Internazionale - 06 12 2019

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Sommario

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ario

6/12 dicembre 2019 • Numero 1336 • Anno 27

“Una lingua non descrive il mondo, crea un mondo”

Fouad Laroui a pagina 102

cLima

18 I nodi da sciogliere alla conferenza

di Madrid The Guardian

aFrica e medio oriente

20 In Iraq il premier si dimette ma la protesta continua

Al Jazeera22 Le elezioni

presidenziali che dividono l’Algeria

Le Monde

americhe

24 Un anno di governo di López Obrador La Jornada26 Negli Stati Uniti

trasferirsi non conviene più

The New York Times

asia e paciFico

31 In Sri Lanka tornano i fratelli Rajapaksa

East Asia Forum

visti dagLi aLtri

35 Milano non si ferma e la periferia paga il conto

The Observer38 Dialogo e scambi migliorano

Africa e Italia Jeune Afrique

Libano

52 Tempo di rivolta Jadaliyya

nigeria

58 I testimoni di Geova parlano cinese in Africa

South China Morning Post

scienza

64 Conosci i tuoi polli

Le Monde

portFoLio

70 I colori di un’utopia

Cristiano Bianchi e Kristina Drapić

ritratti

76 Khaltmaa Battulga. Il lottatore

Bloomberg

viaggi

80 Un sapore senza tempo

Die Zeit

graphic journaLism

82 Cartoline dal Regno Unito

Sam Wallman

cinema

86 I falsari di Hollywood

Nzz Folio

pop

102 Contro l’inglese Fouad Laroui

scienza

107 I possibili rischi delle sigarette

elettroniche New Scientist

economia e Lavoro

112 Il capitalismo non è affatto in crisi

The Guardian

cultura

88 Cinema, libri, musica, schermi, arte

Le opinioni

12 Domenico Starnone

40 Martín Caparrós

42 Elif Şafak

90 Goffredo Fofi

92 Giuliano Milani

96 Pier Andrea Canei

98 Giorgio Cappozzo

Le rubriche

12 Posta

15 Editoriali

119 Strisce

121 L’oroscopo

122 L’ultima

Articoli in formato mp3 per gli abbonati

in copertina

Un’altra bolla scoppieràL’economia globale va incontro a una nuova crisi. Rispetto al 2008, il crollo non arriverà dalle banche, ma dalle grandi aziende tecnologiche come Apple e Google, che aggirano le regole e corrono enormi rischi (p. 44). Foto di Dan Saelinger (Trunk Archive)

Ogni settimana il meglio dei giornali di tutto il mondo

internazionale.it 4,00 €

Scienza Conosci i tuoi polli

Elif Şafak In Turchia i poverisono senza speranza

Attualità Di cosa si discutealla conferenza sul clima

6/12 dicembre 2019

Chi scatenerà

la prossima

crisi

economica

Le grandi aziende tecnologiche corrono enormi rischi e aggirano le regole,

come le banche nel 2008. Creando una bolla finanziaria che può

travolgere l’economia mondiale

Internazionale 1336 | 6 dicembre 2019 5

Internazionale pubblica in esclusiva per l’Italia gli articoli dell’Economist.

MonopattinitravolgentiCaccia all'alberodi Natale Salto in alto sultrampolino

Perché i gatti sembrano mattiSotto la pioggiacon Aldo&RosaI compiti a casa sono utili?

Dicembre ����numero �Il meglio dellastampa ditutto il mondoper bambinee bambini�,�� €

Il nuovo InternazionaleKids è in edicola

credibilità

La settimana

Michael Bloomberg ha 77 anni e con un patrimonio di 54 miliardi di dollari è la nona persona più ricca del mondo. Da tempo si diceva che volesse candidarsi alle prossime presidenziali statunitensi e nessuno si è stupito quando, il 24 novembre, ha detto che parteciperà alle primarie dei democratici. Bloomberg deve gran parte della sua ricchezza a una rete di 325mila terminali che forniscono dati finanziari. Negli anni la sua azienda si è allargata e oggi, con Bloomberg News, include siti, tv, radio e riviste, per un totale di 2.700 giornalisti che producono cinquemila articoli al giorno da 120 paesi. La qualità di Bloomberg News è unanimemente considerata di altissimo livello. Ma anche se così rilevante, il settore giornalistico contribuisce solo in minima parte agli undici miliardi di ricavi annui dell’azienda, il resto viene dalla fornitura di dati finanziari. Il giorno dopo la “discesa in campo” di Michael Bloomberg, il direttore di Bloomberg News, John Micklethwait, ha dato una notizia sorprendente: per evitare problemi, Bloomberg News non farà inchieste su Michael Bloomberg. E per non fare favoritismi Bloomberg News riserverà lo stesso trattamento anche agli altri candidati democratici. Alla vigilia di una delle più importanti campagne elettorali statunitensi, uno dei più grandi e influenti mezzi d’informazione del paese ha dunque deciso di rinunciare a quello che dovrebbe essere il suo ruolo per non dover affrontare le oggettive complicazioni legate alla decisione del suo proprietario di candidarsi. Per ritorsione Donald Trump, sempre critico con la stampa, ha deciso di vietare a Bloomberg News di seguire i suoi comizi. La candidatura di Bloomberg, che ha scarse probabilità di essere eletto, danneggia la credibilità del suo stesso gruppo editoriale, ma anche la qualità del dibattito pubblico, che viene privato delle inchieste e degli approfondimenti di giornalisti di prim’ordine. Oltre a essere un precedente pericoloso, non solo per gli Stati Uniti. u

Giovanni De Mauro

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In posa per la NatoLondra, Regno Unito4 dicembre 2019

I leader dei paesi della Nato riuniti a Buckingham palace in occasione del vertice per i settant’anni dell’alleanza. Il summit è stato segnato dalle tensioni tra i paesi membri, culminate nello scontro tra il presidente statunitense, Donald Trump, e il suo collega francese, Emma-nuel Macron, sul futuro dell’alleanza e i dazi sui prodotti francesi minacciati da Washington. Trump ha definito “estre-mamente fastidiose” le parole di Ma-cron, che aveva parlato di “morte cere-brale” della Nato. Foto di Yoi Moik (Nunn Syndication/Karma Press Photo).

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Immagini

A casaNghe An, Vietnam27 novembre 2019

Al funerale di John Hoang Van Tiep, una delle 39 persone trovate morte in un container vicino a Londra il 23 ottobre. Le vittime avevano dai 15 ai 44 anni e provenivano da diverse province povere del Vietnam settentrionale e centrale. Negli ultimi anni il traffico di esseri umani dal Vietnam al Regno Unito è au-mentato sensibilmente e, secondo le organizzazioni che combattono il feno-meno, gli sforzi di Hanoi per fermarlo sono insufficienti. Foto di Nguyen Huy Kham/Reuters/Contrasto

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Addobbi di NataleVölklingen, Germania2 dicembre 2019

Ogni anno a Völklingen, cittadina tede-sca vicino al confine con la Francia, Sven Berrar addobba con circa 62mila lampa-dine la sua abitazione e il giardino in oc-casione delle festività natalizie. In que-sto periodo la casa attira numerosi visi-tatori, che si fermano ad ammirare gli addobbi dalla strada. Durante il fine set-timana Berrar apre il giardino ai curiosi e offre Glühwein (vin brulé con cardamo-mo, chiodi di garofano, alloro, cannella e scorza di agrumi) e Lebkuchen (biscotti natalizi simili al panpepato). Foto di Claus Kiefer (Karma press photo)

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12 Internazionale 1336 | 6 dicembre 2019

[email protected]

Uscire u Nell’editoriale di Internazio-nale 1327 il direttore Giovanni De Mauro suggerisce, come buona pratica per i giornalisti, di uscire dalle redazioni e dia-logare con le persone. Ottimo consiglio, certo condivisibile, peccato che i pochi giornalisti presenti nelle redazioni, falci-diate da contratti di solidarietà e, nell’ultimo trimestre dell’anno, anche da smalti-menti forzati delle ferie (trala-sciando altre assenze), non possano uscire perché devono “chiudere” le pagine e manda-re i giornali in edicola, che co-munque escono sempre lo stesso giorno, non più tardi. Questa, ahimè, è la realtà. Fuori ci sono solo i giornalisti prepensionati o gli studenti aspiranti reporter. Stefano Rejec

Cinema e anniversari u Su Internazionale 1335 c’è un’immagine di Gian Maria Volonté sorridente che non

avevo mai visto e che mi sem-bra bellissima. Nella pagina accanto c’è un articolo dedica-to alle proiezioni pubbliche in Sudan in cui si parla di cinema “come strumento per riscatta-re gli spazi pubblici, riunire le persone e recuperare ciò che è stato perduto, rubato o cancel-lato”. Per pura coincidenza questo numero di Internazio-nale esce nel giorno dell’anni-versario della morte dell’attore e mi sembra giusto dedicargli un ricordo. Daniele Baldisserri

Internazionale Kids u Ho letto con interesse il pri-mo numero mensile di Inter-nazionale Kids. L’ho trovato fresco e vivace, vario, ricco di spunti e molto più agile dei precedenti. Inoltre mi fa piace-re che abbiate pubblicato alcu-ni articoli di riviste straniere per ragazzi che seguo da tem-po. Negli anni scorsi per lavoro ho incontrato Biscoto, Geor-ges, Graou, Astrapi, Filotéo e ho sempre pensato che fosse

un peccato che in Italia non fossero conosciuti o non ci fos-sero delle proposte simili. Alberto Galotta

Scienza u Mi piacciono molto gli arti-coli scientifici, in particolare quelli di biologia ed etologia, un antico grande amore che continuo a coltivare. Jimmy

Errata corrige

u Su Internazionale 1335, nel “Da sapere” dell’articolo “Fiu-mi volanti” a pagina 64, lo stu-dio di Science non dice di piantare 900 milioni di alberi, ma che ci sono 900 milioni di ettari disponibili per piantarli. Errori da segnalare? [email protected]

Nella mia famiglia i bambi-ni facevano il bagno tutte le sere, ma la mia compagna pensa che nostro figlio di sette anni non si debba la-vare più di due volte alla settimana. Come le spiego che un bambino che va a scuola e gioca all’aperto dev’essere più pulito?–Giampaolo

Le mie figlie sono nate durante il picco di successo di Fate la nanna, il best seller del pedia-tra spagnolo Eduard Estivill, che ha diffuso in tutto il mon-do il metodo per insegnare ai bambini di pochi mesi a dor-mire tutta la notte. Oltre alla tecnica per acquisire “l’estin-

zione graduale del pianto”, che oggi ritengo profondamente discutibile, il suo metodo pre-vedeva anche l’introduzione di una routine fissa prima di an-dare a letto. E io, da padre di gemelle gravemente privato di sonno, ho iniziato a fare un ba-gnetto caldo alle bambine ogni sera prima di metterle a dor-mire. Un’abitudine che abbia-mo mantenuto per alcuni anni, fino a quando un dermatologo mi ha spiegato che tutti i pro-blemi di pelle che avevano de-rivavano proprio da quei ba-gnetti. Quando li ho ridotti la loro pelle è tornata come nuo-va. Spesso i genitori lavano troppo i figli. Fin dalla nascita: l’Organizzazione mondiale

della sanità raccomanda di aspettare 24 ore prima di lava-re un neonato, perché dopo il parto è ricoperto da una so-stanza proteica che lo immu-nizza dai batteri più comuni nei primi giorni di vita. L’Ame-rican academy of dermatology consiglia di lavare i bambini fi-no a undici anni non più di due volte alla settimana. E devono essere bagni o docce veloci, fatti con detergenti senza sa-poni. Invece dobbiamo au-mentare il lavaggio delle mani, che va fatto bene e spesso. Con la pubertà cambia tutto, ma per ora l’atteggiamento della tua compagna è l’ideale.

[email protected]

Dear Daddy Claudio Rossi Marcelli

Lavaggio delicato

La rovina ritualizzata

u Lo stato, per salvarsi l’ani-ma, ha dato una tinta preven-tiva al disastro – l’allarme ros-so, l’allarme giallo – oppure suona la sirena. È un rito, or-mai. Com’è un rito denuncia-re che la catastrofe era più che annunciata, che i soldi c’era-no per evitarla e che non si è fatto niente. L’andamento è: pausa-allarme di stato, pausa-vibrato atto d’accusa contro la corrotta inefficiente condotta statale. Siamo insomma alla ritualizzazione della rovina, tanto che ci disorienteremmo non poco se dopo una tempe-sta dovessimo registrare che tutto è filato liscio. Certo, lo stato siamo noi, bella formu-letta con cui il cittadino – co-stretto sotto il tallone della burocrazia a soffrire senza re-agire, pena le manganellate, il tribunale e la galera – di colpo si ritrova vittima e colpevole. Ma che “noi” è quello? È un “noi” un po’ ottuso, impauri-to, rassegnato alle angherie. È il “noi” a cui è stato detto che tra dodici anni la catastro-fe climatica diventerà irrever-sibile e tuttavia non si agita, non si organizza, non fa nem-meno processioni di flagellan-ti ma, grazie a un torrente tur-binoso oggi, a un’acqua alta domani, a frane e boschi schiantati in autunno-inver-no, a calure insopportabili in primavera-estate, va matu-rando l’abitudine alla fine del mondo. C’è da sperare che in-sorga, che stia insorgendo, un altro “noi” e si compatti si or-ganizzi, studi, faccia, fuori di questo stato.

PER CONTATTARE LA REDAZIONE

Telefono 06 441 7301 Fax 06 4425 2718Posta via Volturno 58, 00185 RomaEmail [email protected] internazionale.it

Parole Domenico Starnone

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Editoriali

Internazionale 1336 | 6 dicembre 2019 15

Da più di un decennio la politica europea è domi-nata da movimenti che cercano di sfruttare le di-visioni sociali con slogan aggressivi. Uno dei pio-nieri è stato Beppe Grillo, che nel 2007 organizzò a Bologna il Vaffanculo day. Quella grande mani-festazione scatenò un’ondata populista in Italia, finendo per favorire il successo della Lega di Mat-teo Salvini. Gli elettori di sinistra hanno perso le speranze di fronte all’incapacità dei politici di in-dividuare le parole e le proposte per sfidare que-sta retorica. Ora però sembrano aver trovato aiuto in un movimento, anche questo nato a Bologna, che ha scelto come simbolo un pesce.

Le “sardine” sono una risposta al tentativo di Salvini di vincere le elezioni regionali in Emilia-Romagna a gennaio. A metà novembre, quando il leader della Lega si è presentato in città, alcuni bolognesi hanno proposto di riempire piazza Maggiore con un flashmob di seimila persone, strette come sardine, per opporsi all’estrema de-stra. All’appello hanno risposto quindicimila persone, molte di più di quelle che hanno parte-cipato al lancio della campagna elettorale di Sal-vini. Il movimento delle sardine si è trasformato rapidamente in un fenomeno nazionale. Dovun-

que vada, Salvini trova ad attenderlo le sardine, armate di pesci di cartone.

Siamo di fronte alla prima rivolta popolare contro il populismo di destra? I movimenti vanno e vengono, soprattutto nell’epoca dei social net-work. Ma ciò che distingue le sardine è il registro che hanno scelto per recapitare il loro messaggio. Qualsiasi segno di affiliazione politica è vietato, per favorire l’inclusione ma anche per sottolinea-re la dimensione civica della protesta. L’obiettivo è riaffermare i valori della tolleranza e della mo-derazione nello spazio pubblico. I partecipanti sono invitati a ignorare qualsiasi provocazione. Nel loro manifesto le sardine si rivolgono diretta-mente ai populisti: “Per anni avete rovesciato bugie e odio su noi e i nostri concittadini”.

A prescindere dagli sviluppi futuri, si possono trarre delle lezioni che vanno oltre i confini ita-liani. Quando si fa politica con immaginazione e coraggio, i messaggi antipopulisti possono fun-zionare. Se il successo delle sardine riflette un profondo desiderio degli italiani di lasciarsi alle spalle il linguaggio volgare del populismo, può succedere anche altrove. Bisogna che altre sar-dine nuotino in questa corrente. u as

Il messaggio delle sardine

The Guardian, Regno Unito

La Cina studia da leader

Le Monde, Francia

Ormai la Cina compete con i paesi sviluppati nel-la corsa all’eccellenza scolastica mondiale. Lo dimostra l’ultimo studio condotto nel quadro del Programma per la valutazione internazionale de-gli studenti (Pisa). La classifica vede in testa quat-tro delle entità amministrative più ricche della Cina (Pechino, Shanghai e le province di Jiangsu e Zhejiang). Macao si piazza al terzo posto (dietro Singapore) e Hong Kong al quarto.

Naturalmente prendere in considerazione solo le regioni più ricche del paese è una distor-sione. La classifica non riflette la penuria d’inse-gnanti nelle campagne e i divari di competenze con quelli delle città. Ma i risultati sono comun-que impressionanti. Gli studenti cinesi presi in esame non solo ottengono risultati molto miglio-ri, ma la percentuale che ottiene i punteggi più alti è dalle tre alle quattro volte superiore alla media dell’Ocse. Per quanto riguarda la mate-matica, il 44 per cento raggiunge l’eccellenza, contro appena l’11 per cento negli altri paesi.

Questo successo si spiega innanzitutto con il

numero di ore dedicate a queste materie, molto superiore rispetto agli altri sistemi scolastici. A questo si aggiunge l’enorme pressione delle fami-glie. Corsi privati a partire dai tre anni d’età, ore di compiti a casa e “olimpiadi di matematica” sono il pane quotidiano dei giovani cinesi. L’obiettivo è superare il gaokao, il test d’ingresso all’università che può decidere il corso di una vita.

Il lato oscuro di questo successo emerge quan-do si valuta il benessere a scuola: la Cina è in fon-do alle classifiche. L’aumento delle tendenze sui-cide e dell’abbandono scolastico hanno allarmato le autorità cinesi, che hanno cercato di ridurre il carico di lavoro dei ragazzi, scontrandosi però con la resistenza dei genitori.

La Cina, quindi, non è certo un modello. I ri-sultati del Pisa però dimostrano che il paese sta costruendo una temibile macchina intellettuale. È una sfida di cui si deve essere consapevoli per restare competitivi, in un mondo in cui la forma-zione e l’istruzione diventeranno più che mai le basi della potenza di un paese. u ff

“Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio,di quante se ne sognano nella vostra filosofia”William Shakespeare, Amleto Direttore Giovanni De MauroVicedirettori Elena Boille, Chiara Nielsen, Alberto Notarbartolo, Jacopo ZanchiniEditor Giovanni Ansaldo (opinioni), Daniele Cassandro (cultura), Carlo Ciurlo (viaggi, visti dagli altri), Gabriele Crescente (Europa), Camilla Desideri (America Latina), Simon Dunaway (attualità), Francesca Gnetti (Medio Oriente), Alessandro Lubello (economia), Alessio Marchionna (Stati Uniti), Andrea Pipino (Europa), Francesca Sibani (Africa), Junko Terao (Asia e Pacifico), Piero Zardo (cultura, caposervizio)Copy editor Giovanna Chioini (web, caposervizio), Anna Franchin, Pierfrancesco Romano (coordinamento, caporedattore), Giulia ZoliPhoto editor Giovanna D’Ascenzi (web), Mélissa Jollivet, Maysa Moroni, Rosy Santella (web)Impaginazione Pasquale Cavorsi (caposervizio), Marta RussoWeb Annalisa Camilli, Stefania Mascetti (caposervizio), Martina Recchiuti (caposervizio), Giuseppe Rizzo, Giulia TestaInternazionale a Ferrara Luisa Ciffolilli, Alberto EmilettiSegreteria Teresa Censini, Monica Paolucci, Angelo Sellitto Correzione di bozze Sara Esposito, Lulli Bertini Traduzioni I traduttori sono indicati dalla sigla alla fine degli articoli. Stefania De Franco, Francesco De Lellis, Andrea De Ritis, Federico Ferrone, Giusy Muzzopappa, Francesca Rossetti, Fabrizio Saulini, Andrea Sparacino, Claudia Tatasciore, Bruna Tortorella, Cristina Vezzaro, Nicola Vincenzoni Disegni Anna Keen. I ritratti dei columnist sono di Scott Menchin Progetto grafico Mark Porter Hanno collaborato Gian Paolo Accardo, Giulia Ansaldo, Cecilia Attanasio Ghezzi, Gabriele Battaglia, Gaia Berruto, Francesco Boille, Giorgio Cappozzo, Catherine Cornet, Sergio Fant, Andrea Ferrario, Claudia Grisanti, Ijin Hong, Anita Joshi, Alberto Riva, Andreana Saint Amour, Francesca Spinelli, Laura Tonon, Pauline Valkenet, Guido Vitiello, Marco ZappaEditore Internazionale spa Consiglio di amministrazione Brunetto Tini (presidente), Giuseppe Cornetto Bourlot (vicepresidente), Alessandro Spaventa (amministratore delegato), Giancarlo Abete, Emanuele Bevilacqua, Giovanni De Mauro, Giovanni Lo StortoSede legale via Prenestina 685, 00155 Roma Produzione e diffusione Francisco Vilalta Amministrazione Tommasa Palumbo, Arianna Castelli, Alessia SalvittiConcessionaria esclusiva per la pubblicità Agenzia del marketing editorialeTel. 06 6953 9313, 06 6953 9312 [email protected] Download Pubblicità srlStampa Elcograf spa, via Mondadori 15, 37131 Verona Distribuzione Press Di, Segrate (Mi)Copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale. Significa che può essere riprodotto a patto di citare Internazionale, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Per questioni di diritti non possiamo applicare questa licenza agli articoli che compriamo dai giornali stranieri.Info: [email protected]

Registrazione tribunale di Roma n. 433 del 4 ottobre 1993Direttore responsabile Giovanni De MauroChiuso in redazione alle 19 di mercoledì 4 dicembre 2019Pubblicazione a stampa ISSN 1122-2832 Pubblicazione online ISSN 2499-1600

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16 Internazionale 1336 | 6 dicembre 2019

Clima

Il 2 dicembre è cominciata a Madrid la ven-ticinquesima conferenza delle Nazioni Uni-te sul clima (Cop25).

Cos’è la Cop e a cosa servirà? Da quasi trent’anni i governi del mondo si riuniscono ogni anno per trovare delle risposte globali all’emergenza climatica. Secondo la Con-venzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) del 1992, ogni paese è tenuto per trattato a “evitare pericolosi cambiamenti climatici” e a tro-vare modi per ridurre le emissioni di gas

serra a livello globale in modo equo. Cop è l’acronimo di Conference of the parties (Conferenza delle parti). Negli anni passati si sono alternate conferenze litigiose e so-porifere, con momenti di alta tensione e a volte trionfali, a Parigi nel 2015, o disastrosi, come a Copenaghen nel 2009. Il vertice di quest’anno durerà fino al 13 dicembre.

Dove si svolge? Quest’anno la conferenza ha già avuto bisogno di un salvataggio dell’ultimo minuto. La Costa Rica voleva ospitare l’evento, ma non aveva le risorse necessarie. Così il Cile si era fatto carico dell’organizzazione. Era tutto pronto per l’apertura della Cop a Santiago. Ma a causa dei disordini scoppiati nel paese alla metà di ottobre il governo cileno ha deciso di ri-nunciare alla conferenza. Si è fatto avanti il

governo spagnolo offrendo come sede Madrid.

L’improvviso cambiamento di sede ha complicato le cose per molti. Per esempio la giovane attivista svedese Greta Thunberg ha dovuto riattraversare l’oceano Atlantico via mare. Inoltre l’America Latina avrà me-no possibilità di mostrare il suo ruolo fon-damentale nella riduzione delle emissioni e il Brasile potrebbe sfuggire in parte all’at-tenzione rivolta alle sue recenti decisioni di sfruttare la foresta amazzonica. La confe-renza avrà dimensioni più contenute, con meno spazio per le ong e le aziende. Attivi-sti e manifestanti si affrettano a prepararsi per far sentire la loro pressione.

Chi parteciperà? I leader mondiali non si presenteranno, anche se non si può esclu-dere la partecipazione di personalità in-fluenti e celebrità. I negoziati saranno gui-dati dai ministri dell’ambiente e da funzio-nari di stato, affiancati da funzionari dell’Onu. Ci si aspetta che quasi tutti i pae-si inviino un rappresentante con diritto di voto: il ministro dell’ambiente o qualcuno con un ruolo equivalente. Le economie più forti avranno ampie delegazioni.

I nodi da scioglierealla conferenza di Madrid

Per due settimane delegatida tutto il mondo cercano soluzioni per ridurre le emissioni di gas serra

Fiona Harvey, The Guardian, Regno Unito

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Madrid, 3 dicembre 2019

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Internazionale 1336 | 6 dicembre 2019 17

Cosa rende speciali questi incontri? Le conferenze sul clima, con tutti i loro difetti, sono l’unico evento dedicato alla crisi cli-matica in cui le opinioni e le preoccupazioni del paesi più poveri hanno lo stesso peso di quelle delle economie più forti, come Stati Uniti e Cina. Un accordo può arrivare solo tramite il consenso di tutti. Quindi alcuni paesi, come l’Arabia Saudita, possono osta-colare le azioni più ambiziose. Ma significa anche che le decisioni prese nelle conferen-ze hanno un’autorità globale. Ciascuno dei 196 paesi del mondo, a parte alcuni stati fal-liti, è firmatario del trattato di fondazione e nessuno è uscito dall’accordo. Vale anche per gli Stati Uniti, che stanno cominciando a ritirarsi ora dall’accordo di Parigi.

Cos’è stato deciso a Parigi? Nel 2015 i paesi del mondo si sono impegnati a man-tenere l’aumento della temperatura globa-le entro i due gradi rispetto ai livelli prein-dustriali. La grande maggioranza dei paesi ha ormai ratificato l’accordo. Anche se è legalmente vincolante, non lo sono gli im-pegni presi da ciascun paese per ridurre le proprie emissioni. Questi impegni sono noti come contributi determinati a livello nazionale e dovranno essere incrementati il prossimo anno se si vogliono rispettare gli obiettivi di Parigi.

Chi saranno i guastafeste? Sotto la guida di Donald Trump, finora gli Stati Uniti si so-no mossi con discrezione nell’ambito delle iniziative dell’Onu sul clima. Ma oggi po-trebbero fare un ostruzionismo più danno-so. “La delegazione statunitense s’impe-gnerà in negoziati per proteggere gli inte-ressi degli Stati Uniti e facilitare le attività alle aziende del paese”, ha dichiarato il di-partimento di stato. Anche le grandi poten-ze petrolifere, come l’Arabia Saudita, la Russia e il Venezuela, oltre al Brasile e alla Bolivia, potrebbero mettere i bastoni tra le ruote. Fondamentali per i progressi della conferenza sono la Cina, il paese che emet-te più gas serra del mondo, e l’India, le cui emissioni sono in rapida crescita.

La Cina non è il nuovo leader verde? La Cina ha lavorato duramente per ridurre le emissioni, soprattutto quelle delle centrali a carbone. Ma secondo una nuova ricerca dell’ong Global Energy Monitor, Pechino ha aumentato la propria capacità di brucia-re carbone di più di quaranta gigawatt nei 18 mesi precedenti a giugno, e prevede di

aumentarla ancora. Christine Shearer, analista dell’ong, ha dichiarato che “la pre-vista espansione carbonifera della Cina è talmente in contraddizione con l’accordo di Parigi da rendere le necessarie riduzioni di energia derivata da carbone irraggiungi-bili, anche se tutti i paesi eliminassero i lo-ro impianti a carbone”. La Cina sta anche finanziando la costruzione di nuove cen-trali a carbone in Sudafrica, Pakistan e Bangladesh.

Cosa si deciderà quest’anno? Il principa-le argomento di discussione è una disposi-zione dell’accordo di Parigi, l’articolo 6, che permette di rivolgersi al cosiddetto mercato globale del carbonio per aiutare i paesi a ri-durre le emissioni di gas serra e per finan-ziarie misure di riduzione delle emissioni nei paesi in via di sviluppo. Il mercato delle emissioni esiste dal 1997, quando fu firmato il protocollo di Kyoto. L’idea generale era che i paesi ricchi potessero raggiungere i loro obiettivi comprando crediti assegnati a progetti che riducessero le emissioni nei paesi in via di sviluppo. In questo modo i paesi ricchi guadagnavano tempo per sé, mentre quelli più poveri ottenevano fondi che contribuivano ad avviarli verso un futu-ro più verde. Ma questo meccanismo aveva difetti evidenti, con troppi crediti facili che svalutavano il sistema.

La crisi finanziaria del 2008 ha fatto crollare il mercato delle emissioni, che non si è mai del tutto ripreso. Oggi i progetti di riduzione delle emissioni nei paesi in via di sviluppo si affidano spesso a raccolte fondi tradizionali o ad aiuti internazionali. Ridare vita al mercato delle emissioni attraverso l’articolo 6 è considerato un obiettivo im-portante da chi si occupa di finanza climati-

ca. Lo scambio di crediti potrebbe contribu-ire a raccogliere fondi per evitare la defore-stazione. Ma per alcuni attivisti questo mercato è una truffa che permette ai paesi ricchi di farla franca continuando a bruciare combustibili fossili e pagando i paesi poveri perché ripuliscano. “Non possiamo per-metterci di discutere di compensazione delle emissioni, abbiamo bisogno di ridurre le emissioni subito. Le compensazioni sono inaccettabili rispetto alla portata e alla rapi-dità della riduzione di emissioni necessaria oggi, e ci opporremo alla creazione di un nuovo mercato globale delle emissioni”, dice Juan Pablo Osornio di Greenpeace.

Nat Keohane, vicepresidente dell’orga-nizzazione non profit Fondo per la difesa ambientale degli Stati Uniti ed ex delegato del paese alla Cop, non è d’accordo. “Il mer-cato è una questione di cooperazione, e ser-ve a ridurre rapidamente le emissioni”, di-ce. Secondo lui, la cooperazione tra paesi ricchi e paesi in via di sviluppo è fonda-mentale. Finanziando, usando e condivi-dendo tecnologie e metodi di riduzione delle emissioni nei paesi in via di sviluppo, i paesi ricchi contribuiscono a risolvere un aspetto importante del problema globale. Keohane ammette che “un mancato accor-do sull’articolo 6 è preferibile a un cattivo accordo”, e alcuni paesi rischiano di rovi-nare i negoziati insistendo sul cambiare le regole. Il Brasile, per esempio, vorrebbe calcolare come misure per la riduzione delle emissioni sia la conservazione della sua superficie forestale sia i crediti d’emis-sione derivanti dalle stesse misure di con-servazione ma venduti ad altri paesi (dou-ble counting, doppio conteggio).

Tutto questo prepara il terreno per un’aspra disputa sull’articolo 6, che mette-

Da sapere Gli scettici della crisi climaticaPercentuale di persone che affermano che:

Fonte: YouGov, Financial Times

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Il clima sta cambiando ma gli esseri umani non ne sono responsabili Il clima non sta cambiando

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18 Internazionale 1336 | 6 dicembre 2019

Climarebbe in pericolo il consenso faticosamente raggiunto a Parigi. Ma l’articolo 6 dev’esse-re salvaguardato se i paesi vogliono rag-giungere gli obiettivi fissati in Francia raf-forzando i loro impegni per la riduzione delle emissioni.

Quindi, un articolo e siamo a posto? Questioni più complesse pendono sulla conferenza, ma a Madrid saranno solo evo-cate. La preoccupazione più grande è che gli obiettivi fissati a Parigi per contenere l’aumento delle temperature richiederanno uno sforzo senza precedenti. Tuttavia, gli impegni dei singoli paesi per indirizzare il mondo verso il migliore scenario possibile non facevano parte dell’accordo di Parigi, ma erano contenuti in un addendum non vincolante. Così le emissioni stanno nuova-mente aumentando, le temperature sono più alte che mai, i paesi non sono costretti dalla legge ad agire e il tempo sta finendo: il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) ha concluso che ai ritmi at-tuali abbiamo poco più di dieci anni per fer-mare l’aumento delle emissioni e ridurre l’anidride carbonica a una velocità suffi-ciente a mantenere l’innalzamento della temperatura globale sotto la soglia degli 1,5 gradi centigradi.

Gli attuali impegni assunti dai governi in base all’accordo di Parigi non sono suffi-cienti a ottenere quanto richiesto: presi tutti insieme condannerebbero comunque il mondo a un aumento della temperatura di circa tre gradi centigradi entro la fine del secolo. Secondo l’ultimo rapporto dell’Onu sul “divario delle emissioni”, pubblicato pochi giorni prima dell’inizio delle discus-sioni di quest’anno, i paesi devono ridurre i loro gas serra di circa il 7,6 per cento all’anno per i prossimi dieci anni per rima-nere entro il limite degli 1,5 gradi. Colmare questo divario sarà il compito principale della Cop26.

Ci sarà un’altra conferenza? Ce n’è una ogni anno, purtroppo. Per raggiungere gli obiettivi di Parigi, è chiaro che i traguardi nazionali devono essere rivisti al rialzo, e la scadenza per questo processo è il 2020, quando gli obiettivi precedenti, fissati a Co-penaghen, scadranno per molti paesi. Il 2020 sarà un anno cruciale per l’azione sul clima. Forse la funzione più importante del-la Cop di quest’anno è preparare il terreno per il vertice decisivo del 2020, il più impor-tante vertice sull’emergenza climatica dalla

firma dell’accordo di Parigi del 2015. Gli ul-timi cinque anni sono trascorsi sviscerando il “regolamento” con cui applicare l’accor-do di Parigi, in una lunga serie di discussio-ni tecniche su complicate questioni come il modo in cui tenere conto degli assorbitori di carbonio.

Le discussioni sono state necessarie per fare i conti con la burocrazia di questo com-plesso trattato internazionale, ma non han-no affrontato la questione centrale di quali impegni i governi sono disposti a prendere per ridurre le emissioni. La Cop26 si terrà a Glasgow, e il Regno Unito avrà il fondamen-tale ruolo diplomatico di persuadere i paesi ad assumersi gli impegni necessari: impe-gni talmente ambiziosi, rispetto alle magre e spesso riluttanti offerte, che cinque anni fa a Parigi non fu possibile ottenerli.

Negli anni dopo Parigi sono state costru-ite nuove infrastrutture ad alta emissione come strade, centrali a carbone e grattacie-li, così come nuovi impianti di estrazione di gas e petrolio. Nel frattempo in alcuni paesi – compresi Stati Uniti, Brasile e Australia – sono stati eletti governi apertamente ostili alle iniziative per il clima.

La cosa non promette bene. Effettiva-mente no. Si potrebbe sostenere che trent’anni di negoziati hanno prodotto solo un accordo per mantenere le temperature a livelli comunque troppo elevati, e che non stiamo neanche lontanamente rispettando la tabella di marcia necessaria a onorarlo. Tutte le importanti decisioni presenti nell’accordo di Parigi sono state rimandate a una conferenza del prossimo anno che, per come stanno le cose oggi, rischia di es-sere un disastro. Nel frattempo l’Amazzo-nia brucia, gravi incendi colpiscono l’Au-stralia e gli Stati Uniti, il caos climatico sta provocando disastri umanitari ogni setti-mana e il nostro piano globale consiste nell’organizzare altre riunioni.

Eppure, se non potessimo contare sull’iniziativa dell’Onu, dovremmo inven-tarcela. Senza, il mondo sarebbe alla deriva e in balia dei singoli governi e degli interes-si commerciali. Secondo Osornio, “la vera domanda non è chiedersi se l’Unfccc sia all’altezza del suo compito o meno, perché al momento è tutto quel che abbiamo. So-stenere i processi multilaterali esistenti come l’Unfccc è un modo per contrastare la crescita del nazionalismo e dell’isolazioni-smo che già minacciano la cooperazione internazionale”. u ff

Paul Taylor, Politico, Belgio

L’opinione

Ora che tutti i commissari europei hanno ottenuto l’approvazione dal parlamento di Strasburgo, la presi-

dente della Commissione europea Ursula von der Leyen dovrà dimostrare che vuole davvero rendere l’Europa carbon neutral, azzerando le emissioni di gas serra entro il 2050. Von der Leyen potrebbe proporre di fissare un prezzo minimo per il carbonio nell’Unione europea. Stabilendo un prez-zo minimo nel sistema di scambio di quo-te di emissioni (Ets), oggi in vigore in Eu-ropa, si renderebbero più rapidi i tagli del-le emissioni di gas serra, e si darebbe ai produttori di energia elettrica e alle indu-strie certezza legale e incentivi di lungo periodo per investire in tecnologie a basse emissioni di carbonio.

Dalle parole ai fattiIn base al sistema di scambio di quote di emissioni, dal 2005 pietra miliare delle politiche sul clima dell’Unione, le aziende avrebbero dovuto acquistare le quote di emissione all’asta e scambiarle. Si pensa-va che così le forze del mercato avrebbero costretto il settore energetico e industriale ad alto consumo energetico ad adattarsi riducendo le emissioni. Ma il sistema è stato perseguitato da prezzi bassi e volati-li, e minacciato da anni di surplus di per-messi per inquinare, molti dei quali con-cessi gratuitamente per mantenere com-petitive le industrie europee. Quest’anno il prezzo di una licenza Ets a emettere una tonnellata di anidride carbonica ha oscil-lato tra i 16 e i 30 euro. A luglio Von der Le-yen ha detto che le emissioni devono ave-re un prezzo adeguato e ha chiesto di estendere il sistema Ets al settore delle spedizioni, dei trasporti e dell’edilizia. Ma finora non ha chiesto l’imposizione di un prezzo minimo. Il suo patto verde europeo ha bisogno di un provvedimento simbolo per essere credibile e diventare il fulcro della sua presidenza, come fece Jacques Delors impegnandosi a realizzare il mer-cato unico europeo entro il 1992. u gim

La sfida verdedell’Europa

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20 Internazionale 1336 | 6 dicembre 2019

Africa e Medio Oriente

Dopo due mesi di proteste nel sud e nel centro del paese, il 29 no-vembre il primo ministro ira-cheno Adel Abdul Mahdi si è

dimesso. Poco prima, la più alta autorità religiosa sciita dell’Iraq, l’ayatollah Ali al Sistani, aveva chiesto un cambio alla guida del paese. La stessa richiesta era stata fatta il giorno precedente anche dal potente lea-der sciita Moqtada al Sadr, a capo del più grande blocco parlamentare, Sairun. L’au-mento delle violenze in pochi giorni aveva causato più di sessanta vittime, portando a circa quattrocento morti il bilancio dall’ini-zio delle proteste il 1 ottobre.

I manifestanti chiedono una ristruttura-zione del sistema politico e la fine dell’in-terferenza straniera negli affari iracheni, rivolgendo la loro rabbia soprattutto verso l’Iran. Il governo di Abdul Mahdi rimarrà in

carica fino a quando non sarà scelto un nuo-vo primo ministro. Dato il livello di scontro tra le diverse forze politiche, secondo alcu-ni esperti il paese rischia lo stallo e una guerra civile. La situazione è complicata dall’atteggiamento delle due grandi poten-ze straniere più influenti in Iraq: Iran e Stati Uniti. Mentre Teheran ha alimentato la vio-lenza in Iraq per proteggere i suoi interessi, la posizione di Washington è più difficile da interpretare, in un momento in cui si sta ti-rando fuori dal Medio Oriente, lasciando dietro di sé un vuoto politico.

Con le mani legateI manifestanti chiedevano le dimissioni di Abdul Mahdi dall’inizio, ma l’Iran aveva fatto pressioni perché restasse in carica, te-mendo di perdere la sua posizione di forza in caso di trattative per un nuovo governo. Anche altre forze nel paese, tra cui le princi-pali coalizioni in parlamento e il governo regionale del Kurdistan, volevano che il premier restasse al potere per mancanza di un’alternativa. I manifestanti hanno festeg-giato, ma queste dimissioni non risolveran-no la crisi politica.

Abdul Mahdi era stato nominato primo ministro nell’ottobre del 2018, dopo mesi di

proteste antigovernative e di trattative tra le forze politiche irachene, l’Iran e gli Stati Uniti. Senza un partito a sostenerlo, è stato una figura di consenso che ha avuto scarso potere politico. Gli iracheni si aspettavano che formasse un governo tecnocratico e ap-provasse importanti riforme. Ma di fronte ai battibecchi tra partiti filoiraniani e antira-niani e a un parlamento poco collaborativo, il primo ministro ha fallito in entrambe le cose. Ha subìto pressioni da diverse forze politiche per assegnare i ministeri a candi-dati le cui nomine sarebbero state poi bloc-cate in parlamento per mesi. Inoltre spesso poteri interni o stranieri gli hanno impedito di prendere decisioni e i suoi ordini sono stati scavalcati dai suoi collaboratori più vi-cini a Teheran.

Con le dimissioni di Abdul Mahdi, le riforme chieste dai manifestanti non sa-ranno approvate. Inoltre nell’attuale parla-mento nessun blocco ha la maggioranza, quindi per nominare un nuovo premier servirà un altro difficile processo negozia-le. Anche se si raggiungesse un consenso, il nuovo incaricato non avrebbe una mag-gioranza parlamentare per approvare ri-forme politiche ed economiche decisive. L’unica soluzione sono le elezioni antici-pate, per cui il parlamento dovrebbe elabo-rare una nuova legge elettorale, come chie-dono i manifestanti.

Le proteste irachene hanno scosso l’Iran, che ha partecipato direttamente alla repressione. Per Haider Saeed dell’Arab center for research and policy studies di Doha, in Qatar, c’è il rischio che l’intervento di Teheran possa portare l’Iraq a una guerra civile simile a quella siriana, dove dal 2012 le milizie iraniane sostengono il regime di Damasco. Se la violenza diminuisse, sostie-ne Saeed, il movimento avrebbe il poten-ziale di trasformare l’Iraq. La rivolta ha ri-acceso negli iracheni il nazionalismo e il legame identitario oltre le appartenenze etniche e confessionali. “I manifestanti si rammaricano che la cacciata di Saddam Hussein non sia stata opera degli iracheni”, spiega il ricercatore. “D’ora in poi vogliono essere loro a determinare il percorso politi-co del paese, non una potenza straniera”.

Finora gli Stati Uniti hanno dato scarsa attenzione alle proteste in Iraq. L’apparente consenso sul ritiro statunitense dal Medio Oriente preoccupa Baghdad e il resto della regione, dove gli alleati di Washington te-mono di dover fronteggiare da soli le ambi-zioni geopolitiche dell’Iran. u fdl

In Iraq il premier si dimettema la protesta continua

Dopo due mesi di contestazioni le dimissioni di Abdul Mahdi non risolveranno la crisi del paese. Lo stallo politico e le interferenze straniere rischiano di scatenare una guerra civile

Mariya Petkova, Al Jazeera, Qatar

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Bassora, 25 novembre 2019

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22 Internazionale 1336 | 6 dicembre 2019

Africa e Medio Oriente

Il 29 novembre ad Algeri almeno 25 manifestanti sono stati arrestati ap-pena prima dell’inizio del tradiziona-le corteo contro la classe dirigente del

paese. Centinaia di persone si erano radu-nate di mattina presto nel centro della capi-tale al grido “Giuriamo che non ci sarà un voto” e “È il nostro paese, siamo noi a deci-dere”. Ma neanche questo quarantunesimo venerdì consecutivo di proteste è sfuggito alla repressione ordinata dalle autorità, de-cise a mettere a tacere chi critica le elezioni presidenziali del 12 dicembre.

Pochi giorni prima, il 26 novembre, l’il-lustratore Amine Benabdelhamid, detto Nime, era stato arrestato. Il 28 novembre un tribunale di Orano ha disposto per lui la custodia cautelare. In una delle sue ultime vignette, intitolata L’elu (l’eletto) e ispirata alla favola di Cenerentola, Nime aveva di-segnato i cinque candidati alla presidenza in fila per provare una scarpetta tenuta in mano dal capo di stato maggiore dell’eser-cito Ahmed Gaid Salah, l’uomo forte del paese. Lo stesso 28 novembre il procurato-re di un tribunale di Algeri ha chiesto due anni di carcere per l’attivista Mohamed Tadjadit, noto come il “poeta della ca-sbah”, accusato di “attentato all’interesse nazionale”.

La lista dei detenuti per reati d’opinione compilata dal Comitato nazionale per la li-berazione dei detenuti (Cnld) si allunga di giorno in giorno. Secondo il Cnld più di 140 manifestanti, attivisti o giornalisti sono stati arrestati dalla fine di giugno. La Lega algerina per la difesa dei diritti umani (Laddh) denuncia centinaia di nuovi arre-sti dall’inizio della campagna elettorale, il 17 novembre. A Tlemcen, nel nordovest del

paese, quattro manifestanti sono stati arre-stati il 17 novembre per aver fischiato a un comizio di Ali Benflis, ex primo ministro e uno dei candidati alle presidenziali, e sono stati condannati a 18 mesi di carcere per di-rettissima. Il venerdì successivo i manife-stanti di Tlemcen sono andati sotto le mura della prigione gridando i nomi dei reclusi, come mostra un video circolato sui social network.

L’Unione europea alza la voceIl movimento popolare Hirak, lanciato lo scorso 22 febbraio, contesta non solo i can-didati, ma l’idea stessa di andare a votare per il presidente nella situazione in cui si trova oggi l’Algeria. I cinque candidati alla presidenza – Ali Benflis, Abdelmadjid Teb-boune, Azzedine Mihoubi, Abdelaziz Be-laïd e Abdelkader Bengrina – faticano a portare avanti la campagna elettorale. Le loro apparizioni in pubblico, nelle quali si presentano scortati dalle forze di sicurez-za, sono oggetto di pesanti contestazioni. Molti incontri sono organizzati in sale chiu-

se al grande pubblico, mentre intorno gli oppositori scandiscono slogan contro i can-didati. I dibattiti si svolgono soprattutto sulle televisioni, pubbliche e private, e l’op-posizione non viene invitata. I candidati sono tutti ex collaboratori dell’ex presiden-te Abdelaziz Bouteflika o di suoi sostenito-ri, e agli occhi degli algerini sono diversi tra loro solo per l’età. Tutti e cinque sostengo-no che le elezioni sono il “modo più sicuro” per uscire dalla crisi e cercano di tirare dal-la propria parte l’Hirak. Ma le loro parole cadono nel vuoto, mentre la tensione si fa più palpabile.

Il 28 novembre il parlamento europeo ha adottato una risoluzione non vincolante “sulla situazione delle libertà” in Algeria, in cui si condannano gli arresti arbitrari, le de-tenzioni e gli attacchi a giornalisti, attivisti e manifestanti. Algeri ha definito l’iniziati-va degli eurodeputati un’ingerenza negli affari interni del paese, con l’obiettivo di “provocare il caos”. L’Unione generale dei lavoratori algerini (Ugta, il principale sin-dacato del paese, legato al potere) ha orga-nizzato una manifestazione il 30 novembre per denunciare queste ingerenze.

La distanza tra l’Hirak e il potere non fa che accentuarsi. Alla domanda su chi sia il “candidato appoggiato dal potere” molti rispondono senza esitare: “Le elezioni”. Said Salhi, un responsabile della Laddh, è preoccupato del “braccio di ferro che si poggia su una pericolosa escalation” e ha chiesto l’annullamento delle presidenziali. Il sociologo Lahouari Addi e l’ex deputato del Fronte delle forze socialiste Djamel Ze-nati hanno lanciato un “appello alle co-scienze” per impedire “quest’azzardo elet-torale”. Le loro richieste, però, non sono tenute in nessun conto dagli attuali diri-genti. Il generale Ahmed Gaid Salah, che ha imposto le elezioni, è fermo sulla sua posizione e ha chiesto al popolo algerino di partecipare in massa.

Intanto si è svolta il 4 dicembre la prima udienza del processo per corruzione che vede imputati due ex premier, Ahmed Ou-yahia e Abdelmalek Sellal, insieme ad altri ministri. Sono accusati di “concessione di vantaggi indebiti nell’interesse altrui”, “abuso d’ufficio”, “traffico di influenze” e “violazione del regolamento dei mercati pubblici”. Un’offensiva giudiziaria che sembra fatta apposta per rassicurare i ma-nifestanti, facendo sfilare in tribunale im-portanti esponenti del vecchio regime di Bouteflika. ◆ gim

Le elezioni presidenziali che dividono l’Algeria

Manifestazioni continue, disturbi ai comizi, appelli al rinvio del voto, centinaia di arresti per reati d’opinione. La tensione sale in vista delle presidenziali del 12 dicembre

Amir Akef, Le Monde, Francia

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L’eletto, 4 novembre 2019. I cinque candidati alla presidenza algerini aspettano di provare la scarpetta in mano al capo dell’esercito Gaid Salah

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Internazionale 1336 | 6 dicembre 2019 23

iran

Segnale di malcontento “Le proteste scoppiate in Iran il 15 novembre sono state quelle con più vittime dalla rivoluzione islamica di quarant’anni fa e so-no state represse in quattro gior-ni da polizia e forze di sicurez-za”, scrive Radio Farda. Il 2 di-

cembre Amnesty international ha denunciato che almeno 208 persone sono state uccise, ma “il bilancio potrebbe essere più alto”, dato che il blocco di inter-net ha reso difficile la raccolta d’informazioni. La tv di stato iraniana il 3 dicembre ha am-messo di avere ucciso “dei rivol-tosi” che avevano attaccato obiettivi sensibili o militari. Il quotidiano panarabo Al Araby al Jadid commenta che “le ma-nifestazioni scatenate dall’au-mento del prezzo della benzina, pur avendo attirato meno perso-ne rispetto a quelle scoppiate dopo le presidenziali del 2009, sono diventate violente molto più rapidamente. Questo è un segnale del malcontento dovuto alle pesanti sanzioni imposte dal presidente statunitense Do-nald Trump”.

Il 1 dicembre 14 fedeli protestanti sono stati uccisi da un gruppo di uomini armati che hanno fatto irruzione in una chiesa nel villaggio di Hantoukouri, nell’est del Burkina Faso, vicino alla frontiera con il Niger. Tra le vittime cinque sono minori di 15 anni, scrive Aujourd’hui au Faso. Dal 2015 il paese deve fare i conti con la minaccia

jihadista, che ha già causato quasi settecento vittime. Gli attacchi indiscriminati contro civili e militari sono attribuiti a una decina di gruppi armati, tre dei quali noti in tutta la regione del Sahara e del Sahel: il Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani, Ansarul islam e lo Stato islamico nel grande Sahara. Queste milizie in un primo tempo erano attive nel nord del Mali (che nel 2012 era stato occupato da un’alleanza tra jihadisti e tuareg) ma oggi hanno allargato il campo d’azione al Niger e al Burkina Faso. Alla fine di novembre il Programma alimentare mondiale ha lanciato un allarme: l’insicurezza in Burkina Faso sta accelerando la crisi umanitaria. Un terzo del paese è teatro di conflitti e ci si aspetta che 650mila persone saranno state costrette ad abbandonare le loro case entro la fine del 2019. ◆

Burkina Faso

Una situazione insostenibile

Aujourd’hui au Faso, Burkina Faso

SUdan

riformenecessarie Il 29 novembre centinaia di per-sone sono scese in piazza per fe-steggiare una nuova legge che mette al bando il Partito del congresso nazionale dell’ex pre-sidente Omar al Bashir, ne con-fisca le proprietà e vieta ai suoi dirigenti di fare politica per die-ci anni, scrive Sudan Tribune. È stata cancellata anche una norma del 1992 che imponeva restrizioni rigide all’abbiglia-mento delle donne e criminaliz-zava il consumo di alcol. Al Bashir è sotto processo per cor-ruzione e il verdetto è atteso per il 14 dicembre. Il 3 dicembre a Khartoum 23 operai sono morti in un incendio in una fabbrica di ceramiche (nella foto).

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nigeria

gli effetti della chiusura “Da ottobre la Nigeria impedi-sce il libero passaggio delle merci attraverso le sue frontie-re terrestri. La decisione, presa nel nome della lotta al contrab-bando, ha causato uno shock economico”, scrive African Business. La misura resterà in vigore fino al 31 gennaio 2020. Il governo ha visto aumentare le entrate doganali nei porti, ma la popolazione deve fare i conti con l’aumento dei prezzi delle derrate alimentari, in par-ticolare del riso. Secondo gli esperti la decisione è in contra-sto con gli impegni internazio-nali presi dal paese: la comuni-tà economica degli stati dell’Africa occidentale, di cui la Nigeria fa parte, prevede il libe-ro movimento di persone, mer-ci e servizi.

in Breve

Israele Il 1 dicembre Israele ha annunciato un piano per costru-ire un nuovo insediamento per coloni ebrei nella città di He-bron, in cisgiordania.Namibia Il presidente Hage Geingob è stato rieletto il 27 no-vembre con il 56 per cento dei voti, mentre nel 2014 aveva ot-tenuto l’87 per cento dei voti.Rdc Il 28 novembre quattro operatori impegnati nella lotta all’ebola sono stati uccisi da uo-mini armati nell’est del paese.Yemen L’Arabia Saudita ha li-berato 128 ribelli huthi, trasferiti a Sanaa il 28 novembre con l’aiuto del comitato internazio-nale della croce rossa.

Siria

Bombesui mercati Il 2 dicembre l’aviazione siriana ha bombardato i mercati di due città della provincia di Idlib, l’ul-timo territorio sotto il controllo dei ribelli in Siria, uccidendo venti persone. “Nelle ultime set-timane gli attacchi nella regione si sono intensificati”, spiega Enab Baladi, “e l’esercito siria-no, sostenuto dalla Russia, cerca di avanzare nella zona orienta-le”. Lo stesso giorno undici per-sone, di cui otto bambini, sono morte in un raid aereo condotto dai turchi vicino a una scuola di Tal Rifaat, una città del nord della Siria controllata dai curdi. 2000

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24 Internazionale 1336 | 6 dicembre 2019

Americhe

Il 1 dicembre si è concluso il primo an-no di governo del presidente messica-no Andrés Manuel López Obrador (centrosinistra). È l’occasione giusta

per fare il punto sui risultati ottenuti finora dalla sua amministrazione. Innanzitutto bisogna riconoscere che il proposito di tra-sformare radicalmente il Messico, annun-ciato da López Obrador nelle sue tre cam-pagne elettorali per ottenere la presidenza, non è rimasto lettera morta: in dodici mesi l’amministrazione pubblica ha subìto una trasformazione senza precedenti, segnata soprattutto dalla lotta alla corruzione e da un’austerità quasi estrema.

Trasformazione profondaIl bilancio pubblico è stato orientato verso politiche più ridistributive della ricchezza. La riforma dell’istruzione approvata dall’ex presidente Enrique Peña Nieto è stata cancellata e la politica energetica è passata dal disfattismo e dallo smantella-mento delle infrastrutture al consolida-mento dell’azienda petrolifera statale Pe-mex e della commissione federale dell’elettricità. Dopo lo sbandamento dei precedenti governi neoliberisti, la politica estera è tornata ai princìpi storici che han-no sempre guidato la diplomazia messica-na, rendendola un esempio e un punto di riferimento nel mondo. Il governo non solo ha rispettato la promessa di non applicare misure repressive contro i movimenti, ma ha ascoltato le loro richieste come nessuno ha mai fatto in cinquant’anni.

È vero, però, che l’impegno di López Obrador di far crescere l’economia del 4 per cento non è stato rispettato. Alla fine del 2019 il pil messicano sarà, se non negativo,

almeno in stallo evidente. Oggi il dato più preoccupante è l’incapacità del governo di combattere l’insicurezza e la violenza cri-minale, fenomeni che risalgono sicura-mente ai governi precedenti, ma che sono un problema grave per tutta la società mes-sicana. Finora la strategia di López Obra-

Un anno di governodi López Obrador

L’economia non cresce e la violenza criminale non è diminuita, ma il presidente del Messico ha ancora la fiducia dei cittadini, scrive il quotidiano di sinistra La Jornada

La Jornada, Messico

dor per combattere la criminalità alla radice – con politiche contro la povertà, la disoccu-pazione, l’emarginazione, il deterioramen-to del sistema educativo e sanitario – non ha funzionato e gli indici di criminalità non so-no diminuiti. Al contrario, l’abbandono del-la strategia ufficiale di lotta senza quartiere contro la criminalità ha lasciato campo li-bero alle organizzazioni criminali. Non sembra che all’orizzonte ci siano proposte concrete per affrontare il problema.

Il governo ha una popolarità enorme. Lo si è visto il 1 dicembre nella piazza dello Zócalo a Città del Messico, dove López Obrador ha presentato i risultati del suo pri-mo anno di gestione davanti a decine di mi-gliaia di sostenitori. Alcune misure del go-verno non sono piaciute, soprattutto alla classe media e ai ricchi. In ogni caso, le for-ze politiche sconfitte alle elezioni del 2018 non hanno raccolto il malcontento delle minoranze per costruire una proposta poli-tica alternativa.

Nonostante gli errori, i progressi fatti in questi dodici mesi confermano che il Mes-sico sta vivendo una trasformazione più profonda di un semplice cambiamento di governo: il vecchio regime è finito ed è co-minciata la costruzione di uno nuovo. u fr

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La piazza dello Zócalo a Città del Messico, 1 dicembre 2019

u Uno dei progetti più criticati del governo di Andrés Manuel López Obrador è il cosiddetto treno maya, nel sudest del paese. Si tratta di una ferrovia lunga 1.500 chilometri che dovrebbe collegare la zona archeologica di Palenque, in Chiapas, alla riviera maya nello stato di Quintana roo. Secondo gli oppositori del presidente e secondo alcuni suoi sostenitori, l’opera avrà un impatto ambientale enorme. Inoltre la decisione, presa a giugno di quest’anno, di schierare più soldati alla frontiera con gli Stati Uniti per impedire che i migranti attraversino il confine è stata giudicata una sottomissione alle minacce del presidente statunitense Donald trump. Infine, da un leader di sinistra ci si aspettava un’attenzione particolare alla cultura. Invece López Obrador ha tagliato i fondi e ha attaccato più volte la stampa. Bbc mundo

Da sapere Progetti contestati

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Page 25: Internazionale - 06 12 2019

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26 Internazionale 1336 | 6 dicembre 2019

Americhe

Il numero di statunitensi che decidono di cambiare stato o città è ai minimi storici. Lo rivelano i nuovi dati del Census bureau, l’agenzia governativa

che raccoglie periodicamente i dati sulla popolazione. Tra i paesi ricchi, gli Stati Uni-ti sono sempre stati tra quelli in cui le perso-ne si spostano di più. Negli anni cinquanta un quinto degli americani cambiava casa ogni anno. Quando una fabbrica chiudeva, gli operai si spostavano in altre aree del pa-ese e cercavano un’altra fabbrica dove lavo-rare. I giovani si riversavano nelle città e nei sobborghi in crescita, dove i posti di lavoro abbondavano e gli affitti erano più bassi.

Ma di recente gli affitti sono schizzati alle stelle in molte città, quindi i giovani in cerca di opportunità non possono più per-mettersi di partire. Tenendo conto del costo della vita, oggi i posti di lavoro meno retri-

buiti generano lo stesso livello di ricchezza in ogni zona degli Stati Uniti.

La diminuzione degli spostamenti evi-denzia un cambiamento sostanziale nel modo di vivere degli statunitensi. Le ragio-ni di questo fenomeno sono in parte legate alla demografia: gli Stati Uniti stanno invec-chiando, e gli anziani sono tradizionalmen-te meno inclini a trasferirsi. Ma, come spie-ga Abigail Wozniak, economista della Fe-deral reserve bank di Minneapolis, “il calo degli spostamenti riguarda tutti i segmenti demografici: giovani e anziani, proprietari di casa e affittuari, lavoratori istruiti e meno istruiti”. Gli economisti che studiano da an-ni questa tendenza non riescono a indivi-duarne la causa principale.

In genere negli Stati Uniti a trasferirsi sono soprattutto i giovani tra i diciotto e i trent’anni. In questa fascia di età il calo ne-gli spostamenti è stato molto rapido, sotto-linea William Frey, esperto di demografia della Broo kings institution. Tra il 2005 e il 2006 il 29 per cento dei giovani di età com-presa tra 20 e 24 anni ha cambiato casa. La percentuale è scesa al 20 per cento negli an-ni seguenti. La tendenza è in parte una con-seguenza a lungo termine della grande re-cessione. Il rallentamento del mercato im-

mobiliare e di quello del lavoro, insieme alla propensione a rinviare matrimonio e gravidanze, hanno ridotto sensibilmente il tasso di trasferimento delle persone nate tra i primi anni ottanta e il duemila.

Vantaggio scomparsoQuesto fenomeno produce una frattura geo grafica. Fino a pochi decenni fa le aree meno ricche degli Stati Uniti accoglievano la maggior parte dei nuovi residenti. Gli af-fitti e i salari bassi attiravano le imprese, e le persone tendono a trasferirsi dove ci sono i posti di lavoro. Oggi però l’economia è me-no flessibile e la ricchezza è concentrata in poche grandi città, mentre persone e im-prese si muovono sempre meno. “Un tem-po le aree più povere crescevano più rapida-mente”, spiega Jay Shambaugh, professore di economia alla George Washington uni-versity. “Oggi invece le aree in difficoltà continuano a soffrire”.

I cambiamenti economici hanno reso meno vantaggioso spostarsi da un posto a un altro. In passato tutti i lavoratori – laure-ati o non laureati – sapevano che avrebbero guadagnato stipendi più alti nelle zone ur-bane. Inoltre le città offrivano posti di lavo-ro migliori anche alle persone meno quali-ficate, negli uffici e nelle fabbriche. Un’ana-lisi condotta da David Autor, economista del Massachusetts institute of technology, ha rivelato che il vantaggio salariale delle aree urbane per i lavoratori meno istruiti è scomparso. I posti di lavoro rimasti per que-ste persone sono soprattutto nel settore dei servizi: ristorazione, pulizie, salute, intrat-tenimento, attività ricreative, trasporti e riparazioni.

Nella maggior parte dei casi le persone che si trasferiscono sono laureate. Come Tyler Wilson, che dopo aver finito l’univer-sità è tornato a casa dai genitori a Lea-vittsburg, in Ohio. Ha trovato lavoro in una fabbrica che produce componenti per rubi-netti. Non era il lavoro che voleva, ha man-dato in giro il curriculum ed è stato assunto da una multinazionale di Cleveland che produce macchinari per gli ospedali.

Ha lasciato la casa dei genitori e si è tra-sferito a Cleveland, a cinquanta chilometri di distanza. Sarebbe disposto a cambiare stato per proseguire la sua carriera, ma per il momento i prezzi degli affitti nel nordest dell’Ohio lo spingono a restare vicino a ca-sa: “Il costo della vita qui è imbattibile, mi trasferirò solo se arriverà una grande occa-sione”. u as

Negli Stati Uniti trasferirsi non conviene più

Rispetto al passato, diminuiscono gli americani che cambiano città o stato. Un dato che segnala tendenze demografiche ed economiche preoccupanti

Sabrina Tavernise, The New York Times, Stati Uniti

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Lordstown, Ohio, 27 novembre 2018

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STATI UNITI

Gli interessidi Trump “Il presidente Donald Trump ha abusato dei suoi poteri e ha mes-so i suoi interessi davanti a quelli degli Stati Uniti”. È la conclusio-ne di un rapporto pubblicato dai democratici della camera dei rappresentanti, dove è in corso l’indagine che potrebbe portare alla messa in stato d’accusa del presidente. “I democratici sono convinti che a luglio del 2019 Trump abbia fatto pressioni sul governo ucraino perché aprisse un’inchiesta sull’ex vicepresi-dente Joe Biden (oggi candidato alle primarie democratiche in

vista delle presidenziali del 2020), mettendo in pericolo la sicurezza nazionale”, scrive il Wall Street Journal. Inoltre avrebbe cercato di tenere il con-gresso all’oscuro, danneggiando la democrazia americana. Que-sta tesi è basata sulle testimo-nianze rilasciate da alcuni colla-boratori del presidente, come Gordon Sondland, l’ambascia-tore degli Stati Uniti all’Unione europea. La pubblicazione del rapporto apre una nuova fase nell’inchiesta. Prima della fine dell’anno la camera (controllata dai democratici) potrebbe vota-re per incriminare Trump. Poi si aprirà il processo contro il presi-dente al senato, dove i repubbli-cani hanno la maggioranza.

Il 28 novembre il tribunale elettorale dell’Uruguay ha confermato che il candidato di centrodestra Luis Lacalle Pou (nella foto), del Partido nacional, ha vinto il secondo turno delle elezioni presidenziali e sarà il prossimo presidente del paese. La sinistra del Frente amplio era al potere da quasi quattordici anni. Secondo la Folha de S.Paulo, “la sfida principale di Lacalle Pou sarà la sicurezza, che è la grande preoccupazione degli uruguaiani, e rilanciare l’economia. Il nuovo presidente ha detto che non revocherà le leggi sui diritti civili approvate dai governi di sinistra, come quella sul matrimonio omosessuale, sull’aborto e sulla legalizzazione della produzione e della vendita della marijuana”. u

Uruguay

Vittoria della destra

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L’annunciodi Piñera “Il 3 dicembre il presidente cile-no Sebastián Piñera ha annun-ciato che presenterà presto in parlamento un progetto di legge per un bonus unico di centomila pesos (circa 110 euro) di cui be-neficeranno più di un milione di famiglie povere”, scrive Info-bae. La decisione è stata comu-nicata il giorno dopo l’annuncio di un altro piano per rilanciare l’economia, che dalla metà di ottobre, quando in tutto il paese sono scoppiate grandi proteste contro le disuguaglianze, si è contratta del 3,4 per cento. L’obiettivo è generare centomila posti di lavoro e ristabilire la pa-ce sociale.

SURINAME

Presidentecondannato Il 29 novembre il presidente del Suriname Dési Bouterse, 74 an-ni, è stato condannato a vent’an-ni di carcere per aver ordinato l’uccisione nel 1982 di quindici oppositori politici, tra cui avvo-cati, giornalisti e professori uni-versitari. “I partiti d’opposizione hanno subito chiesto le dimis-sioni di Bouterse, che si trovava in viaggio ufficiale in Cina quan-do è stata annunciata la senten-za”, scrive il Guardian. negli anni ottanta Bouterse era a capo di una giunta militare. Poi, nel 2010, era stato eletto presidente e riconfermato per un secondo mandato nel 2015.

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Santiago, 4 novembre STATI UNITI

Il futuro vistodall’Ohio nel parlamento dell’ohio è sta-to presentato un disegno di leg-ge sull’aborto che, se approvato, imporrà ai medici di reimpian-tare una gravidanza ectopica, una condizione che si verifica quando l’impianto dell’embrio-ne avviene in una sede diversa dalla cavità uterina. La proce-dura non esiste nella scienza medica, ma i medici che doves-sero rifiutarsi di attuarla rischie-rebbero l’ergastolo. ad aprile l’ohio aveva approvato una leg-ge, poi bloccata dai tribunali, che proibisce l’aborto dopo la sesta settimana. “Quello che succede in ohio potrebbe anti-cipare la direzione del dibattito sull’aborto nei prossimi anni in tutto il paese”, scrive Jill Filipo-vic sul Guardian. “I repubbli-cani sanno che leggi così estre-me sono bloccate dai tribunali. ed è proprio quello che voglio-no: creare uno scontro giudizia-rio che arrivi fino alla corte su-prema, che potrebbe decidere di cancellare il diritto costitu-zionale all’aborto”.

IN BREVE

Honduras Il 2 dicembre i sette uomini giudicati colpevoli di aver ucciso nel 2016 l’attivista per l’ambiente Berta Cáceres sono stati condannati a pene che vanno dai 30 ai 50 anni di carcere. Secondo la famiglia dell’attivista, è solo una prima crepa nel muro dell’impunità.

Settimana dal 27 novembre al 4 dicembre

Morti per armi da fuoco*

Feriti

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*Sono esclusi i suicidi**Almeno quattro vittime (feriti e morti)

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Stati Uniti Il paese delle armi

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28 Internazionale 1336 | 6 dicembre 2019

MALTA

Dimissionirimandate Dopo le dimissioni di due mem-bri del suo governo coinvolti nell’inchiesta sull’omicidio del-la giornalista Daphne Caruana Galizia, il premier Joseph Mu-scat (nella foto) ha annunciato che lascerà la carica dopo che il partito avrà scelto un nuovo lea-der. Migliaia di persone hanno manifestato alla Valletta chie-dendo le sue dimissioni imme-diate. “Per impedire che la repu-tazione del paese precipiti anco-ra più in basso può fare una sola cosa: andarsene subito”, com-menta il Times of Malta.

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Un’opportunitàper l’Spd

Chi viene dato per morto vive più a lungo: questo proverbio tedesco descrive perfettamente il futuro del governo. a prima vista la dia-

gnosi sembra scontata: la grande coalizione non ha più alcuna possibilità. I nuovi leader del Partito socialdemocratico (spd) nor-bert Walter-Borjans e saskia esken, voglio-no rivedere gli accordi, mentre l’unione cristianodemocratica (Cdu) esclude qual-siasi cambiamento.

sarebbe però prematuro parlare di ele-zioni anticipate. né la Cdu né l’spd trarreb-bero vantaggio dal voto, visto che nessuna delle due ha un candidato valido per il posto

di cancelliere. la carriera di olaf scholz è finita il 30 novembre. Dopo la sconfitta alle elezioni per la leadership dell’spd potrà ri-manere ministro delle finanze, ma niente di più. la leader della Cdu annegret Kramp-Karrenbauer è talmente impopolare che il suo partito sta cercando da mesi un’alterna-tiva. entrambi i partiti sono divisi. nell’spd il fronte corre orizzontalmente, tra gruppo parlamentare e base, su quanto il partito debba essere di sinistra. nella Cdu la spac-catura corre in verticale a cominciare dai vertici, con Wolfgang schäuble contro an-gela Merkel. Il partito non riesce a stabilire cosa significa essere conservatori. se si spinge troppo a destra, molti elettori po-trebbero passare ai Verdi. se si resta troppo al centro, potrebbe perdere voti in favore di alternative für Deutschland.

spd e Cdu hanno bisogno di tempo per risolvere i conflitti e trovare un candidato. sarebbe sconsiderato porre fine alla grande coalizione. Ma per quanto sembri strano, l’spd pare quella più in salute. si potrebbe arrivare, infatti, a una divisione dei compiti

che gioverebbe a tutti: i due nuovi leader si occuperebbero del programma di sinistra, mentre i ministri continuerebbero a gover-nare all’insegna del pragmatismo.

Finora i leader dell’spd hanno agito co-me se avessero sbagliato partito: scholz e compagnia si distinguevano a malapena dai loro colleghi cristiano-democratici. Co-sì l’identità del partito si è dissolta. Dato che Walter-Borjans ed esken non sono coinvol-ti nel governo, potrebbero essere loro a marcare la differenza tra programma e compromessi e spiegare agli elettori perché l’spd è importante.

I due leader si sono già esposti: propon-gono di aumentare il salario minimo a 12 euro all’ora, rinegoziare le misure sul clima, lanciare un programma di investimenti mi-liardario e introdurre un’assicurazione uni-versale per i bambini. sarebbe un miracolo se la Cdu accettasse di realizzare almeno una di queste proposte. D’altra parte, al mo-mento non sembra in grado di affrontare nuove elezioni. Il gioco ha inizio: chi ha più paura delle urne? u ct

Ulrike Herrmann, Die Tageszeitung, Germania

le elezioni del 12 dicembre si avvicinano e la stampa britannica s’interroga sulla scelta degli elettori (Prospect), le posizioni degli inglesi all’interno del regno unito (new statesman) e le ultime difficoltà che Boris Johnson deve affrontare per essere confermato premier (spectator). Intanto, i sondaggi danno i conservatori in testa con il 42 per cento, undici punti in più dei laburisti. “le possibilità sono due”, scrive David runciman sulla London Review of Books. “una maggioranza conservatrice, che porterebbe alla Brexit entro il 31 gennaio 2020, o un governo di minoranza guidato dal labour, con un nuovo accordo e un secondo referendum. tutte le altre ipotesi, compresa una vittoria laburista, sono da scartare”. u

Regno Unito

Germania

Il momento della verità

TURCHIA

Un’altra avventura

Il vertice della nato a londra, organizzato per il 70° anniversa-rio dell’alleanza, è stato oscura-to dalle tensioni tra i paesi mem-bri, in particolare sulla turchia. alla vigilia del vertice ankara ha testato i sistemi di difesa aerea russi s400, nonostante le prote-ste statunitensi. Inoltre ha fir-mato con il governo di tripoli un accordo sui confini marittimi di libia e turchia, ignorando le rivendicazioni di Grecia e Cipro. “una decisione che trascina il paese in un’altra spericolata av-ventura di politica estera”, com-menta Evrensel.

IN BREVE

Regno Unito Il 29 novembre due persone sono state uccise e tre ferite da un attentatore jiha-dista sul london Bridge, a lon-dra. l’uomo, usman Kahn, è stato ucciso dalla polizia. era in libertà vigilata dal 2018 dopo una condanna per terrorismo.

Prospect la scelta

New Statesman la questione inglese

The Spectator Gli ultimi metri

Europa

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Page 29: Internazionale - 06 12 2019

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Page 30: Internazionale - 06 12 2019

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Page 31: Internazionale - 06 12 2019

Internazionale 1336 | 6 dicembre 2019 31

Asia e Pacifico

La recente elezione alla presidenza srilanchese di Gotabaya Rajapak-sa, fratello dell’ex presidente e attuale primo ministro Mahinda,

inaugura un regime populista autoritario, che difende una forma di nazionalismo su base etnica e religiosa. La base di questo regime è la nuova borghesia che si è forma-ta negli ultimi due decenni.

Gotabaya Rajapaksa è stato ministro della difesa e dello sviluppo urbano all’epo-ca del governo di Mahinda (2005-2015), e nel 2009 ha guidato la brutale fase finale della guerra civile, al centro di diverse in-dagini da parte della comunità internazio-nale per sospette violazioni dei diritti uma-ni, tra cui omicidi extragiudiziali e tortura. È probabile che la vittoria di Rajapaksa raf-forzerà il potere dell’apparato di sicurezza e l’uso su vasta scala di “poteri ecceziona-li”. Ma cosa ha portato a questo risultato?

Nel 2015 il trionfo di Maithripala Sirisena su Mahinda Rajapaksa era stato presentato come l’alba di un’era di rinnovamento de-mocratico. In realtà il governo si è impan-tanato in una contesa tra il presidente e il primo ministro Ranil Wickremasinghe, pur introducendo riforme come alcuni vin-coli al potere presidenziale e l’apertura, anche se limitata, dello spazio politico de-mocratico. Ma la politica ha avuto un ruolo secondario rispetto alla crescente resisten-za negli apparati di stato, inclusi quelli di sicurezza, su cui il nazionalismo su base etnica esercita un forte richiamo.

Oggi in gioco ci sono due movimenti strutturali che si intersecano tra loro: una crescente militarizzazione degli apparati dello stato e l’estensione dei poteri ecce-zionali a scapito della società civile.

Dagli anni settanta lo Sri Lanka ha do-vuto fronteggiare due ribellioni armate: una nel sud negli anni ottanta e un’altra nel nord, la lunga guerra civile contro le Tigri per la liberazione della patria tamil (Ltte), finita nel 2009. Questi conflitti hanno pla-smato in profondità le istituzioni dello sta-to, soprattutto in merito all’adozione di poteri eccezionali che hanno consentito alle autorità di aggirare il normale proces-so costituzionale, creando di fatto delle

istituzioni statali parallele. I poteri straor-dinari concessi all’esercito e alla polizia sono stati normalizzati e usati per gestire e contenere l’attività politica nel nord del paese, a maggioranza tamil, ma hanno avuto ripercussioni anche nel resto dello stato, creando reti d’influenza formali e informali. Non si tratta solo di un aumento dell’autoritarismo: è probabile che tutto questo porterà a uno stile di governo più militarizzato. Cosa ancora più importante, la presidenza di Gotabaya consoliderà l’in-fluenza dei gruppi di estrema destra legati al nuovo partito formato dai Rajapaksa, il Fronte popolare dello Sri Lanka (Slpp), e agli apparati dello stato.

Uno di questi gruppi, il Bodu bala sena (Bbs), è vicino ai monaci buddisti radicali di estrema destra ed è stato coinvolto in nu-merosi attacchi contro i musulmani nel pa-ese. Questi gruppi sono sempre più influen-ti e giocheranno un ruolo importante nel corso della presidenza di Gotabaya, for-nendole una base di sostenitori nella socie-tà civile di estrema destra. L’uso di queste organizzazioni come strumenti di governo mostra che certe reti informali di potere si sono definite all’interno dello stato.

Conflitto socialeÈ nata una nuova borghesia più assertiva a beneficiare delle politiche autoritarie e a svilupparsi grazie alle misure neoliberiste introdotte dal 1977 nello Sri Lanka, che fi-no a quel momento aveva rappresentato uno dei rari esempi di stato sociale tra i pa-esi poveri. Questa classe di imprenditori è stata favorita dall’accesso alle risorse e ai progetti pubblici, come i piani di sviluppo edilizio e infrastrutturale.

Molti analisti si dimostrano miopi nell’inquadrare queste grandi opere nella competizione strategica tra Cina e Stati Uniti senza considerare in che modo questi conflitti sono plasmati e usati dalle forze sociali interne al paese. Il governo dei Raja-paksa dovrà affrontare continue sfide. La sua base è in larga misura confinata all’en-troterra buddista del paese e questo, som-mato al crescente indebitamento delle fa-miglie e dello stato e a disuguaglianze cre-scenti di reddito e risorse, non farà che in-tensificare il conflitto sociale che metterà alla prova il regime. u gim

In Sri Lanka tornano i fratelli Rajapaksa

Con l’elezione di Gotabaya Rajapaksa il paese avrà un presidente populista, autoritario e nazionalista, che alimenterà ulteriormente il potere dell’esercito e della polizia

Kanishka Jayasuriya, East Asia Forum, Australia

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Mahinda (a sinistra) e Gotabaya Rajapaksa, Colombo, Sri Lanka, 27 novembre 2019

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Page 32: Internazionale - 06 12 2019

32 Internazionale 1336 | 6 dicembre 2019

Dal 1 dicembre chi acquista una sim card in Cina deve sottoporsi al riconoscimento facciale. La misura è stata presentata dal governo come un modo per “proteggere i diritti e gli interessi dei cittadini online”, prevenendo il furto d’identità digitali e le truffe online, scrive il South China Morning Post. Così, però, gli utenti saranno più facilmente rintracciabili. Il paese sta introducendo il riconoscimento facciale ovunque, dai pagamenti ai distributori di carta igienica nei bagni pubblici. u

Cina

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AFGHANISTAN

Cautoottimismo Il 28 novembre, nel corso della sua prima visita alle truppe sta-tunitensi in afghanistan, il pre-sidente statunitense Donald trump ha detto che i taliban sa-rebbero pronti a un cessate il fuoco, cogliendo di sorpresa sia il governo di Kabul sia i taliban, scrive Foreign Policy. tuttavia il gruppo armato ha risposto ra-pidamente, dicendosi pronto a riprendere i colloqui interrotti bruscamente da trump a set-tembre. Sul futuro dei negoziati, tuttavia, prevale un cauto otti-mismo dato che i taliban non sembrano pronti a un cessate il fuoco e finora si sono rifiutati di trattare con il governo di Kabul. Inoltre rimane l’incognita del ri-sultato delle elezioni di settem-bre, che tarda ad arrivare a cau-sa di sospette irregolarità.

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SOCIETÀ

Ossessionati dal pallore anche se l’ossessione per la pel-le chiara è un problema molto discusso in asia, non sembra in diminuzione. nel continente il colore della pelle è da sempre legato alla classe sociale: la pel-le scura è associata al lavoro nei campi, quindi alla povertà rura-le, mentre quella chiara a una vita più confortevole al riparo dal sole. La pubblicità e i mezzi d’informazione alimentano la preferenza per la pelle chiara e le farmacie hanno scaffali pieni di prodotti schiarenti, per don-ne e per uomini. In thailandia l’ossessione per la pelle rosa pallido è legata alla popolarità di soap opera e gruppi musicali coreani. “Per molti tailandesi la bellezza in stile coreano – car-nagione perlacea, viso allunga-to, naso sottile – è sinonimo di bellezza universale”, scrive The Diplomat. Secondo l’or-ganizzazione mondiale della sanità, il 40 per cento delle donne in Cina, malaysia, Filip-pine e Corea del Sud usa pro-dotti schiarenti, un mercato che secondo le stime raggiungerà i 31,2 miliardi di dollari entro il 2024.

IN BREVE

Samoa Il governo ha sospeso tutti i servizi pubblici il 4 e il 5 di-cembre per dedicarsi alla lotta contro l’epidemia di morbillo che da ottobre ha causato la morte di sessanta persone e l’in-fezione di 3.900. Le scuole sono chiuse da un mese.

28 novembre 2019

DIRITTI UMANI

Washington punisce la Cina Dopo che il 28 novembre il pre-sidente degli Stati uniti Donald trump ha firmato una legge a sostegno dei manifestanti di hong Kong, la camera dei rap-presentanti americana ha ap-provato una proposta di legge “contro la detenzione e la tortu-ra arbitrarie degli uiguri in Ci-na”. La proposta, scrive la Bbc, prevede sanzioni contro espo-nenti del governo cinese, che ha quindi condannato “l’intromis-sione nei suoi affari interni”.

GIAPPONE

Giovani tradizionalisti un’indagine della nippon foundation sull’uso dei mezzi d’informazione in giappone smentisce l’idea diffusa che i giovani abbiano abbandonato la tv per il web. Secondo lo studio, infatti, la stragrande maggio-ranza dei giovani sotto i 18 anni (l’82,1 per cento degli intervista-ti) s’informa ancora attraverso

la televisione. Il 47,1 per cento ha come fonte di riferimento i social network, il 45,1 per cento i siti d’informazione e il 36,4 per cento i siti di streaming e condi-visione dei video. meno del 20 per cento s’informa attraverso la radio e la carta stampata, scrive Nippon.com. Quanto alla cre-dibilità dei mezzi d’informazio-ne, la maggior parte degli inter-vistati ha indicato tv e quotidia-ni di carta ai primi posti, seguiti a distanza dai social network e dai siti web.

Canali di informazione preferiti tra i minori di 18 anni, percentualeFonte: Nippon Foundation

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Siti di notizie

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Amici o famiglia

Giornali cartacei

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Asia e Pacifico

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Page 33: Internazionale - 06 12 2019

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Page 34: Internazionale - 06 12 2019

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Page 35: Internazionale - 06 12 2019

Internazionale 1336 | 6 dicembre 2019 35

I locali notturni passano di moda rapi-damente, ma il Bar Basso di Milano, aperto nel 1967, è un’istituzione in città. Con una combinazione tipica-

mente milanese di elegante prosperità e arredamento di gusto, è una delle mete preferite dell’élite creativa e dei ricchi che non amano farsi notare.

Seduto in disparte in un angolo del lo-cale, Pierluigi Dialuce ci spiega il motivo per cui Milano, dove ha scelto di vivere, ri-

uscirà ad affrontare l’incubo politico che travolge il resto d’Italia. “È probabile che questo paese si stia avvicinando a un mo-mento in cui l’estrema destra e Matteo Sal-vini conquisteranno il potere”, sottolinea. “Forse si alleeranno con Fratelli d’Italia. A quel punto avremo politiche vicine a quelle di Viktor Orbán. Ma Milano resterà quella che è. Non potrebbe essere altrimenti, qui ci sono troppi soldi. E così saremo ancora più diversi dal resto d’Italia. Ma a me sta bene così. Anzi è meglio”.

Dialuce è un consulente finanziario sul-la trentina che lavora presso una delle tante multinazionali che hanno trasformato Mi-lano in uno snodo di servizi per il capitale internazionale. È cresciuto a Roma, ma si è trasferito al nord tredici anni fa per studiare economia all’Università Bocconi. Per un po’ ha lavorato per la banca Barclays, prima

di trasferirsi per un breve periodo all’estero. Oggi è deciso a rimanere nella città più ric-ca e cosmopolita d’Italia.

“Questo posto è cambiato tantissimo negli ultimi anni. È molto più internaziona-le”, spiega. “Sono stati fatti investimenti enormi e oggi c’è una grande attività cultu-rale. Tutte cose che non si trovano nel resto d’Italia. Il ‘milanese’ non esiste più. Milano è fatta dai professionisti che si sono trasfe-riti qui perché ci sono opportunità che man-cano nelle città dove vivevano. Sono i mi-gliori d’Italia. Qui è in corso una specie di selezione naturale che sta creando una co-munità più europea, aperta e tollerante. Milano non è come il resto d’Italia”.

Monumento alla ricchezzaLa sicurezza di Dialuce nasce da un son-daggio effettuato l’anno scorso, secondo cui l’85 per cento dei residenti di Milano non vorrebbe vivere in nessun altro luogo, mentre l’81 per cento crede che la città sia un modello economico da imitare. Parigi, Amsterdam, Monaco e Berlino potrebbero competere con Milano, ma il resto d’Italia, dopo vent’anni di stagnazione economica, può solo sognare di stare al passo con il ca-poluogo lombardo. Oggi Milano segue

Milano non si fermae la periferia paga il conto

Il capoluogo lombardo attira capitali e aumenta la produzione di servizi, ma sottrae risorse alle località vicine che non riescono a contrastare il calo dell’attività industriale

Julian Coman, The Observer, Regno Unito

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Visti dagli altriMilano, 25 gennaio 2019. Il quartiere CityLife

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Visti dagli altriun’orbita tutta sua, raccogliendo i ricchi dividendi di un’economia incentrata sulla finanza, la tecnologia, il design e l’innova-zione. La città, oltre che ricca, è diventata anche di tendenza. Nel 2020 ospiterà il Vertice mondiale della cultura, mentre nel 2026 organizzerà le Olimpiadi invernali insieme a Cortina. Investimenti senza pre-cedenti stanno finanziando nuovi progetti edilizi in tutta la città. Nei prossimi quindi-ci anni saranno portati a termine più di quaranta grandi progetti, per un valore complessivo di quasi 19 miliardi di euro. Da quando ad amministrare la città c’è il sindaco di centrosinistra Giuseppe Sala il turismo è aumentato del 50 per cento gra-zie alla promozione aggressiva delle risor-se culturali della città, dai dipinti di Leo-nardo da Vinci alle attrazioni del fiorente quartiere lgbt di Porta Venezia.

Solo le due squadre di calcio, l’Inter e il Milan, non sono riuscite a tenere il ritmo di crescita e sviluppo della città, anche se l’In-ter, ormai di proprietà cinese, oggi è prima in campionato. Più denaro arriva più la città attrae giovani di talento, che a loro volta spingono gli investitori internazionali a scommettere sul futuro. Sono spuntati ovunque monumenti alla ricchezza, come il grattacielo “storto” progettato da Zaha Hadid, affacciato su un parco e su lussuosi condomini residenziali realizzati da Hadid, Daniel Libeskind e dall’architetto giappo-nese Arata Isozaki. Benvenuti a Milano, una vera città globale. Eppure anche questa sto-ria metropolitana di successo, come altrove in Europa, è costata cara.

Precari sottopagatiA maggio il Centre for european reform, un centro studi con sedi a Londra, Bruxel-les e Berlino, ha pubblicato uno studio inti-tolato The big european sort? The diverging fortunes of Europe’s regions (La grande spar-tizione europea? Le divergenti fortune del-le regioni d’Europa). La parola “spartizio-ne” si riferisce al processo che sta trasfor-mando la demografia dei paesi dell’Unio-ne, e alimenta quella polarizzazione che sta marcando la politica all’interno e all’esterno del vecchio continente.

Secondo gli autori dello studio la città postindustriale è una storia di successo ba-sata sulla concentrazione di servizi di fascia alta nelle grandi metropoli. “Negli anni ot-tanta e novanta”, si legge nello studio, “le aree industriali come la Ruhr in Germania hanno sofferto un declino relativo – e in al-

cuni casi assoluto – della produzione. Le città più grandi, spesso capitali come Parigi e Londra, hanno potuto sostituire il calo della produzione industriale con la creazio-ne di servizi di alta qualità”. All’inizio del ventunesimo secolo queste metropoli “reinventate” avevano bisogno di un nuovo tipo di popolazione, “più giovane, più istru-ita e più ricca rispetto a quella delle città meno prospere e degli altri centri abitati d’Europa”, precisa lo studio. “Oggi i luoghi meno di successo perdono abitanti, soprat-tutto in paesi la cui popolazione invecchia rapidamente”. La conseguenza, conclude il

rapporto, è una divisione dannosa: da una parte le grandi città, dall’altra i centri abita-ti e le aree rurali in rapido invecchiamento. “Gli effetti politici di questa spartizione re-gionale sono prevedibili: frustrazione per il declino economico nelle regioni povere, un senso di crisi della comunità davanti alle partenze dei giovani e la rabbia nei confron-ti delle ‘élite’ metropolitane che gestiscono il paese facendo i propri interessi”.

Questo sviluppo preoccupa Christophe Guilluy e Guillaume Faburel, due geografi francesi che riflettono su come la politica del luogo sia ormai im-portante quanto le politiche di classe, di integrazione e di genere nella comprensione dei sintomi di un’epoca turbolenta. Guilluy, autore di La France périphérique, è un critico accanito di quelle che descrive come le “cittadelle” del ventunesimo secolo, diven-tate “la vetrina della globalizzazione feli-ce”. Secondo Guilluy le città “superstar” sono solo per un’élite le cui necessità quoti-diane sono soddisfate da un precariato sot-topagato che vive in periferia. “La classe operaia tradizionale non vive più dove ci sono i posti di lavoro migliori e dove viene creata la ricchezza”, spiega Guilluy.

Roberto Camagni, che insegna econo-mia urbana al Politecnico di Milano, ha as-sistito alla crescita degli ultimi anni con un misto di ammirazione e trepidazione. “Ho pensato che la crescita avrebbe raggiunto un picco e si sarebbe arrestata, invece pro-segue”, spiega. Camagni ha calcolato che

tra il 2000 e il 2016 la partecipazione di Mi-lano al pil italiano è aumentata del 17,7 per cento. Solo altre quattro città italiane hanno registrato un aumento (al secondo posto, molto distante, c’è Roma, con il 4,4 per cen-to). Il resto del paese ha fatto passi indietro. “Sono state le grandi città come Milano, e non gli stati, a beneficiare di più della gran-de ondata d’integrazione arrivata grazie al mercato unico europeo”, sottolinea Cama-gni. “La città offre finanzieri, avvocati, de-signer, artisti, cultura e tutto ciò che serve per essere uno snodo internazionale mo-derno. Mantiene il monopolio sui servizi più costosi, il cui prezzo viene addossato al resto dell’Italia. Nel campo della moda Mi-lano è il primo anello di una catena globale che si chiude con i lavoratori sottopagati del settore tessile in Vietnam. Il problema è che questo miracolo milanese coinvolge solo il milione di persone che rappresenta il nu-cleo privilegiato della città. Milano si è scrollata di dosso l’hinterland industriale che l’ha resa grande nel ventesimo secolo. Alla fine tutto questo crea un problema di dignità per altri luoghi”.

Rovine industrialiLuoghi come Melzo, per esempio, il picco-lo centro lombardo a circa venti chilometri da Milano, e a non più di venti minuti di treno. Durante il tragitto in treno si passa davanti a terreni incolti e un enorme mo-numento fatiscente che ricorda un passato

lontano in cui l’industria casea-ria di Melzo era famosa in tutto il paese. Un edificio malinconico è ciò che resta della vecchia sede della Galbani. Secondo i residen-ti della zona la struttura, abban-

donata a metà degli anni ottanta, è diven-tata un pericolo per la salute pubblica. Le rovine industriali testimoniano la perdita di vocazione di una cittadina orgogliosa, in cui anche l’industria metalmeccanica sta scomparendo. La scorsa estate i metal-meccanici di Melzo erano tra le migliaia di persone che manifestavano a Milano con-tro la possibile perdita di duemila posti di lavoro nelle acciaierie lombarde. La dein-dustrializzazione ha trasformato Melzo in una città dormitorio.

Antony Bottani, nato e cresciuto a Mel-zo, lavora come tecnico di laboratorio per un’azienda di prodotti chimici che si trova a venti chilometri di distanza dal centro abi-tato. Ormai è alle soglie della pensione. “La città ha perso molto di quello che la teneva

Questo miracolo coinvolge solo un nucleo privilegiato della città

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viva”, ammette con tristezza. “Le grandi aziende come la Galbani hanno fatto pro-sperare questo posto. Ora è tutto finito. Gran parte delle campagne è occupata da agriturismi in cui non si coltiva la terra, dunque non ci sono posti di lavoro. Melzo sta diventando sempre più vecchia”.

Il figlio di Bottani, Gabriele, ha 18 anni e frequenta l’università nella vicina Gorgon-zola. “Studia informatica”, racconta il pa-dre. “Speriamo che riesca a trovare lavoro a Milano. Ma la situazione delle città come Melzo non è buona. Ai vecchi tempi questa era una roccaforte comunista, ma ora il co-mune è controllato dalla destra. Le persone vogliono il cambiamento. Sono incazzate”.

Vista sul grattacieloAlle elezioni europee di maggio Milano ha votato per il Partito democratico, mentre il resto della Lombardia si è schierato con la Lega di Matteo Salvini. Dopo il voto Pietro Bussolati, milanese e funzionario del Parti-to democratico nel consiglio regionale lom-bardo, insieme ad alcuni colleghi ha dise-gnato una nuova mappa dell’area metropo-litana di Milano. “Non comprendeva solo la città, ma anche l’area circostante”, spiega. “Abbiamo riscontrato che la proporzione di

voti assegnati al centrosinistra era diretta-mente legata alla disponibilità di trasporti veloci verso Milano. In tutte le località in cui questi mezzi di trasporto non ci sono ed è difficile avere un contatto frequente con la città, i voti sono andati al centrodestra”.

“Credo che il problema non siano i sala-ri, ma la consapevolezza di quanto l’innova-zione e l’apertura contribuiscano alla cre-scita economica. Rendersi conto che le università, gli istituti di ricerca e lo sguardo verso il resto del mondo creano opportunità che altrimenti sarebbero impensabili spin-ge le persone a votare per il centrosinistra e a sposare i valori liberali. Allo stesso modo, più si è lontani da questa realtà più è facile credere alle leggende sui migranti che ru-bano e a tutto il resto, finendo per votare la Lega”. Bussolati è abbastanza realista da ammettere che un miglioramento dei tra-sporti non basterebbe a colmare il solco economico e culturale che separa le fiorenti città europee dalla provincia arrabbiata. “Non c’è nessun coniglio da tirare fuori dal cilindro per risolvere un problema che si accentua ormai da anni”, spiega.

“Il futuro sarà sempre meno incentrato sugli stati nazione e sempre più sulle gran-di città che controllano la ricchezza del fu-

turo. L’obiettivo dev’essere fare in modo che la ricchezza non resti unicamente nelle città, ma sia distribuita anche nel resto del territorio. Questa è una priorità della sini-stra globale: gestire la crescita futura delle grandi città”.

L’anno scorso il nuovo quartiere milane-se CityLife ha accolto il suo residente più famoso quando Chiara Ferragni, famosa fashion blogger e influencer, si è trasferita in un attico progettato da Hadid con una vista sul grattacielo Allianz di Isozaki e con il Duomo sullo sfondo. Il complesso di lusso è stato costruito nel luogo dove sorgeva la vecchia fiera del commercio e del design, che nell’ultimo secolo aveva attirato a Mila-no presidenti, papi e stelle del cinema. Una mostra fotografica (all’interno di CityLife) racconta il passato industriale di Milano.

Tra le fotografie figura una citazione dell’architetto finlandese-statunitense Got-tlieb Eliel Saarinen: “Progetta sempre con-siderando il contesto: una sedia in una stan-za, una stanza in una casa, una casa in un ambiente, un ambiente in una città”.

Nell’epoca del dominio sempre più in-contrastato delle grandi città europee, si è tentati di aggiungere: una città in una regio-ne e una regione in un paese. u as

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Milano, 26 marzo 2019. Porta Nuova

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Visti dagli altri

Dialogo e scambimigliorano Africa e Italia

I rapporti tra il governo italiano e il continente africano sono sempre più stretti. Le ragioni sono varie: la ricerca di nuovi mercati, il mantenimento della pace e la questione migratoria

Marjorie Cessac, Jeune Afrique, Francia

A causa della vicinanza con la Li-bia, l’Italia considera la questio-ne migratoria una priorità: per i politici italiani è diventata un’os-

sessione dopo che alle elezioni regionali di ottobre la destra di Matteo Salvini ha trion-fato in Umbria. E in vista del voto di gennaio in Emilia-Romagna, il governo del premier Giuseppe Conte si muove su diversi tavoli mostrandosi duro con i migranti irregolari senza però trascurare i rapporti diplomatici ed economici tra l’Africa e l’Italia.

Anche se dal punto di vista della comu-nicazione la nuova coalizione è più discreta del governo precedente, sull’immigrazione mantiene la stessa linea: la legge su immi-grazione e sicurezza, voluta da Salvini, non è stata modificata, ed è stato rinnovato il memorandum firmato nel 2017 con la Libia,

che prevede il supporto e l’addestramento della guardia costiera libica per bloccare i migranti. “Dall’inizio di ottobre il ministro degli esteri Luigi Di Maio ha firmato accor-di di rimpatrio dei migranti con tredici pae-si ritenuti ‘sicuri’. Vuol dire che le richieste d’asilo fatte dai loro cittadini non saranno più accolte”, sottolinea Laura Odasso, ri-cercatrice che si occupa di questioni migra-torie al Collège de France.

Contributo sociale e culturaleNegli ultimi anni l’Italia ha intensificato il dialogo con l’Africa. Dal 2017 ha aperto tre nuove ambasciate (in Guinea, Niger e Bur-kina Faso) e una rappresentanza perma-nente presso l’Unione africana. La regione del Sahel, che si estende dall’oceano Atlan-tico al mar Rosso immediatamente a sud del Sahara, ha assunto una grande rilevanza nella politica italiana, per ragioni legate alla sicurezza. Roma ha finanziato il segretaria-to permanente del G5 Sahel (che compren-de Niger, Mali, Ciad, Burkina Faso e Mauri-tania) con 810mila euro, per il periodo 2017-2018. In questo stesso periodo la coo-perazione italiana ha dato ai paesi del G5 quasi 60 milioni di euro, ai quali si aggiun-

geranno altri 30 milioni di euro quest’anno. Tra i nuovi progetti finanziati c’è il Centro per il clima e lo sviluppo sostenibile dell’Africa, inaugurato il 28 gennaio a Ro-ma. Il centro è finanziato per circa 1,5 milio-ni di euro dal ministero dell’ambiente, in coordinamento con la Fao e il Programma delle nazioni unite per lo sviluppo (Undp).

Anche l’Africa orientale, altra regione storicamente importante per l’Italia, è stata al centro di intensi rapporti diplomatici. Roma contribuisce al mantenimento della pace nel Corno d’Africa grazie alle sue rela-zioni bilaterali e come copresidente del fo-rum dei partner dell’Autorità intergoverna-tiva per lo sviluppo (Igad), un’organizzazio-ne che riunisce i paesi della regione. Nell’ambito della sicurezza l’Italia parteci-pa alla missione dell’Unione europea Eu Navfor Somalia-operazione Atalanta, un’operazione marittima contro la pirate-ria. Nel settore economico e commerciale all’Eritrea sono stati destinati quasi dieci milioni di euro e altri fondi supplementari sono stati dati all’Etiopia. Inoltre nel 2018 l’Italia ha avuto scambi commerciali con l’Africa per circa 40 miliardi di euro, posi-zionandosi al settimo posto a livello mon-diale. “Il contributo di alcuni paesi come il Mozambico a questo volume di scambi ha raggiunto i 500 milioni di euro, rispetto ai 150 milioni del passato, un incremento do-vuto probabilmente al settore del gas”, sot-tolinea un funzionario.

Nel suo viaggio in Etiopia dopo il riavvi-cinamento con l’Eritrea, la viceministra degli esteri italiana Emanuela Del Re è sta-ta accompagnata dai rappresentanti di una quarantina di aziende, ma anche da ong e banche di sviluppo, con l’obiettivo di pro-muovere un “approccio più integrato”. In Burkina Faso, Cleophas Adrien Dioma, presidente del forum economico Italia Africa business week, era al fianco della viceministra italiana per valorizzare il di-namismo dei burkinabé che vivono in Ita-lia. Nel 2018 gli africani residenti legal-mente in Italia erano più di un milione. In testa ci sono i marocchini, seguiti da egi-ziani, senegalesi e tunisini. “In Italia ci so-no 61mila aziende, soprattutto di piccole e medie dimensioni, create da africani, il 12 per cento delle quali da donne”, sottolinea il governo italiano, insistendo sul contri-buto economico, sociale e culturale degli africani. Per il momento però, non è facile trovare un pubblico disposto ad ascoltare queste considerazioni. u gim

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Mar Mediterraneo, 29 novembre 2019. A bordo della nave Open Arms

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bompiani.it Munizioni Bompiani

LA NUOVA COLLANA

DIRETTA DA ROBERTO SAVIANO

UCCIDENDOLA, HANNO CERCATO DI SPEGNERE LE PAROLE DI QUESTA DONNA.

NON CI SONO RIUSCITI.

Libri Bompiani

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Le opinioni

Uno spettro si aggira per l’America La-tina. Il Cile si è risvegliato, la Bolivia è divisa in due, l’Ecuador è in fiam-me, la Colombia protesta, l’Argenti-na ha votato e deve affrontare la crisi economica, il Perù si depura, il Brasi-

le si dispera, il Messico protesta. Ovunque si sente la stessa parola: disuguaglianza. La disuguaglianza è la ragione di molte cose. Da decenni ripetiamo che l’America Latina è la regione con le maggiori disugua-glianze al mondo. E non si può dire che il resto del pianeta non provi a competere. Molte voci si sono le-vate per lanciare l’allarme: i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. L’organizzazione non profit Ox-fam cita cifre impressionanti. Per esem-pio: le 26 persone più ricche del mondo hanno tanto quanto la metà della popo-lazione del pianeta, circa 3,8 miliardi di persone. La disuguaglianza è ovunque, ma ai latinoamericani piace sapere che a questo gioco non li batte nessuno. Per confermarlo sfoggiano il loro coeffi-ciente di Gini.

Il coefficiente di Gini è l’unità di mi-sura più usata per paragonare la concentrazione della ricchezza: più alto è l’indice, maggiore è la disugua-glianza. L’America Latina ha il coefficiente di Gini più alto del mondo. E dire che è diminuito: nel 2002 l’in-dice medio era 53 punti, adesso è 46, con il Brasile in testa (53,3). La media dei paesi europei è di circa 30 (la Spagna è in testa con 36,2). Il Canada ha un indice di 34, gli Stati Uniti di 41,5, il Messico 48,3.

L’America Latina è disuguale per molte ragioni, prima di tutto perché se lo può permettere. Ci sono società in cui i ricchi hanno bisogno che i poveri siano meno poveri, perché i poveri servono ai ricchi per cre-are o consumare quelle cose che li rendono ricchi. Le economie latinoamericane non ne hanno bisogno: si basano sull’esportazione di materie prime (dalla soia al rame, dal petrolio alla coca) e possono funzionare anche a prescindere da milioni di persone che non sono necessarie né per produrre né per consumare. Basta che non si agitino troppo, e per evitarlo l’elemo-sina basta e avanza. Distribuire il meno possibile, ma distribuire qualcosa. Tra il 2000 e il 2010 la povertà e la disuguaglianza sono diminuite perché le materie prime avevano raggiunto prezzi notevoli e i governi avevano deciso che non doveva finire tutto nelle soli-te tasche. Ma cinque anni fa i prezzi hanno comincia-to a scendere e in diversi paesi la povertà ha smesso di diminuire o è addirittura aumentata.

Poco a poco, le piazze si sono ribellate contro que-sto fenomeno: chi aveva visto un miglioramento nella sua vita tale da poter desiderare certe cose oggi le pre-tende. Queste cose possono essere una lavatrice, una casa con un bagno, la possibilità di mangiare tutti i giorni o di votare dei politici che ci rappresentino di più. Il fenomeno è cominciato in Brasile nel 2013 e poi si è diffuso nel resto della regione. Sta succedendo oggi in paesi che hanno modelli teoricamente oppo-sti: quello neoliberista in Cile e quello progressista in Bolivia. In entrambi i casi la causa delle proteste sa-rebbe la disuguaglianza, che è ovunque. Anche gli

economisti più liberali, che la lodavano come un modo per promuovere la con-correnza, dicono che troppe disugua-glianze sono un rischio. I progressisti la condannano e la usano come argomen-to per andare al potere. Quasi tutti sia-mo contro la disuguaglianza, solo che non sappiamo definire il suo contrario.

La grande politica, generalmente, è fatta di opposizioni: il contrario della schiavitù è la libertà, della monarchia la repubblica, del maschilismo la parità di genere. Ma quasi nessuno dice o pensa

che l’opposto della disuguaglianza sia l’uguaglianza. L’uguaglianza apparve come una bandiera nel 1789, quando la Rivoluzione francese ne fece il suo motto, insieme alla libertà e alla fraternità. Quasi cent’anni dopo, altri movimenti europei proclamarono che la parità doveva essere economica e sociale. Si chiama-va socialismo, e non ha funzionato. Ora la maggior parte dei benpensanti che manifestano contro la di-suguaglianza non propone l’uguaglianza. Ma non è chiaro cosa proponga. C’è chi parla di “pari opportu-nità”: l’idea che ognuno abbia le stesse opzioni di par-tenza. È ovvio che non è possibile: i ricchi hanno infi-nitamente più opportunità dei poveri. Molti, quindi, si rifugiano in una specie di buonsenso: facciamo in modo che non ci sia così tanta disuguaglianza. Il loro obiettivo non è l’uguaglianza, ma la moderazione.

Il problema è: cosa è tollerabile e cosa no? Che tut-ti abbiano accesso ai servizi sanitari, anche se alcuni hanno le migliori cure immediate e altri devono aspettare tre mesi per fare una visita? Che tutti man-gino, anche se alcuni hanno il salmone e gli altri lo stufato grasso? Che tutti abbiano accesso all’istruzio-ne, anche se alcuni sanno quattro lingue e altri fanno fatica a capire il giornale? Definire il contrario della disuguaglianza significherebbe definire un progetto politico, economico, sociale. Il fatto che siamo così lontani dal farlo è quasi un segno dei tempi. u fr

In America Latina vince la disuguaglianza

Martín Caparrós

MARTÍN

CAPARRÓS è un giornalista e scrittore argentino. È stato tra i fondatori del quotidiano argentino Página 12. Questo articolo è uscito sull’edizione spagnola del New York Times.

Le economie latinoamericane si basano sulle materie prime e funzionano anche a prescindere da milioni di persone che non servono né per produrre né per consumare

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Le opinioni

Fatih è uno dei quartieri più conservatori di Istanbul. All’inizio di novembre alcu-ni abitanti hanno visto un biglietto at-taccato alla porta di un appartamento, con su scritto: “Attenzione! Cianuro all’interno. Chiamate la polizia. Non

entrate”. Chiunque abbia scritto il biglietto voleva proteggere i vicini da una sostanza tossica. Quando la polizia è arrivata ha trovato quattro cadaveri: due uo-mini e due donne, di età compresa tra i 48 e i sessant’anni. I morti apparteneva-no tutti alla stessa famiglia, gli Yetişkin. Vivevano nel quartiere da decenni. Se-condo i loro amici i due fratelli erano disoccupati: era lo stipendio di una so-rella, insegnante di musica, a tenere al-la larga i creditori. Incapaci di trovare il lavoro necessario a pagare i debiti della famiglia, erano in preda alla depressio-ne. “Erano persone splendide. L’hanno fatto a causa della povertà”, ha spiegato un negoziante. Dopo che i corpi sono stati portati alla camera mortuaria, la società elettrica ha tagliato la luce nell’appartamento a causa di mesi di bollette arretrate.

L’apparente suicidio della famiglia ha generato una furibonda discussione in tutta la Turchia e, come succede per ogni cosa, la questione è stata politicizza-ta e inquinata da teorie del complotto. Nel 2019 in Turchia il prezzo dell’elettricità è cresciuto del 57 per cento, mentre la disoccupazione giovanile è al 27 per cento. Eppure le voci filogovernative sui mezzi d’in-formazione e sui social network hanno negato qual-siasi legame con la povertà, accusando progressisti e democratici di manipolare l’opinione pubblica e di macchiare la reputazione della Turchia nel mondo. Un opinionista del quotidiano Sabah ha denunciato una presunta propaganda dei partiti d’opposizione e della Bbc turca. Il vicepresidente Fuat Oktay ha di-chiarato: “Hanno detto che è stato a causa della fame: non è vero”. Nel frattempo il quotidiano islamista fi-logovernativo Yeni Akit ha scritto che il motivo per cui i fratelli si sono tolti la vita è Richard Dawkins, il di-vulgatore scientifico britannico. Una copia del suo li-bro L’illusione di Dio è stata trovata nell’appartamen-to. “Un libro ateo ha spinto quattro persone al suici-dio!”, diceva il titolo dell’articolo.

Il giorno dopo una famiglia è stata trovata morta nella propria abitazione nella città di Antalya. Si so-spetta che anche in quel caso la causa sia il cianuro. I bambini, che avevano cinque e nove anni, erano in salotto e si tenevano ancora la mano. Il padre era di-

soccupato da tempo e aveva lasciato un biglietto in cui spiegava le sue difficoltà. Stavolta nessun giorna-lista filogovernativo ha dato la colpa ai libri, propo-nendo invece di vietare la vendita di cianuro.

Dal 2012 c’è stato un drammatico aumento del tasso di suicidi in Turchia, un paese in cui questo ge-sto è considerato “peccato”. Nel 2018, secondo le statistiche ufficiali, 3.161 persone si sono tolte la vita. Il tasso di suicidi oggi è di otto persone al giorno, a

cui si aggiungono decine di tentati sui-cidi. Nel 2016 Amir Hattab, un profugo siriano che era riuscito a fuggire dalla guerra con i suoi tre bambini, ha solle-vato un pesante tombino in una strada secondaria di Istanbul e si è gettato nelle fogne.

Il suicidio è una questione molto complessa e delicata, e non sappiamo mai davvero perché una persona metta fine alla sua vita. Ma in un paese dove non c’è libertà d’espressione né spazio per un dibattito ragionevole su niente,

la reazione a questi episodi è stata sgradevole. Dopo lo shock iniziale ha preso il sopravvento un racconto dei fatti estremamente politicizzato e moralista sui mezzi d’informazione. Le vittime sono state messe alla gogna. Privato di ogni empatia o decontestualiz-zato, il loro suicidio è stato dipinto come una ribellio-ne contro dio e un atto contro l’ordine costituito. Chi ha analizzato i fattori socioeconomici alla base dell’aumento dei suicidi in Turchia è stato immedia-tamente accusato di essere un “traditore”. Oggi alcu-ni suggeriscono addirittura che la Turchia debba ap-provare leggi punitive contro gli economisti che fanno previsioni negative sull’economia turca. Due giorna-listi di Bloomberg sono stati processati con l’accusa di aver diffuso “informazioni false” e di aver cercato di sabotare il sistema finanziario. E 36 persone sono sta-te portate in tribunale per aver pubblicato sui social network delle battute sul crollo della lira turca.

Quando riflettiamo su disoccupazione e povertà pensiamo a dei numeri. Ma dietro ogni numero c’è una storia di persone. I pericoli di crisi finanziaria e instabilità politica hanno conseguenze devastanti sul modo in cui le persone vedono non solo il presente, ma anche il futuro. Ma c’è qualcosa di altrettanto im-portante, di cui però si parla raramente: la perdita della dignità. Ogni volta che la democrazia viene fatta a pezzi e i diritti umani vengono calpestati, le persone sono private della loro autostima. Ma cosa succede a una società quando si distrugge la dignità umana do-po che si è distrutta la democrazia? u ff

In Turchia la crisiuccide la speranza

Elif Şafak

ElIf Şafak

è una scrittrice turca. Collabora con il Guardian. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è I miei ultimi 10 minuti e 38 secondi in questo strano mondo (Rizzoli 2019).

Dal 2012 c’è stato un drammatico aumento del tasso di suicidi in Turchia. Nel 2018, secondo le statistiche, 3.161 persone si sono tolte la vita

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In copertina

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Un’altra bolla scoppieràRana Foroohar, The Guardian, Regno Unito

In copertina

L’economia globale va incontro a una nuova crisi. Rispetto al 2008, il crollo non arriverà dalle banche, ma dalle grandi aziende tecnologiche come Apple e Google, che aggirano le regole e corrono enormi rischi

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In copertina

“In ogni grande contrazio­ne economica della sto­ria statunitense ‘i cattivi’ sono ‘i buoni’ del boom precedente”, diceva Pe­ter Drucker, il guru della

gestione d’impresa morto nel 2005. Non posso fare a meno di chiedermi se la storia stia per ripetersi, ora che gli Stati Uniti (e forse il mondo) si avviano verso una nuo­va crisi. Le recessioni si verificano storica­mente ogni dieci anni, e ne sono passati più di dieci dal crac finanziario del 2008. All’epoca le istituzioni “troppo grandi per fallire” responsabili del crollo dei mercati finanziari, dei prezzi delle case e dei salari erano le banche. Le grandi aziende tecno­logiche (il cosiddetto big tech) hanno avu­to il merito di guidare la ripresa del mer­cato negli ultimi anni, ma ora potrebbero essere proprio loro a giocare il ruolo dei guastafeste.

Guardando quelle più grandi e più ric­che non si direbbe. Prendiamo la Apple. L’investitore Warren Buffett dice che vor­rebbe avere in portafoglio ancora più azio­ni dell’azienda di Cupertino (attualmente il fondo d’investimento Berkshire Hatha­way, gestito da Buffett, ha una partecipa­zione del 5 per cento). La Goldman Sachs sta lanciando una nuova carta di credito con la Apple, che nel 2018 è diventata la prima azienda quotata al mondo a rag­giungere un valore di mercato di mille mi­liardi di dollari. Dietro queste notizie sen­sazionali, però, si nascondono alcune re­altà inquietanti, di cui la Apple è un esem­pio. Osservando più da vicino l’azienda, si comincia a capire come i giganti tecnolo­gici – le nuove istituzioni “troppo grandi per fallire” – potrebbero effettivamente gettare i semi della prossima crisi.

Con buona pace delle rassicurazioni dei colossi della Silicon valley, alla fine le dimensioni sono un problema, proprio come lo erano per le banche. Non perché la grandezza sia di per sé un male, ma per­ché la complessità di queste organizzazio­ni le rende molto difficili da disciplinare. Come le grandi banche, i giganti tecnolo­gici usano il loro potere per aggirare le leggi e sono convinti di dover giocare se­condo regole speciali. E, come le banche, rischiano di scatenare una crisi di cui sa­remo noi a pagare il prezzo.

Pensiamo alle operazioni di ingegne­ria finanziaria realizzate da queste azien­de. Come quasi tutte le multinazionali più grandi e redditizie, la Apple ha moltissima liquidità (secondo i dati più recenti, circa 210 miliardi di dollari), ma anche un livel­

lo altissimo di indebitamento (intorno ai 110 miliardi di dollari). Questo è successo perché, come quasi tutte le altre aziende più grandi e ricche, negli ultimi dieci anni ha parcheggiato buona parte della sua li­quidità in portafogli obbligazionari offsho-re. Tutto fa parte di un gioco kafkiano di scatole cinesi cominciato dopo il 2008, quando le banche centrali hanno abbas­sato il costo del denaro e inondato l’eco­nomia di liquidità con l’obiettivo di stimo­lare la ripresa. In realtà se ne sono avvan­taggiate soprattutto le grandi aziende, che hanno preso soldi in prestito a tassi molto bassi e li hanno usati per riacquistare le proprie azioni e distribuire dividendi, raf­forzando così i loro titoli in bor­sa e gli investitori, ma non l’eco­nomia reale. I tagli alle imposte sui redditi societari negli Stati Uniti decisi da Donald Trump hanno gettato ulteriore benzina sul fuoco. La Apple, per esempio, è stata responsabile di circa un quarto dei 407 miliardi di dollari di azioni riacquistate nei sei mesi successivi all’approvazione della riforma fiscale di Trump nel dicem­bre del 2017, il più grande taglio dell’im­posta sui redditi societari nella storia degli Stati Uniti.

Tutto questo ha allargato il divario nel­la distribuzione della ricchezza, che se­condo molti economisti è non solo la cau­sa principale di una crescita più lenta ri­spetto alla media storica, ma è uno dei fattori scatenanti dell’ascesa del populi­smo, che minaccia l’esistenza stessa del sistema di mercato.

Questo fenomeno è stato ulteriormen­te rafforzato da un’altra tendenza esem­

plificata dalla Apple: la crescita dei beni immateriali, come la proprietà intellet­tuale e i marchi (che la Apple possiede in abbondanza), rispetto ai beni materiali. Jonathan Haskel e Stian Westlake in Capi-talismo senza capitale (Franco Angeli 2018) osservano che questo cambiamento è cominciato intorno al 2000, ma è decol­lato nel 2007 dopo il lancio dell’iPhone. L’economia digitale tende a creare super­star, dal momento che i software e i servi­zi online sono estremamente scalabili e beneficiano dell’effetto rete (in parole po­vere, permettono a una manciata di azien­de di crescere velocemente e mangiarsi la concorrenza). Secondo Haskel e Westla­

ke, però, questo riduce gli inve­stimenti complessivi nell’eco­nomia. Non solo perché le ban­che sono poco propense a pre­stare soldi ad aziende le cui atti­vità intangibili potrebbero spa­

rire da un momento all’altro, ma anche per l’effetto “asso pigliatutto” a favore di pochissimi soggetti, tra cui la Apple (ma anche Amazon e Google).

Probabilmente è questo uno dei motivi principali della mancanza di nuove start­up, del calo dei nuovi occupati, del crollo della domanda e di altre tendenze preoc­cupanti della nostra economia sempre più disuguale. Ma la concentrazione di potere in mano ad aziende come Apple e Ama­zon è anche uno dei principali fattori che negli ultimi anni hanno portato a un livel­lo record di fusioni e acquisizioni. Soprat­tutto nel settore delle telecomunicazioni e in quello dei mezzi d’informazione, molte aziende hanno contratto enormi quantità di debito per crescere di dimen­sioni e competere nel nuovo mercato dei contenuti video in streaming e dei mezzi d’informazione digitali.

Parte di quel debito ora sembra a ri­schio, e questo fa pensare che probabil­mente la prossima grande crisi non verrà dalle banche, ma dalle aziende tecnologi­che. La rapida crescita dei livelli d’indebi­tamento è storicamente il fattore che più di tutti preannuncia una crisi. Negli ultimi anni il mercato delle obbligazioni societa­rie è esploso, con le aziende dei paesi ric­chi che hanno emesso una quantità di debito senza precedenti: dal 2008 il mer­cato è cresciuto del 70 per cento, toccan­do i 10.170 miliardi di dollari nel 2018. Anche aziende mediocri hanno beneficia­to di questa pioggia di denaro.

Ora però il clima intorno ai tassi d’inte­resse sta cambiando, forse più rapida­mente del previsto, e molte aziende po­

Da sapere Troppi debiti

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Rapporto tra debiti delle aziende e pil negli Stati Uniti, percentuale. Fonte: Federal reserve

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Periodi di recessione

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trebbero risentirne. La Banca per i regola­menti internazionali (Bri), l’organismo che controlla il sistema finanziario mon­diale, ha avvertito che il lungo periodo di tassi bassi ha favorito la creazione di un numero maggiore del solito di aziende “zombi” che non riusciranno a ripagare i loro debiti se i tassi d’interesse aumente­ranno. Quando succederà, ammonisce la Bri, le perdite e l’effetto domino potrebbe­ro essere molto gravi.

Naturalmente, se e quando la prossi­ma crisi arriverà, il potere deflazionistico della tecnologia (ovvero la sua capacità di far scendere i prezzi), esemplificato da aziende come la Apple, rischia di render­ne più difficile la gestione. Questa è l’ulti­ma tendenza da tenere in considerazione. Le aziende tecnologiche fanno abbassare i prezzi di diversi prodotti, e la deflazione tecnologica è uno dei principali motivi per cui i tassi d’interesse sono rimasti bassi tanto a lungo. A ristagnare non sono stati solo i prezzi, ma anche i salari. Il fatto che i tassi d’interesse siano così bassi, in parte grazie alla deflazione tecnologica, fa sì che le banche centrali avranno molto me­no spazio di manovra per affrontare un’eventuale crisi. Negli ultimi dieci anni aziende come la Apple e altre dispensatri­ci di beni immateriali hanno guadagnato molto da questo contesto caratterizzato

da tassi di interesse bassi, prestiti facili e quotazioni azionarie alte. Ma la loro posi­zione di forza ha anche gettato le basi di quella che potrebbe essere la prossima grande sbandata dei mercati.

Parcheggio offshoreQualche anno fa ho avuto una conversa­zione molto interessante con un econo­mista dell’ufficio di ricerca finanziaria del dipartimento del tesoro degli Stati Uniti, un piccolo ma importante organismo cre­ato dopo la crisi del 2008 per studiare i problemi del mercato (di recente Trump gli ha tagliato i fondi). Stavo cercando in­formazioni sul rischio finanziario e su do­ve potesse essere localizzato, e l’economi­sta mi disse di guardare le emissioni di debito e gli acquisti di obbligazioni socie­tarie delle aziende più grandi e ricche del mondo, come Apple o Google, il cui valore di mercato oggi supera di molto quello delle maggiori banche e società di investi­mento. In un contesto di tassi d’interesse bassi e utili miliardari registrati ogni an­no, le aziende principali hanno contratto debito a basso costo e hanno usato il rica­vato per comprare debito di altre aziende che offrivano interessi più alti. Alla ricerca di rendimenti più elevati, ma anche di qualcosa da fare con tutti quei soldi, in un certo senso le grandi aziende hanno fatto

la parte delle banche, comprando grandi quantità di debito e sostanzialmente sot­toscrivendole come potrebbero fare la Jp Morgan o la Goldman Sachs. Con una dif­ferenza: dal momento che non sono rego­lamentate come le banche, è difficile trac­ciare esattamente cosa stanno compran­do, quanto stanno comprando e quali po­trebbero essere gli effetti sul mercato. Semplicemente non esistono prove docu­mentali cartacee, come ci sono invece nella finanza. Tuttavia, l’idea che le azien­de tecnologiche ricche di liquidità siano le nuove istituzioni vitali per il sistema era convincente.

Ho cominciato a scavare più a fondo sull’argomento e circa due anni dopo, nel 2018, mi sono imbattuta in uno sbalorditi­vo rapporto del Credit Suisse che ha con­fermato e quantificato il fenomeno. Il suo autore, l’economista Zoltan Pozsar, ha analizzato in modo scientifico i mille mi­liardi di dollari parcheggiati in conti off­shore principalmente dalle grandi azien­de tecnologiche. Il 10 per cento delle aziende, quelle più grandi e più ricche di proprietà intellettuale, come Apple, Mi­crosoft, Cisco, Oracle e Alphabet (la so­cietà madre di Google), controlla l’80 per cento di questa liquidità.

Secondo i calcoli di Pozsar, la maggior parte di quel denaro non è in contanti ma

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L’ingresso di un magazzino di Amazon. Orlando, Stati Uniti

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in obbligazioni, la metà delle quali sono obbligazioni societarie. Le sbandierate riserve di “contante” detenute all’estero dalle più grandi aziende statunitensi, il tesoretto che i repubblicani di Trump han-no usato come pretesto per approvare la loro “riforma” fiscale, sono in realtà un gigantesco portafoglio obbligazionario. E questo portafoglio non è in mano alle ban-che o ai fondi comuni d’investimento, che sono abituati ad avere partecipazioni fi-nanziarie di questa entità, ma alle grandi aziende tecnologiche. Oltre a essere di-ventati l’industria più redditizia e meno regolamentata del pianeta, i giganti della Silicon valley hanno assunto un’impor-tanza straordinaria all’interno del merca-to finanziario, detenendo titoli che, se venduti o declassati, potrebbero farlo crol-lare. La realtà è sotto gli occhi di tutti, an-che se preferiamo non vederla: il big tech, e non le grandi banche, è il nuovo settore “troppo grande per fallire”.

Più ci pensavo, più trovavo paralleli-smi. Alcuni erano comportamentali: per esempio, la reazione dell’industria tecno-logica alle elezioni presidenziali statuni-tensi del 2016 rispecchiava in modo molto interessante il comportamento del setto-re bancario dopo il crollo del 2008. Pro-prio come Wall street aveva alzato una cortina di fumo su quello che aveva fatto prima e dopo la crisi, i colossi tecnologici hanno nascosto all’opinione pubblica ogni piccola informazione utile sull’inge-renza nelle elezioni. All’inizio hanno giu-rato di non aver fatto niente di male, so-stenendo che chiunque pensasse il con-trario semplicemente non aveva capito il settore tecnologico. Solo dopo le pressioni insistenti della stampa e delle autorità di regolamentazione, Mark Zuckerberg si è deciso a riferire al congresso degli Stati Uniti sugli oltre tremila post legati alla Russia pubblicati su Facebook. Google e altri sono stati solo marginalmente meno evasivi. Come i finanzieri di Wall street al tempo della crisi dei mutui spazzatura, dopo le elezioni del 2016 i colossi della tecnologia sono rimasti a lungo in una po-sizione reattiva, fornendo meno dettagli possibile e tentando di conservare i van-taggi dell’asimmetria informativa del loro modello d’impresa che, come nel settore bancario, aiuta a generare profitti enormi. Questa politica del “negare e sviare” ha avuto chiaramente ripercussioni negative sulla loro immagine.

Ma ci sono somiglianze ancora più so-stanziali. Vedo quattro tratti in comune tra i grandi della finanza e quelli della tecno-

logia: mitologia aziendale, scarsa traspa-renza, complessità e dimensioni. Per quanto riguarda la mitologia, prima del 2008 Wall street spacciava l’idea che se qualcosa era un bene per il settore finan-ziario, era un bene per tutta l’economia. Fino a poco tempo fa la Silicon valley ha cercato di fare la stessa cosa. Ma la realtà ha sempre due facce, e nessuno dei due settori è pronto a riconoscere o ad assu-mersi la responsabilità degli “svantaggi dell’innovazione”.

Le ricerche mostrano che la fiducia nella democrazia liberale, nel governo, nei mezzi d’informazione e nelle organiz-

zazioni non governative diminuisce man mano che aumenta l’uso dei social net-work. In Birmania Facebook è stato sfrut-tato per sostenere la persecuzione dei ro-hingya. In Cina, Apple e Google si sono piegate alle richieste di censura del gover-no. Negli Stati Uniti i dati personali sono raccolti, venduti e usati come armi attra-verso una serie di meccanismi che solo ora cominciano a essere compresi, e i mo-nopoli soffocano l’innovazione e la crea-zione di nuovi posti di lavoro. A questo punto è sempre più diffi-cile sostenere che i vantaggi del-la tecnologia superano ampia-mente i costi.

Ma le grandi aziende tecno-logiche e le grandi banche si somigliano anche per l’opacità e la complessità delle loro attività. L’uso dei dati attraverso gli algoritmi è come il complesso meccani-smo di cartolarizzazione creato dalle ban-che “troppo grandi per fallire” ai tempi dei mutui spazzatura. Entrambi sono com-prensibili quasi esclusivamente agli esper-ti del settore, che possono usare l’asimme-tria delle informazioni per nascondere i rischi e le nefandezze fatte dalle aziende, come pubblicare propaganda politica di dubbia provenienza.

Eppure questa complessità può essere controproducente. Prima del 2008 nelle grandi banche molti dirigenti non aveva-no idea di cosa stesse entrando e uscendo dalla scatola nera. Allo stesso modo anche i colossi tecnologici possono restare spiaz-zati dall’uso improprio della tecnologia. Pensiamo all’inchiesta con cui nel 2018 il

New York Times ha rivelato che Facebook ha permesso ad altre grandi aziende tec-nologiche, tra cui Apple, Amazon e Micro-soft, di accedere ai dati sensibili degli utenti nonostante la promessa di proteg-gerne la privacy.

Tra il 2010 e il 2017 Facebook ha stipu-lato una serie accordi di condivisione dei dati – che per le grandi aziende tecnologi-che sono reciprocamente vantaggiosi, perché aumentano il traffico tra le varie piattaforme e portano sempre più utenti – per far crescere il social network il più velocemente possibile. Ma né Facebook né le altre aziende coinvolte sono riuscite a tenere traccia di tutte le implicazioni delle disposizioni sulla privacy. Apple ha dichiarato di non sapere neanche di avere un accordo simile con Facebook, cosa piuttosto sorprendente, visto che l’azien-da di Cupertino si presenta sul mercato come la paladina della privacy degli uten-ti. All’interno di Facebook “alcuni inge-gneri e dirigenti consideravano i controlli sulla privacy un ostacolo all’innovazione e alla crescita”, si legge nell’articolo del New York Times. E che crescita: nel 2017 Facebook ha fatturato circa 40 miliardi di dollari, più del doppio dei 17,9 miliardi re-gistrati nel 2015.

La scelta di Facebook di dare priorità alla crescita è eclatante, ma non è un caso isolato. La tendenza a considerare in mo-do miope il prezzo delle azioni come l’uni-

co e solo indicatore di valore si deve a Wall street, ma non è un’esclusiva del mondo della fi-nanza. La cecità dei dirigenti delle aziende tecnologiche che hanno siglato questi accordi mi

ricorda quella dei dirigenti delle banche che non avevano compreso i rischi conta-bilizzati nei loro bilanci finché i mercati non cominciarono a crollare nel 2008.

Le aziende tendono a dare priorità a quello che si può quantificare, come gli utili per azione o il rapporto tra il prezzo delle azioni e gli utili, e ignorano (fino a quando non è troppo tardi) i rischi d’im-presa più difficili da misurare.

Trionfo ideologicoNon è un caso che oggi la maggior parte della ricchezza sia in mano a un numero sempre più ristretto di persone e di azien-de, che usano stregonerie finanziarie per sottrarla al controllo dei governi naziona-li, come lo spostamento dei soldi in paesi dove si pagano meno tasse o il riacquisto di azioni proprie. È una cosa che abbiamo imparato a considerare normale grazie al

Alla fine le dimensioni sono un problema, proprio come lo erano per le banche

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trionfo ideologico della scuola di Chica-go, che negli ultimi cinquant’anni ha pre-dicato, tra l’altro, che l’unico scopo delle aziende dev’essere quello di massimizza-re i profitti.

Il concetto di “valore per gli azionisti” ne è un esempio. La massimizzazione del valore per gli azionisti è parte del più am-pio processo di “finanziarizzazione”, che si è diffuso a partire dagli anni ottanta in-sieme al pensiero della scuola di Chicago, creando una situazione in cui i mercati fi-nanziari non sono più un canale per soste-nere l’economia reale, come avrebbe vo-luto Adam Smith, ma il suo contrario.

La nostra prima preoccupazione è di-ventata il “benessere dei consumatori”, invece del benessere dei cittadini. Diamo per scontato che l’aumento delle quota-zioni in borsa sia un bene per l’economia nel suo complesso, quando in realtà arric-chisce solo chi possiede azioni. Siamo passati da un’economia di mercato a quel-la che Michael Sandel, professore di dirit-to di Harvard, definirebbe una “società di mercato”, ossessionata dalla massimizza-zione del profitto in ogni aspetto della vita quotidiana. L’accesso ai servizi di base – sanità, scuola, giustizia – è determinato dalla ricchezza. La nostra esperienza di

noi stessi e delle persone che ci circonda-no si esprime in termini transazionali, e tutto questo si riflette nel linguaggio quo-tidiano (“massimizziamo” il tempo e “monetizziamo” le relazioni).

Oggi, con l’avvento del capitalismo della sorveglianza cavalcato dai colossi tecnologici, anche noi siamo “massimiz-zati” per il profitto. Ricordiamoci sempre che per queste aziende e per le altre che li raccolgono i nostri dati personali sono la principale risorsa commerciale. Una vol-ta, alla domanda “cos’è Google?”, lo stes-so Larry Page ha risposto: “Se esistesse questa categoria, direi le informazioni personali, i posti che abbiamo visto. Le comunicazioni. I sensori costano pochis-simo, l’archiviazione costa poco, le mac-chine fotografiche costano poco. La gente produce una quantità enorme di dati. Tut-to quello che una persona ha sentito, visto o sperimentato diventerà ricercabile. Tut-ta la nostra vita sarà ricercabile”.

Pensiamoci un attimo. Siamo la mate-ria prima che serve per realizzare il pro-dotto da vendere agli inserzionisti.

I mercati finanziari hanno facilitato il passaggio a questo capitalismo invasivo, miope ed egoistico, che è andato di pari passo con la globalizzazione e con il pro-

gresso tecnologico. Questo capitalismo ha creato un circolo vizioso in cui ci ritro-viamo costantemente in competizione con molte persone, per periodi sempre più brevi, azzuffandoci per un numero sem-pre maggiore di beni di consumo che forse costano meno grazie alle delocalizzazioni e alla tecnologia, ma che non possono compensare i nostri redditi che non cre-scono e le nostre vite stressate.

La vecchia Silicon valleyQualcuno potrebbe obiettare che, in un senso più profondo, la Silicon valley – non la vecchia Silicon valley piena di startup nei garage e veri innovatori, ma quella di oggi dove comanda la finanza – rappre-senta l’apice del passaggio verso la finan-ziarizzazione. Oggi le grandi aziende tec-nologiche sono guidate da una generazio-ne di imprenditori che si sono formati e hanno fondato le loro startup in un mo-mento in cui il governo era il nemico e la massimizzazione del profitto era univer-salmente considerata il modo migliore per far progredire l’economia e la società. La regolamentazione o le restrizioni alla libertà d’impresa erano considerati un so-pruso o addirittura una forma di autorita-rismo. E così “l’autoregolamentazione” è

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Un negozio della Apple. Shanghai, Cina

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diventata la norma. I consumatori hanno sostituito i cittadini. Il motto della Silicon valley è “muoviti velocemente e rompi tutto”, e i colossi della tecnologia lo consi-derano ormai un dato di fatto. Come han-no scritto Eric Schmidt, ex amministrato-re delegato di Google, e Jared Cohen, am-ministratore delegato di Jigsaw (l’incuba-tore tecnologico di Google), nella postfa-zione all’edizione tascabile di La nuova era digitale (Rizzoli Etas 2013): “Lamentarci per l’inevitabile crescita di dimensioni e di portata del settore tecnologico ci distrae dalla vera domanda. Molti dei cambia-menti di cui stiamo discutendo sono ine-vitabili. Stanno già arrivando”.

Sarà. Ma l’idea che questo debba impe-dire ogni dibattito pubblico sugli effetti del settore tecnologico è semplicemente arrogante. Questa linea di pensiero ha un costo altissimo. Prendiamo i mille miliar-di di dollari parcheggiati offshore dalle aziende statunitensi più grandi e più ric-che di proprietà intellettuale. Non è una somma da poco: parliamo di un diciottesi-mo del pil annuale degli Stati Uniti, realiz-zato in gran parte grazie alla vendita di prodotti e servizi resi possibili dalla ricer-ca e dall’innovazione finanziate dal gover-no statunitense. Peccato che i cittadini statunitensi non abbiano potuto avere la loro giusta quota di quest’investimento a causa dell’elusione fiscale. Vale la pena sottolineare che anche se negli Stati Uniti l’aliquota dell’imposta sui redditi societa-ri è stata di recente ridotta dal 35 al 21 per cento, la maggior parte delle grandi azien-de ha pagato per anni solo il 20 per cento grazie a varie scappatoie. Il settore tecno-logico paga ancora meno – tra l’11 e il 15 per cento – per lo stesso motivo: dati e proprie-tà intellettuale possono essere spostati facilmente all’estero, al contrario di una fabbrica o un negozio di alimentari. Que-sto ci porta a un altro mito neoliberista: l’idea che se si tagliano le aliquote fiscali negli Stati Uniti, le aziende “statunitensi” porteranno tutti i soldi a casa e li investi-ranno in beni e servizi che creano occupa-zione negli Stati Uniti. In realtà, le aziende più grandi e più ricche del paese sono in prima linea nella globalizzazione fin dagli anni ottanta. Anche se negli ultimi due anni i loro ricavi all’estero sono legger-mente diminuiti, quasi la metà delle ven-dite delle principali aziende quotate in borsa proviene dal di fuori dei confini sta-tunitensi.

Come si fa, allora, a considerare queste aziende “totalmente impegnate” nei con-fronti degli Stati Uniti o di qualsiasi paese

in particolare? Il loro impegno, almeno per il modo in cui il capitalismo statuni-tense è inteso oggi, è verso i clienti e gli investitori, e quando sia gli uni sia gli altri sono sempre più sparsi nel mondo, è diffi-cile pretendere da un consiglio d’ammini-strazione un riguardo particolare per i di-ritti dei lavoratori o delle comunità locali negli Stati Uniti.

Le aziende tecnologiche riescono più facilmente delle altre a spostare l’attività all’estero perché la maggior parte della loro ricchezza non è in “immobilizzazio-ni”, ma in dati, capitale umano, brevetti e software, che non sono legati a luoghi con-creti (come le fabbriche o i negozi), ma

possono spostarsi ovunque. E come ab-biamo già visto, questi beni, pur rappre-sentando una forma di ricchezza, non creano una crescita della domanda su lar-ga scala come succedeva con gli investi-menti del passato.

“Se la Apple compra una licenza su una tecnologia necessaria a un telefono che produce in Cina, non crea occupazione negli Stati Uniti, tranne che per chi ha rea-lizzato la tecnologia, ammesso che si trovi negli Stati Uniti”, spiega Daniel Alpert, finanziere e professore della Cornell uni-versity che studia gli effetti di questo cam-bio di paradigma negli investimenti. “Le

app, i film su Netflix e Amazon non creano posti di lavoro come farebbe una nuova fabbrica”. O, come ha osservato Martin Wolf sul Financial Times, la Apple “in questo momento è un fondo d’investi-mento collegato a una macchina per l’in-novazione. L’idea che un taglio dell’ali-quota dell’imposta sui redditi societari possa far crescere gli investimenti in que-sto settore è ridicola”. In breve, le aziende ricche di liquidità, in particolare le azien-de tecnologiche, sono diventate gli inge-gneri finanziari dei nostri giorni.

Vantaggio slealeCome abbiamo appena visto, i colossi tec-nologici stanno guidando alcune tenden-ze dei mercati globali, e le sfruttano per assicurarsi un vantaggio sleale rispetto ai consumatori. Per esempio, oggi Google, Facebook e (sempre di più) Amazon han-no in mano il mercato della pubblicità di-gitale e possono imporre ai clienti le loro condizioni. L’opacità dei loro algoritmi, unita alla posizione dominante nei rispet-tivi mercati, fanno sì che per i clienti sia impossibile giocare ad armi pari. Questo può portare a prezzi vessatori e comporta-menti che mettono a rischio la privacy. Pensiamo a come Uber usa il surge pricing (l’incremento dinamico delle tariffe) per stabilire i prezzi in base alla disponibilità dei clienti a pagare di più o di meno a se-conda dell’orario. O ai “profili ombra” che Facebook compila sugli utenti. O a come Google e Mastercard hanno unito le forze per controllare se gli annunci online por-tavano a vendite nei negozi tradizionali, senza informare i titolari delle carte che erano monitorati. O, caso più eclatante, a come Amazon è riuscita ad aggiudicarsi un’insolita commessa per le forniture alle amministrazioni locali degli Stati Uniti.

Almeno fino al 2018 Amazon è stata autorizzata a comprare tutte le forniture per gli uffici e le aule di 1.500 agenzie pub-bliche, tra cui varie amministrazioni e scuole locali, a prezzi non convenzionati. Gli acquisti erano a “prezzi dinamici” – sostanzialmente un’altra forma di tariffa-zione su base oraria, dove i prezzi rifletto-no ciò che il mercato è disposto a pagare in un dato momento – con i costi finali de-terminati dalle singole offerte presentate sulla piattaforma di Amazon. È stato un clamoroso colpo di mano da parte dei pri-vati, dato che lo scopo fondamentale di un contratto d’acquisto all’ingrosso è in teo-ria garantire prezzi competitivi al settore pubblico aggregando la domanda. Si parla tanto degli sconti di Amazon, ma uno stu-

Le aziende danno priorità a quello che si può quantificare, come gli utili

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Da sapere Dominio dei mercati

Ricerche online, nel mondo, agosto 2019

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92%

Amazon Altri

Commercio online, Stati Uniti, maggio 2019

38%

Android (Google) iOS (Apple)

Sistemi operativi per cellulari, nel mondo, agosto 2019

76% 22%

Google Facebook Altri

Entrate della pubblicità online, Stati Uniti, febbraio 2019

37% 22% 9%

Amazon

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dio dell’Institute for local self-reliance, un’organizzazione non profit, mostra che un distretto scolastico della California avrebbe speso il 10-12 per cento in più se avesse acquistato le sue forniture su Ama-zon. E per come era strutturato l’accordo, le amministrazioni municipali che aves-sero voluto continuare a usare fornitori non presenti sulla piattaforma del colosso del commercio online sarebbero state co-strette a farli migrare su Amazon.

È difficile ignorare le somiglianze tra il comportamento di Amazon e le pratiche di alcuni gruppi finanziari prima del crollo del 2008. Anche questi ultimi usavano la tariffazione dinamica attraverso i mutui a tasso variabile, e anche loro sfruttavano enormi asimmetrie d’informazione per vendere complessi prodotti finanziari a investitori imprudenti, che non sempre erano privati cittadini, ma a volte anche amministrazioni come quella della città di Detroit. Amazon, da parte sua, ha mol-ti più dati di mercato rispetto ai fornitori e ai clienti del settore pubblico che vuole mettere in contatto.

Come in ogni transazione, la parte più informata può fare l’affare migliore. Il concetto di fondo è che sia le grandi azien-de tecnologiche sia le grandi istituzioni

finanziarie sono al centro di una clessidra di informazioni e scambi commerciali e prendono una commissione su tutto quel-lo che passa. Sono il banco, e il banco vin-ce sempre. Come per le banche, una rego-lamentazione del sistema è forse l’unico modo per impedire alle grandi aziende tecnologiche di speculare in modo sleale su questi vantaggi.

Qualcuno teme che Amazon o Face-book possano sfruttare la loro posizione di forza nel commercio online o nei social network per trarre un indebito vantaggio a livello finanziario, usando ciò che già sanno sulle nostre abitudini di acquisto per spingerci a comprare quello che vo-gliono in un modo anticoncorrenziale o predatorio. E qualcuno teme anche che possano tagliare la corda ai primi segnali di turbolenza, destabilizzando il mercato del credito. “L’attività di credito dei colos-si tecnologici non si basa sull’intervento umano o su una relazione a lungo termine con il cliente”, ha detto Agustín Carstens, direttore generale della Banca dei regola-menti internazionali. “Si tratta di linee di credito strettamente transazionali, in ge-nere a breve termine, che possono essere automaticamente tagliate se le condizioni di un’azienda peggiorano. Questo signifi-

ca che, in una fase di recessione, potreb-bero esserci un forte calo del credito alle piccole e medie imprese e grandi costi so-ciali”. Se pensate che somigli molto alla situazione in cui ci trovavamo nel 2008, non vi sbagliate.

Trattare il settore tecnologico come tutti gli altri richiederebbe senza dubbio un grande cambiamento del modello di impresa delle aziende più grandi, con po-tenziali implicazioni sui profitti e il prezzo delle azioni. Le valutazioni esorbitanti dei colossi tecnologici sono in parte dovute al fatto che il mercato si aspetta che continui-no a essere grandi monopoli scarsamente regolamentati e poco tassati. Ma non è detto che sarà sempre così. Le questioni relative alla concorrenza e ai monopoli stanno rapidamente arrivando all’atten-zione di Washington, e presto per i giganti della tecnologia potrebbe arrivare la resa dei conti. u fas

L’AUTRICE

Rana Faroohar è una giornalista statunitense. È editorialista del Financial Times e un’analista economica della Cnn. Questo articolo è tratto dal suo ultimo libro, Don’t be evil: the case against big tech (Allen Lane 2019).

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In un magazzino di Amazon. Tilbury, Regno Unito

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Libano

52 Internazionale 1336 | 6 dicembre 2019

Il 17 ottobre migliaia di libanesi esasperati sono scesi per le stra-de di Beirut. La scintilla è stata un piano del governo per impor-re una tassa su WhatsApp. In re-altà, le proteste erano la conse-

guenza di una serie di crisi già in corso e collegate tra loro: una fiscale dovuta alle entrate insufficienti; una del debito; una legata alla mancanza di valuta straniera; e una crisi dello sviluppo caratterizzata da una crescita stagnante e aggravata dall’aumento della disoccupazione e del costo della vita. A questa lista si può ag-giungere una crisi infrastrutturale, emer-sa soprattutto durante le proteste del 2015 per la mancata raccolta dei rifiuti ma con cui le persone devono fare i conti ogni giorno, a partire dai problemi nella forni-tura di elettricità e di acqua. Tutti questi problemi hanno in gran parte origini in-

terne e sono il risultato di una cattiva ge-stione dei fondi pubblici, di una corruzio-ne diffusa e di una polarizzazione politica che vanno avanti da decenni. Ma sono state aggravate da fattori regionali e in-ternazionali.

Nelle settimane precedenti al 17 otto-bre era risultata evidente la meschinità di un governo incapace di domare gli incen-di incontrollati che per giorni avevano bruciato le città e le foreste libanesi, met-tendo in pericolo decine di persone. Inol-tre il governo non era riuscito a placare le preoccupazioni sulla mancanza di carbu-rante e di grano e sulla disponibilità di valuta e di liquidità per chi doveva con-vertire le lire libanesi in dollari.

Scintilla inattesaNegli anni passati tutta la società libane-se era stata toccata da scioperi e proteste di breve durata, che avevano coinvolto anche i campi profughi palestinesi. Poi, in meno di tre giorni, l’inattesa scintilla del 17 ottobre ha mobilitato più di due mi-lioni di persone, che hanno manifestato spontaneamente e senza un leader nelle strade di Beirut e di altre grandi città e re-gioni, come Jbeil, Nabatiye, Sidone, Tiro, Tripoli, e in vari quartieri periferici della capitale, tra cui Furn el chebbak, Corni-che el mazraa e Jal el dib.

Da allora la rivolta non si è più ferma-ta: manifestazioni, sit-in, scioperi e bloc-

chi stradali si sono moltiplicati in tutto il Libano. Per circa due settimane la stra-grande maggioranza delle scuole pubbli-che e private, dei college e delle universi-tà ha sospeso le lezioni. Il ministero dell’istruzione ha revocato la chiusura, ma molti studenti delle superiori e delle università hanno continuato a sciopera-re. Anche il settore bancario ha sospeso le attività per circa due settimane: non era mai successo, neppure durante i quindici anni di guerra civile. Persone di ogni estrazione hanno riempito le piazze, han-

Tempodi rivoltaJeffrey G. Karam e Sana Tannoury-Karam,Jadaliyya, Libano. Foto di Rafael Yaghobzadeh

Per la prima volta i libanesi contestano l’ordine politico ed economico stabilito dopo la guerra civile. Non si sa a cosa porterà la protesta, ma si è aperto un nuovo capitolo nella storia del paese

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no bloccato strade e autostrade, hanno preso di mira gli edifici governativi e altri simboli del sistema economico e politico. In alcune città si sono organizzate per ri-muovere gli striscioni e i poster usati dai politici per farsi pubblicità. Le tattiche sono state varie, e si stanno evolvendo, mentre i manifestanti cercano di non di-sperdersi e di aumentare la pressione sul-la classe politica.

Tutti questi gesti hanno fatto esplode-re l’indignazione pubblica contro la cor-ruzione, il nepotismo, il paternalismo, il

confessionalismo e il razzismo. Lenta-mente ma inesorabilmente i manifestan-ti hanno cominciato a presentare rivendi-cazioni a lungo attese, tutte riconducibili alla più generale richiesta di mettere fine al regime politico ed economico che go-verna il Libano dalla fine della guerra ci-vile nel 1990. È importante sottolineare che molti manifestanti hanno opinioni diverse sulla transizione verso uno stato laico e democratico o sulla possibilità di allontanarsi da politiche economiche neo liberiste. Finora però la solidarietà e

la capacità di fare rete dei manifestanti hanno eclissato le distanze di pensiero e le divergenze sui passi avanti da fare.

L’élite al potere finora è riuscita a pro-teggersi dalle pressioni crescenti facendo alcune concessioni, come la promessa di realizzare riforme economiche serie. In una delle prossime sessioni del parla-mento è previsto il voto su alcune leggi contro la corruzione e l’appropriazione indebita di fondi pubblici. Ma è in discus-sione anche una legge che garantisce l’impunità per i reati di abuso d’ufficio,

Beirut, 3 novembre 2019

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Libano

spreco di fondi statali e crimini ambien-tali. In pratica il sistema e i vari partiti stanno cavalcando l’ondata rivoluziona-ria, appropriandosi delle rivendicazioni dei manifestanti, ma allo stesso tempo evitano di assumersi qualsiasi responsa-bilità. Le potenze regionali e internazio-nali continuano a monitorare la situazio-ne e a indicare le loro preferenze, speran-do di proteggere i propri alleati locali.

Solo un passoUna svolta importante sono state le di-missioni del primo ministro Saad Hariri il 29 ottobre, dopo dodici giorni di manife-stazioni in tutto il paese. È una dimostra-zione del peso che possono avere le azioni dei cittadini, ma anche una concessione della classe dominante per alleggerire la pressione e indebolire la solidarietà tra i manifestanti. Per alcuni di loro, infatti, le dimissioni rappresentano solo un primo passo verso la riforma dell’intero sistema politico, mentre per altri sono un punto di arrivo. Rinunciando all’incarico, inoltre, Hariri, come altri politici, può rilanciare la sua popolarità in declino e mostrarsi

sensibile alle richieste dei manifestanti.Nel frattempo, però, l’élite al potere

usa l’esercito e le forze di sicurezza per reprimere i manifestanti che bloccano le strade in modo pacifico. L’apparato re-pressivo è uno dei pilastri del regime e resterà in gran parte fedele alla classe al potere. Gli agenti hanno già usato la forza in varie occasioni, soprattutto sulla cir-convallazione che collega diverse zone del centro di Beirut e nelle strade di alcu-ne aree periferiche, come Jal el dib e Zouk, che portano verso il nord del Liba-no. Degli avvocati si sono offerti di assi-

stere gratuitamente le persone che, per aver partecipato alla protesta, sono finite in arresto e in carcere. A Beirut, inoltre, i manifestanti sono stati attaccati più volte dai sostenitori di alcuni partiti, in partico-lare Amal ed Hezbollah, i principali mo-vimenti sciiti del paese.

Fin dai primi giorni della protesta, in molti hanno parlato di rivoluzione. Ma questa non è ancora, e forse non sarà mai, una rivoluzione nel senso tradizionale del termine.

L’accordo siglato a Taif alla fine della guerra civile istituzionalizzò e consacrò il sistema politico confessionale che era stato creato durante il mandato francese in Libano ed era stato formalizzato dal Patto nazionale del 1943. Il regime post-bellico adottò anche politiche neoliberi-ste e di debito pubblico che rafforzarono il dominio del settore bancario.

Il 17 ottobre, per la prima volta nella storia del Libano, la gente si è ribellata contro questo sistema e contro i partiti su cui si fonda. Altri periodi della storia mo-derna libanese, compresa la crisi politica del 1958 che portò alla guerra civile, eb-

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Piazza dei martiri, Beirut, 30 ottobre 2019

Anche se non riuscirà a soppiantare del tutto il sistema, questa esperienza non può essere negata né cancellata e costituirà una pietra miliare

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bero connotazioni rivoluzionarie, ma le rivendicazioni riguardavano sempre la ridistribuzione del potere tra l’élite e le comunità confessionali più che un siste-ma politico nuovo e inclusivo.

Le mobilitazioni del 2011, del 2013 e del 2015 ponevano il governo di fronte a richieste specifiche, come l’abolizione del confessionalismo politico o la fine della crisi dei rifiuti; rimanevano per lo più limitate a Beirut ed erano dominate da un particolare strato sociale. Insom-ma, pur avendo rappresentato importan-ti momenti di politicizzazione e di costru-zione di alleanze, le mobilitazioni del passato non hanno avuto la diffusione, la natura interclassista e onnicomprensiva che invece mostra quella attuale.

Questione di classeI manifestanti sembrano aver superato il regionalismo e le divisioni del periodo della guerra civile, che l’assetto postbelli-co aveva istituzionalizzato e incentivato. Creando dei ponti tra le diverse linee confessionali, politiche, ideologiche, re-gionali e partitiche, i libanesi stanno ca-pendo cosa vuol dire superare davvero la guerra civile. La volontà di combattere la retorica confessionale usata come stru-mento sociopolitico è la prima vera mi-naccia all’ordine stabilito e potrebbe se-gnare l’inizio di una lunga battaglia. An-che se non riuscirà a soppiantare del tutto il sistema, questa esperienza non può es-sere negata né cancellata e costituirà una pietra miliare nella storia libanese.

Se non altro, è una rivoluzione contro la coscienza della guerra civile, contro il complotto per mantenere in piedi le divi-sioni di quel conflitto e negare una svolta e una possibilità di riconciliazione. È una rivoluzione contro la complicità che ha paralizzato i cittadini negli ultimi decen-ni e occultato il loro potere di cambiare le cose. Le persone nelle strade non stanno immaginando come dovrà essere il loro paese o in che modo cambiare la situazio-ne: stanno creando l’alternativa e com-battendo contro le assurde difficoltà della vita di tutti i giorni. Chiedono che il siste-ma dominante sia rimpiazzato con un si-stema civile, laico, democratico e social-mente equo.

Gli appelli alla solidarietà si sono mol-tiplicati da Tripoli a Dahiya, da Nabatiye a Sidone, e tra varie regioni del Libano storicamente divise. Un segnale impor-tante, se consideriamo che una parte in-tegrante dell’ordine postbellico è il diva-

I partiti libanesi, in particolare Hezbollah e Amal, cercano di indebolire le proteste puntando sulle appartenenze confessionali

Nelle settimane scorse in Liba-no ci sono stati episodi di vio-lenza senza precedenti con-tro i manifestanti da parte dei

sostenitori di Hezbollah e di Amal, an-che nelle roccaforti dei due movimenti sciiti. Secondo diversi esperti, i partiti stanno cercando di schiacciare le prote-ste favorendo il ritorno delle divisioni confessionali. Non è ancora chiaro se le cose possano degenerare in violenze an-cora più estese.

Il 26 novembre a Baalbek una folla che sventolava bandiere di Hezbollah ha attaccato un accampamento di mani-festanti. Il giorno prima era successa la stessa cosa a Tiro, e quello ancora pre-cedente centinaia di persone avevano picchiato dei manifestanti a Beirut.

“In Libano questa è comunicazione politica”, spiega Hilal Khashan, che in-segna scienze politiche all’American university di Beirut. “Durante la guerra civile i politici comunicavano scambian-dosi colpi di mortaio. Si tratta di un pro-cesso controllato”.

Gli attacchi arrivano nel momento in cui si sta formando il governo, con Hez-bollah che preme per un esecutivo costi-tuito da politici e tecnocrati e non solo da tecnocrati, come invece chiede il pri-mo ministro ad interim Saad Hariri. Se-condo Khashan “l’aumento della vio-lenza è calcolato e non porterà a uno scontro aperto”, perché Hezbollah ha ottenuto comunque quello che voleva: il controllo del sistema politico libanese attraverso i suoi alleati.

Maha Yahya, direttrice del Carnegie Middle East center di Beirut, invece av-verte che le cose potrebbero sfuggire di mano: “Quando si comincia con questo tipo di gioco confessionale, la situazio-ne può degenerare. Non credo che si possa arrivare a una guerra civile, per-ché solo una parte, cioè Hezbollah, è pe-santemente armata. Ma ci potrebbero

essere scontri, instabilità e incidenti violenti”. Yahya ritiene che “si sia deciso di mettere fine al clima di pace e amore delle proteste”, sia per salvaguardare gli interessi di partito sia per svuotare le piazze prima della formazione del nuo-vo governo. “In una certa misura, que-sto va a vantaggio di tutti. I partiti del si-stema sono sulla stessa barca, per loro il movimento costituisce una minaccia esistenziale”, prosegue.

Le proteste non sono mai state espli-citamente contro Hezbollah, ma hanno preso di mira la corruzione e la cattiva amministrazione dei partiti al potere, tra cui Hezbollah. Yahya spiega che il movimento sciita “non vuole essere ri-tenuto responsabile della situazione pietosa in cui si trova il paese”, ma non può reagire con la violenza distruttiva che è stata esercitata in Iraq e in Iran. Così cerca di aizzare i sentimenti con-fessionali, per spaventare le persone e creare “due piazze”, una dei partiti con-fessionali al potere e una dei manife-stanti. “L’intenzione è rompere l’unità della piazza e suscitare sentimenti di appartenenza a una comunità confes-sionale”.

Senza pauraI due studiosi concordano su un punto: gli autori delle aggressioni per le strade del paese erano organizzati e sono stati mandati dagli stessi partiti. Secondo Khashan le violenze potrebbero essere un segnale implicito del fatto che i parti-ti hanno paura di perdere consenso: “Più le proteste vanno avanti, più la ba-se sciita di Hezbollah metterà in discus-sione il partito”. I manifestanti hanno sfidato i partiti come mai in passato, in zone che un tempo erano considerate indiscutibilmente sotto la loro influen-za, e non hanno mollato nonostante i tentativi di repressione.

Dopo l’aggressione del 25 novembre a Tiro, una donna velata con la bandiera li-banese sulle spalle ha dichiarato alla tv locale Al Jadeed, tra gli applausi delle persone intorno: “Non abbiamo paura di nessuno. Siamo tutti pronti a morire per la nostra causa”. u fdl

Il ritorno delle divisioni

Timour Azhari, The Daily Star, Libano

L’analisi

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Libano

56 Internazionale 1336 | 6 dicembre 2019

rio imposto dallo stato tra le zone urbane e quelle rurali e tra Beirut e le altre città. Le classi socioeconomiche più povere so-no protagoniste delle proteste nelle re-gioni rurali, nelle città minori e nelle pe-riferie della capitale. A Beirut, invece, manifestano esponenti di varia estrazio-ne, e i più poveri cercano di evitare che le piazze si trasformino in spazi rivoluzio-nari elitari.

La questione della classe è presente anche nel modo in cui lavoratori e profes-sionisti stanno riconfigurando alcune organizzazioni di categoria. Per decenni i sindacati sono stati contaminati dalla po-litica del confessionalismo e controllati dai partiti, e a parte pochissime eccezioni (come il sindacato dei medici di Tripoli) sono rimasti in silenzio o si sono opposti alla rivolta. Lavoratori e professionisti oggi stanno rompendo i ranghi, organiz-zandosi in nuove alleanze. Professionisti di vari settori (professori, avvocati, inge-gneri, medici, farmacisti, giornalisti, at-tori, assistenti sociali, registi e scrittori), indipendenti da qualsiasi partito hanno formato una coalizione, insieme ad altre più piccole all’interno di ogni professio-ne, e si stanno mobilitando contro la Ban-ca centrale libanese e i vari ministeri che hanno ostacolato il loro lavoro e corrotto i settori in cui operano.

Le voce delle donneLe strade e i muri delle città libanesi oggi sono coperti di messaggi che chiedono la fine del capitalismo, il rifiuto del razzismo e il diritto delle donne a trasmettere la cittadinanza ai loro figli. Una parte dei manifestanti (in particolare gli studenti di Beirut) è convinta che le diverse que-stioni siano intrecciate tra loro e non si possa privilegiarne una sola: la giustizia sociale, l’uguaglianza di genere, la difesa dei diritti lgbt, dei lavoratori stranieri e dei rifugiati sono tutte battaglie legate tra loro; rifiutano la retorica contro i migran-ti e l’emarginazione dei poveri su cui insi-ste il regime.

I libanesi inoltre sono sempre più con-sapevoli delle affinità tra le loro battaglie e quelle portate avanti negli altri paesi arabi e nel sud del mondo, che oggi si sta ribellando contro le politiche neoliberiste delle élite. La gente nelle strade di Beirut intona canti in solidarietà con Baghdad, nelle piazze di Tripoli sventolano bandie-re algerine, e sui social network l’imma-gine della libanese Malak Alaywe Herz che sferra un calcio alla guardia del corpo di un politico è affiancata a quella di Alaa

Salah, la leader degli studenti sudanesi diventata un’icona della rivolta per la foto che la ritrae mentre guida i cori di prote-sta.

Gli slogan che uniscono migliaia di persone sono una critica globale alla clas-se politica libanese, perfettamente esem-plificata dal grido Killoun yaani killoun (tutti vuol dire tutti). Nonostante i tenta-tivi dei politici, della stampa di regime e delle autorità religiose di controllare la rivolta, i manifestanti hanno proclamato la fine della devozione nei loro confronti.

Hanno inserito negli slogan insulti contro alcuni di loro, tra cui Gebran Bassil, mini-stro degli esteri e capo del Movimento patriottico libero, che in passato è stato ministro dell’energia e dell’acqua ed è ri-tenuto responsabile del pessimo stato di questi due settori.

Il popolare inno Hela hela ho (che si conclude con un riferimento alla madre della persona insultata) è di per sé una rivoluzione contro la moralità incarnata negli ultimi tre anni dal presidente cri-stiano Michel Aoun, che si presenta come “padre di tutti”. In un ribaltamento di questa retorica, alcuni manifestanti chie-dono all’autoproclamato patriarca l’adempimento dei doveri “paterni”. Al-tri, in particolare i gruppi femministi, ri-spondono con slogan che rifiutano questo paternalismo, come Mannak bayy al kill (tu non sei nostro padre). Queste voci femministe, anche se non sono presenti ovunque, sono sempre più forti e difficili da ignorare e hanno creato spazi di espressione per altri gruppi emarginati. Lo stesso inno Hela hela ho, che alcune femministe non condividono per come tratta il corpo delle donne, è stato trasfor-mato in un insulto diretto contro Bassil e il presidente Aoun, ridotto a “suocero”.

Riprendersi lo spazioAnche altre cose considerate “sacre” so-no finite con questa rivoluzione. A causa della chiusura di scuole e università, le strade sono diventate aule. La produzio-ne della conoscenza non è più monopo-lizzata: la strada decide chi può parlare e chi deve essere ascoltato; l’apprendimen-to è stato reso democratico. L’interruzio-ne delle normali attività ha trasformato le strade e le piazze anche in luoghi di culto,

17 ottobre 2019 Il governo annuncia una tassa sulle chiamate fatte tramite WhatsApp. Migliaia di persone protestano a Beirut, Sidone e Tripoli. Il governo ritira la proposta, ma nei giorni successivi le manifestazioni si moltiplicano in tutto il paese e prendono di mira l’intero sistema politico, accusato di essere corrotto e incapace di soddisfare le necessità dei cittadini. 21 ottobre Il primo ministro Saad Hariri annuncia un pacchetto di riforme economiche, considerate insufficienti dai manifestanti. 29 ottobre Un gruppo di sostenitori di Hezbollah e Amal, i principali partiti sciiti del paese, assalta un accampamento dei manifestanti a Beirut. La sera stessa Hariri si dimette. Il presidente Michel Aoun chiede al governo di restare in carica finché non sarà formato un nuovo esecutivo.25 e 26 novembre I sostenitori di Hezbollah e Amal attaccano di nuovo i manifestanti a Beirut e in altre zone del paese.1 dicembre Centinaia di persone manifestano a Beirut per la pace, contro i ritardi nella formazione di un nuovo governo e contro chi alimenta le divisioni. Gulf News, L’Orient-Le Jour

Da sapere Movimento pacifico

Da sapere Povertà e corruzioneVariazione del pil libanese rispetto all’anno precedente, percentuale

Indice di percezione della corruzione in Libano, 180 = massima corruzione

2011 2013 2015 2017 201820162014201220102009

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Fonte: Fondo monetario internazionale, Transparency international, The Economist

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dove si prega e si assiste ai riti religiosi. Una delle dissacrazioni più ovvie, ma

anche la più celebrata, è la riappropria-zione dello spazio pubblico da parte dei cittadini. I governi che si sono succeduti in Libano dal 1990 hanno trasformato Beirut, che era accogliente e aperta a tut-ti, in una città chic ed esclusiva. La mag-gior parte dei libanesi non può permet-tersi di cenare in un ristorante della capi-tale, passare la notte in un albergo, com-prare vestiti o gioielli nei nego-zi, e non immagina neppure l’antico fascino della città.

I manifestanti si sono riap-propriati dei beni che gli erano stati rubati; degli edifici di cui si era impossessata, per lo più illegalmente, la società Solidere (incaricata della rico-struzione postbellica e controllata dalla famiglia Hariri) nel centro di Beirut; e del litorale occupato in modo illegittimo da aziende legate all’élite corrotta.

I manifestanti hanno abbattuto le bar-riere materiali e psicologiche per rivendi-care gli spazi vuoti, occupando gli immo-bili abbandonati in piazza dei Martiri, te-nendo dibattiti dentro l’edificio di cemen-

to nel centro di Beirut, soprannominato “uovo”, danneggiato e abbandonato du-rante la guerra civile, e cenando nelle ban-carelle spuntate ovunque. Anche gli artisti rivendicano gli spazi pubblici, trasfor-mando i muri di cemento di Beirut nelle loro tele.

Un pezzo alla voltaLa bellezza di questa rivolta senza leader diventata rivoluzione non è tanto nella

sua spontaneità, quanto nell’epocale, potente e colletti-va espressione delle tante voci sovrapposte che ora possono essere ascoltate nelle principali strade e piazze del paese. Sono

voci di donne e per i diritti delle donne; per uno stato laico e inclusivo; per uno sviluppo economico giusto ed equo; per un sistema politico democratico e rappre-sentativo.

Il livello di coinvolgimento e consape-volezza politica di chi è sceso in piazza infonde una nuova speranza per il Liba-no. Le barriere della paura e del sacro che l’élite ha tenuto in piedi per dominare sulle fazioni del paese sono frantumate

un pezzo alla volta nelle feste, nei forum pubblici e nelle lezioni all’aperto, nel la-voro collettivo tra sindacati e università, nei concerti e nei mercatini.

Le conseguenze più vaste di questa intifada libanese sono difficili da traccia-re e potrebbero non tradursi in azioni che ristruttureranno immediatamente un si-stema politico arcaico, patriarcale e con-fessionale devastato. Ma sappiamo che le rivoluzioni sono processi caotici che ri-chiedono pazienza, resilienza e determi-nazione. L’esperienza rivoluzionaria esplosa giovedì 17 ottobre 2019 segna l’inizio di un nuovo capitolo nella storia moderna del Libano. Questo capitolo lo sta scrivendo la gente nelle strade e sarà consegnato alle generazioni future. Qua-lunque cosa succeda, non si tornerà più indietro. u fdl

Piazza al Nour, Tripoli, 17 novembre 2019

QUESTO ARTICOLO

Jadaliyya è un sito indipendente legato all’Arab studies institute, che ha sede a Washington, negli Stati Uniti, e a Beirut, in Libano. Pubblica articoli in arabo, inglese, francese e turco sul mondo arabo e sul Medio Oriente.

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Kenya

58 Internazionale 1336 | 6 dicembre 2019

Qualche mese fa An, una gio-vane professionista cinese che vive a Nairobi, ha senti-to bussare alla porta. Non aspettava visite. Si era tra-sferita nella capitale kenia-

na un paio di mesi prima e nessuno dei suoi nuovi amici sarebbe passato a trovar-la senza avvertire. An ha sbirciato dallo spioncino della porta e ha intravisto, con un misto di sollievo e sorpresa, due donne sorridenti, una dai tratti asiatici e l’altra occidentale. Erano testimoni di Geova e le

hanno spiegato in mandarino di aver sa-puto che nel palazzo era arrivata una nuo-va cinese.

An, sospettosa, gli ha chiesto come avessero fatto a saperlo, visto che nel suo quartiere non c’erano molti cinesi. Con una risatina educata la testimone di Geo-va asiatica si è scusata per l’intrusione e ha risposto alla domanda in modo strano, li-mitandosi a dire che gli capitava di “veni-re a conoscenza di cose”. An le ha fatte entrare, divertita all’idea di essere finita nel mirino di predicatori porta a porta non

cinesi che parlavano cinese in Africa orientale. La donna asiatica parlava il mandarino così bene che solo qualche in-flessione nella cadenza lasciava capire che era giapponese. L’altra, una studente britannica, era in Kenya per le vacanze estive, ma poi avrebbe continuato a stu-diare mandarino e sarebbe tornata a Nai-robi per predicare alla diaspora cinese. Hanno chiacchierato a lungo nel soggior-no di An, toccando temi che andavano dalla Bibbia all’evoluzione darwiniana, fino alla persecuzione dei cristiani in Ci-

I testimoni di Geova parlano cinese in AfricaApril Zhu, South China Morning Post, Hong Kong

Negli ultimi anni quarantamila cinesi si sono trasferiti in Kenya per lavoro. Qui vengono sistematicamente avvicinati da predicatori in cerca di anime da salvare

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Su un treno della ferrovia Mombasa-Nairobi, finanziata dalla Cina, il 1 settembre 2018

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na, che per la giapponese era un fatto “molto grave”.

Con il loro proselitismo ostentato e le campagne di evangelizzazione mirate, i testimoni di Geova – più di otto milioni in tutto il mondo – hanno fatto arrabbiare molti governi autoritari, per non dire chiunque viva in un quartiere residenziale e abbia un campanello. La loro religione ha molti punti in comune con altre confes-sioni cristiane e si fonda su una particolare traduzione della Bibbia. Tuttavia i fedeli venerano Geova, a differenza dei cattolici e dei protestanti che si rivolgono al Signo-re, a Dio o al Padre. Inoltre hanno accan-tonato il concetto della trinità e per loro Gesù è semplicemente il figlio di Geova, estraneo alla natura divina. Le rigide ge-rarchie e restrizioni sociali del gruppo non aiutano a dissipare le accuse di settari-smo. Lo stesso vale per la missione princi-pale del culto: salvare il maggior numero possibile di anime prima dell’Armaged-don, la battaglia finale tra bene e male.

Al bandoEscatologia a parte, l’espressione “testi-moni di Geova” evoca l’immagine di una coppia di uomini in pantaloni neri, cami-cia bianca a maniche corte, cravatta e car-tellino con il nome fermi agli angoli delle strade, nelle stazioni o sulla porta di casa. Questo non succede in Cina, dove la poli-zia disperde gli incontri clandestini di va-rie chiese cristiane ed espelle dal paese gli stranieri accusati di fare proselitismo per Geova (la giapponese che è andata a casa di An è una di loro). Anche se il Partito co-munista cinese non ha inserito i testimoni di Geova nella lista degli xie jiao (i culti messi al bando), nessun testimone di Geo-va avrebbe mai bussato alla porta di An in Cina.

Dopo essere stata cacciata dalla Cina per le sue attività di predicazione, la don-na giapponese ha seguito la nuova scia di anime cinesi dirette in Kenya, un paese che garantisce una libertà di culto quasi totale. Qui può offrire a cinesi come An qualcosa di cui non sapevano di aver biso-gno quando vivevano in patria: l’antitesi dell’etica comunista di Mao Zedong, cioè la buona novella del signore e salvatore Gesù Cristo.

Come partner del progetto cinese della nuova via della seta, il Kenya ha ricevuto ingenti investimenti da Pechino, in parti-colare per costruire la ferrovia che collega la città portuale di Mombasa con Nairobi e, in futuro, con l’Uganda. Il progetto è fi-nanziato quasi esclusivamente dalla Ex-

port-Import Bank of China. La Cina è at-tualmente il principale creditore del Ken-ya, e copre più del 70 per cento del debito che il paese ha contratto con altri stati. In Kenya vivono ormai 40mila cinesi tra la-voratori (spesso impiegati nei grandi pro-getti infrastrutturali) e le loro famiglie.

Si tende a pensare che gli immigrati ci-nesi, in virtù di un’antica abitudine all’iso-lamento, non si lascino toccare dal paese che li accoglie, soprattutto se il posto in cui si trasferiscono non è una familiare Chi-natown nordamericana ma una metropo-li africana in espansione. Questo ha creato una tensione paradossale tra quelli che identifichiamo come missionari e non credenti. Non si tratta più di predicatori bianchi europei che arrivano in Africa per

civilizzare i suoi abitanti. Oggi molti ke-niani, che vengono da generazioni e gene-razioni di cristianesimo, stanno imparan-do il mandarino per convertire i cinesi “senza dio” che arrivano nel loro paese. Nel Kenya di oggi i popoli da evangelizza-re sono le comunità di espatriati e i missio-nari sono la gente del posto.

Libertà di cultoUna domenica pomeriggio, nel ricco quartiere di Kilimani a Nairobi, la sala del regno più grande del Kenya è gremita di persone vestite tutte allo stesso modo, so-brio e pulito. Come gli altri luoghi di culto dei testimoni di Geova anche questa sala è spartana, quasi senza colori. Gli opuscoli di La torre di guardia, l’organizzazione non profit che governa i testimoni di Geo-va in tutto il mondo e li rifornisce di mate-riali da distribuire porta a porta, sono di-sponibili in varie lingue.

Fei Li, un keniano dal nome cinese, apre l’incontro con una preghiera pronun-ciata in un mandarino senza inflessioni. Si ascolta una canzone registrata, con il testo proiettato su uno schermo in caratteri ci-nesi e in pinyin (il sistema di trascrizione nell’alfabeto latino) e poi si legge il passag-gio della Bibbia da studiare quel giorno. Il servizio non è guidato da un predicatore, ma Fei Li fa da moderatore. Ogni settima-na si guardano gli stessi video, si leggono gli stessi passi, si fanno le stesse domande, si danno le stesse risposte.

La maggior parte dei partecipanti è ke-niana, ma ci sono anche asiatici e norda-mericani. L’incontro si svolge completa-mente in cinese. È l’ultimo della giornata, dopo quelli in inglese e in swahili.

Oltre alla sala del regno, i testimoni di Geova di Kilimani – che presiedono alle attività del gruppo in Kenya, Tanzania, Sudan, Sud Sudan e Somalia – hanno a di-sposizione un grande edificio ammini-strativo, scuole, abitazioni con giardini, ambulatori medici, un centro per le tradu-zioni, un dipartimento legale e un magaz-zino pieno di copie di La torre di guardia. Ogni congregazione di testimoni di Geo-va in Kenya ha un territorio all’interno del quale i suoi affiliati fanno proselitismo. Dove ci sono espatriati cinesi ci sono an-che testimoni di Geova. Nel periodo dell’alta stagione a Maai Mahiu, una pol-verosa cittadina nella Rift valley, i testi-moni di Geova stanno in piedi accanto a banchetti pieni di copie di La torre di guar-dia in mandarino, inglese e swahili, pronti a predicare ai turisti scesi dai pullman.

Il Kenya ha 50 milioni di abitanti e al-

Da sapere Un treno di miliardi

Da sapere Una mano da Pechino

20092007

46

365

65262

57225

32 64

1.279

3.730

Prestiti cinesi al Kenya, dal 2006 al 2017, milioni di dollariFonte: China Africa Research Initiative, Johns Hopkins Sais

2.570

1.095

20132011 2015 2017

u L’80 per cento dei soldi prestati da investitori cinesi al Kenya dal 2001 in poi sono serviti a finanziare grandi progetti nel settore dei trasporti. La Export-Import Bank of China ha concesso un prestito di 3,6 miliardi di dollari per la ferrovia Mombasa-Nairobi. Il 16 ottobre 2019 è stata inaugurata una nuova tratta, Nairobi-Naivasha, costruita dalla China road and bridge corporation.

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Kenya

meno ottomila chiese registrate. Secondo i testimoni di Geova di Kilimani, nel paese ci sono 389 sale del regno, che attirano 30mila fedeli. Di questi 3.643 sono “pio­nieri”, come Charles Otieno, un uomo di 27 anni che dedica più di settanta ore al mese all’evangelizzazione. Otieno è della congregazione di Kariobangi, un quartie­re povero di Nairobi. Là vicino c’è una cen­trale idroelettrica cinese. Otieno riempie il suo zaino di opuscoli in cinese e va a bus­sare all’ingresso dell’impianto. Quando un operaio cinese gli apre la porta, lui gli chiede in mandarino se ha sentito la buo­na novella.

Otieno parla inglese, francese, swahili, bemba e mandarino, ma nessuna lingua in modo fluente. Dice di essere nato in Kenya, ma nella sua vita si è spostato mol­to in giro per il continente. Racconta di essere tornato a Nairobi tre anni fa.

“Ti piace qui?”, chiedo. Lui ride. Lo prendo come un no.

“Dove ti piacerebbe vivere?”. “Dove vivevo prima”.“Dov’era?”. “Nello Henan. A Zhengzhou”. Tira fuori il telefono per mostrarmi

una foto che lo ritrae in divisa da kung fu mentre fa un salto acrobatico brandendo una lunga sciabola. Otieno ha trascorso gran parte dei tre anni in Cina nel mitico tempio Shaolin, nella provincia dello He­nan, dove si dice sia nato il kung fu. Mi mostra altre foto simili.

Otieno studia il mandarino leggendo la Bibbia, un carattere alla volta. Quelli che non conosce li cerca nel vocabolario. Per chi non è cinese il suo mandarino è ot­timo. “È stata la mia determinazione a portarmi in Cina”, spiega in inglese. Poi, come spesso gli capita quando vuole sot­tolineare un concetto, lo traduce in cinese: “Zi jue”, decisione autonoma. Otieno pe­rò dice di vergognarsi per quella parte del­la sua vita: “È stato uno spreco di tempo. Ero un discepolo del kung fu, era quello il mio dio”.

Al ritorno in Kenya ha cominciato a frequentare i testimoni di Geova per cu­riosità, dopo aver sentito dire dai cristiani “tradizionali” che erano adoratori del dia­volo. Ha conosciuto una persona che gli

ha fatto da mentore, è stato battezzato e ha dedicato la sua vita a fare il “pioniere”. Apre l’app della Bibbia dei testimoni di Geova sul telefono per cercare un verset­to, scorre una lista di lingue e seleziona il cinese. Gli faccio i complimenti per l’abili­tà con cui ha imparato il mandarino. “È il potere di Geova”, risponde. “Geova ci di­ce: ‘Se sapete qualcosa e non lo dite agli altri per convincerli ad abbandonare la cattiva strada, moriranno da persone mal­vagie’. Se Geova arrivasse tra tutti questi cinesi e vedesse che Charles non ha voluto perfezionare il suo cinese per poterli rag­giungere, sarebbe un disastro”.

Non tutti i testimoni di Geova cinesi in Kenya lavorano nei progetti della nuova via della seta. Zhou e il marito Haung vi­vono nel paese da più di vent’anni. Appe­na arrivata, Zhou è diventata amica di Daphne Butler, che si definisce un’“africana bianca” e ha origini norvege­si e greche, ma ha vissuto la maggior parte

della vita in Kenya. Le due donne sono sedute nella casa di Butler a Kilimani e be­vono tè oolong cinese. Sulle pareti ci sono le stampe dei dipinti a olio di Butler, gran­di riproduzioni fotorealistiche della fauna selvatica del Kenya. Zhou racconta che nel 1998 suo marito, arrivato in Africa qualche anno prima di lei per lavorare co­me medico, è “giunto alla verità”, l’espres­sione che i testimoni di Geova usano per definire la conversione. All’epoca lei non ne era felice.

“Huang era cristiano prima di arrivare in Kenya?”, chiedo.

“No, era comunista”, risponde Zhou.Huang è stato il primo cinese a essere

battezzato dai testimoni di Geova in Ke­nya. Zhou racconta che in quegli anni suo marito cercava di condividere con lei “la buona novella” al telefono. Anche lei face­va la medica e lavorava a tempo pieno in un ospedale di Pechino, e a volte portava con sé il bambino nei turni di notte, e lo faceva dormire su una scrivania mentre lei visitava i pazienti.

“Tieni per te le tue buone novelle”, gli rispondeva. “Io non ho tempo”.

Quando l’ha raggiunto in Kenya insie­me al figlio, Zhou, dopo una diffidenza iniziale, è stata la terza cinese a farsi bat­

tezzare dai testimoni di Geova. Ha deciso di dedicare il suo tempo ad aiutare gli altri. Non voleva più limitarsi a dare ai suoi pa­zienti qualche giorno o anno di vita in più, voleva offrirgli la “vera speranza” attra­verso Geova. “È terribile non avere fede. Prima tutti in Cina credevano incondizio­natamente in Mao Zedong. Credevano in qualcosa”, dice.

Zhou ha lasciato la professione, è di­ventata una “pioniera” e pochi anni dopo, insieme al marito e ad altri predicatori, ha lanciato i primi corsi di mandarino per te­stimoni di Geova a Nairobi. All’epoca i corsi duravano dieci settimane e le lezioni si svolgevano ogni sabato. Insegnavano il pinyin con particolare attenzione al lessi­co dell’evangelizzazione. La congregazio­ne ha fatto continui progressi, finché non è riuscita a tenere un intero incontro in cinese. “Sono stata trascinata in questa cosa controvoglia”, scherza Butler. “Mi chiedevo perché mai stessi imparando il cinese”. Alla fine anche lei ha cominciato a predicare. Su argomenti come la spiri­tualità e la Bibbia il suo mandarino è quasi fluente. “Molti cinesi vivono pensando solo all’oggi e al domani, non alle questio­ni importanti della vita”, osserva Butler. “I testimoni di Geova sono convinti che non si possa cambiare il sistema. Ma possiamo cambiare noi stessi. Quindi noi non cer­chiamo di rovesciare il sistema: sarà il re­gno di Dio a farlo”.

Il problema di partenzaDopo l’incontro con le due predicatrici, An è andata in una sala del regno vicino a casa. Le possibilità che si converta sono scarse, anche se l’esperienza non è stata tremenda. Scherza sull’idea di “piantare” la conoscenza della Bibbia tra i cinesi in Kenya, come se i suoi connazionali non avessero dei valori. E in base a cosa, si chiede, le decisioni prese per la fede sa­rebbero moralmente superiori a quelle prese sulla scorta della ragione, della logi­ca o dell’empatia?

“Le persone sono in grado di percepire quando qualcuno emana una forza”, ag­giunge An. “Un missionario keniano è di­sposto a essere respinto, perfino aggredito dalle persone che cerca di salvare. Quello che manca a tanti cinesi è proprio quello spirito, quella forza”.

Pur ammettendo che il proselitismo in cinese in Kenya “non obbliga la gente a fare niente di che”, An lo considera “in­trinsecamente contraddittorio: non fare­sti il missionario se non pensassi che le altre persone sono inferiori”. ◆ gim

60 Internazionale 1336 | 6 dicembre 2019

Apre l’app della Bibbia dei testimoni di Geova sul telefono per cercare un versetto, scorre una lista di lingue e seleziona il mandarino

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Scienza

64 Internazionale 1336 | 6 dicembre 2019

Conosci i tuoi polli

Mathilde Gérard, Le Monde, Francia. Foto di Julien Goldstein

Nel mondo ce ne sono 23 miliardi, e nei Paesi Bassi si sperimentano tecniche d’allevamento più efficienti. Ma gli animalisti e i consumatori sono preoccupati

L’allevamento dei fratelli Weel a Middenmeer, nei Paesi Bassi

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Internazionale 1336 | 6 dicembre 2019 65

L’esterno è spartano: due grandi rettangoli verde scuro, ermetici, senza fi-nestre, in mezzo alla pia-nura. All’interno, dopo aver superato una doppia

porta e indossato una tuta di protezione, la vista lascia stupiti: nella penombra im-mense file di ripiani in acciaio disposti su sei livelli, illuminate da piccoli led. L’odo-re acre dell’ammoniaca che emana dagli escrementi prende alla gola. E poi, nono-stante il rumore assordante dell’impianto d’aerazione, si sente un pigolio continuo: quello di migliaia di pulcini. Sono 160mi-la, hanno cinque giorni di vita, arrivati in

questa fattoria ancora nel loro guscio. Ri-marranno nell’edificio fra i 32 e i 36 giorni, quando avranno raggiunto il peso stan-dard di due chili-due chili e mezzo, e co-nosceranno solo il loro ripiano a led. Do-po di loro arriverà una nuova partita di pulcini. Una rotazione che si ripete sette o otto volte all’anno.

A Middenmeer, nella piccola penisola a nord di Amsterdam, i capannoni degli allevamenti, le serre per l’orticoltura e i giganteschi centri di elaborazione dati si contendono ogni ettaro disponibile. È su queste terre situate sotto il livello del ma-re che Erik Weel e suo fratello Marcel hanno avviato nel 2015 il loro futuribile allevamento di polli: in due edifici su pila-stri separati dai silos per le granaglie, al-levano in permanenza 320mila polli da carne. L’azienda olandese Vencomatic ha fornito alla fattoria questo sistema a ri-piani simpaticamente definito “patio”, ma il cui concetto evoca più un cassetto-ne svedese che i cortili piastrellati dell’Andalusia.

I Paesi Bassi (17 milioni di abitanti) hanno una delle più alte densità di polli al mondo: quasi 42 milioni di volatili su 41.500 chilometri quadrati. Non deve stupire quindi che l’idea di allevare dei polli su strutture a più livelli sia nata pro-prio qui.

Invece di usare il terreno, il principio del patio consiste nell’occupare lo spazio in altezza. In questo sistema i pulcini non svolazzano e non si arrampicano. La den-sità è di 21 uccelli per metro quadrato quando raggiungono le loro dimensioni massime (una densità di 42 kg/m2), cioè il massimo autorizzato dalle norme euro-pee. La tecnologia è onnipresente: con-trollo delle emissioni di anidride carboni-ca e di particolato, illuminazione pro-grammata per simulare il giorno o diffon-dere una luce bluastra che dovrebbe tranquillizzare i volatili. La presenza umana è ridotta al minimo; per la manu-tenzione giornaliera del gigantesco pol-laio servono solo tre persone, a cui se ne aggiungo altre sei quando bisogna carica-re i polli per il mattatoio.

Molto lontano dall’immagine bucoli-ca del pollo nell’aia, l’allevamento su ri-piani servirebbe, secondo i suoi sosteni-tori, a ottenere una carne nutriente in un ambiente sanitario controllato. “Abbia-mo cercato di raggiungere il massimo dell’innovazione”, spiega Winfried van de Laar, responsabile delle vendite degli impianti patio della Vencomatic. “Per fabbricare delle strutture in grado di fa-

vorire il comportamento naturale degli uccelli abbiamo dovuto pensare come se fossimo polli”.

L’impresa si vanta di limitare la diffu-sione delle malattie grazie al suo sistema, e quindi di ridurre l’uso di antibiotici, il cui impiego negli allevamenti avrebbe favorito la diffusione della resistenza a questi farmaci. Nel 2018 l’Organizzazio-ne mondiale della sanità ha dichiarato che la resistenza agli antibiotici rappre-senta “una delle più grandi minacce per la salute mondiale”. Nella fattoria dei fra-telli Weel gli antibiotici sono stati ridotti del 60-70 per cento e solo dall’1 al 2 per cento dei polli sono trattati – un dato in linea con la tendenza dei Paesi Bassi, do-ve dal 2009 le vendite di antimicrobici per uso veterinario sono scese del 74 per cento. Peter Digs, dipendente della fatto-ria di Middenmeer da qualche mese, ne è convinto: “Dopo l’allevamento all’aper-to, il nostro sistema è il migliore per pro-durre polli su vasta scala”.

Carestia e rivoluzioneNonostante le piccole dimensioni, i Paesi Bassi sono uno dei più importanti produt-tori agricoli del mondo. Alla fine della seconda guerra mondiale, durante l’in-verno del 1944-1945, il paese fu colpito da una delle ultime carestie occidentali, che provocò la morte di 22mila persone ed ebbe conseguenze sulla salute di diverse generazioni. Gli olandesi avrebbero con-servato a lungo i segni di quella esperien-za. Dopo la guerra si lanciarono in una rivoluzione agricola, allo scopo di massi-mizzare la produzione usando meno ri-sorse possibili.

Così i Paesi Bassi si sono riempiti di enormi serre, diventando il secondo esportatore di prodotti agricoli per valore dietro gli Stati Uniti. Nel 2018 il porto di Rotterdam ha visto transitare 16 milioni di tonnellate di prodotti agricoli. Entro il 2021 un food hub (un centro di smistamen-to da 60 ettari destinato al settore agroali-mentare) sorgerà dal mare, per facilitare il trasporto dei container refrigerati.

Il modello olandese si basa su una fitta rete di trasporti, ma soprattutto su delle unità di ricerca e di sviluppo molto mo-derne, che fanno del paese un punto di riferimento nell’agrotecnologia. Nei Pa-esi Bassi hanno sede diverse multinazio-nali del settore avicolo: i produttori di impianti come la Vencomatic e la Jansen Poultry, i laboratori di selezione genetica Hendrix, l’azienda di nutrizione animale Nutreco, i mattatoi e gli stabilimenti Plu-

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Scienza

kon e così via. Questo piccolo paese, dove le preoccupazioni per l’ambiente sono molto forti, ha messo a punto un modello impressionante che coniuga l’agricoltura intensiva e le tecnologie più avanzate, e fa intravedere la svolta che potrebbe prendere l’agricoltura di domani, in par-ticolare nel settore dell’allevamento.

Il pollo, considerato più sano delle carni rosse, vede la sua domanda cresce-re in tutto il mondo ed è ormai la carne più consumata. Secondo i dati dell’Orga-nizzazione delle Nazioni Unite per l’agri-coltura e l’alimentazione (Fao), nel 2018 sono state prodotte 124 milioni di tonnel-late di pollo, più che di maiale (120 milio-ni) o di manzo (71 milioni).

E la tendenza dovrebbe continuare. Secondo le stime della Fao, nel 2019 la produzione dovrebbe aumentare ancora del 2,8 per cento. E con una popolazione che raggiungerà i 9,7 miliardi di abitanti nel 2050, la domanda è destinata a cre-scere, in particolare in Asia. Il pollo è già l’uccello più diffuso al mondo: oggi ce ne sono 23 miliardi, dieci volte di più di qua-lunque altra specie di volatile e cinque volte di più rispetto a cinquant’anni fa.

Soffitti bassiMarcel Kuijpers è convinto che tutti vo-gliano mangiare pollo e a prezzi non trop-po alti. Vicino alla frontiera tedesca, lun-go l’autostrada A73, l’allevatore-impren-ditore scavalca le pozze di fango che cir-condano il suo gigantesco allevamento, ancora non del tutto finito. Sull’enorme edificio color ruggine c’è una scritta: “Un cibo delizioso per tutti”. Nessun riferi-mento esplicito al pollo, probabilmente per non attirare troppo l’attenzione, poi-ché il progetto prevede di ospitare quasi un milione di volatili. Sarà di gran lunga il più grande allevamento dei Paesi Bassi, dove in media ogni struttura contiene 92mila volatili.

Ma invece di vantarsi di questi dati eloquenti, Kuijpers preferisce insistere sul ciclo produttivo completamente inte-grato che vuole sviluppare sul posto, dall’incubatrice alla macellazione: “Nel mio modello non ci sarà nessun animale vivo nei camion, non voglio che subisca-no le sofferenze del trasporto”.

Per stabilire le dimensioni della sua azienda, Kuijpers ha prima di tutto stima-to il numero minimo di volatili necessario per far funzionare un mattatoio più pic-colo possibile. Gli esperti a cui si è rivolto gli hanno indicato che per essere redditi-zia una struttura del genere avrebbe do-

vuto abbattere 32mila polli al giorno. “A partire da quel dato ho calcolato che do-vevo raggiungere una capacità di un mi-lione di polli. Questa cifra ovviamente mi ha fatto paura, ma in fin dei conti siamo una piccola catena bene integrata”.

Il progetto però ha suscitato molte cri-tiche, prima di tutto quelle dei vicini, poi quelle delle associazioni che hanno pre-sentato dei ricorsi amministrativi chie-dendo garanzie sul rispetto delle norme e ritardando l’avvio dell’attività. Nei Paesi Bassi non esistono limiti alle dimensioni degli allevamenti, purché rispettino un certo numero di regole ambientali, sulla gestione delle acque reflue e sulle emissioni di particolato e di anidride carbonica.

L’imprenditore ha ricevuto i suoi pulcini. Hanno dieci giorni e pesano 330 grammi. Sono i primi a essere ospitati qui. “Ha visto? Non fuggono quando ci avviciniamo”, dice Kuijpers. “Questo perché non sono stres-sati. Studio i loro suoni, in questo mo-mento stanno discutendo, non gridano”. I polli allevati qui sono una specie a cre-scita rapida e anche loro crescono sui ri-piani della Vencomatic. “I polli non ama-no i soffitti troppo alti”, osserva Kuijpers. “Non gli piace avere molto spazio sopra la testa, perché associano questo spazio ai predatori”. Nell’ideare il suo progetto di fattoria gigante, Kuijpers ha cercato di rispettare i “migliori requisiti” per diversi indicatori: l’acqua è riciclata, il riscalda-mento è fornito da pannelli solari e dal calore prodotto dagli stessi polli.

“Ho uno dei migliori indici di conver-sione alimentare possibile: 1,46 (per pro-durre un chilo di pollo bisogna nutrirlo

con 1,46 chili di mangime). Le associa-zioni mi parlano di impatto ambientale, ma i polli a crescita lenta hanno un impat-to maggiore, un indice di conversione meno buono, utilizzano più terra ed emettono più anidride carbonica”. L’alle-vatore si sente investito da una missione quasi sociale: “Voglio produrre da man-giare per tutti, non solo per i ricchi. Il be-nessere animale è un prerequisito, ma non dovrebbe costare soldi”.

Kuijpers considera obsoleti alcuni cri-teri definiti dalle associazioni: “Noi alle-vatori non siamo autorizzati ad avere opi-nioni sulle condizioni di vita degli anima-

li, eppure si tratta di una nostra responsabilità. Sono disposto ad accettare le critiche, ma non voglio che uccidano la mia atti-vità”.

“Per noi è scoraggiante veder sorgere un’azienda del genere”, dice Anne Hilhorst della Wakker dier, un’ong olan-dese che si occupa della protezione degli animali. “Una volta che questo tipo di strutture arriverà a un milione di animali, sarà impossibile tornare indietro e imma-ginare un altro modello basato sull’alleva-mento a terra”. Ben presto i camion ver-ranno a cercare i polli da Kuijpers per por-tarli al mattatoio. Per non superare la densità massima di 42 chili per metro qua-drato, il 20 per cento dei polli partirà quan-do avrà 35 giorni. L’altro 80 per cento avrà cinque giorni di più per raggiungere un peso di 2,2 chili. Una procedura definita in inglese thinning (sfoltimento), che per-mette di sfruttare al massimo lo spazio disponibile.

Ridurre gli sprechiA pochi chilometri di distanza, Ruud Zanders ha fatto un’altra scelta. L’azien-da Kipster, di cui è socio, propone un mo-dello completamente diverso. Qui al cen-tro dell’attività ci sono le uova, anche se l’allevamento di polli da carne è comple-mentare. Il principio guida di quest’azien-da è: non si butta via nulla. Circa 24mila galline ovaiole vivono in due strutture se-parate da una grande serra. Le galline dormono su un sistema di ripiani su tre livelli, ma sono libere di muoversi, di raz-zolare, di arrampicarsi e di fare dei bagni di terra all’esterno.

Alla nascita, quando i pulcini sono se-parati in base al sesso, i maschi sono alle-vati per la carne – una pratica piuttosto rara, perché la maggior parte degli alle-vamenti di galline ovaiole li abbatte subi-to. Qui non ci sono varietà a crescita rapi-

66 Internazionale 1329 | 18 ottobre 2019

Da sapere Il pollo volaConsumo di carne pro capite nei paesi Ocse, chilogrammi Fonte: Ocse

Pollo

Maiale

Manzo

1990 1995 2000 2005 2010 2015 2020

30

25

20

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da: i maschi vengono uccisi dopo 15 setti-mane, cioè 105 giorni, una longevità in-solita. Le galline, invece, sono macellate per la carne dopo circa 15 mesi, quando il loro ritmo di produzione delle uova ral-lenta.

Zanders è convinto che per un’alimen-tazione sostenibile bisogna prima di tutto ridurre il nostro consumo di prodotti di origine animale, e poi assicurarsi che

“l’animale non entri in competizione con gli umani”. “Gli animali non devono mangiare cibo che potrebbe servire all’alimentazione umana, ma quello che altrimenti sarebbe gettato”, precisa Zan-ders. “Ogni forno produce circa il 4 per cento di scarti che noi possiamo usare: farine varie, briciole di pane e biscotti e così via”. I soci della Kipster si sono con-centrati sugli scarti dopo aver studiato a

lungo come nutrire i loro polli insieme all’università di Wageningen, uno degli istituti di ricerca agricola più famosi del mondo.

Kipster collabora con un’azienda loca-le, la Nijsen-Granico, che recupera gli scarti dell’industria agroalimentare, in particolare del settore della panificazio-ne, e li mescola a semi di girasole e di col-za e ad alcuni integratori vitaminici. A causa di questa alimentazione, la produ-zione della Kipster non può essere certifi-cata come biologica. Ma grazie al suo modello antispreco, l’azienda può van-tarsi di avere emissioni nette di anidride carbonica pari a zero.

Il volume di produzione è modesto: otto milioni di uova all’anno, ma solo 48mila volatili abbattuti ogni quindici mesi. I fondatori dell’azienda sono con-vinti che il modello sia replicabile e pro-getti simili sono allo studio. Tanto più che l’azienda ha trovato degli sbocchi nella grande distribuzione: le sue uova sono vendute dalla Lidl in tutti i Paesi Bassi, mentre la sua carne è trasformata da una vicina azienda, la Chateau Briand, che produce polpette, salsicce, involtini e pet-ti di pollo. I Paesi Bassi sono grandi con-sumatori di pollame. Ogni abitante ne

Nella sede della Jansen a Barneveld, nei Paesi Bassi

Nello stabilimento della Chateau Briand a Soest, nei Paesi Bassi

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Scienza

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mangia 18,4 chili all’anno, di solito sotto forma di tagli o di prodotti trasformati. Nelle macellerie e nei supermercati olan-desi non si vendono molti polli interi. Gli olandesi preferiscono il petto ed esporta-no gli altri tagli, soprattutto in Cina.

L’orgoglio di BarneveldLa piccola città di Barneveld, nel centro del paese, è la capitale storica dei polli olandesi. Qui hanno sede numerose aziende e centri di formazione. Il folclore avicolo è onnipresente: polli dipinti a ma-no si vedono in tutte le vetrine dei negozi, bandierine con volatili decorano le strade pedonali del centro e ci sono perfino sta-tue di polli al centro delle rotatorie. L’ico-na locale è la Barnevelder, una bella galli-na nera dai riflessi dorati che oltre a pro-durre le uova è anche molto apprezzata per la sua carne. La Barnevelder è l’orgo-glio della città, che le ha anche dedicato un museo sulla storia avicola della regio-ne, dove si possono ammirare delle incu-batrici del novecento e un’antica sala per la vendita all’asta.

Dall’altra parte di Barneveld l’azienda Jansen Production, che fabbrica strutture per pollai, racconta una storia molto di-versa. Il suo fondatore e presidente, Al-bert Jansen, segue un principio ben preci-so: “Take the manure out”, cioè liberare gli uccelli dai loro escrementi. “Perché degli uccelli così belli devono vivere nella sporcizia?”, si chiede Jansen. Gli escre-menti sprigionano ammoniaca e sono responsabili della proliferazione di batte-ri che possono provocare malattie e rovi-nare le zampe dei polli.

Il lavoro di Jansen consiste proprio nel mettere a punto un modo efficace per sbarazzarsi della materia fecale. Così l’azienda ha sviluppato una struttura in cui i polli sono allevati su quattro piani, su superfici di plastica bucherellata che la-sciano cadere gli escrementi su un nastro mobile. Il sistema permette di eliminare ogni giorno le feci e di farle seccare rapi-damente, per impedire la formazione di ammoniaca.

Il problema è che questo sistema è vie-tato da una direttiva dell’Unione euro-pea, secondo la quale i polli da carne de-vono essere allevati su delle lettiere e non sulla plastica. Un’assurdità, secondo Al-bert Jansen, convinto che la sua tecnolo-gia sia la più adatta a garantire l’igiene e la salute dei polli. “Ho avuto molte di-scussioni con i funzionari di Bruxelles. Che vengano a passare una notte in un pollaio, e poi si renderanno conto del pro-

blema dell’ammoniaca”. L’imprenditore racconta di aver dormito per due notti in un pollaio convenzionale. “All’epoca ero molto più giovane”, dice ridendo. “Ma non riuscivo comunque a respirare”.

Anche se non hanno convinto Bruxel-les, le strutture di Jansen hanno trovato comunque degli acquirenti nel resto del mondo. All’ingresso della sede dell’azien-da, sulla scultura di una gallina pasciuta, ci sono le firme di clienti di tutto il mon-do: Russia, Filippine, Messico, Arabia Saudita. È vero, non sono paesi famosi per il loro impegno ambientale, ma Jan-sen è convinto che il suo modello sia so-stenibile: “Il nostro sistema permette di ridurre la mortalità dei pulcini, l’uso di antibiotici e il consumo alimentare degli animali”.

Le associazioni per il benessere degli animali sostengono invece che questa tecnologia massimizzi la produttività dei polli a scapito dei loro bisogni naturali: senza accesso alla luce naturale, il loro ciclo di sonno è disturbato; la densità massima a cui sono sottoposti gli impedi-sce di muoversi; anche la distribuzione automatizzata di mangime rende i volati-li meno mobili e più soggetti a problemi ai muscoli e agli arti.

Lisanne Stadig, dell’associazione Die-renbescherming (Società olandese per la protezione degli animali), sostiene che negli allevamenti industrializzati i polli passano dalla condizione di animali a quella di oggetti. Secondo lei gli alleva-menti olandesi ad alta tecnologia riduco-no la questione della qualità della vita degli animali ai soli parametri sanitari. “Produrre in modo sostenibile rispettan-do il benessere degli animali non signifi-ca solo evitare che si ammalino, ma an-

che offrirgli una vita gradevole”. L’asso-ciazione ha messo a punto un sistema di valutazione degli allevamenti sulla base di diversi criteri. Per rispettarli le aziende devono impiegare varietà a crescita len-ta, la densità non deve superare i 25 chili per metro quadrato, i polli devono avere accesso a una serra e a uno spazio ester-no, devono poter razzolare e così via. L’etichetta “Beter leven” (una vita mi-gliore) è stata lanciata nel 2007. Dieci an-ni dopo 161 aziende avicole olandesi su 540 hanno ricevuto questa etichetta, cioè poco più del 20 per cento del mercato del-la grande distribuzione.

Esemplari esplosiviSotto la pressione di un’opinione pubbli-ca più sensibile al rispetto dell’ambiente e alla protezione degli animali, una parte degli allevamenti olandesi cerca di mi-gliorare le proprie strutture. Dopo una campagna shock dell’ong Wakker dier che denunciava i plofkippen (letteralmen-te i “polli esplosivi”, cioè quelli a crescita rapida), la maggior parte delle grandi ca-tene di supermercati olandesi ha smesso di venderli. I plofkippen presentano nu-merosi problemi: in un parere reso nel 2010, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare aveva concluso che la selezio-ne genetica delle varietà di polli a crescita rapida era causa di malattie (dermatiti, asciti e sindrome della morte improvvisa) dovute allo sviluppo sproporzionato di alcuni organi.

“Anche se bisogna fare di più, i cam-biamenti del mercato olandese sono posi-tivi”, osserva Lisanne Stadig. “In compen-so, sul mercato destinato all’esportazione continuano a predominare la corsa all’ef-ficienza e la riduzione dei costi”. In questo mercato a due velocità, i plofkippen e gli altri polli di bassa qualità continuano a rappresentare la maggior parte (tra il 65 e il 70 per cento) della produzione avicola olandese. Le loro destinazioni principali sono la Germania, il Regno Unito, il Belgio e, fuori dall’Europa, la Cina.

Quando chiediamo ai responsabili dell’allevamento di Middenmeer infor-mazioni sulla destinazione finale dei loro 360mila polli, la risposta è chiara: esporta-zione e trasformazione industriale. Que-sto pollame non può avere l’etichetta “Be-ter leven” e difficilmente troverà posto sui banconi delle macellerie olandesi. Proba-bilmente una parte viaggerà, servita nei pasti preconfezionati delle compagnie ae-ree. Ma, precisano scherzando a Midden-meer, “solo in economica”. u adr

La selezione genetica di varietà a crescita rapida provoca malattie dovute allo sviluppo sproporzionato di alcuni organi

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Portfolio

I colori di un’utopiaCristiano Bianchi e Kristina Drapić hanno fotografato gli edifici e i paesaggi urbani di Pyongyang, in Corea del Nord, per raccontare il passato e il presente della città attraverso la sua architettura

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Nel 2015, gli architetti Cri-stiano Bianchi e Kristina Drapić sono andati a Pyong yang, in Corea del Nord. Da quello e da al-tri tre viaggi successivi è

nato il libro Model city: Pyongyang, in cui i due autori hanno documentato la compli-cata realtà di Pyongyang attraverso la fo-tografia. La capitale della Corea del Nord è abitata da 3,2 milioni di persone. Fu qua-si completamente ricostruita dopo la guerra di Corea (1950-1953) con l’obietti-vo di creare una città modello, basata sul-la juche, l’ideologia ufficiale nordcoreana,

incentrata sul concetto di autosufficienza. “Attraversando la città si notano i vari sti-li architettonici usati nel tempo: dal bru-talista al modernista e postmodernista, fino a quello voluto dal leader attuale Kim Jong-un, dove prevalgono i colori pastello e le forme futuristiche”, spiega Drapić.

Le foto del libro di Bianchi e Drapić s’ispirano all’arte di propaganda nordco-reana, in cui il cielo è rappresentato attra-verso gradazioni di colori molto saturi che trasformano la realtà in finzione.

“Abbiamo deciso di fotografare gli edi-fici e i paesaggi con un approccio classico. Mentre i colori del cielo, realizzati in post-

produzione, sono ispirati a quelli dei ma-nifesti e delle facciate dei palazzi”.

Così i due architetti hanno creato un contrasto visuale, in cui la parte reale (gli edifici) sembra finta e la parte alterata (il cielo) sembra vera. “È una metafora dell’utopia stessa di Pyongyang”, spiega Drapić. u

Cristiano Bianchi è un architetto e foto-grafo italiano; Kristina Drapić è un’ar-chitetta e graphic designer serba. Vivono a Pechino, in Cina. Insieme hanno realizzato il libro Model city: Pyongyang (Thames and Hudson 2019).

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Portfolio

Nella foto grande: piazza Kim Il-sung, dove si svolgono le parate militari, si trova davanti al lungofiume sul Taedong. In basso, a sinistra: il palazzo del pattinaggio sul ghiaccio, viale Chollima.A destra: viale degli Scienziati del futuro. Nella pagina accanto, a sinistra: la stazione Puhung.A destra: Stadio del primo maggio, Rungrado. A pagina 70: panorama di Pyongyang con il Monumento alla fondazione del partito (al centro).A pagina 71: Palazzo dei bambini, Mangyongdae, dove i bambini possono studiare musica, imparare le lingue straniere e a usare il computer.

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Portfolio

Sopra: Stadio del primo maggio, Rungrado. In basso, a sinistra: teatro Mansudae, viale Somun.Accanto: il centro sportivo Changgwang. Nella pagina accanto, sopra: viale Sungri. Pyongyang è una delle città dell’Asia con più spazi verdi. Sotto, a sinistra: la sala dell’industria elettronica nel museo delle tre rivoluzioni. A destra: vista su Pyongyang con la nebbia.

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u Il libro Model city: Pyongyang contiene più di duecento immagini, oltre a grafici e illustrazioni, che raccontano il passato e il presente della storia dell’architettura nordcoreana. Ci sono anche testi di esperti e un estratto di On architecture, il trattato del 1991 in cui Kim Jong-il, padre di Kim Jong-un, spiegava il ruolo dell’architettura in Corea del Nord.

Da sapere Il libro

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Ritratti

◆ 1963 Nasce a Ulan Bator, in Mongolia.◆ 1979 Entra nella squadra nazionale di sambo, un’arte marziale russa.◆ 2004 Viene eletto in parlamento.◆ 2017 Vince le elezioni e diventa presidente della Mongolia.

Biografia

È una mattina di luglio e il presi­dente della Mongolia, Khalt­maa Battulga, sta per prendere la parola nello stadio della ca­pitale Ulan Bator. È qui per inaugurare il tradizionale fe­

stival estivo di Naadam, durante il quale ogni persona in questo paese di tre milioni di abitanti si esalta di fronte a esibizioni di tiro con l’arco, lotta e corse equestri. È dal duecento che l’equitazione è al centro del­la cultura nazionale, da quando un capo tribale chiamato Gengis Khan riunì un gruppo di clan della steppa e conquistò l’Eurasia.

Ex campione di arti marziali, Battulga è tarchiato e forte, ha il collo taurino e le orecchie leggermente schiacciate. Indos­sa un cappello di feltro scuro, stivali di pel­le da equitazione e un deel, un costume tradizionale mongolo. Mentre aspetta il suo turno per parlare, due squadre di ca­vallerizzi in uniforme rossa e blu si esibi­scono. Poi si avvicina al microfono. “Gen­gis Khan, grande signore e amato padre della patria, i tuoi cavalli sono agili, i lotta­tori sono vigorosi ed esperti, e gli arcieri hanno buona mira”, dice. Il Naadam, pro­

Khaltmaa BattulgaIl lottatore

Imprenditore ed ex campione di arti marziali, è diventato presidente della Mongolia nel 2017 sull’onda di un movimento populista. Molti lo accostano a Donald Trump e temono il suo avvicinamento alla Russia

Matthew Campbell e Terrence Edwards, Bloomberg, Stati UnitiFoto di Byambasuren Byamba Ochir

clama, “permette a ciascuno di noi di ca­pire l’essenza dell’essere un vero mongo­lo”. Gengis Khan, eroe nazionale della Mongolia e figura che Battulga venera al punto da avergli dedicato una sua statua alta 40 metri, fu il più temuto condottiero del suo tempo. Le sue truppe uccisero mi­lioni di persone, molte con decapitazioni di massa. Non proprio un democratico modello. Eppure negli ultimi decenni la Mongolia è stata considerata un’allieva dell’occidente.

I leader europei e statunitensi elogia­no la Mongolia come un’oasi di libertà e capitalismo, benedetta da riserve mine­rarie, una popolazione giovane e cosmo­polita e un desiderio di ritagliarsi una strada autonoma rispetto ai potenti paesi vicini, Russia e Cina. Questa percezione ha fatto crescere la stima degli investitori stranieri, in particolare della multinazio­nale angloaustraliana Rio Tinto, che pun­ta sul gigantesco giacimento di rame e oro Oyu Tolgoi nel deserto del Gobi. È uno dei progetti minerari più ambiziosi del mondo. Ma, nonostante i mongoli ab­biano tratto beneficio dal capitalismo (il prodotto interno lordo pro capite del pae­se è cresciuto di dieci volte a partire dal

1994) secondo i sondaggi molti di loro sono convinti che gli stranieri si siano im­possessati della ricchezza mineraria del paese. Questo sentimento ha alimentato un’esplosione di rabbia contro il sistema che nel corso del 2017 ha portato al potere Khaltmaa Battulga, un uomo d’affari po­pulista.

Una nuova direzioneSotto la sua guida la Mongolia ha cambia­to direzione. Battulga si è avvicinato al presidente russo Vladimir Putin e all’ini­zio del 2019 ha approvato una legge che gli permette di licenziare giudici e dirigenti delle forze dell’ordine. Ha usato questi strumenti per rimuovere dal loro incarico i magistrati: una decisione secondo lui ne­cessaria per combattere la corruzione e tutelare la democrazia.

Nonostante le riserve di rame, oro, mi­nerali e terre rare facciano della Mongolia un partner appetibile per gli Stati Uniti e i loro alleati, l’importanza del paese agli occhi di Washington forse sta soprattutto nel suo essere un modello virtuoso. Situa­ta in una zona che si estende dal mar Cine­se meridionale all’Europa centrale, una zona del mondo dove ci sono quasi solo regimi autocratici, la Mongolia confuta l’idea che alcune regioni del pianeta non siano adatte al progressismo. Tuttavia ora alcuni mongoli si chiedono se il loro paese possa continuare a essere un’eccezione: anche le oasi, in fondo, si inaridiscono.

Il più recente antenato della Mongolia contemporanea, la Repubblica popolare mongola, era ufficialmente indipendente,

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ma in pratica era uno stato satellite dell’Unione Sovietica. Crollò all’inizio de-gli anni novanta, quando le proteste stu-dentesche invasero il centro della capitale. Nel giro di pochi mesi vennero organizza-te elezioni libere. Con un’economia arre-trata perfino per gli standard sovietici, la Mongolia si convertì al capitalismo dal giorno alla notte, disorientando molte persone ma creando grandi opportunità per chi sapeva sfruttarle. Come Battulga.

Cresciuto in un quartiere difficile alla periferia di Ulan Bator, negli anni ottanta Battulga si distinse grazie al sambo, un’ar-te marziale promossa dall’Armata rossa sovietica. Competere all’estero gli permi-se d’importare nel paese beni di lusso co-me jeans e videocassette vhs. Alla caduta della cortina di ferro, fece fruttare quell’esperienza creando un’azienda chia-mata Genco: il nome era un omaggio all’azienda produttrice di olio d’oliva fon-data dal boss Vito Corleone nel film Il pa-drino. Le attività economiche di Battulga crebbero: si aggiunsero un albergo, un im-pianto di lavorazione della carne, una flot-ta di taxi e un’agenzia turistica.

Il suo progetto d’affari più ambizioso è la statua di Gengis Khan, inaugurata nel 2008 in una pianura brulla a un’ora dalla

capitale. Bandito durante il comunismo, Gengis Khan si è ripreso lo status di leader più venerato della Mongolia. Oggi il suo nome o il suo viso compaiono nel princi-pale aeroporto del paese, sulla vodka e sulla valuta nazionale, il tugrik. La statua, che lo ritrae a cavallo, è costruita con 250 tonnellate d’acciaio inossidabile ed è di-ventata un simbolo dell’orgoglio mongo-lo, oltre che una destinazione turistica.

Il boom e la crisiBattulga fu eletto in parlamento nel 2004 e nel 2009 diventò ministro dei trasporti e dell’edilizia, proprio quando il paese si ap-prestava ad avere bisogno di entrambi. La domanda cinese di rame, carbone e altre materie prime – le uniche esportazioni si-gnificative della Mongolia – stava crescen-do, dando vita a un boom minerario. Nel 2009 la Rio Tinto strinse un accordo di trent’anni con il governo per sviluppare i giacimenti di Oyu Tolgoi, diventando il primo investitore straniero nel paese. Nel 2011 il denaro speso per il sito contribuì a una crescita del pil del 17 per cento, la più grande al mondo. Man mano che banchie-ri e ingegneri si riversavano a Ulan Bator, i soldi guadagnati facevano emergere i simboli del lusso: sushi, Porsche e negozi

Louis Vuitton. Fu rimossa l’ultima statua di Lenin, e vicino ne fu eretta una di Marco Polo. Poi però, con la stessa velocità con cui era cominciato, il boom è finito. Nel 2014 i prezzi delle materie prime sono crollati, affossando il tugrik. Il governo è stato costretto a ridurre gli stipendi dei funzionari pubblici, a cancellare progetti per le infrastrutture e a chiedere un piano di salvataggio al Fondo monetario inter-nazionale. La rabbia popolare è cresciuta, diretta contro i politici corrotti, i ricchi e la Rio Tinto. Battulga, che era ancora in par-lamento, è stato abile a cavalcare questo sentimento nonostante fosse una delle persone più ricche del paese e fosse inda-gato: era sospettato di essersi indebita-mente appropriato di denaro destinato a un progetto ferroviario (non è mai stato incriminato).

Nel 2016 Battulga è intervenuto a una manifestazione. “La nostra ricchezza vie-ne spedita fuori dal paese. Dove vanno quei soldi?”, ha detto. Nel 2017 si è candi-dato alla presidenza. La sua campagna elettorale ha ricordato quella di Donald Trump. Si è presentato come un outsider, usando lo slogan “La Mongolia vincerà”, simile al trumpiano “Make America great again”. Grazie al sostegno dei poveri ha

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Khaltmaa Battulga a Ulan Bator nel 2017

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Ritratti

ribaltato i sondaggi. In testa al primo tur-no, ha vinto comodamente al ballottaggio. Durante la prima parte del mandato di Battulga è stato soprattutto il primo mini-stro, Ukhnaagiin Khürelsükh, il protago-nista della vita politica. In Mongolia il pre-mier porta avanti le attività parlamentari quotidiane, mentre il presidente gestisce le questioni estere, sovrintende alle nomi-ne nell’apparato giudiziario e approva leg-gi. I due venivano da partiti rivali, ma la cosa non gli ha impedito di collaborare.

Contro i giudiciBattulga è salito alla ribalta all’inizio del 2019, quando ha cominciato a fare pres-sione sul procuratore generale della Mon-golia perché aprisse un’indagine sull’ex presidente Cahiagijn Ėlbėgdorž per cor-ruzione. Il procuratore si è rifiutato. Il 26 marzo Battulga ha fatto approvare una legge che dà al Consiglio di sicurezza na-zionale (formato da presidente, primo mi-nistro e presidente della camera) il potere di licenziare i magistrati. Alcuni deputati del partito di Battulga hanno boicottato il voto in parlamento, dicendo che la legge era incostituzionale. Ma la norma è stata approvata grazie al sostegno dei deputati fedeli a Khürelsükh.

Attivisti e oppositori si sono infuriati, ma Battulga non ha battuto ciglio, soste-nendo che i cambiamenti erano necessari per scardinare un complotto dello stato profondo che proteggeva “gruppi d’inte-resse politici ed economici”. Secondo lui giudici, polizia e spie sarebbero stati parte di una “cospirazione che protegge le atti-vità illegali di questi gruppi”, come ha di-chiarato in parlamento. Il giorno dopo l’approvazione della legge Battulga ha ri-mosso il procuratore capo che gli si era opposto e il capo della corte suprema. A maggio sono stati licenziati anche il diret-tore e il vicedirettore dell’agenzia anticor-ruzione della Mongolia.

Battulga lavora nel palazzo di stato, un edificio che sembra uscito dall’epoca so-vietica se non fosse per la facciata nuova e la statua di Gengis Khan. Ha 56 anni, ma l’età non ha scalfito il suo fisico. Durante l’intervista si piega in avanti sulla sedia, tenendo i gomiti sulle ginocchia, simile a un allenatore che osserva i suoi atleti ga-reggiare. I suoi modi sono tutto fuorché trumpiani. Parla con calma, sceglie le pa-role con attenzione e le pronuncia con vo-ce roca. Ma si presenta, al pari di Trump, come una persona che grazie al suo suc-cesso ha imparato come funzionano le cose. La corruzione, che secondo Battulga

è molto diffusa nel paese, deriva da un’unica fonte: le miniere. Rispondendo indirettamente a chi l’ha accusato di aver smantellato le istituzioni del paese, sostie-ne che il suo governo s’ispira alla Norvegia nel modo di gestire “le proprie risorse”.

Il discorso arriva presto alla Rio Tinto. L’accordo del 2009 sul giacimento di Oyu Tolgoi assegnava allo stato una quota del 34 per cento sul progetto, pagata con un prestito garantito dai costruttori. L’inte-resse che la Mongolia deve ripagare è alto. Il progetto Oyu Tolgoi però è già uno dei cardini dell’economia nazionale.

Per molti cittadini il fatto che un bene nazionale come l’Oyu Tolgoi sia nelle ma-ni di stranieri è inaccettabile. Ma solo la Rio Tinto può gestire una miniera così grande in una regione così sperduta. At-tualmente il giacimento è a cielo aperto. L’espansione sotterranea, necessaria per attingere ai depositi più sostanziosi, sarà ancora più difficile da realizzare. Anche se

Battulga non ha alcun potere sulla relazio-ne della Mongolia con la Rio Tinto, può esercitare un’immensa influenza politica, e ha fatto pressioni per rivedere l’accordo. Durante l’intervista lamenta il fatto che la Mongolia non abbia colto le implicazioni della cosa: per lui è stato “un errore fatto da un paese inesperto”. Vorrebbe una par-ziale rinegoziazione dell’accordo. Di fatto dovrà trovare un equilibrio tra i sentimen-ti popolari e gli interessi della Rio Tinto, se vuole garantire la prosperità alle masse.

Alcuni comportamenti di Battulga pe-rò fanno temere ai liberali mongoli e agli osservatori internazionali che il futuro che il presidente ha in mente somigli più alla Russia che alla Norvegia. Da quando è fi-nita la guerra fredda i rapporti economici con Mosca sono stati limitati. Ma nei suoi primi due anni al potere Battulga ha aper-to un dialogo con Putin. All’inizio di set-tembre il leader russo ha ricevuto una sfarzosa accoglienza a Ulan Bator, dove i due hanno discusso di accordi commer-ciali e della partecipazione di una delega-zione mongola al principale evento del 2020 a Mosca, una parata sulla Piazza ros-sa che celebrerà il 75° anniversario della vittoria dell’Unione Sovietica nella secon-da guerra mondiale. “Dipendiamo quasi

interamente dalla Russia per petrolio ed elettricità, quindi dobbiamo cooperare”, spiega Battulga. La Russia e la Mongolia, secondo lui, “sono intimamente legate”. I precedenti leader mongoli preferivano corteggiare gli Stati Uniti.

Molte delle persone povere che Battul-ga dice di voler aiutare vivono nei quartie-ri iurta, dove risiede più di metà dei circa 1,5 milioni di abitanti di Ulan Bator. Anco-ra nel novecento i mongoli erano per lo più nomadi e la proprietà privata non era con-siderata importante. I governi postcomu-nisti crearono un sistema che permetteva a ogni cittadino di ottenere gratis un pezzo di terra. Una delle conseguenze non pre-viste di questa decisione fu che molte fa-miglie nomadi richiesero un pezzo di terra alla periferia di Ulan Bator e da allora non se ne sono più andate. Per questo la città è piena di iurte, i tradizionali ripari a forma di tenda.

In un grigio pomeriggio, visitando un quartiere iurta sulle colline a nord, non è difficile capire perché tanti abitanti di que-ste zone sostengano un leader che dice di voler mettere fine al dominio del ricchi. Ma non serve andare lontano per trovare persone le cui vite sono migliorate grazie al capitalismo. La classe media è formata da giovani che hanno studiato in occiden-te; la stampa tradizionale è in ottima salu-te, con decine di giornali e canali televisi-vi; Twitter e Facebook ribollono di dibatti-ti politici. E quando i mongoli sono insod-disfatti dei politici possono scendere in piazza.

Pericolo democraticoJargalsaikhan Dambadarjaa e Bold Luv-sanvandan erano attivisti filodemocratici negli anni novanta, quando scamparono all’arresto dopo aver affisso dei manifesti a Ulan Bator. Oggi fanno parte della classe dirigente. Seduti a un ristorante dell’Ulan Bator Hotel, analizzano il cammino del paese. Sono d’accordo con Battulga sul fatto che la ricchezza vada ridistribuita. “Quando pochi diventano ricchi e alle masse vanno solo le briciole, la gente è in-felice”, sostiene Jargalsaikhan. Ma sono preoccupati dalla strada intrapresa dalla Mongolia. “Guardate cosa succede in Un-gheria e in Polonia. Qui si cerca di fare una cosa simile”, dice Jargalsaikhan. “Nessu-no vuole che la Mongolia resti una demo-crazia”, interviene Luvsanvandan, allu-dendo ai paesi vicini. “Non sono nemme-no sicuro che lo vogliano i paesi occiden-tali. Avere a che fare con un dittatore è più semplice, anche per loro”. u ff

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Nei suoi primi due anni al potere Battulga ha aperto un dialogo con Putin

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Viaggi

di fronte, Amaro, che ha 47 anni, ha pro-nunciato una frase che per un attimo mi ha fatto temere che fosse tutto un equivo-co: “In realtà non ho mai amato partico-larmente la vodka”.

Poi c’è stata la svolta: un anno prima dell’apertura dell’Atelier, un conoscente gli ha raccontato che produceva vodka per il consumo privato. Così Amaro ha avuto un’idea. Invece di dedicarsi, come i risto-ratori di tutto il mondo, a cercare il vino giusto da abbinare ai suoi piatti, ha pensa-to che in Polonia, il paese della vodka, po-teva provare a creare un menù che per ogni portata offrisse il giusto abbinamen-to di vodka.

Una piacevole ebbrezza“Dipende tutto dalla qualità, dall’occasio-ne e dal modo in cui la vodka è servita. E ovviamente è una questione di quantità”, mi spiega Amaro. “È una questione di cul-tura”. La rinascita della vodka non preve-de gli eccessi. Il punto è gustarla in piccole dosi. Perciò da Amaro la vodka non si ser-ve ghiacciata. Per preservarne gli aromi si beve preferibilmente a temperatura am-biente (zio Marek, stai leggendo?).

E per questo la vodka qui non è fatta solo con gli ingredienti tradizionali come la segale, il grano o le normali patate. A volte si usano le patate novelle, altre volte viene distillato il mais. Spesso si fanno an-che versioni sperimentali di una bevanda tipica che mia nonna produce ancora oggi: la nalewka, una vodka aromatizzata attra-verso l’infusione di altri ingredienti.

Nel ristorante di Amaro viene servita una nalewka profumata di boccioli e arbu-sti di bosco che fa subito pensare alla fore-sta e rafforza il piatto che accompagna. Tra un “momento” e l’altro, la vodka ha anche un altro effetto: risveglia le emozio-ni. Al quarto bicchierino penso: “Mi sta dando alla testa”. La luce sembra più fio-ca, mentre percepisco distintamente le voci dei clienti. Sento parlare polacco, rus-so, inglese e tedesco e provo uno strano

Quando pensiamo alla vodka, ci viene in mente il bancone di un vecchio bar più che il tavolo di un locale di lusso. Ma non è per forza così. So-no seduto in un ristorante

stellato, l’Atelier Amaro di Varsavia, e ho di fronte un bicchiere di vodka. Il mio obiettivo è capire un fenomeno sorpren-dente: la rinascita della vodka polacca, tornata di moda all’improvviso. Nei bar, che la usano per i cocktail, ma soprattutto nei ristoranti, dove è un elemento chiave di una cucina nuova e ricercata.

Sono polacco e vivo in Germania. Nel-la mia famiglia la vodka si vede poco, al massimo a Pasqua e a Natale, quando ca-pita di trovarla sul tavolo della nonna, ben ghiacciata, pronta a ispirare allo zio Marek l’ennesima barzelletta. Se penso alla vodka mi viene in mente un prover-bio con cui mamma ci ammoniva spesso: “La vodka accorcia la ragione”. All’Ate-lier Amaro mi viene da dire che forse può anche ampliarla. Davanti a me non c’è solo un bicchiere di vodka, ma anche una tartare di capriolo. La tartare è fredda, mentre la vodka, profumata di frutti ros-si, riscalda per bene. Insieme al calore mi arrivano immagini di erba coperta di ru-giada, di grovigli d’arbusti e del profondo della foresta. Immagini dei luoghi dove viveva il capriolo.

La tartare con la vodka è uno dei nove “momenti” della cena, come Wojciech Modest Amaro chiama le portate del suo ristorante. L’arredamento è un omaggio alla natura: alcuni piatti sono del colore della terra, qua e là sui tavoli sono posati rami di abete. Poco fa, mentre mi sedeva

Un saporesenza tempoJurek Skrobala, Die Zeit, Germania

In Polonia la vodka è di nuovo di moda. Alla scoperta di Varsavia attraverso i luoghi della rinascita della bevanda simbolo del paese

senso di comunione con il mondo. Come digestivo mi viene servita una “vodka del cacciatore” aromatizzata con frutti di bo-sco. Lascio la riserva naturale di Amaro con il suo sapore in bocca e mi avventuro nella giungla metropolitana.

L’Atelier si trova nel centro di Varsavia, nella grande piazza Trzech Krzyży, cir-condata da ampi viali. Qui è evidente co-me la città abbia da tempo fatto proprio il lusso dell’occidente. Passeggio accanto a una concessionaria di auto Audi, subito dopo vedo brillare un’insegna della Rolex, poi passo davanti a un piccolo tempio di prodotti della Apple. Lì vicino, immerso in una luce intensa, c’è Woda Ognista, un bar dedicato alla valorizzazione della vod-ka. Anche questo ostenta ricchezza. Ma è un lusso diverso da quello delle strade: è il lusso decadente degli anni venti a Varsa-via. Sopra la vetrina ci sono lampade in stile liberty, ma il gusto dell’epoca si ritro-va anche nella carta delle bevande: per esempio in un cocktail dal sapore affumi-cato a base di pejsachówka, un distillato di prugne della tradizione ebraica, con l’ag-

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gorgoglio, poi dei suoni che ricordano le serate in compagnia: uomini che gridano, donne che ridono, un tintinnare di bic-chieri e le note di un pianoforte. Seba-stian, che mi guida per il museo, mi rac-conta che nel medioevo la parola wódka indicava un infuso curativo non alcolico, contro la febbre e gli occhi secchi e bene-fico per il fegato. Attraverso uno schermo interattivo posso produrre anch’io il mio infuso. Scelgo ingredienti che presumo fossero considerati una prelibatezza nel medioevo: ali di pipistrello, cuore di cer-vo, coda di lucertola. A giudicare il coc-ktail è un alchimista disegnato in bianco e nero. Mi guarda disgustato.

Anche se a prima vista il museo può sembrare un parco giochi per adulti, il te-ma centrale è soprattutto la cultura della vodka, strettamente legata alla storia del paese. Cose serie, insomma. M’interessa soprattutto sapere qual era il rapporto con la vodka durante gli anni del sociali-smo. Perché in Polonia ci sono nato, ma quando l’ho lasciata, a due anni di età, ero interessato soprattutto alle bevande

giunta di vermuth e una ciliegia. Mentre valuto se fermarmi o meno al Woda Ogni-sta, trasportato dalla vodka del cacciatore scorgo all’improvviso una palma, che tro-neggia al centro di un incrocio trafficato: l’espressione “isola spartitraffico” acqui-sta subito un significato nuovo. Rimango immobile per quella che mi sembra un’eternità, e mentre osservo la palma ri-affiora in me un sentimento di vicinanza alla natura, accompagnato da una calda beatitudine.

Una volta arrivato in albergo leggo che la palma non è vera. È un’installazione ar-tistica sistemata lungo la Aleje Jerozolim-skie, il viale di Gerusalemme, per ricorda-re la storia ebraica della città. Mentre prendo sonno in testa mi frullano le diver-se immagini di Varsavia: la palma, il Pa-lazzo della cultura, simbolo dell’imperia-lismo sovietico, e un po’ più in là il gratta-cielo progettato dall’architetto statuniten-se Daniel Libeskind.

La mattina dopo, in preda ai postumi della bevuta, mi rimetto sulle tracce della rinascita della vodka: verso est, ovvia-

mente. Dall’altro lato del fiume Vistola c’è il quartiere di Praga. Nell’autunno del 1944 gli occupanti tedeschi distrussero praticamente tutta la parte della città a ovest del fiume, mentre Praga, sul lato orientale e occupata dall’armata rossa, fu risparmiata. Qui sono rimasti in piedi più edifici antichi che nel resto dell’intera cit-tà, anche se molti sono fatiscenti. Fino a qualche anno fa nelle strade di questo quartiere operaio si aggiravano ancora i dresiarze, i teppistelli polacchi, abbigliati con mocassini e tuta d’ordinanza. Oggi sono gli artisti di strada a lasciare le loro tracce sui muri dei palazzi.

Oltre la VistolaPraga rivela sia la bellezza sia il senso tra-gico della città. I palazzi sono scrostati, ma le statuine della Madonna sono con-servate con cura. Gruppi di ragazzi se ne stanno a bere birra davanti agli ingressi delle case. Gli passo davanti e m’imbatto di nuovo nella vodka: Praga le ha dedicato un museo, allestito in una ex distilleria. Entrati nella struttura si sente subito un

◆ Arrivare Il prezzo di un volo dall’Italia (Ryanair, Wizzair, Lot, Alitalia) per Varsavia parte da 30 euro a/r. ◆ Dormire Ospitato in un edificio di fine ottocento sulla via pedonale Krakowskie Przedmieście, l’hotel Bristol è il più prestigioso della città. Fu aperto nel 1901. Le camere doppie partono da 15o euro a notte. ◆ I lettori consigliano Qualche indirizzo per mangiare vegano o vegetariano: Lokal vegan bistro, in ulica Krucza; Uki Green, in ulica Koszykowa 49, per il ramen vegano; e il bar mleczny (latteria) di ulica Mokotowska 22 per zuppe e piatti tipici polacchi senza carne. Il festival di danza Numinosum, che si tiene a settembre nel parco nazionale di Kampinos. ◆ Leggere Alfred Döblin, Viaggio in Polonia, Bollati Boringhieri 1994.◆ La prossima settimana Viaggio in Bhutan.Avete suggerimenti su tariffe, lirbi, posti dove mangiare? Scrivete a [email protected].

Informazioni pratiche

Varsavia, la piazza del castello, 2014

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Viaggi

analcoliche. Sebastian mi spiega che nel-la repubblica popolare la vodka era la be-vanda preferita, ma spesso era di pessima qualità. Si beveva ghiacciata per non sen-tirne il sapore cattivo. Per la verità si di-stillava anche vodka di qualità, ma era destinata principalmente alle esportazio-ni. Negli anni novanta, con il successo degli alcolici importati dall’estero, la vod-ka perse di popolarità. La rinascita attua-le forse dipende anche dal fatto che ormai la tempesta del capitalismo è percepita dai polacchi come un normale venticello. Nel mondo globalizzato – un mondo in cui, sulla strada per il museo, avrei potuto tranquillamente comprare un hambur-ger, del sushi o un kebab – la pubblicità che insiste sulle abitudini alcoliche del nonno e sulla cucina della nonna può es-sere molto efficace.

Esco barcollante dal museo. A questo punto potreste chiedervi: perché barcolla? Perché ho bevuto tre bicchierini di vodka: la parte pratica, dopo la visita guidata.

A pochi metri dal museo svolto verso un edificio in mattoni dove c’è un bar illu-minato da un neon, con un bel numero di bottiglie in esposizione. Mi ispira, penso trascinato dalla vodka. Una volta entrato mi viene incontro Alexander Baron, 36 anni, chef del ristorante Zoni e proprieta-rio del bar. La sua missione è recuperare la cultura culinaria polacca scomparsa con la fine della repubblica popolare. Ripropo-ne vecchie ricette, ma presenta i piatti in un modo che funzionerebbe anche in un ristorante di lusso di Parigi o New York.

Un esempio: il bigos, uno stufato di car-ne e cavoli. Rispetto a quello di mia nonna, il bigos di Baron ha tutt’altro aspetto. Gli ingredienti sono disposti su più strati a

comporre una specie di fetta di torta, che fa pensare al cibo per gli astronauti in qualche strano futuro. Dovete scusarmi per i paragoni, è colpa della vodka.

Scarabocchi sul taccuinoA Baron piacciono gli alimenti che rac-contano la loro origine. Capisco che dice sul serio quando il cameriere posa sul ta-volo due bottiglie di vodka: la Frant, un distillato di miele di fiori selvatici, mi por-ta in bocca il profumo dei fiori del nordest della Polonia; la Młody Ziemniak mi fa invece assaporare l’odore delle cantine dove si conservano le patate.

Assaggio un altro paio di vodka al bar di sotto. Tomasz, il barman, pieno di ta-tuaggi e con il fazzoletto nel taschino, mi serve un cocktail il cui nome , tradotto let-teralmente, è “fino a versare sangue”. È fatto con una vodka invecchiata sei anni, ma lo zucchero e il limone lo rendono fre-sco e bevibile. Alla fine della giornata ho bevuto otto bicchierini di vodka. O sono nove? Forse addirittura dieci. In ogni ca-so, quando esco da Zoni incespicando, è ancora giorno. Osservo Praga popolarsi delle persone che escono dal lavoro, e mi

ricordo che anch’io devo lavorare. Prendo il mio taccuino e faccio degli scarabocchi che il giorno dopo mi sembreranno i gero-glifici di una cultura scomparsa. Poi pas-seggio per il campus di Google, dove gli hipster lavorano alle loro start up, e arrivo a un angolo della strada in cui, in una teca di vetro, è conservata una copia della Ver-gine nera di Częstochowa, Mi rivolge uno sguardo severo. Procedo oltre. Mi passa-no accanto anziane signore con spesse pellicce e giganteschi cappelli di lana, e penso subito a mia nonna: sarebbe orgo-gliosa di suo nipote?

Poi penso al mercato Różyckiego, con i banchi che sembrano quelli di quando mia nonna era piccola, e allo stadio della nazionale, costruito per gli Europei del 2012. E comincio a filosofeggiare: qui l’est abbraccia l’ovest. Oppure è l’ovest che ab-braccia l’est. O magari si abbracciano a vicenda, così ognuno può dire di essere stato abbracciato dall’altro, e così via...

A pochi isolati da Zoni un’insegna con la scritta “Il mondo degli alcolici” indica un chioschetto aperto ventiquattr’ore su ventiquattro. Un uomo sta sorbendo la sua razione di birra, una donna conta i centesimi per comprare delle sigarette al mentolo. La cassiera ucraina mi racconta che in un giorno vende un centinaio di bottiglie di vodka da 100 ml della qualità più economica, cinque złoty al pezzo, po-co più di un euro. Si vendono meglio delle bottiglie più grandi.

Che aspetto abbia chi le compra lo scopro qualche ora dopo, sull’altra riva della Vistola. Due tipi ondeggiano sul marciapiedi di Nowy Świat, la via dello shopping. Nascondono le bottigliette di vodka sotto i bomber, per non farsi sco-prire dalla polizia. Bere alcol per strada è vietato, ma loro le tirano fuori in conti-nuazione, un bel sorso e subito sparisco-no. Quando non emettono frasi che han-no più bestemmie che virgole, ridono di gusto. Vengono diretti verso di me, mi of-frono un sorso e mi trascinano con loro. Mi sembra opportuno non chiedergli co-me si chiamano, la cosa potrebbe alterare il loro umore. Decido di chiamarli Bolek e Lolek (i personaggi di un celebre cartone animato polacco). Più che ondeggiare, sembrano librarsi sull’asfalto. Che la vod-ka vada a braccetto con la socievolezza, come suggerivano nel museo e come mi hanno detto Baron e Amaro, è una verità, impersonata anche da Bolek e Lolek. In un modo semplice e inatteso. Alla fine, comunque, scappo via: niente più vodka, solo una sigaretta. u ct

Sotto il comunismo la vodka era la bevanda preferita, ma spesso era di pessima qualità. Si beveva ghiacciata per non sentirne il sapore cattivo

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Il museo della vodka nel quartiere Praga, a Varsavia, giugno 2018

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edizioninottetempo.it

saggi nottetempo

per pensatori inquieti

figure nottetempo

Davi Kopenawa Bruce Albert

La caduta del cieloParole di uno sciamano yanomami

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Graphic journalism Cartoline dal Regno Unito

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Cultura

Tavoli da gioco affollati, uomini in smoking, donne in abiti da sera con profonde scollature, un sommesso mormorio. Im-provvisamente, uno schianto.

Nel leggendario Desert Inn, l’hotel e casinò di Las Vegas, scoppia una bomba. Migliaia di banconote volano in aria.

Questa scena ha segnato la storia del ci-nema. E non perché Colpo grosso al drago rosso. Rush hour 2 sia un film di culto, ma per le conseguenze legali della scena. Le ripre-se non erano ancora finite che comparse e passanti si gettarono sulle banconote e poi

le spesero. Alcuni di quei dollari falsi arriva-rono fino a Minneapolis, a 2.500 chilometri di distanza. La polizia non trovò la storia divertente e mise sotto indagine il fornitore dei biglietti, l’Indipendent Studio Services (Iss), storica produttrice californiana di og-getti di scena. Le aziende come la Iss realiz-zano soprattutto maschere, armi finte, cibi sintetici, finto scatolame di ogni tipo e repli-che di veicoli. E soldi falsi. Il capo dell’azien-da, Gregg Bilson Jr., è stato denunciato per contraffazione di denaro.

Esigenze di scenaUn’altra azienda, la Earl Hays Press di Los Angeles, aveva già avuto esperienze simili negli anni sessanta. Per una lunga partita a poker nel film con Steve McQueen Cincin-nati Kid gli furono chieste banconote false di prima qualità, che in seguito circolarono in tutto il mondo. La polizia bruciò il denaro

falso e confiscò le ceneri. Un anno fa due produttori di oggetti di scena di Honk Kong sono stati condannati a quattro mesi di pri-gione per il possesso di 23mila banconote false, stampate per un thriller cinese.

E i soldi falsi non creano problemi solo nel cinema. Quando Earl Hays Press ha fat-to cadere sul pubblico di un concerto heavy-metal una pioggia di banconote finte, come gli era stato chiesto dalla band, gli spettato-ri sono allegramente andati a spenderle nei negozi della zona. A Innsbruck, in Austria, nel 2007 ha avuto delle grane perfino il pre-stigioso Tiroler Landestheater: per l’opera Arianna a Nasso erano state fatte stampare 50mila banconote false da cento euro. Quei soldi, con tanto di scritta Tiroler Landes-theater, sono rispuntati fuori più tardi in un bar. Il teatro si è fatto carico dei danni.

La domanda è: quanto deve sembrare reale il denaro dei film? E, se è verosimile, come evitare che finisca per essere usato? La linea di confine, per le produzioni cine-matografiche e i loro fornitori di oggetti di scena, è molto sottile. E le regole sono di-verse da un paese all’altro.

Negli Stati Uniti le riproduzioni e le foto-grafie dei dollari sono state proibite negli anni sessanta dell’ottocento: perfino le ri-prese di banconote vere costituivano un reato. Ma da un punto di vista artistico, e probabilmente anche psicologico, non c’è alternativa al mostrare il denaro nei film. Già in una delle primissime pellicole della

I registi non vogliono rinunciare alle banconote nei loro film, e la polizia li tiene d’occhio

I falsaridi HollywoodBurkhard Strassmann, Nzz Folio, Svizzera

CinemaCincinnati Kid

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storia, il film muto Cock fight No.2, prodotto nel 1894 dagli Edison studios di New York, alle spalle di due galli da combattimento si vedono degli spettatori che si scambiano banconote. Mazzette di bigliettoni, casse-forti, valigette e borsoni sportivi pieni di contante sono irrinunciabili. E Hollywood ha dimostrato sempre una grande inventi-va. All’inizio i registi usavano banconote fi-nite fuori corso. Per esempio i bancos, mo-nete di stati come Sonora e Chihuahua, scomparsi dopo la rivoluzione messicana del 1920. Enormi quantità di banconote erano diventate carta senza valore che i for-nitori di oggetti di scena di Hollywood com-prarono a buon mercato. I bancos furono usati fino agli anni quaranta. Poi c’erano i “soldi dei cowboy”, usati quasi esclusiva-mente per i western: lo spettatore attento può riconoscere in quelle banconote i ritrat-ti di cowboy messicani o di mucche, invece dei presidenti statunitensi.

In dog we trustIl giornalista statunitense Fred Reed ha scritto un’opera di quasi mille pagine sui soldi finti dei film, destinata soprattutto agli storici del cinema e ai collezionisti. In Show me the money!, Reed ha catalogato circa 300 tipi e 2.700 sottotipi di denaro finto.

Le banconote più popolari erano quelle di Sonora. Al centro, invece del volto di un presidente, c’era un doppio ritratto. Per questo venivano chiamate dos caritas, due

faccette. Si possono vedere in alcuni film con Humphrey Bogart come Il mistero del falco (1941), Il grande sonno (1946) o L’isola di corallo (1948).

Leggendo il librone di Reed si scopre che i copisti-falsari si divertivano un sacco nel loro lavoro. Le due piccole facce stam-pate sulle banconote furono a volte quelle di Beethoven, Napoleone, Walt Whitman o anche caricature dei presidenti.

In alcuni casi anche il paese di prove-nienza della moneta era finto: valute di Marte, dell’immaginario paese africano di Zamunda, di Pomona, di Gotham City o degli Stati Uniti d’Arnica. E la scritta “In god we trust” (Confidiamo in dio), che compare sui dollari, veniva sostituita con “In dog we trust” (Confidiamo nel cane).

Il modo giocoso e creativo di trattare i soldi dei film è un fenomeno esclusivamen-te statunitense. Nel vecchio mondo il dena-ro è una questione troppo seria. Reed nomi-na giusto un paio di rarità dall’Europa, dall’Asia e dall’Africa, tra cui anche dei finti marchi tedeschi usati in un telefilm britan-nico. È sorprendente che giuridicamente è stato detto praticamente tutto sulla stampa di denaro finto per i film. Le varie normati-ve, dal Counterfeit detection act statuni-tense del 1992 a quelle della Banca centrale europea o della banca nazionale svizzera, sono tutte simili tra loro.

La banca nazionale svizzera considera “non soggette a essere scambiate con vere

banconote le riproduzioni che riportano la scritta stampata ‘specimen’”. La parola de-ve occupare il 75 per cento della lunghezza e il 15 per cento della larghezza della banco-nota ed essere stampata con colori che ri-saltino. La banca nazionale svizzera consi-glia inoltre di rimpicciolire o di ingrandire i biglietti, oppure di usare un colore diverso dall’originale. Le infrazioni, anche senza intenzioni criminali, sono punite con pene fino a tre anni di carcere.

Per questo nel film del 2017 Dene wos guet geit, il regista Cyril Schäublin, senza farsi troppi problemi mostra il denaro sfo-cato. Sicuramente negli Stati Uniti non avrebbero ceduto così facilmente.

Ci sono comunque altre possibilità per non incorrere in problemi legali. Un paio di specialisti statunitensi offrono soldi “ga-rantiti” per i film: la società Rjr’s Props di Atlanta, che ha rifornito film come The wolf of Wall street e Fargo, mette a disposizione dollari standard, stampati da entrambi i lati ma piuttosto diversi dagli originali, consi-gliati per i campi lunghi. Per le riprese da vicino ci sono banconote realistiche, ma stampate da un lato solo.

Infine, per i maniaci, alcuni fornitori di oggetti di scena offrono anche grandi quan-tità di soldi veri. Alla fine delle riprese, que-sto “denaro temporaneo” viene ricontato e riportato indietro. Un metodo che ovvia-mente è meglio non usare nelle scene in cui i soldi bruciano o esplodono. u nv

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Italieni I film italiani visti da un corrispondente straniero. Eva-Kristin Urestad Pedersen è una giornalista freelance norvegese.

A Tor Bella Monaca non piove maiDi Marco Bocci. Con Libero De Rienzo, Andrea Sartoretti, Antonia Liskova. Italia/Spagna 2019, 89’ ●●●●● Devo ammettere che non sa­pevo dov’era. Ho sentito no­minare Tor Bella Monaca tan­te volte ma, nell’immensità delle periferie romane, non sapevo dove fosse. Ora ho ca­pito e sono passata tante volte da quelle parti, andando a un circolo di tennis lì vicino. Nel film A Tor Bella Monaca non piove mai nessuno va a giocare a tennis. I protagonisti sono molto impegnati a cercare di farsi una vita. Il film racconta con un tono non troppo dram­matico la disperazione di chi non ha lavoro, non riesce a pa­gare l’affitto, sopravvive grazie alla pensione di parenti ormai morti, di chi si arrende alla criminalità perché non vede altre vie d’uscita, di chi cerca di voltare pagina, di chi non trova pace dopo aver perso le persone più care. È impossibi­le non provare simpatia per i protagonisti. Fa anche rabbia che non ci sia un modo per li­berarsi di inquilini che non pa­gano l’affitto, e che il sistema sociale non sia in grado di so­stenere almeno le persone più anziane. Però l’Italia è un pae­se difficile anche per chi ha tante possibilità, figuriamoci per chi non ne ha. Il film, gira­to con pochissimi mezzi, è coinvolgente e ci ricorda che quando ai Parioli pioviggina, a Tor Bella Monaca potrebbe esserci il diluvio.

Nel documentario For

Sama, la siriana Waad al Kateab spiega a sua figlia il perché di una rivoluzione La regista siriana Waad al Kateab ha filmato quello che succedeva intorno a lei, sen­za sosta, dall’inizio della rivo­luzione fino all’assedio della sua città, Aleppo, nel 2016. Dalle trecento ore di filmato ha tirato fuori un film davve­ro particolare. For Sama do­cumenta con precisione il si­stematico attacco agli ospe­dali da parte dell’aviazione russa a sostegno del regime di Bashar al Assad. Waad, sposata con un medico, vive

nell’ospedale dove raccoglie immagini cruente delle vitti­me del conflitto, per la mag­gior parte bambini feriti o in fin di vita per via dei bombar­damenti. Con il film, nella forma di una lettera d’amore, spiega a sua figlia Sama, nata durante l’assedio in un ospe­dale improvvisato, perché i suoi giovani genitori hanno

voluto fare la rivoluzione contro il regime di Assad, e perché non hanno rimpianti. Ora For Sama sta raccoglien­do riconoscimenti di altissi­mo livello: dopo il premio per il miglior documentario a Cannes, ha vinto i British in­dependent film award come miglior documentario, mi­glior film, miglior regia e mi­glior montaggio. A ogni even­to, la regista continua la sua campagna contro il bombar­damento degli ospedali, ad Aleppo nel 2016 come oggi nella zona di Idlib, nel nord­ovest della Siria, dove si con­tinua a combattere. Enab Baladi (Siria)

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Massa criticaDieci film nelle sale italiane giudicati dai critici di tutto il mondo

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Cultura

Cinema

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Un giorno di pioggia a New YorkWoody Allen (Stati Uniti, 92’)

ParasiteBong Joon-ho (Corea del Sud, 131’)

Storia di un matrimonioNoah Baumbach (Stati Uniti, 136’)

In uscita

Il Paradiso probabilmenteDi e con Elia Suleiman. Francia/Qatar/Germania/ Canada/Turchia/Palestina, 2019, 97’ ●●●●● A 58 anni, il regista palestine-se Elia Suleiman guarda an-cora al suo paese di origine, ma ha rinunciato alla rabbia e allo spirito ribelle dei film precedenti. Si accontenta di notare che la violenza osser-vata in Palestina si è diffusa altrove e ne fornisce un reso-conto attraverso scene di vita quotidiana, filtrate da uno spirito comico che fa pensare a Jacques Tati e a Buster Kea-ton. In Il Paradiso probabil-mente Suleiman depone le armi per concentrarsi su altri “strumenti” che rivelano al-tri tipi di follia. E per questo si “esilia” dalla Palestina e va a Parigi e New York. Se il campo di osservazione si al-larga e il carattere sovversivo del regista si perde è forse perché la “commedia uma-na” a cui assiste lo lascia sen-za parole. Ma l’assenza di vo-ce non deve far pensare che Suleiman abbia ceduto allo sconforto. Al contrario, or-chestra sequenze di pura po-esia.Véronique Cauhapé , Le Monde

L’inganno perfettoDi Bill Condon. Con Helen Mirren, Ian McKellen, Jim Carter. Stati Uniti 2019, 109’●●●●● Fare un film sugli artisti della truffa è pericoloso. Bisogna stare diversi passi avanti al pubblico e spesso anche ai personaggi stessi. Quando i calcoli funzionano (La stanga-ta, Ocean’s eleven) i risultati so-no clamorosi. Ma può capitare che gli autori risultino non co-sì intelligenti come credeva-no. È purtroppo il caso dell’In-ganno perfetto, un film sulle truffe che, in qualche modo, è lui stesso una truffa. L’adatta-mento del romanzo di Nicho-las Searle promette delizie gettando nella mischia due gi-ganti come Helen Mirren e Ian McKellen e rappresenta una pausa salutare nel rumo-roso panorama cinematogra-fico. Ma getta la spugna del di-vertimento un po’ troppo pre-sto e il finale più che una sor-presa, risulta piovuto dal nul-la. Barry Hertz, The Globe and Mail

Un sogno per papàDi Julien Rappeneau. Con François Damiens. Francia 2019, 105’●●●●● Il titolo originale, Fourmi, si ri-ferisce al soprannome di Theo, un ragazzino che gioca

a pallone nella squadra di una cittadina del nord della Fran-cia e che non viene scelto dai selezionatori dell’Arsenal per-ché è troppo piccolo di statu-ra. Così decide di mentire per non deludere il padre, Lau-rent, un uomo depresso e troppo spesso ubriaco. Julien Rappeneau è evidentemente tentato dalla commedia socia-le all’inglese, tipo Full monty, ma rimane fedele a quella de-gli equivoci. Anche grazie agli interpreti ne viene fuori una piccola favola graziosa che non lesina tenerezza e buoni sentimenti. Christophe Caron, La Voix du Nord

Cena con delitto. Knives outDi Rian Johnson. Con Daniel Craig, Chris Evans, Michael Shannon, Jamie Lee Curtis. Stati Uniti 2019, 130’●●●●● Cena con delitto, una partita a Cluedo ispirata da Agatha Christie, è arricchito da una divertente performance di Daniel Craig nei panni del de-tective amatoriale della Loui-siana capace di irritare tutti. Christopher Plummer inter-preta Harlan Thrombey, cele-bre scrittore di gialli che per il suo 85° compleanno ha invita-to il suo clan disfunzionale (di cui fanno parte Jamie Lee

Curtis, Toni Collette, Don Johnson e Michael Shannon) alla sua grande festa. Quando il patriarca è trovato con la go-la tagliata tutti diventano so-spettati. Cena con delitto è una via di mezzo tra un film tradi-zionale che prevede un miste-rioso omicidio e una parodia dei classici di Agatha Christie. C’è una vena satirica e John-son ci colpisce con coltellate di divertente cinismo. Ma nel finale mi sarei aspettato qual-che fuoco d’artificio in più. Peter Bradshaw, The Guardian

Qualcosa di meravigliosoDi Pierre-François Martin- Laval. Con Assad Ahmed, Gérard Depardieu. Francia 2019, 108’●●●●● Depardieu interpreta Sylvain un grande scacchista che prende sotto la sua ala protet-trice Fahim (l’eccellente As-sad Ahmed), un prodigio de-gli scacchi scappato dal Ban-gladesh insieme al padre sen-za documenti. La storia, ispirata al libro autobiografico Un roi clandestin, scritto da Fahim Mohammad insieme a Sophie Le Callennec e Xavier Parmentier, è ricca di buoni sentimenti ma molto povera di sorprese. Le Figaro

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Cena con delitto. Knives out

Il Paradiso probabilmente

I consigli della

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90 Internazionale 1336 | 6 dicembre 2019

Tra le novità editoriali pre-sentate alla Fiera del libro di Guadalajara ci sono mol-te opere a cavallo tra finzio-ne e realtà

Un viaggio per seppellire un santo poeta, un altro al seguito di bambini migranti, la storia di una miniera, cronache di oggi e di personaggi al limite. La non fiction attraversa il mercato edi­toriale messicano, sollevando vecchi interrogativi: come fare letteratura davanti alla devasta­zione? A cosa serve la narrativa? “A volte ricorrere alla finzione non serve, altre volte è necessa­rio”, dice Valeria Luiselli, che ha presentato il suo ultimo libro Desierto sonoro, l’archivio di un viaggio nel sud degli Stati Uniti.

Julián Herbert è un altro ma­estro dell’ibridazione tra generi. “La cosa che m’interessa di più

Messico

Ispirazione reale

Yan LiankeGli anni, i mesi, i giorniNottetempo, 266 pagine, 18 euroYan (1958) è uno dei maggiori scrittori della Cina e forse dell’Asia, e ci ricorda Lu Xun, fondatore della letteratura cinese moderna, ma anche gli Zhong Acheng e i Mo Yan del dopo Mao. Lo conoscevamo per il sarcastico Servire il popolo, ma la sua vena si è fatta più amara, meno aggressiva ma non meno radicale. C’è qualcosa di mitico e di religioso nelle sue storie, fiabe realistiche che parlano di

sacrificio e dolore, ma dentro una dedizione alla vita fatta di ostinazione e di sfida – contro la storia, la natura, il destino. Nei due lunghi racconti di questo libro, ambientati in una immaginaria e isolata regione montuosa, un vecchio e un cane cercano di far crescere una pianta di mais nel mezzo di una carestia e una vedova cerca un avvenire per i quattro figli disabili. Tuttavia essi non desistono, non si arrendono, ché la vita e il bene sono una sfida, come tutti dovrebbero sapere. Yan parla per la sua

opera di una sorta di “mitorealismo”, distante anni luce dal piatto realismo delle letterature correnti ma anche da un immaginario corrotto e inessenziale. E “alla fine” qualcosa il sacrificio ottiene. Nel racconto del titolo, “alla fine, rimasero solo sette uomini” che “piantarono sette germogli di granturco, d’un verde tenero e brillante”; nel secondo, i quattro figli seppelliscono disperati la madre, ed è la morte a consolarli, con parole di speranza. u

Il libro Goffredo Fofi

Mitologie di tutti i giorni

Italieni I libri italiani letti da un corrispondente straniero. Questa settimana Salvatore Aloïse del canale tv franco­tedesco Arte.

Fabrizio GattiEducazione americanaLa nave di Teseo, 486 pagine, 20 euro●●●●●A un giornalista può capitare che qualcuno si presenti per ri­velazioni clamorose di difficile riscontro. Da una circostanza simile Fabrizio Gatti ne trae un romanzo, dichiaratamente di finzione ma denso di fatti real­mente accaduti, anche se non supportati da prove. Un poli­ziotto milanese, reclutato dal­la Cia, vuota il sacco: per anni ha fatto il lavoro sporco per conto dell’agenzia. E quando il controllore della spia italiana finisce nel Tevere, di lui, citta­dino statunitense, rimarrà so­lo una riga nella pagina del re­gistro dei cadaveri non identi­ficati, inserita, come un am­monimento, nel libro. Libro attraversato da una serie di fatti inquietanti sulla storia italiana recente. Dall’interes­samento della Cia ai socialisti coinvolti in Mani pulite, ben prima dell’inchiesta, ai parti­colari dell’esecuzione in Bel­gio dell’inventore del super­cannone di Saddam. Dall’indi­rizzo della casa dove fu confe­zionato l’ordigno esploso in via Palestro, a Milano, nel 1993, alla cronistoria detta­gliata del rapimento di Abu Omar. “Siamo la mano crimi­nale della legge, la coscienza sporca dei governi, gli indi­spensabili facilitatori della storia, quella vera che non en­trerà mai nei libri di storia”. Ecco l’educazione americana che ha ricevuto l’italiano della Cia.

è trovare una voce”, dice di Aho-ra imagino cosas, una raccolta di cronache che mescolano vari stili. In La compañía di Verónica Gerber il testo si arricchisce di diagrammi, foto e mappe per meglio analizzare le ricadute ambientali, sociali e psicologi­che di una vecchia miniera di

mercurio. Secondo Luis Felipe Fabre, autore di Declaración de las canciones oscuras, nelle varie forme artistiche “lo stile docu­mentario non è mai stato tanto in voga. Succede lo stesso nella letteratura: i libri che vendono di più sono quelli che traggono ispirazione dal reale”. El País

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La Fiera del libro di Guadalajara

Cultura

Libri

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John GrishamL’avvocato degli innocentiMondadori, 324 pagine, 22 euro●●●●●Il protagonista del nuovo ro­manzo di Grisham è un avvo­cato e sacerdote episcopale di nome Cullen Post. Post ha ri­dotto la sua vita al minimo in­dispensabile, vive in un appar­tamento spartano sopra alla sede della Guardian mini­stries, l’associazione senza scopo di lucro, dove lavora, a Savannah, in Georgia. Il libro segue l’indagine di Post sulla condanna ingiusta di un nero di nome Quincy Miller per l’omicidio di un avvocato bian­co in una piccola città della Florida, 22 anni prima del mo­mento in cui si apre il roman­zo. Gli sforzi di Post per scova­re le prove che lo scagionereb­bero lo hanno messo in grave pericolo perché, per prima co­sa, l’oscuro cartello della dro­ga responsabile dell’omicidio è noto per fare cose terribili nelle giungle isolate a sud del confine. L’avvocato degli inno-centi è sfumato nella sua visio­ne morale: Post sa bene che la maggior parte dei prigionieri che lo contattano per presunte condanne illecite sono in real­tà colpevoli; ma la sua vera vo­cazione sono le migliaia di de­tenuti innocenti. “È abbastan­za facile condannare un uomo innocente, e praticamente im­possibile scagionarne uno”, ri­corda Post a un potenziale cliente. Finora, la squadra ha scagionato otto detenuti. Mil­ler potrebbe diventare il nono. Il suo destino dipenderà dall’inchiesta condotta da Post e dai suoi colleghi, che pren­deranno di petto spie del car­cere e altri falsi testimoni. L’avvocato che Quincy è accu­sato di aver ucciso aveva lega­mi con un cartello della droga. Lo stesso vale per lo sceriffo ormai in pensione che era sta­

to incaricato delle indagini. Nei suoi sforzi titanici per tra­sformare una giustizia negata in giustizia ritardata, Post af­fronta pericoli sia umani sia soprannaturali.Maureen Corrigan, The Washington Post

Mateo García ElizondoAppuntamento con la LadyFeltrinelli, 160 pagine, 15 euro●●●●●Il protagonista di questo ro­manzo arriva in una città per incontrare la morte. Si è la­sciato alle spalle tutto ciò che era, tutti i suoi segni d’identi­tà. Nelle sue tasche porta solo un kit per drogarsi con cui spe­ra di rendere più veloce il suo viaggio dall’altra parte. Ma pri­ma di questo esito – o durante, o dopo: i lettori vagano sempre con il personaggio tra sonno e veglia, tra vita e morte – gli succederanno molte cose. Ap-puntamento con la Lady è il pri­mo romanzo di Mateo García Elizondo, un messicano di 32 anni, sceneggiatore cinemato­grafico, autore di fumetti, giornalista e nipote di Gabriel García Márquez. Elizondo vorrebbe che i lettori si acco­stassero al suo romanzo indi­pendentemente dai legami fa­miliari, ma è difficile ignorarli, e lui lo sa. Zapotal, il luogo do­ve si svolge tutta la storia, è una città che potrebbe trovarsi più o meno in qualunque pae­se dell’America Latina. “La città è immaginaria”, spiega lo scrittore, “ma si basa su tutta una serie di luoghi reali in cui ho trascorso del tempo, in Messico, in America Centrale, in Sudamerica. Sono stato in molte città come Zapotal, ma per il romanzo non volevo concentrarmi solo su una, vo­levo che fosse una sintesi di come funzionano le cose in questa parte del mondo”. El Tiempo

Sheng KeyiFuga di morteFazi, 430 pagine, 18,50 euro●●●●●Uno dei momenti più significativi della storia cinese contemporanea è il massacro di piazza Tiananmen del 1989. Il governo cinese finge più o meno che non sia mai successo e incarcera chiunque sostenga il contrario. Una situazione che può essere descritta solo come surreale. E c’è molto di surreale nel romanzo di Sheng Keyi, un’allegoria sottilmente mascherata – ma non abbastanza da essere pubblicata in Cina – del sanguinoso giro di vite di trent’anni fa. Il romanzo si apre con un gigantesco cumulo di feci sulla piazza principale di Beiping, capitale di Dayang (un paese che potrebbe essere la Cina attraverso lo specchio). Una protesta di massa esplode sulla misteriosa montagna di letame e il nostro eroe, il poeta­medico Yuan Mengliu (un personaggio insensibile, tendente all’avvilimento, egoista e riluttante, non troppo simpatico), sta tornando a casa a dormire quando arrivano i carri armati. Anni più tardi, ancora tormentato dalla sua mancanza di risolutezza e dalla perdita del suo primo amore durante la repressione, Yuan si ritrova nella Valle dei Cigni, una distopia governata da un robot dai capelli verdi. Dopo aver scoperto che in quel luogo il sesso è vietato – la

Il romanzo

Allegoria mascherata

pena per la penetrazione è la decapitazione – seguiamo Yuan e la sua libido nel tentativo di fuggire verso casa, dove anche se il passato è censurato, almeno il sesso è legale. Tra sesso, fantascienza, riflessioni filosofiche di Yuan sul potere della protesta e sulla vita sotto un regime repressivo, Fuga di morte è un romanzo divertente. Sheng tocca molte questioni che affliggono la Cina di oggi, come la perdita dell’idealismo, il fascino del materialismo, la distorsione della storia. Il titolo del romanzo viene dall’omonima poesia di Paul Celan dedicata ai campi di sterminio. Anche se gli orrori del genocidio nazista non si prestano facilmente al paragone con le avventure di Yuan, nella scelta del titolo bisogna forse leggere un appello alla Cina perché abbia lo stesso coraggio della Germania nel fare i conti con il passato. Dinah Gardner, Asia Sentinel

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Sheng Keyi

John le CarréLa spia corre sul campoMondadori

Kirsty LoganAl riparoBompiani

Bertrand LeclairMalintesiQuodlibet

I consigli della

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Anne-Cécile RobertLa strategia dell’emozioneEléuthera, 175 pagine, 16 euroSempre di più, ogni volta che si tratta di decidere se dare li-bero corso alle emozioni o fer-marsi a riflettere il mondo ci invita a scegliere la prima pos-sibilità. È la tesi di questo pamphlet chiaro e denso, scritto da una giornalista fran-cese esperta di Africa e di isti-tuzioni europee che riconduce a questa inflazione emoziona-le molti fenomeni che di solito consideriamo separatamente. “L’estensione del dominio del-

le emozioni” si osserva un po’ ovunque: nella prevalenza di spiegazioni psicologiche dei fenomeni rispetto a quelle po-litiche, nel timore sempre più diffuso di ferire la sensibilità delle persone, che appare più grave del contravvenire a una norma morale.

Uno dei campi in cui la tra-sformazione è più evidente è quello dell’informazione, con la prevalenza dei fatti di cro-naca che depoliticizza il di-scorso. Ma la si nota anche nell’ambito della giustizia, con uno spostamento al centro

dell’attenzione per le vittime, che tende a equiparare re-sponsabilità molto diverse, e ovviamente nella politica, do-ve si diffondono lacrime, rab-bia e vergogna, i discorsi asso-migliano a sermoni e l’unico compito per realizzare una so-cietà più giusta sembra, al li-mite, la difesa di minoranze, anch’esse vittimizzate. Il pro-blema, spiega Robert, è che percepire le emozioni come più “vere” o “autentiche” di tutto il resto è un errore peri-coloso che porta a declassare la ragione. u

Non fiction Giuliano Milani

Emoziocrazia

Brenda NavarroCase vuotePerrone, 173 pagine, 15 euro●●●●●La maternità come paradigma della realizzazione femminile è in crisi, per fortuna. Sempre più spesso parliamo delle dif-ficoltà della gravidanza, della solitudine dei primi mesi do-po il parto, della colpa e delle esitazioni che derivano dal mettere al mondo una perso-na la cui esistenza sarà total-mente legata alla nostra. È consigliabile tenere presente questa discussione quando si entra in Case vuote, il primo romanzo di Brenda Navarro. La storia rivela il suo fulcro fin dalle prime righe (“Daniel è scomparso tre mesi, due gior-ni, otto ore dopo il suo com-pleanno. Aveva tre anni. Era mio figlio”) e svela il mistero dell’improvvisa scomparsa di un bambino autistico da cui la madre ha distolto lo sguardo per alcuni secondi mentre guardava il suo cellulare. Ma c’è un’altra storia che si svolge

in parallelo, non nel parco in cui Daniel scompare o nella casa in cui arriva, ma all’inter-no delle protagoniste: la ma-dre biologica e quella stabilita per legge, quella che si ram-marica di averlo fatto e quella che fa di tutto per averlo, quel-la che smette di essere madre e quella che comincia a esser-lo. Case vuote è un’opera di fin-zione, non offre risposte su co-me essere una madre. Navar-ro offre piuttosto domande su ciò che significa essere re-sponsabili di un’altra persona. Isabel Zapata, Letras Libres

Assaf GavronLe diciotto frustateGiuntina, 729 pagine, 18 euro●●●●●Il dominio britannico della Pa-lestina, durato dal 1920 fino all’indipendenza israeliana, è al centro di Le diciotto frustate. Il nuovo romanzo di Assaf Ga-vron si basa su eventi reali ac-caduti alla fine del 1946, quan-do il movimento sionista e le

sue milizie combattevano gli inglesi per ottenere l’indipen-denza e al contempo respinge-vano gli attacchi dei vicini ara-bi. Le autorità britanniche a volte frustavano i nemici. Questa fu la punizione inflitta a diversi combattenti della mi-lizia ebraica di Irgun catturati durante un assalto alla banca ottomana a Jaffa. Irgun, su or-dine del suo leader Menachem Begin, lanciò una missione di vendetta: il 29 dicembre del 1946 le cellule dei combattenti partirono per arrestare degli ufficiali britannici e sottoporli alla stessa punizione brutale. Trovarono diverse vittime a Netanya, Rishon Letzion e Tel Aviv e le condussero negli an-goli bui delle strade o in altri luoghi appartati dove, come atto di rappresaglia, li frusta-rono con lo stesso numero di colpi subiti da un militante di 16 anni. Il romanzo si apre con una grande storia d’amore e culmina in un atto di tradi-mento e umiliazione. Gili Izikovich, Haaretz

Cina/Giappone

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Jung ChangBig sister, little sister, red sister KnopfProvenienti da una famiglia cristiana di Shanghai non par-ticolarmente influente, le tre sorelle Soong furono al centro del potere in Cina per gran parte del novecento. Chang è una scrittrice cinese nata nella provincia di Sichuan nel 1952.

Hiroko OyamadaThe factory New DirectionsIn una città giapponese senza nome, tre giovani parlano del loro lavoro in fabbrica. Ro-manzo surreale sulla natura spersonalizzante del lavoro nel Giappone contemporaneo. Hiroko oyamada è nata a Hi-roshima nel 1983.

Toshikazu KawaguchiBefore the coffee gets cold Pan MacmillanIn un vicolo di Tokyo, c’è un bar che serve caffè da più di cento anni. E offre ai clienti la possibilità di viaggiare nel tempo. Toshikazu Kawaguchi è nato a osaka nel 1971.

Yōko OgawaThe memory police Pantheon BooksDistopia che, come 1984 di orwell, si focalizza sulla sor-veglianza di massa con uno stile che ricorda Kafka. yōko ogawa è nata a okaya-ma nel 1962.Maria Sepausalibri.blogspot.com

Cultura

Libri

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THE PASSENGER

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IN LIBRERIA

Partenze intelligenti.Una raccolta di reportage letterari e saggi narrativi che raccontano la vita contemporanea di un paese e dei suoi abitanti. Tante storie e diverse voci per scoprire, capire, approfondire, lasciarsi ispirare.

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Ricevuti

Fumetti

Narcisismo universale

Gipi Momenti straordinari con applausi fintiCoconino press, 176 pagine, 24 euroCon questo nuovo capolavoro sulla condizione umana, Gipi ha davvero rischiato di rom-persi l’osso del collo. Si potreb-be obiettare che rispetto agli altri due titoli precedenti, Una storia e La terra dei figli, non ha compiuto un salto ulteriore sul piano grafico, anche se i suoi sembrano salti facili, come quelli di un grande equilibri-sta. Chi fa questa critica, di-mostra di non aver capito il li-bro. Il salto è altrove. Gipi rie-sce a dire qualcosa di nuovo e molto forte facendo una sinte-si di S (sugli anni di guerra del padre), dell’autobiografia La mia vita disegnata male, dei già citati Una storia e La terra dei figli. Dell’ultimo, riprende la fine, raffinata fuliggine del se-

gno, il più nero possibile. Del penultimo, la capacità di cre-are con l’acquerello delle im-magini della memoria ipnoti-che, impregnate dell’incon-scio, da cui non si vorrebbe più uscire. Ne fa una rivisita-zione, senza che mai l’ironia renda ridicolo il grave, come l’ossessione per la guerra, l’interrogazione su dio, l’apo-calisse perenne. Molti stili grafici, ma variamente modu-lati, e tre narrazioni differen-ti, mischiate tra loro nei brevi capitoletti, tutti di una legge-rezza assoluta malgrado la se-rietà delle questioni. Anzi, della questione più grave: la morte di una madre, divinità-generante nel concreto della vita quotidiana. Soltanto Gipi riesce a fare dell’ombelicale, del narcisismo, anche se è un narcisismo sofferente, mate-ria alta, metafisica, universa-le. Francesco Boille

Fabio LuppinoCon gli occhi di un terzino sinistroEmersioni, 104 pagine, 13,50 euroUna partita di calcio nella periferia romana, negli anni settanta, diventa la chiave per raccontare il percorso di un adolescente tra passioni e disillusioni.

Jürgen HabermasL’ultima occasione per l’EuropaCastelvecchi, 89 pagine, 11,5o euroI limiti principali dell’Unione europea sono la cattiva gestione della crisi economica, la mancata valorizzazione del parlamento e la scarsa legittimazione politica.

Roberto LatellaUn educatore da favolaAlpes, 105 pagine, 11 euroStrumento per valorizzare uno stile educativo viaggiando attraverso le favole: da Robin Hood, che si nutre di giustizia sociale, a Peter Pan, alla ricerca dell’eterna giovinezza.

Alice FeiringVino naturale per tuttiSlow Food, 176 pagine, 16,50 euroCome si producono i vini naturali, qual è la loro storia e come imparare ad apprezzarli.

Paul CoxDesign & ArtCorraini editore, 228 pagine, 35 euroManifesti, libri, giochi, campagne pubblicitarie e scenografie. Un libro catalogo alla scoperta del lavoro di Cox tra pittura e grafica.

Ragazzi

Fantasyall’italiana

Tiziana TrianaLuna nera. Le città perduteSonzogno, 504 pagine, 19 euroAde è una ragazza di 16 anni caparbia, coraggiosa, intel-ligentissima. È stata accusa-ta di stregoneria ed è sfuggi-ta al linciaggio grazie all’in-tervento di Pietro, un giova-ne studioso di medicina, in-namorato di lei. Nell’intri-catissima tela di Luna nera, che si sviluppa in un’Italia centrale cupa e coperta da una cappa di sospetto, ci so-no molte donne. Si chiama-no Janara, Tebe, Persepolis, Itaca: nomi evocativi che ci riportano a un passato ance-strale, ma che nella loro es-senza più pura sono illumi-nati da una modernità ribel-le (basata sulla scienza) che ci abbaglia. Anche qui come in ogni buon fantasy non manca la presenza del male: il padre di Pietro, Sante, ca-po dei benandanti, dà la caccia a queste donne che per lui sono solo corpi da di-struggere. Tiziana Triana con una prosa veloce riesce a creare un mondo che balla tra sogno e incubo. Un fan-tasy con ingredienti tutti ita-liani con cui riesce a creare una mitologia femminista che oltre a stupire, tiene in-collati alla pagina. Il libro diventerà presto una serie per Netflix, prevista per il nuovo anno, diretta da tre registe: Francesca Comen-cini, Susanna Nicchiarelli e Paola Randi, produzione Fandango. Igiaba Scego

Cultura

Libri

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Dal vivoGiant Sand Ravenna, 6 dicembre bronsonproduzioni.com Montecosaro (Mc), 7 dicembre facebook.com/mountecho.2019 Gioia del Colle (Ba), 8 dicembre timezones.it

Manuel Agnelli Asti, 7 dicembre palco19.com Parma, 9 dicembre teatroregioparma.it Milano, 10 dicembre teatroarcimboldi.it

Michael Kiwanuka Milano, 7 dicembre fabriquemilano.it

Niccolò Fabi Cosenza, 10 dicembre inprimafila.net Catania, 12 dicembre metropolitancatania.it Palermo, 13 dicembre cinemateatrogolden.it

Coez Napoli, 12 dicembre palapartenope.it

Strings City Arsene Duevi, Duo Nakeva Nanni, Quartetto Guadagnini, Orchestra della Toscana Firenze, 14-15 dicembre facebook.com/stringscity

Michael Kiwanuka

1 Calibro 35 Stan Lee (feat. Illa J) È tutto un rimaneggiare

miti, spostare accenti, sovrap-porre Shaft a Star Trek e, su un afflato galattico e supereroico, aggiungere un rapper old school di Detroit. Nell’univer-so dei Calibro 35, band di ul-traterrena sottigliezza stru-mentale, una “voce che dice cose” è come un Big bang. Una nuova (e aliena) identità segreta svelata dal gruppo pro-iettato dai poliziotteschi ai b-movie di fantascienza, e ora ri-succhiato, verso il prossimo al-bum Momentum, in quell’epica di cui sono fatti i Fantastici quattro, Spiderman, Avengers e sogni adolescenziali vari.

2 Ackeejuice Rockers, Jude & Frank, Lele Blade

Medellín Da Marostica, capitale delle ci-liegie e base degli Ackeejuice, duo di smanettoni del ritmo già noti ai fan di Kanye West e Jovanotti, a partire da un giro di flauto preso da qualche di-sco di folk andino, con un con-dominio di ospiti. Per imbarca-re il loro cargo di strabordanti ritmiche moombathon e latin house in una dimensione glo-bal/provinciale, tra rapper ca-soriani, balenciaga farlocche e “la plata la plata la plata”. Co-me quei bambini che girano con le magliette di Narcos, ma divertente.

3 Guappecartò Vlado ’O Malamente, Frank

Cosentini, Dott. Zingarone, Mr Braga, ’O Brigante: non è una batteria di loschissimi per la prossima stagione di Gomor-ra, ma un combo perugino-pa-rigino di busker in bilico tra Balcani, violini tzigani, tanghi appocundrie e nostalgie di un novecento drammatico, in fu-ga dalla Fiume del dopoguerra alla Svezia, come quel fanto-matico compositore croato da cui hanno adattato spartiti e melodie nell’album Sambol-amore migrante. Simbolico o meno, è un bel migrare, in una memoria di balere avventuro-se tra fisarmoniche e chitarre.

Il servizio di streaming svela gli artisti più ascoltati tra il 2009 e il 2019

Il servizio di streaming sve-dese Spotify ha reso note le analisi dei dati che mettono in evidenza gli artisti più ascoltati dagli utenti nel 2019. Inoltre, visto che il de-cennio sta per concludersi, l’azienda ha rivelato anche i musicisti con più ascolti nel periodo compreso tra il 2009 e il 2019. Basata sul conteg-gio di più di 248 milioni di ascolti in tutto il mondo, la classifica del decennio vede in testa il rapper canadese Drake con 28 milioni di ascolti, seguito dal cantante

britannico Ed Sheeran, dal rapper statunitense Post Ma-lone, dalla cantante Ariana Grande e da Eminem. La can-zone più ascoltata tra il 2010 e il 2019 è Shape of you di Ed Sheeran con 2,3 milioni di stream, seguita da One dance di Drake, registrata insieme a Kyla e WizKid, e da rockstar di Post Malone, cantata insieme

a 21 Savage. L’artista più ascoltato quest’anno invece è stato Post Malone con 6,5 mi-lioni di stream, seguito da Billie Eilish (in testa agli ascolti anche con l’album When we all fall asleep, where do we go?) con circa sei milio-ni. Nei primi cinque posti ci sono anche Ariana Grande, Ed Sheeran e il portoricano Bad Bunny. La canzone più ascoltata dell’anno è Señorita di Shawn Mendes, cantata in duetto con Camila Cabello. Il podcast più di successo del 2019 invece è stato The Joe Budden podcast with Rory and Mal. Chris Eggertsen, Billboard

Dalla Svezia

Il decennio secondo Spotify

Playlist Pier Andrea Canei

Migranti italiani

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Musica

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The Comet Is ComingThe afterlifeImpulse!●●●●●

Per la seconda volta nel 2019 il trio jazz The Comet is Coming dispiega la sua visione distopi-ca del futuro con un nuovo di-sco che mescola elettronica, funk, dub e poesia. Registrato durante le stesse session di Trust in the lifeforce of the deep mystery, The afterlife non è una collezione di brani scartati né un seguito, ma una specie di olistica immagine riflessa che viene dalla stessa fonte d’ispi-razione dell’album preceden-te. All that matters is the mo-ments è uno dei brani più lun-ghi e vede la partecipazione del poeta Joshua Idehen, men-tre il sassofono di Shabaka Hutchings regala assoli cosmi-ci e spirituali fondendo jazz e reggae. La produzione della cupa The afterlife invece ricor-da quella di Closer dei Joy Divi-sion. The seven planetary hea-vens è una marcia lenta che si apre nel finale grazie alla ten-sione tra la sezione ritmica e l’elettronica di Danalogue. The afterlife finisce in modo molto diverso da com’è cominciato: non si capisce se è l’introdu-zione all’album precedente o l’apertura di un nuovo capitolo per la band. Thom Jurek, Allmusic

Hannah DiamondReflectionsPc Music●●●●●

Ecco un bel contraltare al re-cente, acclamato album di Ca-roline Polachek, un altro disco dedicato alla fine di una storia d’amore che salva le sonorità trance pop dalla tirannia del buon gusto. Ma dove Polachek è erudita e poetica, Diamond è

dal tribal guarachero di Alfon-so Luna ai ritmi afroperuviani di Afrobomba. Dallo stato di Querétaro invece arriva Cho-lulita style, un pezzo di cumbia elettronica firmato da Carrillo Stereo. Nueva ola PE-MX salta da un genere all’altro, ma nel complesso funziona bene. La Matraca ha messo in piedi un bell’esercizio di integrazione tra diversi paesi dell’America Latina. Non tutti i pezzi della compilation sono impeccabili, ma siamo di fronte a una soli-da espressione di creatività globale.Cheky, Remezcla

Girl RayGirlMoshi Moshi●●●●●

C’è stato un tempo in cui il tentativo di un artista indie di avvicinarsi al pop sarebbe sta-to visto con sospetto. Ma ora, grazie allo streaming e ai so-cial network, chi ascolta musi-

ca è molto più aperto e dispo-sto ad abbracciare generi di-versi. Inoltre negli ultimi anni il pop è stato molto più innova-tivo e sperimentale dell’indie. Nel 2017 le Girl Ray debutta-rono con Earl grey, che faceva sembrare i Belle and Sebastian come gli Slipknot. Per il secon-do album hanno cambiato di-rezione, virando verso il pop e l’rnb, scegliendo un produtto-re come Ash Workman, già al fianco dei Metronomy e di Christine and the Queens. Show me more e Friend like that sono gli esempi migliori di questo cambiamento, senza sradicare le caratteristiche che hanno reso interessante la band fin dagli inizi. Le canzoni migliori sono quelle che sfrut-tano un groove più lento. Girl ci suggerisce che il trio londi-nese avrà un futuro interes-sante perché ama sperimenta-re partendo dal proprio suono, senza cercare per forza delle svolte radicali.Andy Von Pip, Under the Radar

Andrey GugninLiszt: studi d’esecuzione trascendentaleAndrey Gugnin, piano Piano Classics●●●●●

Il 2019 ha visto la pubblicazio-ne di molti dischi pianistici d’altissimo livello, ma il mio preferito, senza nessun dubbio, è questa grande tra-versata degli studi d’esecuzio-ne trascendentale di Liszt. È un’esecuzione che va molto ol-tre la perizia tecnica straordi-naria, anche se ce ne offre molta. Sono la musicalità im-peccabile, l’immaginazione riccamente evocativa e la co-stante eloquenza poetica che rendono Andrey Gugnin un vero fuoriclasse.Patrick Rucker, Gramophone

prosaica; dove la voce di Pola-chek è tecnicamente sbalordi-tiva, quella di Diamond è sem-plicemente ordinaria. Eppure colpisce nel segno. Diamond ha uno stile ingenuo, sembra una ragazzina che canta da so-la nella sua cameretta, e la semplicità delle parole delle sue canzoni non fa che ricor-darci che quando un amore fi-nisce ci ritroviamo soli e biso-gnosi come bambini. C’è an-che un pezzone da ballare, Concrete angel, che riesce a es-sere comunque triste. Eppure Hannah Diamond è perfetta nei pezzi più graziosi e spu-meggianti, come Shy e Fade away, in cui quasi inconscia-mente sembra pronta a la-sciarsi tutto alle spalle.Ben Beaumont-Thomas, The Guardian

Artisti variNueva ola PE-MXMatraca●●●●●

Fin dalla sua fondazione nel 2013, l’etichetta discografica peruviana Matraca ha soste-nuto i producer latinoamerica-ni, aiutandoli a esplorare le possibilità dell’elettronica. Quest’anno ha lanciato la serie Matraca Global. Il nuovo capi-tolo è Nueva ola PE-MX, che mette insieme 23 brani inediti e raccoglie il lavoro di musici-sti peruviani, messicani e non solo. I ritmi e gli stili variano, Girl Ray

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Mariss JansonsČajkovskij: sinfonieChandos

Mariss JansonsStrauss: Ein alpensinfonie, Tod und verklärung

BR Klassik

Mariss JansonsStravinskij: Le sacre du

printemps, L’oiseau de feu (suite)

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The Comet Is Coming

ClassicaScelti da Alberto

Notarbartolo

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Televisione Giorgio Cappozzo

Cultura

Alla corte di RuthChiliLa popolarissima giudice Ruth Bader Ginsburg ha ispirato generazioni di avvocati e attivisti per i diritti umani. Dal 1993 prosegue la sua battaglia dall’interno della corte suprema statunitense.

Assalto al cieloRai Storia, sabato 7 dicembre ore 22.50Composto da materiale d’archivio il film di Francesco Munzi ricostruisce la parabola delle lotte extraparlamentari in Italia dal 1967 al 1977, tra slanci rivoluzionari e violenza.

Bikram: yogi, guru, predatorNetflixAscesa e caduta del fondatore dello hot yoga, Bikram Choudhury: le inquietanti rivelazioni sulla sua megalomania e sugli abusi subiti da collaboratrici e clienti portarono al crollo di un impero commerciale.

Fethullah Gülen: il grande nemico di ErdoğanArte.tvChi è Gülen e quali sono gli obiettivi del suo movimento? Il nome del nemico numero uno di Erdoğan è conosciuto per il colpo di stato in Turchia del 2016, ma i due sono stati a lungo alleati.

La strage di piazza Fontana History, mercoledì 11 dicembre ore 21.50A cinquant’anni dall’attentato alla Banca nazionale dell’agricoltura di Milano, una ricostruzione attraverso interviste a protagonisti ed esperti, e un accesso esclusivo ai documenti.

Schermi

Graham Stephan ha 29 anni, fa l’agente immobiliare a Los Angeles e guadagna circa ottomila dollari al mese. Poi, grazie ai suoi due canali YouTube, “arrotonda” con altri 90mila dollari. Entro la fine del 2019 avrà guadagnato 1,6 milioni di dollari. Con YouTube ha cominciato per gioco due anni fa: “I primi mesi non ho visto un centesimo, poi sono arrivato a un dollaro al giorno e ho pensato che se avessi fatto un video al giorno mi sarei potuto regalare una cena”, racconta in un video su come guadagnare un milione di dollari in un anno. Perché Graham piace? Perché rappresenta ciò che gli americani preferiscono: il tipo un po’ spaccone, che ama parlare di quanto è facile diventare ricchi, se sai come farlo. Gaia Berruto

YouTubeDocumentari

Netflix, 5 episodiLa serie documentaria Grégo-ry, in cinque episodi basati su interviste a persone coinvolte nella vicenda, ricostruisce in modo potente e al tempo stes-so avvincente un caso di infan-ticidio che scosse la Francia. Il 16 ottobre 1984, in un canale del fiume Vologne, nei Vosgi, fu ritrovato il corpo di Grégory

Villemin, quattro anni, scom-parso da casa poche ore prima. Il documentario di Gilles Mar-chand non offre la soluzione del caso, che ancora oggi è senza colpevoli, ma cristallizza nel tempo quella tragedia e le sue conseguenze, e prova a smontare alcune assurdità cir-colate all’epoca. Independent

Serie tv

L’affaire Grégory

Il milionario spaccone

Quando scimmiotta la tv, il parlamento può dare grandi soddisfazioni. La presidente Casellati che canta sulle note di “trottolino amoroso” di Amedeo Minghi ospite a pa-lazzo Madama è varietà classi-co. Nella rissa a margine della discussione sul Mes riecheggia la puntata di un talk senza le interruzioni pubblicitarie. A oggi il momento più ghiotto del XVIII Legislatura show lo dobbiamo al leghista Flavio Di Muro. Approfittando del suo intervento, ha preteso l’atten-

zione dell’aula e in luogo di un emendamento ha chiesto alla sua fidanzata di sposarlo. Un gesto abusivo e a suo modo ro-mantico. Molto poco istituzio-nale ma costruito con una cura onorevole: la coppia aveva pre-notato già da tempo chiesa e ristorante. Avevano un copio-ne, un anello e una diretta tv da capitalizzare. Il genere da-ting, i programmi sugli incontri amorosi, appassiona anche fuori Montecitorio. Dai fasti di Marta Flavi e Agenzia matri-moniale (Canale 5, fine anni ot-

tanta), il filone si è evoluto. Il Regno Unito sforna le idee più audaci. In Five weeks a guy (Channel 4), una ragazza con-vive per una settimana con cinque pretendenti. Alla fine dovrà accontentarsi di sce-glierne uno. In Ghosted (Mtv), intuizione post-dating, due conduttori aiutano un mazzia-to a riconquistare la sua ex che lo ha bannato dai social senza un perché. La ragazza, rintrac-ciata, accetta di raccontare le sue ragioni. Ma non voglio sve-larvi la prossima legislatura. u

Legislatura show

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Homelands: art from Bangladesh, India and PakistanKettle’s Yard, Cambridge, fino al 2 febbraioUn’antica statua buddista su un basamento fotografata con-tro il muro grigio crepato del museo sembra galleggiare. Di fronte alla scultura c’è uno schermo bianco spettrale per-corso da linee verticali che sfi-da ogni spiegazione razionale. L’immagine dell’artista Seher Shah combina disegno e foto-grafia. Fa parte della sua nuova serie Argument from silence, ispirata alle sculture del

Gandhāra conservate nel Mu-seo nazionale di Chandigarh, in India. L’arte del Gandhāra, l’antica regione sull’attuale confine tra Pakistan e Afghani-stan, ha una storia che riflette i confini mutevoli della regione. Argument from silence conden-sa l’umore dell’intera mostra racchiudendo una cacofonia di storie tra Pakistan, Bangladesh e India sussurrate con delica-tezza. Homelands mette insie-me le opere di undici artisti che viaggiano attraverso le fa-glie di una materia complessa. Spring song è una galleria foto-grafica di oggetti appartenuti a

uomini e donne intervistati nei campi profughi nel sud del Bangladesh. Questi oggetti, centrati su sfondi semplici, di-ventano veicoli inconsapevoli di storie tormentate. Zarina ha creato un ricordo visivo limita-to ma appassionato delle sue peregrinazioni dall’India a New York, condensando il suo mondo in squarci di dolore rappresentato in bianco e nero su piccole stampe xilografiche. Trasforma mappe urbane (Beirut, Ahmedabad, Beirut), in griglie rese illeggibili che ri-flettono un trauma storico. The Financial Times

Regno Unito

Opere di confine

Cultura

Arte

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Nan GoldinSirens, Marian Goodman gallery, Londra, fino all’11 gennaioNan Goldin fotografa la sua vi-ta, le sue amicizie, i suoi amo-ri, le sue dipendenze. Poco o niente è precluso. Goldin torna spesso al suo passato incorpo-rando nei lavori più recenti vecchie foto, inediti, serie di diapositive. Questa mostra ci porta dal bianco e nero al colo-re, da vecchi superotto a con-versazioni incise sulla segrete-ria telefonica, da Manila a Bo-ston. Qualcuno è inciampato nel tappeto del corridoio di un hotel schiantandosi sui resti di un pasto in camera. Il tramon-to arancione in un lurido cielo svizzero fa da sfondo a un lam-pione e a un camino. Gli amici di Godin, gli amanti, le drag che popolano le immagini scattate negli anni settanta or-mai sono tutti morti. Brani di Peggy Lee, Marianne Faithfull e Aznavour accompagnano le diapositive. È lo spaccato di un mondo che si divertiva, festeg-giava, viveva e non c’è più.The Guardian

Mecenatismo modernoMusée des arts décoratifs, Parigi, fino al 12 gennaioQuando Man ray realizzava il loro ritratto, il maharaja e la maharani di Indore ancora non avevano costruito il Manik Bagh palace, il cui mobilio è al centro di questa mostra. I so-vrani selezionarono una squa-dra di audaci designer e inter-mediari raffinati, come henri-Pierre roché e lo stesso Man ray. Il grandioso progetto pre-vedeva la costruzione e l’arre-damento di una villa moderni-sta nel cuore dell’India: un’opera d’arte totale che ri-mase incompiuta a causa della morte improvvisa della moglie del maharaja.Libération

Sohrab Hura, Snow exhibition suite of 27 photographs

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Si può amare qualcuno che non ama se stesso? È la domanda che mi faccio a volte quando vedo certi olandesi trascu­rare completamente la loro lingua e la loro cultura. Amo molto questa civiltà, i suoi pittori del secolo d’oro, la sua lette­

ratura, la sua storia, la sua lingua. Ma a volte mi sento un po’ solo. Qualche settimana fa ho partecipato a una riunione all’università di Amster­dam. Eravamo in otto, tra cui uno stu­dente tedesco che parlava male l’olan­dese. Come un sol uomo, gli altri (tutti dei Paesi Bassi) si sono messi a parlare in inglese, più o meno bene. Uno solo ha rifiutato questa mascherata e ha continuato a parlare olandese: io. Il marocchino.

Sono arrivato ad Amsterdam nel 1990 per lavorare alla facoltà di econo­mia, che allora era nella Jodenbree­straat, di fronte alla casa di Rembrandt. Ovviamente non parlavo una parola di olandese. O meglio – mi fece notare, non senza malizia, un colle­ga – come tutti ne conoscevo solo una: apartheid. Il che peraltro non era vero: scoprii piuttosto in fretta che ne conoscevo molte, ormai entrate nella lingua francese, per esempio berma , un termine piuttosto tecnico imparato durante gli studi di ingegneria.

Poiché ero stato assunto per lavorare a un proget­to finanziato dall’Unione europea (che all’epoca si chiamava Comunità europea), il fatto che non par­lassi olandese non era un problema. Tra l’altro pas­savo molto tempo a Bruxelles, dove lavoravo con un piccolo gruppo di esperti di modellizzazione econo­mica, quasi tutti francofoni. L’olandese non mi ser­viva, insomma.

Eppure, il giorno dopo essere stato assunto ho co­minciato a impararlo. Innanzitutto sono del parere che non bisogna mai perdere un’occasione per impa­rare una lingua. In secondo luogo, mi pare che sia una forma di rispetto sforzarsi di parlare, anche se in mo­do rudimentale, la lingua del posto dove si abita.

La difficoltà in Olanda, e dev’essere lo stesso in Danimarca o in Finlandia, è che nessuno sembra aspettarsi che gli stranieri facciano uno sforzo simile (questa storia risale all’inizio degli anni novanta, ben prima dell’invenzione dei test d’integrazione che gli immigrati oggi sono tenuti a superare). Allora tutti sembravano trovare normale che qualcuno trascor­

resse anni nel paese accontentandosi di parlare in­glese con tutti. Era quindi difficile praticare la lingua di cui cercavo di acquisire le basi, poiché i miei inter­locutori (colleghi, cassiere al supermercato, dipen­denti delle ferrovie) mi rispondevano sistematica­mente in inglese.

Immagino che alcuni lo facessero per dimostrare che padroneggiavano la lingua di George H.W. Bush

(il presidente degli Stati Uniti era lui, all’epoca); altri lo facevano meccanica­mente, senza fare domande. Un giorno chiesi a uno dei miei colleghi se gli olan­desi andavano fieri della loro lingua. Mi guardò con aria sinceramente sorpresa. Fieri? Come si poteva andar fieri di una lingua? Non aveva senso. Era ridicolo. Io, che ero reduce da sei anni tra i fran­cesi, non dissi nulla. Ma secondo me la domanda aveva un senso, eccome. La lingua non è solo uno strumento, è an­che una produzione culturale. C’erano

tante frasi o versi che mi venivano in mente all’occor­renza, frutto dei miei studi francesi. Il famoso “Qu’il mourût!” del vecchio Orazio di Corneille; la straordi­naria calata del poema di Hugo La conscience, che termina con “L’œil était dans la tombe et regardait Caïn”; l’incipit delle memorie del generale De Gaul­le: “Toute ma vie, je me suis fait une certaine idée de la France”. Mi sembrava quindi legittimo che un fran­cese andasse fiero della sua lingua, come un inglese della lingua di Shake speare o uno spagnolo di quella di Cervantes.

Essendomi messo a imparare la lingua di Ruud Lubbers (che era il primo ministro), avevo l’ambizio­ne di conoscerne anche la cultura: non quella di Lub­bers, di cui non sapevo granché se non che era un uomo d’affari convertito alla politica, ma quella del paese. Ricordo quindi di aver chiesto a Jan­Willem, uno dei miei colleghi in quel Maupoleum oggi (grazie a dio) distrutto che sfigurava la Jodenbreestraat, di farmi un elenco dei dieci capolavori della letteratura dei Paesi Bassi. Avevo intenzione di leggerli tutti. Jan­Willem trovò strana l’idea – la caratteristica dei clas­sici è che tutti li conoscono ma nessuno li legge – però stette amabilmente al gioco. L’indomani venne a po­sare sulla mia scrivania un elenco in cui, ricordo, figu­ravano Camera obscura di Hildebrand, naturalmente Multatuli, De avonden di Gerard Reve, De donkere kamer van Damocles e via dicendo. Mi ci è voluto del

Contro l’inglese

Fouad Laroui

Sono arrivato ad Amsterdam nel 1990 per lavorare alla facoltà di economia. Non parlavo una parola di olandese. O meglio, come tutti ne conoscevo solo una: apartheid

FOUAD LAROUI

è uno scrittore e giornalista marocchino. Vive ad Amsterdam. Ha vinto un prix Goncourt de la nouvelle. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Le tribolazioni dell’ultimo Sijilmassi (Del Vecchio Editore 2019, traduzione di Cristina Vezzaro). Il titolo originale di questo articolo è Against english.

Pop

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tempo, una ventina d’anni, ma alla fine li ho letti tutti (ora che conosco un po’ meglio i Paesi Bassi, credo che Jan-Willem avrebbe dovuto includere il classico Autunno del medioevo dello storico Johan huizinga o anche la tesi di dottorato dell’intuizionista l.e.J. Brouwer, Over de Grondslagen der Wiskunde, che ho scovato da un venditore di libri usati e che, in quanto matematico, ho trovato appassionante. Non esistono solo i romanzi).

Prima ho citato lubbers. Qualcuno mi raccontò, all’epoca, una scena esilarante, probabilmente in-ventata, ma che ben illustra un problema inerente

all’uso dell’inglese: molta gente pensa di conoscerlo alla perfezione, ma in realtà raramente è così. È pos-sibile fare grandi discorsi per ore in english, senza per questo conoscerne le sottigliezze. Torneremo su que-sto punto. Per ora, immaginiamo lubbers che pro-nuncia un discorso di benvenuto rivolto a una delega-zione di persone d’affari degli Stati Uniti. Questo di-scorso sarebbe potuto (o dovuto?) essere nella lingua ufficiale dello stato che guidava, a costo di farne fare la traduzione simultanea (gli interpreti esistono per questo). Invece no: lubbers sapeva l’inglese! Who needs a translator? Per incitare gli statunitensi a inve-

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Storie vereJohn Richards, un giornalista di Boston, nella contea del Lincolnshire, nel Regno Unito, detestava l’uso scorretto dell’apostrofo in inglese, così nel 2001 ha aperto un sito autoeleggendosi presidente della Società per la protezione dell’apostrofo, per aiutare gli anglofoni a usarlo correttamente. “Quando un giornale ha parlato di me sono stato inondato di lettere di supporto”, racconta Richards, “non solo da tutto il Regno Unito, ma anche da Australia, Stati Uniti, Francia, Svezia, Hong Kong e Canada”. Ora ha annunciato il suo ritiro: “Noi e i nostri molti sostenitori abbiamo fatto del nostro meglio”, ha dichiarato, “ma l’ignoranza e la pigrizia dei tempi moderni hanno vinto!”. Richards, che ha 96 anni, pensa però di dare vita a un’iniziativa simile per difendere la virgola: “Se ne fa un uso orrendo”.

glese e che il problema sarebbe stato risolto. Avrebbe potuto insegnare con eleganza e precisione, magari perfino con l’accento dello Yorkshire. Ma non è detto. Infatti, le semplici difficoltà di traduzione nascondo­no un altro problema, più profondo. La maggior parte dei trattati di linguistica cominciano con un’osserva­zione cruciale: una lingua non descrive il mondo, crea un mondo. Ferdinand de Saussure faceva notare che una lingua presuppone due ritagli (découpages), entrambi altrettanto arbitrari: nel reale, la massa in­forme delle sensazioni che si offrono a noi, ritagliamo delle cose o dei fatti; e, nella variazione continua dei suoni, ritagliamo dei fonemi. Dopodiché ci arrangia­mo a stabilire una corrispondenza tra le cose e gli ac­costamenti di fonemi.

Ma se ogni lingua crea un mondo, cosa significa l’operazione del passare dall’una all’altra? Significa emigrare dal mondo a noi familiare, che abbiamo co­struito a fatica, dai primi balbettii dell’infanzia fino agli ultimi tocchi dati con l’aiuto degli scrittori e dei pensatori della nostra area linguistica; emigrare, sen­za armi né bagagli, verso un mondo irrimediabilmen­te vago in cui le cose hanno un contorno impreciso, in cui non sappiamo bene cosa diciamo né se ciò che diciamo è vero, come avrebbe aggiunto Bertrand Russell.

Per questo non posso fare a meno di guardare con perplessità questo movimento che sembra travolge­re tutte le università del mondo spingendole verso l’insegnamento in inglese. Posso capirlo quando si tratta di scienze esatte: perfino in Francia, dove è quasi illegale frequentare una lingua diversa da quel­la di Voltaire, ho assistito, alla vecchia École po­lytechnique di rue Descartes, a Parigi, a seminari di fisica matematica in inglese. Fare dell’astrofisica nella lingua di Hubble, perché no? Una stella è una stella è una stella.

Ma, a quanto pare, presto dovrò insegnare in in­glese la letteratura e la cultura francesi. Lo farò, se è quello che devo fare, ma non senza perplessità. Co­me dirò: “L’état, c’est moi!”, la famosa frase attribu­ita a Luigi XIV? “The state, it is me!” o “I am the state!”? In entrambi i casi non sento la voce del re Sole. E i miei colleghi del dipartimento di storia do­vranno dissertare in inglese di Johan Thorbeke o di Hendrikus Colijn? Nella sua ultima intervista Bernhard, principe dei Paesi Bassi, disse: “Men mag mij zien als een deugniet maar niet als iemand die niet deugt”, che si potrebbe tradurre con “si potrà dire di me che sono un buono a nulla ma non che so­no un poco di buono”. In bocca al lupo a chi deve tra­durre su due piedi questa frase, nel corso di una lezione in inglese. E sarebbe ancora più comico se toccasse a un professore olandese a uso di altri olandesi.

No so se gli olandesi che passano con tanta facilità all’inglese disprezzano la loro lingua o se, semplice­mente, non ci hanno riflettuto abbastanza. In ogni caso, viene voglia di dirgli che trascurare o sminuire una lingua significa intaccare ciò che c’è di più pre­zioso in una nazione. Think about it. u cv

stire nei polder, si mise a esaltare le virtù – assoluta­mente reali – degli imprenditori batavi. In olandese imprenditore si dice ondernemer, che in inglese si tra­duce alla lettera con undertaker. Il problema è che undertaker ha un senso molto preciso in inglese: è l’impresario delle pompe funebri. Gli investitori ascoltarono sbalorditi un capo di governo fare l’elo­gio dei beccamorti del suo paese. Si saranno guardati tra loro con le sopracciglia aggrottate. “È in questo settore che questo signore vuole farci investire? Si muore molto, qui? (Ma non sono stati loro a legalizza­re l’eutanasia?)”.

Naturalmente questa storia è troppo bella per es­sere vera. Ma come dicono gli italiani, se non è vera, è ben trovata. Illustra bene gli scogli di questa illusione che abbiamo tutti di parlare bene inglese solo perché siamo circondati da film, serie tv, turisti, canzoni che non smettono di sciorinare frasi in english. Però quan­do ci esprimiamo in questa lingua, chi parla? Ho co­nosciuto colleghi olandesi raffinati e arguti che, quan­do passavano all’inglese, si mettevano a parlare come Benny Hill o Mr. Bean, i quali, a ben vedere, non dice­vano granché. Io stesso, quando tengo corsi in inglese – ne ho dati tanti quando il 30 per cento del mio orario d’insegnamento era riservato al dipartimento di me-dia studies –, esco sempre scontento dalle lezioni. Ho la sensazione di essere stato pesante, perentorio, mai abbastanza sottile.

Eppure ho vissuto e lavorato per tre anni, dal 1995 al 1998, in Inghilterra, prima a Cambridge poi a York, dov’ero ricercatore. È stata un’immersione to­tale: per tre anni ho parlato solo inglese, ho letto solo libri e giornali locali, alla fine pensavo in inglese. Non ho quindi avuto alcuna difficoltà, apparente­mente, nell’insegnare in questa lingua. Ma alla fine delle lezioni mi rimane sempre un senso d’insoddi­sfazione.

Perché? Ho pensato a lungo che fosse solo una questione di parole. Quando, durante la lezione, mi veniva una parola in francese o in olandese, ero obbli­gato a tradurla mentalmente in inglese, il che, alla lunga, è estenuante. La traduzione, peraltro, era spesso approssimativa. Ieri, per esempio, ho utilizza­to la parola “comminatorio” in un testo e l’ho detta in francese. Se avessi dovuto tradurla all’istante in in­glese, di fronte a degli studenti, avrei detto menacing o threatening. Ma entrambi i termini sono un po’ più forti di “comminatorio”, in cui la minaccia è più vela­ta. Questa sfumatura si perde.

A York avevamo una collega giapponese che era appena arrivata dal suo paese e usava tantissimo la parola friend (succedeva vent’anni prima che Face­book rovinasse definitivamente questa parola così bella e commovente: amicizia). Immagino che Aki conoscesse, nella sua lingua materna, le sfumature che separano la semplice conoscenza dall’amico in­timo che si sarebbe buttato nel fuoco per lei. Ma il rullo compressore dell’inglese riduceva tutte quel­le sfumature a friend, che di colpo non significava più niente. Si può ribattere che nel giro di pochi anni Aki avrebbe acquisito tutte le sfumature della lingua in­

Pop

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Scienza

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Le sigarette elettroniche, lanciate poco più di dieci anni fa, sono sem-pre più diffuse. Nel Regno Unito le usano 3,6 milioni di persone e ne-

gli Stati Uniti più di dieci milioni. Ma negli ultimi mesi 47 decessi e 2.200 casi di distur-bi polmonari sono stati associati all’uso del-le sigarette elettroniche negli Stati Uniti, dove i Centri per la prevenzione e il control-lo delle malattie (Cdc) consigliano di evitar-le in attesa dei risultati dell’inchiesta in cor-so. Le autorità sanitarie britanniche, invece, sostengono che svapare sia “del 95 per cen-to più sicuro che fumare”. Quanto sono si-cure, quindi, le sigarette elettroniche?

Linda Bauld, dell’università di Edim-burgo, si sofferma su due questioni centrali: l’ondata di disturbi registrati negli Stati Uniti e l’età degli utenti. Le sigarette elet-troniche sono dispositivi a batteria che va-

porizzano liquidi solitamente composti da nicotina, altre sostanze chimiche e a volte aromi, senza il catrame delle sigarette tra-dizionali. Finora in tutti gli stati del paese tranne l’Alaska sono stati registrati disturbi polmonari associati al vapore inalato. I sin-tomi sono tosse, nausea, diarrea, fiato corto e dolori al torace o all’addome. Ci sono stati anche casi di polmoniti.

Tocoferolo acetatoMa se le sigarette elettroniche sono in circo-lazione da quasi dieci anni, perché i disturbi sono comparsi solo ora? In base a uno stu-dio dei Cdc, i casi potrebbero essere tutti legati a una sostanza chimica spesso pre-sente nei prodotti illegali. Su un campione di 867 persone con disturbi polmonari cau-sati dal vapore, l’86 per cento aveva inalato tetraidrocannabinolo (Thc), il più impor-tante principio attivo della cannabis. È pro-babile che i liquidi con il Thc siano stati comprati sul mercato nero, spiega Bauld.

Il Thc non causa in sé danni ai polmoni, e infatti nei fumatori di cannabis non sono stati rilevati, ma spesso viene mescolato ad altre sostanze chimiche. Il principale indi-ziato è il tocoferolo acetato, una forma sin-tetica della vitamina E rilevata in tutti e 29 i

campioni prelevati dai polmoni di persone con disturbi legati al vapore.

Questo potrebbe spiegare perché nel Regno Unito la situazione è diversa. L’Unio-ne europea ha infatti vietato per precauzio-ne molti ingredienti delle sigarette elettro-niche, tra cui le vitamine. Ma il paese non è del tutto immune ai problemi. Dal 15 no-vembre l’agenzia britannica per la sicurezza dei farmaci ha ricevuto 74 denunce relative a 216 disturbi potenzialmente associati alle sigarette elettroniche, anche se sono ancora da confermare.

Negli Stati Uniti la maggior parte dei di-sturbi polmonari si è manifestata in perso-ne che avevano meno di 24 anni. In base a un sondaggio recente, il 28 per cento degli studenti delle superiori fuma sigarette elet-troniche. L’azienda Juul Labs è sotto accusa per alcuni aromi che attirerebbero i ragazzi e perché pubblicizza i suoi prodotti definen-doli alla moda. Secondo tutti i ricercatori che New Scientist ha contattato nel paese, i ragazzi e chi non ha mai fumato dovrebbero evitare le sigarette elettroniche. Per i bri-tannici, invece, l’assenza del catrame rende queste sigarette “del 95 per cento più sicu-re” (il 5 per cento di rischio è legato alle so-stanze tossiche presenti in lievi quantità nel vapore, che potrebbero avere effetti a lungo termine sulla salute).

I Cdc statunitensi avvertono che la nico-tina può danneggiare lo sviluppo del cervel-lo degli adolescenti, e da un sondaggio è emerso che i giovani “svapatori” hanno il doppio della probabilità di diventare fuma-tori. Robert Tarran, dell’università del North Carolina, sostiene che il dato del 95 per cento non abbia senso “perché nessuno conosce le concentrazioni esatte delle so-stanze chimiche nei polmoni”. L’équipe di Tarran ha individuato nei campioni prele-vati dai polmoni di persone che usano le si-garette elettroniche i biomarcatori tipici di chi soffre di enfisema, una patologia che causa fiato corto e riduce l’aspettativa di vi-ta. Piuttosto, le sigarette elettroniche po-trebbero essere uno strumento utile per chi vuole smettere di fumare. Uno studio pub-blicato all’inizio dell’anno ha stabilito infat-ti che funzionano meglio di altre terapie sostitutive della nicotina.

Per chi fuma, quindi, il passaggio alle sigarette elettroniche potrebbe essere una buona idea. Tutti gli altri, invece, dovrebbe-ro preoccuparsi dei rischi sconosciuti del vapore. “Ci sono troppe cose che ancora non sappiamo”, avverte Tarran. u sdf

I possibili rischi delle sigarette elettroniche

Negli Stati Uniti negli ultimi mesi ci sono stati 47 morti e 2.200 casi di disturbi polmonari. Potrebbero essere legati a sostanze chimiche comprate sul mercato nero

Jessica Hamzelou, New Scientist, Regno Unito

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108 Internazionale 1336 | 6 dicembre 2019

salute

Ragazzi e smartphone Secondo una ricerca pubblicata su Bmc Psychiatry, gli smart-phone possono indurre dipen-denza nei ragazzi e turbare la loro salute mentale. Analizzan-do i dati di 41 studi diversi è emerso che circa un bambino o adolescente su quattro fa un “uso problematico” dello smart phone, che a sua volta sa-rebbe associato a un rischio tre volte maggiore di depressione, ansia o disturbi del sonno. New Scientist invita però a evitare allarmismi eccessivi perché la ricerca ha delle carenze. Per esempio, gli studi si basano su questionari che si limitano a in-dicare alti livelli di uso del di-spositivo, senza approfondire la questione della dipendenza. Inoltre, gli autori parlano di as-sociazione tra uso eccessivo del cellulare e salute mentale, e questo non implica necessaria-mente un rapporto di causa ed effetto. Quindi prima di trarre conclusioni serviranno degli studi più approfonditi.

Biologia

I delfini vanno a destra

I delfini preferiscono il fianco destro, con poche eccezioni. L’annuncio viene da alcuni ricercatori che hanno studiato il comportamento del Tursiops truncatus a Bimini, alle Bahamas. Questi mammiferi marini hanno una tecnica di caccia particolare: nuotano a circa un metro dal fondale e cercano la preda nella sabbia grazie a un sistema

di ecolocazione, usando cioè l’eco degli ultrasuoni. Quando la individuano, infilano il muso nella sabbia per catturarla. Secondo la ricerca, nella grande maggioranza dei casi i delfini si tuffano nella sabbia sul fianco destro, cioè tenendo l’occhio destro verso il basso. Su 27 esemplari solo uno preferiva il fianco sinistro, ma aveva una pinna pettorale anomala. È probabile che i tursiopi preferiscano usare l’occhio destro perché questo permette al cervello di analizzare meglio lo stimolo visivo. Sembrerebbe quindi che la preferenza per il lato destro sia più diffusa tra i delfini che tra gli esseri umani (circa il 10 per cento è mancino). La preferenza per un lato è diffusa tra molti animali. Per esempio, i gorilla e gli scimpanzé sono destrimani, mentre gli oranghi sono mancini. La preferenza per un lato è dovuta alla diversa specializzazione degli emisferi cerebrali. u

Royal Society Open Science, Regno Unito

Il pianeta e la nana bianca Per la prima volta è stato osservato un pianeta associato a una nana bianca (nel disegno), una stella di piccole dimensioni molto compat-ta, con un’alta densità e gravità superficiale. La stella, chiamata Wdj0914+1914, si trova nella costellazione del Cancro e nella sua orbita c’è un pianeta gigante gassoso, simile a Nettuno. Secondo Nature, il pianeta sta perdendo materiale, che si accumula in parte in un disco intorno alla stella.

astronomia

salute

Ricoveri da smog A ogni aumento della concen-trazione di polveri sottili pm 2,5 corrisponde un aumento dei ri-coveri in ospedale per problemi cardiaci e polmonari, morbo di Parkinson, diabete e altre ma-lattie. I dati del programma sa-nitario pubblico Medicare, negli Stati Uniti, indicano che tra le persone di più di 65 anni un au-mento di un microgrammo per metro cubo di pm 2,5 causa 2.050 ricoveri in più, per un co-sto di 31 milioni di dollari. I rico-veri aumentano anche per ma-lattie finora non associate alle polvere sottili, come setticemia, insufficienza renale e infezioni urinarie e cutanee, scrive il Bri-tish Medical Journal.

In BReve

Salute Nelle Filippine le infe-zioni da hiv sono ancora poche rispetto ad altri paesi asiatici, ma tra il 2010 e il 2018 sono au-mentate del 203 per cento , il tasso di crescita più alto al mon-do. Secondo The Lancet, la crisi è dovuta alla scarsa prevenzione e alla discriminazione della co-munità lgbt. Anche le politiche contro la droga del presidente Rodrigo Duterte rendono più difficile la lotta al virus. Nella fo-to: una cellula attaccata dall’hiv Demografia La peste di Giusti-niano non avrebbe causato una crisi demografica. Finora si pen-sava che l’epidemia avesse spaz-zato via da un quarto a metà del-la popolazione della regione mediterranea tra il 541 e il 750. Ma uno studio pubblicato su Pnas smentisce il crollo demo-grafico. Sono stati analizzati vari indicatori tra cui la diffusione delle monete, le sepolture, i pol-lini, i testi scritti e le leggi.

tecnologIa

automobilibloccate Le automobili che si guidano da sole si possono bloccare con il maltempo. Piogge e nevicate violente causano un malfunzio-namento dei sensori, scrive Physics Today. Per risolvere il problema si potrebbero miglio-rare gli strumenti, tra cui foto-camere, radar e sensori a infra-rossi. Si potrebbero anche dota-re i veicoli di sistemi d’intelli-genza artificiale per la naviga-zione. Infine, le previsioni me-teo dovranno essere aggiornate più frequentemente di ogni quarto d’ora, il limite attuale.

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Scienza

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Il diario della Terra

u “Aiuto, sono a cena con un negazionista del cambiamen-to climatico”, scrive Grist, che fornisce qualche consiglio su come comportarci quando abbiamo a che fare con perso-ne scettiche riguardo al riscal-damento globale. “Le Nazioni Unite hanno avvertito che per evitare la catastrofe climatica bisogna rafforzare gli obiettivi dell’accordo di Parigi del 2015, quindi forse è arrivato il mo-mento di provare a convincere il nostro zio negazionista. Ma cosa possiamo fare per evitare che la conversazione sia un di-sastro?”. Secondo Grist, una conversazione sul clima non è necessariamente destinata al fallimento, perché le persone possono cambiare idea, anche se lentamente.

Il New York Times pub-blica una guida interattiva su come migliorare le nostre ca-pacità di persuasione. Per esempio, possiamo allenarci dialogando (in inglese) con Angry Uncle Bot, una chat au-tomatica che simula un con-fronto con uno zio dalle opi-nioni discutibili. La guida pro-pone cinque passi per favorire una conversazione serena. Primo, esordire con una do-manda che mostri un reale in-teresse per le opinioni del no-stro interlocutore, senza pre-giudizi. Secondo, prendere sul serio la sua risposta. Terzo, se-parare le argomentazioni dal-le emozioni del nostro interlo-cutore. Questo ci permette, quarto passo, di trovare qual-cosa su cui si è d’accordo. Infi-ne, ultimo passo, possiamo fi-nalmente raccontare un aned-doto o una storia per comin-ciare ad avanzare il nostro punto di vista.

Un dialogodifficile

Epidemiadi morbilloin Rdc

Il nostro clima

Cicloni Almeno quattro per-sone sono morte nel passaggio del tifone Kammuri, con venti superiori ai 200 chilometri all’ora, sull’isola di Luzon, nel-le Filippine. Centinaia di mi-gliaia di persone sono state co-strette a lasciare le loro case.

Terremoti Un sisma di ma-gnitudo 5 sulla scala Richter ha causato la morte di una per-sona al confine tra la Cina e il Vietnam. Altre scosse sono state registrate sull’isola greca di Creta (6,1), in Nuova Zelan-da (5,9) e in Costa Rica (5). u Il bilancio del terremoto di ma-

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gnitudo 6,4 che ha colpito l’Al-bania è salito a 51 vittime.

Morbillo Cinquemila persone sono morte dall’inizio dell’an-no per un’epidemia di morbillo nella Repubblica democratica del Congo. Una campagna di vaccinazione lanciata a set-tembre ha raggiunto solo il 50 per cento dei bambini.

Smog Scuole e università sono rimaste chiuse a Teheran e in altre regioni dell’Iran a causa del grave inquinamento.

Piogge Le piogge torrenziali che si sono abbattute sul sudest della Francia hanno causato sei vittime.

Plastica Nel 2018 i supermer-cati britannici hanno messo in commercio 903mila tonnellate di plastica, con un aumento di 17mila tonnellate rispetto al

2017, rivelano Greenpeace ed environmental investigation agency. La crescita è dovuta, almeno in parte, alla vendita di buste per la spesa riutilizzabili in sostituzione dei sacchetti monouso, scrive il Guardian.

Pecore Il naufragio di un cargo nel mar Nero, al largo della Ro-mania, ha causato la morte di più di 14mila pecore. Solo 181 sono state salvate.

Cervi Un cervo è stato ritrova-to morto in Thailandia con set-te chili di plastica e altri rifiuti nello stomaco (nella foto).

Faglie Nella baia di Monterey (nella foto), in California, negli Stati Uniti, è stato individuato un sistema di faglie sottomarine finora sconosciuto. La scoperta è avvenuta grazie a un cavo di fibra ottica già presente, che durante dei lavori di manutenzione è stato usato per monitorare il fondale marino. I ricercatori hanno usato la tecnica das di rilevamento acustico distribuito, che registra movimenti anche piccoli usando impulsi di luce laser. È stato così possibile osservare un terremoto e scoprire il sistema di faglie. Secondo Science, l’attuale rete di cavi sottomarini potrebbe essere usata per monitorare l’attività sismica e studiare i fondali, le maree e i fenomeni meteorologici estremi.

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u La costa meridionale della Corea del Sud è frastagliata, pie-na di insenature e isole. Ma quest’immagine, scattata dal sa-tellite Landsat 8 della Nasa, mo-stra anche delle curiose forme geometriche in mare vicino a Tongyeong, una città con 140mila abitanti nella provincia del Gyeongsang Meridionale.

Si tratta di allevamenti di ostriche. I molluschi sono alle-vati appesi a dei fili, tesi tra alcu-ne boe, vicino alla superficie dell’acqua. La tecnica permette alle ostriche di crescere rapida-

mente sviluppando conchiglie molto resistenti.

La Corea del Sud è il secon-do produttore mondiale di ostri-che dopo la Cina. Circa l’80 per cento della produzione naziona-le viene da Tongyeong, che esporta i molluschi negli Stati Uniti, in Giappone, in Canada, a Hong Kong e nell’Unione euro-pea. La stagione della raccolta è l’autunno, e quest’anno le previ-sioni sono buone. Le piogge tor-renziali dell’estate hanno infatti portato grandi quantità di so-stanze nutritive, favorendo la

crescita delle ostriche. L’alleva-mento dei molluschi ha contri-buito allo sviluppo economico di Tongyeong, ma ha anche avuto conseguenze negative sull’am-biente. Nelle spiagge della zona sono state infatti rilevate grandi quantità di frammenti di polisti-rene espanso sinterizzato (Eps) e di microplastiche provenienti dalle boe.

Altre forme di acquacoltura diffuse nella provincia del Gye-ongsang sono gli allevamenti di alghe, cozze, halibut e scorfani. –Adam Voiland (Nasa)

Le ostriche sono allevate appese a dei fili, tesi tra alcune boe, vicino alla superficie dell’acqua. La Corea del Sud ne è il secondo produttore mondiale dopo la Cina.

Il pianeta visto dallo spazio 06.11.2019

Allevamenti di ostriche in Corea del Sud

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112 Internazionale 1336 | 6 dicembre 2019

Economia e lavoro

Da tempo una valanga di nuovi libri e articoli annuncia la fine del capitalismo o il suo supera-mento. C’è una strana somi-

glianza tra queste pubblicazioni e quelle uscite negli anni novanta che prefiguravano la “fine della storia” hegeliana. Quella teo-ria si è dimostrata sbagliata. E io ritengo che anche quella più recente sia sostanzialmen-te sbagliata e rappresenti un’errata diagno-

si del problema. I fatti dimostrano che il capitalismo non è affatto in crisi. È più forte che mai, sia dal punto di vista della sua dif-fusione geografica sia per la sua espansione in altri ambiti, come il tempo libero o i so-cial network, in cui ha creato mercati del tutto nuovi, mercificando cose che prima non erano oggetto di transazione.

Dal punto di vista geografico, oggi il ca-pitalismo è il sistema di produzione domi-nante (se non l’unico) in tutto il mondo: in Svezia il settore privato impiega più del 70 per cento della forza lavoro e negli Stati Uniti più dell’85 per cento. In Cina le azien-de private (organizzate sul modello capita-lista) producono l’80 per cento della ric-chezza. Le cose ovviamente non stavano così prima della caduta del comunismo nell’Europa orientale e in Russia, o prima

che la Cina si lanciasse nella sua – per dirla con un eufemismo – “trasformazione”.

Grazie anche alla globalizzazione e alle rivoluzioni tecnologiche sono stati creati mercati prima inesistenti: per esempio l’enorme mercato dei dati personali, i mer-cati degli affitti di automobili o case private (che non erano un capitale prima della cre-azione di Uber, Lyft e Airbnb) e il mercato degli spazi per i lavoratori autonomi (inesi-stenti prima di WeWork e aziende simili).

L’importanza sociale di questi nuovi mercati è che dando un prezzo a cose che in precedenza non ne avevano trasformano semplici beni in merci con un valore di scambio. Quest’espansione non è sostan-zialmente diversa dall’espansione del capi-talismo che avvenne nell’Europa del sette-cento e dell’ottocento, quando si cominciò a produrre a scopi commerciali generi ali-mentari, abiti, scarpe e altri beni in prece-denza realizzati dalle famiglie.

Con la creazione di nuovi mercati, a queste merci e attività viene imposto un “prezzo ombra”. Questo non significa che tutti noi cominciamo immediatamente ad affittare le nostre case o a usare le nostre automobili come taxi, ma significa che sia-

Il capitalismo non è affatto in crisi

Il sistema capitalista è criticato perché distribuisce iniquamente i vantaggi della globalizzazione e invade ambiti un tempo esclusi dal commercio. Ma domina ancora in tutto il mondo

Branko Milanović, The Guardian, Regno Unito

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Internazionale 1336 | 6 dicembre 2019 113

mo consapevoli delle perdite finanziarie che accumuliamo non facendolo. Quando ci saranno le condizioni giuste (perché la nostra situazione è cambiata o magari per­ché il prezzo relativo aumenta), molte per­sone entreranno nei nuovi mercati e di con­seguenza li rafforzeranno.

Questi nuovi mercati sono frammenta­ti, nel senso che raramente richiedono un’intera giornata di lavoro continuativo. La mercificazione va quindi di pari passo con la cosiddetta gig economy (economia dei lavoretti). In una gig economy siamo for­nitori di servizi (per esempio possiamo consegnare la pizza il pomeriggio) e allo stesso tempo acquirenti di servizi un tem­po non monetizzati. Prendersi cura di an­ziani e bambini, preparare e consegnare pasti a domicilio, fare shopping, fare le pu­lizie a casa, portare fuori il cane e via di seguito erano tutte attività in passato svol­te dalla famiglia.

Quest’espansione del capitalismo po­trebbe porre interrogativi sul ruolo e perfi­no sulla sopravvivenza della famiglia. Al di là dell’educazione dei figli, il principale fondamento economico della famiglia era il sostegno reciproco e la condivisione – di­storta dal punto di vista del genere – di atti­vità non commercializzate. Man mano che tutto questo va erodendosi, possiamo aspettarci nel lungo periodo un aumento di famiglie composte da un’unica persona e del numero di persone che non avranno mai un partner né si sposeranno mai. Già oggi nei paesi nordici un numero tra il 30 e il 40 per cento delle famiglie è composto da una sola persona.

L’ascesa del populismoQuindi se il capitalismo si è diffuso tanto in tutte le direzioni, perché parlare di crisi? Perché ci concentriamo sul malessere delle classi medie occidentali e sull’ascesa del populismo. Tuttavia l’insoddisfazione nei confronti del capitalismo globale non è uni­versale: un sondaggio commissionato dalla società di ricerche YouGov ha mostrato un forte sostegno alla globalizzazione in Asia, mentre negli Stati Uniti e in Francia il soste­gno è minimo.

Il malessere occidentale è il prodotto di una distribuzione disomogenea delle con­quiste della globalizzazione. Quando negli anni ottanta cominciò la globalizzazione, in occidente fu “venduta” politicamente – in­sieme alla “fine della storia” – sulla base del presupposto che avrebbe avvantaggiato in

modo sproporzionato i paesi più ricchi. L’esito è stato opposto. A beneficiarne è sta­ta soprattutto l’Asia, e in particolare i suoi paesi più popolosi: la Cina, l’India, il Viet­nam e l’Indonesia. In Europa e negli Stati Uniti i beneficiari sono stati pari all’1 per cento. Questo divario tra le aspettative del­le classi medie e la crescita ridotta dei loro redditi ha alimentato l’insoddisfazione nei confronti della globalizzazione e, per esten­sione, del capitalismo.

C’è tuttavia un altro tema che sembra riguardare la maggioranza dei paesi e ha a che fare con il funzionamento dei sistemi politici.

In linea di principio la politica, come il tempo libero, non è mai stata considerata un’area di transazioni di mercato. Eppure entrambi lo sono diventati. Questo ha reso i politici più corrotti. Anche se non sono coinvolti in episodi di corruzione esplicita nel corso del loro mandato, i politici tendo­no a usare i contatti acquisiti per guada­gnare soldi in seguito. Questa mercifica­zione ha suscitato sentimenti di diffuso cinismo e disincanto nei confronti della politica e dei politici tradizionali.

Anche se spesso si ritiene che la politica intesa come capacità imprenditoriale ri­guardi solo i paesi meno sviluppati, oggi quest’idea si è diffusa anche in Europa. È altrimenti difficile spiegare l’evoluzione di figure come Matteo Salvini, l’ex ministro dell’interno italiano di estrema destra. I legami politici possono anche essere usati come una risorsa di valore nel corso delle carriere politiche.

Prendiamo il caso di José Barroso, ex presidente della commissione europea che è poi andato a lavorare alla banca d’affari Goldman Sachs. Questa mercificazione è ciò che Francis Fukuyama, autore del sag­gio La fine della storia e l’ultimo uomo (Riz­zoli 2003), definisce “altruismo recipro­co”: non è illegale, ma è uno scambio di favori dilazionato nel tempo.

La crisi quindi non riguarda il capitali­smo in sé. Si tratta di una crisi provocata dagli effetti disuguali della globalizzazione e dall’espansione del capitalismo ad aree tradizionalmente considerate non idonee alla commercializzazione. Il capitalismo è diventato troppo potente e, in regioni co­me l’Europa, è in rotta di collisione con credenze profondamente radicate. Se non sarà controllato e il suo “campo d’azione” non sarà limitato a quello di un tempo, continuerà a espandersi ad ambiti non an­cora commercializzati. u gim

Branko Milanović è un economista sta-tunitense di origine serba specializzato nello studio delle disuguaglianze. In Italia ha pubblicato Ingiustizia globale. Migrazio­ni, disuguaglianze e il futuro della classe media (Luiss University Press 2017).

La politica e il tempo libero non sono mai stati considerati aree di transazioni di mercato. Tuttavia entrambi lo sono diventati

Da sapere Disparità crescentiRapporto tra lo stipendio dell’amministratore delegato e quello dei dipendenti nelle principali aziende statunitensi

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Page 114: Internazionale - 06 12 2019

giappone

negozi chiusi di notte L’invecchiamento della popola-zione in Giappone produce ef-fetti negativi anche sui konbini, i tradizionali negozi sparsi in tut-to il paese – in particolare nelle grandi città – che sono aperti 24 ore su 24 e permettono anche in piena notte di prelevare al ban-comat, pagare le bollette, spedi-re un pacchetto o andare in ba-gno. Come spiega la Süd-deutsche Zeitung, le grandi catene che gestiscono i konbini hanno deciso di chiudere molte filiali dalla sera tardi fino all’alba perché non trovano persone di-sposte a lavorare di notte. “Dal momento che la popolazione giapponese diminuisce e invec-chia, si riduce il numero di per-sone che accetta un lavoro in questi negozi e cambiano le abi-tudini dei consumatori”.

in breve

Aziende Il 3 dicembre Larry Page e Sergey Brin, i fondatori di Google, hanno annunciato che lasceranno i loro incarichi nell’Alphabet, la società madre del motore di ricerca. Attual-mente Page è amministratore delegato dell’Alphabet, mentre Brin è presidente. Il nuovo am-ministratore delegato dell’Al-phabet sarà Sundar Pichai, che attualmente guida Google. Page e Brin resteranno nel consiglio d’amministrazione.Germania La casa automobili-stica Audi licenzierà 9.500 di-pendenti, pari al 10 per cento del personale, entro il 2025.

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Il 2 dicembre il presidente degli Stati uniti Donald trump ha dichiarato che potrebbe introdurre dei dazi sulle importazioni dalla francia come ritorsione contro la tassa sulle entrate delle aziende digitali voluta da Parigi. Secondo la Casa Bianca, la tassa penalizza soprattutto i colossi informatici statunitensi, come Amazon e Google. Dopo un’indagine durata un mese, scrive il New York Times, “l’ufficio del rappresentante commerciale degli Stati uniti è arrivato alla conclusione che la tassa digitale francese, in vigore dal 1 gennaio 2019, discrimina le aziende statunitensi. Per questo l’ufficio raccomanda dei dazi fino al 100 per cento sulle importazioni di alcuni prodotti francesi, tra cui il vino e il formaggio, per un valore complessivo di 2,4 miliardi di dollari”. Parigi ha definito “la minaccia dei dazi ‘inaccettabile’ aggiungendo che con l’europa preparerà una ‘risposta forte’”. Sempre il 2 dicembre trump ha dichiarato che reintrodurrà i dazi sulle importazioni di alluminio e acciaio dall’Argentina e dal Brasile che, secondo la Casa Bianca, “hanno svalutato le loro monete nazionali” per rendere più competitive le esportazioni, danneggiando in particolare gli agricoltori statunitensi. Con l’annuncio, osserva il quotidiano, trump rinnega gli accordi conclusi nel 2018 con i due paesi sudamericani. “Nel marzo dello scorso anno la Casa Bianca aveva escluso l’Argentina e il Brasile dall’applicazione dei dazi sulle importazioni di alluminio e acciaio. Poi nel maggio del 2018 aveva firmato un accordo commerciale con Buenos Aires e Brasília, che si impegnavano a limitare le loro esportazioni annuali di metalli negli Stati uniti”. A questo occorre aggiungere che la svalutazione del peso argentino e del real brasiliano non è il risultato di una precisa volontà dei due paesi, ma dipende dal fatto che da tempo “il Brasile e l’Argentina sono alle prese con gravi problemi economici”. u

Stati Uniti

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immigratisfruttati Il 1 ottobre gli Stati uniti hanno annunciato un divieto d’impor-tazione per i prodotti della Wrp Asia Pacific, un’azienda malese che fabbrica guanti di gomma, giustificandolo con gli abusi su-biti dai dipendenti. Come spie-ga The Diplomat, il divieto colpisce un settore in cui la ma-laysia è leader mondiale con una domanda annuale di circa 300 miliardi di guanti. e accen-de i riflettori sulla condizione dei numerosi lavoratori a basso costo immigrati che sono im-piegati nelle aziende manifattu-riere malesi e arrivano in gran parte dal Bangladesh, dal Nepal e dalla Birmania. “Spesso que-sti lavoratori s’indebitano pe-santemente con gli intermedia-ri che promettono di trovargli un posto in una fabbrica male-se. molti di loro in realtà non ri-cevono l’impiego promesso o fi-niscono per accettare lavori ir-regolari. Spesso, inoltre, non possono lasciare la malaysia perché gli viene sequestrato il passaporto o non riescono a pa-gare tutti i debiti”. Alcuni lavo-ratori bangladesi intervistati dal settimanale giapponese so-stengono di aver pagato più di quattromila dollari a testa agli intermediari prima di partire per la malaysia. I nepalesi, inve-ce, pagano in media 1.400 dol-lari. “Bisogna tener presente che in malaysia il salario mini-mo mensile è di circa 265 dolla-ri” e si lavora in media dodici ore al giorno, spesso senza il ri-poso settimanale.

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114 Internazionale 1336 | 6 dicembre 2019

Economia e lavoro

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Internazionale 1226 | 13 ottobre 2017 93

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Perché i gatti sembrano mattiSotto la pioggiacon Aldo&RosaI compiti a casa sono utili?

Dicembre 2019numero 3

Il meglio dellastampa di

tutto il mondoper bambine

e bambini3,00 €

È uscito il nuovo Internazionale Kids! In questo numero: la passione per i monopattini elettrici, a caccia di alberi di Natale, gatti che sembrano matti, musei spettacolari, pattinaggio sul ghiaccio e molto altro Ogni mese articoli, giochi e fumetti dai giornali di tutto il mondoper bambine e bambini

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Internazionale 1336 | 6 dicembre 2019 119

Strisce

Un terzo dell’energia mondiale deriva da risorse rinnovabili.

…peccato che gli altri due terzi

vengano usati per caricare video

di gatti.

è una bella

notizia…

Non riesco a capire come mai mangiate questa spazzatura...

...quando c’è tanto buon cibo.

Crottin de Chavignol saltato con verdure

e pancetta, Trota con burro nero e capperi...

Ah ah!guarda

che fanno con i cetrioli!

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Streghetta Stronzetta Si

Sentiva audace quella Sera.oh, il mio

video di Youtube

ha avuto un Sacco di

viSualizzazioni!

. . . e un Sacco

di commenti .

non audace

fino a quel punto.

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Elicriso + Rosa Mosqueta

L’unione che fa la forza!

Olio Vergine Biologico

w w w . m o s q u e t a s . c o m

30° anniversario

Rose d’ Or

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L’oroscopo

Rob Brezsny

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si turbato e agitato. Cohen rispose di no. “Quando mi alzo la matti-na”, disse, “la mia unica preoccu-pazione è capire se sono in uno sta-to di grazia”. Sorpreso, l’intervista-tore gli chiese: “Cosa intende per stato di grazia?”. Cohen lo descris-se come l’equilibrio che gli per-metteva di cavalcare il caos che lo circondava. Sapeva di non poter mettere ordine in questo caos, e sarebbe stato presuntuoso anche solo provarci. Il suo stato di grazia era più come scendere con gli sci da una collina, aggirando gli osta-coli imprevedibili del terreno. Ti propongo la definizione di Cohen, Leone, perché penso che anche tu dovresti coltivare questo tipo di stato di grazia. Scommetto che sti-molerà la tua creatività in un modo che ti sorprenderà e ti delizierà.

VERGINE

Il poeta Juan Felipe Herrera sostiene che sia importante

disintossicare regolarmente la no-stra mente. Secondo lui, il modo migliore per farlo è sognare a occhi aperti, abbandonarci senza censu-re alle nostre fantasie, immaginare senza inibizioni cose che magari nella vita reale non faremo mai. Giocare liberamente con queste immagini è una gioia terapeutica, un dono che facciamo a noi stessi. È un’abile strategia per essere sicu-ri che non stiamo nascondendo qualche segreto a noi stessi. È il momento giusto per praticare quest’arte, Vergine.

BILANCIA

In conformità con i presagi astrali, ti offro una riflessio-

ne tratta dal blog di Riverselkie: “Lascia che la tua vita sia guidata dalle cose che producono la più pura e segreta felicità, senza pre-occuparti di cosa pensano gli altri. Alimenta gli assurdi capricci della tua anima e crea, senza immagina-re altro pubblico che te stesso. Quello che è struggente per te commuoverà anche gli altri. Accet-ta quello che ti piace di te e le per-sone giuste arriveranno”.

SCORPIONE

“Giuro che sono diventato santo aspettando”, scriveva

il poeta greco Odysseas Elytis nel-

la sua composizione Tre volte la ve-rità. Secondo la mia lettura dei presagi astrali, forse ti trovi in una situazione simile e faresti bene ad accettare con calma questo mo-mento d’immobilità. Considera la possibilità che aspettare sia la cosa migliore da fare non solo per te ma per tutte le persone coinvolte.

CAPRICORNO

Non puoi sfuggire del tutto al tuo passato. Non puoi

svincolarti completamente dalla sua presa per proiettarti verso il fu-turo con illimitata libertà. Ma puoi sicuramente sganciarti da una par-te del tuo passato. Le prossime set-timane saranno un ottimo mo-mento per farlo: potrai pagare una quota del tuo debito karmico e li-berarti di un bagaglio emotivo or-mai logoro.

ACQUARIO

Al drammaturgo August Strindberg, dell’Acquario,

non interessavano molto le perso-ne che “rigurgitano quello che hanno imparato nei libri”. Lo an-noiavano le storie raccontate più volte, lo spazientivano la propa-ganda mascherata da informazio-ne e le banalità sentimentali ma-scherate da profonde intuizioni. Moriva dalla voglia di scoprire i se-greti che nessuno conosceva, le co-se uniche che le persone comuni sapevano e provavano. Era uno studioso della “storia naturale del cuore umano”. Te lo dico, mio caro Acquario unico nel tuo genere, perché è il momento ideale per fa-re tua la visione di Strindberg.

PESCI

“Non è divertente essere in-namorati di un’ombra”,

scriveva la poeta Edna St. Vincent Millay, nonostante si fosse dedica-ta a lungo a quest’attività poco di-vertente e l’avesse anche sfruttata per comporre un certo numero di poesie decorose, anche se un po’ cupe. In allineamento con i presagi astrali, Pesci, t’invito a smettere di amare le ombre. Le prossime setti-mane saranno il periodo ideale per incanalare la tua passione verso solide realtà e per riversare la tua adorazione su persone imperfette ma interessanti.

SAGITTARIO“Il mio più grande pregio è la capacità di cambiare continuamente”, dice l’attrice e attivista Jane Fonda. Forse questa descrizione non è sempre applicabile a te,

ma nelle prossime settimane potrebbe esserlo. Sei destinato a veder premiato il tuo impegno per trasformarti. Mentre cerchi di raggiungere l’obiettivo, tieni a mente queste altre riflessioni di Fonda. 1) Essere saggi significa anche capire quello che non ti serve più e lasciarlo andare. 2) Non è mai troppo tardi per vince-re le tue debolezze. 3) Se te lo consenti, puoi diventare più forte proprio nei punti in cui sei stato ferito. 4) La vera sfida non è es-sere perfetti, ma essere completi. E cosa significa essere com-pleti? Rispettare tutte le tue sfaccettature e inserirle nella tua ri-flessione su come vivere.

COMPITI A CASA

Il male è noioso. Alimentare le paure è un giochino banale. Per saperne di più

vai su: bit.ly/EvilisBoring.

ARIETE

Per comporre questo oraco-lo ho attinto alla saggezza

ribelle di Vivienne Westwood, la stilista che ha introdotto l’estetica punk nella moda. Ecco quattro sue citazioni che nelle prossime setti-mane ti saranno particolarmente utili. 1) Sono in disaccordo con tut-to quello che ho detto in passato. 2) L’unico modo che abbiamo per influire sul mondo è proporre idee impopolari. 3) L’intelligenza è fatta soprattutto d’immaginazione, in-tuito e altre cose che non hanno niente a che fare con la ragione. 4) Sono attratta dalle persone che sono davvero autentiche e che cer-cano sempre di rendere più inte-ressante la loro vita.

TORO

“Sto annegando nelle cose che non ti ho mai detto”, ha

scritto in un messaggio al compa-gno, con cui aveva un rapporto complicato, la famosa truccatrice Alexandra Joseph. Hai anche tu questo problema, Toro? E allora datti da fare! Le prossime settima-ne saranno il periodo ideale per smettere di annegare. Potresti par-lare con sincerità al tuo alleato di quello che provi e pensi, e che fino-ra gli hai tenuto nascosto. Oppure confessargliene solo una parte per vedere come la prende. Una terza possibilità è cercare di capire per-ché gli hai nascosto queste cose. L’hai fatto perché non era abba-stanza ricettivo o perché hai paura di essere sincero? Ti consiglio di partire dalla terza opzione per poi passare alla seconda.

GEMELLI

In questo oroscopo ti offro un esempio di poesia che a

una persona razionale come te sembrerà sdolcinata. Penserai che sono sotto l’influsso di una versio-ne dell’amore più melensa rispetto a quella che solitamente prediligo. Ma c’è del metodo nella mia follia: sospetto che tu abbia bisogno di una piccola spinta emotiva, di una scossa di dolcezza, per attivare il tuo desiderio di fusione e andare alla ricerca della magia amorosa. Perciò consenti al tuo cuore di commuoversi davanti a questi ver-si del poeta Rabindranath Tagore: “La mia anima è illuminata dalla tua infinità di stelle. Il tuo mondo si è abbattuto su di me come un di-luvio. I fiori del tuo giardino sboc-ciano nel mio corpo”.

CANCRO

Pronuncia questa frase e vedi l’effetto che fa: “Nei

prossimi diciassette giorni mi sfor-zerò di considerare i miei problemi come opportunità che mi danno l’occasione di liberarmi della mia sofferenza e di trasformarmi nella persona che vorrei essere”. E poi pronuncia quest’altra frase: “Nei prossimi diciassette giorni mi di-vertirò a immaginare che i miei punti deboli siano il segno di po-tenziali punti forti e talenti che non ho ancora sviluppato”.

LEONE

Una volta un intervistatore chiese al cantautore Leo-

nard Cohen se per stimolare la sua creatività avesse bisogno di sentir-

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L’ultima

Le regole Candele1 Ne hai comprata una al cioccolato e cannella? Mai fare shopping di candele quando hai fame. 2 Una cena a lume di candela non serve a niente se poi sbagli il vino. 3 Se ne accendi una in chiesa senza pagarla, puoi scordarti di andare in paradiso. 4 Un candelabro d’argento del settecento non è romantico: è spettrale. 5 Se non riesci proprio a smettere di toccarla, fai portare via la candela dal tuo tavolo. [email protected]

FIN

CK

JEN

NIN

GS,

RE

GN

O U

NIT

OL

EC

TR

R, P

AE

SI B

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I

Sciopero per il clima. “Salvare l’umanità?!”. “Hai alzato l’asticella molto in alto per noi altri…”. “Sono qui sotto”.

PIR

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O, ST

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Boris Johnson accusato di strumentalizzare politicamente l’attentato sul ponte di Londra.

SO

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CIÉ

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“Gli immigrati stanno rovinando questo paese”. “Non dirlo a me”.

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