il suo psicoanalista, a cui è dedicata la prima metà del libro: lui è morto prima che le loro sedute si fossero

concluse, e il dolore della Haynes è ancora vivo e stra-ziante. Con buona pace di chi crede che il rapporto con un professionista pagato non possa essere reale e im-portante. Nella seconda metà del libro l’autrice descri-ve i problemi e i progressi di alcuni suoi pazienti – perso-ne paralizzate dalla loro storia personale – e neppure un lettore arido e privo d’immaginazione potrebbe dubita-re del valore del processo terapeutico. Le pillole non funzionano per il paziente la cui lunga e dolorosa storia ha prodotto una dipendenza dai siti porno. E non hanno

funzionato con la donna che è stata sal-vata dal suicidio solo grazie al sacchetto di plastica che si era inilata in testa dopo l’overdose (la cameriera che puliva la stanza avrebbe pensato che stava dor-mendo se lei non avesse avuto il volto coperto dal logo dei supermercati Tesco). Come dice Hilary Mantel nella sua bella introduzione, non entriamo da soli nello studio dello psicologo, “ma con i nostri genitori e i nostri nonni, e dietro di loro, a contendersi lo spazio sgomitando, i fan-tasmi ancestrali della nostra tribù. Tutte

queste persone reclamano un posto nella stanza, chie-dono di essere ascoltate. È contro di loro che deve afer-marsi la nostra voce, piccola e chiara, per poterci riap-propriare della nostra storia”. In un passaggio virtuosi-stico, Mantel descrive le forme che possono assumere queste narrazioni: “Per alcuni di noi sono immagini tre-molanti di un vecchio ilm proiettate su un lenzuolo sgualcito, con i rulli difettosi e il proie zionista ubriaco. Per altri sono eleganti e fasulle come un vecchio nume-ro di ballo, tutto slanci di gambe e falsi sorrisi, e sudore disperato dentro un costume troppo stretto. Per altri ancora sono le chiacchiere di un venditore di auto usa-te. Abbiamo una storia da raccontare, pensiamo. Ma non così, non questa”. Se credete di poter trovare un amico pronto ad ascoltare ora dopo ora, anno dopo an-no, il vostro doloroso e incerto tentativo di riappropriar-vi della vostra storia, allora buona fortuna. Personal-mente, ho amici disposti ad ascoltarmi per dieci minuti mentre faccio la lista dei giocatori di cui l’Arsenal avreb-be bisogno per essere competitivo in campionato: ma dopo tutto, sono inglese. Il mio analista, però, ha sop-portato più sproloqui insulsi e angosciati di quanti po-trebbe sopportarne qualsiasi altro essere umano. E sì, lo pago, ma non abbastanza.

Forse non vi sorprenderà, visto il tenore dell’intro-duzione di Mantel e la natura stessa della psicoterapia,

Psicoterapiacon i libri recuperati

Nick Hornby

NICK HORNBY

è uno scrittore britannico. Il suo ultimo libro è È nata una star? (Guanda 2010). Questa rubrica esce su The Believer con il titolo Stuf I’ve been reading.

Le piccole librerie indipendenti sono quasi scomparse, lasciando il mercato alle grandi catene che preferiscono autobiograie di dive dei reality con seni chirurgicamente ampliicati

Pop

LIBRI LETTI

Who is it that can tell me who I am?Jane Haynes

The birds on the trees Nina Bawden

The driver’s seatMuriel Spark

Gli anni fulgenti di miss Jean BrodieMuriel Spark

A mille miglia da KensingtonMuriel Spark

LIBRI COMPRATI

The lodger ShakespeareCharles Nicholl

The birds on the trees Nina Bawden

The driver’s seatMuriel Spark

Peter PanJ.M. Barrie

Fire from heavenMary Renault

Live from New YorkTom Shales e James Andrew Miller

troppi altri libri di Muriel Sparkper non vergognarmi a fare l’elenco

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Internazionale 866 | 1 ottobre 2010 97

con la sua ricostruzione penosamente lenta dello story-board della nostra vita, ma è anche un libro in cui si par-la molto del valore della letteratura. Anzi, Haynes ripe-te spesso che senza la letteratura troverebbe diicile fare il suo lavoro: autori come Shakespeare e Tolstoj, J.M. Barrie (cita uno straordinario brano di Peter Pan, che per questo compare tra i libri comprati) e Cechov, hanno tutti scavato dei solchi in cui spesso inciampano le nostre narrazioni, in modo utile e illuminante. Quin-di, anche se non avete tempo per Jung e Freud c’è qual-cosa che piacerà ai lettori colti e curiosi di questo gior-nale, e siccome non riesco a immaginarne di altro tipo ecco un libro per voi. Ogni tanto è un po’ enfatico, ma è serio e seriamente intelligente. E l’autrice dà voce an-che ai suoi pazienti: Callum, il giovane schiavo della pornograia, fa un’osservazione casuale ma estrema-mente importante sulla pandemia che internet ha con-tribuito a difondere tra i maschi della sua generazione (Haynes cita la psicoanalista Joan Raphael-Lef, che

dice che il sesso “non è solo un incontro di parti del cor-po o il loro inserimento nel corpo dell’altro, ma un in-contro di carne al servizio della fantasia”. Allora, mi chiedo, cosa signiica il fatto che gli utenti della porno-graia passano tanto tempo a guardare l’inserimento di parti del corpo?). Ora la smetto di parlarne, ma è un li-bro che mi ha colpito molto. Come forse avrete capito.

Nel 1971, all’improvviso il Booker prize ha modiica-to il regolamento: ino ad allora il premio veniva asse-gnato a un’opera di narrativa pubblicata nei dodici me-si precedenti, ma nel 1971 le cose sono cambiate e il premio è andato a un libro di quello stesso anno solare. In altre parole, i romanzi pubblicati nel 1970 sono stati esclusi. Così, qualcuno ha avuto l’idea geniale di creare, per quell’unico anno, il Lost Booker prize. Ecco perché oggi in libreria troviamo un breve elenco di romanzi che magari non sono andati proprio “persi” (dovevano es-sere pubblicati, per qualiicarsi), ma di certo non hanno mai scalato le nostre classiiche di vendita: scommetto

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Pop

che pochi di voi hanno letto The birds on the trees di Nina Bawden, Tumulti di J.G. Farrell, The driver’s seat di Mu­riel Spark o Il vivisezionatore di Patrick White. Io ne ho comprati tre, anche perché è una gioia vedere libri di quarant’anni fa in bella mostra all’ingresso di una gran­de libreria: in questo periodo, quelle inglesi sono dispe­ratamente noiose. Le piccole librerie indipendenti sono quasi del tutto scomparse, lasciando il mercato nelle mani delle grandi catene, che tendono a preferire auto­biograie scritte, o almeno approvate, da dive dei reality con seni chirurgicamente ampliicati, o libri di ricette di chef televisivi. Per essere onesti, neanche le biograie scritte dalle dive dei reality in persona, con un seno del tutto naturale, solleverebbero granché il morale. Do­vendo rappresentare il punto di vista di questa rivista, direi che preferiamo il seno naturale a uno rifatto, ma che il seno, di solito, è tenuto in scarsa considerazione quando si tratta di valutare i meriti letterari.

Birds on the trees di Nina Bawden è quello che qual­che anno dopo è stato deinito un “romanzo hampstea­diano”: da Hampstead, un quartiere benestante di Lon­dra che, nell’immaginazione di alcuni dei nostri critici provinciali più scorbutici, è pieno di gente che lavora nel mondo dell’informazione e commette adulterio. Mia moglie c’è cresciuta, e lavora nel mondo dello spet­tacolo, ma… Forse è meglio se faccio qualche piccola veriica prima di inire la frase, però. Vi farò sapere. Ho il sospetto che nessuno oserebbe più scrivere un ro­manzo hamp steadiano, e anche se la cosa non susciterà troppe proteste – l’adulterio di uno scrittore è poco coin­volgente, dopo tutto – è interessante leggere un primo esempio del genere. The birds on the trees parla di una famiglia borghese di persone che lavorano nel mondo dell’informazione (lei scrive romanzi, lui è giornalista), che entra in crisi soprattutto per i problemi dovuti alla presenza di un iglio con problemi mentali. Ci sono per­sone che bevono parecchio. Si cita Marshall McLuhan, che ormai non compare più tanto spesso nella narrati­va. Ci sono molti personaggi, in questo piccolo libro, tutti legati da rapporti intricati e contorti – a volte sem­bra quasi un manhattan in forma di romanzo – ma per fortuna la Bawden non sente l’esigenza di dire cose de­initive. Non ti dà una sensazione tipo: “Se quest’anno leggi un solo libro, dev’essere questo”. Piuttosto, ti sembra che sia stato scritto in un periodo in cui erava­mo abituati a consumare la narrativa contemporanea, e quindi non c’era bisogno di dire tutto quello che avevi da dire in un solo enorme e autorevole volume.

Nessuno dei libri del Lost Booker prize è molto lungo. Io ho scelto di leggere per primo The driver’s seat di Mu­riel Spark: a) perché non avevo mai letto niente di Muriel Spark, e dal tipo di reputazione di cui gode sape­vo che mi perdevo qualcosa; b) il suo romanzo era così sottile da essere quasi invisibile a occhio nudo. E se guardate la colonna dei libri comprati e dei libri letti questo mese, miei cari giovani scrittori, vedrete che i libri brevi pagano in termini sia artistici sia economici. Se Spark avesse scritto un mattone, probabilmente non l’avrei comprato; se l’avessi comprato, non mi sarei mai deciso a prenderlo in mano; se l’avessi preso in mano

non l’avrei inito; se l’avessi inito l’avrei depennato dal­la mia lista di cose da fare e il mio rapporto con Muriel Spark si sarebbe concluso. Invece ora sto leggendo solo libri suoi. Qual è il punto debole di questo progetto d’impresa? Non c’è.

La mia unica avvertenza è di scrivere romanzi brevi, ma molto, molto belli: è questo il motore di tutta la fac­cenda (se scrivete romanzi brevi brutti, allora è inutile: tanto vale scriverne uno brutto lungo). The driver’s seat, che si colloca in una zona impervia tra Patricia High­smith e il primo Pinter, è una storia inquietante che par­la di una donna che lascia la Gran Bretagna per un’im­precisata città europea, dove è ostinatamente decisa a farsi assassinare. Non saprei dirvi perché la Spark abbia sentito l’esigenza di scrivere un romanzo del genere, ma non c’è bisogno di capire lo slancio creativo per ap­prezzare un’opera d’arte, e la sua gelida stranezza fa parte del suo fascino. A mille miglia da Kensington è ve­nuto dopo ma è ambientato prima, in una pensione londinese i cui residenti si scoprono misteriosamente attratti gli uni verso gli altri quando una di loro, editor di una casa editrice, se la prende con uno scrittore senza talento (lo chiama pisseur de copie, un insulto che viene allegramente e abbondantemente ripetuto per tutto il libro. La Spark adora i tormentoni strani e divertenti). Gli anni fulgenti di miss Jean Brodie è il suo romanzo più famoso, almeno qui da noi, dove il ilm – con Maggie Smith nei panni della volitiva ed eccentrica insegnante di una soisticata scuola per ragazze in Scozia – è uno dei nostri tesori nazionali. Probabilmente è il libro che ho amato meno dei tre, un po’ perché avevo visto il ilm, un po’ perché miss Brodie è un archetipo così ben co­struito che ho avuto l’impressione di avere già incontra­to molte altre sue versioni meno riuscite (i libri impor­tanti sono spesso una delusione, se sono veramente inluenti, perché l’inluenza non garantisce la qualità degli imitatori e la fame dell’originale è già stata par­zialmente saziata da copie scadenti). Ma che scrittrice, la Spark! Caustica, bizzarra, divertente, aforistica, sag­gia, tecnicamente brillante. Non ricordo l’ultima volta che ho letto il libro di uno scrittore famoso che non co­noscevo e mi sono ritrovato a divorare la sua intera ope­ra. E questo mi riporta al tema della bellezza, del fasci­no e dell’eicacia dei libri brevi: A mille miglia da Ken-sington si presenta con la bellezza di 208 pagine, ma gli altri non superano le 150. Volete che le vostre opere sia­no divorate? Fate come Muriel Spark.

Alla ine di Gli anni fulgenti di miss Jean Brodie una delle sue ex allieve, ormai adulta, va a trovarne un’altra e tenta di parlarle del suo matrimonio diicile. “‘Non sono molto brava in questo tipo di problemi’, disse San­dy. Ma Monica non pensava che sarebbe stata di grande aiuto, perché conosceva Sandy da una vita e le persone che conosci da una vita non possono mai essere di gran­de aiuto”. E così siamo tornati al punto di partenza.

Nell’entusiasmante rubrica del mese prossimo de­scriverò un tentativo, non ancora cominciato, di legge­re Il nostro comune amico su un modernissimo disposi­tivo per ebook. È il futuro. Domani, però, probabil­mente starò ancora divorando l’opera di Muriel Spark. u dic

Storie vere“Oggi non leggerò le notizie del giornale radio, ma non è successo veramente niente d’importante. Me ne vado. Grazie e arrivederci”. Pia Beathe Pedersen, giornalista della radio norvegese di stato Nrk, l’ha detto in diretta agli ascoltatori, prima di andarsene dallo studio e dimettersi. Lavorava alla Nrk da diciotto mesi e si occupava della cronaca di Oslo e della contea di Akershus.

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Parco nazionale Kruger, 2006: una riserva creata dall’uomo dove ancora domina – e lo farà sempre – la legge della natura, no-nostante il massiccio intervento umano. È parte della natura sidare la razza umana: anche se sono in cima all’ecosistema, gli

uomini dovranno sempre piegarsi alle sue leggi. Gli es-seri umani possono uccidere gli elefanti dicendo che il parco non può accoglierne di più o possono reintrodur-re animali estinti e aiutare ad allevare quelli che – se-condo termini e condizioni dell’uomo – sono in perico-lo. Ma tra i suoi conini la natura continua a dettare le regole: mammut, il tuo tempo è inito, e non abbiamo più nessun mammut vivente. Tyrannosaurus rex, il tuo dominio sulla Terra è scaduto, e del tyrannosaurus rex ci restano solo fossili. Verrà un giorno in cui la natura di-chiarerà: esseri umani, il tempo del vostro dominio sul-la Terra è scaduto, e noi non ci saremo più. Ah, pensate di trasferirvi su Marte? Ma davvero!

Un branco di facoceri pascola senza sosta nelle di-stese pianeggianti, mamma facocero perennemente in guardia: è disturbata di continuo dal suo stomaco afa-mato ma il pericolo e la morte non sono mai lontani. È consapevole di questo fatto e lo comprende perché così è la natura. Gli avvoltoi si librano in aria: hanno l’incari-co di ripulire la savana dopo che il pericolo e la morte sono passati e gli stomaci sono sazi a suicienza. Han-no l’incarico di ripulire la savana dalle tracce del perico-lo e della morte perché la natura possa prevalere senza lasciare prove dei suoi crimini. Tutto quel che si vede è pura bellezza e non c’è la continua ostentazione del pe-ricolo e della morte. Un cimitero. Una leonessa in cerca di preda: è un’impiegata della natura, assunta per man-tenere l’equilibrio. Anche la leonessa è una creazione della natura, posta al suo servizio nel modo in cui la na-tura vuole essere: attraente. Ma sento della crudeltà nella leonessa. È pericolo e morte. Guardate quei canini creati con un preciso scopo, il suo avanzare silenzioso tra l’erba alta e la rapidità agghiacciante con cui abbatte il suo bersaglio e punta i denti direttamente sull’arteria che dà alla preda – una preda? Be’, alla vittima – l’ossige-no vitale che tiene tutto in vita.

Questo leone è in cerca di preda, ha un branco di piccole bocche da sfamare. Aspettavo, contando gli an-dirivieni di un gruppo di persone che amano la natura nel suo aspetto più crudo e brutale. Loro sono qui per entrare in contatto con la natura nella sua massima espressione, per farne parte perché noi esseri umani siamo animali per natura, niente affatto migliori di qualsiasi altro. Abbiamo semplicemente una mente che ci dice che siamo superiori perché è così – guardatevi intorno – ma siamo ancora, in parole povere, animali, parte integrante della natura.

Le rovine

della natura

Kgebetli Moele

Stavo parlando con questi immigrati clandestini che arrivavano dall’esterno del parco, colti bruscamente fuorigioco, con i loro modi primitivi, dall’era dell’infor-mazione. Vivono questa “esistenza animale” cercando di adattarsi e di vivere nel villaggio globale. E resistono, tutti neri e superstiti. Si può sentire l’odore del loro duro lavoro a un chilometro di distanza, o forse vedono i coc-codrilli nell’acqua e non vogliono rischiare di diventare il loro pasto facendo il bagno. Indossano costosi abiti irmati e hanno cellulari di ultima generazione, quindi non sono del tutto tagliati fuori dal mondo. Odio queste persone, che vadano affanculo loro, il loro cognato Mandela e la loro sorella: li disprezzo. Se fossi il sovrano della giungla starebbero dall’altra parte, la loro parte. Siete scioccati? Fanculo. Da queste parti il leone odia. Disprezza ino a ucciderli il leopardo, il ghepardo e la iena che a loro volta non si amano, anzi si detestano ino al punto di darsi la morte a vicenda: natura. Natura. Pensate alla schiavitù, alla segregazione e al fascismo, oh! Dimenticavo, pensate all’apartheid. No? Si vede che vivete in un mondo ricoperto di zucchero. Maledizione, la natura è così, avvincente e afascinante.

Voi pensate che siccome l’apartheid non esiste più i neri e i bianchi usano lo stesso sedile del water, e i neri possono sposare i bianchi. State ricoprendo la realtà di zucchero e, credetemi, avrà un gusto molto dolce. Ma ascoltate la verità: l’apartheid non ha creato i neri e i bianchi, come non ha creato gli afrikaans e gli zulu. La legge per le zone riservate è stata un provvedimento concreto per mantenere il popolo venda profondamen-te venda, al contrario di quanto sta facendo la democra-zia, che lo sta trasformando in popolo venda anglofono. È come fare in modo che un leone cambi le sue abitudi-ni alimentari e cominci a brucare. All’interno della vo-stra ingegneria sociale, prevalgono il vostro giudizio e la vostra idea della natura.

La preda preferita della leonessa sta pascolando nell’erba alta, guardandosi intorno di continuo, rassi-curata a tratti dal pensiero che la sicurezza è nel nume-ro, ma quelli saranno gli ultimi, dolci ili d’erba che scenderanno lungo la sua gola. Credono che l’erba sia

KGEBETLI MOELE

è uno scrittore sudafricano. Vive a Pretoria. In Italia ha pubblicato Tocca a te

(Epoché 2010). Il titolo originale di questo racconto è Nature of life.

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Pop

felice di essere masticata, calpestata e usata come un cesso? No, è solo che l’erba non ha modo di ribellarsi contro la natura. La preda ha notato la leonessa qualche ora fa mentre era distesa sul suo stomaco afamato e aspettava che una preda si avvicinasse. Rapidamente, come un lampo inaspettato e prima ancora che se ne renda conto, gli artigli hanno atterrato la preda e men-tre la sua vita svanisce le appare evidente che il numero non si traduce in sicurezza. I bianchi erano lì con i loro aggeggi digitali, in attesa come la leonessa, in attesa del momento souvenir, e l’hanno avuto: natura, bellezza, incanto. Ora sono in estasi. È valsa la pena di aspettare, ne saranno testimoni all’iniinito. Hanno aspettato qua-si un’ora solo per catturare quel momento, e adesso che l’hanno in forma digitale è bello oltre ogni dire. Un mo-mento al di là di qualsiasi valore economico. Bello e vero perché è stato – è – naturale.

Le prede preferite di questo leone afamato entrava-no e uscivano dall’ingresso del parco come volevano. Qualcuna si fermava a prendere un souvenir, un ricordo ulteriore del momento in cui hanno camminato nel-la natura e ne sono diventati parte, questo souvenir do-minerà un salotto per essere visto ogni mattina senza sforzo. Mi sono intromesso nella trattativa di uno dei venditori, tanto per tenermi occupato, e ho sfoggiato i miei trucchi. Sono un venditore nato: ho sempre pen-sato che sarei capace di vendere ghiaccio a un eschime-se. Ho piazzato due articoli al 70 per cento in più del prezzo richiesto dal venditore e gli ho perino procurato un lavoro.

“Se non le piacciono gli animali, signore, può darci una foto della sua famiglia e noi possiamo incidere l’im-magine sul legno come abbiamo fatto con questi ani-mali. Possiamo realizzare una miniatura o un oggetto di un metro quadrato o a grandezza naturale, come prefe-risce”. “Come? Che ha detto?”. Donna bianca di merda, non stavo neanche parlando con lei, stavo parlando con suo marito. “È un oggetto che non ha prezzo, signora, quello che pagate è solo il ringraziamento per le mani che hanno eseguito il lavoro, perché il lavoro in se stes-so è inestimabile. È come una fotograia, signora. Lei

paga per la carta fotograica, non per il contenuto del-la foto”. “Quanto costa?”. “Il prezzo dipende dalle di-mensioni. Lei che dimensioni vuole?”. A 17mila, poi scontati a diecimila, ho venduto e loro hanno comprato qualcosa di cui non ero nemmeno sicuro ma che secon-do me lo scultore avrebbe ricavato da qualsiasi pezzo di legno.

17.00: questo leone era ancora disteso in attesa che la sua preda preferita si avvicinasse, ma era più vigile. Da lì a un’ora l’ingresso al mondo naturale sarebbe sta-to chiuso e quelli che non ci pernottavano stavano uscendo. Da due giorni questo leone stava vagando in cerca di preda in quelle zone del villaggio globale e an-sia, fame e adrenalina avevano raggiunto il culmine.

17.43: una Volkswagen Caravelle Exclusive è uscita con aria tronia dalla natura come un bufalo vittorioso che si è assicurato i diritti esclusivi come maschio da monta durante la stagione dell’accoppiamento. Ho avuto il via libera. Il cuore di questo leone ha dato il via libera. “Sibindi uya philisa”, ha sussurrato con voce de-vota perché la preda era vicina. La fame – o la paura del-la fame – è una forza propulsiva imbattibile. Questo leo ne stava attaccando. Il mio cuore l’ha dichiarato di nuovo con quella voce devota. “Sibindi uya philisa”. Quando le labbra si sono mosse per parlare, ho inghiot-tito saliva dolce e ho sorriso. Era come quando uno ve-de una ragazza di cui è innamorato ma non ha una ra-gione logica per amare quella ragazza in particolare. Era quel tipo di via libera. Quella era la mia preda. Ho avviato l’auto e mi sono avvicinato di soppiatto per prenderla alle spalle.

Sul lungo rettilineo – il punto preciso in cui secondo i miei piani avevo la possibilità di colpirli – riuscivo a ve-dere i fari delle auto che si avvicinavano. Quando se ne sono andate, ho corso il rischio. Non riuscivo a vedere se si stavano avvicinando altre auto, ho pensato che se fossero arrivate avrei dovuto rinunciare all’intera fac-cenda, ma non n’è passata nemmeno una. Ho tampo-nato la Caravelle sul lato sinistro obbligando il guidato-re a fermarsi in mezzo alla strada. Ho colpito le luci di emergenza e ho parcheggiato l’auto in modo normale. Poi sono corso da loro come per ofrire il mio aiuto. Il vecchio era ancora sotto shock, come se non si fosse reso conto di cosa era successo. La natura prova avver-sione per i malati e i vecchi. Sembrava un veterano del-la seconda guerra mondiale, l’ho guardato e ho pensato che doveva essere stato un soldato valoroso; era come se avesse visto troppe azioni disumane – natura – e non volesse vederne più. Il motore era ancora acceso, infon-dendo intenzioni e una falsa sensazione di immortalità in chiunque avesse un amore insaziabile per la sua po-tenza. Supplicava, chiedendo a gran voce di percorrere altri chilometri. E questa non è forse la natura animale? Persegui il tuo scopo prima che il tuo tempo sia scaduto e tu ti renda conto che è una macchina.

Il veterano e la moglie parlavano una lingua stranie-ra, avevano le cinture di sicurezza allacciate e sudavano furiosamente, con pessime conseguenze sull’aria inter-na dell’auto. Il tempo era importante in termini di mil-lesimi di secondo. Ho estratto il mitra Z, ho aperto la

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In anni passati, negli Stati Uniti e in Italia alcuni studiosi autorevoli sostennero che la linguistica non ha e non deve avere a che fare con insegnamenti e apprendimenti, con “cose da scuoletta”. A Viterbo invece studiosi europei (anche ita-liani) e americani, riuniti a con-gresso dalla Società di linguistica italiana (dal 21 al 23 settembre), hanno ricordato l’importanza de-gli studi linguistici dedicati a svi-luppi e scacchi degli apprendi-menti poiché questi, pur in varia misura, coinvolgono sempre il lin-

guaggio. In efetti in alcuni mo-menti nodali del secolo passato è stata mobilitata proprio la corpo-razione dei linguisti operanti nei diversi paesi. Per tradurre in real-tà, attraverso le scuole, progetti di afermazione dei diritti umani e di emancipazione.

Così in Urss negli anni venti, così durante la seconda guerra mondiale in Usa, poi nel mondo, per iniziativa dell’Unesco, quindi di nuovo in Usa dagli anni cin-quanta e in Europa dagli anni no-vanta i linguisti sono stati coinvolti

in grandi imprese di produzione di strumenti linguistici e percorsi di alfabetizzazione di massa o di ap-prendimento di lingue grandi e piccole: langues de civilisation di cui promuovere al meglio lo studio nel mondo, lingue meno difuse, spesso prima d’uso solo orale e portate alla scrittura. In condizioni diverse a seconda dei paesi e delle materie di studio, i deicit di lin-guaggio rallentano lo sviluppo sco-lastico e culturale. C’è da fare per la linguistica educativa se i lingui-sti vanno nelle scuole. u

Scuole Tullio De Mauro

Se i linguisti vanno a scuola

portiera e ho colpito l’uomo con l’arma per tre volte. La moglie del veterano era in lacrime, tratteneva le urla ma gridava isicamente; era immersa a occhi chiusi in una conversazione biascicata con Dio Onnipotente. “Mi dispiace, piccola”.Non mi stava ascoltando. Non mi ha sentito.“Piccola, sto parlando con te. Ho detto che mi dispiace e mi dispiace per quello che sto per far-ti”. L’ho scossa mettendole una mano sulla coscia; la sua conversazione con Dio è diventata intensa e lenta-mente sempre più udibile inché sono riuscito a sentirla chiaramente, lingua straniera. “Piccola, tesoro, penso che devi smettere di pregare e cominciare a reagire”. Ma lei ha continuato la sua conversazione a senso unico con il caro dio. Pensava forse che l’antilope pregasse dio quando gli artigli del leone la colpivano? Dio sa tutto quello che accade, pensi che non conosca tutte le perso-ne che sono terrorizzate da peccatori come me e tutti gli altri spiriti e anime che terrorizzano i suoi igli ogni sin-golo giorno che lui crea?

L’antilope cercava di scappare e l’inseguitore dove-va riempire uno stomaco e altri piccoli stomaci – la preda e il predatore sono entrambi creazioni di dio – la brutalità di madre natura. Forse pensavano a que-sto. L’antilope è morta correndo ma i malati-vecchi de-vono pagare il tributo a madre natura. La morte è vita, no? Il mio dio ha sussurrato: “Ukufa kwale inje ndoda, ukuvuka kwale inje ndoda”. E io le ho detto: “Piccola, la morte di un uomo è la vita di un altro”. Ma lei era total-mente assorbita dalla preghiera. L’ho guardata e ho pensato che un tempo doveva esser stata una bella don-na e per la prima volta mi sono sentito triste perché un giorno sui volti delle mie belle mogli appariranno le ru-ghe: non voglio invecchiare con loro. Mi auguro di mo-rire prima di vederle spuntare.

Avevo un motivo per ucciderli? No. Avrei potuto le-garli e abbandonarli sotto il ponte, invece li ho uccisi. Si sono presi ognuno una pallottola in fronte. Gli avvoltoi del nostro mondo la deiniscono “esecuzione”. Perché

li ho uccisi? Vorrei fornire un motivo indiscutibile ma non me ne viene in mente neanche uno, però loro in-tanto sono morti. Questa è la natura degli animali. Questo leone ha sfamato il suo stomaco, sfamato la sua leonessa e i cuccioli per sopravvivere un altro giorno e un’altra notte, ma quando sorgerà il sole saremo di nuo-vo afamati e andremo in cerca di altre prede. Poi ho lasciato i loro resti agli avvoltoi di questa madre-natura-inluenzata-dall’uomo in modo che venissero a svolge-re il loro incarico perché questa è la loro natura: arrivare dopo che il lavoro è stato fatto e mettere insieme i pezzi del puzzle cercando di rintracciare il predatore respon-sabile di quell’atto brutale. Ho ricaricato il mitra Z. L’ho pulito. Z. Omega, la ine dell’alfabeto. Ho ceduto alla voglia di abbandonarlo. Non mi era mai piaciuto. Ha sempre rappresentato il potere della polizia e il potere della polizia mi ha sempre ricordato le sue brutalità du-rante l’apartheid. Non ho mai avuto nessun legame con quell’arma, la usavo solo per il suo scopo. Era troppo grande e troppo pesante ma ha fatto il suo dovere con diligenza come gli uiciali neri della polizia durante l’apartheid. Ho aggiunto un altro tassello del puzzle ri-sparmiandogli la fatica di andare in cerca dell’arma del delitto. Come prima cosa dovevano cercare me, sem-pre che riescano a trovarmi. Quindi c’era bisogno di tutti gli avvoltoi. La soluzione del puzzle era il movente, così ho fornito loro un falso indizio: tutto il dolore che avete causato a mia madre e alla sua famiglia ora è per-donato. Ora la sua anima riposerà in pace perché la fa-miglia è in pace.

Molto tempo dopo ho pensato che quella mossa era stata stupida perché per essere eicace il falso indi-zio doveva essere nella lingua in cui lei stava conversan-do con dio. Ma non c’è problema, so che non penseran-no mai a niente perché in democrazia sono tutti una massa di incompetenti, ruderi dell’apartheid e delle sue brutali politiche di mantenimento dell’ordine pub-blico. u mom

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Scienza e tecnologia

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L’energia della pipì

Quando vado a intervistare qualcu-no di solito mi porto il biglietto da visita e magari l’ultimo numero di New Scientist. Oggi per inter-

vistare il chimico Shanwen Tao, alla Heriot-Watt university di Edimburgo, porterò un contenitore con la mia pipì. Niente di stra-no, per lui l’urina potrebbe fornire energia a fattorie e uici. E ha accettato di usare la mia per mostrarmi come. L’urina non ha certo la stessa eicacia del propellente per razzi, ma quello che le manca in densità energetica lo compensa con la quantità. È uno dei materiali di scarto più abbondanti del pianeta: quasi sette miliardi di persone ne producono più o meno dieci miliardi di litri al giorno. Senza parlare di quella degli animali. Questo iume di scarti pone diver-si problemi e costa caro. Negli Stati Uniti, per esempio, gli impianti per il trattamento delle acque consumano l’1,5 per cento di tutta l’elettricità prodotta nel paese. Quindi non sarebbe male se, invece di consumare energia, l’urina potesse servire a qualcosa.

L’estrazione dell’idrogenoL’idea di sfruttare l’urina è venuta nel 2002 all’ingegnera chimica Gerardine Botte, dell’università dell’Ohio di Athens, durante un dibattito sulle possibili fonti d’idrogeno da usare nelle pile a combustibile. L’idroge-no si può ricavare in grandi quantità dai combustibili fossili, ma è diicile immagaz-zinarlo e distribuirlo. Un’alternativa è rica-varlo dall’acqua, liberando l’idrogeno diret-tamente in una cella a combustibile, ma per compiere questa operazione serve la stessa energia rilasciata dall’idrogeno. La trovata di Botte è quella di usare l’urina al posto dell’acqua. Ogni molecola di urea presente

nell’urina contiene quattro atomi d’idroge-no che hanno un legame molecolare più debole di quello presente nelle molecole d’acqua. Separare questi legami richiede-rebbe quindi meno energia, rendendo più eiciente la produzione dell’idrogeno. L’an-no scorso il team di Botte è riuscito a gene-rare idrogeno dall’urina usando una cella elettrolitica con degli economici elettrodi al nichel da 0,37 volt, molti meno degli 1,23 necessari a scomporre l’acqua.

Un’altra idea consiste nell’usare diretta-mente l’urina come carburante. È quello che pensano Tao e il collega Rong Lan insie-me a John Irvine dell’università di St An-drews, sempre in Gran Bretagna. Dal 2007 il team lavora a una pila a combustibile in grado di produrre elettricità direttamente dall’urina. Per ora il prototipo non riesce ad alimentare neanche una lampadina, ma potenziando la pila e collegandone tante tra loro si dovrebbe riuscire a produrre una quantità utile di energia. Tao spera che, tro-vando il materiale giusto per gli elettrodi, un giorno si possano costruire delle piccole celle a combustibile capaci di ricavare ener-gia direttamente dall’urina. Potrebbero per esempio alimentare radio o telefoni in luo-

Perché buttare qualcosa che potrebbe far funzionare i cellulari o perino un’auto? La strada è lunga, ma alcuni ricercatori pensano che prima o poi l’urina ci tornerà utile

Hazel Muir, New Scientist, Gran Bretagna

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ghi remoti. Un’applicazione su più larga scala potrebbe riguardare gli allevamenti. L’urina dei bovini potrebbe essere usata per generare l’elettricità da usare nelle fattorie, sempre che si riesca a separare l’urina delle mucche dagli altri scarti.

Come per tutte le applicazioni, infatti, serve dell’urina relativamente concentrata. Si esclude così la maggior parte di quella prodotta nelle case, che inisce nella rete fognaria. Quando l’urina raggiunge l’im-pianto di smaltimento non solo è diluita, ma anche contaminata da un cocktail di so-stanze chimiche e di microrganismi. Per Bruce Logan, dell’università della Pennsyl-vania di University park, si potrebbe però produrre elettricità anche partendo dai composti presenti nei liquami, grazie a del-le celle a combustibile microbiche, capaci di scomporre la materia organica contenuta nell’acqua.

Nessuno pensa che l’urina possa essere la risposta ai problemi energetici: “I nostri bisogni sono enormi. Solo negli Stati Uniti si parla di miliardi di megawattora all’an-no”, riconosce Botte. “ma cercare di trovare un’unica soluzione non è la risposta giusta. C’è spazio per molte tecnologie”. u sdf

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IN BREVE

Spazio La sonda Cassini ha in-viato delle nuove foto di Saturno in cui è visibile l’aurora al polo sud del pianeta. Il meccanismo di formazione delle aurore bore-ali e australi di Saturno è lo stes-so di quello terrestre. Le imma-gini, riprese agli infrarossi e co-lorate al computer, dovrebbero fornire informazioni sull’atmo-sfera e sulle sue variazioni. Paleontologia Negli Stati Uniti sono stati trovati due triceratopi fossili. I dinosauri sono vissuti tra i 65 e gli 80 milioni di anni fa. Appartengono a due specie di-verse, ma hanno entrambi dei corni sulla testa: l’Utahceratops gettyi ne ha tre, uno sul naso e due vicino agli occhi, mentre il Kosmoceratops richardsoni, in aggiunta a questi, ha anche una corona di dieci corni in cima alla testa. Secondo PlosOne, queste strutture servivano come richia-mo per il partner.

Anche nella vita quotidiana è possibile osservare gli efetti della relatività. Un gruppo di ricercatori dei National institutes of standards and technology, in Colorado, ha condotto un esperimento per veriicare, su piccola scala, la previsione di Einstein secondo cui gli orologi si muovono più lentamente

quando sono vicini a oggetti molto grandi o, in altre parole, che la forza di gravità modiica lo spazio-tempo. L’efetto da misurare era minimo: si è calcolato che un orologio atomico, posto a un chilometro di altezza sul livello del mare, in un milione di anni emette circa tre battiti di secondo in più rispetto a quello a quota zero. Usando la Terra come oggetto grande, i ricercatori sono riusciti a misurare la variazione di ticchettio di due orologi posti a una diferenza di altezza di 33 centimetri. Per farlo hanno creato degli orologi atomici, contenenti uno ione di alluminio al posto del cesio. I nuovi strumenti sono 40 volte più precisi dei tradizionali e hanno misurato una diferenza di frequenza del ticchettio di quaranta miliardesimi di miliardesimi di secondo. Una volta perfezionati, la loro precisione potrà avere diverse applicazioni, dalla geoisica alle osservazioni satellitari. u

Fisica

Che ore sono?

Science, Stati Uniti

Fumare riduce lo stress?

Smettere di fumare ha i suoi vantaggi: riduce il rischio di cancro e di molte altre malat-tie. Ma milioni di fumatori non riescono a rinunciare all’efet-to calmante di una sigaretta. Gli studi, però, hanno rivelato che accendersi una sigaretta, in realtà, fa aumentare lo stress a lungo termine. Chi è dipendente dal fumo allevia solo lo stress dovuto all’asti-nenza tra una sigaretta e l’al-

tra. In un recente studio, i ri-cercatori della London school of medicine and dentistry hanno esaminato 469 persone che hanno provato a smettere di fumare dopo un ricovero per cardiopatia. I pazienti par-tivano da livelli di stress simili e credevano che fumare li aiu-tasse a rilassarsi. Un anno do-po, il 41 per cento non aveva ri-preso. Analizzando diversi fat-tori, gli scienziati hanno sco-perto che gli ex fumatori mo-stravano “una riduzione signi-

icativamente più alta dello stress percepito” rispetto a chi aveva continuato a fumare. I fumatori provavano spesso una sgradevole inquietudine tra una sigaretta e l’altra, men-tre gli ex, dopo l’astinenza ini-ziale, erano più liberi dal desi-derio di nicotina e avevano quindi eliminato una grande fonte di stress. Conclusioni. L’efetto calmante di una sigaretta è una leggen-da, almeno sul lungo periodo.The New York Times

Davvero? Anahad O’Connor

La sigaretta che non rilassa

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NEUROSCIENZE

Il tocco analgesico Toccarsi dove fa male riduce il dolore. La sensazione di sollievo dipende dall’elaborazione degli stimoli dolorosi e tattili che arri-vano al cervello. Per dimostrarlo due psicologi dello University College London hanno chiesto a dei volontari di immergere l’in-dice e l’anulare in acqua calda e contemporaneamente il medio in quella fredda. Con questa tec-nica – detta thermal grill illusion – il dito medio avverte una sensa-zione (illusoria) di forte calore. Nel 64 per cento dei casi il dolo-re diminuiva se subito dopo i vo-lontari si toccavano il medio con l’altra mano. Ma se il dito veniva toccato da un’altra persona non c’era alcun efetto analgesico. Era indispensabile una coerenza tra stimoli tattili e termici. “Toc-carsi il punto dolorante aiuta il cervello a creare una rappresen-tazione coerente del corpo”, spiega Current Biology.

AMBIENTE

Auto a confronto Un’auto ibrida o a gas naturale rilascia il 25 per cento in meno di CO2 rispetto a una a benzina. Una ricerca svizzera ha confron-tato le emissioni di tre tipi di macchine su strade diverse. Le più pulite sono le ibride in città e quelle a gas in autostrada. In campagna c’è poca diferenza tra ibride e a gas. Quelle a benzi-na rimangono le più inquinanti.

fO

NT

E: E

MP

A

Emissioni di CO2, km/kWh

1,6

1,2

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Ibride Gas naturale Benzina

Città Zone rurali Autostrade

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104 Internazionale 866 | 1 ottobre 2010

Il diario della Terra

46,7°CIllizi,

Algeria

-74,4°CVostok,

Antartide

Nigeria

Zimbabwe

Russia

Colombia

Messico

Haiti

Matthew

Stati Uniti4,9 M

Indonesia6,0 M

NuovaZelanda

3,4 M

Iran6,1 M

Perù3,4 M

Lisa

Malakas

Messico

Da anni il business dei dia-manti ha una pessima fama in termini etici e ambientali, ma quello dell’oro non è da meno. Sono finiti i tempi in cui basta-va setacciare i fiumi per trova-re una pepita, scrive Slate. Oggi per estrarre pochi gram-mi d’oro si scavano enormi mi-niere a cielo aperto e si frantu-mano tonnellate di roccia. È stato calcolato che una sola fe-de produce venti tonnellate di scarti. Spostare una simile quantità di materiale richiede molta energia e inquina le ac-que. L’umidità dell’aria pene-tra infatti nelle rocce che sono state a lungo sepolte nel sotto-suolo, innescando delle rea-zioni chimiche. Vengono così prodotte diverse sostanze tos-siche, che attraverso le acque di scolo delle miniere possono finire nei fiumi.

Inoltre per estrarre l’oro dalla roccia si usa mercurio ad altissime temperature o cianu-ro. In entrambi i casi si devono adottare dei sistemi di abbatti-mento delle sostanze tossiche, ma non sempre viene fatto. Secondo l’agenzia per l’am-biente statunitense, le piccole miniere dei paesi poveri, a cui si deve un quinto della produ-zione aurifera mondiale, sono la prima causa di emissioni di mercurio nel mondo. Al termi-ne della lavorazione rimango-no scorie ricche di arsenico, antimonio e altri contaminan-ti. In futuro saranno disponibi-li due certificazioni per garan-tire la sostenibilità sociale e ambientale dell’oro. Nell’atte-sa si può far ricorso all’oro rici-clato: tra lingotti, monete e gioielli, sono in circolazione oltre centomila tonnellate del prezioso metallo.

I costidell’oro

Ethical living

Cicloni Sedici persone sono morte nel passaggio della tem-pesta tropicale Matthew su Ve-nezuela, Messico, El Salvador e Honduras. u Nell’oceano Atlantico orientale si è formato l’uragano Lisa, il settimo della stagione. u Il tifone Malakas ha siorato la costa est del Giappone.

Terremoti Un sisma di ma-gnitudo 6,1 sulla scala Richter ha colpito il sud dell’Iran, cau-sando un morto e tre feriti. Scosse più lievi sono state regi-strate in Indonesia, in Nuova Zelanda, in Perù e in Alaska. Frane Circa trenta persone sono state uccise da una frana causata dalle forti piogge su una strada nel dipartimento di Antioquia, nel nordovest della Colombia. u Undici persone risultano disperse dopo essere state travolte da una frana nel-la regione di Oaxaca, nel su-dest del Messico.

Inondazioni Nello stato di Jigawa, nel nord della Nigeria, due milioni di persone hanno dovuto lasciare le loro case a causa delle inondazioni provo-cate dalle forti piogge e dalla conseguente apertura di due dighe. Gli allagamenti hanno causato decine di morti.

Tempeste Sei persone sono morte e decine sono rimaste ferite ad Haiti in una tempesta che ha colpito i campi che ospitano i soprav-vissuti del terremoto dello scorso gennaio.

Incendi Un incendio che si è sviluppato vicino al lago Bajkal, nella regione russa della Siberia, ha distrutto settanta ettari di vegetazione.

Epidemie Nelle ultime due settimane un’epidemia di morbillo ha ucciso circa set-tanta bambini in Zimbabwe.

Coccodrilli Circa trecento coccodrilli sono scappati da una fattoria nella regione di Veracruz, nel sudest del Mes-sico, approittando dei danni causati dall’uragano Karl.

Mais Le coltivazioni di mais transgenico, modiicato per produrre la tossina Cry che ha

proprietà insetticida, conta-minano i corsi d’acqua degli Stati Uniti, denuncia Pnas. I ricercatori non sono ancora in grado di stabilire quali possa-no essere i rischi per la salute e per l’ambiente.

Malaria Il Plasmodium falciparum, il microrganismo che provoca la malaria, si è evoluto probabilmente da un parassita dei gorilla. Finora si pensava che la forma umana derivasse da quella degli scimpanzé, scrive Nature.

Aids Secondo un nuovo rapporto di Oms, Unaids e Unicef, nei paesi a basso e medio reddito sono stati fatti molti progressi nel garantire l’accesso alla prevenzione e al trattamento dell’aids. Alla ine del 2009, 5,24 milioni di persone – 1,2 milioni in più del 2008 – prendevano gli antire-trovirali in questi paesi.

L’accesso agli antiretroviraliPersone che hanno accesso ai farmaci nei paesi a basso e medio reddito

Fonti: Oms, Unicef, Unaids 2010

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El Progreso, Honduras

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Internazionale 866 | 1 ottobre 2010 105

u Nell’agosto 2010 il lago Mead ha raggiunto il livello più basso dal 1956. Quest’immagine mo-stra l’estremità orientale del la-go, che si è notevolmente ridot-ta. Il bacino – che fornisce elet-tricità e acqua a Nevada, Arizo-na, California meridionale e Messico settentrionale – si è for-mato con la costruzione della diga di Hoover, negli anni tren-ta. Può contenere l’equivalente dell’intero lusso d’acqua del

iume Colorado in due anni. La capacità massima del bacino è di 35 chilometri cubi. Il livello dell’acqua è salito stabilmente durante gli anni ottanta, arri-vando a 30,4 chilometri cubi nell’agosto del 1985, quando è stata scattata l’immagine in basso. Ad agosto di quest’anno, però, il lago conteneva 12,7 chi-lometri cubi d’acqua, pari al 37 per cento della sua capacità. Il calo è legato a decenni di cresci-

ta della popolazione nel sudo-vest americano e a 12 anni di sic-cità persistente. Negli ultimi an-ni la quantità d’acqua che esce ed evapora dal lago ha superato di gran lunga quella in entrata. Il rifornimento dipende quasi interamente dallo scioglimento della neve sulle Montagne roc-ciose e dall’acqua messa in cir-colazione dalle dighe sul tratto superiore del Colorado.–Michael Carlowicz

Le foto mostrano i cambia-menti avvenuti nella parte orientale del lago Mead, il più grande bacino artiicia-le degli Stati Uniti.

Il pianeta visto dallo spazio

Il lago Mead, negli Stati Uniti

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Fiume Colorado

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Economia e lavoro

La sveglia suona all’una meno ven-ti di notte. Per Olsen indossa una tuta e una felpa con il cappuccio e dà un’occhiata fuori dalla fine-

stra. Sulla spiaggia di Thorupstrand, nel nord dello Jutland, s’intravedono le prime luci dell’alba. Il vento è discontinuo. Da queste parti è diicile trovare un tempo mi-gliore per uscire in mare.

Dal momento che non esiste un porto, è necessario trainare la barca sulla spiaggia usando un cavo, una boa e un argano, e il pescato viene scaricato direttamente sulla sabbia. Sono centinaia d’anni che si lavora così in questo angolo dello Jutland, dove vivono gli ultimi pescatori della costa dane-se. Ed è in questo modo che qui le persone vogliono continuare a lavorare. Ma ora la piccola comunità lotta per sopravvivere. La crisi globale e il crollo del prezzo del pesce

sono stati un duro colpo. La cosa peggiore è stata il fallimento, nell’autunno 2008, della Ebh Bank e dei inanzieri in giacca e cravat-ta custodi del loro destino. È contro di loro che si batte Thorupstrand.

La barca blu raschia il fondo della tetra baia di Jammerbugt e supera il primo banco di sabbia. Per ha 23 anni, è proprietario della sua imbarcazione e pesca da quando aveva sedici anni. È il membro più giovane del consorzio dei pescatori di Thorupstrand, fondato nel 2006 da una ventina di famiglie dopo la privatizzazione della pesca nelle acque danesi, che ha segnato la ine dell’ac-cesso libero al mare. Ai pescatori proprieta-ri di una barca la legge assegna una quota annua di merluzzo e platessa. Gli altri non hanno quote, neanche quelli che avevano lavorato per anni con i proprietari delle bar-che ripartendo equamente il pescato.

La privatizzazione ha fatto arricchire da un giorno all’altro alcune famiglie di Tho-rupstrand, mentre altre hanno perso il dirit-to di pescare. Per garantire il futuro della città, i pescatori hanno fondato un consor-zio. La nuova legge, infatti, permette di ne-goziare i diritti di pesca. Così ogni pescatore ha investito centomila corone (13mila euro) nel consorzio, che ha preso in prestito dalla

Ebh Bank 15 milioni di corone (due milioni di euro) per comprare delle quote da aitta-re ai suoi membri. Così i piccoli pescatori sono riusciti a impedire ai grandi di arrafa-re tutti i diritti, e alcuni giovani come Per Olsen hanno conservato l’accesso al mare con un piccolo investimento. I pescatori hanno comprato quote per 45 milioni di co-rone, dando come garanzia alla banca gli stessi diritti di pesca. Il sistema ha funzio-nato perfettamente ino allo scoppio della crisi finanziaria, che ha fatto abbassare i prezzi del pesce e quindi il valore delle quo-te. A questo si è aggiunto il fallimento della Ebh Bank.

Massa appiccicosaA una trentina di chilometri dalla costa Per chiama il suo collega Kim. Sono le tre e ven-ti ed è il momento di pescare. I due uomini calano le reti, che formano un grande cer-chio nell’acqua. Due ore dopo le raccolgo-no. I primi metri sono coperti da una massa appiccicosa di meduse. Per e Kim indossa-no guanti di gomma per proteggersi, ma è tutto inutile. “Il peggio è quando vanno ne-gli occhi”, dice Kim. Per aveva solo vent’an-ni quando ha comprato la sua barca. All’epoca il prezzo del pesce era alto e sem-brava ragionevole investire nelle quote. Poi è arrivata la crisi. Poco prima del Natale 2008, il consorzio dei pescatori ha ricevuto una lettera dell’agenzia pubblica responsa-bile della liquidazione della Ebh Bank. C’era scritto che le rate del prestito sarebbe-ro aumentate. Un mese più tardi i pescatori sono stati invitati a trovarsi una nuova ban-ca e a ripagare il debito. In caso contrario, l’agenzia avrebbe venduto le loro quote per recuperare il denaro. Il prestito ammontava a 45 milioni di corone, mentre le quote, che in passato avevano raggiunto il valore di 72 milioni di corone, non valevano ormai più di venti milioni. Era impossibile pagare.

Quando Per e Kim raccolgono le reti per la terza volta il sole è caldo. Con 2,5 tonnel-late di platesse la giornata è stata molto fruttuosa. Ma il prezzo all’asta ad Hans-tholm non supera le dieci corone al chilo, e Per deve pagare il carburante, l’aitto delle quote, la lavorazione e l’imballaggio del pe-sce. A Thorupstrand, ormai, non conviene più fare il pescatore. Quando Per è di nuovo a terra dopo sedici ore in mare lo aspetta una riunione al consorzio. Bisogna risolvere i problemi inanziari e garantire il futuro della città. I pescatori hanno ancora due an-ni di tempo. u sv

Avviso di tempestasulle coste danesi

I pescatori della Danimarca lottano per la sopravvivenza. Il calo del prezzo del pesce non permette di rimborsare i debiti contratti con le banche per comprare i diritti di pesca

Hanne Mølby Henriksen, Politiken, Danimarca

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MEDIO ORIENTE

Il polo chimico globale In Medio Oriente crescono gli investimenti nel settore della chimica. I dieci principali pro-getti avviati di recente nell’area valgono 115 miliardi di dollari. La nascita di questo nuovo polo chimico, spiega Le Monde, è dovuta al fatto che i paesi me-diorientali non si accontentano più del ruolo di fornitori di greg-gio e gas, ma vogliono sfruttare le materie prime in attività in-dustriali avanzate. E la petrol-chimica, che entro il 2020 cre-scerà del 9,5 per cento, sembra la scelta più adatta.

IN BREVE

Francia Il governo ha presenta-to la inanziaria del 2011 all’in-segna dell’austerità. Le misure prevedono tagli al bilancio per 40 miliardi di euro. L’obiettivo principale di Parigi è ridurre il deicit pubblico: l’anno prossi-mo dovrebbe passare dal 7,7 al 6 per cento del pil.

Dopo aver deciso il licenziamento di un milione di dipendenti pubblici, Cuba vuole favorire lo sviluppo del settore privato nella speranza che assorba 500mila lavoratori statali in esubero. Secondo El Nuevo Herald, il progetto funzionerà solo se Raúl Castro ridurrà i controlli e le tasse che inora hanno sofocato le attività private, permesse in dagli anni novanta. Oggi a Cuba ci sono 143mila imprenditori privati, ma le autorità respingono il 60 per cento delle richieste di nuove attività commerciali. Un milione di cubani, inoltre, lavora in nero. u

Cuba

L’Avana apre ai privati

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Di nuovo in picchiata Dopo l’aumento del 2,2 per cen-to registrato nel primo trimestre 2010, il pil irlandese è di nuovo in calo: tra l’aprile e il giugno di quest’anno è sceso dell’1,2 per cento. Ora, scrive l’Irish Ti-mes, sono in arrivo nuovi sacri-ici per gli irlandesi: il governo sta preparando una manovra per ridurre il deicit di altri tre miliardi di euro nel 2011. La sta-bilità inanziaria del paese è mi-nacciata anche dalla situazione dell’anglo Irish Bank: il salva-taggio dell’istituto di credito, nazionalizzato nel 2009, po-trebbe costare a Dublino ino a 35 miliardi di euro, circa un quinto del pil nazionale.

GIAPPONE

Fallimento record a Tokyo Il 28 settembre la società di cre-dito al consumo Takefuji ha di-chiarato fallimento. L’azienda non era in grado di liquidare le numerose richieste di rimborso degli interessi pagati in eccesso dai suoi clienti. Una legge del 2006, spiega Business Week, consente ai consumatori di de-nunciare i tassi d’interesse trop-po alti delle società inanziarie. La Takefuji ha un debito di 433 miliardi di yen (3,8 miliardi di euro) e potrebbe essere costret-ta a rimborsarne più di mille. È il più grande fallimento di quest’anno in Giappone, dopo quello della Japan airlines.

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L’Avana, Cuba

Variazione del pil, in percentuale

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Quartotrimestre

2009

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2010

2010

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Il numero Tito Boeri

40 per cento

Il debito pubblico del Brasile è pari al 40 per cento del pil. nell’ultimo decennio il colos-so sudamericano ha fatto grandi progressi ed è uscito in-denne dalla crisi che ha colpito i paesi “avanzati”. Merito sicu-ramente della politica del pre-sidente uscente Luiz Inácio Lula da Silva, che ha governa-to il paese per otto anni.

Come giudicare questa lunga presidenza dal punto di vista delle misure economi-che? Il bilancio è largamente positivo: l’inlazione è stata contenuta, sono state accumu-late riserve valutarie e sono

state realizzate politiche ma-croeconomiche responsabili, seguendo il solco tracciato dalla precedente amministra-zione Cardoso.

Le diferenze rispetto al passato emergono sul lato del-la politica sociale e industriale. Sul primo fronte la principale novità è stata l’introduzione della Bolsa familia, una misu-ra di sostegno al reddito che ha uniicato i cinque sussidi esistenti, uniformando le pro-cedure a livello nazionale ma tenendo conto delle diferenze nella domanda di assistenza e nelle capacità amministrative

a livello locale. Gli efetti di-stributivi di queste misure so-no stati molto positivi: oggi ri-ceve un sussidio il 12 per cento dei cittadini, contro il 5 per cento del 2001. Inoltre la Bolsa familia ha aumentato la fre-quenza scolastica e la regolari-tà delle visite mediche.

Sul piano industriale, Lula ha realizzato una politica am-biziosa, con forti incentivi i-scali per le imprese che svilup-pano innovazioni tecnologi-che. ne abbiamo beneiciato anche noi, visto che la fiat produce ormai più vetture in Brasile che in Italia. u

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Quindi è del tutto normale? E poi andrà via?

Sta scherzando?

Una pelle così grinzosa a causa di un bagno troppo lungo in genere si vede solo negli studi

dei pediatri.

No. Le suggerisco di crescere.

Non ho detto questo. In ogni modo ora le

prescrivo un balsamo che dovrebbe migliorare

un po’ la situazione.

Speriamo. Ma se devo essere sincero… Non ho mai visto niente di simile

in vita mia.

DAVID, SONO COSÌ NERVOSO AL PENSIERO DI FARE COMING OUT

CON I MIEI GENITORI.

VOGLIO DIRE, LI CONOSCI. SPERO SOLO CHE CAPIRANNO.

MAMMA, MAMMA, PAPÀ, MAMMA ROBOT, SECONDO MARITO DI

MAMMA, UOMO DELLE NEVI, PAPÀ, SUPERMAMMA... DEVO DIRVI UNA

COSA... SONO SOLO GAY.

ALEX, ANDRÀ TUTTO BENE.

sono così felice che è tornato l’autunno. odio l’estate. l’estate è un po’ come una ragazza carina che inviti alla tua festa e lei arriva in ritardo, la guardi meglio e vedi un sacco di brufoli, se ne va e scopri che ti sono sparite delle cose, allora la chiami ma il suo telefono è staccato e in più qualcosa ti dice che ti ha attaccato l’herpes.

l’autunno invece è fantastico. è un po’ come quel tipo con cui ti sei fatto un giro quella

volta nella prigionemessicana.

mi rendo conto che le nostre vite sono molto diverse.

non vedol’ora che venga

l’inverno. c’è un mio amico che

verrà a stareda noi per unpo’. ti va un laboratorio

di metanfetaminein casa?

ok, è un po’ rude e non puoi guardarlo dritto negli occhi

sennò ti torce il collo come ha fatto con quella guardia

che voleva prendergli la sigaretta, ma nonostante

tutto sai che in realtà è un bravo ragazzo che dividerà

con te la sua rivista porno e forse, e ripeto forse,

sotto quella faccia tatuata, i denti aguzzi e le cicatrici è

uno innocuo, e potrebbenon essere colpevole

del triplo omicidiodi cui si vanta.

villegas considera la possibilità di sposarsi, benché non sia convinto... per niente convinto.

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Rob Brezsny

L’oroscopo

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VERGINE

Quest’anno ho seminato il mio orto due mesi dopo ri-

spetto al solito e le pianticelle han-no cominciato a germogliare solo il 2 luglio. Ho cercato di farmi per-donare prendendomi instancabil-mente cura di loro. Le ho nutrite e innaiate regolarmente, ho sem-pre strappato via tutte le erbacce e ho cantato per incoraggiarle a cre-scere. A settembre le zucchine era-no in pieno rigoglio, le zucche era-no una meraviglia, i meloni erano inarrestabili e i cetrioli crescevano con abbandono. Segui il mio esempio, Vergine. Forse anche i tuoi piani hanno subìto un ritardo, ma non lasciarti demoralizzare. Sei ancora in tempo a far partire il tuo progetto.

SCORPIONE

Lo sai che non mi piace drammatizzare, ma in que-

sto periodo cruciale della tua vita sono costretto a farlo. Sta’ attento! Non perdere di vista la realtà per-ché sta per arrivare un momento importantissimo per te. Quello che farai nei prossimi giorni condizio-nerà la tua interpretazione degli eventi dell’ultimo anno e deinirà i contorni della tua storia per sem-pre. Ti consiglio la massima inte-grità: preparati bene, agisci tempe-stivamente, prendi le decisioni partendo dalle radici del proble-ma. Afronta i momenti di massi-ma tensione sia con la mente sia con il cuore.

SAGITTARIO

Stai per tornare a casa. Ti stai dirigendo da mesi ver-

so un luogo accogliente e sicuro, e ci sei quasi arrivato. Non sono si-curo di come sia nei dettagli. Forse ti troverai nel posto dove le tue po-tenzialità inalmente si realizze-ranno. Oppure sei pronto a fare pace con il tuo passato e ad accet-tare i membri della tua famiglia per quello che sono. È possibile che tu abbia trovato la tua tribù o la tua comunità ideale, e sia pron-to a far parte di questa speciale miscela di energie. Oppure sei pronto a dedicarti completamente alla missione che ti cambierà la vi-ta, ma di cui inora non hai voluto ascoltare il richiamo.

CAPRICORNO

Di solito sono bravo a indo-vinare le tendenze generali

del fato, ma non a prevedere even-ti speciici. Per esempio, non sono mai riuscito a indovinare i numeri vincenti della lotteria. Ultimamen-te, però, mi è sembrato che le cose stiano cambiando. Sembra che io stia sviluppando un certo talento per i pronostici sportivi. Per esem-pio, ho visto una coppa d’oro che luttuava nell’aria poco prima che Albert Pujols, un Capricorno che gioca per la squadra di baseball dei St. Louis Cardinals, realizzasse un fuori campo. Perciò mi chiedo che cosa signiica il fatto che proprio adesso, mentre sto studiando i tuoi presagi astrali e meditando sul tuo futuro, mi lampeggia davanti l’im-magine di tre coppe d’oro piene di champagne. Sono le due e un quarto di notte e i Cardinals non stanno giocando.

ACQUARIO

Nel Montana c’è un cam-peggio di lusso chiamato

Paws Up dove si può dormire in un letto di piume tra morbide lenzuo-la, in una tenda comoda e riscalda-ta con i quadri alle pareti. E questo nel bel mezzo della natura. Non ti sto suggerendo di andarci, ma ti consiglio vivamente di cercare un’esperienza che ti dia la stessa sensazione di ruvida eleganza e in-domita dolcezza, una situazione che ti permetta di soddisfare il tuo bisogno animalesco di natura sel-vaggia ma anche il tuo desiderio umano di tranquillità e riposo.

PESCI

Quando ti consiglio di recu-perare e riutilizzare vecchi

oggetti, non intendo dire che devi trovare uno scopo per gli elastici rovinati delle tue mutande o per le boccette dei medicinali. Penso so-prattutto a progetti di rigenerazio-ne meno letterali e più poetici, co-me rispolverare vecchi sogni e ri-pararli con pezzi di ricambio più adatti al futuro. Oppure piantare un orto di delizie terrene in ottobre sui resti dei piaceri scartati a luglio e agosto. O ristrutturare un rappor-to esaurito trasformandolo in una relazione stimolante con una nuo-va ragion d’essere.

BILANCIA“Tutte le cose vengono prima sognate”, ha scritto il poe ta francese Gilbert Trolliet. Il ilosofo Gaston Ba-chelard aggiunge: “La rêverie creatrice anima il futuro”.

Il tuo compito per le prossime settimane, Bilancia, è seguire que-ste idee. Evoca nella tua mente immagini che anticipano la vita che vorrai vivere l’anno prossimo. In questo momento hai lo straor dinario potere di generare profezie che si autorealizzano.

COMPITI PER TUTTI

Quale esperienza, positiva per te e non dannosa per gli altri, ti sei sempre negato? Scriviti

l’autorizzazione a viverla.

ARIETE

Fatima Santos, nove anni, ha rivelato al San Francisco

Chronicle la sua opinione sul ilm Toy Story: “Se dovessi fare un ilm del genere, lo farei più divertente. Mr. Potato dovrebbe essere più bufo: gli metterei i bai sulle gam-be, le scarpe sulla testa, le braccia sulla faccia, e al loro posto mette-rei gli occhi”. Nel corso della pros-sima settimana, ti consiglio di pro-vare a pensare in modo assurdo e illuminato come Fatima. Secondo la mia analisi dei presagi astrali, avrai il potere e il dovere di miglio-rare tutte le situazioni in cui ti tro-vi, rendendole meno prevedibili, più allegre e molto più bufe.

TORO

Per un periodo della mia vi-ta ho fatto un chilometro e

mezzo a piedi tutte le mattine per andare a prendere l’autobus. Pas-savo davanti a una casa mezza di-roccata vicino a un terreno incolto. Sul patio c’era un pastore tedesco senza catena, sempre piuttosto nervoso. Dopo aver rischiato varie volte che mi si avvicinasse troppo, ho adottato una tecnica per tenerlo a bada: gli cantavo delle ninnanan-ne o delle ilastrocche per bambi-ni. La sua preferita era I tre topolini ciechi, ma ce n’erano anche altre che lo calmavano a suicienza per lasciarmi passare. Un trucco simile potrebbe funzionare anche per te, Toro. Nei prossimi giorni passerai davanti a persone irritabili, anima-li irrequieti e demoni penosi. Ti consiglio di stemperare la loro energia negativa con un atteggia-mento giocoso. Evita lo scontro.

GEMELLI

Secondo l’antropologo Ro-bin Dunbar è impossibile

avere più di 150 amici. Il cervello umano non è in grado di elaborare tutte le informazioni personali ne-

cessarie per mantenere rapporti con più persone. Ma se esistesse un individuo fenomenale in grado di superare questo limite, sarebbe sicuramente della tribù dei Gemel-li, soprattutto nelle prossime setti-mane. In questo periodo sei parti-colarmente abile nel coltivare rap-porti spumeggianti, rimanere più vicino che mai ai tuoi amici e strin-gere nuove alleanze.

CANCRO

Supponiamo che io sia il re-gista di una recita scolastica

all’aperto, e tu uno studente che fa il provino per una parte. Penso che ti ofrirei il ruolo della grande quercia, che rimane in scena quasi tutto il tempo senza dire una bat-tuta. Accetteresti con entusiasmo la proposta e reciteresti la parte con disinvoltura? Mi rendo conto che, a prima vista, potrebbe sem-brare un ruolo poco importante. Ma come regista spererei di riusci-re a tirar fuori da te la capacità di rimanere ben saldo e radicato. Ti chiederei di creare lo sfondo rassi-curante che permette agli attori in primo piano di esprimersi libera-mente.

LEONE

“Nei periodi di cambia-mento quelli che stanno im-

parando ereditano la Terra”, ha scritto il ilosofo Eric Hofer, “mentre quelli che già sanno si trovano perfettamente equipag-giati per afrontare un mondo che non esiste più”. Non preferiresti essere uno di quelli che stanno imparando piuttosto che uno di quelli che già sanno, Leone? È un buon momento per fare pratica, i ritmi cosmici sono a tuo favore. Il mio consiglio è intensiicare il tuo impegno ad apprendere. Cerca nuove cose da imparare. Pensa bene a quello che vorrai studiare nei prossimi anni.

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114 Internazionale 866 | 1 ottobre 2010

L’ultima

Stati Uniti: iniezione letale a una donna.

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“Il nostro sogno è vivere abbastanza per vedere la ine della ristrutturazione”.Corea del Nord, nascita di un nuovo leader.

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Svizzera, governo a maggioranza femminile. “Chi fa il cafè?”.

“le arti sceniche sono quattro: lirica, teatro, danza e politica”.

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Le regole Smettere di fumare1 prima dell’ultima sigaretta, assicurati di poter contare su sesso e cafè a volontà. 2 “Il fumo uccide” fa paura, ma “Il fumo invecchia la pelle” terrorizza. 3 Sfoga lo stress sugli amici che fumano ancora.4 passare alle canne non risolve il problema, ma lo rende meno spiacevole. 5 Se per smettere di fumarehai bisogno della legge marziale, trasferisciti a New York. [email protected]

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BMW Financial Services: la più avanzata realtà nei servizi nanziari. BMW e . Incontro al vertice della tecnologia. Consumi gamma BMW Serie 5 Touring (dalla motorizzazione 520d alla 535i) ciclo urbano/extraurbano/misto (litri/100km): da 6,2 (6,5)/4,5 (4,6)/5,1 (5,3) a 11,9 (11,9)/6,7 (6,5)/8,6 (8,5). Emissioni CO2 (g/km): da 135 (139) a 201 (197). I valori tra parentesi si riferiscono alle vetture con cambio automatico.

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L’onoriicenza gli è stata conferita nel luglio di quest’anno: il ministro francese della cultura lo

ha nominato Cavaliere dell’ordine delle arti e delle lettere per il suo con-tributo e l’impegno al servizio della cultura. Per Louis-Philippe Dalem-

bert, poeta, scrittore e giornalista na-to nel 1962 a Port-au-Prince, è il rico-noscimento più prestigioso. Nel 1999 aveva ricevuto il premio Radio France Outremer e nel 2008 quello Casa de las Américas. Attualmente vive tra Berlino (dove è titolare di una borsa di studio della Deutscher Akademischer Austausch Dienst) e Parigi.

Dalembert si deinisce un “uomo-tartaruga” perché viaggia instancabil-mente: Gerusalemme, Palestina, Egitto, Giordania, un viaggio nelle Ande e un lungo soggiorno in Italia. La vita itinerante l’ha portato a svilup-

pare il tema del vagabondaggio, cen-trale nei suoi romanzi, ma spera di tornare un giorno nel suo paese, la-sciato nel 1986 per studiare giornali-smo a Parigi.

Si trovava a Port-au-Prince quan-do, il 12 gennaio di quest’anno, il ter-remoto ha devastato l’isola. In quell’occasione ha scritto la testimo-nianza C’era una volta Haiti per Inter-nazionale. Louis-Philippe Dalembert sarà il 2 ottobre al Cinema Apollo insieme a Yanick Lahens e Kettly Mars.

Un haitiano sempre in viaggio, che crea legami tra i luoghi più lontani. E lotta per non far dimenticare la sua terra

Lo scrittore-tartaruga

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Louis-Philippe Dalembert

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Percorsi diversamente abili

u La chiesa di San Paolo si trova a Fer-rara in corso Porta Reno. La chiesa ri-sale al decimo secolo e ben presto ac-canto alla chiesa cominciò a sviluppar-si un convento. Nel 1317 i frati carmeli-tani acquistarono il fabbricato e nel 1330 venne costruito il primo chiostro (o chiostro dei Politici), adiacente al ianco ovest della chiesa, mentre il se-condo chiostro (chiostro della Cisterna o dell’Orologio) risale al 1423.

In seguito a una serie di avveni-menti, tra cui un grave incendio, i due chiostri assunsero l’assetto architetto-nico dal sapore rinascimentale che in gran parte ancora li caratterizza.

Nel 1798, a causa della soppressio-ne degli ordini religiosi durante la Re-pubblica Cisalpina, i frati che vivevano nel convento furono trasferiti e i due chiostri adibiti in gran parte a distacca-mento della guardia nazionale e a car-cere, destinazione che prevalse ino al 1912, quando i detenuti furono trasfe-riti nel nuovo penitenziario di via Pian-gipane.

L’ex convento fu usato in vari modi ino alla seconda guerra mondiale, quando l’ala su via Boccaleone fu in parte rasa al suolo dai bombardamen-ti; nel dopoguerra alcune famiglie ri-maste senza casa occuparono diversi ambienti dell’ex carcere. Furono poi eseguiti alcuni lavori, ma il primo re-stauro vero e proprio risale al 1963-64. Di recente l’amministrazione ha ese-guito importanti opere di recupero e di messa a norma. Attualmente i due chiostri ospitano l’Istituto di studi ri-nascimentali, la circoscrizione Centro cittadino e altri uici pubblici, oltre a essere usati come spazi espositivi.–Francesco Scafuri

Info Al chiostro di San Paolo si trovano la libreria e il cafè del festival. Il chiostro di San Paolo

Memorie di un convento

Un giro in città

PER DIVERSAMENTE ABILI E NON

u Il festival si svolge nel centro storico di Ferrara, che è chiuso al traico. I luoghi dove si svolgono gli incontri sono però raggiungibili a piedi, anche per i diversamente abili. Gli itinerari consigliati sono indicati nella cartina qui a ianco.Per chi arriva a Ferrara in macchina, ci sono alcuni posti auto riservati ai disabili: uno a largo Castello, due a piazza della Repubblica, uno a piazza Savonarola, cinque a piazza Cortevecchia, uno a via Boldini, due a via De Pisis, due a via Amendola, uno a via Romei, uno a piazzetta Verdi, cinque a piazza del Travaglio, cinque a viale Cavour.L’elenco completo dei posti auto è disponibile su tinyurl.com/36crx95u Altri posti sono disponibili nei parcheggi gestiti da Ferrara T.U.A.,con tarife divise in tre fasce (da 1,80 a 0,50 euro all’ora), a seconda della distanza dal centro e della durata della sosta.Info ferraratua.com/it/parcheggi-e-tarife

COME ARRIVARE

Cerchi un passaggio per venire al festival? Hai un posto in più in macchina e vuoi condividerlo? Vuoi ridurre l’inquinamento? Vai alla pagina del festival su RoadSharing. roadsharing.com/it/event/internazionale-a-ferrara

SHOP

Nell’atrio del Cinema Apollo e presso la libreria del festival, nel chiostro di San Paolo, è possibile acquistare le magliette di Mr. Wiggles, realizzate appositamente da Neil Swaab per i lettori di Internazionale. Le t-shirt sono in cotone biologico 100 per cento, prodotte con un basso consumo di carbonio, con il marchio certiicato dal Global Organic Textiles Standard e dalla Fair Wear Foundation. Nello shop di Internazionale sarà anche possibile acquistare le spillette di Mr. Wiggles e i dvd e i libri di Fusi Orari. Info shop.internazionale.it

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u Quest’anno il festival avrà una web tv, che permetterà di seguire alcuni appuntamenti anche a chi non è potu-to andare a Ferrara. Gli incontri che si svolgono nel Teatro Comunale e nel Cinema Apollo saranno trasmessi in diretta sul sito di Internazionale e ri-marranno disponibili in archivio. Molte delle conferenze, inoltre, sa-ranno trasmesse su un maxischermo in piazza Castello.

u La mattina del 1 ottobre è possibile seguire online l’inaugurazione del fe-stival, con la consegna del premio Anna Politkovskaja, e poi l’incontro sull’informazione in Italia. Il pome-riggio è il turno di Argentina e Brasile.

La sera sarà possibile vedere l’inter-vento di Robert Fisk.

u Il 2 ottobre si parlerà di malnutrizio-ne, fumetti, Corea del Nord, indipen-denze africane, nuova destra statuni-tense e scrittori haitiani.

u Il 3 ottobre si chiuderà con il ruolo delle riviste letterarie, i soccorsi ai civi-li nelle emergenze umanitarie, l’islam in Europa, le conseguenze della crisi globale e il giornalismo d’inchiesta.

u La regia e le riprese sono a cura dell’agenzia di comunicazione Kuva.

Info internazionale.it/festival

u Abbiamo chiesto ai protagonisti del festival di segnalare alcuni libri da consigliare ai lettori di Internazionale. I libri saranno disponibili presso la libreria del festival, al chiostro di San Paolo. Ecco i libri consigliati da Tullio De Mauro, che sarà il 2 ottobre alla Biblioteca Ariostea.

LUCA SERIANNI

Prima lezione di grammatica Laterza 2007, 12,00 euro

ALBERTO ASOR ROSA Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali Laterza 2009, 12,00 euro

PIERO CALAMANDREI Per la scuola Sellerio 2008, 10,00 euro

Il festival in diretta tv

Novità Da leggere

Incontri

D a maggio di quest’anno per ogni abbonato nuovo, o che rinnova, Internazio-nale pianta un albero a

Dosso, a sudest della capitale nigerina Niamey, aderendo al progetto Niger Heart. L’obiettivo, promosso dall’ong Tree-Nation, è realizzare nuove pian-tagioni aiancando gli esperti locali di forestazione.

Tree-Nation punta a raggiungere otto milioni di nuovi alberi per com-battere desertiicazione e riscalda-mento globale, ripristinare la fertilità del terreno e creare reddito nei luoghi delle piantagioni. Niger Heart, partito nel giugno del 2007, terminerà nel 2015. Finora le nuove piante sono qua-si 160mila, e dovrebbero diventare

250mila entro la ine dell’anno. Due abbonati sono andati a vedere

come stanno gli alberi di Internazio-nale. “I nostri ciceroni, Abdou Bouka-ry e Djadje Yankori, sono attenti a far-ci vedere più cose possibili. Nel corso della visita incontriamo un ragazzo in-tento a tagliare i rami più bassi degli alberi: la potatura è necessaria perché la pianta possa crescere sfruttando al massimo la stagione delle piogge e va efettuata in questo periodo dell’anno per evitare che il caldo degli altri mesi la danneggi. Incontriamo anche il ca-

po del villaggio dove sorge la pianta-gione che ora è di proprietà del part-ner locale di Tree-Nation. Gli alberi hanno diverse dimensioni e servono a scopi diversi: alcuni sono stati piantati appositamente per arricchire il terre-no e lottare contro la desertiicazione. Altri, come l’arbusto moringa, forni-scono anche foglie e frutti da vendere al mercato”.

È una piccola parte del diario di Luca Colombo, agronomo specializ-zato in agricoltura dei paesi in via di sviluppo, e Valentina Valle Baroz, aspirante giornalista appassionata d’Africa, che hanno trascorso una set-timana tra le acque “limacciose e gial-le” del Niger. Luca e Valentina hanno scritto un diario di viaggio che è stato pubblicato sul sito di Internazionale. A Ferrara racconteranno la loro espe-rienza arricchendola di foto e video.

Internazionale verde è al circolo Arci Zuni venerdì 1 ottobre alle 19.00.

Dai nostri inviati speciali

Da lettori di Internazionale a inviati in Niger. Ecco come va la campagna “Un albero per ogni abbonato”

Kouloumbou, in Niger

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la droga e un’organizzazione tribale non democratica. Erano i problemi che andavano afrontati in un grande sum-mit. Ma dato che l’ordine del giorno aveva una scaletta poco realistica, la conferenza si è concentrata su due questioni meno importanti: il passag-gio di responsabilità al governo afgano e i tempi del ritiro delle truppe interna-zionali dal paese.

Nel suo discorso di chiusura, il pre-sidente Amid Karzai ha afermato che tutti i partecipanti alla conferenza han-no trovato un accordo su questi temi. Ha dichiarato che la comunità interna-zionale si è impegnata a spendere il 50 per cento dei suoi fondi attraverso i ca-nali del governo e a completare il pas-saggio di responsabilità sulla sicurezza entro il 2014, per facilitare il ritiro delle forze Nato.

I partecipanti al vertice sono stati tutti d’accordo su questi due punti, an-che se non c’è nessuna possibilità di metterli in pratica con successo.

In primo luogo, è impossibile spen-dere in modo trasparente il 50 per cen-to dei inanziamenti internazionali passando per i canali governativi. Do-po dieci anni di presenza e di diretta collaborazione di funzionari stranieri, il governo afgano non è ancora in grado di programmare la spesa del suo bud-get annuale. Le statistiche interne indi-cano che nel 2009 la maggior parte dei ministeri non è stata capace di usare i

La Conferenza di Kabul che si è svolta a luglio è stata il più importante vertice interna-zionale organizzato in Af-

ghanistan. Ma, come tutti gli altri in-contri che l’hanno preceduta, non è stata in grado di delineare in modo chiaro il futuro del paese.

Dopo la partenza delle truppe Nato, cosa sarà l’Afghanistan? Sarà un paese democratico o uno stato tribale domi-nato dai signori della guerra e dai trai-canti di droga? Oppure sarà una teocra-zia guidata dai taliban? La conferenza non ha saputo rispondere a questa do-manda fondamentale.

L’unica cosa che abbiamo capito è che sia i leader afgani sia quelli inter-nazionali hanno una visione della crisi in Afghanistan molto stereotipata. E piuttosto limitata.

Dall’incontro di Kabul è emerso chiaramente che i leader stranieri non sono più interessati a questo paese, quindi sono impazienti di trovare un modo qualsiasi per liberarsene. Il verti-ce ha anche dimostrato che, invece di formulare un progetto a lungo termine, i leader afgani stanno solo cercando un sistema per far arrivare i inanziamenti internazionali direttamente nelle cas-se della burocrazia di governo corrotta, cioè nelle loro tasche.

Oggi i principali pericoli per la sta-bilità dell’Afghanistan sono il terrori-smo, il potere dei signori della guerra, la corruzione, la povertà, l’ingiustizia,

Yaqub Ibrahimi ha trent’anni e dal 2007 racconta cosa succede in Afghanistan. A Ferrara riceve il premio Anna Politkovskaja

Chi comanda

a Kabul

fondi disponibili. D’altra parte, secon-do le statistiche internazionali, il go-verno afgano è secondo nella classiica dei paesi più corrotti al mondo, dopo quello somalo. In Afghanistan non si riesce neanche a ottenere una irma da un impiegato statale senza pagare. Con questo sistema non è possibile spende-re gli aiuti in modo trasparente.

Gli errori commessi

In questi anni la comunità internazio-nale ha seguito la strada sbagliata per costruire lo stato afgano. Così ha la-sciato in eredità alla popolazione un governo corrotto. Inoltre ha commesso un grave errore non processando i cri-minali di guerra.

Quando i signori della guerra si so-no sentiti al sicuro, hanno usato il loro denaro, la loro inluenza e la loro forza militare per entrare nel governo. Han-no ricoperto quasi subito le cariche più alte delle istituzioni e assunto il con-trollo delle principali imprese com-merciali, dei progetti di ricostruzione e del traico di eroina.

Oggi i ministeri più importanti sono occupati dai traicanti di droga e dalla maia economica, che gestiscono tutti i progetti di sviluppo e si occupano dei programmi di ricostruzione promossi dalle loro stesse ong. In questa situa-zione è impossibile fare controlli.

La decisione di far spendere metà dei inanziamenti stranieri al governo signiica versare direttamente miliardi di dollari nelle tasche dei signori della guerra e dei traicanti di droga. La co-munità internazionale avrebbe dovuto pensare, invece, a un modo per investi-re quelle risorse incidendo direttamen-te sulla vita quotidiana degli afgani, che per la maggior parte vivono al di

Dopo la partenza delle truppe Nato, cosa sarà l’Afghanistan? Sarà un paese democratico o uno stato tribale?

Yaqub Ibrahimi

iv Internazionale a Ferrara 866 | 1 ottobre 2010

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sotto della soglia di povertà e non han-no percepito nessun cambiamento rea-le. In questo senso, i partecipanti alla conferenza di Kabul hanno commesso due crimini, il primo contro il popolo afgano e il secondo contro i loro soste-nitori.

Durante il summit nessuno ha ac-cennato alla reale situazione del gover-no afgano né ha ricordato che il proble-ma principale da discutere era la pre-senza al suo interno di soggetti che si arricchiscono grazie alla corruzione e all’instabilità. Anzi, un famoso signore della guerra, il maresciallo Qassim Fa-him, primo vicepresidente dell’Afgha-nistan e noto per aver violato i diritti umani, era seduto accanto al segreta-rio di stato statunitense Hillary Clin-ton.

In secondo luogo, il passaggio di re-sponsabilità al governo afgano sul pia-no della sicurezza, è stato presentato in modo ambiguo. Il governo afgano non

è stato in grado di elaborare un pro-gramma chiaro per dimostrare che riu-scirà a controllare “democraticamen-te” l’Afghanistan dopo il ritiro della Na-to.

Lo stato dov’è?

I progetti di Karzai sono vaghi e sem-brano poco eicaci. Per dimostrare che era pronto ad assumersi la responsabi-lità della sicurezza del paese, una setti-mana prima della conferenza il presi-dente ha approvato un programma co-siddetto di “autodifesa”. Si tratterebbe di armare i contadini per combattere contro gli insorti. Questo fa capire chiaramente che lo stato non è in grado di garantire la sicurezza. Anche i sovie-tici prima di ritirarsi dall’Afghanistan rifornirono di armi le milizie tribali per difendere il regime fantoccio di Kabul. Ma queste forze si unirono subito ai ri-belli e deposero il governo centrale.

Limitare le questioni da discutere al

ritiro delle truppe Nato e al trasferi-mento di responsabilità a un governo debole e corrotto, senza deinire nes-suna alternativa, signiica accettare la vittoria dei taliban e dei loro alleati ter-roristi e aiutare il trionfo dei criminali in Afghanistan. I taliban, come i signo-ri della guerra e i traicanti di droga, sono stati soddisfatti da questo vertice, perché ne hanno ricavato alcuni van-taggi.

All’inizio di luglio, il loro portavoce Zabiullah Mujahid ha dichiarato alla stampa: “Siamo noi i vincitori di questa guerra. Gli stranieri stanno lasciando l’Afghanistan, quindi perché dovrem-mo trattare con loro?”. Se prendiamo sul serio la sua dichiarazione, la confe-renza di Kabul non ha fatto altro che ra-tiicare la vittoria dei taliban. u bt

Yaqub Ibrahimi riceve il premio Anna Politkovskaja il 1 ottobre al Cinema Apollo.

Addestramento di nuove reclute della polizia a Uruzgan

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Quando fai vedere i tuoi fumetti alla donna che frequenti, qual è la prima rea-zione?

Alcune sono disgustate, altre inve-ce li amano. È un ottimo test per capire se hanno il senso dell’umorismo. Per fortuna la mia attuale ragazza è una mia fan.

Mr. Wiggles ostacola la tua vita pri-vata?

Certo. Potrei prendermela con la mia paura dell’intimità, con l’incapaci-tà di creare legami, con le mie penose prestazioni sessuali. Ma è più facile da-re la colpa a Mr. Wiggles.

Se non ti fossi dedicato ai fumetti, che avresti fatto?

Qualcosa con cui si guadagna di più. Per esempio i turni di notte in una lavanderia nel deserto dell’Arizona.

Qual è la lettera peggiore che hai rice-vuto da un tuo fan? E la migliore?

Quella che esprimeva più odio era di un detenuto: voleva violentarmi con un coltellino di plastica. Ed è anche la lettera più bella.–Hustler

Neil Swaab sarà il 2 ottobre alle 17.00 al chiostro di San Paolo.

Anche il giornalismo italiano è protagonista a Ferrara. Anto-nio Padellaro, direttore del

Fatto quotidiano, coordina “Informa-zione e potere: l’anomalia italiana”. Giovanni Maria Bellu, dell’Unità, presenta gli Italieni. Gigi Riva, dell’Espresso, parla del regime argen-tino. Stefano Menichini, direttore di Europa, introduce l’incontro sulla de-stra statunitense. Lilli Gruber coordi-na il dibattito sull’islam europeo, men-tre Roberto Morrione, di Libera in-formazione, quello sulle maie. Gian Antonio Stella parla di giornalismo d’inchiesta e Marino Sinibaldi, di Rai-Radio3, incontra tre scrittori hai-tiani

Altri giornalisti italiani presentano libri: Concita De Gregorio, direttore dell’Unità, presenta Tutti indietro di Laura Boldrini; Giovanni Porzio, di Panorama, il rapporto di Msf; Mauri-zio Torrealta, di Rainews, L’odio per l’Occidente di Jean Ziegler; Maria Laura Rodotà presenta Le regole e il libro di Amara Lakhous; Jean-Léo-nard Touadi presenta Come diventare italiani in 24 ore di Laila Wadia e mo-dera l’incontro sull’Africa. Luca Sofri parla di frontiere digitali. Daria Bi-gnardi partecipa all’asta di Emiliano Ponzi. u

Italia

Informazionefatta in casa

Sono ostaggio di Mr. Wiggles

Gian Antonio Stella

Come ti è venuta l’idea di un orsetto vietato ai minori?Mi sono ispirato al peluche che avevo da piccolo: non

avevate anche voi un orsetto che snif-fava droga, molestava gli animali, gio-cava d’azzardo e vedeva filmini porno?

Cosa ti ha spinto a cominciare?La stessa ragione di tutti i grandi

artisti maschi: conoscere le ragazze. Nessuno è più figo, per una donna, di un disegnatore di fumetti. Forse solo i collezionisti di trenini. E poi ho comin-ciato perché era divertente. Un paio di amici facevano delle vignette per il giornale scolastico, e ogni tanto gli passavo qualcosa. Di solito piaceva e così ho pensato di mettermi in proprio.

Ti è mai venuta un’idea troppo offen-siva da mettere nelle vignette?

Certo! Più di una volta. E quando deciderò di chiudere in gloria la mia carriera riprenderò quelle idee.

Oggi il cinico orsetto è conosciuto in tutto il mondo, ma Neil Swaab ha cominciato per divertimento

Quest’anno al festival ci sono molti giornalisti italiani, che presentano i loro colleghi stranieri e conducono i dibattiti

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vi Internazionale a Ferrara 866 | 1 ottobre 2010

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Il cibo non basta

Documentari e mostre Gipi

u L’agenzia fotograica VII e Medici senza frontiere portano a Ferrara una campagna multimediale, Starved for Attention: il cibo non basta, che parla della malnutrizione infantile da una nuova prospettiva.

Questa emergenza colpisce e ucci-de milioni di bambini ogni anno, ma è possibile prevenirla. Le testimonianze di genitori e operatori sanitari sono al centro dei documentari realizzati in zone di guerra, villaggi rurali e capitali sovrafollate. Sette fotoreporter si so-no occupati di Bangladesh, Burkina

Un giornalista senza scrupo-li e una coppia di improba-bili comici di origini corea-ne partono dalla Danimar-

ca per andare in Corea del Nord. Auto-rizzati a entrare nel paese, metteranno a dura prova il senso dell’umorismo dei nordcoreani e il culto del “caro lea-der”, Kim Jong-il. The Red Chapel è una satira spietata e poco politically correct, spiega il regista Mads Brügger. “Sono approdato al cinema dal gior-nalismo, non ho mai avuto una forma-

Faso, Repubblica Democratica del Congo, Gibuti, India, Messico e Stati Uniti (con due diversi reportage).

La mostra, che sarà a Ferrara dopo le presentazioni di New York e Milano, è strutturata in otto parti, ognuna dedi-cata a un reportage illustrato da foto e video. Sarà possibile seguire l’audio con delle cuie senza ili presenti in ogni postazione.

Info Il fotografo Franco Pagetti inaugu-ra la mostra Starved for attention il 1 ottobre alle 15.00 nella Sala Borsa.

zione da regista. Avevo già giocato con inti ruoli e personaggi nel mio ilm Danes for Bush (del 2004). Poi ho cer-cato un paese dove il gioco delle parti e la menzogna sfacciata fossero parte della vita quotidiana, e mi sono reso conto che doveva essere per forza una dittatura. Così sono arrivato in Corea del Nord. Appena ho cominciato a leg-gere e documentarmi sono stato os-sessionato da quella che personal-mente considero la dittatura più re-pressiva e soisticata della storia. Sa-pevo che avrei dovuto usare la chiave della commedia, perché la gran parte dei dittatori è esilarante, specialmente Kim Jong-il. Poi ho sentito parlare di questo comico disabile danese-corea-no, che si esibiva nei club di Copena-ghen, e da lì in poi il ilm si è pratica-mente fatto da solo. A parte la perma-nenza vera a propria in Corea del Nord: un’esperienza assolutamente paranoica e snervante”.

Info La rassegna Mondovisioni è a cura di Cineagenzia. I documentari saranno proiettati al Cinema Boldiniinternazionale.it/festival/documentari

Il paese del grande dittatore

The Red Chapel

Viaggio improbabile, tra farsa e tragedia, nel paese più chiuso del mondo: la Corea del Nord

Internazionale a Ferrara 866 | 1 ottobre 2010 vii

Gipi sarà a Ferrara il 2 ottobre a piazza Castello con lo spettacolo Essedice, insieme a I sacchi di sabbia.

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Portfolio

Promotori

Internazionale

Comune di Ferrara

Provincia di Ferrara

Regione Emilia-Romagna

Fondazione Teatro Comunale di Ferrara

Arci Ferrara

Ferrara sotto le stelle

Dall’alto, in senso orario: Noam Chomsky in diretta da Boston (2008); davanti al Cinema Apollo (2009); Steven Berlin Johnson (2009); l’incontro sull’Africa in rete (2009); la rassegna stampa in Sala Borsa (2009): Tullio De Mauro (2008); Anna Keen (2007).

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viii Internazionale a Ferrara 866 | 1 ottobre 2010

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