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Iris Parrini1 (Coordinatore), Iris Parrini 1 (Coordinatore), Autori: Luigi Tarantini2, Giulia Russo 3, Filippo De Renzi 4, Fable Zustovich 5; Massimo Meneguolo6, Tiziana Iannone 7. 1 Cardiologia, Ospedale Mauriziano, Torino 2 Cardiologia Ospedale San Martino ASL 1 “Cadore” Belluno 3 Centro Cardiovascolare – AAS1 Triestina 4 Radioterapia Ospedale San Martino ASL 1 “Cadore” Belluno 5 Oncologia Ospedale San Martino ASL 1 “Cadore” Belluno 6 Urologia Ospedale San Martino ASL 1 “Cadore” Belluno 7 Radioterapia Ospedale San Martino ASL 1 “Cadore” Belluno

Le dimensioni del Problema

Il cancro della prostata rappresenta circa 20% di tutti i tumori ed è il cancro più frequente nei maschi

ultracinquantenni. A causa della diffusione del dosaggio del PSA utilizzato per la diagnosi precoce

ed il conseguente riscontro di forme clinicamente silenti e biologicamente non aggressive è difficile

valutare il ruolo ed il relativo peso epidemiologico dei fattori di rischio in passato correlati alla

insorgenza di tale tumore quali il consumo elevato di carne e latticini, una dieta ricca di calcio (con

conseguente elevata concentrazione di IGF-I ematico) e gli alti livelli di androgeni nel sangue. La

malattia è infatti presente in forma latente nel 15-30% dei soggetti oltre i 50 anni ed in circa il 70%

degli ottantenni, essendo peraltro legata a fattori ereditari solo in una minoranza dei casi (<15%)1.

Pur essendo al primo posto per incidenza, tale neoplasia occupa il terzo posto nella scala della

mortalità (8% sul totale dei decessi oncologici) e nella quasi totalità dei casi interessa i maschi al di

sopra dei 70 anni. Nel nostro Paese la sopravvivenza a 5 anni degli uomini con tumore della prostata

è in costante aumento ed attualmente è pari a 91,4%, più elevata rispetto alla media europea

(83,4%), ed al Nord Europa (85,0%). L’interpretazione di tale fenomeno richiede alcune riflessioni:

- l’ampia diffusione dello screening spontaneo mediante PSA se da un lato espone al rischio

di sovradiagnosi (e iper-trattamento) delle forme latenti clinicamente quiescenti, dall’altro

consente l’anticipazione diagnostica delle forme localizzate ed il conseguente trattamento

definitivo della neoplasia risultante in una prognosi migliore

- il ruolo delle comorbilità nei pazienti anziani

- i possibili effetti collaterali del trattamento della neoplasia e i conseguenti riflessi sulla

morbilità/mortalità non correlata direttamente al tumore

La scelta del trattamento della neoplasia richiede la valutazione dei fattori prognostici legati alla

neoplasia (stadio, grado di Gleason e livelli di PSA), l’età, le comorbilità e l’aspettativa di vita.

Il paziente con neoplasia urologica è spesso un paziente anziano e la presenza di comorbilità non è

evenienza rara come recentemente documentato da Garg in una coorte di 4023 pazienti con

neoplasie urologiche in cui erano frequenti condizioni di rilevanza/rischio cardio-vascolare:

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dislipidemia (82%), l’ipertensione arteriosa (77%), l’obesità (34%), la disfunzione renale cronica

(32%), la cardiopatia ischemica (35%), il diabete (30%)2.

Il ruolo prognostico dell’età e delle comorbilità emerge chiaramente dai dati provenienti dai registri

del mondo reale: nei 3183 uomini con cancro alla prostata non metastatico del Registro Medicare3

dopo un follow up di 14 anni la mortalità cumulativa direttamente legata alla neoplasia era minima

nei pazienti con malattia a rischio basso (3%) e intermedio (7%), era invece sostanziale solo in

quelli con malattia ad alto rischio (18%) non essendo influenzata dal numero di condizioni di

comorbilità (dal 10% all'11% in tutti i gruppi). Viceversa I tassi di mortalità cumulativa per cause non

direttamente connesse al tumore risultavano essere più frequenti e direttamente proporzionali al

numero di comorbilità, essendo rispettivamente pari al 24%, 33%, 46% e 57% per gli uomini con 0,

1, 2 e 3 o più condizioni di comorbilità. Risultati sovrapponibili sono stati riscontrati da Rider4 nei

pazienti del Registro del Cancro della Prostata comprendente il 96% dei casi registrati in Svezia. Nel

gruppo dei 76437 pazienti in trattamento non eradicante il rischio di morire per la progressione della

neoplasia era frequente nelle forme avanzate, al contrario i pazienti con neoplasia a minor rischio

per estensione o aggressività istologica morivano più frequentemente per cause non direttamente

correlate al tumore soprattutto in presenza di altre comorbilità, tra queste una delle principali cause

era quella dovuta a cause cardiovascolari soprattutto nei pazienti in età avanzata. (Figura 1)

Figura 1 - Mortalità cumulativa da carcinoma della prostata, malattie cardiovascolari e altre cause in base all'età e alla categoria di rischio. Le stime sono basate sugli uomini del Registro Nazionale Svedese del Cancro Prostatico dal 1991 al 2009. Gli eventi di mortalità inclusi vanno dal 2006 al 2010. Per la catalogazione delle classi di rischio è stata utilizzata una versione modificata delle categorie di rischio secondo la National Comprehensive Cancer Network: basso rischio = tumore T1-T2, antigene prostatico specifico (PSA) livello <10 ng / ml e punteggio Gleason (GS) ≤ 6; rischio intermedio = tumore T1-T2 e livello di PSA 10- <20 ng / ml o GS = 7; alto rischio = tumore T3 o livello di PSA 20- <50 ng / ml o GS ≥ 8; metastasi regionali = tumore T4 o N1 o livello di PSA 50-100 ng / ml; e metastasi a distanza = tumore M1 o livello PSA I 100 ng / ml. Da Rider ed al 4

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L’eccesso di eventi cardiovascolari nei pazienti con tumore alla prostata è supportato dai numerosi

dati della recente letteratura ed è imputabile al trattamento di deprivazione androgenica (ADT),

come documentato in una recente meta-analisi di studi osservazionali in cui gli uomini con carcinoma

della prostata che impiegavano l'ADT, in particolare se trattati con analoghi dell’ormone stimolante

la gonadotropina (GnRH), presentavano un aumento del 40% del rischio di malattia cardiovascolare

(CVM) non fatale5. È controverso se la cardiotossicità dell'ADT si verifichi nei pazienti con

cardiopatia preesistente o meno. Gli studi che hanno affrontato tale problematica differiscono nei

criteri diagnostici di definizione della cardiopatia, nella selezione dei pazienti e nella durata del follow

up. Alcuni studi suggeriscono che la mortalità specifica per CVM si verifica solo in pazienti con CVM

preesistente6, altri invece hanno rilevato un aumento del rischio cardiovascolare ed un incremento

dell’incidenza di CVM indipendentemente dalla storia di cardiopatia preesistente o di eventi

cardiovascolari precedenti7,8 anche se la probabilità, come è lecito suppore, era ovviamente

maggiore nei pazienti già cardiopatici 9

Una corretta gestione del rischio cardiovascolare è pertanto molto importante per il buon esito della

cura del paziente con tumore alla prostata soprattutto nei pazienti candidati o in trattamento con

ADT10

Terapia di Deprivazione Androgenica e rischio Cardiovascolare

Le indicazioni dell’oncologo-radioterapista

Al pari delle cellule ghiandolari della prostata normale, la crescita delle cellule carcinomatose nel

cancro alla prostata è condizionata dal livello degli androgeni. L’ ormonoterapia, imperniata sulla

deprivazione androgenica (chirurgica e/o farmacologica), rappresenta attualmente il cardine del

trattamento delle forme di cancro metastatico ed è talvolta utilizzata, insieme all’intervento chirurgico

o alla radioterapia, nelle forme localizzate ad alto rischio a scopo adiuvante o neoadiuvante in una

logica di trattamento integrato della neoplasia11.

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Nella tabella seguente sono elencati i farmaci utilizzati nella terapia anti androgenica.

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Il testosterone e le sue azioni metaboliche:

Il testosterone ha complesse azioni metaboliche, non del tutto chiare, importanti per l’omeostasi dei

carboidrati, proteine e dei lipidi ed interagisce con il tessuto adiposo, muscolare, epatico, cerebrale

e cardiovascolare (Figura 2)

Figura 2 – IL Testosterone viene secreto principalmente (> 90-95%) dalle Cellule di Leyding del Testicolo sotto lo stimolo degli ormoni follico stimolante (FSH) e luteinico (LH) ipofisari a loro volta stimolati dai messaggeri ipotalamici (LH-RH, Kisspeptin). L’ormone induce la spermatogenenesi e la maturazione e differenziazione dei caratteri sessuali maschili. Oltre a tale azione il Testosterone interagisce con altri sistemi condizionando la composizione corporea (riduzione della massa adiposa, un aumento della massa muscolare, sviluppo osseo) ed ha multipli effetti sul metabolismo glucidico (migliora la sensibilità insulinica) e lipidico (riduzione del colesterolo e dei trigliceridi) anche attraverso la regolazione della risposta epatica. Ha multipli effetti sul sistema nervoso centrale (aumento della libido, aumento del tono dell’umore, regolazione della respirazione) e controversi aspetti cardiovascolari diretti (potenziale azione antiaritmica e anti-ischemica, regolazione dell’apoptosi e dell’infiammazione. (da Cardioncologia 2015)

Cosa deve sapere il cardiologo

L’ADT influisce indubbiamente sul profilo di rischio Cardiovascolare determinando aumento del peso

corporeo, (in particolare del grasso sottocutaneo), dislipidemia con aumento del colesterolo totale,

LDL, HDL e dei trigliceridi, riduzione della sensibilità all’Insulina con conseguente Iperinsulinemia e

lieve rialzo della concentrazione ematica dell’emoglobina glicata. L’ADT non incide

significativamente di per sé sulla pressione arteriosa e sulla Proteina C reattiva10,12. Dalle evidenze

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disponibili sembra emergere che la sindrome metabolica è presente in oltre il 50% dei pazienti in

ADT continuativa di lungo termine13 (Figura 3), L’ADT può quindi essere considerata alla stregua di

un fattore di rischio cardiovascolare aggiuntivo, in grado di accelerare il processo aterosclerotico

mediante gli effetti indiretti sul metabolismo e sul rischio tromboembolico in considerazione

dell’aumentata incidenza oltre che dell’infarto miocardico, angina pectoris e scompenso cardiaco

anche di trombosi venose, embolia polmonare e Stroke 5.

Appare quindi fondamentale confrontare, attraverso una attenta valutazione del paziente soprattutto

nelle forme inziali di cancro in cui il beneficio è maggiore, la riduzione del rischio di morte specifica

per cancro ottenuta con l’ADT (eventualmente associata ad altri trattamenti) rispetto al rischio di

CVM applicando il concetto, ben noto e di frequente utilizzo in oncologia, dei rischi competitivi di

mortalità/morbilità

Figura 3 – L’ipotesi ipotestosteronemia-obesità-adipocitochine. La riduzione dei livelli ematici di testosterone induce un aumento del tessuto adiposo condizionando in senso adipocitico le cellule staminali e stimolando l’attività dell’enzima lipoprotein-lipasi che incrementa la sintesi dei trigliceridi e la maturazione degli adipociti. L’aumento del tessuto adiposo a sua volta riduce ulteriormente il livello del testosterone attraverso l’aumento dell’attività aromatasica (conversione del Testosterone in estrogeni) e conseguente inibizione dell’asse ipotalamo-ipofisario, la produzione di Leptina (effetto inibitore diretto sulle cellule di Leydig e sui neuroni ipotalamici secernenti Kisspeptin) e l’iperproduzione di citochine infiammatorie (inbizione dei neuroni ipotalamici) che a loro volta peggioreranno l’insulino-resistenza che può evolvere verso la sindrome metabolica. (da Cardioncologia 2015)

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La gestione del rischio cardiovascolare nel paziente candidato o in trattamento con

ADT: il ruolo dell’ambulatorio Cardioncologico.

Sebbene siano trascorsi molti anni dalla pubblicazione di documenti ufficiali delle maggiori società

scientifiche sottolineanti l’importanza del rischio CV nei pazienti con Ca prostatico in terapia

ormonale10 mancano al momento linee guida specificamente indirizzate all’argomento. Un punto

fondamentale è rappresentato dalla valutazione basale dello stato cardiovascolare e metabolico del

paziente prima dell’inizio della terapia.

I sistemi tradizionali per la predizione del rischio CV utilizzano punteggi che consentono

l’elaborazione e la stima il rischio CV globale attraverso semplici parametri quali età, sesso, storia

di fumo, livelli di pressione arteriosa sistolica e colesterolemia. Tale punteggio ha consentito

l’elaborazione di una carta del rischio di un primo evento aterosclerotico fatale a 10 anni in individui

apparentemente sani.

.

Le linee guida del 2016 sulla prevenzione CV della Società Europea di Cardiologia (ESC)

identificano quattro categorie di rischio CV: basso, moderato, alto e molto alto. La classificazione del

rischio si basa sulla presenza di una cardiopatia strutturale, di singoli fattori di rischio, quali la

disfunzione renale, il diabete mellito di tipo 2, la classificazione del rischio utilizza un sistema a

punteggio SCORE.

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È così possibile avere un riferimento su cui confrontare le eventuali modifiche che intervengono

successivamente e diagnosticare eventuali alterazioni subcliniche pre-esistenti. In base al profilo di

rischio e allo stato CV del paziente è così possibile tracciare un programma d’intervento e follow up

personalizzato che sarà tanto più intensivo quanto più elevato sarà il rischio tenendo comunque ben

in mente che gli effetti possono manifestarsi a distanza di tempo.

Proponiamo di seguito un algoritmo di gestione e trattamento basato sullo stretto controllo dei fattori

di rischio (peso corporeo, pressione arteriosa, fumo di sigaretta, sedentarietà, ipercolesterolemia,

iperglicemia) con appropriati programmi d’intervento finalizzati al monitoraggio ed al trattamento

dello stato cardiovascolare nella logica della collaborazione multidisciplinare e finalizzata alla

minimizzazione del rischio di eventi Cardiovascolari.

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I pazienti candidati o in trattamento con ADT devono eseguire prima e periodicamente alcuni esami

di laboratorio per stabilire il rischio CV. L’ottimizzazione dei fattori di rischio CV potrebbe essere utile

anche in campo cardioncologico per la programmazione della sorveglianza e per la riduzione dei

danni di una terapia oncologica potenzialmente cardiotossica.

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BIBLIOGRAFIA

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