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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2 (ANNO 1 - N°2 – Aprile / Maggio 2013) ISBN 978-88-98212-10-1 Tutti i diritti riservati. 2013 PE Primiceri Editore www.lanuovaproceduracivile.it [email protected] Direttore Scientifico LUIGI VIOLA Vice Direttore STEFANO AMORE Comitato Scientifico Elisabetta Bertacchini (Professore ordinario di diritto commerciale, Preside Facoltà Giurisprudenza) Giuseppe Buffone (Magistrato) Paolo Cendon (Professore ordinario di diritto privato) Gianmarco Cesari (Avvocato cassazionista dell’associazione Familiari e Vittime della strada, titolare dello Studio legale Cesari in Roma) Bona Ciaccia (Professore ordinario di diritto processuale civile) Vittorio Corasaniti (Magistrato) Annamaria Fasano (Magistrato, Ufficio massimario presso la Suprema Corte di Cassazione) Cosimo Ferri (Magistrato) Eugenio Forgillo (Presidente di Tribunale) Giusi Ianni (Magistrato) Giuseppe Marseglia (Magistrato) Piero Sandulli (Professore ordinario di diritto processuale civile) Stefano Schirò (Consigliere della Suprema Corte di Cassazione) Bruno Spagna Musso (Consigliere della Suprema Corte di Cassazione) Paolo Spaziani (Magistrato) Antonio Valitutti (Consigliere Suprema Corte di Cassazione) Alessio Zaccaria (Professore ordinario di diritto privato) Coordinamento Redazionale Giulio Spina Valeria Vasapollo

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

(ANNO 1 - N°2 – Aprile / Maggio 2013)

ISBN 978-88-98212-10-1

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Anna Maria Gaudio, Roma

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Caria, Maria De Pasquale, Anna Del Giudice, Silvia Di Iorio, Ilaria Di Punzio, Anna Di Stefano,

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Papalia, Enrico Paratore, Giulio Perrotta, Filippo Pistone, Manuela Rinaldi, Antonio Romano,

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INDICE

Dottrina & Opinioni

Eccesso di potere giurisdizionale 07

Articolo di Vincenzo Carbone Deontologia ed Etica del giudice 24 Articolo di Antonio Valitutti Le problematiche connesse con il nuovo rito per i licenziamenti 28 Articolo di Paolo Spaziani

Nuovo appello filtrato: primi orientamenti e strategie 60 Articolo di Luigi Viola Le dinamiche della procedura di mediazione condominiale 69 Articolo di Mario Tocci Il pignoramento presso terzi alla luce della Legge di stabilità 2013 75 Articolo di Fabrizio Tommasi

La condanna d’ufficio ex art. 96 comma 3 c.p.c. a cavallo tra funzione 80 risarcitoria e sanzionatoria Articolo di Gianluca Cascella

Schemi & Formule

Atto di pignoramento presso terzi dopo la riforma 2013 94 Formula di Elena Bruno

Atto di appello dopo la Legge 134/2012 99 Formula annotata di Luigi Viola Il nuovo rito Fornero 102 Schema di Valeria Conti Le nullità processuali 107 Schema di Marco Mecacci

Il riparto dell’onere probatorio 111 Schema di Valeria Vasapollo

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Sentenze & Annotazioni

Attivabile il rimedio ex art. 700 c.p.c. quando l’esercizio dell’eventuale diritto di recesso implichi esborsi onerosi 124 Ordinanza del Tribunale di Brindisi del 29.01.2013

Tutela cautelare atipica ex art.700 c.p.c.: attivabile per cancellare 130 un’ipoteca Ordinanza del Tribunale di Brindisi, sezione di Monopoli, del 7.02.2013

Detentore contro possessore: sì all’azione di reintegra nel possesso, ma solo se la detenzione è qualificata 135 Sentenza della Cassazione civile n. 99/2013 con nota di Gianluca Ludovici L’avvocato prova il credito con la parcella: ok per il

decreto ingiuntivo, ma non per il giudizio ordinario 144 Sentenza della Cassazione civile n. 2471/2013 con nota di Miriana Bosco Appello filtrato: a pena di inammissibilità, si deve proporre

un ragionato progetto alternativo di decisione 153 Sentenza della Corte di Appello di Salerno n. 139/2013 Appello filtrato: se la domanda si fonda su doglianze

non condivisibili, allora è inammissibile 162 Ordinanza della Corte di Appello di Bologna del 21.01.2013 Appello filtrato: l’assenza di ragionevole probabilità equivale alla

manifesta infondatezza 165 Ordinanza della Corte di Appello di Roma del 25.01.2013 con nota di Marco Mecacci Appello filtrato: dagli specifici motivi alla motivazione 176

Sentenza della Corte di Appello di Roma del 15.01.2013 Sospensione feriale dei termini: il 16 settembre va computato? 183 Sentenza della Corte di Appello di Napoli del 28.01.2013 L’atto è tempestivo quando viene accettato dopo l’orario regolamentato? 187 Sentenza del Tribunale di Piacenza del 28.02.2013 con nota di Marielena D’Amato La domanda tardiva è inammissibile anche se è stato accettato il Contraddittorio 197

Sentenza del Tribunale di Reggio Emilia del 3.4.2013 Notificazione agli irreperibili: bisogna andare a “chi l’ha visto?” 207 Sentenza della Cassazione civile n. 3071/2013 con nota di Diana Salonia

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La c.t.u. non è mezzo di prova… ma può diventare fonte oggettiva di prova 216

Sentenza della Cassazione civile n. 2663/2013 con nota di Miriana Bosco Notificazione della sentenza senza alcune pagine:

che succede ai fini del decorso del termine breve per l’impugnazione? 231 Sentenza della Cassazione civile n. 2976/2013 con nota di Federica Federici L’incapacità a testimoniare va valutata ex ante 245 Sentenza della Cassazione civile n. 3642/2013 con nota di Giulio Spina

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di

VINCENZO CARBONE (Presidente Emerito Suprema Corte di Cassazione)

Premessa

Eccesso di potere: espressione

ontologicamente problematica.

Potere o potestà indica la situazione

giuridica di colui al quale è legalmente

consentito o quanto meno non è vietato di

fare qualcosa e si avvicina a “diritto”,

“facoltà”, “legittimazione”. Nei confronti di

chi esercita un potere pubblico (legislatore,

giudice, governo e P.A.) e cioè potere

legislativo, esecutivo, giudiziario significa

potestà legalmente attribuita di produrre

con una sua pronuncia legge, atto

amministrativo, decisione, una modifica nei

rapporti giuridici.

L’eccesso di potere, non indica un soggetto

incompetente o non legittimato, ma vuole

significare che il giudice o la P.A. agisce oltre

i limiti, entro i quali la legge vuole che il che

il soggetto operi o che il potere sia

adoperato.

Il termine deriva dall’espressione francese

“excès de pouvoir” cara a Charles-Louis de

Secondat, barone de La Brède et de

Montesquieu, meglio noto unicamente come

Montesquieu che intorno all’anno 1750 si

batteva per la separazione dei poteri: il

concetto venne accolto dalle legislazioni

europee non come straripamento di potere,

ma con l’espressione détournement de

pouvoir come uso improprio del potere per

un fine diverso da quello attribuito.

I. I nuovi criteri di interpretazione.

Dall’interpretazione statica a quella

dinamica. Dall’art.12 delle preleggi: (lettera,

ratio e voluntas del legislatore, analogia

legis e iuris; se l’analogia non basta, si

ricorre ai principi generali dell’ordinamento

dello Stato), all’art. 117 co.1 Cost. novellato

nel 2001 sull’interpretazione

costituzionalmente e comunitariamente

orientata e conforme ai principi dell’U.E.

Dottrina &

Opinioni

Eccesso di potere giurisdizionale

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Modernità del c.p.a. del 2010 (art.1) rispetto

al c.p.c. del 1942 che richiama la

Costituzione e diritto europeo.

L’art. 117 co. 1 Cost. vincola non solo il

legislatore, ma anche il giudice.

Il primato del diritto comunitario impone al

giudice nazionale di disapplicare le

disposizioni nazionali contrarie,

indipendentemente dal fatto che il giudice

costituzionale nazionale abbia deciso di

rinviare la cessazione degli effetti delle

disposizioni dichiarate incostituzionali:

Corte giustizia Comunità europee, 19-11-

2009, 314/08, in Foro amm.-Cons. Stato,

2009, 2483

II Il difficile dialogo tra legge astratta e

caso concreto da risolvere.

1.Leggi giuridiche non sono fisse e

immutabili come quelle fisiche. (Galileo

Eppur si muove. Brecht, Ode al dubbio tra

Tolomeo e Copernico)

2. Ne cives ad arma ruant (lotta legale art

111 Cost. davanti ad un giudice terzo e

imparziale) per risolvere il caso. (Menandro

Epitrepontes pastore Dravo boscaiolo Siro

decide Smicrine).

3. L’evoluzione interpretativa tra testo e

contesto: la tesi di Porzia (Shakespeare, Il

Mercante di Venezia)

4. La sistematicità: il tessuto come il

risultato dei fili correttamente impostati.

(Faust di Goethe).

III. I riferimenti codicistici sull’eccesso di

potere giurisdizionale

1.L'art. 362 c.p.c. rivisitato (nel 1999)

dall’art. 111 Cost. co. 7 e 8. Il fossile

giuridico dell’art. 368 c.p.c. Il lodo arbitrale.

1.1.L’art.362 c.p.c. al co.1 prevedeva il

ricorso per cassazione per motivi attinenti

alla giurisdizione delle decisione di un

giudice speciale, nonché la ricorribilità per

cassazione avverso i conflitti positivi o

negativi di giurisdizione tra giudici speciali

o tra questi e i giudici ordinari e i conflitti

negativi di attribuzione tra la P.A. e il

giudice ordinario vale a dire questioni di

giurisdizione e di attribuzione.

La disposizione è dal 1999 integrata in base

al disposto di cui all' art. 111, c. 7, Cost. e in

parte dall' art. 111, c. 8, Cost..

In base alla prima modifica le sentenze dei

giudici speciali - ancorché la legge ne

preveda l'impugnabilità solo per problemi

di giurisdizione o di incompetenza - sono

ritenute ricorribili in cassazione per ogni

ipotesi di violazione di legge, alla luce della

loro natura giurisdizionale, e non solo

quindi per motivi attinenti alla

giurisdizione.

La seconda modifica limita la ricorribilità

delle decisioni del Consiglio di Stato e della

Corte dei Conti solo per motivi attinenti alla

giurisdizione. La giurisprudenza è ferma nel

ritenere che rispetto a questi giudici

riconosciuti nel titolo IV sez., I, all’art. 103

co. 1 e 2 non sia sindacabile la violazione di

legge: Cass. s.u. 16.2.09 n. 3688. L' art. 111,

c. 8, Cost. non distingue tra pronunce in

tema di interessi legittimi e pronunce in

tema di diritti soggettivi e, pertanto, trova

applicazione tanto per le une quanto per le

altre.

1.2 L'innovazione costituzionale comporta

che le decisioni dei giudici, amministrativi e

contabili l’impugnazione con ricorso alle

sezioni unite per i soli motivi attinenti alla

giurisdizione, mentre le decisioni degli altri

giudici, pur definiti speciali, come i tributari,

fanno capo alla Corte di Cassazione

utilizzando gli altri motivi di ricorso dell’art.

360 c.p.c.

Tra i possibili esempi di pronunce di giudici

speciali, contro le quali si può ricorrere in

cassazione, si ricordano le decisioni del

Tribunale superiore delle acque pubbliche,

le decisioni della sezione disciplinare del

Consiglio Superiore della Magistratura, del

Consiglio di presidenza della giustizia

amministrativa, e le decisioni del Consiglio

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nazionale forense o di altri organi

professionali investiti di giurisdizione

disciplinare interna come la Commissione

centrale per gli esercenti le professioni

sanitarie.

1.3. Un fossile giuridico: l’art. 368 c.p.c.

Il decreto con cui il prefetto, nel caso in cui

la P.A. non sia parte in causa, richiedeva, a

norma degli artt. 41, co. 2, e 368 c.p.c. che le

Sezioni unite della Corte di cassazione

dichiarino il difetto di giurisdizione del

giudice ordinario a causa dei poteri

attribuiti alla P.A., costituiva in realtà,

l'esercizio di un potere di veto, cui

conseguiva, la sospensione del

procedimento, e l'onere per le parti del

giudizio di investire della questione di

giurisdizione la Corte di cassazione,

mediante ricorso per regolamento di

giurisdizione (Cass. civ., sez. un., 27-07-

1998, n. 7340).

La norma, che metteva in evidenza

un'insanabile frattura con il processo civile,

attraverso l'interferenza di un terzo nel

processo, il prefetto, è stata implicitamente

abrogata.

È venuto meno il referente normative

perché l'art. 19, co. 2, r.d. 3.3.1934 n. 383,

che regolava i poteri del prefetto è stato

abrogato dal nuovo t.u. sull'ordinamento

degli enti locali (d.lgs. 18.8.2000 n. 267),

che all' art. 274, c. 1 , lett. a, ha abrogato

l’intero r.d. 3.3.34, n. 383.

1.4 Quid juris se l’eccesso di potere

giurisdizionale riguardi un lodo arbitrale?

Cass. civ., sez. I, 18-09-2009, n. 20141.

L’eccesso di potere giurisdizionale in cui

siano incorsi gli arbitri, traducendosi in un

vizio del lodo che ne comporta la nullità (ex

art. 829, 1 co. n. 4, c.p.c.), deve essere

dedotto, come motivo di impugnazione,

dinanzi alla corte d’appello, e non anche,

per la prima volta, in cassazione (pena

l’inammissibilità del ricorso), applicandosi

anche alle sentenze arbitrali il principio

(art. 161, 1 comma, c.p.c.) della conversione

in motivi di gravame delle cause di nullità

della sentenza.

IV. Denuncia dei conflitti di

giurisdizione.

1 Il tempo della denuncia

Alle sez. un. della Cassazione i conflitti di

giurisdizione tra giudici speciali e quelli tra

giudici speciali e giudici ordinari possono

essere denunciati, in ogni tempo e

indipendentemente dal passaggio in

giudicato delle sentenze in contrasto.

Non è necessario, affinché si riscontri

l'esistenza di un conflitto reale, che le due

cause siano perfettamente identiche,

essendo sufficiente che - pur in presenza di

diverso petitum - le cause postulino la

soluzione della medesima questione di

giurisdizione.

Di contrario avviso, si è ritenuto che

presupposto indefettibile per la

denunciabilità con ricorso per cassazione di

un conflitto reale, positivo o negativo, di

giurisdizione è l'identità della lite cui si

riferiscono le decisioni dei diversi giudici:

non si configura, tuttavia, un vero e proprio

contrasto di giurisprudenza, atteso che,

anche secondo la più recente pronuncia,

tale identità è da valutare alla stregua del

petitum sostanziale, cioè del titolo della

pretesa.

2 Conflitto positivo e reale in base a

sentenze affermative della giurisdizione

sulla stessa domanda da parte di giudici

diversi

Deve trattarsi di un conflitto reale e non

virtuale: il conflitto reale è positivo quando

un giudice speciale ed uno cd. ordinario,

ovvero due giudici speciali, abbiano

entrambi emesso una sentenza - è

necessario infatti che il conflitto sorga in

base a sentenze - (ancorché impugnata o

suscettibile d'impugnazione) affermando la

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propria giurisdizione sulla stessa domanda,

cioè in presenza di identità di petitum

sostanziale.

Ove si intenda far valere il principio della

prevalenza della forma sulla sostanza (per

avere il provvedimento la forma di

ordinanza anziché quello, richiesto a mente

dell'art. in commento, di sentenza), è

necessario allegare e dimostrare l'effettiva

realizzazione della funzione conclusiva del

giudizio, che postula la cessazione del

procedimento davanti al giudice che abbia

emesso la pronuncia medesima. Così,

l'ordinanza che declini la giurisdizione in

sede cautelare, non può generare un

conflitto negativo, anche a fronte di una

sentenza emessa da un altro ordine

giurisdizionale, declinatoria sulla domanda

proposta per il merito, stante l'appellabilità

della pronuncia impugnata. A fronte di tale

conflitto, le s.u. individuano il giudice

investito della giurisdizione ed annullano la

decisione emessa dal giudice che ne è privo.

3. Conflitto, negativo di giurisdizione e di

attribuzione

Ricorre quando nella stessa situazione

entrambi i giudici abbiano negato la propria

giurisdizione e si siano spogliati della causa,

anche con provvedimenti che non siano

equiparabili a sentenze, nel qual caso non

può farsi ricorso al regolamento di

giurisdizione. Poiché, appunto, ai fini della

configurabilità del conflitto negativo di

giurisdizione è necessario che entrambi i

giudici abbiano escluso in capo a sé il potere

di decidere la causa, detta ipotesi non

ricorre qualora, mentre il giudice

amministrativo abbia declinato la propria

giurisdizione, quello civile abbia, invece,

emesso provvedimenti che presuppongano

l'affermazione della propria giurisdizione.

4 Il diritto vivente ha introdotto il giudicato

implicito.

Il giudicato interno o implicito sussiste sia

se la questione di giurisdizione sollevata e

decisa nel primo grado del processo

speciale non sia stata impugnata, sia se sia

stata sollevata solo in sede di gravame dopo

essere stata accettata in primo grado. In tal

caso la questione è preclusa per [Cass. s.u.

6.3.09 n. 5468; Cass. s.u. 21.11.08 n. 27618].

5 La translatio iudicii

Con l'intervento delle ben note sentenze C

s.u. 22.2.07 n. 4109 e C. Cost., 12.3.07 n. 77

nonché C Stato VI 13.3.08 n. 1059, che

hanno riconosciuto interpretativamente la

translatio iudicii che impone al giudice

dichiaratosi privo di giurisdizione di

rimettere le parti innanzi a quello indicato

come fornito di giurisdizione per consentire

che il processo prosegua senza ricominciare

da capo, ma non hanno risolto la questione

del conflitto negativo.

6. Regolamento d’ufficio dal 2009 del

giudice cui è rimessa la causa se ritiene di

non avere giurisdizione

Con l'entrata in vigore dell'art. 59, l.

69/2009, e con il regolamento d’ufficio si

riteneva che i conflitti negativi sarebbero

destinati a scomparire. A fronte di una

sentenza denegatoria di giurisdizione, la

parte riassume la controversia davanti al

giudice dichiarato fornito di giurisdizione,

senza bisogno di proporre nuovamente la

domanda.

Il secondo giudice adito in riassunzione non

potrebbe più declinare la propria

giurisdizione, ma solo (eventualmente)

sollevare la questione di giurisdizione

davanti alle Sezioni unite.

Contra: Cass. civ. sez. un. 24.1.2013 n. 1714

che si è espressa per l’irrilevanza della

mancata proposizione del regolamento

d’ufficio. Il conflitto negativo di

giurisdizione (art. 362 co. 2 n.1 c.p.c.) tra

giudice ordinario e giudice amministrativo è

ammissibile, anche dopo l’art. 59 della l.

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18.6.2009 n.69, che ha introdotto per il

giudice cui è stata rimessa la causa per il

dichiarato difetto di giurisdizione il potere

di sollevare d’ufficio il regolamento di

giurisdizione. Nella specie il conflitto

negativo di giurisdizione, è stato risolto a

favore del giudice ordinario sulla domanda

di indennità spettante al ricorrente per

l’occupazione legittima del terreno di sua

proprietà.

7 Conflitti positivi di attribuzione tra

giudice e P.A. Art. 134 Cost.

L' art. 362, c. 2, deve essere armonizzato

con il disposto dell' art. 134 Cost., secondo il

quale giudice dei conflitti positivi di

attribuzione tra i poteri dello Stato è la

Corte Costituzionale.

L'art. 362 trova spazio solo ove il conflitto

tra giudice civile e P.A. sia negativo e non

anche se questo sia positivo. Né in materia

va pretermesso il dato testuale dell'art. 37,

c. 2, l. 11.3.53 n. 87, contenente la disciplina

della Corte Costituzionale, a norma del

quale "restano ferme le norme vigenti per le

questioni di giurisdizione", con ciò

tendenzialmente escludendo che i conflitti

di giurisdizione possano ricondursi alla

materia affidata alla cognizione della

Consulta dall' art. 134 Cost..

Secondo una parte della dottrina che si è

occupata dell'argomento, un conflitto

negativo tale da giustificare il rimedio in

parola si verifica nel momento in cui giudice

civile e P.A. sono sostanzialmente d'accordo

nel negare l'esistenza in capo all'interessato

di un interesse in qualche modo meritevole

di tutela. In realtà, esso si profila quando il

giudice civile nega la tutela richiesta,

affermando che trattasi di una questione

che spetta ai poteri della P.A. e questa, da

parte sua, nega il provvedimento richiesto

affermando che la pronuncia di un simile

provvedimento rientri nei poteri del giudice

civile. Quindi, il conflitto "origina dalla

motivazione del rifiuto di occuparsi di una

certa materia da parte del giudice civile e

della P.A., non dal puro e semplice rifiuto di

occuparsene".

V Evoluzione del concetto di

giurisdizione.

1. Le decisioni del Consiglio di Stato e della

Corte dei Conti sono impugnabili in

Cassazione solo per motivi inerenti alla

giurisdizione.

1.1 Il cattivo esercizio della giurisdizione

attiene all'esplicazione interna del potere

giurisdizionale conferito dalla legge al

giudice amministrativo e contabile. La

cassazione delle decisioni del giudice

amministrativo o del giudice contabile, non

può essere chiesta per violazione di norme

di diritto (art. 360 c.p.c. , n. 3) o di norme

che regolano il processo davanti a sé o ne

disciplinano i poteri (art. 360 c.p.c. , n. 4).

Il sindacato, cioè, non può essere esteso al

modo in cui la giurisdizione sia stata

esercitata (per denunciare errores in

procedendo o errores in iudicando) perché

ciò non attiene ai limiti esterni delle

attribuzioni giurisdizionali (Cass. s.u. 3.3.10

n. 5030, Cass. s.u. 11.2.10 n. 3202; Cass. s.u.

6.2.09 n. 3688).

Tale ipotesi ricorre quando il Consiglio di

Stato o la Corte dei Conti:

a) abbia giudicato su materia attribuita alla

giurisdizione civile o ad altra giurisdizione

speciale, oppure

b) abbia negato la propria giurisdizione

nell'erroneo convincimento che essa

appartenesse ad altro giudice, ovvero

ancora quando,

c) in materia attribuita alla propria

giurisdizione limitatamente al solo

sindacato della legittimità degli atti

amministrativi, abbia compiuto un

sindacato di merito.

Il sindacato delle sez. un. è circoscritto in

concreto all'accertamento di vizi che

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attengano all'essenza della funzione

giurisdizionale e non al modo del suo

esercizio.

1.2 Si deve anche tener conto

dell’evoluzione del concetto di giurisdizione

(Cass. civ., sez. un., 23-12-2008, n. 30254).

Ai fini dell’individuazione dei limiti esterni

della giurisdizione amministrativa, che

tradizionalmente delimitano il sindacato

consentito alle sezioni unite sulle decisioni

del consiglio di stato che quei limiti

travalichino, si deve tenere conto

dell’evoluzione del concetto di

giurisdizione, dovuta a molteplici fattori e

valori

a) costituzionali: giusto processo, tempi

ragionevoli, parità delle parti, terzietà del

giudice, giurisdizione sul rapporto o sul

rapporto che deriva dall’atto

amministrativo, ampliarsi della

giurisdizione ed esclusiva ed ampliarsi del

sindacato sul potere amministrativo

b) comunitari: effettività della tutela

giurisdizionale, ricorso alla pregiudiziale

comunitaria, ampliato controllo della Corte

di Lussemburgo dopo il trattato di Lisbona

sulle attività amministrativa.

1.3 L’evoluzione del controllo

giurisdizionale:

a) Non più un giudizio di mera

qualificazione della situazione soggettiva

dedotta, alla stregua del diritto oggettivo, e

di mero accertamento del potere di

conoscere date controversie attribuito ai

diversi ordini di giudici di cui l’ordinamento

è dotato,

b) La tutela giurisdizionale dei diritti e degli

interessi, (24 e 111 Cost.) che comprende le

diverse tutele che l’ordinamento assegna ai

giudici per assicurare l’effettività della

tutela dei diritti e degli interessi legittimi

(che sono un bene della vita) dei cittadini

anche nei confronti della P.A.

c) La giurisdizione non individua solo i

presupposti dell’attribuzione del potere

giurisdizionale, ma dà contenuto a quel

potere, stabilendo le forme di tutela

attraverso le quali esso si estrinseca;

pertanto, rientra nello schema logico del

sindacato per motivi inerenti alla

giurisdizione l’operazione che consiste

nell’interpretare la norma attributiva di

tutela, onde verificare se il giudice

amministrativo, ai sensi dell’art. 111, 8º

comma, cost., la eroghi concretamente e nel

vincolarlo ad esercitare la giurisdizione

rispettandone il contenuto essenziale, così

esercitando il sindacato per violazione di

legge che la suprema corte può compiere

anche sulle sentenze del giudice

amministrativo

2. Le questioni di giurisdizione affrontate in

sede di giudizio di ottemperanza.

2.1. Il ricorso per cassazione avverso le

decisioni del Consiglio di Stato comprende

anche le questioni di giurisdizione in sede di

giudizio di ottemperanza

Nel caso in esame il comune di Roma non

rilascia la concessione edilizia, richiesta nel

1976 e illegittimamente negata nel 1995

come ritiene il giudice amministrativo Nel

giudizio di ottemperanza il commissario ad

acta nominato nel 2010 autorizza la

realizzazione di un complesso immobiliare

di tipologia e dimensioni maggiori. Il ricorso

del Comune di Roma è respinto (Cass., sez.

un. 19 ottobre 2012 n. 17936) perché

l’eccesso di potere giurisdizionale, che

consente il ricorso alle Sezioni Unite, nel

caso di ipotetico abuso dello strumento del

giudizio di ottemperanza, si verifica non in

presenza di un errore nella scelta del rito o

di violazione delle regole processuali

amministrative (ove è astrattamente

possibile configurare errores in

procedendo, non certo esorbitanza dai

confini del potere), ma unicamente se, per

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effetto dell’estensione della giurisdizione al

merito, ex art. 134 comma 1, lett. a, c.p.a. ne

sia derivato un indebito sconfinamento del

provvedimento giurisdizionale nella sfera

delle attribuzioni proprie

dell’amministrazione o, eventualmente, di

un giudice appartenente ad un ordine

diverso.

In un altro caso le S.U. hanno rigettato il

ricorso volto a denunciare lo sconfinamento

dei limiti esterni della giurisdizione

generale di legittimità del giudice

amministrativo nella sentenza che aveva

disposto che al rinnovo della procedura

valutativa in un concorso per la copertura

di un posto di professore universitario

associato avrebbe dovuto provvedere una

commissione d'esame diversamente

composta, da nominarsi a cura

dell'Università (Cass. civ. Sez. Unite, 28

aprile 2011, n. 9443)

Si è affermato che l'eccesso di potere

giurisdizionale, denunziabile ai sensi

dell'art. 111, co. 8 Cost. sotto il profilo dello

sconfinamento nella sfera del merito, è

configurabile solo quando l'indagine svolta

non sia rimasta nei limiti del riscontro di

legittimità del provvedimento impugnato,

ma sia stata strumentale a una diretta e

concreta valutazione dell'opportunità e

convenienza dell'atto, ovvero quando la

decisione finale, pur nel rispetto della

formula dell'annullamento, esprima una

volontà dell'organo giudicante che si

sostituisce a quella dell'amministrazione,

nel senso che, procedendo ad un sindacato

di merito, si estrinsechi in una pronunzia

autoesecutiva, intendendosi per tale quella

che abbia il contenuto sostanziale e

l'esecutorietà stessa del provvedimento

sostituito, senza salvezza degli ulteriori

provvedimenti dell'autorità amministrativa.

3.L'eccesso di potere giurisdizionale, sotto il

profilo dello sconfinamento nella sfera del

merito.

3.1 Lo sconfinamento nel merito da parte

del giudice amministrativo si configura

quando l'indagine svolta non sia rimasta nei

limiti del riscontro di legittimità del

provvedimento impugnato, ma sia stata

strumentale a una diretta e concreta

valutazione dell'opportunità e convenienza

dell'atto.

Lo stesso vale quando la decisione finale,

pur nel rispetto della formula

dell'annullamento, esprima una volontà

dell'organo giudicante che si sostituisce a

quella dell'amministrazione, nel senso che,

procedendo ad un sindacato di merito, si

estrinsechi in una pronunzia autoesecutiva,

intendendosi per tale quella che abbia il

contenuto sostanziale e l'esecutorietà stessa

del provvedimento sostituito, senza

salvezza degli ulteriori provvedimenti

dell'autorità amministrativa.

Tra i casi in cui le s.u. hanno escluso un

conflitto di giurisdizione (Cass. civ., sez. un.,

26-04-2012, n. 6491), rientra

l'autorizzazione alla produzione di energia

da fonte eolica, concessa dalla P.A. e

confermata dal giudice amministrativo

nonostante l’opposizione di Italia nostra,

escludendo la necessità del parere della

sopraintendenza alla tutela del paesaggio.

La sentenza del giudice amministrativo di

rigetto del ricorso, proposto avverso la

deliberazione assunta dalla p.a. che

autorizzi la realizzazione di un impianto di

produzione di energia elettrica da fonte

eolica, non è affetta da eccesso di potere

giurisdizionale per invasione della sfera di

attribuzioni riservata al legislatore e alla

stessa p.a., laddove interpreti la normativa a

tutela del patrimonio culturale e rurale, di

cui all’art. 12, 7º comma, d.leg. 29 dicembre

2003 n. 387, in senso restrittivo, negando la

necessità del parere della sovrintendenza

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per il paesaggio ed escludendo che

l’impianto di aerogeneratori assentito possa

arrecare pregiudizio al patrimonio culturale

della popolazione.

Sempre in tema di sconfinamento nel

merito, Cass. sez. un. civ. 12 novembre 2007

n. 23441 ha precisato con riguardo alle

pronunzie del Consiglio di Stato, che

l'eccesso di potere giurisdizionale,

denunziabile ai sensi dell'art. 111, comma 8,

Cost., sotto il profilo dello sconfinamento

nella sfera del merito, è configurabile solo

quando l'indagine svolta non sia rimasta nei

limiti del riscontro di legittimità del

provvedimento impugnato, ma sia stata

strumentale a una diretta e concreta

valutazione dell'opportunità e convenienza

dell'atto, ovvero quando la decisione finale,

pur nel rispetto della formula

dell'annullamento, esprima una volontà

dell'organo giudicante che si sostituisce a

quella dell'amministrazione, nel senso che,

procedendo ad un sindacato di merito, si

estrinsechi in una pronunzia autoesecutiva,

intendendosi per tale quella che abbia il

contenuto sostanziale e l'esecutorietà stessa

del provvedimento sostituito, senza

salvezza degli ulteriori provvedimenti

dell'autorità amministrativa.

3.2. L'eccesso di potere giurisdizionale del

giudice contabile è configurabile solo

quando l'attività di tale giudice non sia

rimasta nei limiti del riscontro della liceità

dei comportamenti dei pubblici dipendenti

e funzionari (che presuppone un implicito

controllo di legittimità) e della eventuale

produzione di un danno patrimoniale

(erariale) all'ente pubblico, con

conseguente assoggettamento degli autori

dell'illecito al risarcimento del danno.

4.Recentissime e sempre più incisive le

decisioni in tema di concorsi e di appalti

pubblici

4.1 In tema di appalti pubblici

a) contrasti del giudice amministrativo (tra

ad. pl. 4/2011 e 11/2008 con Tar Piemonte

208/2012 che rimette gli atti alla Corte di

Giustizia dell’U.E.) sul valore escludente o

paralizzante del ricorso incidentale

dell’aggiudicatario secondo cui il ricorrente

principale che ha impugnato l’esito della

gara non poteva partecipare alla gara stessa

Secondo Cass. civ. sez. un. 21 giugno 2012,

n. 10294 la soluzione offerta dall’Adunanza

Plenaria n. 4 del 2011 in tema di ordine di

esame di ricorso principale e incidentale,

pur generando perplessità, non è

contestabile con ricorso per cassazione, in

quanto la stessa non ha costituito la

conseguenza di un aprioristico diniego di

giustizia, ma del richiamo di norme e

principi processuali che, peraltro, erano

stati in precedenza diversamente

interpretati, conducendo al risultato di

ristabilire il dovuto ordine delle cose

attraverso l’esame di entrambe le censure

incrociate; ciò di cui si discute è un possibile

errore di diritto commesso dall’Adunanza

Plenaria che non può formare oggetto di

doglianza dinanzi alle Sezioni Unite.

Il principio espresso dal Consiglio di Stato –

secondo cui nel giudizio amministrativo il

ricorso incidentale, diretto a contestare la

legittimazione del ricorrente principale

mediante la censura della sua ammissione

alla procedura di gara di affidamento di

appalti pubblici, deve essere sempre

esaminato prioritariamente, anche nel caso

in cui il ricorrente principale alleghi

l’interesse strumentale alla rinnovazione

dell’intera procedura – non è condivisibile,

in quanto, al cospetto di due imprese che

sollevano a vicenda la medesima questione,

ne sanziona una con l’inammissibilità del

ricorso e ne favorisce l’altra con il

mantenimento di un’aggiudicazione (in tesi)

illegittima, denotando una crisi del sistema

che, al contrario, proclama di assicurare a

tutti la possibilità di provocare l’intervento

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del giudice per ripristinare la legalità e dare

alla vicenda un assetto conforme a quello

voluto dalla normativa di riferimento, tanto

più che l’aggiudicazione può dare vita ad

una posizione preferenziale soltanto se

acquisita in modo legittimo. Esso, tuttavia,

non costituisce conseguenza di un

aprioristico diniego di giustizia, ma di un

possibile errore di diritto che, pur rendendo

ammissibile il ricorso avverso la predetta

sentenza del Consiglio di Stato, ai sensi

dell’art. 111, comma 8, Cost., stante

l’evoluzione del concetto di giurisdizione

nel senso di strumento per la tutela effettiva

delle parti, non ne giustifica la cassazione

per eccesso di potere giurisdizionale.

b) Appalto, anomalia di un’offerta.

Cass. civ. sez. un., 10-08-2011, n. 17143.

Non ricorre l’eccesso di potere

giurisdizionale se si resta nell’ambito della

discrezionalità tecnica.

L’eccesso di potere giurisdizionale, sotto il

profilo dello sconfinamento nella sfera del

merito, preclusa al giudice amministrativo,

non è configurabile allorquando vengano

sindacate le valutazioni compiute dalle

commissioni di gara (nella specie, per

l’aggiudicazione di un appalto per i lavori di

adeguamento di un tratto autostradale) in

sede di verifica dell’anomalia di un’offerta,

non attenendo tale controllo al merito

dell’azione amministrativa, ma all’esercizio

della discrezionalità tecnica

4.2. Sotto il profilo dei concorsi sempre più

attenta è la valutazione del giudice senza

dar luogo all’eccesso di potere

giurisdizionale.

a)Esami di avvocato. (Cass. Civ., sez. un., 28-

05-2012, n. 8412).

Le valutazioni tecniche delle commissioni

giudicatrici di esami o concorsi pubblici

sono assoggettabili al sindacato di

legittimità del giudice amministrativo per

manifesta illogicità del giudizio tecnico o

travisamento di fatto in relazione ai

presupposti del giudizio medesimo, senza

che ciò comporti eccesso di potere

giurisdizionale per sconfinamento nella

sfera del merito amministrativo (principio

enunciato in riferimento all’operato della

commissione giudicatrice per l’esame di

abilitazione alla professione di avvocato,

che non aveva ammesso alla prova orale un

candidato rilevando nel suo elaborato una

serie errori di grammatica e improprietà di

forma, la cui insussistenza era stata

viceversa accertata dal Con. Stato).

b) Concorso per la nomina a professore

associato (Cass. sez. un. 22 maggio 2012 n.

8071).

L’eccesso di potere giurisdizionale ricorre

se il giudice, eccedendo i limiti del riscontro

di legittimità del provvedimento impugnato

e sconfinando nella sfera del merito

(riservato alla P.A.), compia una diretta e

concreta valutazione della opportunità e

convenienza dell’atto, ovvero quando la

decisione finale, pur nel rispetto della

formula dell’annullamento, esprima la

volontà dell’organo giudicante di sostituirsi

a quella dell’Amministrazione, così

esercitando una giurisdizione di merito in

situazioni che avrebbero potuto dare

ingresso soltanto a una giurisdizione di

legittimità (dunque, all’esercizio di poteri

cognitivi e non anche esecutivi) o esclusiva

o che comunque ad essa non avrebbero

potuto dare ingresso.

Le valutazioni tecniche delle commissioni

esaminatrici dei concorsi pubblici, inserite

in un procedimento amministrativo

complesso e dipendenti dalla valorizzazione

dei criteri predisposti preventivamente

dalle medesime commissioni, sono

assoggettabili al sindacato giurisdizionale

del giudice amministrativo – senza che ciò

comporti un’invasione della sfera del merito

amministrativo, denunciabile con il ricorso

per cassazione per motivi inerenti alla

giurisdizione – anche qualora risultino

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affette da illogicità manifesta o

travisamento del fatto od irragionevolezza

evidente o grave, o da grave difetto di

motivazione.

Non può quindi ritenersi illegittima, per

eccesso di potere giurisdizionale, la

sentenza del Consiglio di Stato che,

nell’accogliere un ricorso avverso gli atti di

una procedura concorsuale, ha ordinato la

ripetizione delle operazioni con una

commissione giudicatrice diversamente

composta. Tale sentenza infatti, senza

esorbitare dai limiti della giurisdizione e

senza invadere il merito amministrativo, ha

semplicemente disposto una misura idonea

“ad assicurare l’attuazione del giudicato”

(art. 34 lett. e) c.p.a.), “al fine di assicurare

condizioni oggettive di imparzialità” nel

caso concreto; tale “misura” risponde

quindi palesemente all’esigenza di

effettività della tutela giurisdizionale

propria del giudice amministrativo, nella

fattispecie concreta.

In tal senso il Consiglio di Stato, senza

esorbitare dai limiti della propria

giurisdizione e senza invadere il merito

amministrativo, ha semplicemente disposto

una misura idonea “ad assicurare

l’attuazione del giudicato”.

c) Concorso per notaio: travisamento della

traccia Cass. civ., sez. un., 21-06-2010, n.

14893, in Foro amm.CDS 2010, 12, 2628 n.

Gagliardi

Non invade la sfera di discrezionalità

tecnica della p.a. e non costituisce, pertanto,

violazione del limite esterno della

giurisdizione assegnata al giudice

amministrativo, la decisione del consiglio di

stato che, nel giudizio avente ad oggetto la

correzione di una prova scritta del concorso

pubblico per l’accesso alla professione

notarile, abbia ritenuto che i criteri

valutativi adottati dalla commissione

esaminatrice siano stati irragionevolmente

restrittivi (nella specie, la suprema corte ha

confermato la decisione con la quale il

consiglio di stato aveva annullato l’atto col

quale una candidata al concorso per notaio

era stata esclusa, in ragione di un preteso

«travisamento della traccia»,

dall’ammissione alle prove orali, nonostante

avesse valorizzato nell’elaborato scritto una

delle plausibili risposte richieste dalla

traccia).

Le valutazioni tecniche delle commissioni

esaminatrici dei pubblici concorsi, inserite

in un procedimento amministrativo

complesso e dipendenti dalla valorizzazione

dei criteri predisposti preventivamente

dalle medesime commissioni, sono

assoggettabili al sindacato giurisdizionale

del giudice amministrativo - senza che ciò

comporti un’invasione della sfera del merito

amministrativo, denunciabile con il ricorso

per cassazione per motivi inerenti alla

giurisdizione - qualora risultino affette da

illogicità manifesta o travisamento del fatto

od irragionevolezza evidente o grave, vizio,

quest’ultimo, che si configura anche quando

la valutazione negativa sia stata

conseguenza dell’attribuzione alla traccia di

una prova di una portata delimitante i

risultati «accettabili» (sul piano della

condivisibilità tecnica della soluzione

prospettata rispetto alla gamma di quelle in

ipotesi attendibili) in termini indebitamente

restrittivi (principio enunciato dalle sezioni

unite con riferimento all’impugnazione del

risultato delle prove scritte del concorso

notarile).

d) Concorso per notaio: mancato

tempestivo deposito del ricorso Cass. civ.

sez. unite, sent., 21-11-2011, n. 24411

Esclusione dalle prove orali. Non ricorre

eccesso di potere se il giudice speciale,

rilevata l'inesistenza di notifica alla

Commissione Esaminatrice e la nullità della

notifica ai controinteressati non costituiti,

quindi ordinando la relativa integrazione ed

all'uopo fissando sia il termine per

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l'incombente notificatorio sia il termine per

il deposito (quindici giorni dall'ultima delle

notifiche effettuate), individui una regula

juris facendo uso dei suoi poteri di

rinvenimento della norma applicabile,

attraverso l’interpretazione. Si tratta di una

norma esistente e non di un'attività di

produzione normativa inammissibilmente

esercitata dal giudice e poiché il ricorrente

non ammesso ha effettuato il deposito oltre

il termine il Consiglio di Stato ha dichiarato

improcedibile l'appello per decadenza dal

rispetto del termine perentorio assegnato

per il deposito dell'atto di integrazione.

d) Concorso a P.G. presso la Cassazione: non

si può ripetere il concorso se alcuni sono

andati in pensione (Cass. civ., sez. un., 09-

11-2011, n. 23302).

La sentenza con cui il consiglio di stato,

pronunciando su un ricorso per

l’ottemperanza di un giudicato avente ad

oggetto l’annullamento del conferimento di

pubbliche funzioni a seguito di una

procedura concorsuale non più ormai

ripetibile (nella specie, per l’avvenuto

pensionamento dei candidati concorrenti),

ordina alla competente amministrazione

(nella specie, al Csm) di provvedere

ugualmente a rinnovare il procedimento

«ora per allora», al solo fine di determinare

le condizioni per l’eventuale accertamento

di diritti azionabili dal ricorrente in altra

sede e nei confronti di altra

amministrazione, eccede i limiti entro i

quali è consentito al giudice amministrativo

l’esercizio della speciale giurisdizione di

ottemperanza ed è soggetta, pertanto, al

sindacato della corte di cassazione in punto

di giurisdizione che annulla la decisione del

Consiglio di Stato.

e) Accesso a categoria superiore di

lavoratore comunale.

Un lavoratore comunale con diritto

all’accesso alla procedura di inquadramento

in una categoria superiore, di fronte al

Comune che temporegginia, chiede al

giudice amministrativo l’inquadramento

immediato. La Corte (Cass., sez. un., 29-05-

2012, n. 8513) afferma che nel giudizio di

ottemperanza di sentenza del giudice

ordinario, il giudice amministrativo non

cade in eccesso di potere giurisdizionale

quando si limita all’interpretazione del

giudicato, al quale si tratta di assicurare

l’ottemperanza stessa e cioè l’ammissione

alla procedura e non l’inquadramento

immediato.

VI. Riflessioni finali sul diritto vivente

(das lebende Recht o flexible droit)

dell’eccesso di potere giurisdizionale.

In armonia con il pensiero di Emilio Betti,

L’interpretazione della legge e degli atti

giuridici, Milano, 1949, 17, 34: il diritto

«non è qualcosa di bello e fatto, né un

organismo che si sviluppa da sé per mera

legge naturale», «è qualcosa che non è ma si

fa, in accordo con l’ambiente sociale

storicamente condizionato proprio per

l’opera assidua d’interpretazione».

1. Duplice senso dell’eccesso di potere

giurisdizionale:

a) statico definizione del concetto di eccesso

di potere della giurisprudenza che invade o

supera i limiti ritenendo di poter valutare le

funzioni di altri organi come gli organi di

gestione e la P.A.

b) dinamico nel senso di sempre maggiore

attenzione al problema attraverso il diritto

vivente dell’interpretazione

giurisprudenziale che esamina non solo il

potere o la potestà della P.A., ma anche i

compiti, gli scopi e le funzioni assegnate e

come sono gestite.

Concetto di recente accolto da Cass. civ. sez.

un. 21 febbraio 2013 n. 4283, in tema di

conferimenti indebiti di incarichi da parte di

amministratori di s.p.a. pubblica e controllo

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della corte dei conti sulla giuridicità

sostanziale del potere discrezionale.

Secondo le sezioni unite: Le scelte elettive

degli amministratori pubblici, dovendosi

conformare ai criteri di legalità ed a quelli

giuridici di economicità, di efficacia e di

buon andamento, sono soggette al controllo

della Corte dei Conti, in quanto assumono

rilevanza sul piano della legittimità e non

della mera opportunità dell'azione

amministrativa.

La Corte dei Conti non viola il limite

giuridico della riserva di amministrazione,

sancito dall'art.1 co.1 l. n. 20/1994,

modificato dall'art. 3 l. n. 546/1993,

controlla anche la giuridicità sostanziale

dell'esercizio del potere discrezionale,

verificando non solo se la l'amministratore

abbia compiuto l'attività per il

perseguimento di finalità istituzionali

dell'ente, ma anche se nell'agire

amministrativo abbia rispettato dette

norme e principi giuridici.

La discrezionalità che la L. 14.1.1994, n. 20,

art. 1, co. 1, riconosce agli amministratori

pubblici nell'individuazione della scelta più

idonea, nel caso concreto, per il

perseguimento del pubblico interesse per

esser legittima deve rispettare i criteri

giuridici informatori dell'agere della P.A.

dettati dalla Costituzione (art. 97), codificati

da apposita normativa secondo cui: "Le

pubbliche amministrazioni devono: a)

garantire la legittimità, regolarità e

correttezza dell'azione amministrativa

(controllo di regolarità amministrativa e

contabile); b) verificare l'efficacia, efficienza

ed economicità dell'azione amministrativa

al fine di ottimizzare, anche mediante

tempestivi interventi di correzione, il

rapporto tra costi e risultati (controllo di

gestione)".

Pertanto l'esame da parte della Corte dei

Conti delle scelte degli amministratori

pubblici di UNIRE di incaricare

professionisti esterni per consulenze, pareri

e difesa giudiziale alla luce dei presupposti

legali e delle clausole generali di giuridicità

innanzi richiamati al fine di verificare la

legittimità della scelta e la correttezza della

gestione delle risorse pubbliche per i

compensi corrisposti, alla luce anche del

fondamentale principio del buon

andamento e della ragionevole

proporzionalità tra costi e benefici in

relazione ai fini da perseguire, non travalica

il limite esterno della giurisdizione erariale.

Ne consegue che il conferimento

dell'incarico è legittimo solo in ipotesi di

impossibilità oggettiva, da rappresentare

nella delibera di far fronte all'esigenza

richiesta con personale interno

all'organizzazione, la cui qualificazione

professionale l'amministrazione ha infatti

l'obbligo di verificare periodicamente ed

incrementare.

2. Eccesso di potere: profili di diritto

europeo.

Anche dal punto di vista dell’Unione

europea il sistema è in evoluzione. Mentre il

precedente testo dell’art. 173 del trattato

CEE non prevedeva il sindacato sull’eccesso

di potere nella giurisprudenza della Corte di

Giustizia di Lussemburgo, (così Police, in

Dir. proc. amm. 1995, 3, 608), il nuovo

articolo 263 del Trattato di Lisbona del

1.12.2009, ribadisce espressamente che la

Corte di giustizia dell’U.E. esercita un

controllo di legittimità degli atti legislativi

del Parlamento e del Consiglio europeo e

anche della BCE (come nel vecchio testo),

ma prevede anche un controllo di

legittimità sugli atti amministrativi degli

organi o organismi dell’U.E. che producono

effetti giuridici nei confronti dei terzi

(novella del 2009, in Adam, Tizzano,

Lineamenti di diritto dell’U.E., 258 ss. )

3. L’intricato sviluppo storico dell’eccesso di

potere giurisdizionale (Nigro).

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

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Il termine ontologicamente vuole significare

sia l’eccesso di potere giurisdizionale come

invasione di un giudice nel sfera di poteri di

un altro giudice, come il giudice ordinario

nella sfera di attribuzioni riservate al

giudice speciale (amministrativo, contabile)

e viceversa, sia l’eccesso di potere

giurisdizionale come invasione da parte di

un giudice (ordinario, amministrativo,

contabile) della sfera di attribuzioni

riservate alla discrezionalità del complesso

Governo-P.A.

Possiamo ricordare la l. 31.3.1877 n.3761

sui conflitti di attribuzioni tra giudici e P.A.

attribuito alla Cass. Roma o i richiami

espressi all’eccesso di potere nell’art.3 della

legge istitutiva della IV sez. del Cons. di

Stato (l. 31.3.1889 n.5892) o ancora nell’art.

22. t.u. 17.8.1907 n.638 o nell’art.5 r.d.

30.12.1923 n.2840 sull’introduzione della

giurisdizione esclusiva

Si pensi agli interessi legittimi comunitari in

base all’art.13 della legge 142 del 1992 che

consentiva al giudice amministrativo

l’annullamento dell’atto, e al giudice

ordinario il risarcimento del danno, il

superamento del riparto basato sulla

posizione soggettiva tutelata: interesse

legittimo-annullamento dell’atto e diritto

soggettivo-risarcimento del danno è

superata dopo lunghi contrasti con il

principio che alla giurisdizione del giudice

amministrativo vanno le controversie

relative agli atti e «i comportamenti delle

p.a. e dei soggetti ad esse equiparati»,

riconducibili all’esercizio di un pubblico

potere, mentre al giudice ordinario i

comportamenti non riconducibili, nemmeno

mediatamente all’esercizio del potere del

governo o della P.A. anche se è prevista la

giurisdizione esclusiva (Corte cost., 06-07-

2004, n. 204;Corte cost., 11-05-2006 n.191).

Sono tramontate molte questioni sui

rapporti tra giurisdizioni come quelle tra

giudice ordinario e giudice amministrativo

in tema di diritti soggettivi, specie dopo

l’emanazione del codice del processo

amministrativo nato del 2010 e oggetto già

di ritocchi, (195/2011 e l’ultimo è ad opera

del dlgs 14.9.2012 n.160), la creazione del

regolamento di giurisdizione d’ufficio da

parte del secondo giudice (giudice

ordinario, giudice amministrativo, giudice

contabile etc.) che non condivide la

giurisdizione attribuitagli in relazione alla

controversa rimessagli in base alla traslatio

iudici, all’introduzione del giudicato

implicito che impedisce di sollevare la

questione di giurisdizione solo perché il

merito è andato male.

Inoltre la giurisdizione esclusiva è in

costante aumento: il t.u. sul Consiglio di

Stato 26.6.1924 n.1054 all’art. 29 prevedeva

solo 9 ipotesi di giurisdizione esclusiva,

pochi casi divenuti nell’art 133 del nuovo

c.p.a. l’intero alfabeto fino a Z-quinques

introdotta con l.56 del 2012.

4.Dal sindacato all’eccesso di potere

giurisdizionale al sindacato sull’eccesso di

potere amministrativo

La giurisprudenza specie di recente va

sviluppando il concetto di eccesso di potere

giurisdizionale proprio nei rapporti tra

potere giudiziario e potere di governo e di

gestione dell’attività dell’esecutivo e della

P.A.

4.1 Il primo punto concerne l’essenza del

potere amministrativo incentrato sulla

discrezionalità, prima considerata

“assoluta” e oggi invece “virtuosa” perché

“orientata” o ”finalizzata” al “buon

andamento e all’imparzialità” della P.A. che

prestabilisce le sfere di competenza, le

attribuzioni e l’imparzialità della P.A.”

(art.97 Cost.), anche se si vanno

diffondendo “organizzazioni pubbliche in

forme privatistiche” in base alla l.15/2005

con ripetuti problemi di costituzionalità

(Cerulli Irelli, Amministrazione pubblica e

dirirtto privato, Torino 2011, 38).

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In proposito Cass. civ., sez. un., 19-08-2009,

n. 18375 ha ritenuto non configurabile un

eccesso di potere giurisdizionale del giudice

amministrativo, per invasione della sfera

riservata al potere discrezionale della p.a.,

nel caso in cui il giudice dell’ottemperanza,

rilevata la violazione od elusione del

giudicato amministrativo, adotti

provvedimenti in luogo

dell’amministrazione inadempiente,

sostituendosi al soggetto obbligato ad

adempiere, in quanto, in ossequio al

principio dell’effettività della tutela

giuridica, il giudizio di ottemperanza, al fine

di soddisfare pienamente l’interesse

sostanziale del soggetto ricorrente, non può

arrestarsi di fronte ad adempimenti

parziali, incompleti od addirittura elusivi

del contenuto della decisione del giudice

amministrativo.

4.2 Il secondo il profilarsi di un “diritto ad

una buona amministrazione” riconosciuto

anche dall’art.41 della Carta europea dei

diritti dell’uomo Carta dei diritti

fondamentali dell’Unione europea (Carta di

Nizza e di Strasburgo) allegato al Tratto di

Lisbona entrato in vigore il 1.12.2009 in cui

all’art.41 si riconosce per il cittadino

europeo il “diritto ad una buona

amministrazione” che deve motivare le

proprie decisioni, con diritto per ogni

persona ad un trattamento “equo ed

imparziale” ed in termini ragionevoli delle

questioni che lo riguardano, con diritto ad

essere ascoltato, ad accedere agli atti che lo

riguardano ed al risarcimento (art.41 co.3)

dei danni cagionati dalle sue istituzioni.

4.3 Il terzo è il sindacato anche sulla

discrezionalità tecnica della P.A.

consentendo al potere giurisdizionale di

superare l’argine al dilatarsi dell’influenza

della tecnica come usbergo a protezioni

delle decisioni della P.A., anche attraverso la

consulenza d’ufficio prevista dall’art. 67 del

c.p.a. Pima del c.p.a. il Cds.( sez. IV, 14-04-

2010, n. 2099) riteneva ammissibile, dopo

la entrata in vigore della l. 21 luglio 2000 n.

205, la consulenza tecnica d’ufficio anche

nella giurisdizione di legittimità quale

strumento di ausilio del giudice nel

sindacato di provvedimenti che sono

espressione di discrezionalità tecnica.

4.4 Dal controllo degli atti sui risultati del

concorso notarile (Cass. sez. un. 21.6.2010

n. 14893) al tramonto dell’appalto pubblico

senza gara (Cons. Stato, sez. III, 8 gennaio

2013 n. 26), motivata da ragioni di natura

tecnica (art. 57 d.lgs. 163/2006 co..2 lett. b,

Codice dei contratti pubblici, procedura

negoziata senza previa pubblicazione di un

bando di gara).

La scelta della P.A. va controllata con rigore

nella individuazione dei presupposti

giustificativi, da interpretarsi

restrittivamente, dal giudice amministrativo

tenuto ad assicurare una tutela piena ed

effettiva secondo i principi della

Costituzione e del diritto europeo (art.1

c.p.a.). Nella specie non avendo la P.A.

dimostrato che solo l’impresa scelta era in

grado di eseguire la prestazione oggetto del

contratto, è illegittimo l’affidamento di un

servizio pubblico, mediante una procedura

negoziata, senza previa pubblicazione del

bando di gara, "per ragioni di natura

tecnica", in mancanza di indagine di

mercato sul se il contraente sia l’unico

operatore possibile, anche perché non

rileva l’affermazione, indimostrata, che la

scelta di un’altra impresa avrebbe

comportato modifiche di fornitura e di

servizi con costi economici sproporzionati e

con tempi tecnici non compatibili con la

continuità del servizio.

Il Consiglio di Stato ritenuta la nullità

dell’appalto senza gara, a norma dell’art.

267 lett. b) del Trattato U.E. ha rimesso la

questione pregiudiziale alla Corte di

Giustizia U.E. al fine del decidere, se la P.A.,

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prima di stipulare il contratto con un

determinato operatore scelto senza il bando

di gara, pubblicando sulla Gazzetta ufficiale

dell’Unione europea l’avviso di trasparenza

preventiva, dieci giorni prima della

stipulazione del contratto, precluda al

giudice nazionale, di dichiarare la

conseguente inefficacia del contratto,

nonostante l’accertata illegittimità delle

procedura, ed in via subordinata, se una

siffatta disciplina contrasti con i principi di

parità delle parti, di non discriminazione e

di tutela della concorrenza.

5. L’eccesso di potere tra interpretazione

della norma e una norma putativa ideata dal

giudice.

La giurisprudenza qualifica l’eccesso di

potere giurisdizionale come l’applicazione

di una norma diversa da quella reale, in

qualche modo ritenuta dal giudice come

esistente, putativa e quindi da applicare.

Il concetto dell’insistenza della norma

putativa e della semplice interpretazione

compiuta è utilizzata dalla giurisprudenza

5.1.Nel caso di un istituto professionale non

statale parificato solo per la prima classe la

Corte (cass., sez. unite civili – 12 dicembre

2012 n. 22784) ha respinto la protesta degli

studenti che attraverso un giudizio

volevano l’intera parificazione, affermando

che l’eccesso di potere giurisdizionale per

invasione della sfera di attribuzioni

riservata al legislatore è configurabile solo

qualora si possa affermare che il giudice

abbia applicato non la norma esistente, ma

una norma da lui creata, ponendo in essere

un’attività di produzione normativa che non

gli compete. Non sussiste tale vizio, che

rende ricorribile in Cassazione la sentenza

del giudice di merito per difetto di

giurisdizione, quando il medesimo giudice

si sia attenuto al compito d’interpretazione

che gli è proprio, ricercando

nell’ordinamento gli elementi da cui

desumere la volontà della legge applicabile

nel caso concreto, anche se questa sia stata

desunta non dal tenore letterale delle

singole disposizioni, ma dalla ratio che il

loro coordinamento sistematico disvela, tale

operazione ermeneutica potendo dare

luogo, tutt’al più, ad un error in iudicando,

non alla violazione dei limiti esterni della

giurisdizione.

5.2 Anche in un’altra decisione (Cass., sez.

unite civili – 14 settembre 2012 n. 15428)

per negare il vizio di eccesso di potere

giurisdizionale si afferma che in tanto le

Sezioni Unite della Cassazione possono

annullare una sentenza del Consiglio di

Stato in quanto si configura che il giudice

amministrativo abbia sconfinato dalla

giurisdizione di legittimità in quella di

merito, ovvero che abbia applicato non già

una norma esistente bensì una norma da lui

creata, a condizione che si possa distinguere

tra un’attività di formale produzione

normativa – inammissibilmente esercitata

dal giudice – da un’attività interpretativa

che si sostanzia invece in un’opera creativa

della volontà di legge nel caso concreto.

Nella specie non ricorre il vizio di eccesso di

potere giurisdizionale nel caso di sentenza

emessa dal Consiglio di Stato in forma

semplificata, ai sensi dell’art. 60 c.p.a., senza

che siano trascorsi almeno 20 giorni dal

perfezionamento della notifica dell’appello

principale nel caso in cui comunque risulti

dalla stessa sentenza che il Collegio abbia

sentito le parti “in ordine alla possibilità di

definire la questione con sentenza in forma

semplificata”

5.3 Non si tratta di un caso isolato, perché

Cass. civ., sez. un., 28-01-2011, n. 2068, in

tema di limiti al sindacato delle sezioni

unite della corte di cassazione sulle

decisioni del consiglio di stato in sede

giurisdizionale che accoglie il ricorso in

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tema di una procedura concorsuale, precisa

che l’eccesso di potere giurisdizionale per

invasione della sfera di attribuzioni

riservata al legislatore è figura di rilievo

meramente teorico, in quanto - postulando

che il giudice applichi, non la norma

esistente, ma una norma da lui creata -

potrebbe ipotizzarsi solo a condizione di

poter distinguere un’attività di produzione

normativa inammissibilmente esercitata dal

giudice, da un’attività interpretativa, che si

sostanzia in un’opera creativa della volontà

della legge nel caso concreto (in

applicazione del principio, la suprema corte

ha dichiarato inammissibile il ricorso con

cui un comune denunciava eccesso di

potere da parte del consiglio di stato, che

avrebbe invaso il campo del legislatore,

disapplicando l’art. 34, 2º co. del codice dei

contratti a seguito della sentenza della corte

di giustizia Ue 19 maggio 2009, resa nel

proc. C-538/07, posteriore al bando ed alla

gara, ed applicando retroattivamente l’art.

3, d.l. n. 135 del 2009, conv. in l. 166 del

2009, norma ricettiva della citata decisione

europea).

5.4 Ed ancora (Cass., sez. un. 15 gennaio

2010 n. 530) sempre ai fini di identificare

l’eccesso di potere giurisdizionale, per

invasione della sfera di attribuzioni

riservata al legislatore, che consente la

proposizione del ricorso in Cassazione

avverso le decisioni del Consiglio di Stato, è

ravvisabile se e in quanto il giudice applichi

non la norma esistente, ma una norma da

lui stesso creata, si che la sua opera si

risolva in una operazione creativa della

volontà del legislatore e non meramente

interpretativa.

Nella specie il Consiglio di Stato ha

dichiarato inammissibile un ricorso

incidentale, per carenza di interesse dei

ricorrenti incidentali; anche attraverso

un’opinabile equiparazione tra chi non

aveva partecipato alla gara e che non poteva

parteciparvi.

5.5 In conclusione la giurisprudenza, ai fini

dell’individuazione dei limiti esterni della

giurisdizione amministrativa, che

tradizionalmente delimitano il sindacato

consentito alle sezioni unite sulle decisioni

del consiglio di stato che quei limiti

travalichino, si deve tenere conto

dell’evoluzione del concetto di giurisdizione

- dovuta a molteplici fattori: il ruolo

centrale della giurisdizione nel rendere

effettivo il primato del diritto comunitario;

il canone dell’effettività della tutela

giurisdizionale; il principio di unità

funzionale della giurisdizione nella

interpretazione del sistema ad opera della

giurisprudenza e della dottrina, tenuto

conto dell’ampliarsi delle fattispecie di

giurisdizione esclusiva; il rilievo

costituzionale del principio del giusto

processo, ecc. - e della conseguente

mutazione del giudizio sulla giurisdizione

rimesso alle sezioni unite, non più

riconducibile ad un giudizio di pura

qualificazione della situazione soggettiva

dedotta, alla stregua del diritto oggettivo, né

rivolto al semplice accertamento del potere

di conoscere date controversie attribuito ai

diversi ordini di giudici di cui l’ordinamento

è dotato, ma nel senso di tutela

giurisdizionale dei diritti e degli interessi,

che comprende, dunque, le diverse tutele

che l’ordinamento assegna a quei giudici

per assicurare l’effettività dell’ordinamento;

infatti è norma sulla giurisdizione non solo

quella che individua i presupposti

dell’attribuzione del potere giurisdizionale,

ma anche quella che dà contenuto a quel

potere stabilendo le forme di tutela

attraverso le quali esso si estrinseca;

pertanto, rientra nello schema logico del

sindacato per motivi inerenti alla

giurisdizione l’operazione che consiste

nell’interpretare la norma attributiva di

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tutela, onde verificare se il giudice

amministrativo, ai sensi dell’art. 111, 8º

comma, Cost., la eroghi concretamente e nel

vincolarlo ad esercitare la giurisdizione

rispettandone il contenuto essenziale, così

esercitando il sindacato per violazione di

legge che la suprema corte può compiere

anche sulle sentenze del giudice

amministrativo (fattispecie relativa a

domanda di risarcimento del danno causato

dall’esercizio illegittimo della funzione

pubblica espropriativa, della provincia di

Mantova per la costruzione di una

circonvallazione, avendo la suprema corte

considerato che la tutela risarcitoria anche

autonomamente proposta, a prescindere dal

pregiudiziale annullamento del

provvedimento lesivo illegittimo,

costituisce una misura minima e perciò

necessaria di tutela dell’interesse

sostanziale dedotto dal privato).

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di Antonio Valitutti (Consigliere della Suprema Corte di Cassazione)

Relazione esposta dal dott. Antonio Valitutti (Consigliere della Corte Suprema di Cassazione), componente

del Comitato Scientifico della rivista La Nuova Procedura Civile, in occasione del convegno dal titolo

Principio di responsabilità e procedimento disciplinare: ordinamento giudiziario e forense a confronto,

tenutosi in Roma presso la Suprema Corte di Cassazione in data 1.3.2013.

E’ noto che giuristi i rimani definivano il processo actus trium personarum, nel quale, invero, ai due contendenti si aggiungeva la figura di un organo, già allora estraneo alla controversia (terzo), costituito dal iudex. Il processo, strumento del lavoro dei magistrati e degli avvocati, li unisce, dunque, in maniera indissolubile, nel vissuto quotidiano delle rispettive attività; ed un vincolo di tal fatta non è ravvisabile, ma neppure ipotizzabile, in qualsiasi altro settore professionale. E, del resto, a ben vedere, le due attività forensi sono accomunate dall’oggetto stesso dell’agire professionale del giudice e dell’avvocato, cui il processo appresta lo strumento indispensabile. E’ – per vero – l’uomo ed il suo stesso essere, nella molteplicità delle direzioni nelle quali si orienta e si dispiega la sua vita, a costituire l’oggetto unico dell’agire degli operatori del diritto, anche qui con una peculiarità tutta propria ed esclusiva di tali attività, che non ha eguali in altre funzioni

pubbliche o professioni private. Di qui il plauso che il sottoscritto ha sempre inteso tributare alle occasioni di riflessione comune che l’Avvocatura ha sentito, da ultimo più spesso in varie sedi giudiziarie, il bisogno di organizzare, come è accaduto nel recente, riuscitissimo, incontro di studio sulla deontologia delle professioni forensi, organizzato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma, in data 1.3.2013. Chi scrive, consigliere della Corte Suprema di Cassazione, giunto ormai alla vigilia del trentennio di magistratura, e quasi al vertice della carriera, ha sempre avvertito l’esigenza – che nasce da un profondo rispetto per la classe forense, come interlocutrice indispensabile e preziosa della sua attività – di far “conoscere” meglio all’avvocato la figura del giudice, al di là ed al di fuori delle pastoie burocratiche, delle scansioni processuali, del carattere asettico di atti e sentenze; di far conoscere, insomma, il giudice sotto il connessi ed indissolubili profili dei doveri che

Dottrina &

Opinioni

Deontologia ed Etica del Magistrato

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l’ordinamento gli impone, e del ruolo che la cultura gli ha ormai assegnato, da millenni, nello sviluppo delle civiltà umane. Muovendo dal primo profilo, rilevo anzitutto che solo dopo anni di battaglie (il giudice applica le leggi per gli altri, ma non ha avuto, per lunghissimo tempo, una legge applicabile alle sue stesse mancanze) il codice deontologico dei magistrati è stato previsto legislativamente, ed è ora contenuto nel d.lgs. 109/06, che prevede due canali attraverso i quali può venire in luce la violazione deontologica da parte del magistrato: 1) l’esercizio delle funzioni attribuitegli; 2) la vita sociale, al di fuori dell’esercizio delle funzioni giudiziarie. Sotto il primo profilo vengono in considerazione i doveri di: a) imparzialità (es. arrecare un ingiusto danno o un indebito vantaggio ad una delle parti), di cui un corollario è la terzietà; b) correttezza (es., l’ingiustificata interferenza nell’attività di altro magistrato); c) diligenza (es. non fare ritardi nel deposito dei provvedimenti, non adottare provvedimenti nei casi non consentiti dalla legge, che siano affetti da negligenza grave ed inescusabile e che siano lesivi di diritti personali, o gravemente di quelli patrimoniali delle parti); d) laboriosità (il che vuol dire fare un congruo numero di provvedimenti, in relazione al carico di lavoro dell’ufficio di appartenenza); e) riserbo sugli affari in corso (es. evitare di sollecitare notizie della stampa sul proprio lavoro, istituire canali privilegiati con i media); f) equilibrio (es. evitare di tenere rapporti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti delle parti., dei difensori, dei testimoni o periti e degli altri magistrati o collaboratori). Sotto il secondo profilo, viene in considerazione il divieto di comportamenti che compromettano la credibilità personale (es. l’uso della qualità di magistrato per conseguire vantaggi ingiusti per sé o per gli altri), il prestigio ed il decoro del magistrato, o il prestigio dell’istituzione giudiziaria (es. iscrizione ad associazioni segrete, partiti politici, assunzione di incarichi senza autorizzazione del CSM, prestiti di denaro, o altre utilità, da parti di indagati in processi penali o civili o dai loro difensori, in relazione a processi all’interno del proprio ufficio o del distretto).

A tal proposito, la Cassazione ha precisato che l'insindacabilità del provvedimento giurisdizionale in sede disciplinare viene meno nei casi in cui il provvedimento sia “abnorme”, in quanto al di fuori di ogni schema processuale, ovvero sia stato adottato sulla base di un errore macroscopico o di grave e inescusabile negligenza, nel qual caso l'intervento disciplinare ha per oggetto non già il risultato dell'attività giurisdizionale ma il “comportamento deontologicamente deviante” posto in essere dal magistrato nell'esercizio della sua funzione. Come il comportamento del magistrato che inserisca in un decreto di perquisizione e di sequestro un contenuto costituito da atti istruttori assolutamente irrilevanti ed estranei all'indagine, contenenti allusioni e insinuazioni, notizie inutili, violando molteplici disposizioni della Costituzione, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e del codice di procedura penale (Cass.S.U. 20159/10); o il comportamento posto in essere, come giudice dell'esecuzione, consistente nell’autorizzare la vendita di un immobile senza incanto omettendo di fissare l'udienza ex art. 569 c.p.c., o comunque di sentire le parti, nonché nel disporre la vendita sebbene la pubblicità fosse stata effettuata in difformità da quanto stabilito nell'ordinanza, con fissazione di rilevanti margini di aumento per le eventuali offerte successive, ed imponendo il versamento delle stesse nella misura integrale, a differenza di quanto stabilito per la prima offerta (Cass.S.U. 11069/12). E’ la peculiarità della funzione esercitata dal magistrato a far sì, peraltro, che la sua condotta, in sede disciplinare e risarcitoria, incontri il limite del dolo e della colpa grave, come del resto anche quella dei pubblici funzionari. Ma a differenza di questi e degli esercenti una professione, la responsabilità civile del magistrato è soggetta a regole particolari, atteso il rilievo costituzionale che la posizione del giudice, in quanto potere dello Stato riveste. Sul piano del diritto costituzionale, la Consulta ha – per vero – precisato, al riguardo, che, poiché la disciplina dell'attività del giudice deve essere tale da rendere quest'ultima immune da vincoli che possano comportare la sua soggezione, formale o sostanziale, ad altri

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organi, ma al contempo suscettibile di assicurare l’effettiva soggezione del magistrato medesimo alla legge, e in primo luogo alla Costituzione, le cui norme (artt. 101, 104 e 108) sanciscono ad un tempo il principio d'indipendenza e quello di responsabilità, non merita censura una disciplina della responsabilità civile del magistrato caratterizzata da una serie di misure e di cautele dirette a salvaguardare l'indipendenza dei magistrati nonché l'autonomia e la pienezza dell'esercizio della funzione giudiziaria. Ed, in base a tale principio, è stata dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'intera l. n. 117/88, nella parte in cui prevede e disciplina la responsabilità dei giudici per colpa grave (C. Cost. 18/1989). E, d’altro canto, sul piano del diritto comunitario, l’art. 47, co. 2 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione qualifica l’indipendenza del magistrato come un diritto del singolo individuo: “ogni individuo ha diritto che la sua causa sia esaminata da un giudice indipendente ed imparziale”. Infine, sul piano del diritto comparato, la responsabilità civile diretta del giudice esiste solo in Spagna (in solido con quella dello Stato), mentre negli Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Israele, vi è immunità assoluta (il giudice nei Paesi anglosassoni può essere revocato solo dalla Corona su istanza dei due rami del Parlamento). Un sistema grosso modo equiparabile al nostro esiste, infine, in Francia, Paesi Bassi, Svizzera, nei quali è prevista l’azione diretta esclusivamente contro lo Stato, con una – più, o meno, limitata possibilità di rivalsa sul singolo magistrato. Fin qui il diritto, ma il ruolo del giudice è un ruolo culturale, millenario. Basti ricordare, al riguardo, le celebri parole di Ugo Foscolo: “dal dì che nozze, tribunali ed are diero alle umane genti d’essere pietose di se stesse e d’altrui”, con le quali la nascita della società civile si fa risalire proprio alla comparsa del giudice, nel tendenziale ripudio della autotutela privata. Ebbene, il percorso esistenziale del giudice muove dalla sua “vocazione”; non esito, infatti, ad adoperare questo vocabolo, denso di significati assai pregnanti, non parendomi adeguato nessun altro a connotare un’attività che consiste

nell’occuparsi, per tutta la vita, come incisivamente rilevavano – con un’espressione che ha cessato di sembrarmi enfatica da molto tempo – della “divinarum atque umanarum rerum notitia”. Notizia di cose divine ed umane, ma – in special modo – notizia dell’ infinita sofferenza degli uomini cagionata, non sempre soltanto dalle forze della natura, ma assai spesso dalla malvagità dei loro simili, nella quale il giudice si immerge, consapevole della sua inadeguatezza di uomo: “sotto gli archi del processo scorre la fiumana inesausta della sorte umana”, ed il giudice, affacciato alle spallette del ponte, può cogliere, “se ha orecchie per sentire, le voci che salgono da questa corrente, questo ansito universale di giustizia” (Calamandrei). Compito sovrumano ed immane , dunque, quello del giudice, la cui considerazione induceva un grande magistrato, Mario Berri (che fu Primo Presidente della Cassazione) a scrivere: ”chiedo perdono a Dio di aver fatto il giudice”. Ma è proprio per questo che, secondo Calamandrei, l’elogio non va alle leggi, ma alla condizione umana del giudice, “a quest’ordine di asceti civili, condannati, in una società sempre più sprezzante dei valori morali, alla solitudine, all’isolamento, e tuttavia capaci di rimanere con dignità e discrezione al loro posto, anche in tempi di generale rovina, per cercare di introdurre nelle formule spietate delle leggi la comprensione umana della ragione illuminata dalla pietà”. Viene in mente la celeberrima sentenza di Pascal, per il quale l’uomo altro non è che “una canna che pensa”: non lo spazio e la durata connotano l’uomo tra gli esseri viventi. Tutta la dignità dell’uomo consiste nel pensiero. “Il sonno della ragione genera mostri” ammonisce Goya, in una delle tavole dei Capricci. Ed in questo il ruolo del giudice è soprattutto quello di agevolare l’emersione di pensieri buoni, ossia la ragione, quale distillato del pensiero sano ed onesto. Un ruolo, pertanto, di agevolazione dello sviluppo morale dei consociati, di penetrazione nel corpo sociale per avvertirne le istanze e le trasformazioni. Ma il secondo profilo del giudizio – nella sintesi di Calamandrei - è la “pietà”: “in verità nel dolore risiede tutto il mistero del diritto” ammoniva V. Jhering. Il dolore del fare giustizia con leggi umane, e perciò,

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imperfette: “a rendere le leggi autorevoli non è il numero degli anni o l’autorità dei promulgatori, bensì la giustizia” (Tertulliano). L’esigenza, dunque, di una giustizia non disgiunta dalla carità. “Quel che v’ha di più orrendo al mondo è la giustizia separata dalla carità”, diceva Mauriac; e la carità è anzitutto dare voce e chi non ne ha, “riempire le leggi – onde renderle più giuste – di occhi ed orecchie, per sentire e vigilare quando sia necessaria la fermezza e quando la tolleranza e la comprensione” (N. Ginzburg). “La legge nella sua maestosa equità – scriveva uno degli autori francesi più significativi del secolo scorso – proibisce così al ricco come al povero di dormire sotto i ponti, di elemosinare nelle strade e di rubare pane” (A. France), ma è il povero a pagare. E il giudice è chiamato, attraverso l’ermeneutica, e senza sostituirsi mai al legislatore, a riempire questo vuoto tra legge e giustizia. Il giudice, dunque, è giudice quando pensa, quando fa giustizia con la ragione illuminata dal cuore. Di qui il dovere del giudice di ripiegarsi malinconicamente sulla sua stessa inadeguatezza di uomo, sul fare giustizia con mezzi imperfetti: “la giustizia non è ardore giovanile e decisione energica ed impetuosa: giustizia è malinconia” osservava T. Mann. Ma la riflessione non può non vertere anche sul male che non risparmia il giudice stesso: pigrizia mentale, conformismo, servilismo, e soprattutto – peggio di ogni altra deprecabile ed immonda, soprattutto se riferita al giudice – la corruzione nell’esercizio della sua attività. Di qui, l’ambiguità eterna della giustizia: le leggi non l’assicurano, perché frutto di compromesso politico, con la conseguente incessante ricerca di parametri normativi di giustizia più elevati, come le leggi costituzionali, internazionali e comunitarie; ma l’operatore che deve cercare la giustizia è umanamente inadeguato. Così, “finchè l’uomo sia tale, la giustizia sarà la sua più alta esigenza, ma la sua città sarà giusta, nella misura in cui, nella coscienza di non esserlo ancora di non esserlo ancora, lotterà per diventarlo” (E. Garin). Ed è ai giudici che lottano, a fianco degli avvocati, accomunati da un unico destino ed uniti da un solo nobilissimo scopo, ai

magistrati “per i quali la giustizia non fu svogliato disbrigo di pratiche, ma impegno religioso di tutta la vita” (Calamandrei), a colleghi come Falcone e Borsellino, che la vita hanno offerto per un ideale che superava sé stessi, siano dedicate queste brevi riflessioni che la mia coscienza e la mia passione di giudice hanno inteso sottoporvi.

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di

PAOLO SPAZIANI

SOMMARIO: 1. Il nuovo rito per i

licenziamenti nel sistema dei riti speciali.

Struttura, natura e funzione. – 2.

Carattere pubblicistico dell’interesse

tutelato dal procedimento e conseguenze

sul piano ermeneutico. – 3. L’ambito di

applicazione. Il regime intertemporale. La

rilevanza della domanda ai fini della

determinazione del rito. – 4. Le questioni

relative alla qualificazione del rapporto e

il problema dei limiti oggettivi del

giudicato. – 5. Le domande fondate su

fatti costitutivi identici a quelli posti a

fondamento dell’impugnativa di

licenziamento. – 6. Le domande non

fondate su fatti costitutivi identici a quelli

posti a fondamento dell’impugnativa di

licenziamento: a) l’errore assoluto sul

rito. – 7. (Segue): b) il cumulo di

domande. L’errore relativo sul rito. – 8.

(Segue): c) la mancanza di errore sul rito.

La contemporanea pendenza dinanzi al

medesimo giudice del lavoro di più cause

soggette a riti differenti.

1. Il nuovo rito per i licenziamenti nel

sistema dei riti speciali. Struttura,

natura e funzione.

Il sistema processuale civile

italiano si caratterizza storicamente per la

tendenza alla specializzazione dei riti.

Le problematiche connesse con il nuovo rito per i licenziamenti

Dottrina &

Opinioni

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Si tratta di una tendenza

tradizionale del nostro legislatore, già

riscontrabile nel codice di procedura

civile del 1940 (nel cui Libro IV,

intitolato, appunto, “Dei procedimenti

speciali”, sono disciplinati numerosi e

diversi riti particolari) e perpetuatasi nella

successiva legislazione speciale, che trova

fondamento nell’esigenza di rendere più

agevole la tutela di particolari posizioni

giuridiche soggettive, mediante la

previsione di forme e strumenti

processuali maggiormente aderenti alla

loro specifica natura.

Negli ultimi decenni il ricorso del

legislatore alla creazione di procedimenti

speciali è, tuttavia, sensibilmente

aumentato, essendosi visto in questo

strumento uno dei possibili rimedi alla

cronica lentezza della giustizia civile.

L’incontrollata proliferazione di riti

caratterizzati da più o meno sensibili

deviazioni rispetto al modello del

processo ordinario – anche quando tali

deviazioni non fossero giustificate, a

livello sostanziale, dalla particolare natura

della situazione soggettiva tutelata – ha,

peraltro, determinato l’effetto opposto a

quello avuto di mira: la tutela

giurisdizionale, lungi dall’essere resa più

agevole, è divenuta paradossalmente più

complicata, in considerazione, da un lato,

della crescente difficoltà di individuare la

disciplina processuale concretamente

applicabile alla singola fattispecie, e,

dall’altro lato, della maggiore possibilità

che nella concreta vicenda processuale si

intreccino fattispecie diverse,

eventualmente da trattarsi con riti

differenti, con conseguenti problemi di

coordinamento non sempre facilmente

risolvibili attraverso gli strumenti

tradizionali offerti dal codice.

Di ciò ha preso atto lo stesso

legislatore, il quale, come è noto, con la

delega contenuta nell’art.54 della legge

n.69 del 2009 e con l’attuazione di tale

delega ad opera del d.lgs. n.150/2011, ha

manifestato il proposito di realizzare una

netta inversione di rotta rispetto alla sua

precedente tendenza, in funzione della

“riduzione” e “semplificazione” dei riti

civili di cognizione contenziosa devoluti

alla giurisdizione ordinaria e regolati dalla

legislazione speciale.

A pochi mesi dall’attuazione della

delega legislativa funzionale alla

riduzione dei riti, il legislatore è, peraltro,

“ricaduto” nella tendenza alla

specializzazione, predisponendo,

all’interno della legge 28 giugno 2012,

n.92, recante “Disposizioni in materia di

riforma del mercato del lavoro in una

prospettiva di crescita” (c.d. legge

Fornero), una serie di disposizioni

processuali (art.1, commi 47-69) destinate

ad essere applicate alle “controversie

aventi ad oggetto l’impugnativa dei

licenziamenti nelle ipotesi regolate

dall’art.18 della legge 20 maggio 1970,

n.300”.

La rilevanza e l’incidenza di queste

disposizioni è tale da consentire di

ritenere che esse non integrano una mera

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specificazione della disciplina propria del

rito tradizionale del lavoro (artt.414 s.

c.c.) né di taluno dei riti speciali già

contemplati dall’ordinamento processuale

(ad es.: il procedimento sommario di

cognizione di cui agli artt.702 bis s. c.p.c.;

il rito cautelare uniforme di cui agli

artt.669 bis s. c.p.c.; il procedimento per

la repressione della condotta antisindacale

di cui all’art.28 della legge n.300 del

1970), ma concretano un nuovo e distinto

rito speciale, che si aggiunge a quelli già

conosciuti, connotandosi per una propria

specifica autonomia, con tutto ciò che ne

consegue in ordine all’individuazione

delle fonti di integrazione della lacunosa

disciplina positiva1.

1 Le disposizioni processuali contenute nella legge Fornero non disciplinano aspetti rilevanti del procedimento come, ad es., la competenza per territorio, l’atto di costituzione del convenuto, gli effetti processuali della proposizione della domanda riconvenzionale ecc..

È allora evidente la rilevanza pratica del problema relativo all’inquadramento del nuovo rito nel sistema dei procedimenti speciali, atteso che, nell’ipotesi in cui esso venga qualificato come species di un genus già esistente, l’integrazione andrà ricercata nella disciplina di quel genus, mentre, nella contraria ipotesi in cui venga qualificato come nuovo ed autonomo procedimento, l’integrazione andrà cercata nella disciplina del rito tradizionale del lavoro (artt.414 s. c.p.c.), generalmente applicabile alle controversie aventi ad oggetto rapporti di lavoro subordinato, nelle quali rientrano quelle in materia di licenziamenti.

Quest’ultima soluzione è quella che tende decisamente a prevalere nella prima letteratura, la quale trae appunto argomento, da un lato, dalla non riconducibilità delle regole processuali della legge n.92/2012 ad alcuno dei riti speciali già conosciuti e, dall’altro lato, dall’oggetto delle controversie da esse regolate, che rientrano nelle controversie individuali di lavoro e che sono “estratte” da quelle contemplate nell’art.409 c.p.c.: v. CONSOLO-RIZZARDO, Vere o presunte novità, sostanziali e processuali, sui licenziamenti individuali, in Corr. giur., 2012, 736; CURZIO, Il nuovo rito per i licenziamenti, relazione all’incontro di studio del CSM sul tema La riforma del mercato del lavoro nella legge 28 giugno 2012 n.92, svoltosi a Roma dal 29 al 31 ottobre 2012, 2; DE ANGELIS, Art.18 dello Statuto dei lavoratori e processo: prime considerazioni, in Working Papers Massimo D’Antona, 2012, www.lex.unict.it, 10; LUISO, La disciplina processuale

Il nuovo procedimento si struttura

in due fasi, quella urgente o sommaria e

quella a cognizione piena o di

opposizione.

La prima si caratterizza, oltre che

per una trattazione deformalizzata, per

una cognizione meramente sommaria

(comma 49); viene introdotta con un

ricorso che deve presentare i requisiti di

cui all’art.125 c.p.c. e non quelli di cui

all’art.414 (comma 48); non prevede

preclusioni o decadenze istruttorie né per

il ricorrente né per il convenuto, sulla cui

costituzione nulla si dice2; e si conclude

speciale della legge n.92 del 2012 nell’ambito del processo civile: modelli di riferimento ed inquadramento sistematico, relazione all’incontro di studio del CSM sul tema La riforma del mercato del lavoro nella legge 28 giugno 2012 n.92, svoltosi a Roma dal 29 al 31 ottobre 2012, 2; SORDI, L’ambito di applicazione del nuovo rito per l’impugnazione dei licenziamenti e disciplina della fase di tutela urgente, relazione all’incontro di studio del CSM sul tema La riforma del mercato del lavoro nella legge 28 giugno 2012 n.92, svoltosi a Roma dal 29 al 31 ottobre 2012 (ora rinvenibile anche sul sito www.giuslavoristi.it), 5.

2 L’art.1, comma 48, della legge n.92/2012 dice soltanto che, dopo che il giudice ha fissato con decreto l’udienza di comparizione delle parti non oltre 40 giorni dal deposito del ricorso, il convenuto (cui nel frattempo sarà stato notificato il ricorso e il decreto, a cura del ricorrente, anche a mezzo di posta elettronica certificata, nel rispetto di un termine, fissato nello stesso decreto, non inferiore a 25 giorni prima dell’udienza) deve costituirsi rispettando a sua volta un termine (non inferiore a 5 giorni prima dell’udienza stessa) fissato con il medesimo decreto, ma non dice che la costituzione deve avvenire mediante deposito di una memoria difensiva né che questa debba avere il contenuto previsto dall’art.416 c.p.c..

La lacuna legislativa consente di formulare alternative ipotesi esegetiche, potendosi sostenere sia che la costituzione del convenuto debba avvenire ai sensi dell’art.416 c.p.c. (SORDI, cit., 21) sia che essa possa avvenire anche oralmente, purché con il ministero del difensore (TREGLIA, Brevi note sul nuovo processo per licenziamento introdotto dalla riforma del mercato del lavoro, in Lav. giur., 2012, 766).

Poste queste due alternative esegetiche estreme, ad avviso di chi scrive si può fondatamente formulare una tesi intermedia, ritenendo sibbene necessario, ai fini della costituzione in giudizio del resistente, il deposito di un atto scritto, in omaggio ad una regola generale del nostro sistema processuale, ma escludendo, tuttavia, che il

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con un’ordinanza immediatamente

esecutiva, con la quale il giudice provvede

all’accoglimento o al rigetto della

domanda (comma 49).

L’esecutorietà dell’ordinanza

conclusiva della fase urgente non può

essere sospesa né revocata fino alla

pronuncia della sentenza con cui il giudice

definisce3 la fase di opposizione (comma

50)4.

contenuto di questo atto scritto debba determinarsi ai sensi dell’art.416 c.p.c., sembrando più corretto fare riferimento all’art.125 c.p.c., in applicazione analogica, con riguardo al convenuto, della regola espressamente dettata per l’attore.

D’altra parte, l’utilizzazione del criterio esegetico che impone di ricercare nel rito codicistico del lavoro le regole integrative della disciplina del nuovo procedimento speciale è corretta nella misura in cui si tratti di colmare vere e proprie lacune di tale disciplina, ma non anche quando quest’ultima consente, sia pure attraverso il procedimento analogico, di risolvere adeguatamente la questione interpretativa.

Si consideri, inoltre, che, ove si ritenesse applicabile l’art.416 c.p.c. alla costituzione del convenuto, si determinerebbe l’irragionevole conseguenza per cui soltanto per quest’ultimo, e non anche per l’attore, maturerebbero preclusioni istruttorie contestuali al deposito dell’atto introduttivo.

Al contrario, ritenendo anche per la memoria del resistente applicabile l’art.125 c.p.c., si conferma che il nuovo rito non prevede preclusioni istruttorie nella fase sommaria (così CONSOLO-RIZZARDO, cit., 736; in tema v. anche CURZIO, cit., 11).

3 Sebbene la formula sia infelice, il predicato “definisce”, riferito al soggetto (il giudice) dell’ultima proposizione dell’unico periodo in cui si articola il comma 50, non può ingenerare equivoci. È stato infatti notato (SORDI, cit., 33) che, per quanto l’ordinanza possa essere stabile, essa, in quanto provvedimento conclusivo di una fase a cognizione sommaria, non può resistere ad un provvedimento di contenuto contrario emesso a conclusione di una fase a cognizione piena, ancorché non ancora irrevocabile, sicché non occorre che la sentenza sia passata in giudicato.

4 La regola non rappresenta una novità perché ripete, nella sostanza, la previsione contenuta nell’art.28, secondo comma, dello Statuto dei lavoratori con riguardo al decreto conclusivo della prima fase del procedimento di repressione della condotta antisindacale.

Cionondimeno, la dottrina ha avanzato dubbi circa la sua legittimità costituzionale, ritenendo che l’impossibilità di ottenere un provvedimento di

Questa fase viene introdotta con

ricorso da depositarsi, a pena di

decadenza, entro trenta giorni dalla

comunicazione o notificazione

dell’ordinanza (comma 51); si caratterizza

per un’istruttoria deformalizzata,

analogamente alla fase precedente ma,

diversamente da quest’ultima, si connota

per una cognizione piena (comma 57); è

soggetta alle preclusioni e decadenze del

rito del lavoro in quanto la disciplina degli

atti introduttivi è regolata dall’art.414

c.p.c. (per l’opponente: comma 51) e

dall’art.416 c.p.c. (per l’opposto: comma

53); e si conclude con una sentenza,

“reclamabile” davanti alla Corte di

Appello (comma 58)5, avverso la cui

decisione è proponibile ricorso per

cassazione (comma 62).

Il nuovo procedimento ha natura

complessa.

sospensione o di revoca dell’efficacia esecutiva sia lesiva del diritto di difesa della parte soccombente in fase sommaria (CAPONI, La corsia preferenziale per alcune cause di lavoro rallenta le altre in assenza delle adeguate risorse, in Guida dir., 2012, fasc.18, 10).

5 Ad onta del termine “reclamo” utilizzato dall’art.1, comma 58, della legge n.92/2012, non è dubbio né che il giudizio con esso introdotto abbia natura impugnatoria, né che si tratti di appello, per modo che, da un lato, trova operatività il principio per cui la devoluzione è circoscritta entro i confini delineati dai motivi di impugnazione (del che, del resto, si ha immediata conferma nel divieto di ius novorum previsto dal comma 59) e, dall’altro lato, trovano applicazione, come norme integrative della disciplina speciale, sia le regole generali sulle impugnazioni di cui agli artt.323 s. c.p.c., sia quelle che disciplinano l’appello nel rito codicistico del lavoro (così DE ANGELIS, cit., p.18; nello stesso senso, in sostanza, CONSOLO-RIZZARDO, cit., 736, i quali evidenziano che l’improprio utilizzo del termine “reclamo” si giustifica in quanto ‹‹tributo semantico alla celerità››).

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La prima fase ha natura di

procedimento sommario non cautelare a

prevalente funzione esecutiva.

Il carattere sommario riguarda non

solo il rito (che prevede una trattazione

deformalizzata nella quale deve essere

“omessa ogni formalità non essenziale al

contraddittorio”: comma 49, prima

parte)6, ma anche (e soprattutto) la

cognizione, in quanto il giudice deve

procedere soltanto “agli atti di istruzione

indispensabili” (comma 49, seconda

parte) ai fini della formazione di un

giudizio probabilistico di mera

verosimiglianza circa la fondatezza o

l’infondatezza della domanda, e ciò in

conformità alla funzione del

procedimento, che è quella di consentire

l’emanazione, il più rapidamente

possibile, di un provvedimento volto, sia

pure in via meramente provvisoria, a

porre fine alla situazione di incertezza

formatasi in ordine alla legittimità od

illegittimità del licenziamento assistito da

una delle tutele di cui all’art.18 dello

Statuto dei lavoratori, rinviando ad una

fase successiva gli approfondimenti

istruttori necessari acciocché il giudizio di

verosimiglianza si tramuti in giudizio di

certezza7.

6 Sotto tale aspetto, analogamente a quanto accade con riguardo al rito di cui agli artt.702 bis s. c.p.c. (in proposito, si noti che la formula utilizzata dalla prima parte del comma 49 dell’art.1 legge n.92/2012 ripete pedissequamente quella rinvenibile nell’art.702 ter, quinto comma, c.p.c.), può dunque parlarsi di un rito sommario che si giustappone al rito formale, proprio dell’ordinario procedimento di cognizione.

7 Sotto tale aspetto, analogamente a quanto accade con il rito cautelare (in proposito, si noti che la formula utilizzata

Il carattere non cautelare deriva

dalla circostanza che l’esigenza di un

provvedimento rapido fondato su una

cognizione meramente sommaria non

trova fondamento in ragioni cautelari (e

cioè sulla necessità di ovviare al pericolo

che, durante il tempo occorrente per farlo

valere in via ordinaria, il diritto del

lavoratore sia minacciato da un

pregiudizio imminente e irreparabile) ma

trova fondamento nel rilievo che viene

dato dalla nuova legge all’interesse di

pervenire nel più breve tempo possibile ad

dalla seconda parte del comma 49 dell’art.1 legge n.92/2012 ripete quella rinvenibile nell’art.669 sexies, primo comma, c.p.c), può dunque parlarsi di procedimento a cognizione sommaria che si giustappone ai procedimenti a cognizione piena, e cioè di un procedimento nel quale le esigenze di rapidità dell’accertamento prevalgono su quelle di ricerca della verità materiale, sicché ai fini del provvedimento è sufficiente il fumus della sussistenza – o dell’insussistenza – del diritto, non essendo necessario che sull’una o l’altra si formi un giudizio di certezza, che viene rinviato ad una successiva fase processuale.

E’ stato, peraltro, opportunamente notato (SORDI, cit., 24-25) che la formula del comma 49 dell’art.1 della legge n.92/2012 è più infelice di quella contenuta nell’art.669 sexies c.p.c., in quanto quest’ultimo qualifica l’indispensabilità degli atti istruttori “in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento [cautelare] richiesto” mentre analoga precisazione non è contenuta nella legge Fornero, sicché può sorgere il dubbio che gli atti istruttori “indispensabili” in nulla divergano dagli atti istruttori “rilevanti” (artt.702 ter, quinto comma; 420, quinto comma, c.p.c.; ) o “ammissibili e rilevanti” (art.183, settimo comma, c.p.c.) funzionali ad un giudizio a cognizione piena.

Il dubbio va, peraltro, sciolto in senso negativo, ove si tenga conto non solo della indicata funzione del procedimento (volto, appunto a consentire l’emissione in tempi rapidissimi di un provvedimento che rimuova, sia pure sulla base di un giudizio meramente probabilistico suscettibile di futura revisione, l’incertezza generatasi sulla legittimità dell’atto di recesso datoriale, quando esso sia assistito da una delle forme di tutela di cui all’art.18 della legge n.300/1970), ma anche, sotto un profilo più squisitamente testuale, del raffronto tra la formula utilizzata dal comma 49 in relazione alla fase urgente (“atti di istruzione indispensabili”) e quella utilizzata dal comma 57 in relazione alla fase di opposizione (“atti di istruzione ammissibili e rilevanti”), raffronto dal quale emerge, con evidenza, che i due concetti non coincidono.

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un primo pronunciamento, sia pure

orientativo e suscettibile di essere

successivamente rimosso, sulla legittimità

del recesso irrogato.

Il lavoratore che agisce con il

nuovo rito non deve dunque né allegare né

tanto meno provare la sussistenza di

esigenze cautelari8.

Il carattere di procedimento a

prevalente funzione esecutiva deriva dal

fatto che la fase sommaria non verte

all’emissione di un provvedimento

decisorio destinato ad assumere

l’incontrovertibilità propria della cosa

giudicata ma tende a determinare la

formazione anticipata di un titolo

esecutivo basato su un giudizio

superficiale, suscettibile di essere rimosso

all’esito di un successivo, più

approfondito esame istruttorio, da

compiersi nella fase di opposizione, ma

stabile sino all’emanazione della sentenza

conclusiva di tale fase.

8 La natura non cautelare del procedimento comporta, come necessaria conseguenza, l’astratta compatibilità dello stesso con la possibilità che venga richiesto ed ottenuto un provvedimento cautelare ante causam o durante la fase sommaria (ad es.: un provvedimento ex art.700 c.p.c.), anche se deve ammettersi che il presupposto del periculum in mora potrebbe risultare, in concreto, difficilmente individuabile, avuto riguardo alla rapidità dell’accertamento giudiziale “ordinario” (in tal senso sembrano orientarsi le prime applicazioni giurisprudenziali: cfr. Trib. Bari, Ord. 17 ottobre 2012 e Trib. Firenze, Ord. 17 ottobre 2012).

Non sembra invece ammissibile la richiesta, proveniente dalla parte soccombente nella fase sommaria, di un provvedimento cautelare lite pendente nella fase di opposizione, in considerazione non soltanto dell’avvenuta emissione dell’ordinanza opposta (circostanza che preclude la possibilità di ritenere esistente il requisito del fumus boni iuris) ma anche della stabilità ad essa attribuita dalla legge (art.1, comma 50, legge n.92/2012) che non consente l’emissione di provvedimenti di revoca o di sospensione sino alla sentenza con cui viene definita la fase a cognizione piena.

La funzione meramente esecutiva,

peraltro, è prevalente ma non esclusiva, in

quanto anche l’ordinanza emessa a

conclusione della prima fase, se non viene

opposta nel termine (stabilito a pena di

decadenza) di 30 giorni dalla

comunicazione o notificazione, assume

l’incontrovertibilità propria del giudicato

in senso sostanziale (art.2909 c.c.)9 ed

acquisisce, pertanto, contenuto

decisorio10.

La seconda fase ha natura di

procedimento a cognizione piena e a

contenuto decisorio.

Infatti, pur dovendo anche in

questa fase omettere ogni formalità

superflua (comma 57, prima parte), il

giudice deve, peraltro, provvedere ad una

istruttoria completa di tutti gli atti

ammissibili e rilevanti che siano richiesti

dalle parti o che ritenga di disporre ex

officio, ai sensi dell’art.421 c.p.c. (comma

57, seconda parte).

9 DE ANGELIS, cit., 11; SORDI, cit., 34.

In senso contrario, CONSOLO-RIZZARDO, cit., 735.

10 Nel senso del testo, per la natura sommaria non cautelare della fase urgente, cfr. SORDI, cit., 4, 26.

La natura di procedimento a cognizione sommaria è affermata anche da VALLEBONA, La riforma del lavoro, Torino, 2012, 74, secondo cui, nella fase urgente, ‹‹il convincimento in fatto è per definizione superficiale, riguardando il “fumus” di fondatezza della domanda››.

In senso diverso cfr., invece, CAVALLARO, La riforma c.d. Fornero: questioni processuali, relazione all’incontro di studio sul tema La tutela del lavoratore tra novità normative e revirements giurisprudenziali, svoltosi ad Agrigento il 21 settembre 2012, 3 e BOLLANI, Il rito speciale in materia di licenziamento, in M. Magnani-M. Tiraboschi (a cura di), La nuova riforma del lavoro, Milano, 2012, 320.

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

34

Dunque, la cognizione non è basata

sui soli atti istruttori indispensabili ad un

giudizio probabilistico di verosimiglianza,

ma è fondata su tutti gli atti istruttori

necessari ad un giudizio di piena certezza

processuale.

Il provvedimento conclusivo,

inoltre, è espressamente indicato con il

nomen iuris di “sentenza”, suscettibile di

appello e di ricorso per cassazione.

Si tratta, pertanto, di un

provvedimento decisorio, destinato ad

accertare, una volta per tutte, la

sussistenza o meno del diritto soggettivo

azionato, assumendo l’efficacia, oggettiva

e soggettiva, del giudicato sostanziale, ex

art.2909 c.c.11.

2. Carattere pubblicistico dell’interesse

tutelato dal procedimento e

conseguenze sul piano ermeneutico.

L’aver chiarito che la funzione del

procedimento è quella di consentire di

porre fine, nel tempo più rapido possibile

(e sia pure in via provvisoria), alla

situazione di incertezza ingeneratasi in

ordine alla legittimità o meno del

licenziamento nelle ipotesi in cui può

essere invocata una delle tutele di cui

all’art.18 dello Statuto dei lavoratori,

permette di individuare l’interesse tutelato

dal rito speciale.

11 In tal senso, cfr. LUISO, cit., 3.

Nella teorica dei procedimenti

speciali – la cui incontrollata

proliferazione ha dato àdito, come si è

accennato, alla creazione di modelli

processuali caratterizzati da discipline

incomplete e lacunose, bisognevoli di

integrazione attraverso il continuo ricorso

a regole ed istituti propri del rito ordinario

o di altri riti speciali – l’individuazione

dei caratteri dell’interesse tutelato non

risponde ad un’esigenza meramente

descrittiva e classificatoria, ma costituisce

un’operazione ineludibile per l’interprete,

in quanto presupposto fondamentale per la

risoluzione dei concreti problemi

ermeneutici12.

12 Non è questa la sede per richiamare l’evoluzione della scienza processualcivilistica in ordine ai criteri metodologici da utilizzare per colmare, in sede interpretativa, le lacune della disciplina positiva dei procedimenti speciali.

Giova, peraltro, ricordare che si deve a CALAMADREI, Il processo inquisitorio nel nuovo codice civile, in Giur. it., 1939, 237 s., l’avere evidenziato, già prima dell’emanazione del codice di rito vigente, il parallelismo esistente tra la situazione soggettiva sostanziale tutelata e la disciplina processuale, nel senso che ove la prima assuma carattere disponibile, trova applicazione, quanto alla seconda, il c.d. principio dispositivo (nella duplice accezione di principio dispositivo in senso materiale o principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato: art.112 c.p.c.; e di principio dispositivo in senso formale o principio della disponibilità delle prove: art.115 c.p.c.), mentre, ove la situazione soggettiva sostanziale assuma carattere indisponibile, trova applicazione il principio inquisitorio, nella duplice accezione suddetta.

Questa intuizione – peraltro non pienamente condivisa dalla dottrina moderna (si veda, ad es., MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, I, Torino, 1991, 97, per il quale il principio della disponibilità delle prove non troverebbe fondamento nella natura disponibile dell’interesse tutelato dal procedimento, ma dipenderebbe esclusivamente da una scelta di opportunità tecnica non legata al carattere della situazione sostanziale dedotta in giudizio) – non è stata tuttavia da subito utilizzata per risolvere le problematiche applicative generate dalla lacunosa disciplina dei procedimenti speciali, preferendosi piuttosto far dipendere tale soluzione dal previo inquadramento del singolo procedimento nella giurisdizione c.d. contenziosa o in quella c.d. volontaria (per tutti, si veda FAZZALARI, Giurisdizione volontaria-dir. proc. civ., in Enc. dir., XIX; in giurisprudenza, un notevole

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Precisamente, se l’interesse

tutelato assume una rilevanza meramente

individuale e privatistica, connotandosi

quale interesse disponibile, il

procedimento assumerà, tendenzialmente,

la struttura di processo dispositivo ad

impulso di parte, analoga a quella del

giudizio ordinario di cognizione, le cui

regole saranno tendenzialmente

esempio dell’utilizzazione di questo criterio metodologico è rappresentato da Cass. 16 dicembre 1971, n.3664, in Riv. dir. proc., 1973, 315, con nota del COMOGLIO, nella quale l’affermata soluzione dell’inammissibilità della rinuncia all’azione e agli atti del giudizio nel procedimento di interdizione viene tratta dal previo inquadramento di questo procedimento speciale tra i procedimenti di volontaria giurisdizione).

Lo studioso che per primo ha posto l’attenzione sulle caratteristiche dell’interesse tutelato in funzione della soluzione delle questioni interpretative poste dai procedimenti speciali, è stato Enrico Allorio, il quale, in uno studio pubblicato negli anni cinquanta del secolo scorso (ALLORIO, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, in Problemi di diritto, I, Milano, 1957, 116) ha individuato una categoria di processi – i processi a contenuto oggettivo – funzionali alla tutela, non di una situazione soggettiva privata (diritto soggettivo o status personale), ma di un interesse superindividuale di rilevanza pubblicistica, di norma indisponibile.

Nella riflessione dottrinaria successiva (cui hanno contribuito, tra gli altri, MONTESANO, Sull’efficacia, sulla revoca e sui sindacati contenziosi dei provvedimenti non contenziosi dei giudici civili, in Riv. dir. civ., 1986, I, 596 e TOMMASEO, I processi a contenuto oggettivo, in Riv. dir. civ., 1988, I, 495 s., 695 s.) sono stati precisati i confini di questa categoria di procedimenti (inserendovi, tra gli altri, i giudizi di falso, il procedimento di interdizione e di inabilitazione, quello di assenza e morte presunta, quello per la dichiarazione dello stato di adottabilità e quello di fallimento) e si è evidenziato come il carattere superiore e indisponibile dell’interesse in essi tutelato determini conseguenze notevoli sulla disciplina positiva, escludendo tendenzialmente l’operatività dei principi dell’impulso di parte, della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (principio dispositivo in senso materiale) e della disponibilità delle prove (principio dispositivo in senso formale) ed impedendo la pedissequa applicazione, nel rito speciale, di tutti quegli istituti, propri del rito ordinario, fondati sui principi predetti (sul tema, con particolare riguardo al procedimento di interdizione e di inabilitazione ma con notazioni di carattere generale, ci si permette di rinviare a SPAZIANI, Natura giuridica del giudizio di interdizione e riflessi su aspetti problematici della disciplina, in Emilio Vito Napoli (a cura di) Gli incapaci maggiorenni - Dall’interdizione all’amministrazione di sostegno, Milano, 2005, 39 s.).

applicabili, per quanto non disposto dalla

disciplina speciale.

Al contrario, se l’interesse tutelato

assume una rilevanza superindividuale e

pubblicistica, connotandosi quale

interesse indisponibile, il procedimento

tenderà a strutturarsi come processo

inquisitorio ad impulso d’ufficio,

caratterizzato da più o meno apprezzabili

deviazioni rispetto alla disciplina del rito

ordinario e, in particolare, da una

tendenziale disapplicazione del principio

dell’impulso di parte (artt.99, 306 e 307

c.p.c.), di quello della corrispondenza tra

il chiesto e il pronunciato (art.112 c.p.c.) e

di quello della disponibilità delle prove

(art.115 c.p.c.).

Tanto premesso, il rilievo che il

nuovo rito per i licenziamenti è

strumentale a consentire nel più breve

tempo possibile la rimozione della

situazione di incertezza ingeneratasi in

ordine alla legittimità di un recesso

datoriale quando esso sia assistito da una

delle tutele contemplate dall’art.18 della

legge n.300/1970, non consente di ritenere

che esso verta unicamente alla protezione

dell’interesse del lavoratore

ingiustamente licenziato ad ottenere

rapidamente un titolo esecutivo per

l’immediata tutela del proprio diritto alla

reintegrazione nel posto di lavoro.

Questa tesi, pur astrattamente

sostenibile ove si ipotizzi che nel sistema

della legge n.92/2012 le norme

processuali costituiscano una specie di

“contraltare” alle norme sostanziali (e

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cioè una compensazione, mediante la

predisposizione di più rapida ed incisiva

tutela processuale, della diminuzione della

tutela sostanziale determinatasi in seguito

alla riforma, ad opera della stessa legge,

del citato art.18), trova, in realtà, una

smentita nel rilievo che, ai fini

dell’impugnativa del licenziamento con il

nuovo rito, non è richiesta alcuna esigenza

cautelare, nonché nel rilievo che il

procedimento tende ad assicurare, non già

la rapidità della tutela, ma la rapidità della

decisione quale essa sia, e dunque anche

della decisione di rigetto.

Conformemente all’opinione che

tende a prevalere nella prima letteratura,

deve pertanto ritenersi che il

procedimento sia funzionale alla tutela

dell’interesse di entrambe le parti13, e più

in generale alla tutela dell’interesse,

superindividuale e di rilevanza

pubblicistica, alla realizzazione di un

“mercato del lavoro inclusivo e dinamico,

in grado di contribuire alla creazione di

occupazione, in quantità e qualità, alla

13 Per l’affermazione che il procedimento intende tutelare tanto l’interesse del lavoratore ad ottenere rapidamente la tutela del suo diritto quanto l’interesse del datore di lavoro a che sia fatta immediata luce sulla legittimità del suo recesso, avuto riguardo alle conseguenze che, sul piano dell’organizzazione aziendale, può provocare l’esecuzione della decisione giudiziale con la quale si conceda una delle tutele previste nel “nuovo” art.18 dello Statuto dei lavoratori, specie quando si tratti di tutela reintegratoria, v. SORDI, cit., 4.

Cfr. anche RIVERSO, Indicazioni operative sul rito Fornero (con una divagazione minima finale), relazione all’incontro di studio del CSM sul tema La riforma del mercato del lavoro nella legge 28 giugno 2012 n.92, svoltosi a Roma dal 29 al 31 ottobre 2012, 1, secondo cui ‹‹il rito è dettato nell’interesse di entrambe le parti della causa, alla celerità del giudizio; e non già nell’interesse dell’uno o dell’altro soggetto››.

crescita sociale ed economica e alla

riduzione permanente del tasso di

disoccupazione”14.

Le norme processuali, dunque, non

costituiscono una compensazione,

nell’interesse del lavoratore, della

riduzione di tutela realizzata mediante le

norme sostanziali ma si inseriscono nel

medesimo solco di queste ultime15,

concorrendo con esse alla realizzazione di

un obiettivo di pubblico interesse, che,

nell’attuale contingenza di crisi sociale ed

economica del paese, deve essere

perseguito anche con il sacrificio dei

contrastanti interessi individuali delle

parti16.

Nella visione del legislatore, in

altre parole, la creazione di un modello

processuale volto a consentire la

rimozione, in tempi rapidissimi, dello

stato di incertezza sulla legittimità del

recesso datoriale, nelle ipotesi in cui esso

può dare àdito ad una tutela (reintegratoria

o risarcitoria) particolarmente

14 Così l’ incipit dell’art. 1, comma 1, della legge n.92/2012, il quale non fa altro che esplicitare la finalità avuta di mira dal legislatore già nella rubrica del provvedimento legislativo, significativamente intitolato “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”.

15 LUISO, cit., 4, richiamando testualmente il brano di un lavoro in corso di pubblicazione di BUONCRISTIANI (Rito licenziamenti: disciplina e profili sistematici, par.5), evidenzia come questo autore abbia acutamente rilevato che ‹‹l’introduzione del nuovo rito speciale si pone quindi non come risposta ma come completamento alle modifiche apportate al diritto sostanziale››.

16 Per CAPONI, cit., 9, il nuovo rito integra un esempio di utilizzazione del processo civile per perseguire finalità di politica pubblica, ulteriori rispetto a quella, istituzionale, della tutela dei diritti individuali.

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penetrante17, è suscettibile di incidere

positivamente sul mercato del lavoro, con

potenziali apprezzabili riflessi sul sistema

socio-economico del paese, inserendosi,

unitamente al contrasto all’ “uso

improprio e strumentale degli elementi di

flessibilità” e all’adeguamento “alle

esigenze del mutato contesto di

riferimento” della disciplina sostanziale

del licenziamento, tra le misure volte a

ridistribuire “in modo più equo le tutele

dell’impiego”18.

La considerazione della natura

pubblicistica dell’interesse tutelato

consente di superare i problemi di

carattere interpretativo-applicativo non

risolvibili mediante la meccanica

applicazione delle norme tratte dalla

naturale fonte di integrazione della

incompleta disciplina speciale, costituita,

17 Scrive LUISO, cit., 4, che la funzione specifica del procedimento consiste nel ‹‹ridurre le incertezze, legate ad una possibile reintegrazione del dipendente, giungendo quanto prima ad un provvedimento che, una volta per tutte, stabilisca se, a seguito del licenziamento, si avrà o meno la prosecuzione del rapporto di lavoro››.

18 Così l’art.1, comma 1, lett. c), della legge n.92/2012.

Secondo CURZIO, cit., 3, ‹‹l’accelerazione è ricercata nell’interesse di entrambe le parti del giudizio, considerata la delicatezza della materia, e forse soprattutto di un interesse più generale a che i conflitti giudiziari concernenti i licenziamenti, così determinanti nei meccanismi del mercato del lavoro, pervengano in tempi ragionevoli a definizioni dotate di stabilità e certezza››.

Aggiunge il chiaro autore – mostrando di condividere il criterio metodologico secondo il quale la previa individuazione dei caratteri dell’interesse tutelato da un procedimento speciale costituisce il presupposto fondamentale per la risoluzione delle questioni applicative lasciate aperte dalla disciplina positiva dello stesso – che ‹‹quali che siano le spiegazioni della scelta, ciò che è certo essa costituisce la ragione di fondo dell’intervento sulla normativa processuale e quindi la sua cifra ermeneutica››.

come si è veduto19, dal rito tradizionale

del lavoro.

Infatti, se in via generale le lacune

del rito speciale devono essere colmate

utilizzando le regole contenute negli

artt.413 s. c.p.c., vi sono dei casi

particolari in cui la pura e semplice

applicazione di queste regole risulta

incompatibile con la funzione del

procedimento sicché spetta all’interprete

individuare l’interpretazione correttiva,

tenendo presenti i caratteri dell’interesse

tutelato dal rito speciale.

Così è, in particolare, ad avviso di

chi scrive, per la regola che nel processo

del lavoro disciplina i poteri istruttori del

giudice (art.421 c.p.c.), pur espressamente

richiamata nel rito speciale sia con

riguardo alla fase urgente sia con riguardo

alla fase di opposizione, potendo gli atti

istruttori disposti d’ufficio, ai sensi

dell’art.421 c.p.c., figurare, unitamente a

quelli richiesti dalle parti, tanto tra gli atti

“indispensabili” ai fini dell’emanazione

dell’ordinanza fondata sulla cognizione

meramente sommaria, quanto tra gli atti

“ammissibili e rilevanti” funzionali

all’emanazione della sentenza conclusiva

della fase a cognizione piena (art.1,

commi 49 e 57, legge n.92/2012).

Come è noto, nell’elaborazione

giurisprudenziale, il potere del giudice del

lavoro di “disporre d’ufficio in qualsiasi

momento l’ammissione di ogni mezzo di

prova” (art.421, secondo comma, c.p.c.) è

19 V., supra, par.1 e, ivi, particolarmente, nota 1.

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stato configurato come potere-dovere, il

cui esercizio è possibile soltanto se si

integrino specifici presupposti, ed è

comunque confinato entro precisi limiti20.

Mentre i limiti attengono al

rispetto della volontà delle parti, del

principio della domanda e dell’onere di

allegazione, nonché al divieto di

utilizzazione della scienza privata del

giudice, i presupposti consistono nella

mancanza di carenze probatorie imputabili

alle parti (presupposto soggettivo) e nella

sussistenza di “piste probatorie”

emergenti dagli atti (presupposto

oggettivo) sicché i poteri istruttori del

giudice hanno natura meramente

integrativa, e non sostitutiva, delle prove

dedotte dalle parti21.

Tale orientamento applicativo non

può essere meccanicamente trasferito nel

nuovo rito per i licenziamenti, quanto

meno limitatamente alla fase urgente di

esso.

Ed invero, da un lato, con riguardo

al presupposto oggettivo, poiché questa

fase si caratterizza per un’istruttoria

meramente sommaria, è evidente che, ove

dagli atti di causa emergessero già

significative “piste probatorie” di natura

indiziaria, atte ad orientare, sia pure in

20 Sul tema, sia consentito rinviare, in generale, a SPAZIANI, I poteri istruttori del giudice (commento dell’art.421 c.p.c), in Codice ipertestuale commentato del lavoro UTET, a cura di R. Pessi, Torino, 2011, 2042 s.

21 In tema, tra le tante sentenze della Corte di Cassazione (non soltanto della sezione lavoro), cfr.: Cass., Sez. lav., 6 luglio 2000, n.9034; Cass., Sez. un., 17 giugno 2004, n.11353; Cass., Sez. III, 20 luglio 2011, n.15899.

termini meramente probabilistici e di

verosimiglianza, il giudizio sulla

legittimità o meno del recesso datoriale, il

giudice dovrebbe immediatamente

emettere l’ordinanza di accoglimento o di

rigetto della domanda, senza indugiare su

atti istruttori integrativi che, per un verso,

non sarebbero compatibili con la

superficialità dell’istruttoria richiesta

mentre, per altro verso, sacrificherebbero

l’interesse alla rapidità dell’accertamento,

interesse avuto sommamente di mira dal

legislatore.

Dall’altro lato, con riguardo al

presupposto soggettivo, poiché nella fase

sommaria non maturano preclusioni

istruttorie, è evidente che non può

neppure ipotizzarsi una colpevole inerzia

delle parti nella deduzione dei mezzi di

prova, con conseguente decadenza per

inosservanza di oneri processuali.

Diversamente che nel rito

tradizionale del lavoro, dunque, deve

ritenersi che i poteri istruttori officiosi del

giudice non assumono, nel nuovo

procedimento, carattere meramente

integrativo delle prove richieste dalle

parti, ma possono essere utilizzati –

nell’ambito di un potere discrezionale da

esercitarsi tenendo conto di tutte le

circostanze del caso concreto – anche in

via sostitutiva, con la conseguenza che, se

all’udienza fissata ai sensi dell’art.1,

comma 48, della legge n.92/2012, le parti

non abbiano ancora formulato richieste

istruttorie (senza che – si badi – tale

omissione abbia prodotto una qualche

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decadenza, non essendo previste

preclusioni in tal senso), esse non solo

possono essere sollecitate dal giudice a

proporre le predette richieste, ma il

giudice, valutate tutte le circostanze del

caso concreto, può d’ufficio ammettere i

mezzi di prova indispensabili per emettere

una, sia pur provvisoria, decisione di

merito.

Tale soluzione trova conferma nel

rilievo che la predetta decisione di merito

è funzionale non solo alla tutela

dell’interesse privato delle parti, ma è

anche (e soprattutto) alla tutela

dell’interesse pubblico posto a base del

rito speciale, il cui carattere indisponibile

impone che la decisione stessa non sia

rallentata – nei limiti in cui ciò è possibile

nell’ambito di un procedimento che

rimane comunque fondato sull’iniziativa e

sull’impulso di parte, nonché sulla

necessità che sia rispettato il principio

della corrispondenza tra il chiesto e il

pronunciato – dal comportamento dei

soggetti privati.

Il richiamo all’art.421 c.p.c.,

contenuto nell’art.1, comma 49, della

legge n.92/2012 – diversamente

dall’omologo richiamo contenuto nel

successivo comma 57 –, deve dunque

essere inteso come richiamo al contenuto

e ai limiti dell’iniziativa probatoria

officiosa del giudice del lavoro, ma non

anche come richiamo ai presupposti ai

quali essa è subordinata, la cui

integrazione non appare necessaria nella

fase urgente del rito speciale.

Il carattere pubblicistico

dell’interesse tutelato e, più in generale, la

funzione del procedimento mentre non

incidono, pertanto, sulla persistente

operatività, anche nel rito speciale, del

principio dell’impulso di parte (artt.99,

306, 307 c.p.c.) e del principio dispositivo

in senso materiale (art.112 c.p.c.),

incidono, invece, notevolmente

sull’operatività del principio dispositivo in

senso formale (art.115 c.p.c.),

determinando un allargamento degli

inquinamenti inquisitori, già apprezzabili

nel rito tradizionale del lavoro.

3. L’ambito di applicazione. Il regime

intertemporale. La rilevanza della

domanda ai fini della

determinazione del rito.

Ai sensi dell’art.1, comma 47,

della legge n.92/2012, le nuove

disposizioni processuali si applicano

“alle controversie aventi ad oggetto

l’impugnativa dei licenziamenti nelle

ipotesi regolate dall’art.18 della legge 20

maggio 1970, n.300, e successive

modificazioni”.

Presupposto per l’applicazione del

nuovo rito è, dunque, che il lavoratore

licenziato invochi una qualsiasi delle

forme di tutela contemplate dall’art.18

dello Statuto dei lavoratori, vale a dire la

tutela reintegratoria assistita da tutela

risarcitoria piena (primo comma), la

tutela reintegratoria assistita da tutela

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risarcitoria attenuata (quarto comma e

prima parte del settimo comma), la tutela

indennitaria forte (quinto comma e

seconda parte del settimo), la tutela

indennitaria debole (sesto comma)22.

Si ritiene pressoché pacificamente

che il nuovo rito sia applicabile ai

licenziamenti collettivi, i quali, sebbene

disciplinati dalla legge n.223/1991,

soggiacciono, ove illegittimi, al regime

sanzionatorio dell’art.18 della legge

n.300/1970, per effetto della previsione

contenuta nell’art.1, comma 46, della

legge Fornero23.

Pressoché pacificamente si ritiene,

inoltre, che il rito non sia applicabile alle

azioni di accertamento della nullità del

termine apposto al contratto di lavoro a

tempo determinato con conseguente

domanda di conversione dello stesso in

contratto a tempo indeterminato24.

Per quanto riguarda le azioni di

accertamento della legittimità del recesso

proposte dal datore di lavoro, si discute

se, dopo le modifiche apportate dalla

22 V. CURZIO, cit., 3 e SORDI, cit.,8.

23 In tal senso v. CAVALLARO, cit., 2; CURZIO, cit., 4; SORDI, ult. cit..

In senso diverso, CIRIELLO-LISI, Disciplina processuale, in PELLACANI, Riforma del lavoro. Tutte le novità introdotte dalla legge 28 giugno 2012 n.92, Milano, 279 s.

24 Sul presupposto che non si versa in ipotesi di impugnativa di licenziamento ma di azione di mero accertamento, volta far dichiarare la nullità della clausola appositiva del termine finale posto al contratto di lavoro: così CAVALLARO, ult. cit.; CIRIELLO-LISI, ult. cit., CURZIO, cit., 5; VALLEBONA, cit., 73.

In senso diverso, CONSOLO-RIZZARDO, cit., 735.

legge n.183/2010 (c.d. Collegato lavoro)

all’art.6 legge n.604/1966 – volte a

stabilire l’inefficacia dell’impugnazione

stragiudiziale del licenziamento ove non

seguita, nel termine di 270 giorni (poi

ridotto a 180 giorni dall’art.1, comma 38,

legge Fornero), dal deposito del ricorso o

dalla richiesta del tentativo di

conciliazione o di arbitrato – sia ancora

configurabile l’interesse ad agire del

datore di lavoro medesimo25.

In ogni caso, quand’anche si

dovesse optare per la persistente

sussistenza dell’interesse ad agire, la

soluzione al problema dell’applicabilità o

meno del nuovo rito dovrebbe reputarsi

negativa, non vertendosi in ipotesi di

“impugnativa” di licenziamento26.

La nuova disciplina processuale è

certamente inapplicabile alle impugnative

dei licenziamenti irrogati nell’ambito

delle cc.dd. imprese di tendenza – cioè

dai “datori di lavoro non imprenditori che

svolgono senza fine di lucro attività di

natura politica, sindacale, culturale, di

istruzione ovvero di religione o di culto”

(art.4 l. n.108/1990) nei confronti dei

quali, per espressa previsione della norma

appena citata, non si applica la disciplina

di cui all’art.18 dello Statuto dei

lavoratori27 – , nonché alle impugnative

dei recessi operati nei confronti dei

25 Sul problema v. LUISO, cit., 7-8.

26 In tal senso cfr. RIVERSO, cit., 1 e SORDI, cit., 11.

27 CURZIO, ult. cit..

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dirigenti, salvo che ricorra l’ipotesi di cui

al comma primo del citato art.18, unica

disposizione applicabile ai dirigenti

medesimi28.

Particolarmente problematica è la

questione se il nuovo rito trovi

applicazione alle impugnazioni dei

licenziamenti dei pubblici dipendenti in

regime privatizzato.

Il problema investe non solo le

disposizioni processuali, ma anche (e

prima ancora) le disposizioni sostanziali

contenute nella legge Fornero.

Prima dell’entrata in vigore di

questa legge, non si dubitava

dell’applicabilità, ai pubblici dipendenti

in regime contrattualizzato, della

disciplina contenuta nell’art.18 dello

Statuto dei lavoratori.

In tal senso militava sia il rinvio

generale operato dall’art.2, comma 2, del

d.lgs. n.165/2001 al codice civile e alle

leggi sul rapporto di lavoro subordinato

nell’impresa quali fonti regolatrici del

rapporto di lavoro pubblico per quanto

non fosse specificamente previsto dalla

fonte speciale, sia il rinvio specifico

contenuto nell’art.51, comma 2, stesso

decreto legislativo, a mente del quale “la

legge 20 marzo 1970, n.300, e successive

modificazioni ed integrazioni, si applica

alle pubbliche amministrazioni a

prescindere dal numero dei dipendenti”29.

28 CURZIO, ult. cit..

29 La tesi era condivisa in giurisprudenza: cfr. Cass. 5 gennaio 2011, n.190: “in tema di lavoro pubblico privatizzato nel caso di licenziamento

Dopo l’entrata in vigore della

legge Fornero, si dubita dell’applicabilità

delle disposizioni in essa contenute (e

dunque anche di quelle di cui all’art.1,

comma 42, che ha sostituito il vecchio

testo dell’art.18 dello Statuto dei

lavoratori) ai pubblici dipendenti, in

ragione di quanto disposto nei commi 7 e

8 del medesimo art.1.

Il comma 7 stabilisce che “le

disposizioni della presente legge, per

quanto da esse non espressamente

previsto, costituiscono principi e criteri

per la regolazione dei rapporti di lavoro

dei dipendenti delle pubbliche

amministrazioni”, in regime

contrattualizzato.

Il comma 8 stabilisce che “al fine

dell’applicazione del comma 7 il Ministro

per la pubblica amministrazione e la

semplificazione, sentite le organizzazioni

sindacali maggiormente rappresentative

dei dipendenti delle amministrazioni

pubbliche, individua e definisce, anche

mediante iniziative normative, gli ambiti,

le modalità e i tempi di armonizzazione

della disciplina relativa ai dipendenti

delle amministrazioni pubbliche”.

illegittimo, ai fini della liquidazione del danno, si applica l’art. 18 legge 20 maggio 1970, n. 300, con la conseguenza che il risarcimento del danno non incontra il limite delle sei mensilità retributive previste dall’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come sostituito dall’art. 2, comma quinto, della legge 11 maggio 1990, n. 108, che riguarda i soli rapporti di lavoro privato con tutela obbligatoria”.

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

42

Dinanzi a queste previsioni sono

state prospettate due diverse tesi

interpretative.

Secondo la prima, le disposizioni

di cui ai commi 7 e 8 dell’art.1 della

legge Fornero non inciderebbero sul

sistema precedente, che sarebbe anzi

confermato, sicché, per effetto del

carattere mobile del rinvio operato

dall’art.51, comma 2, d.lgs. n.165/2001

(riferito non solo al contenuto originario

della legge n.300 del 1970 ma anche alle

sue successive integrazioni e

modificazioni), anche la nuova disciplina

dell’art.18 troverebbe applicazione ai

pubblici dipendenti, con tutto quel che ne

consegue in ordine all’applicabilità

(anche) delle disposizioni processuali30.

Secondo l’altra tesi interpretativa,

invece, i commi 7 e 8 dell’art.1 della

legge n.92/2012 escluderebbero la diretta

30 In tal senso, cfr. CURZIO, cit., 4, il quale, dopo aver evidenziato che, avuto riguardo al rinvio mobile operato dall’art.51, secondo comma, d.lgs. 165/2001, ‹‹l’art.18, in quanto parte della legge 300 del 1970, si applica … al lavoro pubblico››, con la conseguenza che ‹‹le relative controversie dinanzi al giudice del lavoro saranno soggette al rito specifico››, aggiunge che ‹‹questa conclusione non sembra essere messa in discussione dalle disposizioni specifiche, il settimo e l’ottavo comma, che la legge 92/2012 dedica al raccordo con la disciplina dell’impiego pubblico››, in quanto la prima disposizione, pur ‹‹con una formula alquanto contorta››, ‹‹afferma un principio di fondo per cui, a parte previsioni espressamente indirizzate in senso contrario, le regole contenute nella legge 92/2012 valgono anche per l’impiego pubblico››, mentre la seconda disposizione subordina l’armonizzazione della disciplina ad iniziative normative del Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, per modo che, ‹‹sino a quando tali iniziative non verranno prese e non si concretizzeranno in norme, deve ritenersi che il quadro regolativo sia quello su descritto, implicante l’applicazione dell’art.18 e del rito specifico per i licenziamenti anche alle controversie dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni soggetti al regime privatistico››.

applicabilità delle norme in essa

contenute ai pubblici dipendenti.

La previsione secondo la quale tali

norme costituiscono “principi” e “criteri”

per la regolazione dei rapporti di lavoro

pubblico, postulerebbe infatti l’attuale

difformità di disciplina tra le due

categorie di rapporti di lavoro (pubblico e

privato) la quale dovrebbe

tendenzialmente essere ridotta attraverso

la predisposizione di una regolazione del

rapporto di lavoro pubblico che abbia tra

i principi informatori quelli desumibili

dalle norme della legge Fornero.

Tale lettura sarebbe ulteriormente

confermata dalla previsione volta ad

attribuire al Ministro per la pubblica

amministrazione e la semplificazione il

compito di intraprendere iniziative

normative volte a definire gli ambiti, le

modalità e i tempi di armonizzazione

delle due discipline, previsione dalla

quale si desume che prima di tale

armonizzazione i due rapporti restano

regolati da una disciplina differente.

Tanto premesso, gli autori che

aderiscono a questa tesi, si chiedono se la

non applicabilità ai pubblici dipendenti

delle disposizioni della legge Fornero

riguardi unicamente le disposizioni di

carattere sostanziale (e tra queste, in

particolare, il comma 42 dell’art.1,

contenente il nuovo testo dell’art.18 dello

Statuto dei lavoratori) o si estenda anche

alle disposizioni processuali di cui ai

successivi commi 47-69.

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43

A questo quesito si risponde nel

senso che il divieto di immediata

applicabilità concernerebbe unicamente

le norme di carattere sostanziale in

quanto soltanto in relazione alla

disciplina sostanziale del rapporto di

lavoro può porsi l’esigenza di un

intervento di armonizzazione quale quello

previsto dai commi 7 e 8 dell’art.1 della

legge n.92/2012, i quali richiedono al

Ministro della pubblica amministrazione

di predisporre una regolazione del

rapporto di lavoro pubblico che, pur

vertendo verso la tendenziale

uniformazione della disciplina a quella

del rapporto di lavoro privato, tenga

comunque conto delle peculiarità

concernenti specifici aspetti, in relazione

ai quali persista la necessità di una

regolazione specifica e differenziata,

pena la violazione del principio di

ragionevolezza.

Una simile esigenza non si

porrebbe, invece, in relazione alle norme

processuali, che possono essere applicate

senza necessità di armonizzazione e che,

anzi, devono essere applicate in modo

uniforme alle due categorie di rapporti,

non essendovi ragioni che possono

giustificare un trattamento processuale

differenziato delle due categorie di

dipendenti, entrambi soggetti al regime

contrattuale privatistico.

Del resto, si aggiunge, una simile

impostazione trova una conferma – sotto

il profilo storico – nel tradizionale assetto

della disciplina sostanziale del rapporto

di lavoro pubblico in relazione a quello

privato, in quanto, anche a seguito della

privatizzazione, pur affermandosi la

generale applicazione al primo delle

regole e degli istituti riguardanti il

secondo (art.2 d.lgs. n.165/2001), sono

state previste norme specifiche e

differenziate per taluni aspetti del

rapporto31, mentre tale differenziazione

non ha riguardato in alcun modo la

disciplina processuale, normalmente

improntata a criteri di rigorosa

uniformità32.

31 Ciò è accaduto, in particolare, per le mansioni (in relazione alle quali l’art.52 del d.lgs. n.165/2001 detta, per il lavoro pubblico, una disciplina notevolmente diversa rispetto a quella dettata dall’art.2103 c.c. per il lavoro privato) e per il regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi, che nel pubblico impiego è tradizionalmente connotato da una tutela di tipo reale.

32 In tal senso, cfr. SORDI, cit., 10, il quale, dopo aver posto il problema ‹‹se le disposizioni della legge n.92 la cui applicabilità ai rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici è condizionata all’adozione, da parte del Ministro per la pubblica amministrazione, delle iniziative di cui al citato comma 8 siano tutte quelle contenute nella legge (e dunque, anche quelle relative al nuovo procedimento per l’impugnazione dei licenziamenti) ovvero solamente quelle aventi ad oggetto la disciplina sostanziale del rapporto di lavoro››, rileva che ‹‹l’estraneità delle norme processuali alla disciplina transitoria di cui ai commi 7 e 8 sembra confermata sia dal tenore letterale di quest’ultima sia dalla sua incompatibilità “ontologica” con una normativa di natura processualcivilistica, per sua natura tendenzialmente uniforme per tutte le controversie aventi ad oggetto rapporti contrattuali della stessa natura (altrimenti detto: mentre è comprensibile che il recesso della pubblica amministrazione sia regolato da norme diverse da quelle che disciplinano l’analogo atto dei datori di lavoro privati, non altrettanto può dirsi a proposito della disciplina processuale delle controversie aventi ad oggetto l’impugnazione dei licenziamenti››.

Più in generale – conclude in nota il chiaro autore – ‹‹nonostante le profonde differenze di disciplina sostanziale tra rapporto di lavoro subordinato nel settore privato e impiego pubblico “contrattualizzato”, la disciplina processuale è sempre stata uniforme, salvo che per aspetti del tutto marginali›› quali la competenza per territorio (art.413, quinto comma, c.p.c.) e la difesa in giudizio (art.417 bis c.p.c.).

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44

Il nuovo rito per i licenziamenti

previsto dalla legge n.92/2012 sarebbe,

dunque, bensì applicabile ai rapporti di

lavoro pubblico privatizzato, ma, sotto il

profilo sostanziale, continuerebbe,

esclusivamente per tale categoria di

rapporti, a trovare applicazione l’art.18

dello Statuto dei lavoratori nel testo

antecedente a quello introdotto dalla

legge medesima33.

Sotto il profilo temporale, l’ambito

di applicazione del nuovo rito è segnato

dall’art.1, comma 67, della legge

n.92/2012, secondo il quale le nuove

disposizioni processuali “si applicano alle

controversie instaurate successivamente

alla data di entrata in vigore della

presente legge”.

Dunque, il nuovo rito non si

applica alle impugnative di licenziamenti

già pendenti alla data del 18 luglio

201234, neppure nel passaggio dal primo

al secondo grado35.

A far tempo dal 18 luglio 2012, le

nuove norme processuali trovano

generale applicazione per le impugnative

di tutti licenziamenti sottoposti, in ipotesi

di illegittimità o inefficacia, al regime

sanzionatorio dell’art.18 dello Statuto dei

lavoratori, sia che si tratti del regime

antecedente (licenziamento irrogato

33 Così SORDI, ult. cit.; VALLEBONA, cit., 55.

34 La legge 28 giugno 2012, n.92 è stata pubblicata in GU 3 luglio 2012, n.153, S.O., e dunque è entrata in vigore il 18 luglio successivo.

35 SORDI, cit., 9.

prima del 18 luglio 2012 nell’area di

operatività della tutela reale) sia che si

tratti del regime successivo

(licenziamento irrogato dopo il 18 luglio

2012 nell’area di operatività di una delle

nuove quattro forme di tutela).

Ove, in virtù della normativa

sostanziale temporalmente applicabile, il

licenziamento non sia sottoposto al

predetto regime, l’impugnativa deve

essere proposta con il rito tradizionale del

lavoro36.

Va, infine, evidenziato che,

l’individuazione della fattispecie, ai fini

del rito, va compiuta in base alla

domanda37 e, in particolare, con

riferimento al petitum e alla causa

petendi con essa esposti,

indipendentemente dalla sua fondatezza.

In altre parole, la verifica che la

controversia abbia ad oggetto

l’impugnativa di un licenziamento nelle

ipotesi regolate dall’art.18 dello Statuto

dei lavoratori, deve essere compiuta

avuto riguardo a quanto viene dedotto

nell’atto introduttivo della causa, non

assumendo rilevanza gli esiti della

36 Cfr. SORDI, ult. cit., il quale fa l’esempio del licenziamento orale intimato, prima del 18 luglio 2012, da un imprenditore con meno di 16 dipendenti, per chiarire che l’impugnativa di tale atto di recesso, anche se proposta dopo l’entrata in vigore della nuova legge, deve seguire il rito ordinario del lavoro, trattandosi di fattispecie che si pone fuori dall’ambito di applicazione dell’art.18 nella formulazione antecedente a quella introdotta dalla riforma Fornero, senza che assuma rilevanza la circostanza che la fattispecie medesima sia invece contemplata dal “nuovo” comma primo dell’art.18 medesimo, non essendo tale disciplina applicabile, sul piano temporale, ai licenziamenti irrogati in epoca anteriore alla sua entrata in vigore.

37 LUISO, cit., 9; RIVERSO, cit., 1-2; SORDI, cit., 11.

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45

successiva istruzione probatoria, i quali,

al pari delle eccezioni del convenuto,

attengono al merito della pretesa,

potendo, in ipotesi, condurre al rigetto

della stessa.

Questo principio, tradizionalmente

applicato dalla giurisprudenza ai fini

dell’individuazione del rito come della

competenza38, trova un limite nel potere-

dovere del giudice di procedere alla

qualificazione giuridica della domanda,

ma tale potere-dovere, in quanto

espressione del principio iura novit

Curia, è legittimamente esercitato

unicamente quando concerna

l’individuazione delle norme giuridiche

ritenute applicabili al caso concreto (che

possono essere diverse da quelle invocate

dalla parte), non anche quando si traduca

nella immutazione dei fatti costitutivi,

dedotti dalla parte medesima a

fondamento della domanda, o nella

immutazione della modalità funzionale di

tutela (di mero accertamento, di

condanna, costitutiva) da questa invocata,

immutazione che determinerebbe

un’indebita violazione, per eccesso o per

difetto, del principio della corrispondenza

tra il chiesto e il pronunciato.

Così, per fare degli esempi, se il

lavoratore, deducendo la nullità della

clausola appositiva del termine finale

posto al contratto di lavoro, non si limiti

38 Cass.16 febbraio 1993, n.1916, in Giust. civ., 1993, I, 3013; Cass.17 giugno 1996, n.5544, in Arch. loc., 1996, 910; Cass.6 aprile 1998, n.3546, in Foro it., 2000, I, 603; Cass.3 marzo 2000, n.2368, in Arch. loc., 2000, 740.

ad invocare al conversione del contratto

ma, erroneamente, invochi l’applicazione

di una delle tutele di cui all’art.18 dello

Statuto dei lavoratori, il giudice non può

trattare la controversia con il rito

ordinario del lavoro, previa

qualificazione della domanda come mera

azione di nullità parziale del contratto,

perché il potere di qualificazione non può

spingersi a trasformare una domanda di

condanna (quale quella formulata, sia

pure infondatamente, dall’attore) in una

domanda dichiarativa. La controversia

dovrà quindi essere trattata con il rito

specifico previsto dalla legge n.92/2012,

anche se la domanda di tutela ex art.18

dovrà essere rigettata nel merito.

Al contrario, se il lavoratore

licenziato, deducendo che non ricorrono

gli estremi della giusta causa o del

giustificato motivo, chieda la condanna

del datore di lavoro a riassumerlo o, in

alternativa a risarcirgli il danno mediante

versamento di un’indennità di importo

compreso tra 2,5 e 6 mensilità,

erroneamente invocando l’art.18 dello

Statuto dei lavoratori, il giudice, avuto

riguardo alla causa petendi e al petitum,

potrà-dovrà qualificare la domanda come

domanda di tutela ex art.8 legge

n.604/1966, correggendo l’impostazione

della parte solo in ordine alle norme

giuridiche ritenute applicabili al caso

concreto, senza incidere sui fatti dedotti e

sulla modalità funzionale di tutela

invocata. La controversia dovrà quindi

essere trattata con il rito ordinario del

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lavoro, non rientrando tra quelle cui si

applica il nuovo rito, ai sensi dell’art.1,

comma 47, legge n.92/2012.

4. Le questioni relative alla

qualificazione del rapporto e il

problema dei limiti oggettivi del

giudicato.

Ai sensi dell’ultimo inciso del

comma 47 dell’art.1 della legge

n.92/2012, il nuovo rito si applica alle

controversie ivi previste “anche quando

devono essere risolte questioni relative

alla qualificazione del rapporto di

lavoro”.

Il legislatore ha considerato i casi

in cui sia controversa la natura giuridica

del rapporto, in quanto lo stesso sia

formalmente qualificato come rapporto

diverso (lavoro autonomo,

parasubordinato, associazione in

partecipazione ecc.), ma il lavoratore ne

deduca la natura sostanzialmente

subordinata, ponendo l’accertamento di

quella natura (contestata dal datore di

lavoro) a presupposto della qualificazione

del recesso datoriale come licenziamento,

del quale si contesta la legittimità

invocandosi l’applicazione del regime

sanzionatorio di cui all’art.18 dello

Statuto dei lavoratori.

In questi casi, il legislatore ha

opportunamente prevenuto la possibilità

di un’irragionevole frammentazione

dell’attività processuale, prevedendo la

risoluzione nel medesimo processo anche

delle questioni che, pur estranee alla

domanda relativa all’impugnativa del

licenziamento, sono tuttavia ad essa legate

da un nesso di pregiudizialità logica.

Il problema interpretativo posto

dalla disposizione in esame concerne il

significato da attribuire al termine

“questioni”, dovendosi chiarire se esso è

usato in senso ampio, comprensivo delle

vere e proprie domande di accertamento

della natura subordinata del rapporto,

oppure se esso è usato in senso stretto, per

i casi in cui, pur non chiedendosi

l’accertamento, con efficacia di giudicato,

della natura subordinata del rapporto, la

contestazione di tale natura ad opera del

datore di lavoro ponga la necessità di

risolvere la relativa questione,

eventualmente in via meramente

incidentale, come antecedente logico della

decisione sull’impugnativa del

licenziamento.

Nel primo senso sembrano deporre

le prime indicazioni fornite dalla dottrina

processualistica, la quale individua

nell’ultimo inciso del comma 47 il

grimaldello per consentire il simultaneus

processus tra la domanda di impugnativa

del licenziamento e la domanda (legata

alla prima da nesso di pregiudizialità

logica) di accertamento della natura

subordinata del rapporto, domanda,

quest’ultima, che, in mancanza di tale

previsione non avrebbe potuto essere

cumulata alla prima, non essendo fondata

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sui medesimi fatti costitutivi ai sensi del

successivo comma 4839.

Nel secondo senso sembra invece

deporre il testo dell’ultimo inciso del

comma 47, nell’ambito del quale

l’utilizzazione del termine “questioni” non

può ritenersi né casuale né fungibile con il

termine “domande”, che viene

consapevolmente utilizzato dal legislatore,

in luogo del precedente, nel successivo

comma 48.

Deve pertanto ritenersi che il

legislatore, avuto riguardo all’interesse

tutelato dal rito specifico40 e all’esigenza

– che esso intende soddisfare – di

assicurare la massima rapidità

dell’accertamento relativo alla domanda

di impugnativa del licenziamento, ha

inteso escludere la cumulabilità a tale

domanda di tutte le domande non fondate

sui medesimi fatti costitutivi ai sensi del

successivo comma 48, e quindi anche

delle domande aventi ad oggetto

l’accertamento, con efficacia di giudicato,

della natura subordinata del rapporto,

nonostante il nesso di pregiudizialità con

l’impugnativa di licenziamento.

39 Cfr., ad es., LUISO, cit., 5, il quale mostra di identificare le questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro di cui all’art.1, comma 47, della legge n.92/2012, con ‹‹le controversie relative all’accertamento dell’esistenza e qualificazione del rapporto che rientrano nella previsione dell’art.409 c.p.c.››, per inferirne la conseguenza che, ‹‹in mancanza di quanto espressamente previsto nell’ultima frase del comma 47, si sarebbe potuto sostenere che – ove l’esito di un’impugnativa del licenziamento dipendesse dalla qualificazione del rapporto – tale qualificazione dovesse essere effettuata con il rito del lavoro, con la conseguente sospensione del procedimento speciale, o la sua attrazione al rito del lavoro ex art.40 c.p.c.››.

40 V., supra, par.2.

Se, dunque, il lavoratore propone,

oltre all’impugnativa di licenziamento,

anche la distinta e autonoma domanda di

accertamento della natura subordinata del

rapporto, questa deve subire il destino

riservato alle domande diverse che non

siano fondate sui medesimi fatti costitutivi

dell’impugnativa del licenziamento,

formando oggetto, a seconda della tesi che

si accolga sul punto41, di un

provvedimento di separazione (con

conseguente provvedimento di mutamento

del rito) o di una pronuncia di

inammissibilità42.

La necessità della trattazione

separata viene meno, invece, quando la

questione relativa alla qualificazione del

rapporto di lavoro non formi oggetto di

un’autonoma domanda, ma si inserisca,

quale antecedente logico necessario, tra le

questioni da risolvere in vista della

decisione sull’unica domanda proposta,

quella avente ad oggetto l’impugnativa

del licenziamento.

La tesi che si è esposta, se da un

lato appare conforme alla lettera e alla

ratio della legge, dall’altro lato lascia

41 V., infra, par. 7.

42 Non sembra invece ipotizzabile l’applicazione dell’art.40, comma terzo, c.p.c. (e la conseguente attrazione, al rito del lavoro, anche della domanda di impugnativa del licenziamento), in quanto, come si sta per vedere nel testo, tra le due domande non ricorre un nesso di pregiudizialità tecnica (unico nesso di pregiudizialità idoneo a dar luogo, secondo la giurisprudenza di legittimità, alla connessione qualificata di cui all’art.34 c.p.c., rilevante ai fini dell’applicazione dell’art.40, comma terzo, stesso codice), ma un nesso di pregiudizialità logica, alla quale non si applica l’art.34 c.p.c. e, per conseguenza, neppure l’art.40, comma terzo, stesso codice.

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aperto il problema dell’individuazione dei

limiti oggettivi del giudicato (costituito

dall’ordinanza non opposta emessa a

seguito della fase sommaria o dalla

sentenza non reclamata emessa a seguito

della fase di opposizione) allorché siano

state risolte questioni relative alla

qualificazione del rapporto di lavoro.

Ed invero, una volta che si è

chiarito che sono escluse dal simultaneus

processus con il rito specifico le domande

autonome, aventi ad oggetto

l’accertamento della natura subordinata

del rapporto, dovrebbe coerentemente

ritenersi che la soluzione della relativa

questione, allorché essa si ponga come

antecedente logico necessario della

decisione sull’impugnativa di

licenziamento, abbia la natura di

accertamento meramente incidentale, e

non acquisti efficacia di giudicato.

Deve peraltro ricordarsi

l’orientamento giurisprudenziale secondo

il quale la disposizione (art.34 c.p.c.) che

consente di risolvere le questioni

pregiudiziali in via meramente incidentale

– in difetto di una disposizione di legge o

di un’esplicita domanda di una delle parti

dalle quali derivi la necessità di deciderle

con efficacia di giudicato – si applica alla

sola pregiudizialità tecnica (che ricorre

allorché l’accertamento di un diritto – o

comunque di una situazione giuridica

soggettiva: si pensi, ad es., allo status –

costituisce il presupposto di un altro

diritto), e non anche alla c.d.

pregiudizialità logica, che ricorre allorché

l’accertamento dell’esistenza, della

validità e della natura di un rapporto

giuridico costituisce il presupposto di un

diritto43.

In quest’ultimo caso, infatti, se per

decidere sulla domanda avente ad oggetto

l’accertamento del diritto viene risolta

anche la questione logicamente

pregiudiziale relativa all’esistenza,

validità e natura giuridica del rapporto, il

giudicato costituito dalla sentenza di

accertamento del diritto si estende anche

alla questione logicamente pregiudiziale,

che non può più essere messa in

discussione in successivi processi44.

43 V., tra le più recenti, Cass., Ord. 21 dicembre 2011, n.27932: “in tema di sospensione necessaria del processo, tanto l’art.34, quanto l’art.295 c.p.c. fanno riferimento alla pregiudizialità in senso tecnico giuridico e non anche alla pregiudizialità in senso meramente logico, sicché la sospensione può essere disposta unicamente quando in un altro giudizio deve essere decisa una questione pregiudiziale intesa nel primo senso”.

44 Cfr., tra le tante, Cass. 9 aprile 2009, n.8723: “in tema di formazione del giudicato in relazione ai rapporti di durata, se l’accertamento dell’esistenza, validità e natura giuridica di un contratto, fonte di un rapporto obbligatorio, costituisce il presupposto logico-giuridico di un diritto derivatone, il giudicato si estende al predetto accertamento e spiega effetto in ogni altro giudizio, tra le stesse parti, nel quale il medesimo contratto è posto a fondamento di ulteriori diritti, inerenti al medesimo rapporto”.

Con particolare riguardo al rapporto di durata presupposto di un credito accertato con decreto ingiuntivo non opposto, cfr. Cass. 11 maggio 2010, n.11360, ove, ribadendo un principio di diritto già precedentemente enunciato (Cass.24 marzo 2006, n.6628), si afferma, tra l’altro, che “il giudicato sostanziale conseguente alla mancata opposizione di un decreto ingiuntivo copre … l’esistenza del credito azionato, del rapporto di cui esso è oggetto e del titolo su cui il credito ed il rapporto stessi si fondano”.

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Applicando questo orientamento

alla fattispecie relativa all’impugnativa di

licenziamento che presuppone la

soluzione della questione logicamente

pregiudiziale relativa alla qualificazione

del rapporto di lavoro, non vi può allora

essere dubbio che il giudicato costituito

dall’ordinanza (o dalla sentenza) di

accoglimento si estenda anche

all’accertamento del carattere subordinato

del rapporto.

Diversamente, con riguardo

all’ordinanza (o sentenza) di rigetto,

bisogna distinguere l’ipotesi in cui il

rigetto sia stato fondato sulla soluzione

della questione logicamente pregiudiziale

(ad es.: rigetto dell’impugnativa di

licenziamento sul presupposto

dell’accertamento della natura autonoma

del rapporto) dall’ipotesi in cui il rigetto

sia fondato su ragioni diverse,

l’apprezzamento delle quali ha reso

irrilevante la questione pregiudiziale che

non è stata neppure affrontata (ad es.:

rigetto dell’impugnativa di licenziamento

fondato sull’accertata insussistenza del

requisito dimensionale).

Nella prima ipotesi il giudicato si

estenderà alla decisione sulla questione

pregiudiziale sicché dovrà intendersi

accertato, una volte per tutte, che il

rapporto non aveva natura di lavoro

subordinato ma aveva natura di lavoro

autonomo; nella seconda ipotesi la

questione della natura del rapporto,

rimasta impregiudicata, potrà formare

oggetto di un successivo processo45.

5. Le domande fondate su fatti costitutivi

identici a quelli posti a fondamento

dell’impugnativa di licenziamento.

Ai sensi dell’art.1, comma 48, l.

n.92/2012, “con il ricorso non possono

essere proposte domande diverse da

quelle di cui al comma 47, salvo che

siano fondate sugli identici fatti

costitutivi”.

Per essere cumulata

all’impugnativa di un licenziamento ed

essere trattata con il rito specifico, la

domanda diversa deve dunque essere

fondata sui medesimi fatti costitutivi.

Tenuto conto che gli elementi

identificativi dell’azione sono tre, il

primo soggettivo (personae) gli altri

oggettivi (petitum e causa petendi) e che

l’elemento soggettivo deve

necessariamente coincidere (in quanto le

parti sono sempre il lavoratore e il datore

di lavoro), è difficile ipotizzare una

diversità tra due domande caratterizzate

da una totale coincidenza di fatti

costitutivi, in quanto, identificati questi

ultimi nella causa petendi, residuerebbe,

quale unico elemento distintivo, il

petitum, nelle due forme di petitum

immediato (provvedimento giudiziale

45 In tal senso, cfr. SORDI, cit., 35.

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50

invocato) e di petitum mediato (bene

della vita avuto di mira)46.

Se, dunque, ai fini del simultaneus

processus, si pretendesse l’assoluta

identità tra i fatti costitutivi, la norma non

avrebbe alcuno spazio applicativo.

L’ interpretatio abrogans della

disposizione, tendendo ad escludere ogni

possibilità di cumulo, (anche

nell’ipotesi47 in cui alla domanda

principale, volta ad invocare

l’applicazione dell’art.18, sia

accompagnata la domanda subordinata,

volta ad invocare la meno penetrante

tutela di cui all’art.8 legge n.604/196648),

non terrebbe conto, inoltre, di

fondamentali esigenze di economia

processuale, determinando la necessità

46 Ed infatti si è prontamente osservato che con tale previsione il legislatore si è spinto ‹‹ai limiti dell’ossimoro›› (così CURZIO, cit., 7) e che ‹‹dal punto di vista processuale, ipotizzare che vi possano essere domande “diverse” fondate su “identici fatti costitutivi” è un nonsense›› perché ‹‹se i fatti costitutivi sono identici, anche la domanda è necessariamente identica›› (così LUISO, cit., 6).

47 Che – si prevede condivisibilmente – tenderà a verificarsi con sempre maggiore frequenza nella pratica giudiziaria ‹‹data la frammentazione della materia e le incertezze insite nel nuovo sistema›› (così CURZIO, ult. cit.).

48 È ben vero che a seguito della storica sentenza delle Sezioni unite n.141 del 2006 (cfr. Cass., Sez. un., 10 gennaio 2006 n.241, in Riv. dir. proc., 2006, 1437; Giur. it., 2006, 1829; Foro it., 2006, I, 704), seguita dalla successiva giurisprudenza della Sezione lavoro (Cass., Sez. lav., 16 marzo 2009, n.6344) , tra i fatti costitutivi del diritto vantato dal lavoratore (dei quali egli è chiamato a fornire la prova ai sensi dell’art.2697, primo comma, c.c.) non deve annoverarsi il requisito dimensionale richiesto per la tutela reale, atteso che il difetto di tale requisito rientra piuttosto tra i fatti impeditivi del diritto medesimo, che il datore di lavoro ha l’onere di provare ai sensi dell’art.2697, secondo comma, stesso codice, ma è altrettanto vero che a seguito della riforma dell’art.18 operata dalla legge Fornero, potrebbe anche essere sostenuta la tesi opposta, volta ad individuare nel requisito dimensionale un fatto costitutivo del diritto ad una delle tutele previste nelle disposizioni dei (“nuovi”) commi dal quarto al settimo della norma statutaria.

che siano presentati più ricorsi per la

delibazione di domande aventi contenuto

pressoché sovrapponibile o comunque

suscettibili di essere decise con

un’istruttoria comune.

Tende dunque a prevalere la tesi

secondo la quale, ai fini della

disposizione in esame, è sufficiente che

tra le due domande vi sia una comunanza

parziale di fatti costitutivi, la quale

consente di ritenere cumulabili

all’impugnativa di licenziamento ex

art.18 le domande che trovino comunque

fondamento, tra l’altro, nell’illegittimità

del recesso datoriale (come, ad es., la

domanda subordinata ex art.8 legge

n.604/1966) mentre impone di escludere

dalla cumulabilità le domande che non

presuppongono questa specifica

circostanza di fatto (ad es. la domanda di

differenze retributive)49.

49 CAVALLARO, cit., 5-7; CURZIO, ult. cit..

In tema v. anche VALLEBONA, cit., 73-74.

Particolarmente degna di nota, in questa prospettiva, è la tesi specifica sostenuta da SORDI, cit., 14-15, il quale, al fine di evitare le possibili conseguenze aberranti della soluzione interpretativa volta a ritenere sufficiente una comunanza meramente parziale dei fatti costitutivi, propone di distinguere i fatti costitutivi delle domande aventi ad oggetto le tutele di cui all’art.18 dello Statuto dei lavoratori in due categorie, quella dei fatti costitutivi comuni a tutte le forme di tutela contemplate dalla norma statutaria (esistenza del rapporto di lavoro subordinato e illegittimità dell’atto espulsivo) e quella dei fatti costitutivi specifici di singole forme di tutela previste dalla norma medesima (ad es. una delle fattispecie di nullità, che costituiscono il presupposto della tutela di cui al comma primo; l’insussistenza del fatto contestato che costituisce uno dei presupposti della tutela di cui al comma quarto; una delle fattispecie di inefficacia che costituiscono il presupposto della tutela di cui al comma sesto, ecc.).

Ai fini della cumulabilità della domanda diversa con quella avente ad oggetto la tutela ex art.18 e della simultanea trattazione di entrambi con il rito specifico, sarebbe necessaria e sufficiente – secondo il chiaro autore –

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6. Le domande non fondate su fatti

costitutivi identici a quelli posti a

fondamento dell’impugnativa di

licenziamento: a) l’errore assoluto sul

rito.

Resta da esaminare il destino delle

domande fondate su fatti costitutivi

diversi da quelli posti a fondamento

dell’impugnativa di licenziamento che,

non rientrando nella categoria

contemplata dall’art.1, comma 48, legge

n.92/2012, non possono essere proposte

con il rito specifico, neppure unitamente

alla domanda di tutela ex art.18.

In proposito possono distinguersi

tre diverse ipotesi:

a) la domanda fondata su fatti

costitutivi diversi viene proposta con

ricorso ex art.1, comma 48, legge

92/2012, senza che sia cumulativamente

proposta una domanda di impugnativa di

licenziamento (in questo caso si ha un

errore assoluto sul rito, poiché la

domanda avrebbe dovuto essere proposta

la coincidenza dei fatti costitutivi appartenenti alla prima categoria, mentre non occorrerebbe che la comunanza si estenda anche agli altri.

Cumulabili, quindi, sarebbero quelle domande che, al pari di quella avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento, siano fondate (anche) sulla (dedotta) sussistenza, tra le parti, di un rapporto di lavoro subordinato e sulla (dedotta) illegittimità del recesso datoriale (ad es., la domanda subordinata ex art.8 legge n.604/1966 o la domanda di risarcimento dei danni ulteriori, eventualmente causati dal licenziamento illegittimo, alla salute o all’onore) mentre non sarebbero proponibili con il rito specifico le domande fondate su fatti che prescindono dall’illegittimità del recesso (ad es. la domanda di differenze retributive o di TFR).

con ricorso ex art.414 c.p.c., seguendo il

rito tradizionale del lavoro)50;

b) la domanda viene proposta con

ricorso ex art.1, comma 48, legge

Fornero, unitamente alla domanda avente

ad oggetto una delle tutele contemplate

dall’art.18 (in questo caso si ha un errore

relativo sul rito, che è quello giusto per

l’impugnativa di licenziamento ma non

per l’altra domanda, non essendo questa

cumulabile alla prima perché non fondata

sui medesimi fatti costitutivi);

c) la domanda viene proposta con

ricorso ex art.414 c.p.c., senza cumularla

a quella avente ad oggetto l’impugnativa

del licenziamento ex art.18, che viene

formulata separatamente con il nuovo rito

(in questa ipotesi, non vi è errore sul rito

e si determina la contemporanea

pendenza dinanzi al giudice del lavoro di

due cause tra le stesse parti, trattate con

riti diversi).

Esaminiamo analiticamente le tre

ipotesi.

Con riguardo alla prima (alla quale

deve assimilarsi la fattispecie, inversa ma

omologa, in cui una domanda di

impugnativa di licenziamento ex art.18

sia proposta con ricorso ex art.414 c.p.c.),

sebbene non manchi una tesi minoritaria

tendente a ritenere che la domanda

50 L’errore vi sarebbe anche nell’ipotesi in cui si trattasse di domanda cumulabile ex art.1, comma 48, perché fondata su fatti costitutivi identici a quelli che potrebbero essere posti a fondamento della domanda ex art.18: infatti, non essendo stata proposta in questo caso una simile domanda, non è possibile utilizzare il rito specifico per la domanda connessa.

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indebitamente formulata con il rito

specifico debba essere dichiarata

inammissibile51, l’opinione largamente

prevalente è dell’avviso che, in questo

caso, il giudice debba semplicemente

emettere un provvedimento di mutamento

di rito52.

Questa opinione deve essere

condivisa, in quanto, alla stregua dei

principi generali del nostro sistema

processuale, una decisione negativa in

rito si giustifica soltanto in presenza di un

51 In tal senso DE ANGELIS, cit., 15, e, tra le prime applicazioni giurisprudenziali, Trib. Monza 22 ottobre 2012.

La tesi trae argomento dal rilievo che alla trattazione delle controversie soggette al nuovo rito è stata riservata dal legislatore (art.1, comma 65, legge n.92/2012) una corsia preferenziale, per modo che l’utilizzazione strumentale del rito medesimo per la proposizione di domande diverse, essendo finalizzata a conseguire un indebito vantaggio, concreterebbe un vero e proprio abuso dello strumento processuale, da sanzionarsi con una pronuncia di inammissibilità.

Al medesimo risultato potrebbe giungersi sulla base dell’interpretazione analogica dell’art.702 ter, secondo comma, c.p.c., che, con riguardo al rito sommario indebitamente utilizzato per introdurre una causa non rientrante tra quelle indicate nel precedente art.702 bis, prevede che il giudice dichiari l’inammissibilità della domanda con ordinanza non impugnabile.

L’applicazione analogica dell’art.702 ter, secondo comma, c.p.c. sembra peraltro trovare un ostacolo insormontabile nella circostanza che l’introduzione della causa nelle forme del procedimento sommario di cognizione, allorché la legge lo consente, costituisce l’oggetto di una facoltà riconosciuta alla parte, mentre il nuovo rito per i licenziamenti, secondo l’opinione pressoché unanime dei primi commentatori, ha carattere indisponibile in ragione della natura pubblicistica dell’interesse in esso tutelato (in tal senso, BOLLANI, cit., 315; CAVALLARO, cit., 3; CURZIO, cit., 9; DE ANGELIS, cit., 11, LUISO, cit., 7; RIVERSO, cit., 1. In senso contrario, CONSOLO-RIZZARDO, 735. Peculiare la posizione di SORDI, cit., 6-7, il quale, pur propendendo per il carattere obbligatorio del rito, ritiene che le parti, con il loro ‹‹comune consenso››, possano “saltare” la fase sommaria, iniziando il processo dalla fase di opposizione).

52 LUISO, cit., 8; CURZIO, cit., 8; SORDI, cit., 39-42.

vizio insanabile derivante dalla mancanza

di un presupposto processuale o di una

condizione dell’azione oppure da una

nullità di un atto processuale che non può

raggiungere lo scopo cui è destinato53.

D’altra parte, normalmente

l’ordinamento prevede, per rimediare

all’errore sul rito, l’apposito istituto del

mutamento del rito e dalla circostanza

che tale rimedio non sia stato

espressamente contemplato nell’ambito

della stringata disciplina del nuovo

procedimento per i licenziamenti non può

inferirsi come conseguenza che in questa

specifica ipotesi l’errore sul rito conduca

ad una pronuncia di inammissibilità della

domanda, dovendo invece vedersi in

questa omissione una delle tante lacune

della predetta disciplina, da colmarsi

attraverso il ricorso alle regole previste

per i procedimenti contigui.

Ciò posto, si pone dunque il

problema se per disporre il mutamento di

rito, il giudice debba utilizzare lo

strumento posto a disposizione dagli

artt.426 e 427 c.p.c.54 oppure se debba

utilizzare lo strumento previsto dall’art.4

d.lgs. n.150/201155.

53 Cfr. LUISO, ult. cit., il quale, richiamando Proto Pisani, Andrioli e Chiovenda (nota 29), evidenzia che ‹‹il processo deve tendere, laddove possibile, ad una decisione di merito e limitare le pronunce di mero rito ai casi strettamente necessari: quelli, cioè, in cui il vizio processuale è insanabile››; cosa che – aggiunge l’illustre autore – non si verifica nell’ipotesi di mero errore di rito perché in tale ipotesi ‹‹il vizio è sanabile appunto con il passaggio dal rito sbagliato a quello giusto››.

54 Come vuole LUISO, cit., 10.

55 Come ritiene SORDI, ult. cit., particolarmente 40-41.

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53

La questione non assume

particolare rilevanza perché in entrambi i

casi il processo proseguirà con il rito

giusto.

Può comunque rilevarsi che in

favore della prima soluzione milita il

rilievo che essa è l’effetto

dell’applicazione del corretto criterio

metodologico sopra indicato56, che

impone di ricercare la fonte di

integrazione della disciplina del rito

speciale nell’ordinario processo del

lavoro.

In favore della seconda soluzione

milita invece il rilievo che lo strumento

contemplato nell’art.4 d.lgs. n.150/2011

ha una portata generale, come tale

tendenzialmente applicabile a tutte le

ipotesi di errore sul rito, mentre gli

artt.426 e 427 c.p.c. hanno una portata e

un ambito di applicazione specifici, in

quanto regolano il passaggio dal rito

civile ordinario al rito speciale del lavoro

e viceversa.

7. (Segue): b) il cumulo di domande.

L’errore relativo sul rito.

La seconda ipotesi da esaminare,

come si è accennato, è quella – che

verosimilmente assumerà maggiore

rilevanza nella pratica – in cui vengano

cumulate, attraverso il ricorso ex art.1,

56 V., supra, par.1.

comma 48, legge n.92/2012, domande da

trattare con il nuovo rito (in quanto aventi

ad oggetto un’impugnativa di

licenziamento e la richiesta di una delle

tutele di cui all’art.18 dello Statuto dei

lavoratori) e domande da trattare con il

rito ordinario del lavoro (in quanto non

fondate sui medesimi fatti costitutivi

posti a fondamento delle prime, nel senso

che si è sopra precisato57: ad es.,

domande di differenze retributive, di

TFR, ecc.).

Questa ipotesi (alla quale deve

essere assimilata la fattispecie, inversa

ma omologa, in cui attraverso il ricorso

ex art.414 c.p.c., oltre a domande da

trattare con il rito ordinario del lavoro,

vengano formulate domande da trattare

con il rito specifico di cui ai commi 47-68

della legge Fornero) determina un errore

relativo sul rito, il quale è correttamente

individuato soltanto per una delle

domande cumulate mentre è sbagliato per

l’altra.

Al riguardo, deve senz’altro

escludersi la possibilità di fare

applicazione della disposizione contenuta

nell’art.40, comma terzo, c.p.c. che

imporrebbe la trattazione delle cause

cumulativamente proposte con il rito

codicistico del lavoro.

Tale disposizione, infatti, opera nei

casi di connessione qualificata (atta a

determinare modificazioni della

competenza) ai sensi degli artt.31, 32, 34,

57 V., supra, par.5.

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54

35 e 36 del codice di procedura civile,

mentre, nell’ipotesi in esame non sussiste

alcuna connessione, integrandosi un mero

cumulo oggettivo ai sensi dell’art.104

stesso codice58.

Ciò vale, ad avviso di chi scrive,

anche con riguardo al caso in cui

all’impugnativa di licenziamento sia

cumulata la domanda autonoma di

accertamento della natura subordinata del

rapporto di lavoro, la quale, come si è

veduto59, per un verso, deve essere

sottratta all’ambito di operatività

dell’ultimo inciso del comma 47

dell’art.1 legge Fornero (che si riferisce

alle sole questioni logicamente

pregiudiziali e non anche alle vere e

proprie domande) e, per altro verso, è

legata all’impugnativa di licenziamento

da un nesso di mera pregiudizialità

logica, al quale, diversamente dalla

pregiudizialità tecnica, non si applica, per

giurisprudenza consolidata, l’art.34

c.p.c.60

58 La tesi circa l’inapplicabilità al cumulo di domande della disposizione contenuta nell’art.40, comma terzo, c.p.c. è condivisa da SORDI, cit., 45.

59 V., supra, par.4.

60 In senso contrario, peraltro, v., autorevolmente, LUISO, cit., 5, il quale, come si è già veduto (supra, par.4, nota 38), da un lato, ritiene che la domanda pregiudizialmente connessa di accertamento della natura subordinata del rapporto sia cumulabile, ex art.1, comma 47, ultima parte, all’impugnativa di licenziamento e, dall’altro lato, evidenzia che, in mancanza della predetta disposizione, il processo sull’impugnativa di licenziamento, da trattarsi con il nuovo rito, dovrebbe essere sospeso in attesa della decisione sulla domanda pregiudiziale o, in alternativa, essere trattato unitamente a quest’ultima, previa attrazione al rito del lavoro, ex art.40, comma terzo, c.p.c..

Esclusa l’applicabilità dell’art.40,

comma terzo, c.p.c., in questa ipotesi,

diversamente da quella esaminata in

precedenza di errore assoluto sul rito,

sembra risultare maggiormente condivisa,

tra i primi commentatori61, la tesi

secondo la quale, quanto meno nella fase

sommaria del procedimento, il giudice

deve dichiarare l’inammissibilità della

domanda indebitamente cumulata

all’impugnativa di licenziamento e non

fondata sui medesimi fatti costitutivi.

Per affermare questa tesi, vengono

fondamentalmente utilizzati due

argomenti, l’uno di carattere letterale

l’altro di carattere logico.

Sotto il profilo letterale si trae

argomento dal tenore testuale del secondo

periodo del comma 48 dell’art.1

l.n.92/2012, il quale perentoriamente

dispone che “non possono essere

proposte domande diverse da quelle di

cui al comma 47 del presente articolo,

salvo che siano fondate sugli identici fatti

costitutivi”.

La previsione di un vero e proprio

divieto, si rileva, deve necessariamente

condurre ad una pronuncia di

61 Cfr., ad es., SORDI che, con riguardo all’ipotesi di errore assoluto sul rito, aderisce, come si è veduto (v. par. precedente), alla tesi secondo la quale il giudice deve emettere l’ordinanza di mutamento di rito, ai sensi dell’art.4 d.lgs. n.150/2011, mentre, con riguardo all’ipotesi di errore relativo sul rito in seguito al cumulo di domande, ritiene (cit., 46) che ‹‹l’unica soluzione che sembra coerente con la disciplina del nuovo rito definita dal legislatore è quella in base alla quale il giudice, con l’ordinanza conclusiva della fase “urgente”, decide nel merito le domande ammissibili e dichiara l’inammissibilità di tutte le altre››, non apparendo ‹‹possibile, invece, una separazione delle cause con conversione del rito per quelle extra art.1, comma 48››.

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55

inammissibilità della domanda formulata

in violazione dello stesso.

Sotto il profilo logico, si trae

argomento dalla disciplina dettata per la

domanda riconvenzionale dal comma 56,

secondo il quale “quando la causa

relativa alla domanda riconvenzionale

non è fondata su fatti costitutivi identici a

quelli posti a base della domanda

principale il giudice ne dispone la

separazione”.

La circostanza che questa

disposizione, al pari di quella relativa alla

chiamata di terzo (comma 54), sia dettata

esclusivamente con riguardo alla fase di

opposizione determinerebbe, infatti, due

ordini di conseguenze.

La prima conseguenza

consisterebbe in ciò che tali domande

(riconvenzionale e chiamata di terzo)

sarebbero ammissibili solo nella fase a

cognizione piena e non anche nella fase

urgente, in cui l’esigenza di giungere nel

più breve tempo possibile ad una

pronuncia in ordine alla legittimità o

illegittimità del recesso renderebbe

inammissibile il cumulo.

La seconda conseguenza

consisterebbe in ciò che la sanzione di

inammissibilità dovrebbe colpire anche

qualsiasi altra domanda indebitamente

cumulata all’impugnativa di

licenziamento in mancanza dei

presupposti previsti dal comma 48,

sempre in ragione delle esigenze di

rapidità che connotano l’accertamento

della fase sommaria, le quali rendono

intollerabile qualsiasi appesantimento

non espressamente consentito; soltanto

nella fase di opposizione, dunque,

analogamente a quanto espressamente

previsto per la domanda riconvenzionale,

potrebbe porsi il problema della

separazione della domanda indebitamente

cumulata non fondata sugli stessi fatti

costitutivi posti a fondamento

dell’impugnativa di licenziamento,

mentre nella fase urgente il giudice

dovrebbe senz’altro orientarsi per una

pronuncia di inammissibilità62.

Nessuno degli argomenti esaminati

appare convincente.

Quanto a quello letterale, è

evidente che da esso può trarsi

unicamente il rilievo che esiste il divieto

di proporre con il rito specifico domande

fondate su fatti costitutivi diversi da

quelli posti a base dell’impugnativa del

licenziamento, ma non può trarsi alcuna

indicazione in ordine alle conseguenze

della violazione dello stesso e, in

particolare, in ordine alla sanzione

processuale applicabile, che non

necessariamente deve consistere nella

62 Secondo SORDI, ult. cit., ‹‹la normativa dettata dalla legge n.92 del 2012 … offre chiari ed inequivoci elementi che depongono nel senso dell’incompatibilità con il nuovo rito di qualsiasi “complicazione” della prima fase, la quale è finalizzata esclusivamente alla delibazione della domanda di impugnazione del recesso datoriale (e, per comprensibili ragioni di economia processuale, di quelle fondate sui medesimi fatti costitutivi), con inevitabile dichiarazione di inammissibilità per tutte le altre domande eventualmente formulate dalle parti››.

In senso conforme, CAVALLARO, cit., 6.

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

56

declaratoria di inammissibilità della

domanda63.

L’argomento volto a richiamare ed

estendere il regime della domanda

riconvenzionale, invece, non tiene conto

della circostanza che esso, analogamente

a quello della chiamata di terzo, trova

fondamento negli effetti processuali della

proposizione di tale domanda.

Sebbene non sia espressamente

richiamato, infatti, non vi può essere

dubbio – non solo in applicazione del

criterio ermeneutico che impone di

ricercare nel rito tradizionale del lavoro le

regole integrative della lacunosa

disciplina speciale ma anche (e

soprattutto) in considerazione della

circostanza che si tratta di norma posta a

garanzia del contraddittorio – che,

nell’ipotesi di formulazione di una

domanda riconvenzionale, trovi

applicazione l’art.418 c.p.c.64, con

conseguente necessità di spostamento

dell’udienza di discussione fissata a

norma dell’ultimo periodo del comma 51.

63 Incisivo, al riguardo l’esempio offerto da LUISO, cit., 10, il quale, dopo aver affermato che anche la fattispecie dell’errore relativo sul rito per cumulo di domande è governata dalla regola che impone al giudice di emettere un semplice provvedimento di mutamento di rito (qui preceduto da una separazione delle domande non soggette al procedimento specifico) evidenzia che, se da un lato ‹‹è vero che il comma 48 stabilisce che esse non possono essere “proposte”››, dall’altro lato ‹‹è anche vero che ciò non significa che, ove proposte, debbano essere inesorabilmente rigettate in rito››, concludendo che ‹‹anche l’art.102 c.p.c. stabilisce che, ove si abbia litisconsorzio necessario, tutti i litisconsorti debbono agire o essere convenuti nello stesso processo: ma se ciò non accade, si ha non già il rigetto in rito della domanda, sibbene la sua sanatoria sulla base del secondo comma della stessa norma››.

64 Sul punto v. CURZIO, cit., 14.

Deve dunque condividersi il

rilievo che la domanda riconvenzionale

(al pari della domanda per chiamata di

terzo) non è ammissibile nella fase

sommaria ma deve anche precisarsi che la

ragione della scelta legislativa va

ricercata proprio negli effetti processuali

della proposizione di tali domande, le

quali, per esigenze connesse con

l’attuazione del contraddittorio,

determinano necessariamente lo

spostamento in avanti dell’udienza di

discussione (spostamento specificamente

previsto a seguito della chiamata di terzo:

art.1, comma 54, legge n.92/2012) e il

conseguente allungamento dei tempi di

trattazione del procedimento.

Esse domande, dunque, non

appaiono compatibili con le esigenze di

celerità che contraddistinguono la fase

sommaria, sicché ove indebitamente

proposte in tale fase, andranno dichiarate

inammissibili.

Questo regime, peraltro, non può

essere analogicamente esteso alle altre

domande indebitamente cumulate

all’impugnativa di licenziamento in

difetto dei presupposti di cui al comma

48, in quanto, diversamente dalla

domanda riconvenzionale e dalla

domanda per chiamata di terzo, la loro

proposizione non determina lo

spostamento dell’udienza.

Si conferma, dunque, che per tali

ulteriori domande, l’errore sul rito deve

trovare il rimedio ordinariamente previsto

dall’ordinamento e conforme ai principi

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generali del nostro sistema processuale,

vale a dire l’ordinanza di mutamento di

rito, previa separazione delle cause65.

D’altra parte, la tesi che afferma

l’inammissibilità delle domande non

fondate sui medesimi fatti costitutivi

posti a base dell’impugnativa ex art.18

Statuto dei lavoratori, trovando

fondamento, in ultima analisi, sulla

ritenuta incompatibilità di queste

domande con le esigenze di rapidità della

fase sommaria del nuovo procedimento,

non può essere sostenuta in relazione

all’ipotesi inversa in cui la domanda ex

art.18 sia indebitamente cumulata, con un

ricorso ex art.414 c.p.c., ad una domanda

da trattare con il rito tradizionale del

lavoro66.

Secondando questa tesi, dunque, si

cade nell’incoerenza di prevedere, per la

fattispecie dell’errore relativo sul rito, un

regime differenziato a seconda della

direzione in cui l’errore venga commesso.

Altra incoerenza, infine, è quella

per cui l’errore relativo sul rito finisce per

essere sanzionato in maniera più grave

dell’errore assoluto sul rito, in relazione

al quale, come si è sopra veduto67,

65 Su questa linea, oltre a LUISO, ult. cit., sembra porsi anche CURZIO, cit., 9, il quale richiama il principio di conservazione ‹‹che impone al giudice, in presenza di errore sul rito, di non azzerare il processo, ma di adottare i provvedimenti necessari per consentirne la prosecuzione››.

66 In questa diversa ipotesi, infatti, si ammette che il giudice, dopo aver fissato l’udienza di discussione ai sensi dell’art.420 c.p.c., disponga la separazione delle cause e il conseguente mutamento di rito per l’impugnativa di licenziamento, proseguendo con il rito tradizionale del lavoro per l’altra domanda (SORDI, ult. cit.).

67 V. par. precedente.

l’opinione che ritiene applicabili le norme

sul mutamento di rito (di volta in volta

identificate negli art.426 e 427 c.p.c. o

nell’art.4 d.lgs. n.150/2011) è pressoché

generalmente condivisa, pur non

mancando autorevoli prese di posizione

di segno contrario.

8. (Segue): c) la mancanza di errore sul

rito. La contemporanea pendenza

dinanzi al medesimo giudice del lavoro

di più cause soggette a riti differenti.

La terza possibilità concerne la

fattispecie in cui il lavoratore abbia

correttamente proposto la domanda di

tutela ex art.18, avverso il recesso

datoriale reputato illegittimo, seguendo il

rito specifico previsto dalla legge

n.92/2012; e la domanda fondata su fatti

costitutivi diversi (ad es. la domanda di

condanna al pagamento di differenze

retributive o la domanda di

riconoscimento di mansioni superiori,

ecc.) seguendo il normale rito del lavoro.

In questo caso non si ha errore sul

rito ma ci si deve chiedere se, data la

pendenza, dinanzi al medesimo giudice,

di più cause tra le stesse parti, queste

possano essere riunite per essere trattate

nello stesso processo oppure se la

trattazione deve procedere separatamente.

Il tradizionale orientamento

giurisprudenziale – del resto conforme ai

principi generali dell’ordinamento

processuale – è nel senso di favorire, per

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quanto possibile, il simultaneus

processus, in funzione sia della

salvaguardia di esigenze di economia

processuale (si pensi all’ipotesi in cui più

domande possano essere delibate sulla

base di un’istruttoria parzialmente o

totalmente comune) sia della prevenzione

di possibili contrasti logici tra le diverse

pronunce (si pensi all’ipotesi in cui, pur

non ricorrendo un’identità di azione e pur

non operando i limiti connessi al

principio del ne bis in idem, la decisione

dipenda dalla soluzione di una o più

questioni comuni).

Così, anche quando non si

integrino i presupposti per l’operatività di

regole specifiche dettate in relazione a

particolari tipologie di controversie68, la

giurisprudenza di legittimità tende ad

assicurare il simultaneus processus,

mediante un’ interpretazione ampia della

nozione di continenza ai sensi e per gli

effetti dell’art.39, secondo comma, c.p.c.,

la quale viene ritenuta sussistente non

solo nell’ipotesi classica di identità di

personae e causa petendi con differenza

del petitum sotto il profilo quantitativo,

ma anche nell’ipotesi in cui la decisione

delle diverse cause presupponga la

68 Nelle controversie in materia di lavoro e di previdenza, assume particolare rilevanza la disposizione di cui all’art.151 disp. att. c.p.c., che prevede la necessità di una riunione delle cause, salve le ipotesi in cui ne derivi l’eccessiva gravosità o il ritardo del processo, quando esse siano “connesse anche soltanto per identità delle questioni dalla cui risoluzione dipende, totalmente o parzialmente, la loro decisione”.

soluzione anche di una sola questione ad

esse comune69.

Tale possibilità è preclusa

nell’ipotesi in cui la comunanza di

questioni si ponga in relazione a domande

assoggettate al rito specifico di cui

all’art.1, commi 47-68, legge n.92/2012 e

domande assoggettate al rito tradizionale

del lavoro, in quanto l’introduzione del

nuovo rito tende ad assicurare proprio la

trattazione separata della cause, in

funzione della fondamentale esigenza, di

69 Cfr., ad es., Cass.1° ottobre 2007, n.20596, in Riv. dir. proc., 2008, 1759: “ai sensi dell'art. 39, comma secondo, cod. proc. civ., la continenza di cause ricorre non solo quando due cause siano caratterizzate da identità di soggetti (identità non esclusa, peraltro, dalla circostanza che in uno dei due giudizi sia presente anche un soggetto diverso) e di titolo e da una differenza quantitativa dell’oggetto, ma anche quando fra le cause sussista un rapporto di interdipendenza, come nel caso in cui sono prospettate, con riferimento ad un unico rapporto negoziale, domande contrapposte o in relazione di alternatività e caratterizzate da una coincidenza soltanto parziale delle “causae petendi”, nonché quando le questioni dedotte con la domanda anteriormente proposta costituiscano il necessario presupposto (alla stregua della sussistenza di un nesso di pregiudizialità logico-giuridica) per la definizione del giudizio successivo, come nell’ipotesi in cui le contrapposte domande concernano il riconoscimento e la tutela di diritti derivanti dallo stesso rapporto e il loro esito dipenda dalla soluzione di una o più questioni comuni. (Nella specie, in applicazione dell’enunciato principio, le Sezioni unite hanno ritenuto la sussistenza di un rapporto di continenza tra la domanda proposta da un istituto di credito nei confronti del correntista, avente ad oggetto il pagamento del saldo negativo del conto, e quella proposta dal correntista nei riguardi della banca, avente ad oggetto l’accertamento della nullità della clausola che fissava gli interessi in misura ultralegale e di quella di capitalizzazione degli stessi).

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rilievo pubblicistico, che la rimozione, ad

opera del giudice, della situazione di

incertezza generatasi sulla legittimità o

meno di un licenziamento assistito da una

delle tutele di cui all’art.18 dello Statuto

dei lavoratori, sia operata nel più breve

tempo possibile70.

70Nello stesso senso, per il rilievo che la disciplina dell’art.39 c.p.c. non è applicabile all’ipotesi in cui vi sia contemporanea pendenza di più cause, l’una delle quali da trattarsi con il nuovo rito per i licenziamenti, v. SORDI, cit., 18 secondo il quale ‹‹la norma del codice di rito›› è ‹‹incompatibile con la disciplina specificamente dettata dalla legge n.92››.

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di Luigi Viola Sommario: 1. Il nuovo appello filtrato - 2. Le critiche della prima dottrina - 3. L’udienza filtrante - 4. Il nuovo atto di appello motivato - 4.1. Eliminazione del riferimento all’esposizione sommaria dei fatti - 4.2. Dagli specifici motivi alla motivazione - 5. I primi orientamenti giurisprudenziali - 5.1. L’orientamento romano - 5.2. Il preferibile orientamento milanese - 6. La pronuncia 1041/2013 del Tribunale di Vasto - 6.1. Profili critici - 7. Conclusioni e Strategie

1. Il nuovo appello filtrato

L’art. 111 Cost. delinea a chiare lettere il percorso che il legislatore ordinario deve seguire per rendere il processo giusto: bisogna assicurare qualità (anche per la vie del contraddittorio, parità, giudice terzo ed imparziale) e ragionevole durata.

Entrambi gli enunciati vanno rispettati, senza che l’uno possa essere sacrificato per realizzare l’altro[1].

In questo quadro normativo, si innesta la riforma sull’appello filtrato, di cui alla legge 134/2012: è un nuovo istituto volto a selezionare le cause meritevoli di andare avanti, in quanto fondate su una ragionevole probabilità di accoglimento, rispetto a quelle immeritevoli.

Le novità sono molteplici ed incidono sia sull’atto che sul procedimento in senso stretto:

-sull’atto perché è richiesta una redazione più mirata su come si vorrebbe fosse la pronuncia impugnata, piuttosto che solo sul cosa non va; ciò in quanto è scritto che l’atto deve contenere, a pena di inammissibilità, l’indicazione “delle modifiche che vengono

Nuovo appello filtrato: primi orientamenti e strategie

Dottrina &

Opinioni

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richieste alla ricostruzione del fatto”, ex art. 342 n. 1 c.p.c.;

-sull’atto perchè vengono bandite del tutto critiche meramente teoriche, dovendosi spiegare la rilevanza di quanto dedotto al fine di ottenere una pronuncia più favorevole; ciò è desumibile dall’inciso “loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”, ex art. 342 n. 2 c.p.c.

-sul procedimento in quanto è previsto che la prima udienza sia anche filtrante, ove approfondire la presenza di almeno una probabilità di successo; difatti, per gli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c., il giudice competente, sentite le parti, dichiara inammissibile l’impugnazione quando “non ha una ragionevole probabilità di essere accolta”.

Ruolo fondamentale – pur se non dirimente – andrà assumendo il riferimento ai precedenti giurisprudenziali, sia perché idoneo a provare una probabilità di successo, e sia perché il giudice può appoggiare la propria motivazione anche solo sulla sussistenza di questi, ex art. 348 ter c.p.c.: sio sta andando de facto verso un sistema di common law misto a civil law[2].

2. Le critiche della prima dottrina

La dottrina – da subito – è stata critica sulla riforma.

Alcuni[3] si sono chiesti se sia davvero possibile pretendere dal collegio giudicante una capacità di selezionare, a colpo d’occhio, gli appelli seri dagli altri: è realistico auspicare e pretendere che alla prima udienza si possa, da un giudice collegiale, in un mare di gravami malamente fascicolati, con infallibile e subitaneo colpo d’occhio, di cui è rara finora la evidenza proprio in appello, secernere gli appelli privi di serietà dagli altri?

L’immediata ricorribilità della sentenza di primo grado provocherà un ulteriore appesantimento del carico di lavoro della

Corte di cassazione, già sovraccarica oltre misura[4]; il parametro di giudizio che l’impugnazione non abbia una “ragionevole probabilità di essere accolta” concede un margine di apprezzamento eccessivo al giudice dell’impugnazione, poiché gli consente di dichiarare inammissibile un’impugnazione che pur abbia una probabilità di essere accolta, sol che questa probabilità sia a suo giudizio non “ragionevole[5]”. Non si sa bene che cosa ciò significhi in via generale ed astratta. Lo si potrà sapere solo dopo aver letto la succinta motivazione dell’ordinanza che reca questo giudizio[6].

Per altra dottrina[7], la riforma del filtro indurrà “ragionevolmente” i giudici a comportarsi come hanno sempre fatto, così in concreto non tenendo conto della novella: non ci si può esimere dall’osservare che i giudici di appello, già sommersi di lavoro in conseguenza dell’inutile e dannosa introduzione generalizzata del giudice unico di primo grado, non trarranno dalle nuove norme particolari benefici. Infatti, per poter decidere alla prima udienza e preliminarmente alla trattazione se l’appello non ha una ragionevole probabilità di essere accolto, dovranno studiarsi a fondo subito tutte le cause perché solo così potranno delibare quella ragionevole “possibilità” e provvedere in conseguenza. E’ facile, pertanto, prevedere che, salvo casi limite di mera scuola, quei giudici non applicheranno mai la nuova norma e salteranno a piè pari l’ordinanza succintamente motivata continuando ragionevolmente a comportarsi come al solito.

3. L’udienza filtrante

La novità più dirompente, almeno a prima vista, emerge dalla lettera del nuovo art. 348 bis c.p.c.: fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l'inammissibilita' o l'improcedibilita' dell'appello, l'impugnazione e' dichiarata inammissibile dal giudice competente quando non ha una ragionevole probabilita' di essere accolta.

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Tale enunciazione non vale per le cause in cui è obbligatoria la presenza del pubblico ministero e nel grado di appello[8] ad ordinanza decisoria conclusiva di rito sommario di cognizione, ex art. 702 quater c.p.c.

All'udienza di cui all'articolo 350 c.p.c. il giudice, prima di procedere alla trattazione, sentite le parti, dichiara inammissibile l'appello, a norma dell'articolo 348 bis, comma 1° c.p.c., con ordinanza succintamente motivata, anche mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o piu' atti di causa e il riferimento a precedenti conformi.

Quando e' pronunciata l'inammissibilità, contro il provvedimento di primo grado puo' essere proposto, a norma dell'articolo 360 c.p.c., ricorso per Cassazione.

In tal caso, il termine per il ricorso per Cassazione avverso il provvedimento di primo grado decorre dalla comunicazione o notificazione, se anteriore, dell'ordinanza che dichiara l'inammissibilita'.

L'ordinanza di inammissibilita' e' pronunciata solo quando sia per l'impugnazione principale che per quella incidentale di cui all'articolo 333 c.p.c. ricorrono i presupposti di cui al primo comma dell'articolo 348 bis c.p.c.; in mancanza, il giudice procede alla trattazione di tutte le impugnazioni comunque proposte contro la sentenza; in pratica: o entrambe le impugnazioni sono inammissibili, così da dichiarare l’inammissibilità, oppure deve essere dichiarata l’ammissione (in caso di ammissibilità solo di una impugnazione); non c’è spazio per l’inammissibilità parziale.

Tutto quanto detto vale anche per il rito del lavoro.

4. Il nuovo atto di appello motivato

Il nuovo art. 342 c.p.c. appare radicalmente modificato, si ritiene[9] anche nella sostanza.

Sono stati abrogati i riferimenti espressi:

all’esposizione “sommaria dei fatti”;

agli “specifici motivi”.

4.1. Eliminazione del riferimento all’esposizione sommaria dei fatti

Per quanto riguarda l’eliminazione dell’esposizione sommaria dei fatti (voluta, secondo alcuni[10], per allinearsi al nuovo art. 132 c.p.c. che si accontenta della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto), si ritiene che – ciononostante - il riferimento ai fatti vada scritto, ai fini dell’ammissibilità dell’appello; ciò in quanto:

è vero che il riferimento all’esposizione sommaria dei fatti è stato espunto dall’art. 342 c.p.c., ma resta il rinvio alle prescrizioni dell’art. 163 c.p.c. che al n. 4 pretende l’esposizione dei fatti, neanche in via “sommaria”; ciò vuol dire che con il pregresso art. 342 c.p.c. la narrazione era sommaria in quanto si derogava a quanto espressamente sanciva l’art. 163 c.p.c., ma - venuta meno la narrazione sommaria – si ha una sorta di “riespansione” del predicato dell’art. 163 c.p.c.; più chiaramente, la novella ha eliminato l’eccezionalità della sommarietà, così facendo rientrare l’appello nei binari dell’ordinarietà scolpiti all’art. 163 c.p.c.;

altresì, lo stesso art. 342 c.p.c., come innovato, esige l’indicazione delle “modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto”; id est: bisogna indicare cosa si vuole venga modificato della ricostruzione fatta dal primo giudice a proposito del fatto e, dunque, per poter spiegare cosa si vuole, bisogna anche indicare come sono andate le cose, ovvero i fatti;

la ratio è comunque salvaguardata dalla presenza solo di fatti e diritti rilevanti, visto che al n. 2 dell’art. 342 c.p.c. è scritto “l'indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”;

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una lettura diversa sarebbe contraria alla lettera della legge e l’interpretazione letterale prevale sulle altre[11], ex art. 12 delle Preleggi.

4.2. Dagli specifici motivi alla motivazione

Sono stati eliminati i riferimenti agli specifici motivi d’appello.

Invero, l’art. 342 c.p.c. è passato dalla pretesa degli “specifici motivi” a quella della “motivazione”

E’ motivazione e non più motivi specifici perché accanto alle critiche, l’atto di appello dovrà contenere le “proposte di modifica”, così assomigliando di più ad un provvedimento giurisdizionale (in particolare, sentenza) che ad un atto di parte (normalmente è il primo che deve essere motivato): l’atto di appello deve essere costruito come una sorta di “proposta di sentenza[12]”.

Proprio in questa direzione si è espressa la prima ed autorevolissima giurisprudenza[13] (confermando l’impostazione esposta dallo scrivente prima della pronuncia[14]), secondo cui l’atto di appello motivato deve essere redatto in modo più organico e strutturato rispetto al passato, quasi come una sentenza: occorre infatti indicare esattamente al giudice quali parti del provvedimento impugnato si intendono sottoporre a riesame e per tali parti quali modifiche si richiedono rispetto a quanto formato oggetto della ricostruzione del fatto compiuta dal primo giudice.

Pertanto, non è fuori luogo affermare che il nuovo atto di appello di cui all’art. 342 c.p.c. deve contenere una parte “rescindente ed una rescissoria”, ovvero sia criticare e sia costruire.

Prima della novella l’atto processuale era essenzialmente costruito in “modo rescindente” perché si colpiva solo la sentenza di primo grado indicando cosa non andava, trovando linfa legittimante nell’inciso “esposizione sommaria dei fatti ed i motivi

specifici”: i motivi potevano limitarsi ad evidenziare i contrasti diretti con la legge, ovvero indiretti (ad esempio nei casi di aporie logiche non superabili).

Oggi la motivazione, pretesa dall’art. 342 c.p.c., impone una rivisitazione delle vecchie formule di atto di appello: bisognerà redigere l’atto con una parte rescindente ed una rescissoria, ovvero una parte che critica, spiegandone il “perché”, ed un’altra che “costruisce” la versione fattuale che si auspica.

L’atto di appello diviene – per questa via – rescindente e rescissorio.

In favore di questa affermazione possono evidenziarsi i rilievi che:

l’atto deve contenere, a pena d’inammissibilità, l’indicazione delle parti del provvedimento appellate (parte rescindente);

l’atto deve contenere, a pena d’inammissibilità, l’indicazione delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado (parte rescissoria);

è pretesa una motivazione dell’atto, in luogo dei precedenti specifici motivi, così allineando l’atto di parte al provvedimento del giudicante e, normalmente, questo presenta una parte rescissoria; pertanto si è passati dai “motivi” alla “motivazione” proprio perché l’atto di appello oggi deve contenere pure una parte rescissoria.

E’ aumentata la simmetria – anche in senso formale, in questo caso - tra chiesto e pronunciato, predicata dall’art. 112 c.p.c.

5. I primi orientamenti giurisprudenziali

L’atto di appello motivato, si è detto, deve avere una ragionevole probabilità di accoglimento; in difetto di questa, l’atto potrà essere dichiarato inammissibile ex art. 348 ter

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c.p.c., con l’ulteriore aggravio economico introdotto dalla L. 228/2012[15] (in base al quale la parte – che si vede respinta la domanda di impugnazione – e’ tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione).

Non è del tutto chiaro come debba essere decodificato l’inciso “una ragionevole probabilità di essere accolta”, ex art. 348 ter c.p.c.

5.1. L’orientamento romano

E’ stato evidenziato[16] che l’appello non ha ragionevoli probabilità di accoglimento quando è prima facie infondato, così palesemente infondato da non meritare che siano destinate ad esso le energie del servizio giustizia, che non sono illimitate.

La pretesa ad una ragionevole probabilità di accoglimento potrebbe ben coincidere con quella di manifesta infondatezza: il giudice alla prima udienza, sentite le parti, valuterebbe la fondatezza della questione presentata ed in caso di “manifesta infondatezza” dovrebbe emettere un’ordinanza, succintamente motivata, di inammissibilità.

In pratica: “una ragionevole probabilità” sarebbe nozione equivalente a quella di “non manifesta infondatezza”; se la pretesa è manifestamente infondata, allora non ha neanche un ragionevole probabilità di accoglimento.

Tale interpretazione è essenzialmente di tipo logico.

Pur ritenendo complessivamente corretta tale lettura, ciononostante, non si ritiene di assecondarla perché:

la ragionevole probabilità richiede un’indagine più penetrante che deve andare un po’ oltre ciò che si manifesta; per cogliere una probabilità – si ritiene – bisogna approfondire di più che se si trattasse solo della “manifesta

infondatezza”, tant’è che è richiesto di ascoltare le parti proprio al fine di fare un minimo di indagine;

la manifesta infondatezza è prevista in sede inammissibilità del ricorso in Cassazione ex art. 360 bis c.p.c., così evidenziando che quando il legislatore ha “parlato” di manifesta infondatezza, lo ha fatto espressamente, con la conseguenza logica che, laddove ha utilizzato una terminologia diversa, ha voluto intendere altro; pertanto, parificare l’assenza di “una ragionevole probabilità” alla “manifesta infondatezza” è errato sul piano ermeneutico, finendo per trattare in modo uguale situazioni giuridiche diseguali, contro l’art. 3 Cost., oltre a vulnerare la voluntas legis sottesa (volta a differenziare le due nozioni);

è preteso un sorta ragionamento in positivo (una ragionevole probabilità) e non in negativo (manifesta infondatezza).

5.2. Il preferibile orientamento milanese

Si ritiene che l’opzione interpretativa preferibile (già espressa in passato[17]), oggi condivisa dalla Corte di Appello di Milano[18], sia quella che tende ad associare la ragionevole probabilità al fumus boni iuris, comunemente richiamato in tema di misure cautelari[19].

L’art. 348 bis c.p.c. recita testualmente che l'impugnazione e' dichiarata inammissibile dal giudice competente quando non ha una ragionevole probabilita' di essere accolta.

La ragionevole probabilità ben potrebbe essere associata al requisito del fumus boni iuris, strumentalmente necessario ai fini dell’emissione di un’ordinanza cautelare: per lo più, il fumus boni iuris viene definito come l'apparenza del diritto a salvaguardia del quale si intende richiedere la tutela, la cui sussistenza deve apparire come verosimile e probabile alla luce degli elementi di prova esistenti prima facie; id est: il diritto preteso deve apparire come verosimile, alla luce degli

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elementi di prova sussistenti; la valutazione è sommaria, intendendo con ciò allo stato delle produzioni documentali presentate.

Ebbene, lo stesso avviene nell’ambito della ragionevole probabilità di accoglimento: il giudice competente valuta se sussiste una sola probabilità di accoglimento, ed in caso di giudizio prognostico positivo, il filtro dell’inammissibilità è superato.

Rispetto al fumus boni iuris, però, è preteso qualcosa in più: non solo la ragionevolezza, ma anche – se non soprattutto – una probabilità; non solo possibilità, ma probabilità che è qualcosa in più sul piano statistico.

Il fumus boni iuris si accontenta della parvenza del diritto, ovvero della sua credibilità o ragionevole esistenza[20] rapportata al singolo caso[21], oppure addirittura un’opinione di credibilità[22]; diversamente, la ragionevole probabilità pretende un quid pluris statistico.

Esemplificativamente: se nel collegio giudicante nessun giudice ritiene fondata la domanda, allora questa avrà sì la possibilità di essere accolta nel merito, ma è improbabile; diversamente, se nel collegio giudicante un giudice su tre ritiene fondata la domanda, allora sussisterà una probabilità di accoglimento, con la conseguenza pratica che la domanda dovrà superare il filtro dell’inammissibilità.

A favore di questa ricostruzione, ritenuta qui preferibile, emergono i rilievi che:

è sufficiente una sola probabilità di successo, visto che è scritto che la domanda è dichiarata inammissibile quando “non ha una ragionevole probabilita' di essere accolta”, ex art. 348 bis c.p.c.;

il giudizio è prognostico circa quello che potrebbe accadere nel merito, al pari di quanto avviene in sede cautelare circa lo scrutinio sul fumus boni iuris; così anche il filtro dell’inammissibilità presenterebbe i caratteri

della sommarietà e strumentalità, proprio come avviene per le misure cautelari[23];

è pretesa una probabilità e non semplice possibilità; pertanto l’atto di appello dovrà cercare di indicare tale probabilità, facendo leva sui dati normativi, sulle prove, sulla contradditorietà della pronuncia di primo grado, sulla sussistenza di precedenti giurisprudenziali, ecc.; tra l’altro, parte della giurisprudenza[24], anche ai fini del riconoscimento del fumus boni iuris, suole parlare di ragionevole probabilità;

i precedenti giurisprudenziali possono essere utilizzati come argomento di convincimento, visto che l’art. 348 ter c.p.c. espressamente ammette la motivazione, seppur succinta, fondata su un mero rinvio a precedenti – al plurale[25] – conformi, così legittimando a pieno la c.d. motivazione per relationem.

6. La pronuncia 1041/2013 del Tribunale di Vasto

La pronuncia del Tribunale Vasto 1041/2013 sostanzialmente, in tema di ragionevole probabilità di accoglimento, sposa la tesi c.d. della probabilità giurisprudenziale[26].

Si afferma che non vi è alcuna probabilità di accoglimento della domanda presentata per pregiudizi chiesti a titolo di danno esistenziale, laddove si tratti di meri disagi, fastidi o ansie, come tali privi del requisito della “ingiustizia costituzionalmente qualificata”; l’ordinanza viene motivata ancorandosi al “famoso” precedente giurisprudenziale (Cass., S.U., 11.11.2008, n. 26972)[27]

A favore di questa ricostruzione, che sostanzialmente traduce l’inciso “ragionevole probabilità di essere accolta” in una sorta di probabilità giurisprudenziale ancorata ai precedenti depongono i rilievi che:

si parla di “ragionevole probabilità” di accoglimento, per cui ben si potrebbe utilizzare il quadro giurisprudenziale

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precedente per calcolare la presenza di probabilità;

nel nuovo art. 348 ter c.p.c. è data la possibilità di motivare utilizzando precedenti conformi, così inducendo legittimamente l’interprete a ritenere che ben possa farsi riferimento ai precedenti, almeno ai fini della ragionevole probabilità di accoglimento;

la probabilità è essenzialmente un concetto statistico;

la ragionevolezza della probabilità ben può essere collegata a precedenti; è ragionevole la probabilità, e non meramente ipotetica o teorica o residuale, in virtù di un precedente conforme.

6.1. Profili critici

L’impostazione del Tribunale di Vasto non è esente da rilievi critici.

Seppur sul piano formale non è criticabile - trovando linfa legittimante nell’inciso “ordinanza succintamente motivata, anche mediante… il riferimento a precedenti conformi[28]” di cui all’art. 348 ter c.p.c. – lo è sul piano sostanziale.

Il riferimento fatto al precedente giurisprudenziale non sembra porre uno sbarramento legittimo all’ammissibilità dell’appello: l’appello è inammissibile se non ha (neanche) una ragionevole probabilità di accoglimento, ma la citazione di un solo precedente giurisprudenziale – anche se autorevolissimo – non esclude la sussistenza di “una” probabilità di accoglimento soprattutto perché il giudice di merito può legittimamente discostarsi dal dictum di un precedente a Sezioni Unite[29]; e, d’altronde, non vige formalmente un sistema di common law.

Pertanto, sussisteva una ragionevole probabilità di accoglimento, tanto più che si è toccato un tema – quello del danno esistenziale – quanto mai tormentato[30] e per nulla stabile.

7. Conclusioni e Strategie

La riforma del nuovo appello filtrato sta incominciando a “vivere” nei Tribunali, dimostrando che non sarà esattamente tutto come prima, diversamente da ciò che era stato affermato da una parte della dottrina[31]: ogni legge trascina con sé novità, che incidono comunque sul complessivo assetto processuale, soprattutto laddove vengano toccate le impugnazioni.

In questa fase transitoria, è consigliabile rispettare alla lettera la legge, indicando anche – nel proprio atto di appello motivato – la presenza di significative probabilità di accoglimento: sarà preferibile citare pronunce favorevoli (rectius: conformi) per dimostrare, almeno in via di logica, la sussistenza di (almeno) una ragionevole probabilità di accoglimento, seppur ciò non è espressamente preteso dall’art. 342 c.p.c.; tuttavia, se – a valle - il giudicante può ritenere inammissibile una domanda perché priva di ragionevole probabilità di accoglimento, allora – a monte – conviene indicare la presenza della detta ragionevole probabilità.

D’altronde, alla luce del quadro giurisprudenziale che si sta formando, soprattutto con riferimento alla pronuncia di Vasto, può costare molto caro non dedicare una parte dell’atto alla dimostrazione circa la sussistenza della c.d. ragionevole probabilità.

_______________

[1] COSTANTINO, Le riforme dell’appello civile e l’introduzione del filtro, in Treccani.it, 2012.

[2] VIOLA, Il nuovo appello filtrato, Pistoia, 2012, 1.

[3] CONSOLO, Lusso o necessità nelle impugnazioni delle sentenze, in Judicium.it., 2012.

[4] CAPONI, La riforma dell’appello civile dopo la svolta nelle commissioni parlamentari, in Judicium.it, 2012.

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[5] CAPONI, già cit.

[6] CAPONI, già cit.

[7] MONTELEONE, Il Processo civile in mano al governo dei tecnici, in Judicium.it, 2012; questa ricostruzione è stata smentita dalla prima giurisprudenza che si è occupata dell’appello filtrato, di cui si tiene conto nei paragrafi successivi.

[8] L’appello ad ordinanza decisoria, ex art. 702 quater c.p.c., deve essere presentato nella forma dell’atto di citazione. Corte di Appello di Roma, 11.5.2011, in ilProcessoCivile.com, 74, 2011 afferma che l’appello, ex art. 702quater c.p.c., ad ordinanza decisoria si propone con citazione e non con ricorso. Il giudizio di appello contro l'ordinanza di accoglimento conclusiva del procedimento sommario di cognizione è retto dalla disciplina ordinaria dell'appello, per quanto l'art. 702-quater c.p.c. nulla di diverso dispone in proposito: ciò vuol dire anzitutto che il giudizio di appello delineato dall'art. 702-quater c.p.c. rimane, come di regola, una revisio prioris istantiae fondata sulla deduzione di specifiche doglianze connotate dal requisito di specificità di cui all'art. 342 c.p.c. Sicché, se il giudice di primo grado non è incorso in errori, non è pensabile che la sua decisione debba essere ribaltata. E dunque la sola reale peculiarità dell'art. 702 quater c.p.c, con riguardo all'attività istruttoria, è la previsione della delega dell'assunzione dei mezzi di prova ad uno dei componenti del collegio.

[9] VIOLA, Il nuovo appello filtrato, Pistoia, 2012, 17.

[10] TONA, La citazione dovrà andare subito al solo, in IlSole24Ore del 6.8.2012, n. 216, 6.

[11] Cassazione civile, Sezione lavoro, sentenza del 26.1.2012, n. 1111, in Overlex.com, 2012.

[12] Tale tesi è stata espressa in VIOLA, Il nuovo appello filtrato, Pistoia, 2012, 23;

[13] Corte di Appello di Roma, sezione lavoro, sentenza del 15.1.2013, in La Nuova Procedura Civile, 2, 2013 (in fase di stampa).

[14] VIOLA, op. cit.

[15] Il riferimento è alla Legge n. 228 del 24.12.2012, recante Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilita’ 2013), pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 302 del 29.12.2012, in vigore dal 30 gennaio 2013; tale legge ha introdotto il comma 1quater, all’art. 13 del D.p.r. n. 115 del 30.5.2002, che recita quando l’impugnazione, anche incidentale, e’ respinta integralmente o e’ dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta e’ tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis. Il giudice da’ atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso.

[16] Corte di Appello di Roma, ordinanza del 25.1.2013, in La Nuova Procedura Civile, 2, 2013, con nota di MECACCI.

[17] VIOLA, Il nuovo appello filtrato, Pistoia, 2012, 33; VIOLA, La testimonianza nel processo civile, Milano, 2012, 267.

[18] Si vedano le linee guida della Corte di Appello di Milano, rese note il 10.10.2012, in ilProcessoCivile.com, 252, 2012, secondo cui “in ordine ai criteri per la valutazione prognostica di insussistenza della probabilità di accoglimento dell'appello, la prescrizione dettata dall'art. 348 ter c.p.c. va letta, quanto alla ragionevolezza della prognosi, alla stregua della valutazione del fumus boni iuris”.

[19] Per approfondimenti sulle misure cautelari, si vedano almeno CIPRIANI, Procedimento cautelare, regolamento di giurisdizione e riforma del processo civile, in GI, 1995; MERLIN, Procedimenti cautelari ed urgenti in generale, in Digesto civ., XIV,

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Torino, 1996; SALVANESCHI, in TARZIA (a cura di), Il nuovo processo cautelare, Padova, 1993; SIRACUSANO, sub art. 669 bis, in PICARDI (a cura di), Codice di procedura civile, Milano, 2000; TARZIA, Il nuovo processo cautelare, Padova, 1993; CONSOLO, LUISO, Codice di procedura civile commentato, Milano, 2000; OBERTO, Il nuovo processo cautelare, Milano, 1992; FERRI, Decreto cautelare inaudita altera parte in corso di causa e mancata fissazione dell'udienza per la conferma modifica o revoca, nota a T. Aquila 31.10.2002, in GM, 2003; CARPI, TARUFFO, Commentario breve al codice di procedura civile, Padova, 1999; RICCI, La riforma del processo civile, Torino, 2009; BALENA, La disciplina del procedimento cautelare uniforme, in BALENA, BOVE, Le riforme più recenti al processo civile, Bari, 2006; PILONI, Rimedi giudiziali esperibili in sede di attuazione dei provvedimenti cautelari, in Esecuzione forzata, 2005, 4.

[20] FIORUCCI, I provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c., Milano, 2009, 112.

[21] LUISO, Diritto processuale civile, IV, Milano, 2011, 186.

[22] Così sostiene Liebman.

[23]PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991, 376.

[24] Cass. civ. Sez. II, 22-11-2004, n. 22026.

[25] Alla lettera un solo precedente dovrebbe ritenersi insufficiente, poiché è utilizzato il plurale e non il singolare.

[26] Tale tesi è stata esposta dettagliatamente in VIOLA, Il nuovo appello filtrato, Pistoia, 2012, 31.

[27] In Massimario.it, 2008.

[28] E’ scritto al plurale, per cui almeno “due precedenti” si sarebbero dovuti citare.

[29] E’ solo la giurisprudenza nomofilattica che deve sostanzialmente adeguarsi a quanto

detto dalle Sezioni Unite, salvo rimessione alle stesse, ex art. 374 c.p.c., e non anche la giurisprudenza di merito.

[30] Si pensi, a mero titolo esemplificativo, alla pronuncia apprezzabilissima (e rivoluzionaria) della Cassazione civile, sez. III, sentenza 02.10.2012 n° 16754, che ammette il risarcimento per una “condizione esistenziale negativa”.

[31] MONTELEONE, op. cit.

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di

Mario Tocci* 1. Cenni introduttivi 2. Le parti 3. Materie

delle vertenze 3.1 La misura e le modalità

d’uso dei servizi di condominio 3.2 La

sussistenza di un diritto nell’ambito del

condominio 3.3 L’impugnativa di una

delibera assembleare 3.4 L’applicazione del

regolamento 3.5 L’impugnativa del

regolamento 3.6 La nomina e la revoca

dell’amministratore 4. Il raggiungimento

dell’accordo conciliativo.

Cenni introduttivi

La riforma del condominio, approvata con

Legge 220/2012 e destinata ad entrare in

vigore il 17 giugno 2013, ha introdotto – tra

gli altri – l’istituto della mediazione

condominiale, attualmente disciplinato

dall’art. 71 quater delle disposizioni di

attuazione al Codice Civile.

Una prima problematica preliminare da

affrontare concerne la risoluzione del

dubbio amletico in ordine all’individuazione

dell’esperimento della procedura di

mediazione, di cui al Decreto Legislativo

28/2010, quale condizione di procedibilità

dell’azione giurisdizionale afferente

questione in materia condominiale.

L’ormai celeberrima sentenza 272/2012

della Corte Costituzionale ha di fatto

statuito che generaliter l’esperimento della

procedura mediatizia de qua non possa più

ritenersi condizione di procedibilità

dell’azione giurisdizionale vertente su una

delle materie doviziosamente enumerate

nell’art. 5 del medesimo Decreto Legislativo.

Quantunque la Legge 220/2012 è

successiva alla pubblicazione della cennata

sentenza della Consulta.

In tale quadro si colloca il disposto del

primo comma dell’art. 71 quater delle

disposizioni di attuazione al Codice Civile, a

cui mente in relazione alle controversie

condominiali si applica l’art. 5 – indi

qualsiasi disposizione, espressamente

Le dinamiche della procedura di mediazione condominiale

Dottrina &

Opinioni

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

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richiamata – del Decreto Legislativo

28/2010, che sanciva il carattere

obbligatorio pregiudiziale della mediazione.

Quid iuris?

A parere di chi scrive, l’art. 71 quater delle

disposizioni di attuazione al Codice Civile

contiene un rinvio ricettizio alle

disposizioni del Decreto Legislativo

28/2010.

In sintesi, il rinvio ricettizio è operato non

in relazione alla fonte richiamata ma in

ordine alle disposizioni in essa contenute; il

che produce il risultato dell’integrazione del

contenuto della fonte richiamata all’interno

della fonte richiamante, senza che le

vicende della prima incidano sulla sorte

dell’ultima.

Sostanzialmente il rinvio ricettizio

costituisce una tecnica – non propriamente

felice – di nomopoiesi, potenzialmente utile

a riproporre per relationem elementi

testuali già espressi dal Legislatore altrove.

La tesi appena proposta sarebbe peraltro

corroborata dalla circostanza della

posteriorità della Legge 220/2012 rispetto

alla sentenza 272/2012 della Corte

Costituzionale.

Nondimeno, il secondo comma dell’art. 71

quater delle disposizioni di attuazione al

Codice Civile usa toni perentori (ed è ben

noto il principio espresso dal brocardo ubi

lex voluit, dicit), allorché sancisce che la

domanda di mediazione debba essere

presentata presso un organismo ubicato

nella circoscrizione del Tribunale ove sia

situato il condominio in seno al quale sia

insorta la controversia da dirimere.

Altresì al mediatore è attribuita facoltà di

formulare proposta, mutuando il regime

all’uopo plasmato dall’art. 11 del Decreto

Legislativo 28/2010 (ex art. 71 quater,

comma sesto, delle disposizioni di

attuazione al Codice Civile).

Indi possono affermarsi pacificamente due

corollari:

l’esperimento della procedura di

mediazione, di cui al Decreto Legislativo

28/2010, è condizione di procedibilità

dell’azione giurisdizionale afferente

questione in materia condominiale;

alla procedura di mediazione de qua si

applica il Decreto Legislativo 28/2010,

oggetto di rinvio ricettizio ad opera dell’art.

71 quater delle disposizioni di attuazione al

Codice Civile, nella sua strutturazione

anteriore alla pubblicazione della sentenza

272/2012 della Consulta.

Altra complessa problematica da sciogliere

in via preliminare riguarda la competenza

territoriale dell’organismo di mediazione da

adire.

Il secondo comma dell’art. 71 quater delle

disposizioni di attuazione al Codice Civile

prevede che la domanda di mediazione

debba essere presentata sotto pena di

inammissibilità presso un organismo

ubicato nella circoscrizione del Tribunale

ove sia situato il condominio in seno al

quale sia insorta la controversia da

dirimere.

Chi scrive ritiene che l’inammissibilità di cui

si sta discettando debba intendersi nel

senso di irricevibilità amministrativa della

domanda da parte dell’organismo

incompetente che dovesse essere adito; il

che produce il composito risultato

dell’inidoneità del verbale di mediazione a

soddisfare la condizione di procedibilità

della successiva azione giurisdizionale e

dell’insorgenza di responsabilità risarcitoria

in capo all’organismo stesso verso le parti

per gli esborsi pecuniari inutiliter effettuati

nonché a cagione delle perdite di chance

difensive inevitabilmente patite.

D’altronde, però, l’inammissibilità

medesima neppure può rigidamente

intendersi come corrispettiva

dell’inderogabilità assoluta del disposto del

secondo comma dell’art. 71 quater delle

disposizioni di attuazione al Codice Civile,

laddove invero non appare analogicamente

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

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inapplicabile il disposto del comma primo

dell’art. 29 del Codice di Procedura Civile.

Pertanto, qualora l’istanza di mediazione sia

congiuntamente presentata da tutti i

litisconsorti necessari della procedura

mediatizia, è plausibile la deroga al disposto

del secondo comma dell’art. 71 quater delle

disposizioni di attuazione al Codice Civile.

Tuttavia, secondo chi scrive, il

raggiungimento di accordo tra i litiganti in

seno ad organismo di mediazione

territorialmente incompetente elimina ipso

facto la problematica in esame; il verbale di

accordo di due o più soggetti in esito ad una

procedura di mediazione contiene

un’implicita rinuncia delle parti a far valere

l’incompetenza territoriale dell’organismo

adito in violazione del disposto del secondo

comma dell’articolo 71 quater delle

disposizioni di attuazione al Codice Civile.

Ancora va stigmatizzato come la legge non

distingua tra sede legale e ufficio distaccato

dell’organismo di mediazione, il che

consente l’adizione tanto dell’uno quanto

dell’altro entro i tracciati limiti del comma

secondo dell’art. 71 quater delle

disposizioni di attuazione al Codice Civile.

Infine, seppure integrativa di ipotesi di

scuola, bisogna rimarcare l’inosservabilità

del disposto del secondo comma

dell’articolo 71 quater delle disposizioni di

attuazione al Codice Civile, in tutte le

circostanze di inesistenza di un organismo

di mediazione nell’ambito territoriale di una

circoscrizione tribunalizia.

Insomma, un giusto compromesso tra il

formalismo forzosamente indotto dal

Legislatore sulla e l'informalità

intrinsecamente peculiare della procedura

di mediazione.

Le parti

Le parti della procedura di mediazione

afferente la materia condominiale sono

sicuramente il condomino interessato

ovvero i condomini interessati

dall’instauranda vertenza e

l’amministratore quale legale

rappresentante pro tempore del

condominio ovvero il curatore speciale

nominato in mancanza dall’Autorità

Giudiziaria – ex art. 65 delle disposizioni di

attuazione al Codice Civile – ad istanza dei

soggetti intenzionati ad instaurare la

medesima vertenza.

Occorre comunque comprendere quali

siano i condomini aventi legittimazione

attiva.

Hanno legittimazione attiva,

tendenzialmente, tutti i proprietari delle

singole unità immobiliari.

Laddove, tuttavia, l’unità immobiliare sia:

gravata da un diritto reale di usufrutto, la

legittimazione attiva compete (ex art. 67

delle disposizioni di attuazione al Codice

Civile) all’usufruttuario, con riferimento alle

vertenze che attengono all'ordinaria

amministrazione e al semplice godimento

delle cose e dei servizi comuni;

Iocata, la legittimazione attiva compete (ex

art. 10 della Legge 392/1978) al

conduttore, con riferimento alle vertenze

concernenti le delibere sulle spese e sulle

modalità di gestione dei servizi di

riscaldamento e condizionamento dell’aria

(seppur con riferimento all’impugnativa

giudiziale: Cass. Civ., 8755/1993).

Talvolta, qualora si verta in ipotesi

risarcitorie, potrebbe esser parte la

compagnia assicurativa con cui il

condominio sia assicurato per la

responsabilità civile.

Ciò per evidente applicabilità del disposto

del primo comma dell’art. 101 e del

disposto dell’art. 106 del Codice di

Procedura Civile.

L’art. 101 del Codice di Procedura Civile

dispone infatti al comma primo che: nei

procedimenti in cui la decisione non possa

che pronunciarsi nei confronti di più

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

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soggetti, questi debbono agire o essere

convenuti.

Nella procedura di mediazione è pacifico

che non viene emessa alcuna decisione;

tuttavia al termine “decisione” può

sostituirsi quello di “accordo”.

Ed allora, iuxta applicazione del disposto

del comma primo dell’art. 101 del Codice di

Procedura Civile, può affermarsi che: nella

procedura di mediazione esitabile con un

accordo potenzialmente efficace tra più

soggetti, questi non possono che divenire

parti della procedura mediatizia medesima.

Resta da chiarire la motivazione in virtù

della quale la compagnia assicurativa con

cui il condominio sia assicurato per la

responsabilità civile professionale debba

essere potenzialmente destinataria degli

effetti dell’accordo con cui esiti la procedura

di mediazione.

A riguardo soccorre l’applicabilità, per

analogia, del disposto dell’art. 106 del

Codice di Procedura Civile.

A mente dell’art. 106 del Codice di

Procedura Civile, nel processo civile

ciascuna parte può chiamare un terzo cui

ritenga comune la causa o da cui pretenda

di esser garantita.

Orbene, si può affermare che: nella

procedura di mediazione ciascuna parte

può chiamare un soggetto originariamente

non evocato da cui pretenda di esser

garantito (indi, un eventuale assicuratore

del rischio connesso alla vertenza di cui si

discetta).

Quello testé delineato è tuttavia soltanto un

primo livello di litisconsorzio, ossia di

contestuale presenza di più soggetti in seno

alla procedura.

Sono da intendersi quali parti i titolari degli

interessi in lizza nel procedimento di

mediazione ovvero i loro rappresentanti

muniti di valido titolo rappresentativo.

Si parta dai condomini.

Le persone fisiche capaci di agire che

vogliano essere rappresentate devono

conferire al rappresentante volontario

mandato rappresentativo, da autenticarsi

alla presenza del mediatore principale,

oppure procura notarile ovvero

diplomatica.

Le persone fisiche incapaci di agire sono

rappresentate dal legale rappresentante (il

minore dal genitore o dal tutore, l’interdetto

dal tutore, l’inabilitato dal curatore

speciale), il quale deve recare seco

l’originale oppure la copia del

provvedimento giurisdizionale di

conferimento della rappresentanza.

Le persone giuridiche sono rappresentate

dal legale rappresentante, ossia colui cui la

legge ovvero l’atto costitutivo conferisca la

rappresentanza.

Il legale rappresentante della persona

giuridica deve recare seco l’originale

oppure la copia della visura camerale

aggiornata ovvero dell’atto costitutivo.

Si passi ora al condominio.

L’amministratore deve recare seco

l’originale oppure la copia della delibera di

nomina.

Il curatore speciale deve recare seco

l’originale oppure la copia del

provvedimento di designazione

dell’Autorità Giudiziaria.

Il mero accompagnatore di parte, ossia il

consulente difensivo o tecnico della parte

stessa, non è parte; può semplicemente

accompagnare la parte, per come sopra si è

inteso.

Quantunque, la partecipazione

dell’amministratore deve essere deliberata

dall’assemblea con la maggioranza dei due

terzi del valore dell'intero edificio e la

maggioranza dei partecipanti al condominio

(ex art. 71 quater, comma terzo, delle

disposizioni di attuazione al Codice Civile).

Se i termini di comparizione davanti al

mediatore non consentono di assumere la

necessaria delibera assembleare, su istanza

del condominio – che a parere di chi scrive è

libera nelle forme – il mediatore dispone

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

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idonea proroga della prima comparizione

(ex art. 71 quater, comma quarto, delle

disposizioni di attuazione al Codice Civile).

Materie delle vertenze

Le materie delle vertenze condominiali in

relazione a cui deve esperirsi la procedura

di mediazione riguardano:

la misura e le modalità d’uso dei servizi di

condominio;

la sussistenza di un diritto nell’ambito del

condominio;

l’impugnativa di una delibera

dell’assemblea;

l’applicazione del regolamento;

l’impugnativa del regolamento;

la nomina e la revoca dell’amministratore.

La misura e le modalità d’uso dei servizi di

condominio

Le controversie aventi ad oggetto la misura

e le modalità d’uso dei servizi di

condominio concernono riduzioni o

limitazioni qualitative e quantitative del

diritto di godimento dei singoli condomini

sulle parti comuni del condominio.

La sussistenza di un diritto nell’ambito del

condominio

Le controversie aventi ad oggetto la

sussistenza di un diritto nell’ambito del

condominio concernono l’esistenza di un

diritto connesso allo status di condomino.

L’impugnativa di una delibera

dell’assemblea

L’impugnativa delle delibere dell’assemblea

di condominio passa evidentemente per il

previo esperimento della procedura di

mediazione.

Il termine di impugnazione, o meglio la

decadenza dalla stessa facoltà di

impugnativa, soggiace a sospensione per il

periodo di durata legale della procedura

mediatizia avviata (ex art. 5, comma sesto,

del D. Lgs. 28/2010).

E’ opportuno osservare che con l’accordo di

mediazione non si invalida

automaticamente la deliberazione

impugnata ma può verosimilmente sortirsi

l’effetto dell’approvazione di una nuova e

sostitutiva delibera congeniale alle ragioni

dei litiganti.

L’applicazione del regolamento

Le controversie concernenti l’applicazione

del regolamento di condominio concernono

l’interpretazione e l’esecuzione delle

disposizioni del medesimo.

L’impugnativa del regolamento

L’impugnativa del regolamento di

condominio passa evidentemente per il

previo esperimento della procedura di

mediazione.

Il termine di impugnazione, o meglio la

decadenza dalla stessa facoltà di

impugnativa, soggiace a sospensione per il

periodo di durata legale della procedura

mediatizia avviata (ex art. 5, comma sesto,

del D. Lgs. 28/2010).

E’ opportuno osservare che con l’accordo di

mediazione non si invalida

automaticamente il regolamento impugnato

ma può verosimilmente sortirsi l’effetto

dell’approvazione di un nuovo e sostitutivo

regolamento congeniale alle ragioni dei

litiganti.

La nomina e la revoca dell’amministratore

Le controversie aventi ad oggetto la nomina

dell’amministratore sottendono

l’impugnativa della relativa delibera

assembleare, in ordine a cui già si è detto.

Le controversie aventi ad oggetto la revoca

dell’amministratore possono, parimenti,

culminare con un accordo di mediazione

che non determina automaticamente la

medesima revoca ma può verosimilmente

sortire l’effetto dell’assunzione di precisi

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

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impegni ovvero della rassegna delle

dimissioni da parte dell’amministratore

stesso, in modo congeniale ed incline alle

ragioni dei litiganti.

Il raggiungimento dell’accordo conciliativo

Il raggiungimento dell’accordo conciliativo

in mediazione è un po’ più farraginoso dal

punto di vista temporale.

Per questo motivo, il mediatore principale e

i mediatori ausiliari eventualmente

nominati devono gestire al meglio i tempi

procedurali, onde esaurire proficuamente il

procedimento nei termini di legge.

L’amministratore del condominio (ovvero il

curatore speciale), infatti, è continuamente

tenuto ad interfacciarsi con l’assemblea e

sottoporre alla stessa la bozza di accordo

cui si sia addivenuto tra i litiganti onde

questa deliberi e lo autorizzi ad impegnarsi

in nome e per conto del condominio (sicché

dovrà il mediatore principale – unitamente

agli eventuali mediatori ausiliari – verificare

che tale passaggio sia stato effettuato,

magari acquisendo l’originale o la copia

dell’afferente deliberazione assembleare).

Il Legislatore non ha fatto riferimento alla

maggioranza assembleare richiesta ai fini

dell’approvazione della bozza di accordo.

Tuttavia il quinto comma dell’art. 71 quater

delle disposizioni di attuazione al Codice

Civile stabilisce che la proposta di

mediazione debba essere inderogabilmente

accettata dall’assemblea con la maggioranza

dei due terzi del valore dell'intero edificio e

la maggioranza dei partecipanti al

condominio, in difetto del cui

raggiungimento la proposta medesima è da

reputarsi non approvata. La logica, spesso

suppletiva all’indolente inoperosità del

nomopoieta, induce a ritenere che anche la

bozza di accordo vada inderogabilmente

approvata con la stessa maggioranza e nelle

medesime modalità.

In caso di formulazione della proposta, ai

sensi del disposto del comma sesto dell’art.

71 quater delle disposizioni di attuazione al

Codice Civile, al mediatore è fatto obbligo di

fissare i termini afferenti tenendo conto

della necessità per l'amministratore

(ovvero per il curatore speciale) di munirsi

della delibera assembleare necessaria ai fini

dell’eventuale accettazione.

E’ opportuno osservare che con un accordo

di mediazione:

non si invalida automaticamente una

deliberazione assembleare impugnata ma

può verosimilmente sortirsi l’effetto

dell’approvazione di una nuova e sostitutiva

delibera congeniale alle ragioni dei litiganti;

non si invalida automaticamente un

regolamento impugnato ma può

verosimilmente sortirsi l’effetto

dell’approvazione di un nuovo e sostitutivo

regolamento congeniale alle ragioni dei

litiganti.

non si ottiene automaticamente la revoca

dell’amministratore ma può verosimilmente

sortirsi l’effetto dell’assunzione di precisi

impegni ovvero della rassegna delle

dimissioni da parte dell’amministratore

stesso, in modo congeniale ed incline alle

ragioni dei litiganti.

* Mario Tocci è avvocato in Cosenza nonché

docente di diritto sportivo nella Facoltà di

Scienze Sociali della Libera Università di

Scienze Umane e Tecnologiche di Lugano e

curatore scientifico delle pubblicazioni

ufficiali del Forum Nazionale dei Mediatori e

degli Organismi di Mediazione.

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di

Fabrizio Tommasi*

La legge n. 228 del 24 dicembre 2012, nota

come “legge di stabilità”, ha apportato una

profonda modifica alla disciplina del

pignoramento presso terzi, introducendo un

innovazione in merito agli effetti della

omessa dichiarazione del terzo.

Nella disciplina in vigore sino al 1 febbraio

2013 nel caso in cui il terzo non rendesse

alcuna dichiarazione una volta ricevuto

l’atto di pignoramento, al creditore

procedente non restava altra scelta, qualora

fosse convinto dell’esistenza del credito, che

iscrivere comunque l’esecuzione a ruolo per

poi alla prima udienza richiedere la

sospensione della procedura esecutiva per

dare avvio al procedimento di accertamento

dell’obbligo del terzo.

Appare evidente come, sempre nella

disciplina previgente, l’inosservanza di

obbligo di legge da parte di un soggetto (il

terzo) comportasse degli svantaggi, sia in

termini economici che di tempo,

unicamente per un altro soggetto (il

creditore) a cui nessuna colpa poteva essere

addebitata. Unico contraltare di tali

svantaggi era costituito dalla eventuale

condanna alle spese del terzo che fosse

risultato effettivamente debitor debitoris al

termine del processo di accertamento, tale

condanna, in ogni caso ha semplicemente

valenza risarcitoria non portando

comunque alcun vantaggio o arricchimento

al creditore procedente.

Il pignoramento presso terzi alla luce della Legge di stabilità 2013

Dottrina &

Opinioni

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La novella del 2012, nell’ottica della

velocizzazione del processo esecutivo già

principio ispiratore della riforma del 2005

ed anche in ossequio al aggiornamento al

processo telematico, ha cercato di rimediare

agli imprevisti che spesso colpivano il

processo di esecuzione presso terzi

eliminandoli in radice.

Il nuovo testo dell’art. 543 c.p.c. infatti

prevede che la dichiarazione del terzo, che

già con la riforma del 2005 poteva essere

inviata senza particolari formalità al

creditore a mezzo raccomandata entro dieci

giorni dal pignoramento o comunque

utilmente prima dell’udienza di citazione,

ora possa essere inviata anche tramite

posta elettronica certificata.

La formulazione della norma non è

felicissima in quanto, pur essendo

necessaria la difesa tecnica nel

procedimento di esecuzione presso terzi,

trattandosi comunque di citazione innanzi

al Tribunale, ed essendo già per legge

previsto che il difensore indichi nell’atto il

proprio indirizzo di posta elettronica

certificata, non è chiaro se la pec, verso cui

il terzo deve inviare la dichiarazione, debba

appartenere necessariamente al creditore

procedente o se sia equivalente la pec del

procuratore costituito. La lettera della

norma non lascerebbe spazio a dubbi, in

quanto si enuncia espressamente la “pec del

creditore procedente” tuttavia sia la

collocazione della novella, all’interno del

capo dedicato all’elezione del domicilio, sia

l’assurdità dell’interpretazione letterale che

porrebbe come presupposto per l’esercizio

di un azione esecutiva di dotarsi di posta

elettronica certificata, ed in ultimo la prassi

consolidata per cui fin ora le raccomandate

con la dichiarazione venivano inviate presso

il domicilio eletto che normalmente

corrisponde con lo studio del procuratore

costituito, portano a ritenere,

ragionevolmente che la dichiarazione verrà

validamente inviata all’indirizzo pec del

difensore. Quel che invece appare se non

dubbio quantomeno pericoloso da un punto

di vista processuale è l’effetto che possa

avere sull’atto la mancata indicazione della

pec del creditore.

Non vi è dubbio che in caso di assenza sia

della pec del creditore che del procuratore

costituito, tale assenza potrebbe

comportare una gamma di vizi all’atto che

vanno dall’inapplicabilità della disciplina

del novellato art. 548 c.p.c di cui diremo più

innanzi sino alla nullità (sanabile)

dell’intero atto per assenza di uno degli

elementi indicati dal 543 c.p.c. (essendo in

pratica come se l’atto difettasse di elezione

di domicilio) sia per violazione dei requisiti

di cui all’art. 125 c.p.c., mentre rimane

dubbio se costituisca vizio la sola assenza

della pec del creditore in presenza di quella

del difensore.

Ad ogni modo, in attesa delle prime

pronunce in merito, per non incorrere in

inutili rischi sarà sufficiente indicare

separatamente l’indirizzo pec del creditore

e qualora questi non ne fosse in possesso

indicare quale indirizzo pec del creditore

quello del procuratore costituito, dacchè la

norma non precisa che debbano esserci due

diversi indirizzi, inoltre analogicamente

all’elezione di domicilio presso lo studio del

difensore non si incorrerà in alcuna

violazione di legge, dato che la lettera della

norma è stata rispettata e che il diritto del

terzo ad avere una forma più agevole di

comunicazione è comunque garantito.

Il terzo quindi, con la nuova formulazione

dell’ art. 543 c.p.c, si giova di una maggiore

semplicità di trasmissione della

dichiarazione, tuttavia come vedremo tra

poco, rischia di pagare a caro prezzo il non

avvalersi di questa comodità.

La nuova formulazione dell’art. 548 c.p.c.

riscrive completamente la disciplina della

mancata dichiarazione del terzo,

formulando due distinte ipotesi.

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La prima ipotesi contempla le procedure

esecutive dove il credito verso cui il

processo esecutivo è avviato sia uno di

quelli indicati al terzo e quarto comma

dell’art. 545 c.p.c. e precisamente somme

dovute a titolo di stipendio, salario o altra

indennità relativa al rapporto di lavoro od

impiego, comprese quelle dovute a titolo di

licenziamento quindi più generalmente

crediti da lavoro. In tal caso ove il terzo non

compaia all’udienza per rendere la

dichiarazione (non essendo possibile

inviarla a mezzo raccomandata o pec) il

giudice riterrà il credito pignorato come

non contestato e procederà quindi, senza

indugio, alla assegnazione o alla vendita.

La seconda ipotesi riguarda invece tutte le

altre fattispecie di crediti verso cui può

essere condotta l’esecuzione, in questo caso

sarà possibile per il terzo pignorato inviare

la dichiarazione a mezzo raccomandata o

pec entro dieci giorni dal ricevimento

dell’atto di pignoramento, tale termine deve

ritenersi ordinatorio essendo sufficiente

che la comunicazione venga ricevuta dal

creditore in tempo utile per l’udienza

innanzi al giudice dell’esecuzione, non

esistendo infatti alcun effetto o sanzione per

la dichiarazione ricevuta “tardivamente”.

Nel caso in cui la dichiarazione non sia

pervenuta entro l’udienza, il giudice,

raccolta la dichiarazione del creditore

procedente, fissa una nuova udienza

affinchè il terzo renda la dichiarazione, in

questo caso il terzo dovrà necessariamente

comparire all’udienza non essendo

concesso che invii la comunicazione a

mezzo raccomandata o pec.

Il creditore procedente sarà onerato di

notificare al terzo l’ordinanza contenente

l’ingiunzione a comparire almeno dieci

giorni prima dell’udienza.

Se il terzo compare e rende la dichiarazione,

sia negativa che positiva, la tardività della

dichiarazione non produce alcun effetto per

lui deteriore, ma se il terzo non compare

neppure all’udienza in tal caso il credito si

avrà per non contestato e il giudice

provvederà alla vendita o assegnazione.

La disciplina innanzi descritta aggrava

pesantemente gli obblighi del terzo, e

punisce forse in maniera sproporzionata

l’eventuale inattività dello stesso,

realizzando, ipso facto, una sostituzione nel

lato debitorio che va ben oltre la cessione

del credito che sin ora il pignoramento

presso terzi realizzava.

Non è difficile immaginare le ripercussioni

pratiche di tale nuova disciplina basti

pensare a grandi aziende, istituti di credito

o enti pubblici che ricevono centinaia di

pignoramenti presso terzi al mese, spesso

meramente “esplorativi” ovvero non basati

su un rapporto effettivamente in essere ma

solo sulla probabilità che il rapporto esista,

in questo caso una semplice inadempienza o

inattività produce degli effetti devastanti.

Nel caso di effetti prodotti dalla “non

azione” è facile porre in essere un

parallelismo con la figura del contumace nel

processo civile, la norma in esame è come

se avesse attribuito, meccanicamente, alla

contumacia l’effetto di perdere la causa.

Tale confronto stride ancora di più se si

considera che il contumace è comunque

parte del processo mentre il terzo, per

definizione e costante e conforme e

risalente giurisprudenza, è estraneo al

processo esecutivo.

La posizione del terzo diviene ancora più

deteriore se si passa ad esaminare l’ultimo

capoverso del novellato art. 548 c.p.c. nella

parte che prevede lo strumento di rimedio

nelle mani del terzo che si veda colpito da

un ordinanza di assegnazione per mancata

dichiarazione.

Al terzo è consentito proporre opposizione

agli atti esecutivi, nel termine perentorio di

venti giorni dalla notifica dell’ordinanza di

assegnazione.

Non solo, quindi, la norma indica uno

strumento sottoposto ancora una volta ad

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uno stringente tempo di attivazione ma

addirittura prevede, decisamente un novus

nel diritto processuale, un opposizione

“condizionata”. Ovvero il terzo potrà

eccepire, sobbarcandosi il difficile onere

della prova negativa, unicamente che la

dichiarazione non è stata resa perchè egli

non ne ha avuto tempestiva conoscenza per

irregolarita' della notificazione o per caso

fortuito o forza maggiore.

Il combinato disposto degli effetti della

mancata dichiarazione, controbilanciata nel

solo caso dei crediti diversi da quelli di

lavoro da una seconda convocazione, unito

con un opposizione agli atti esecutivi

limitata offre un quadro devastante per la

posizione del terzo.

Tuttavia si possono evidenziare già adesso

due punti di debolezza della norma, il primo

è che la novella non ha investito anche l’art.

543 c.p.c. nella parte relativa agli avvisi da

dare al terzo, sarebbe stato opportuno

indicare l’obbligo per il creditore

procedente di avvisare il terzo che non

rendere la dichiarazione nei modi di legge

comporta la non contestazione del credito.

La formulazione dell’atto di pignoramento,

per come è adesso, assume il sapore della

trappola per il terzo, cosa che contrasta con

il disposto ancora in vigore che prevede

l’obbligo di comunicazione di avvertenze

che ora appaiono marginali.

Sul punto vi sarà sicuramente un intervento

integrativo o del legislatore o della

giurisprudenza, pertanto sin d’ora, al fine di

evitare di essere travolti in futuro, ritengo

sia opportuno indicare nell’atto di

pignoramento sia nella parte della citazione

sia nella parte dell’ingiunzione

l’avvertimento che “ai sensi e per gli effetti

dell’art. 548 c.p.c. non rendendo la

dichiarazione o non comparendo all’udienza

stabilita il credito sarà ritenuto non

contestato”, del pari non ritengo sia

necessario inserire l’ulteriore avviso che

avverso all’ordinanza di assegnazione o

vendita sia possibile esperire opposizione

all’esecuzione, atteso che tale avviso non

deve essere contenuto in altri atti (come ad

esempio l’atto di precetto o di

pignoramento immobiliare).

Il secondo punto di debolezza, o meglio di

equilibrio, consta nell’espresso riferimento

alla opposizione agli atti esecutivi quale

rimedio all’ordinanza di assegnazione o

vendita. Il dettato normativo non sembra

indicare l’opposizione agli atti esecutivi

quale unica impugnazione possibile, ma più

precisamente come atto preposto per

l’impugnazione basata sui motivi di

irregolarità della notificazione, caso fortuito

e forza maggiore. Similmente insomma a

quanto avviene per le opposizioni che

riguardano la regolarità formale di precetto

e titolo esecutivo che si propongono con

opposizione agli atti esecutivi anziché

all’esecuzione, pur non essendo alcuno dei

due un atto esecutivo. Resta quindi, a mio

avviso, esperibile la strada dell’opposizione

all’esecuzione quando il terzo intenda

semplicemente sostenere l’inesistenza del

rapporto con il debitore esecutato. Tale

strada seppur percorribile costituisce una

singolare inversione dell’onere probatorio,

infatti se nella disciplina previgente era il

creditore onerato, nel processo di

accertamento dell’obbligo, di dare prova

dell’esistenza del credito ora, invece, sarà il

terzo costretto a dare la non facile prova

negativa dell’inesistenza di tale rapporto.

In ultimo esaminiamo l’ipotesi in cui la

dichiarazione venga resa ma sia contestata,

l’art. 549 c.p.c. nella nuova formulazione

sancisce il definitivo addio al processo di

accertamento dell’obbligo del terzo.

Tale procedimento seppur autonomo e di

cognizione piena, era stato sempre ritenuto

come incidentale al processo di esecuzione,

come se fosse una fase, seppur eventuale di

questo. Ora alla luce della novella il

procedimento di accertamento viene

interiorizzato ed assorbito dal processo di

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

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esecuzione tanto da perdere anche la

conclusione con sentenza in favore di una

più agevole, e tipicamente endoprocessuale,

ordinanza.

Il nuovo giudizio di accertamento appare

modellato, perlomeno dalla lettera

dell’articolo, sui procedimenti cautelari o

comunque a cognizione sommaria, infatti vi

è la totale abrasione della fase fase

istruttoria che sottratta all’iniziativa di

parte (tipicamente espletata nelle memorie

183 sesto comma c.p.c.) e viene rimessa

interamente nella discrezionalità del

giudice il quale “compiuti i necessari

accertamenti” dinanzi alle contestazioni

mosse semplicemente “le risolve”.

Il tenore semplicistico della norma mal si

concilia con l’esperienza dei tribunali ove

frequentemente il creditore procedente si

scontra con un terzo che poi tanto terzo non

è, e che spesso ha un vero e proprio

interesse, sotteso e non sempre legittimo,

affinchè il giudizio di esecuzione proceda in

un determinato senso.

E se già il giudizio di cognizione piena, con

le sue garanzie ed un apparato istruttorio di

eccellenza, non consentiva di raggiungere

con certezza la verità ci si permette di

sollevare forti dubbi che il nuovo

procedimento sommario possa eguagliarne

i risultati.

Molto più probabilmente la cognizione si

ridurrà a mera produzione documentale si

contrapporrà alla dichiarazione del terzo,

che però intanto è divenuto vera e propria

parte, che si avvantaggerà della ancora

esistente fides basata sulla presupposta

indifferenza all’esito del processo di

esecuzione.

Del pari il rimedio all’ordinanza emessa a

seguito dell’accertamento è individuato dal

legislatore nell’opposizione agli atti

esecutivi che comunque solleva non pochi

dubbi sull’effettiva ampiezza del thema

decidendum che in tale sede si potrà

imbastire.

Concludendo, indubbiamente si deve rilevare che il nuovo pignoramento presso terzi si presenta come uno strumento idoneo a portare a compimento, in un senso o nell’altro, il processo esecutivo più rapidamente tuttavia per tale velocità, a parere di chi scrive, si è sacrificato molto dal punto di vista della Giustizia, non si faranno attendere, e si auspicano, pronunce in merito o un intervento di un legislatore più illuminato che probabilmente ridimensioneranno il fenomeno. *Avvocato, Studio Legale Tommasi in Lecce. Cultore di Diritto Processuale Civile, Università degli Studi di Roma. Redazione La Nuova Procedura Civile.

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

80

di Gianluca Cascella

1. Caratteri dell’istituto.- 2. La posizione

dottrina. – 3. Orientamenti giurisprudenziali.

– 4. I rapporti con gli altri istituti previsti

dall’art. 96 c.p.c. – 5. L’applicazione concreta

della norma. - 6. Riflessioni conclusive.

1. Caratteri dell’istituto

La condanna al pagamento di una somma di

denaro ai sensi dell’art. 96,3° comma c.p.c.,

quale reazione ad una condotta della

controparte che si riveli in aperto contrasto con

i principi di correttezza e buona fede possiede

indubbiamente una finalità al tempo stesso

sanzionatoria per il passato e deterrente pro

futuro.

In particolare, i referenti normativi della

disposizione in questione possono individuarsi

negli artt. 111 della Costituzione e 47 della

Carta Dei Diritti Fondamentali dell’Unione

Europea, entrambe dettati, con finalità di

deflazione del carico processuale, a tutela del

principio del giusto processo.

La sua applicabilità è circoscritta, per effetto di

una specifica previsione di diritto transitorio

contenuta nella L. 69/09, ovvero l’art. 58, 1°

comma della predetta disposizione, ai soli

giudizi instaurati dopo la sua entrata in vigore;

sulla scorta di tale principio, allora, la

giurisprudenza di legittimità ne ha escluso

La condanna d’ufficio ex art. 96 comma 3 c.p.c. a cavallo tra funzione risarcitoria e sanzionatoria

Dottrina &

Opinioni

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

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l’applicabilità in un procedimento per

regolamento di competenza che, pur se

introdotto dopo l’entrata in vigore della

richiamata L. 69/09, aveva tuttavia ad oggetto

un provvedimento reso nel corso di un

giudizio di merito che, alla data di entrata in

vigore della legge istitutiva di tale strumento,

era già pendente, sul rilievo per cui il

regolamento di competenza possiede

indiscutibile natura di procedimento di

impugnazione incidentale nei confronti di un

provvedimento che è già stato emanato, e per

tale sua natura si inserisce in quel processo che

ha visto l’emanazione del provvedimento che

con esso viene impugnato71.

2. La posizione della dottrina.

Innanzitutto, secondo un'opinione, l'istituto

introdotto con l'aggiunta del 3° comma all'art.

96 c.p.c. costituisce un tentativo effettuato dal

legislatore del 2009 di apportare un

significativo contributo in termini di riduzione

del carico di lavoro gravante sui giudici

civili72; invero, in tale direzione, ad opinione

di chi scrive, il legislatore è andato

ulteriormente avanti con la riforma dell'art.

283 c.p.c., avendo infatti stabilito, al secondo

comma della norma, introdotto appositamente,

che, nel caso in cui, in appello, il giudice

dell'impugnazione ritenga l'istanza formulata

dall'appellante ai sensi dell'art. 283, 1° comma,

rispettivamente, inammissibile o

manifestamente infondata, potrà condannare,

con ordinanza non impugnabile, la parte che

71Cass. civ., sez. VI, ord. 17 maggio 2011, n. 10846, in Foro it., Mass., 2011, 415.

72DE MARZO G., Le spese giudiziali e le

riparazioni nella riforma del processo

civile, in Foro it., 2009, V, 399.

l'ha proposta ad una pena pecuniaria non

inferiore ad euro 250 e non superiore ad euro

10.000, salva la revocabilità del

provvedimento con la sentenza che definisce il

giudizio73, volendo quindi anche con la

seconda misura indicata scoraggiare la

proposizione di istanze di sospensiva dilatorie

e palesemente infondate, rivolte al solo fine di

allungare i tempi processuali e, tuttavia, in

grado di appesantire il carico di lavoro degli

uffici giudiziari.

Ritornando all'innovazione introdotta dalla

legge 69/2009 si rileva che la stessa, come del

resto messo in evidenza dai primi

commentatori, pur se non prevede un limite

massimo alla condanna, né una valutazione

circa la colpa grave nell’avere proposto la

domanda ovvero avervi resistito, comunque

appare considerare la malafede come

presupposto irrinunciabile per la sua

applicazione; inoltre, proprio per il fatto che

manca qualsivoglia riferimento ad un

<danno>, la condanna ad una somma di

denaro determinata, per un verso non può

essere né accomunata(né qualificata) ai danni

punitivi o esemplari conosciuti – e

significativamente applicati – da altri

ordinamenti, in specie quelli di common law;

per altro verso, poi, non necessita di alcuna

allegazione e prova da parte del soggetto in

favore del quale viene pronunziata, apparendo

invece assimilabile alle c.d. <pene private>, di

cui il giudice ne fa applicazione in favore della

parte processuale che ha subito l’abuso di tale

strumento74.

73A tanto il legislatore ha provveduto attraverso l'art. 27, 1° comma lettera a) della legge 12 novembre 2011 n. 183, di cui il successivo secondo comma ha stabilito l'applicabilità decorsi trenta giorni da quello in cui la legge stessa è entrata in vigore, data fissata per il 01.01.2012,.

74FINOCCHIARO G., Guida al Diritto, Dossier, n.1, 2009, 6-7, p. 4 e ss.

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Allora, secondo la medesima opinione, proprio

perché tale strumento appare, per un verso,

molto duttile e quindi utilizzabile in ogni

genere di procedimento(esclusi quelli di

esecuzione ove, a rigore, non vi è una parte

che tecnicamente possa definirsi

soccombente)mentre, per altro verso, non

implica alcuna istruttoria, esso si presenta

come potenzialmente molto efficace per

sanzionare le condotte di coloro che,

soccombenti a conclusione di un processo,

risultino avere abusato dello strumento

processuale anche se, essendo parimenti

innegabile la intrinseca pericolosità di tale

strumento75, il giudice che ne intenda fare

applicazione dovrà necessariamente assicurarsi

che sia rispettato il contraddittorio tra le parti,

consentendo alle stesse di formulare e proprie

deduzioni in ordine all’esistenza o meno dei

presupposti e condizioni applicative della

disposizione in questione76; aspetto,

quest’ultimo, non condiviso da altra opinione

che, come si dirà in seguito, non ritiene

sussistere a carico del giudice l’obbligo di

provocare sul punto il contraddittorio tra le

parti.

Di recente un’opinione ha sostenuto che alla

condanna ex art. 96, 3° comma deve essere

attribuita natura anfibologica - id est ambigua,

che ne autorizza una duplice interpretazione -

poiché lo stato sanziona mentre il giudice

risarcisce, trattandosi di una anfibologia

strutturale che emerge dalla doppia anima

dell’istituto in quanto esso, se – per tale autore

- resta comunque un risarcimento poiché copre

un danno presunto ad una delle parti

processuali, al tempo stesso possiede una

funzione sanzionatoria in quanto il giudice

rende la condanna consapevole degli

75Non ultimo in considerazione del fatto che non soggiace ad alcuna barriera preclusiva.

76FINOCCHIARO G., op. loc. cit.

importanti effetti che essa spiegherà anche al

di fuori del singolo processo in cui la

pronunzia, e per rimarcare la disapprovazione

per l’utilizzo emulativo dello strumento

processuale77.

Da altro punto di vista, un'opinione dottrinale

ha avuto recentemente modo di definire tale

istituto come pena privata, individuandone la

finalità quale strumento di deterrenza il cui

corretto impiego potrebbe consentire il

raggiungimento di comportamenti virtuosi in

un’ottica di generale prevenzione, comunque

mantenendosi entro i principi cardine della

responsabilità personale78 la cui introduzione,

sempre secondo la medesima opinione, risulta

indicativa di una accresciuta sensibilità del

legislatore nell’ottica di una parimenti

aumentata attenzione alla prevenzione dei

(maggiori79)costi sociali quali conseguenza di

condotte carenti anche della sia pur minima

diligenza, ed anche se le stesse costituiscano

esercizio di facoltà riconosciute

dall’ordinamento80.

Secondo altri, ancora, l’indubbio legame

esistente tra l’avere il legislatore previsto la

non indispensabilità della domanda di parte,

potendo comminare ex officio il giudice detta

condanna, da un lato e, dall’altro, il fatto che la

stessa può essere emanata anche in mancanza

di prova del danno, conduce ad attribuire

77BUFFONE G., Il contrasto alla lite temeraria è il sistema omeostatico del processo civile, nota a Trib. Monza, sez. III, 19 giugno 2012, su http://www.altalex.com/index.php?idstr=10&idnot=19287

78COVUCCI D., Deterrenza processuale e pena privata: il nuovo art. 96, 3° comma c.p.c., commento a Trib. Piacenza, 15 novembre 2011, est. Morlini, in Danno e resp., 2012, 5, 525 e ss.

79Il corsivo è di chi scrive.

80COVUCCI D., op. cit., p. 532.

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

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all’istituto funzione chiaramente

pubblicistica81, il cui fine è senza dubbio

quello di scoraggiare – appunto prevedendo

una(ulteriore) condanna pecuniaria, per quanto

a vantaggio della controparte – la proposizione

di liti che si rivelino, non sono per la

controparte, evidentemente nel giusto, quanto

anche per l’amministrazione della giustizia,

temerarie e/o comunque antieconomiche82.

In conseguenza, con la previsione di cui

all’art. 96, 3° c.p.c., come affermato in

dottrina, a quella che prima appariva una

ipotesi di applicazione ridotta e circoscritta, in

quanto limitata alla sola previsione di cui

all’art. 385 c.p.c., dettato in tema di processo

di cassazione e poi abrogato per effetto della

L. 69/09, è stata attribuita dignità di principio

generale83, con tutte le prevedibili

conseguenze soprattutto in tema di

(rilevante)ampliamento del suo ambito di

potenziale applicazione(comprensibilmente,

visto che la nuova previsione attiene

sostanzialmente ad ogni ipotesi processuale).

Allora, in considerazione del fatto che, come

da alcuni rilevato, l’art. 91 c.p.c., così come

riformulato dalla riforma del 2009, presenta

alcune storture che impediscono nella maggior

parte dei casi di sanzionare efficacemente il

convenuto soccombente quand’anche questi,

senza giustificato motivo, abbia rifiutato

proposte conciliative più favorevoli rispetto al

81PASSANNANTE L., Il nuovo regime delle spese processuali, in Il processo civile riformato, a cura di Taruffo M., Bologna, 2010, p. 189 e ss.

82PASSANNANTE L., op. loc. cit.

83SCARSELLI G., Le modifiche in tema di spese, in Foro it., 2009, V, 221.

dictum della sentenza84, non appare infondato

riconoscere all'istituto introdotto dall'art. 96,

3° comma c.p.c. un ambito di applicazione

ulteriore rispetto alle ipotesi di responsabilità

aggravata in senso stretto ed, in conseguenza,

come sostenuto dall’ultima opinione sopra

richiamata, riconoscere la legittimità del

ricorso ad esso anche in tutti i casi in cui, onde

riequilibrare la posizione delle parti, si riveli

opportuno sanzionare il convenuto

soccombente che abbia tenuto un

comportamento ostruzionista o ostinatamente

riluttante ad ipotesi conciliative, così

provocando un’inutile spreco di risorse

processuali.85.

In contrario, tuttavia, deve osservarsi, come

del resto già fatto dai primi commentatori della

legge di riforma del 2009, che, essendo

indubbio il fatto che alla funzione

riequilibratrice delle posizioni delle parti che

indubbiamente possiede la condanna in

questione, si accompagni altrettanto

indubbiamente una grande discrezionalità, per

il giudice, nella sua applicazione – visto che,

come già detto, non occorre più una specifica

domanda in tal senso, e nemmeno la prova di

avere subito un danno – vi è il non infondato

sospetto che il giudice risulti in tal modo

investito di un potere troppo ampio86; potere

che, ad opinione di chi scrive, è suscettibile, in

assenza di un suo accorto e ponderato

esercizio, guidato prima di tutto dall'esigenza

di realizzare un effettivo – e non meramente

astratto ed ipotetico – contemperamento delle

posizioni delle parti processuali, di sconfinare

con una certa facilità in un arbitrio

84PASSANNANTE L., op. loc. cit.

85PASSANNANTE L., op. loc. cit..

86SASSANI B., TISCINI R., Prime osservazioni sulla legge 18 giugno 2009 n. 69, in www.judicium.it.

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incontrollato, con i prevedibili - quanto

difficilmente rimediabili - pregiudizi che da un

simile esercizio possono derivare; infatti, in

tale ottica va segnalata quell'opinione che,

prudentemente, invoca quello che tutto

sommato appare un ritorno al passato,

predicando la necessità che, per l'applicazione

della disposizione di cui all'art. 96, 3° comma

c.p.c., risulti indispensabile che l'altra parte

abbia riportato un danno in conseguenza di

tale condotta87.

3. Orientamenti giurisprudenziali.

In proposito, va innanzitutto ricordato che di

tale istituto la giurisprudenza di legittimità ne

ha dato una definizione per c.d. a contrario,

ricavandone in sostanza i caratteri peculiari per

differenza rispetto alle altre disposizioni

contenute nell’art. 96 c.p.c. prima che a tale

norma venisse aggiunto, per effetto della L.

69/09, il terzo comma.

Infatti, secondo la Cassazione, innanzitutto la

facoltà concessa dall’art. 96 c.p.c., nella

formulazione anteriore alle modifiche

introdotte dalla l. n. 69 del 2009, di liquidare

d’ufficio il danno da responsabilità aggravata

risponde al criterio generale di cui agli art.

1226 e 2056 c.c., senza alcuna deroga

all’onere di allegazione degli elementi di fatto

idonei a dimostrarne l’effettività: tale facoltà,

invero, non trasforma il risarcimento in una

pena pecuniaria, né in un danno punitivo

disancorato da qualsiasi esigenza probatoria,

restando esso connotato dalla natura

riparatoria di un pregiudizio effettivamente

sofferto senza assumere invece, carattere

sanzionatorio od afflittivo; tale interpretazione

è, altresì, avvalorata dall’art. 45, 12 comma, l.

18 giugno 2009 n. 69, il quale ha aggiunto un

87SCARSELLI G., Il nuovo art. 96 comma 3 c.p.c.: consigli per l'uso, in Foro it, 2010, I, 2237.

3° comma all’art. 96 c.p.c., introducendo una

vera e propria pena pecuniaria, indipendente

sia dalla domanda di parte, sia dalla prova del

danno causalmente derivato alla condotta

processuale dell’avversario88.

Quindi, per i giudici di legittimità, quella

prevista dall’art. 96, 3° comma c.p.c. è

indiscutibilmente una pena pecuniaria.

Nella giurisprudenza di merito si è poi

affermato che, in sostanza, ratio dell’istituto è

quella di scoraggiare la parte ad adottare

condotte processuali dilatorie connotate dalla

totale assenza della sia pur minima diligenza e,

al tempo stesso, per raggiungere il risultato

avuto di mira89. Sempre in giurisprudenza, poi,

il presupposto applicativo dell’art. 96, 3°

comma c.p.c. è stato individuato in quelle

condotte debitorie che, aggravando in termini

economici e temporali la posizione del

creditore, lo costringono ad una serie di

defatiganti attività per conseguire il quantum

dovuto90; mentre, secondo altra pronunzia, con

l’introduzione dell’art. 96, 3º comma, c.p.c., il

legislatore ha voluto prevedere uno strumento

88Cass. civ., sez. I, 30 luglio 2010, n. 17902, in Foro it., Mass., 2010, 843.

89Trib. Pistoia, 20 settembre 2011, in Foro it., Rep., 2012, Spese di giustizia, n.15, secondo cui “La ratio del 3º comma dell’art. 96 c.p.c. non consiste nell’attribuzione di un risarcimento del danno derivante da temerarie iniziative processuali (che altrimenti si tratterebbe di una duplicazione di quanto previsto dal 1º comma dello stesso articolo) ma nel sanzionare strategie processuali non sorrette neppure da un minimo grado di diligenza; ne segue che il giudice, una volta accertata l’esistenza di siffatta grave negligenza, dovrà considerare, in una prospettiva sanzionatoria (per il passato) e deterrente (per il futuro), quale sia l’importo adeguato a rimuovere il vantaggio che la parte in malafede ha tratto dalla sua strategia dilatoria e a scoraggiare l’impiego di tali strategie”.

90Trib. S. Angelo dei Lombardi, 5 ottobre 2011, in Arch. Locazioni, 2012, 73.

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sanzionatorio volto a colpire condotte che,

indipendentemente dai torti e dalle ragioni

delle parti rispetto all’oggetto del giudizio,

configurano una violazione della lealtà

processuale e si pongono come gravemente

pregiudizievoli dell’interesse individuale ad un

corretto comportamento processuale della

controparte e dell’interesse collettivo ad una

giustizia efficiente91; inoltre, in giurisprudenza

si è riconosciuto che, sul presupposto per il

quale stante il carattere officioso della

pronuncia debba essere ad essa attribuita

natura sanzionatoria, allora tale norma risulta

applicabile anche nei procedimenti cautelari

che si concludano con una pronuncia sulle

spese, sul presupposto che l’espressione

sentenza contenuta nel 1º comma dell’art. 96

cit. ben può essere intesa come provvedimento

che definisce il procedimento92, mentre detta

norma è stata ritenuta applicabile anche nei

confronti del terzo.

Ancora più di recente, la giurisprudenza di

merito ha sia riconosciuto alla condanna

pronunziata dal giudice ai sensi della

richiamata disposizione la natura di punitive

damage93, sia riaffermato la natura

sanzionatoria94.

91Trib. Varese, 23 febbraio 2012, in Danno e resp., 2012, 1129.

92Trib. Verona, 21 marzo 2011, in Giur. merito, 2011, 2161.

93Trib. Piacenza, 15 novembre 2011, est. Morlini, in Danno e resp., 2012, 5, 523 e ss, secondo cui “l’art. 96, comma 3° c.p.c, introduce nell’ordinamento una forma di danno punitivo per scoraggiare l’abuso del processo e preservare la funzionalità del sistema giustizia deflazionando il contenzioso ingiustificato; infatti, il contenuto della norma pare in equivoco nell’escludere l’esistenza di un danno di controparte e, per altro verso, non vi sono parametri costituzionali che vietano al legislatore di introdurre tale tipologia di danno”.

94Trib. Monza, sez. III, 19 giugno 2012, su www.altalex.com.

Altre pronunzie successive, inserendosi sulla

strada aperta da quella in precedenza

richiamata ne hanno, in sostanza, precisato e

delineato ulteriormente i contorni, spingendosi

ad affermare che, all’istituto previsto dal terzo

comma dell’art. 96 c.p.c., come introdotto

dalla L. 69/2009, possono senza remore

attribuirsi i caratteri della pena pecuniaria, e

per addivenire a tale conclusione l’estensore

della predetta pronunzia mette in evidenza che

essa presenta i seguenti elementi costitutivi:

i)risulta applicabile ex officio dal giudice;

ii)non necessita che il danno venga provato95;

iii)la sua applicazione si giustifica in ragione

della condotta – all’evidenza improntata a

malafede o quantomeno a colpa grave - della

parte processuale che, sconsideratamente

agendo ovvero resistendo all’altrui azione, nel

giudizio in questione soccombe96, e di tale

condotta un palese esempio viene identificato

nell’agire di colui che si determina ad

introdurre una controversia nonostante tanto

gli fosse indubitabilmente precluso da un

precedente giudicato sfavorevole, ed al tempo

stesso connotata da una intrinseca

contraddittorietà che nega e smentisce

l’urgenza che viene asserita quale presupposto

della proposta azione97; per altro verso, poi, si

95Anche perché, come si evince dal testo della norma, non sono previsti limiti alla sua determinazione, che è rimessa alla decisione equitativa del giudice.

96Trib. Bari, 14 febbraio 2012, in Banca dati Pluris-cedam.utetgiuridica.it, voce Spese giudiziali civili

97Trib. Bari, 14 febbraio 2012, cit., secondo cui “Il sig.(omissis) va altresì condannato al pagamento in favore del convenuto di una somma equitativamente determinata, ai sensi dell'art. 96 c. III CPC. Tale disposizione ha introdotto una vera e propria pena pecuniaria che prescinde dalla domanda di parte e dalla prova dei un danno e si fonda sulla male fede o la colpa grave del soggetto risultato poi soccombente.

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Nel caso in esame si ritiene sussista la mala fede del sig.(omissis) perché ha agito pur in presenza di una pronuncia passata in giudicato, allegando peraltro la "urgenza" delle riparazioni che la sua stessa condotta "smentisce" in modo assoluto. Non può infatti non rilevarsi in proposito che - a dire dello stesso ricorrente - i danni alle mattonelle sono state denunciate al comune di(omissis)nel gennaio 2002 e che l’intervento riparatore a spese del conduttore è stato eseguito nel luglio 2004, più di due anni dopo. E' evidente che l'urgenza in realtà non sussisteva perché diversamente il sig.(omissis) non avrebbe atteso così tanto prima di eseguire i lavori. Esaminando peraltro le fatture prodotte dall'attore a dimostrazione delle spese sostenute (v. fascicolo di parte), si rileva dalle stesse che gli interventi operati dall’attore non si sono limitati al ripristino delle mattonelle cadute o alla sostituzione - ove necessario - di tutte le mattonelle ma sono consistiti nella ristrutturazione dell'intero bagno avendo sostituito i rivestimenti del bagno ed eseguito lavori agli impianti idrico e fognario. Tali interventi provano che il sig.(omissis) è andato ben oltre le riparazioni necessarie al ripristino delle mattonelle e che con questo giudizio ha tentato - in mala fede - di "recuperare" i costi della ristrutturazione del bagno non facenti capo all'ente locatore. Stante l'intento deflattivo della disposizione dello art. 96 c. III CPC, introdotta a tutela del principio costituzionale ( art. 111 Cost.) e comunitario (art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea) della ragionevole durata dei processi, si ritiene di liquidare la pena suddetta in Euro 1.000,00 all'anno, applicando il criterio elaborato dalla giurisprudenza comunitaria in tema di risarcimento del danno da irragionevole durata del processo. Considerata la durata di questo processo di quasi due anni, si ritiene di condannare il sig.(omissis) a versare al comune di(omissis)Euro 2.000,00 pari ad Euro 1.000,00 per ogni anno.

riconosce il carattere di pena pecuniaria, del

tutto svincolata dalla domanda di parte e dalla

prova di un effettivo pregiudizio98.

Infine, va detto che la giurisprudenza,

mostrando di condividere le perplessità ed i

timori palesati dalla dottrina innanzi

richiamata circa l'attribuzione al giudice di un

potere eccessivo, potenzialmente in grado di

sconfinare nell'arbitrio incontrollato, pur non

condividendo la soluzione proposta, tuttavia

ha posto l'accento sull'indispensabilità, quale

contraltare della mancata previsione, nella

norma in questione, di parametri oggettivi ai

fini della sua applicazione, sia in termini di

sussistenza di un concreto danno, sia di criteri

per la sua quantificazione, di fondare

l'applicazione dell'istituto sul rilievo della

sussistenza, nel caso concreto, di un

indispensabile elemento soggettivo,

rappresentato da una determinata condotta del

soggetto che della sanzione in questione si

rivela destinatario99, accertamento che

contiene una implicita quanto indubbio

contestazione della condotta medesima, della

quale si rileva la contrarietà a correttezza e

buona fede, se non addirittura il dolo e/o

comunque la colpa grave; anzi, non va

trascurato di evidenziare che, per altre

decisioni, nemmeno sarebbe indispensabile

una condotta della controparte che integri gli

98Trib. Bari, 14 febbraio 2012, cit.

99Trib. Piacenza, 7 dicembre 2010, in Giur. it., 2011, 2568, che ha inoltre affermato “La condanna di cui al 3º comma dell’art. 96 c.p.c. ha una duplice funzione, sanzionatoria e risarcitoria; la funzione sanzionatoria è assicurata dalla (possibile) officiosità della condanna e dal fatto che può essere pronunciata in assenza di qualsiasi prova di un danno effettivo; la funzione risarcitoria è, invece, perseguita in sede di liquidazione della somma, proprio agganciando la quantificazione ai criteri utilizzati per indennizzare il pregiudizio (sia pure presunto) subìto dalla parte vittoriosa per aver dovuto agire o resistere in giudizio”.

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estremi del dolo e/o della colpa grave,

risultando sufficiente per la condanna ai sensi

dell'art. 96, 3° comma c.p.c. un atteggiamento

psicologico suscettibile di una censura

sicuramente più lieve, quale il difetto di

prudenza e/o diligenza nell'agire in giudizio100,

che ove riscontrato impedisce che, nel

bilanciamento dei contrapposti interessi, il

diritto di cui all'art. 24 Cost. possa ritenersi

prevalente su quello previsto dall'art. 111 Cost.

Il concetto innanzi esplicato appare ancora

meglio delineato in un'ulteriore pronunzia di

merito che, innanzitutto, ha individuato, quali

elementi rivelatori del carattere

manifestamente pretestuoso e dilatorio della

resistenza opposta dal soggetto convenuto in

un giudizio, la manifesta infondatezza

dell’unica eccezione realmente sollevata,

l’estrema genericità della difesa nel merito e la

totale rinuncia al benché minimo tentativo di

far valere argomenti concreti in fatto o in

diritto, evidentemente inesistenti101; in

conseguenza, simile condotta è stata ritenuta

integrare gli estremi di un evidente abuso del

diritto costituzionale di resistere in giudizio ed

una grave violazione del corrispondente diritto

di azione della controparte, anch’esso tutelato

dagli art. 24 e 111 cost. e dall’art. 6 CEDU e,

per la quantificazione, in via equitativa, del

pregiudizio arrecato all’attore dalla temeraria

100Trib. Terni, 17 maggio 2010, in Giur. merito, 2011, 2702, secondo cui “In tema di responsabilità aggravata, l’art. 96, 3º comma, c.p.c. sanziona quelle condotte processuali non rispondenti ai presupposti minimi di diligenza professionale necessari per dar luogo alla prevalenza del diritto di difesa di cui all’art. 24 cost. sull’esigenza di assicurare la ragionevole durata del processo e il contenimento dei relativi costi collettivi di cui all’art. 111 cost.; nella fattispecie, relativa a introduzione di fase di opposizione sorretta da fini puramente dilatori, sussiste la condotta illecita descritta”.

101Trib. Roma, 11 gennaio 2010, in Giur. merito, 2010, 2175.

resistenza della convenuta, data la stretta

analogia tra le fattispecie, si è ritenuto che

occorresse fare riferimento alla giurisprudenza

di legittimità formatasi in materia di

risarcimento da irragionevole durata del

procedimento102 ; ancora, anche una condotta

integrante gli estremi del c.d. venire contra

factum proprium è stata ritenuta, dalla

giurisprudenza, idonea a giustificare

l'applicazione della pronunzia prevista dall'art.

96. 3° comma c.p.c., in una ipotesi in cui

l'appaltante, pur avendo accettato senza riserve

l'opera ed essendo nelle condizioni di

riscontrare la sussistenza di eventuali vizi,

ometta di corrispondere il compenso

all'appaltatore e, ricevuto il decreto ingiuntivo,

proponga opposizione assumendo l'esistenza

di, mai denunziati prima, vizi dell'opera103.

Per concludere sul punto, va tenuto presente

che, perché venga pronunziata la condanna in

questione, la soccombenza del destinatario di

essa deve necessariamente essere totale, il che

rende inapplicabile l'istituto de quo in presenza

di soccombenza parziale o reciproca104.

102Trib. Roma, 11 gennaio 2010, cit.

103Trib. Lamezia Terme, 12 luglio 2011in Banca dati Pluris-cedam.utetgiuridica.it.

104In tal senso, App. Firenze, 21 ottobre 2011, in Banca dati Pluris-cedam.utetgiuridica.it, secondo cui “La responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., integra una particolare forma di responsabilità processuale a carico della parte soccombente che abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, con la conseguenza che non può farsi luogo all'applicazione di detta norma quando non sussista il requisito della totale soccombenza per essersi verificata soccombenza reciproca”.

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4. I rapporti con gli altri strumenti previsti

dall’art. 96 c.p.c.

Se messa a confronto con gli strumenti previsti

dall’art. 96, 1° comma e dall’art. 96, 2°

comma c.p.c., quella introdotta con il terzo

comma, aggiunto dalla richiamata legge di

riforma del 2009, si rivela indiscutibilmente

diversa, e sotto plurimi aspetti, che già

possono evincersi da una sommaria

descrizione delle misure previste dai primi due

commi dell’art. 96 c.p.c.

Infatti, guardando alle previsioni di cui ai

primi due commi dell’art. 96 c.p.c, esse

considerano come imprescindibile l’espressa

richiesta della parte – la cui indispensabilità è

stata indirettamente confermata, con specifico

riguardo all’ipotesi prevista dal primo comma

dell’art. 96 c.p.c., dalla Corte Costituzionale105

- che si assume danneggiata da una condotta

del soccombente improntata alla mala fede e/o

colpa grave, nonché la presenza di specifici

requisiti, soggettivi ed oggettivi, per la loro

applicazione – che quindi condividono - ed

inoltre si pongono tra loro in rapporto di

genere a specie; invero, quella prevista dal

primo comma dell'art. 96 c.p.c., si rivela una

norma di carattere generale, della quale il

secondo comma della richiamata disposizione

prevede l'applicazione in ipotesi

tassativamente individuate, la cui unica

differenza appare, sostanzialmente, essere stata

individuata da legislatore nel fatto che la colpa

che legittima l'applicazione dello strumento

previsto dal secondo comma non è la colpa

grave né tantomeno la malafede richiesti dal

primo comma, bensì un'atteggiamento

psicologico(e quindi una condotta)di minore

gravità, riconducibile alla colpa lieve, e quindi

identificabile con imperizia, imprudenza e

105Corte Cost., 23 dicembre 2008, n.

435, in Giust. civ., 2009, I, 551.

negligenza; comune, infine, è la previsione

normativa di danni da risarcire(per le cui

modalità liquidative il 2° comma rimanda a

quanto previsto sul punto dal comma 1), che

porta con sé, indirettamente quanto

inequivocabilmente, una funzione risarcitoria

che accomuna le due ipotesi.

Netta e rilevante appare, allora, la differenza

con lo strumento introdotto con il nuovo terzo

comma che, invece, prescinde in toto da

istanza di parte ed allegazione(oltre che prova,

ovviamente)di danni da ristorare, per cui, in

particolare sotto tale ultimo aspetto, l'assenza

di ogni riferimento a profili risarcitori collegati

all'istituto in questione si appalesa come

elemento sistematico ulteriore che conduce a

ritenere che in legislatore abbia inteso

riconoscere alla condanna ex art. 96, 3°

comma c.p.c. carattere sanzionatorio.

Infatti, ove si esamini nel suo complesso la

disposizione di cui all'art. 96 c.p.c., emerge

con evidenza che, mentre il 3° comma non

qualifica il danno in termini di ingiustizia, per

converso l’area del danno aquiliano,

patrimoniale o non patrimoniale che sia,

appare integralmente tutelata e presidiata dalle

disposizioni contenute negli altri due commi, e

la circostanza per la quale il giudice può

procedere anche d’ufficio all'applicazione

della condanna prevista dal terzo comma porta

ad individuare in essa una finalità di tutela di

stampo pubblicistico, che rinviene la propria

ratio nella necessità di un intervento da parte

dello Stato – per il quale il legislatore non ha

affatto previsto come indispensabile la

pregressa esistenza, tra le parti, di qualsivoglia

obbligazione risarcitoria – allorquando una

delle parti con la sua condotta abbia distolto il

processo dal suo naturale scopo, ovvero la

tutela dei diritti e degli interessi legittimi ex

art. 24 Cost., anche se il beneficiario della

somma così determinata è la controparte, dato

che egli è colui che ha direttamente subito le

conseguenze negative della condotta

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processuale pretestuosa o defatigante del suo

contraddittore.

5. L'applicazione concreta della norma.

Innanzitutto, va ricordato come la

giurisprudenza giustifica la non

indispensabilità della preventiva instaurazione

del contraddittorio in ordine alla pronunzia

della condanna ai sensi del terzo comma

dell'art. 96 c.p.c. affermandone la natura di

posterius, dal punto di vista logico, e non di

prius, rispetto alla decisione nel merito106, in

quanto non incide sulla decisione della causa,

ma si limita semplicemente ad affiancarla; il

palesato orientamento giurisprudenziale

rinviene l'adesione di parte della dottrina che,

al fine di giustificare l'inesistenza di un

obbligo, a carico del giudice, di dar vita al

contraddittorio tra le parti allorquando il

medesimo intenda applicare l'art. 96, 3°

comma c.p.c., richiama la previsione dell'art.

101, 2° comma c.p.c., secondo cui se il giudice

ritiene di porre a fondamento della decisione

una questione rilevata d'ufficio, riserva la

decisione, assegnando alle parti, a pena di

nullità, un termine, non inferiore a venti e non

superiore a quaranta giorni dalla

comunicazione, per il deposito in cancelleria

di memorie contenenti osservazioni sulla

medesima questione107, dalla quale si evince,

argomentando a contrario, che non può dirsi

esistente tale obbligo poiché il provvedimento

giudiziale previsto dall'art. 96, 3° comma c.p.c.

non attiene ad una questione che il giudice

rileva d'ufficio e che ritiene imprescindibile ai

106Trib. Piacenza. 22 novembre 2010, in Resp. civ., 2011, 2576.

107Per effetto della previsione contenuta nell''art. 45, 2° comma, della legge 18 giugno 2009, n. 69.

fini della decisione108 e, pertanto

obbligatoriamente da sottoporre al

contraddittorio delle parti.

In ordine agli elementi il cui riscontro nella

fattispecie concreta risulta indispensabile

perchè il giudice possa emettere il relativo

provvedimento, in dottrina non vi è concordia

di opinioni, in quanto si è sostenuto, per un

verso, che anche in assenza, nell'art. 96, 3°

comma c.p.c., di una specifica individuazione

dei presupposti applicativi, la collocazione

sistematica di essa nel contesto di una

disposizione inerente la responsabilità

aggravata induce a privilegiare

quell'interpretazione che pone a fondamento

della sua applicazione il positivo riscontro di

una condotta processuale del soggetto

sanzionato che integri gli estremi previsti dal

1° comma della norma stessa109; infatti, si

ritiene indubbiamente insoddisfacente ed

inaccettabile l'unica possibile interpretazione

alternativa, consistente nell'ancorare la sua

applicazione alla sola evenienza della

soccombenza, il che la renderebbe priva di

concreta giustificazione sia dal punto di vista

del suo utilizzo sia dal punto di vista della sua

collocazione sistematica, altrimenti

difficilmente giustificabile110, dato che la

soccombenza può verificarsi anche se non vi

sia stata azione e/o resistenza in giudizio con

malafede o colpa grave da parte del soggetto

destinatario dell'eventuale condanna ex art. 96,

3° c.p.c.; secondo altra opinione, invece, non

occorre avere agito e/o resistito in giudizio con

108POTETTI D., Novità della l. n. 69/2009 in tema di spese di causa e responsabilità aggravata, in Giur. Merito, 2010, 937.

109DE MARZO G., op. cit., p. 398.

110DE MARZO G., op. loc. cit.,

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

90

malafede o colpa grave perchè il giudice

pronunzi la condanna di cui al terzo comma111.

Va evidenziato che la giurisprudenza in alcune

pronunzie si è mostrata concorde con il

secondo orientamento innanzi richiamato,

pervenendo sostanzialmente ad affermare che,

quella che prima facie potrebbe sembrare una

dimenticanza del legislatore, deve in realtà

considerarsi il frutto di una scelta precisa volta

ad evitare che, attraverso l'indicazione di

elementi specifici e ben individuati, si

producesse il non voluto effetto di una

riduzione(eccessiva)dell'ambito applicativo

della norma, con contestuale riduzione della

sua (sperata dal legislatore)efficacia deflattiva

del contenzioso civile. Si è affermato, infatti,

che “La mancata predeterminazione degli

indici di liquidazione della sanzione prevista

dall’art. 96, 3º comma, c.p.c. non costituisce

violazione del principio di legalità, in

considerazione del fatto che tale modalità di

costruzione della norma assolve alla necessità

di non vincolare il giudice a fronte di

situazioni che per la loro mutevolezza non

possono essere previamente determinate ed

alla necessità di adeguare quanto più

compiutamente il fatto concreto alla norma

astratta”112; la citata decisione appare

meritevole di considerazione anche per il fatto

che ha inteso accogliere la ricostruzione che

assegna alla novella legislativa la finalità di

sanzionare l’abuso del processo al di fuori

dell’area della responsabilità aquiliana; a tale

ultimo proposito, infatti, condivide

quell'orientamento secondo cui “si tratta di

una pronuncia che introduce nell’ordinamento

una forma di danno punitivo per scoraggiare

l’abuso del processo e preservare la

111CECCHELLA C., Il nuovo processo civile, Milano, 2009, p. 90.

112Trib. minorenni Milano, 4 marzo 2011, in Famiglia e dir., 2011, 809.

funzionalità del sistema giustizia, ciò che

esclude la necessità di un danno di

controparte, pur se la condanna è prevista a

favore della parte e non dello stato; e di una

pronuncia che presuppone il requisito della

malafede o della colpa grave; è teoricamente

possibile la coesistenza di una pronuncia di

condanna ai sensi del 1º e 3º comma dell’art.

96 c.p.c.”113 e che si segnala, altresì, per il

pacifico riconoscimento della possibilità della

contestuale applicazione della condanna ai

sensi del primo e del terzo comma dell'art. 96

c.p.c..

La circostanza da ultimo rilevata in relazione

alla predetta decisione, unitamente alla

prevedibile condanna alle spese in

applicazione del principio della soccombenza,

consente di ipotizzare che un soggetto possa

venire, con la medesima decisione, gravato di

un triplice condanna, rispettivamente ai sensi

dell'art. 91 c.p.c., nonché dell'art. 91, 1°

comma c.p.c. e 96, 3° comma c.p.c.: tanto

appare giustificabile innanzitutto considerando

la differente natura da riconoscere ai due

istituti, risarcitoria quella ex art. 96, 1° e 2°

comma c.c., sanzionatoria, invece, quella ex

art. 96, 3° comma c.c., che appaiono, pur nella

loro diversità, convergere verso la tutela di un

nucleo composito di interessi, privatistico e

pubblicistico.

Inoltre, è la stessa espressione letterale

utilizzata dal legislatore nel testo del terzo

comma dell'art. 96 in questione che rende

legittimo ritenere che la condanna pronunziata

ai sensi del richiamato terzo comma si

aggiunga e non si sostituisca a quella

eventualmente disposta ai sensi dei primi due

commi.

Puntano in tale direzione, ed in modo invero

alquanto inequivoco, l'iniziale espressione “in

113Trib. Piacenza, 22 novembre 2010, cit.

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ogni caso”, che testimonia una volontà del

legislatore di rendere l'applicazione dell'art.

96, 3° comma indipendente dai primi due

commi della norma stessa; inoltre, l'avverbio

“altresì” pare togliere ogni residuo dubbio,

ove si tenga presente che, dal punto di vista

dell'analisi grammaticale, l'avverbio in

questione è uno di quelli definiti come

aggiuntivi, cioè utilizzati per aggiungere, nel

contesto di una frase, qualcosa al verbo e/o

all'intera frase, che i sinonimi di esso sono

anche ed inoltre e che, infine, detto avverbio

deriva dall'espressione latina alterum sic!

Ai fini della determinazione del quantum, uno

dei criteri individuati dalla giurisprudenza è

costituito dal prendere quale riferimento, in

termini di valore di partenza, il costo medio di

un anno di processo, procedendo

successivamente alla sua eventuale

modulazione ed adeguamento, in

considerazione delle specifiche caratteristiche

del caso concreto114; secondo altra decisione,

invece, i criteri di determinazione della somma

da liquidare ex art. 96, 3º comma, in virtù della

attribuita funzione sanzionatoria, possono

essere ricavati dall’intensità dell’elemento

soggettivo e dalla gravità della condotta di

abuso del processo e di incidenza sulla sua

durata115.

A mero titolo di esempio, la giurisprudenza di

merito ha fatto significativa applicazione

dell'istituto in presenza di una condotta della

parte processuale che avanzava reiterate

quanto immotivate, oltre che assolutamente

non suffragate dai necessari elementi e

riscontri, richieste di modifica del regime di

affidamento del figlio minore, con l'affermare

che “In tema di condanna alle spese nel

114Trib. Varese, 23 febbraio 2012, cit.

115Trib. Rovigo, sez. dist. Adria, 7 dicembre 2010, in Giur. it., 2011, 2568.

procedimento concernente l’affido del minore

la disposizione di cui all’art. 155 bis, ultimo

capoverso, è finalizzata a presidiare il regime

ordinario dell’affido condiviso contro

immotivate e pretestuose richieste di

affidamento esclusivo; pertanto, nel caso di

specie, la reiterazione di tale ultima domanda

senza fornire elementi a suo sostegno

configura una condotta contraria ai doveri di

lealtà e probità espressi dall’art. 88 c.p.c. e la

parte va condannata - in applicazione del

potere officioso concesso dal combinato

disposto degli art. 155 bis c.c. e 96, 3º comma,

c.p.c. - al pagamento di una somma

equitativamente determinata”116,

6. Riflessioni conclusive.

Alla luce di quanto innanzi esposto, ad

opinione di chi scrive, allo strumento

configurato dal 3º comma dell’art. 96 c.p.c.

non può, ragionevolmente, riconoscersi natura

risarcitoria, poiché altrimenti esso si

rivelerebbe una irragionevole ed anche, tutto

sommato, inutile, reiterazione delle

disposizioni di cui al 1º e 2º comma della

stessa norma, rispetto alle quali non si

rivelerebbe produttivo di benefici ulteriori, tali

da giustificare la scelta legislativa di sua

introduzione; infatti, in tale ottica, come

strumento puramente risarcitorio, esso si

rivelerebbe – e del resto non poche opinioni

critiche verso tale ricostruzione lo hanno

evidenziato – per un verso fonte di non

trascurabili problemi applicativi e, per altro

verso, suscettibile di aprire la strada ad un

arbitrio incontrollato ed incontrollabile del

giudice, con i prevedibili eventuali risvolti

negativi.

116Trib. Minorenni Milano, 29 marzo 2011, in Dir. Famiglia, 2012, 283.

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92

A tanto consegue, allora, che lo strumento in

questione deve ritenersi qualcosa di altro e

diverso rispetto a quelli previsti dai primi due

commi dell’art. 96 c.p.c., trattandosi dunque di

un nuovo illecito processuale, che ben poco o

nulla condivide con le altre ipotesi.

Inoltre, non appare infondato ritenere come lo

stesso costituisca – o dovrebbe costituire, nelle

intenzioni del legislatore - la generalizzazione

del disposto dell’abrogato ultimo comma

dell’art. 385 c.p.c., come i lavori preparatori

della legge 69/2009 e la relazione per il primo

disegno di legge attestano inequivocabilmente.

Infatti, con la nuova previsione, è stata

aggiunta alle preesistenti ipotesi una

fattispecie a carattere sanzionatorio, che di

certo si distacca da quelli che sono i tipici

canoni strutturali dell’illecito civile,

collocandosi sul diverso versante per

confluire nelle cd. condanne punitive o

sanzioni civili indirette.

Essa, invero, riveste funzione sia

sanzionatoria, per il passato, che deterrente,

per il futuro, nei confronti di condotte

processuali non sorrette dal minimo grado di

diligenza tollerabile, tanto da non consentire

che, nel bilanciamento degli interessi in gioco,

il diritto di difesa possa prevalere su quello a

una ragionevole durata del processo e quindi, a

maggiore ragione vista la previsione della

condanna in favore della controparte di colui

che del processo si serve indebitamente – id

est, ne abusa.

Che essa possa assimilarsi alle sanzioni civili

indirette appare confermato, anche se

indirettamente, ove si consideri che, se in

relazione all’ormai abrogato art. 385, 4°

comma c.p.c. la dottrina non aveva avuto

esitazioni a riconoscere che il legislatore, con

l’introduzione di tale norma, si era per la

prima volta spinto a dare ingresso, nel nostro

ordinamento, ad una simile sanzione117, allora,

considerato che l’art. 96, 3° comma c.p.c. è

sostanzialmente identico al citato art. 385,

appare alquanto lineare e difficilmente

revocabile in dubbio il riconoscimento di tale

natura anche alla misura afflittiva patrimoniale

prevista dall’art. 96, 3° comma c.p.c.

Quindi, quello in questione costituisce uno

strumento che, come il sottoscritto ha già

avuto modo di evidenziare, si rivela una diretta

esplicazione del principio del giusto processo

di cui all’art. 111 Cost. e che rappresenta, in

sostanza, la codificazione della reazione

dell’ordinamento giuridico ad una specifica

ipotesi di abuso del diritto, ovvero di quello

processuale118; sul punto, quanto sostenuto

pare avere trovato piena condivisione

nell'orientamento della giurisprudenza che ha

affermato sia che la norma prevista dall’art.

96, 3º comma, c.p.c. va interpretata nel senso

di rimedio al pregiudizio non patrimoniale

sofferto dalla parte interamente vittoriosa,

conseguente all’indebito coinvolgimento in un

processo evitabile con l’ordinaria diligenza e

prudenza, al fine di assicurare la riparazione di

un danno che, secondo l’id quod plerumque

accidit, è normalmente collegato alla

celebrazione di un processo irragionevole119.

Ancora, nel rilevare il fatto che la norma

sancita dall'art. 96, co. 3, c.p.c. persegua lo

scopo immediato di approntare una

117DE CRISTOFARO M., in Commentario al codice di procedura civile, a cura di Consolo C. e Luiso F.P., Milano, 2007, II, 3099.

118Sia consentito il rinvio a CASCELLA G., Giusto processo e frazionamento di un credito unitario, nota a Trib. Mantova, 3 novembre 2009, p. 22, in http://www.comparazionedirittocivile.it/sezioni.asp?cod_cat=27&nome_cat=Obbligazioni%20e%20Contratti%20%20Note,%20commenti%20e%20rassegne ISSN 2037-5662.

119Trib. Oristano, 17 novembre 2010, in Foro it., 2011, I, 2200.

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soddisfazione in denaro alla parte risultata

vincitrice in un processo civile, indirettamente

si coglie l'ulteriore intento della legge di

arginare il proliferare di cause superflue che

appesantiscono oggettivamente gli uffici

giudiziari ostacolando la realizzazione del

giusto processo attraverso il rispetto del valore

(costituzionale ed internazionale) della

ragionevole durata del processo120 .

In conclusione, per fare in modo che l’istituto

risponda effettivamente alla finalità per la

quale è stato introdotto nel 2009, evitando

situazioni estreme rappresentate, per un verso,

da sue utilizzazioni improntate al totale ed

incontrollato arbitrio da parte del giudice

oppure, da un punto di vista diametralmente

opposto, il suo totale – o quasi – inutilizzo,

sarebbe certo opportuno che il legislatore

intervenisse per rimediare, in termini di

interpretazione autentica – come del resto fatto

di recente, a fine 2011, per la nota

problematica dell’interpretazione dell’art. 645

c.p.c. - a quelli che appaiono gli interrogativi

di maggiore rilievo suscitati dalla norma,

facendo doverosa chiarezza sui presupposti

applicativi in termini di an e quantum della

disposizione stessa, sia sul versante di una –

quantomeno a grandi linee – definizione della

condotta tenuta dalla controparte e dei

parametri sulla scorta dei quali valutarla ai fini

di giustificare l’applicazione del 3° comma

dell’art. 96 c.p.c., sia su quello dei criteri con

cui calcolare l’ammontare della condanna,

risultando insufficiente, ictu oculi, il mero

riferimento alla sua liquidazione equitativa;

questo a maggiore ragione in considerazione

del fatto che, mancando nell’art. 96, 3° comma

c.p.c. qualsivoglia accenno ad un danno

ipoteticamente subito dalla controparte del

120Cons. Stato, sez. V, 23 maggio 2011, n.3083, in Banca dati Pluris-cedam.utetgiuridica.it.

soggetto che abbia tenuto una condotta

processuale illecita, il riferimento alla

liquidazione equitativa scolora e sbiadisce,

sino a diventare evanescente.

Non occorrerebbe, invero, un grande sforzo,

dal momento che, se il modello di riferimento

che il legislatore della legge 69/2009 ha preso

in considerazione per trasformare una norma

di applicazione indiscutibilmente circoscritta

al solo giudizio di cassazione121 in una

disposizione volta a sanzionare,

sostanzialmente, qualsiasi ipotesi di

responsabilità per un utilizzo abusivo e

fuorviante di qualsiasi tipo di processo, è –

indiscutibilmente – quello previsto

dall'abrogato quarto comma dell'art. 385 c.p.c.,

forse sarebbe stato sufficiente, per evitare gli

evidenziati problemi applicativi o di un suo

uso distorto e non conforme122, utilizzare in

pieno i criteri ed i parametri previsti, appunto,

dall'abrogata disposizione; anzi, ben potrebbe

dirsi che tanto era non solo sufficiente, quanto

e soprattutto doveroso, se l'intento del

legislatore – non dichiarato e non di meno

palese – era quello di farne una disposizione

suscettibile di applicazione generalizzata.

121Tale norma, introdotta dall'art. 13 del d.lgs 2 febbraio 2006, n. 40, che aveva aggiunto il quarto comma all'art. 385 c.p.c., prevedeva precisamente che, allorquando pronunciava sulle spese, anche nelle ipotesi di cui all'art. 375, la S.C. , anche d'ufficio, poteva altresì condannare il soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma, equitativamente determinata, non superiore al doppio dei massimi tariffari, ove ritenesse che il predetto soccombente aveva proposto il ricorso oppure vi aveva resistito anche solo con colpa grave.

122Nel qual caso si verificherebbe la paradossale situazione per cui uno strumento previsto dal legislatore per prevenire, agendo da deterrente, e comunque contrastare, utilizzi distorti fuorvianti e temerari del processo, finisca esso stesso per venire utilizzato abusivamente ed arbitrariamente.

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Formula di

ELENA BRUNO

TRIBUNALE DI __________

ATTO DI PIGNORAMENTO PRESSO TERZI E CONTESTUALE CITAZIONE EX

ART. 543 C.P.C.

Ad istanza della sig.ra ___________, nata a _________ (___) il _______, residente in

__________ (___) alla via ___________, C.F. _____________, rappresentata e difesa, in

virtù di procura al margine del presente atto dall'avv. ________________ presso il cui studio

in __________, piazza _________, _ (____) , elege domicilio e che dichiara di voler ricevere

eventuali comunicazioni all'indirizzo pec123 ____________ o al numero di fax _________

PREMESSO

che con sentenza del _______________ (cron. _____) della Corte d’Appello di

123 Indicazione oggi necessaria a seguito della modifica apportata all'art. 543 c.p.c. alla L. 228/2012

Atto di pignoramento presso terzi dopo la riforma 2013

Schemi &

Formule

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__________ emessa a definizione del giudizio iscritto al n. _____ R.G. della stessa Corte

d'Appello introdotto da ______________, il Ministero ____________ era condannato al

pagamento, in favore della sig.ra ____________, della somma di euro ________ per esborsi,

euro ____ per diritti ed euro ______ per onorari, oltre cassa previdenziale ed IVA

sull'imponibile;

-che, la predetta sentenza, immediatamente esecutiva ex lege, è stata notificata in forma

esecutiva il ___________ al Ministero _________________, in persona del Ministro p.t.,

presso la sua sede;

che, essendo inutilmente trascorsi i 120 giorni di cui al primo comma dell’art. 14 D. Lgs

669/1996, in data _____________________ era notificato al Ministero ___________- atto di

precetto contenente l’intimazione al pagamento della somma di euro __________- oltre spese

successive ed occorrende ed interessi fino al soddisfo;

-- che, nonostante la ritualità della notifica dell’atto di precetto, l’istante, a tutt’oggi, risulta

ancora creditrice, nei confronti del Ministero ____________-, della somma di euro

___________________ oltre agli interessi fino al soddisfo, alle ulteriori eventuali spese,

diritti e onorari successivi, per cui si rende necessario procedere agli atti esecutivi;

-che il Ministero della ____________, in persona del Ministro pro tempore, risulta essere

titolare di conti correnti e depositi presso la Banca _________________-, sita in Via dei

__________, ___________;

-che, altresì, il Ministero _________- risulta essere titolare di conti correnti e depositi

presso la banca ___________ s.p.a. con sede alla Via _____________ - (___) __-;

- che l’istante – al fine di vedere soddisfatte le proprie ragioni – intende procedere al

pignoramento delle somme di proprietà del Ministero _________, in persona del Ministro p.t.

a qualsiasi titolo detenute e dovute presso gli indicati istituti bancari fino alla concorrenza

della somma dovuta, oltre interessi e spese e competenze successive.

Tanto premesso, l’istante, come sopra rappresentata e difesa

CITA

1) Il Ministero ___________, in persona del Ministro p.t., con sede in Roma, alla via

_________;

2) la Banca _________ spa in persona del legale rapp.te p.t. con sede in _________ alla

via _________ n. __;

3) la Banca __________ s.p.a. in persona del legale rapp.te p.t, con sede in ________

alla Via _____________ - _______;

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a comparire innanzi al Giudice dell’esecuzione del Tribunale di ___________, ora di rito,

all’udienza del , (124quando il pignoramento non riguarda i crediti di cui

all’articolo 545, commi 3 e 4 cpc, si aggiunga: “i soli terzi pignorati mediante invio, entro

dieci giorni, di raccomandata ovvero di posta elettronica certificata”), affinché il Ministero, in

persona del Ministro p.t., sia presente alla dichiarazione e agli atti ulteriori e gli altri istituti

citati facciano la dichiarazione di rito prevista dall’art. 547 c.p.c. ed assistano agli atti

successivi, con avvertimento che, non comparendo, nei casi di cui all'art. 548 co. 1 c.p.c., i

crediti si intenderanno non contestati mentre, negli altri casi, si procederà come per legge125.

Inoltre

INTIMA

alla Banca __________, in persona del legale rapp.te p.t. in persona del suo legale

rapp.te pro tempore, con sede in __________ alla via __________;

nonché alla Banca __________ s.p.a. in persona del suo legale rapp.te p.t., presso la sua

sede di Via __________ - ___________ di non disporre delle somme pignorate e delle

successive occorrende senza ordine del Giudice, pena le sanzioni previste dalla legge.

Si dichiara che il valore della presente procedura esecutiva mobiliare è di € __________

Si produce atto di precetto e titolo esecutivo notificati.

____________, lì _________ Avv. _____________

RELATA DI NOTIFICA

A richiesta di. __________, rappresentata e difesa dall'avv. ______________

presso il cui studio in _______, ___________ , Io sottoscritto Ufficiale Giudiziario

addetto all’Ufficio Unico Esecuzioni e Notifiche presso il Tribunale di _________, vista

l’istanza di pignoramento che precede, vista la sentenza n. _______ emessa dalla Corte

d’Appello di ___________ in data ________ pubblicata il ______ munita della formula

esecutiva il ___________ e notificata in data ___________ al Ministero _____________,

124 Il nuovo art. 543 cpc, riscritto dalla L. 228/12 prevede l'obbligo per il terzo citato di comparire all'udienza solo quando il pignoramento riguardi crediti di lavoro. Negli altri casi il terzo può invece rendere la dichiarazione o a mezzo posta, come già stabilito dalla precedente riforma del 543 c.p.c. Oppure, dal 1 Gennaio 2013, anche a mezzo PEC

125 Il nuovo art. 548, pure modificato dalla L. 228/12 dispone che, qualora il terzo non compaia all'udienza e si tratti di crediti di lavoro, il credito stesso si intende non contestato. Negli altri casi, quando il terzo non abbia inviato la dichiarazione prevista ed il creditore, comparendo, lo dichiari, deve essere fissata altra udienza con ordinanza da notificarsi al terzo almeno dieci giorni prima della nuova udienza. Se anche alla seconda udienza il terzo non abbia reso la dovuta dichiarazione, il credito si intenderà non contestato.

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in persona del Ministro p.t. presso la sua sede nonché, in data __________, presso

l’Avvocatura dello Stato di _________; visto, inoltre, l’atto di precetto, ritualmente

notificato in data _______________________ al Ministero della _______________ in

persona del Ministro p.t. presso la sua sede e il ____________________ presso

l'Avvocatura dello Stato di _________, con cui la creditrice ha intimato il pagamento

della somma di euro __________ oltre spese legali ed interessi successivi;

ritenuto che il termine per adempiere è infruttuosamente scaduto

HO PIGNORATO

In forza del suindicato titolo tutte le somme dovute e debende dalla Banca __________,

in persona del legale rapp.te p.t., con sede in ______ alla via _________________,

nonché dalla Banca ______________ s.p.a. in persona del suo legale rapp.te p.t., con

sede di ___________________ -__________ Roma al Ministero __________ in persona

del Ministro p.t. con sede in _______, alla via _______________ fino alla concorrenza di

euro ________, ai sensi dell’art. 546 co. 1 c.p.c., a tutela del credito dell’istante portato

dal precetto e fino alla concorrenza del complessivo credito dell’istante, somme che

dovranno essere rese indisponibili per il debitore sin dalla notifica del presente atto. A tal

fine

HO INGIUNTO

Ai sensi dell’art. 492 co. 1 c.p.c. al Ministero ___________, in persona del Ministro pro

tempore, con sede in _____, alla via ___________, di astenersi da qualunque atto diretto a

sottrarre alla garanzia del credito suddetto le somme pignorate fino alla concorrenza del

credito, oltre successive occorrende;

HO INVITATO

ai sensi dell’art. 492 co. 2 c.p.c., il debitore ad effettuare presso la cancelleria del Giudice

dell’esecuzione la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio in uno dei Comuni

del circondario in cui ha sede il Giudice competente per l’esecuzione, con l’avvertimento

che, in mancanza, ovvero in caso di irreperibilità presso la residenza dichiarata o il

domicilio eletto, le successive notifiche e comunicazioni allo stesso dirette saranno

effettuate presso la cancelleria dello stesso giudice.

HO AVVERTITO

Formalmente, ai sensi dell’art. 492 co. 3 c.p.c. il debitore stesso che ai sensi dell’art. 495

c.p.c., prima che sia disposta la vendita o l’assegnazione a norma degli artt. 530, 552 e

569, può chiedere di sostituire ai crediti o beni pignorati una somma di denaro pari

all’importo dovuto al creditore pignorante ed agli intervenuti, comprensivo del capitale,

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

98

degli interessi e delle spese, oltre che delle spese di esecuzione, sempre che, a pena di

inammissibilità, sia dal medesimo debitore depositata in cancelleria, prima che sia

disposta la vendita o l’assegnazione a norma degli artt. 530, 552 e 569 c.p.c., la relativa

istanza unitamente ad una somma non inferiore ad un quinto dell’importo del credito per

cui è stato eseguito il pignoramento e dei crediti dei creditori intervenuti indicati nei

rispettivi atti di intervento, dedotti i versamenti eventualmente effettuati, di cui deve

essere data prova documentale. Nel contempo

HO INTIMATO

Ai sensi dell’art. 543 co. 2 c.p.c., alla Banca _____________ in persona del legale

rapp.te p.t. con sede in ___________ alla via _______ n. ____, nonché alla Banca

_____________ s.p.a. in persona del suo legale rapp.te p.t., con sede di

Via________________- ____________di non disporre delle somme pignorate, oltre

successive occorrende, senza ordine del Giudice con espresso avvertimento che, in difetto,

verranno applicate le sanzioni di legge.

In pari tempo

HO NOTIFICATO

I suestesi atti di citazione e di pignoramento così di seguito:

1) al MINISTERO _____________ in persona del Ministro p.t. con sede in ________,

alla via _____________, mediante

2) al MINISTERO _____________ persona del Ministro pro-tempore domiciliato ex

lege in __________ presso l’Avvocatura dello Stato in via ____________, mediante

3) alla BANCA __________, in persona del legale rapp.te p.t., con sede in _______

alla via _________ n. _____-, mediante

4) alla Banca ___________ s.p.a. in persona del suo legale rapp.te p.t., con sede di Via

____________ - _____________

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Formula di

LUIGI VIOLA

CORTE D'APPELLO DI ..... Atto di citazione in appello ex art. 342 c.p.c. come novellato dalla L. 134/2012 PER: dott. ..... elettivamente domiciliato ai fini del giudizio di cui al presente atto in ....., presso lo studio dell'Avv. ....., C.F. ......, pec. ......., fax ......, che lo rappresenta e difende in virtù di procura a margine del presente atto (1)..... FATTO e DIRITTO In data …veniva formulato atto di citazione diretto a….nei confronti di….. In fase istruttoria emergeva che…….come desumibile da quanto scritto….. In data…venivano presentate le memorie conclusionali e, successivamente, le repliche, con cui si chiedeva…. Con sentenza n. ..... pubblicata in data ..... notificata in data….il Tribunale di ..... statuiva che…. Avverso la predetta sentenza il dott….., come sopra generalizzato e difeso, propone appello per la seguente MOTIVAZIONE(2) Con il presente scritto difensivo si impugna la suddetta sentenza esattamente nella parte di cui al n. 3, pag. 3 dove si dice che “…” ed il n. 4, pag. 4 dove si dice che “…”; si chiede la modifica di tali parti in favore di una pronuncia che affermi

Atto di appello dopo la Legge 134/2012

Schemi &

Formule

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-….. -….. Difatti, -il fatto, per come enunciato dal giudice di prime cure, non è condivisibile perché in contrasto con ……… La nuova ricostruzione è rilevante ai fini della decisione perché….. -altresì…… Si evidenzia che la richiesta è in linea con la giurisprudenza prevalente di cui alle sentenze …., così sussistendo numerosissime probabilità di accoglimento(3). Tanto affermato, l’odierno appellante CITA il ……... a comparire innanzi alla Corte d'Appello di ..... per l'udienza del ..... , con invito al convenuto a costituirsi nel termine di venti giorni prima dell'udienza indicata, ai sensi e nelle forme stabilite dall'art. 166 c.p.c., ovvero di dieci giorni prima in caso di abbreviazione dei termini, e a comparire, nell'udienza indicata, dinanzi al collegio designato ai sensi dell'art. 168 bis c.p.c., con l'avvertimento che la costituzione oltre i suddetti termini implica la decadenza di cui all'art. 343 c.p.c. (appello incidentale), per ivi sentire accogliere le seguenti CONCLUSIONI Voglia la Corte d'Appello di ....., in riforma della sentenza impugnata: ......... con vittoria delle spese e compensi, nulla escluso, alla luce del D.M. 140/2012. In base all’ 283 c.p.c., si chiede che sia sospesa in tutto (o in parte) l'efficacia esecutiva della sentenza impugnata, per le ragioni che: a).. b)…. Ai sensi dell'art. 14, D.P.R. n. 115 del 2002, si dichiara che il valore della presente causa è di € ..... Si depositano copia autentica della sentenza di primo grado e il fascicolo di primo grado dell'appellante. Città e Data Firma ------------------------ (1) La procura al difensore per il giudizio di appello deve ritenersi validamente conferita in calce o a margine della copia notificata della sentenza impugnata, quando il deposito del documento - per la cui attestazione è sufficiente il timbro e la sottoscrizione del cancelliere in calce all'indice dei documenti contenuto nel fascicolo di parte - sia avvenuto al momento

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della costituzione in giudizio (Cassazione civile 6539/2002, in Arch. Giur. Circolaz., 2003, 337). Non costituisce causa di inammissibilità dell'appello l'indicazione, in esso, da parte del difensore, di una procura invalida, se il difensore stesso sia altresì provvisto di altra procura valida anche per la proposizione del gravame, rilasciatagli in primo grado, poiché il richiamo alla sola procura invalida non indica, di per sé, la volontà implicita di non avvalersi dell'altra (Cassazione civile 19975/2005, in Guida al Diritto, 2005, 46, 59). (2) L’art.342 c.p.c. recita che l’appello deve essere motivato, a pena d’inammissibilità. La motivazione, si ritiene (VIOLA, Il nuovo appello filtrato, Pistoia, Altalex ed., 2012, 23), debba essere “rescindente e rescissoria”, ovvero contenere sia l’indicazione della parte “criticata”, sia di come si vorrebbe fosse modificata la pronuncia. Oggi la motivazione, pretesa dall’art. 342 c.p.c., impone una rivisitazione delle vecchie formule di atto di appello: bisognerà redigere l’atto con una parte rescindente ed una rescissoria, ovvero una parte che critica, spiegandone il “perché”, ed un’altra che “costruisce” la versione fattuale che si auspica. L’atto di appello diviene – per questa via – rescindente e rescissorio. (3) Poiché il giudice d’appello può dichiarare l’inammissibilità basandosi su precedenti giurisprudenziali ex art. 348 ter c.p.c., allora al fine di evitare tale pronuncia può essere utile indicare la presenza di orientamenti favorevoli all’accoglimento dell’impugnazione. Quando è pronunciata l’inammissibilità, prima di procedere alla trattazione (sentite le parti), viene emessa un’ordinanza succintamente motivata, anche attraverso il rinvio ad uno o più atti di causa e il riferimento a precedenti conformi

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di

VALERIA CONTI

La legge del 28 giugno 2012, n. 92, meglio conosciuta come legge Fornero, ha introdotto un nuovo rito, ad istruttoria sommaria, per le sole controversie aventi ad oggetto l’accertamento della legittimità del licenziamento, rito caratterizzato, come vedremo, da indubbia celerità.

Il nuovo rito processuale si articola in due fasi: una prima, sommaria, volta a garantire al lavoratore una tutela urgente che inizia e si conclude in un'unica udienza; una seconda, eventuale, che prende avvio con l’impugnazione della precedente decisione del Giudice. Quest’ultima fase si instaura con rito ordinario ex art. 414 c.p.c.

Il nuovo rito Fornero

Schemi &

Formule

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Schema della fase sommaria

¹La riforma è intervenuta, altresì, sul termine per il deposito del ricorso, non più entro

270 giorni dall’impugnazione, termine introdotto dal Collegato Lavoro, bensì 180 giorni.

Si precisa che il nuovo termine decadenziale si applica ai soli licenziamenti intimati dopo

l’entrata in vigore della legge.

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² Il nuovo rito segue la falsariga dei procedimenti cautelari ex art. 700 c.p.c. Viene

meno, tuttavia, la necessità di dimostrare la sussistenza dei tradizionali requisiti di

urgenza, quali, il fumus boni juris ed il periculum in mora. Sul tema della compatibilità

tra azione ex art. 700 c.p.c. e nuovo rito Fornero si veda RINALDI, Procedimento

cautelare e “nuovo” rito Fornero ex L. 92/2012: “Scompare” o viene “tollerato” l’articolo

700 c.p.c. in materia di licenziamenti?, in La Nuova Procedura Civile, 1, 2013.

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Schema della fase eventuale (di opposizione)

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106

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107

DI

MARCO MECACCI

A) I PRINCIPI CHE REGOLANO LE NULLITÀ PROCESSUALI

La nullità è un vizio dell'atto processuale che consegue alla mancata osservanza dei requisiti obbligatori di forma – contenuto richiesti dal codice di procedura civile

Non può mai essere pronunciata, se l'atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato; deve essere prevista dalla legge, o comunque conseguire all’impossibilità di perseguire la finalità dell’azione processuale.

Il disposto è diretta applicazione dei principi fissati in via generale dall’art. 121, che prevede la libertà delle forme degli atti processuali e l’impossibilità che questi possano essere invalidati quando hanno raggiunto il loro scopo.

ART. 156 RILEVANZA DELLA NULLITÀ

ART. 157 RILEVABILITÀ E SANATORIA DELLA NULLITÀ

Sempre in applicazione del principio della conservazione degli atti, la nullità è rilevabile solo su istanza di parte, a meno che la legge non disponga diversamente.

La parte che ha prodotto l’atto viziato o che ne è stata causa, non può mai invocare il vizio nel proprio interesse. Se ciò fosse possibile, le sarebbe attribuita una facoltà illimitata di vanificare gli effetti del suo comportamento.

Allo stesso modo, non ha legittimazione ad eccepire la nullità, la parte che a questa abbia liberamente rinunziato.

Schemi &

Formule

Le nullità processuali

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Il limite temporale per la pronuncia sulle nullità relativa, derivante dalla necessità di garantire la massima stabilità possibile al processo, è la prima istanza successiva all’atto o alla sua notizia.

Il principio ha carattere generale, e si applica a tutte le nullità processuali ad eccezione di quelle di carattere insanabile.

ART. 159 DIMENSIONE ED ESTENSIONE DELLE NULLITÀ PROCESSUALI

Il principio è sempre quello della massima conservazione possibile degli atti interni al processo.

La nullità, tuttavia, si estende all’atto che ne è affetto e a tutti quelli successivi che da questo dipendono.

Qualora riguardi una sola parte dell’atto, non si estende all’intero ove ne sia possibile la conservazione.

ART 162 PRONUNCIA SULLA NULLITÀ

Sempre nell’ottica di un’interpretazione funzionale dello strumento processuale, e dell’evidente favor verso la conservazione degli atti, si dispone che il giudice, ove sia possibile, ordini la rinnovazione degli atti processuali viziati.

In conseguenza della causa di nullità processuale, è inoltre attribuito al giudice il potere di sanzionare la parte che è stata causa della nullità, ponendo a suo carico le spese della rinnovazione.

Su istanza di parte, è previsto che il responsabile possa essere condannato al risarcimento dei danni quando il vizio processuale sia a lui imputabile per dolo o colpa grave.

Nella pratica si tratta di ipotesi di pressoché nulla ricorrenza.

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B) LE TIPOLOGIE DI NULLITÀ PROCESSUALE

CARATTERI DELLE NULLITÀ Si distinguono nullità sanabili (a) e nullità insanabili (b). Le prime possono essere oggetto di sanatoria per convalidazione oggettiva, cioè divenire atti processuali validi qualora abbiano raggiunto lo scopo o non siano state comunque rilevate nei tempie nelle forme regolate dal codice. Sono ugualmente sanabili, gli atti processuali che possono essere oggetto di rinnovazione. Le nullità insanabili, non possono essere in alcun modo convalidate e sono rilevabili in ogni stato e grado del processo

(a) NULLITÀ SANABILI

Sono previste espressamente dalla disciplina generale del codice ed attengono a tre precise tipologie.

(a1) ATTI PROCESSUALI

L’atto processuale è viziato, e pertanto nullo, soltanto quando sia totalmente inidoneo al raggiungimento del suo scopo (art. 156)

(a2) NOTIFICAZIONE

L’atto notificato è nullo, qualora non siano state osservate le disposizioni sulla persona cui deve essere consegnata la copia, o se vi processuale è incertezza assoluta sulla persona o sulla data. La notificazione è comunque valida quando l’atto ha raggiunto lo scopo ed è stato validamente indirizzato al destinatario, o quando il vizio non sia stato eccepito nelle forme di rito (art. 160)

(b1) COSTITUZIONE DEL GIUDICE

Il vizio relativo alla costituzione del giudice o del PM è sempre rilevabile in ogni stato e grado della fase processuale. Tuttavia diviene motivo di sola impugnazione qualora sia stata pronunciata sentenza (art. 158).

(b2) MANCATA SOTTOSCRIZIONE DELLA SENTENZA

È un vizio insanabile ma di rara verificazione (art. 161 comma 2), interpretato in senso restrittivo dalla giurisprudenza sempre nell’ottica della conservazione degli atti. Alla mancanza della sottoscrizione, si aggiunge la c.d. “sentenza incerta o impossibile”.

(b) NULLITÀ INSANABILI

Sono previste espressamente da alcune disposizioni del codice di procedura civile, oppure sono individuate dalla giurisprudenza a seguito di applicazione dei principi fondamentali del processo.

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(a3) SENTENZA

I vizi relativi alla sentenza, possono essere fatti valere unicamente nelle forme e nei limiti dei giudizi di impugnazione.

La disposizione opera una generale e molto ampia conversione legale dei motivi di nullità in motivi d’impugnazione, rendendo così non più rilevabili, e dunque convalidando, le nullità processuali verificatesi nel corso del giudizio. (Art. 161 comma 1).

(b3) MANCATA INTEGRAZIONE DEL CONTRADDITTORIO

Le conseguenze della mancata integrazione del contraddittorio, cioè dell’omessa evocazione in giudizio di una parte necessaria, senza la quale il processo non può svolgersi, sono regolate dall’articolo 102, comma 2, che impone al giudice di ordinare la comunicazione di tutti gli atti relativi al procedimento quando risulti che il processo avrebbe dovuto necessariamente svolgersi tra più parti e sia stato promosso solo da alcune o contro alcune.

Il vizio di mancata integrazione del contraddittorio è parzialmente insanabile. Qualora il vizio emerga nel corso della fase processuale, o successivamente, e non sia stato sanato, si determina una nullità insanabile che impone la regressione alla fase iniziale (art 354 e 383). In ipotesi marginali, può essere sanato, nei giudizi successivi, dalla mancata precedente rilevazione in sede d'impugnazione (es. a seguito di giudizio rescindente da parte della cassazione che tale difetto non abbia rilevato)

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111

di

VALERIA VASAPOLLO

Sommario: 1.1. L’onere della prova: l’art. 2697 c.c. 1.2. La regola generale dell’onere

probatorio 2. Presunzioni 2.1. Presunzioni legali assolute (iuris et de iure) 2.2. Presunzioni

legali relative (iuris tantum) 2.3. Presunzioni semplici 3. L’inversione pattizia dell’onere

probatorio 4. Fatti pacifici e fatti non contestati 5. Fatti notori 6. Il regime dell’onere della

prova delle norme applicabili.

1.1. L’onere della prova: l’art. 2697 c.c.

In tema di prove, il nostro ordinamento conosce tre principi cardine previsti, rispettivamente,

dall’art. 115 c.p.c. (disponibilità della prova secondo cui il giudice deve porre a fondamento

della decisione le prove proposte dalle parti), dall’art. 116 c.p.c. (principio della valutazione

della prova secondo il prudente apprezzamento del giudice) e dall’art. 2697126 c.c. ( principio

dell’onere della prova).

126 Così recita:

Il riparto dell’onere probatorio

Schemi &

Formule

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112

L’antico brocardo “onus probandi incumbit ei qui dicit; reus in excipiendo fit actor” è

richiamato nel nostro codice all’art. 2697 c.c.. secondo cui; “Chi vuol far valere un diritto in

giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.

Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto

deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda”

Il detto articolo, secondo la migliore dottrina127 ha una duplice funzione:

In primis, ripartisce, tra le parti del processo, l’onere di provare i fatti costituenti il

fondamento delle loro ragioni.

Da un’altra ottica, si inserisce coerentemente nel sistema del nostro processo, in quanto

permette al giudice, che non sia convinto della bontà della tesi attorea o di quella del

convenuto, per carenza di raggiungimento della prova, di emettere una pronuncia, sia essa di

accoglimento o rigetto.

Vi è dunque un raccordo tra l’articolo 116 c.p.c., (principio del libero convincimento) e la

norma di cui all’art. 2697, in quanto se il giudice non perverrà al convincimento della verità

dei fatti , dovrà risolvere la controversia in base a quanto previsto dall’art. 2697 c.c.

La norma è dunque, occasione di supporto al giudice in ordine al divieto di non liquet

(divieto pubblicistico di esimersi dal pronunciare), poiché questi, nell’ipotesi di

mancato convincimento applicherà il principio di soccombenza della parte che non ha

fornito la prova dei fatti allegati.

L’eventuale difetto di prova o l’incertezza dei fatti posti a fondamento della pretesa attorea,

infatti, devono tradursi in una pronuncia di rigetto definitivo.

Dall’art. 2697, quindi, emerge una regola formale di giudizio, con carattere residuale, in forza

della quale, se le risultanze istruttorie non offrono elementi idonei e sufficienti per

l’accertamento pieno dei fatti allegati, va dichiarata la soccombenza della parte che aveva

l’onere di darne la prova.

In tal modo, si previene ogni rischio di astensione dal decidere ed in ossequio al divieto di

non liquet, si rende possibile la pronuncia del giudice.

Nonostante l’onere in capo alle parti, di provare i rispettivi fatti allegati, vi è da sottolineare,

che il giudice può accogliere la domanda, anche se l’attore non ha fornito la prova dei fatti

I. Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.

II. Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda.

127 PATTI, Le Prove, Milano, 2010, 48; COMOGLIO, Le prove civili, Torino, 2010, 258.

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113

costituenti la propria pretesa, qualora, in corso di giudizio, emergano prove a lui favorevoli,

provenienti anche dal convenuto.

In tale ipotesi il Giudice, per il principio di acquisizione della prova, dovrà emettere una

sentenza favorevole alla parte, nonostante essa non abbia dato la prova dei fatti allegati,

purchè questi siano emersi e provati in corso di causa.

In sintesi la prova produce per intero l’effetto che è idonea a produrre,

indipendentemente dal soggetto che l’ha dedotta, purchè ritualmente acquisita128.

1.2 La regola generale dell’onere probatorio

Nel sistema processuale italiano, come noto, l’istruzione probatoria è rimessa all’iniziativa

processuale delle parti.

La regola generale in tema di onere probatorio è sancita dall’art. 2697 c.c. che ripartisce e

distribuisce il rischio della prova tra le parti, le quali devono provare in positivo o in

negativo i fatti allegati.

Segnatamente l’art. 2697 c.c. richiede all’attore di provare i fatti che costituiscono il

fondamento del diritto per cui si agisc ; il convenuto, specularmente, ha l’onere di

provare i fatti costituenti le proprie eccezioni, siano esse relative all’inefficacia dei fatti

allegati da controparte, nonchè di provare i fatti modificativi o estintivi del diritto

azionato.

Vi è da fare una precisazione: a ben guardare l’art. 2697 non fa menzione della figura di

attore o convenuto ma usa le locuzioni “ chi vuol far valere un diritto” e “chi eccepisce

l’inefficacia di tali fatti….” . Ciò in quanto se è pur vero che generalmente è l’attore a voler

far valere un diritto in giudizio, vi sono molteplici casi in cui l’attore nega l’esistenza del

diritto altrui (es. art. 949 c.c in tema di azione negatoria)

I fatti allegati dalle parti possono suddividersi in :

- fatti costitutivi, cui la legge ricollega determinati effetti giuridici;

- fatti impeditivi, che incidono negativamente sulla struttura del fatto costitutivo,

precludendo la produzione dell’effetto;

- fatti modificativi che mutano l’oggetto o il contenuto dell’effetto giuridico;

- fatti estintivi che determinano il caducare dell’effetto giuridico .

La norma in esame, è stata considerata in dottrina norma in bianco, in quanto opera una

sorta di rinvio necessario alle singole norme di diritto sostanziale da applicare nella

128 Cass. civ., Sez. V, 12 agosto 2010, n. 18647.

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114

fattispecie concreta al fine di individuare per ogni singolo caso quale siano gli elementi

costitutivi, impeditivi, modificativi ed estintivi della fattispecie129.

A titolo esemplificativo parte attrice, quali fatti costitutivi, dovrà provare:

a) Il titolo originario o derivativo, di acquisto della proprietà o dei diritti reali di

godimento, nelle azioni promosse per la loro tutela (artt. 948,949, 1079 c.c.);

b) Il contratto di compravendita o di locazione, quale titolo per la consegna della cosa

alienata o locata, (art.. 1470, 1476, 1477, 1571,1575 );

c) Il contratto di mutuo, quale titolo per restituzione delle somme mutuate ed

effettivamente consegnate al mutuatario ( artt. 1813-1819)

d) Il conferimento dell’incarico di prestazione professionale , quale titolo genetico per il

diritto al compenso (artt. 2230-2233);

e) fonte, negoziale o legale, del diritto nel caso di responsabilità contrattuale

f) Il fatto lesivo (condotta umana- nesso eziologico -evento lesivo), la colpevolezza -il

danno ed il nesso eziologico tra fatto e danno , per ciò che riguarda la responsabilità

aquiliana ex art. 2043 c.c.

Specularmente, il convenuto dovrà provare ad esempio:

a) La nullità del contratto in quanto difetta di uno dei requisiti indicati dall'articolo 1325

c.c., cioè 1) l'accordo delle parti, 2) la causa, 3) l'oggetto, 4) la forma, se prescritta

sotto pena di nullità (fatto impeditivo)

b) Il mancato avveramento di una condizione o termine non ancora scaduto(fatto

impeditivo)

c) I possibili vizi del consenso artt. 1427 c.c. e ss.;

d) L’ incapacità di intendere e di volere al momento della stipula del contratto art. 1425

e) La prescrizione (fatto estintivo)

f) Il pagamento, remissione del debito (fatto estintivo)

g) La cessione del credito (fatto estintivo)

2. Presunzioni

Esaminata la regola generale, è d’obbligo porre l’attenzione alle sue eccezioni.

Il nostro ordinamento, infatti, prevede delle ipotesi particolari, in cui le norme dettano regole

“eccezionali” circa la prova sui fatti, così determinando un’inversione dell’onere probatorio.

E’ il caso delle presunzioni e dell’inversione dell’onere probatorio convenzionale.

129 ANDRIOLI, Prova ( dir. Proc. Civ.), in Noviss. Dig. It, XIV , Torino, 1967, 293.

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Ai sensi dell’art. 2727 c.c. le presunzioni sono “le conseguenze che la legge o il giudice trae

da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato”.

La norma, pur contenendo una definizione unitaria delle presunzioni indica due tipi di

presunzioni :

1) Presunzioni legali, espressamente previste dalla legge;

2) Presunzioni semplici, elaborate di volta in volta dal Giudice nel corso del giudizio.

2.1. Presunzioni legali assolute (iuris et de iure)…

Le presunzioni legali esonerano la parte, a favore della quale sono ammesse, dall’onere di

provare determinati fatti allegati.

All’interno delle presunzioni legali è possibile operare un ulteriore riparto in presunzioni

legali (iuris et de iure) e presunzioni relative (iuris tantum).

Le presunzioni legali assolute, ex art. 2728130 c.c. non ammettono prova contraria . Il

fatto deve essere ritenuto dimostrato, senza che vi sia alcuna possibilità di provare il

contrario.

L’esempio più utilizzato è quello di cui all’art 599 c.c. che, in tema di capacità a ricevere per

testamento, prevede che le disposizioni testamentarie a vantaggio delle persone incapaci,

indicate dagli articoli indicate dagli articoli 596, 597 e 598, sono nulle anche se fatte sotto

nome d'interposta persona.

Altri esempi sono rinvenibili in tema di capacità di agire (art. 2 c.c.), commorienza (art. 4

c.c.), concepimento in costanza di matrimonio (232 c.c.); beni immobili ( art. 812 c.c.),

azione revocatoria fallimentare (art. 67 l.f.)

2.2. Presunzioni legali relative (iuris tantum)

Presunzioni legali relative o iuris tantum sono quelle per cui la legge fa salva la prova

contraria.

La presunzione relativa impone , quindi , al giudice di considerare provato il fatto presunto in

assenza di prova contraria.

130 Così recita:

I. Le presunzioni legali dispensano da qualunque prova coloro a favore dei quali esse sono stabilite.

II. Contro le presunzioni sul fondamento delle quali la legge dichiara nulli certi atti o non ammette l'azione in giudizio non può essere data prova contraria, salvo che questa sia consentita dalla legge stessa.

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In tal modo, la presunzioni incidono sul riparto dell’onere probatorio, determinandone

un’inversione rispetto a quanto previsto dalla regola generale di cui all’art. 2697 c.c.,

dispensando dalla prova di alcuni fatti ed imponendo al giudice di considerare veri

determinati fatti in difetto di prova contraria.

In ipotesi di presunzioni legali relative la controparte ha l’onere di provare che non sussiste o

non è vero il fatto presunto.

Le presunzioni iuris tantum sono un fenomeno ricorrente nel nostro ordinamento. A titolo

esemplificativo:

a) Presunzione di possesso intermedio secondo cui “Il possessore attuale che ha

posseduto in tempo più remoto si presume che abbia posseduto anche nel tempo

intermedio.” (art. 1142)

b) Presunzione di comunione del muro forzoso ( art. 880)

c) Presunzione di pagamento a favore del debitore cui il creditore restituisca

volontariamente i documenti del credito (art. 1237 c.c.);

d) Presunzione di colpa del debitore nella responsabilità contrattuale ex art. 1218 che

pone a carico del debitore l’onere di provare che l’inadempimento o il ritardo è stato

determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non

imputabile131.

e) Presunzione di Presunzione di colpa in materia di responsabilità extracontrattuale ex

art. 2050 c.c. , (Responsabilità per l'esercizio di attività pericolose - il danneggiato

deve provare il nesso di causalità tra attività pericolosa e evento dannoso mentre il

convenuto deve provare di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno);

art. 2051 c.c. ( Danno cagionato da cosa in custodia- il danneggiato deve provare il

nesso di causalità cosa e l'evento lesivo, mentre il convenuto deve provare il caso

fortuito132); Art. 2052 (Danno cagionato da animali- il danneggiato deve provare il

nesso di causalità tra evento dannoso ed animale , mentre il convenuto deve provare il

Caso fortuito) Art. 2053;

(Rovina di edificio – si presume la colpa del proprietario dell’edificio; il danneggiato

deve provare il nesso tra danno e la rovina, il responsabile deve provare che la

rovina non è dovuta a difetto di manutenzione o a vizio di costruzione) ; Art. 2054

131 Per un’attenta disamina sull’inadempimento si veda VIOLA, Inadempimento delle obbligazioni, accertamento, oneri probatori, danni patrimoniali e non patrimoniali, Padova, 2010; Cass. Civ. SS.UU., sentenza 30.10.2001 n° 13533; Cass. Civ. SS.UU 577/08; Cass. Civ. 17143/12

132 Cassazione civile, sezione terza, sentenza del 21.3.2013, n. 7125

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(Circolazione di veicoli),

f) Presunzione di conoscenza in tema di proposta, accettazione o revoca (Art 1335 c.c.)

g) presunzione di colpa a carico del conduttore ai sensi dell’ art. 1588 cod. civ., in base al

quale il conduttore risponde della perdita e del deterioramento della cosa locata anche

se derivante da incendio, qualora non provi che il fatto si sia verificato per causa a lui

non imputabile.

h) Presunzione di onerosità del mandato (art. 1709 c.c.)

i) Presunzione di gratuità del deposito (art. 1767 c.c.)

j) Presunzione di colpa in materia di risarcimento danno per concorrenza sleale ( art.

2600 c.c.)

2.3. Presunzioni semplici

Le presunzioni semplici o hominis, ex art 2729 c.c., vengono elaborate dal Giudice nel corso

del giudizio e, diversamente da quelle legali, hanno valore esclusivamente per il caso deciso.

Esse, quindi, sono ragionamenti logici che consentono di desumere l’esistenza di un fatto

ignoto prendendo le mosse da un fatto noto secondo la regola dell’ id quod plerumque accidit.

Le presunzioni semplici, sono lasciate alla prudenza del giudice il quale incontra, tuttavia,

due limitazioni nell’ ammissibilità delle stesse.

In effetti la norma prevede che le presunzioni debbano essere gravi (rilevante grado di

continuità logica tra fatto noto e quello ignoto) precise (oggettiva certezza del fatto noto) e

concordanti (univoco significato di una serie di elementi indiziari) e che esse non possano

essere utilizzate nei casi in cui è esclusa la prova per testimoni.

3. L’inversione pattizia dell’onere probatorio.

Oltre che dalla legge, l’inversione dell’onere probatorio può essere determinato dalla volontà

delle parti.

In effetti, ai sensi dell’art. 2698 c.c., anche le parti hanno la possibilità di invertire o

modificare l’onere della prova mediante appositi patti.

Tale potere viene riconosciuto dall’art. 2698 c.c., il quale ne sanziona la nullità nelle ipotesi

in cui l’inversione o la modificazione abbiano ad oggetto diritti indisponibili o quando

rendano eccessivamente difficile l’esercizio del diritto (vessatorietà delle clausole).

L’inversione pattizia dell’onere della prova, “ in mancanza di apposito patto ex art. 2698 c.c.,

può risultare anche dal comportamento processuale della parte, ma, affinché ciò si verifichi,

non è sufficiente che la parte sulla quale non grava l’onere deduca od anche offra la prova,

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occorrendo, invece, la inequivoca manifestazione della parte medesima di voler rinunciare ai

benefici ed ai vantaggi che le derivano dal principio che regola la distribuzione dell’onere

stesso e di subire le conseguenze dell’eventuale fallimento della prova dedotta od offerta133»

4. Fatti pacifici e fatti non contestati.

Secondo la giurisprudenza maggioritaria i fatti sono considerati pacifici in tre ipotesi:

a) Quando la controparte li ammette esplicitamente;

b) Quando la controparte imposta la propria difesa su argomenti logicamente

incompatibili con il loro disconoscimento;

c) Quando la controparte si limiti a contestare esplicitamente e specificamente alcune

circostanze, riconoscendo con ciò implicitamente le altre

Trattasi, quindi, di fatti ammessi esplicitamente od implicitamente134.

L’effetto della pacificità è il seguente: i fatti pacifici non hanno bisogno di essere provati.

Vi è da precisare che i fatti pacifici, per loro natura, andrebbero provati , tuttavia, l’assenza di

contestazione dell’altra parte rende superflua la prova dei fatti stessi.

L’orientamento giurisprudenziale già consolidato in materia di non contestazione 135è stato

codificato ad opera della L. 69/09 , che modificando il promo comma dell’art 115 c.p.c. ha

statuito che “Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della

decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero nonché i fatti non

specificatamente contestati dalla parte costituita” 136.

Il Giudice, con la nuova formulazione della norma in oggetto, che ha determinato l’ingresso

formale del principio di non contestazione nel nostro ordinamento, deve necessariamente

porre a fondamento della domanda i fatti che non siano stati specificatamente contestati dalla

parte costituitasi in giudizio137.

133 Cass. Civ. 14306/05

134 Cass. n. 14880/2002, Cass. n. 13814/2002, Cass. n. 9741/2002, Cass. n. 13904/2000, Cass. n. 10434/2000, Cass. n. 9424/2000, Cass. n. 11513/1999.

135 Su tutte Cass. Civ. SS.UU. 762/02.

136Sul tema: BUFFONE, L’onere di contestazione nella Legge 69/2009, in Altalex.it, 2010; SASSANI, L’onere della contestazione, in judicium.it, 2009; VIOLA, Il nuovo principio di non contestazione alla luce della prima giurisprudenza, in Altalex.it, 2010; VIOLA, L'udienza di prima comparizione ex art.183 c.p.c, Milano, 2011, 172.

137 Cassazione civile, sez. VI 21 agosto 2012, in IlCaso.it, 2012; Corte di Appello di Firenze, Sez. II, 19.9.2011 in ilProcessoCivile.com, 2011.

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Il mancato assolvimento dell’onere di contestazione, purchè non in pendenza di processo

contumaciale (la norma richiede che la parte sia costituita), comporta una vera e propria

relevatio ab onere probandi, in capo alla parte che inizialmente era onerata di provare i fatti

ai sensi dell’art. 2697 c.c., con la conseguenza che il giudice dovrà ritenerli provati.

5. I fatti notori

I fatti notori sono nozioni che rientrano nella comune esperienza; fatti , cioè, acquisiti alla

conoscenza della collettività con tale grado di certezza da apparire incontestabili.

Il codice di rito all’art. 115, II comma, stabilisce che il giudice “può tuttavia, senza bisogno

di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune

esperienza”.

La giurisprudenza definisce notorie “le nozioni di fatto che fanno parte del bagaglio di

conoscenza di ogni uomo di media cultura in un certo luogo e in un certo momento storico,

senza necessità di ricorso a particolari informazioni o giudizi tecnici”138. Diversamente, il

ricorso alle nozioni di comune esperienza (fatto notorio), comportando una deroga al

principio dispositivo ed al contraddittorio, in quanto introduce nel processo civile prove non

fornite dalle parti e relative a fatti dalle stesse non vagliati né controllati, va inteso in senso

rigoroso, e cioè come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di

certezza da apparire indubitabile ed incontestabile; di conseguenza, non si possono reputare

rientranti nella nozione di fatti di comune esperienza, intesa quale esperienza di un individuo

medio in un dato tempo e in un dato luogo, quegli elementi valutativi che implicano

cognizioni particolari, o anche solo la pratica di determinate situazioni, né quelle nozioni che

rientrano nella scienza privata del giudice, poiché questa, in quanto non universale, non

rientra nella categoria del notorio”139.

6. Il regime dell’onere delle prova delle norme applicabili

Generalmente per il principio “iura novit curia” (art 113 c.p.c.) incombe sul Giudice l’onere

di conoscere ed applicare le norme giuridiche.

Tale principio viene meno per alcune fonti che per la loro peculiare natura si reputa possano

esulare dal bagaglio di conoscenza del Giudice. Tali casi particolari possono intravedersi

nelle consuetudini , nei contratti collettivi nazionali, nel diritto antico.

138 Cass. n. 2859/1995.

139 Cass. Sentenza n. 23978 del 19/11/2007;.

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Nelle dette ipotesi, è opportuno che la parte indichi le norme nei propri atti o addirittura le

alleghi anche per estratto, assistendo così il giudice nell’acquisizione della conoscenza del

dato normativo.

Quanto al diritto straniero, la legge 218/1995 ha esteso il principio iura novit curia anche al

diritto straniero, stabilendo, all’art. 14, relativo alla “conoscenza della legge straniera

applicabile”, che “l’accertamento della legge straniera è compiuto d’ufficio dal giudice.

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REGOLA GENERALE RIPARTIZIONE ONERE : ART. 2697 C.C:

I. Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento II. Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si e' modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda

ATTORE : art. 2697, I comma, c.c.

CONVENUTO: art. 2697, II comma, c.c.

Onere di Provare i fatti che costituiscono il fondamento della propria pretesa

(fatti costitutivi)

Onere di provare i fatti costituenti le proprie eccezioni, relative all’inefficacia dei fatti allegati da controparte, nonchè i fatti modificativi o estintivi del diritto azionato

(fatti impeditivi – modificativi-estintivi)

Esempi:

a) Il titolo originario o derivativo, di acquisto della proprietà o dei diritti reali di godimento, nelle azioni promosse per la loro tutela (artt. 948,949, 1079 c.c.);

b) Il contratto di compravendita o di locazione, quale titolo per la consegna della cosa alienata o locata, (art.. 1470, 1476, 1477, 1571,1575);

c) Il contratto di mutuo, quale titolo per restituzione delle somme mutuate ed effettivamente consegnate al mutuatario ( artt. 1813-1819)

d) Il conferimento dell’incarico di prestazione professionale , quale titolo genetico per il diritto al compenso (artt. 2230-2233);

e) fonte, negoziale o legale, del diritto nel caso di responsabilità contrattuale

f) Il fatto lesivo (condotta umana- nesso eziologico -evento lesivo), la colpevolezza -il danno ed il nesso eziologico tra fatto e danno , per ciò che riguarda la responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.

Esempi:

a) La nullità del contratto in quanto difetta di uno dei requisiti indicati dall'articolo 1325 c.c., cioè 1) l'accordo delle parti, 2) la causa, 3) l'oggetto, 4) la forma, se prescritta sotto pena di nullità (fatto impeditivo)

b) Il mancato avveramento di una condizione o termine non ancora scaduto(fatto impeditivo)

c) I possibili vizi del consenso artt. 1427 c.c. e ss.;

d) L’ incapacità di intendere e di volere al momento della stipula del contratto art. 1425

e) La prescrizione (fatto estintivo) f) Il pagamento, remissione del debito (fatto

estintivo) g) La cessione del credito (fatto estintivo)

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ECCEZIONI ALLA REGOLA GENERALE :

INVERSIONE DELL’ONERE PROBATORIO

EX LEGE : PRESUNZIONI LEGALI (ART.

2727 E 2728 C.C. )

DI NATURA CONVENZIONALE:

INVERSIONE PATTIZIA DELL’ONERE PROBATORIO (ART. 2698 C.C.)

Esempi:

a) Presunzione di possesso intermedio secondo cui “Il possessore attuale che ha posseduto in tempo più remoto si presume che abbia posseduto anche nel tempo intermedio.” (art. 1142 c.c.) (Cass. civ. sez. II, 23 luglio 2010, n. 17322)

b) Presunzione di comunione del muro forzoso ( art. 880 c.c.) (Cass. civ., sez. III, 29 ottobre 2001, n. 13406)

c) Presunzione del termne per adempiere posto in favore del debitore (art. 1184 c.c) (Cass. civ., sez. II, 16 novembre 2001, n. 14429)

d) Presunzione di pagamento a favore del debitore cui il creditore restituisca volontariamente i documenti del credito (art. 1237 c.c.) (Cass. civ. sez. I, 03 giugno 2010, n. 13462);

e) Presunzione di colpa del debitore nella responsabilità contrattuale ex art. 1218 che pone a carico del debitore l’onere di provare che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. (Cass. Civ. SS.UU., sentenza 30.10.2001 n°

13533 App. Trieste, sez. II, 23 gennaio 2013, n. 54)

f) Presunzione Responsabilità per l'esercizio di attività pericolose ex art. 2050 c.c. → il danneggiato deve provare il nesso di causalità tra attività pericolosa e evento dannoso mentre il convenuto deve provare di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno (Cass. civ. sez. III, 24 luglio 2012, n. 12900)

g) Presunzione Responsabilità per Danno cagionato da cosa in custodia;art. 2051 c.c. →- il danneggiato deve provare il nesso di causalità cosa e l'evento lesivo, mentre il convenuto deve provare il caso fortuito (Cassazione civile, sezione terza, sentenza del 21.3.2013, n. 7125)

h) Presunzione responsabilità Danno cagionato da animali Art. 2052 → il danneggiato deve provare il nesso di causalità tra evento dannoso ed animale , mentre il convenuto deve provare il caso fortuito (App. Roma, sez. IV, 22 febbraio 2012 ; Cass. civ. sez. III, 06 dicembre 2011, n. 26205)

i) Presunzione responsabilità Rovina di edificio Art. 2053.(– si presume la colpa del proprietario dell’edificio; il danneggiato deve provare il nesso tra danno e la rovina, il responsabile deve provare che la rovina non è dovuta a difetto di manutenzione o a vizio di costruzione) ;

j) Presunzione di colpa del conducente nella Circolazione di veicoli Art. 2054, Cass. civ. sez. III, 14 marzo 2013, n. 6559; Cass. civ. sez. III, 10 dicembre 2012, n. 22381

Continua.....

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ULTERIORI ECCEZIONI ALLA REGOLA GENERALE :

k) Presunzione di conoscenza in tema di proposta, accettazione o revoca (Art 1335 c.c.)(cass. civ.

sez. III, 22 novembre 2012, n. 20583)

l) presunzione di colpa a carico del conduttore ai sensi dell’ art. 1588 c.c., in base al quale il

conduttore risponde della perdita e del deterioramento della cosa locata anche se derivante da

incendio, qualora non provi che il fatto si sia verificato per causa a lui non imputabile. (Cass. civ.

sez. III, 17 maggio 2010, n. 11972)

m) Presunzione di onerosità del mandato (art. 1709 c.c) (Cass. civ., sez. III, 15 maggio 1998, n. 4912)

n) Presunzione di gratuità del deposito (art. 1767 c.c.)

o) Presunzione di colpa in materia di risarcimento danno per concorrenza sleale ( art. 2600 c.c.)

(Trib. Torino, 15 settembre 1990)

FATTI PACIFICI

1) fatti ammessi implicitamente dalla controparte;

2) fatti specificatamente contestati dalla parte costituita (art. 115, I comma c.p.c.)

IL GIUDICE DEVE RITENERLI PROVATI ex art. 115, I comma, c.p.c. → Cass. civ. sez. III, 13 febbraio 2013, n. 3576; Cass. civ. sez. lav., 22 gennaio 2013, n. 1462; Cassazione civile, sez. VI 21 agosto 2012 ; Tribunale di Trento, sentenza del 9.2.2012;Cassazione civile, Sezioni Unite, sentenza del 22.11.2010, n. 23595

FATTI NOTORI

Nozioni che rientrano nella comune esperienza (art. 115 , II comma c.p.c.)

IL GIUDICE PUÒ RITENERLI PROVATI” ex art. 115, II comma, c.p.c.:-→ Cass. civ.

sez. V, 05 ottobre 2012, n. 16959 Cass. civ.

sez. III, 10 aprile 2012, n. 5644

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Massima Poichè l’art. 700 c.p.c. deve costituire l’extrema ratio, l’unico strumento fruibile per far valere, in via d’urgenza, il bene della vita di cui si teme la compromissione, deve ritenersi che, in genere, il ricorso ex art. 700 c.p.c. sia precluso non solo quando esista un istituto processuale idoneo ad assicurare la tutela agognata ma anche quando esista la facoltà, per il ricorrente, di invocare una previsione contrattuale – di natura, dunque, sostanziale – che sia idonea ad assicurare la medesima utilitas del rimedio processuale. Deve escludersi che la facoltà di recesso sia idonea a consentire alla ricorrente il conseguimento della medesima utilitas giuridica del proposto ricorso ex art. 700 c.p.c. quando l’esercizio della stessa implichi esborsi particolarmente onerosi.

Attivabile il rimedio ex art. 700

c.p.c. quando l’esercizio dell’eventuale diritto di recesso

implichi esborsi onerosi

Sentenza Tribunale di Brindisi,

ordinanza del 29.1.2013

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LA SENTENZA PER ESTESO

Tribunale di Brindisi, ordinanza del 29.1.2013 TRIBUNALE DI BRINDISI Sezione Civile Il Tribunale, riunito in camera di consiglio e composto dai seguenti Magistrati: Dott. C. Almiento Presidente Dott. P. Lisi Dott. C. Antonio I. Natali rel. Con ricorso in data 14.11.2012 (notificato in data 22.11.2012 unitamente al provvedimento di fissazione di udienza), la Banca Monte dei Paschi di Siena spa ha proposto reclamo, ex art. 669 terdecies, avverso l’ordinanza del 30.10.2012, con la quale si ordinava alla M.P.S. “di sospendere ogni attività volta alla esecuzione del contratto di interest swap stipulato inter partes in data 15-30.3.2006; di non dare attuazione coattiva ad eventuali pretese creditorie da esso originate; di astenersi dal procedere ad ulteriori operazioni di addebito delle somma in base a tale contratto dovute dalla Carparelli a titolo di c.d. differenziali negativi di astenersi da qualsivoglia segnalazione periodica alla Centrale Rischi riguardante la esposizione riveniente dal contratto di IRS per cui è causa sino alla definizione del giudizio di merito”. La reclamante ha chiesto che, «in accoglimento del reclamo proposto, il ricorso proposto ven(isse) dichiarato inammissibile e/o improponibile ovvero infondato. Con vittoria di spese e competenze del giudizio». In via pregiudiziale, quanto alla pretesa inammissibilità del ricorso per la supposta

insussistenza del requisito della residualità del mezzo, la reclamante si duole che il provvedimento impugnato non avrebbe tenuto in alcun conto l’eccezione de qua. In particolare, assume che la domanda cautelare sarebbe inammissibile in quanto il contratto di interest rate swap «a prescindere dal collegamento essenziale o meno con i contratti di mutuo, (conterrebbe) nella sua regolamentazione pattizia la possibilità di estinzione anticipata, sicché ……il risultato richiesto p(oteva) autonomamente essere conseguito mediante l’esercizio del diritto di recesso anticipato espressamente previsto dal contratto». La reclamante richiama, cioè, le previsioni contrattuali (art. 16 dell’accordo normativo in data 15.3.2006 ed atti di conferma dell’operazione in data 20.3.2006), per cui “ciascuna delle parti av(eva) facoltà di estinguere anticipatamente” il contratto. Nondimeno, non sembra costituire punto controverso tra le parti che se il cliente fosse receduto, questi avrebbe dovuto pagare una penale (nella specie, ammontante allo 0,25 dell’importo di riferimento) e versare, soprattutto, l’eventuale importo a suo debito, una volta provvedutosi alla “liquidazione del valore di mercato (cd. Mark to market) riferito alla durata residua dello strumento regolato dallo specifico contratto”. Orbene, ritiene questo Collegio, che, in via di principio, la residualità della tutela atipica sia da escludersi quando vi sia la possibilità, per il ricorrente, di azionare altro rimedio (indifferentemente se di natura sostanziale o processuale) e questo, perché l’art. 700 c.p.c. deve costituire l’extrema ratio, l’unico strumento fruibile per far valere, in via d’urgenza, il bene della vita di cui si teme la compromissione.

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Dunque, deve ritenersi che, in genere, il ricorso ex art. 700 c.p.c. sia precluso non solo quando esista un istituto processuale idoneo ad assicurare la tutela agognata ma anche quando esista la facoltà, per il ricorrente, di invocare una previsione contrattuale – di natura, dunque, sostanziale – che sia idonea ad assicurare la medesima utilitas del rimedio processuale. Ciò premesso, nel caso di specie, deve escludersi che la clausola contrattuale concernente il recesso (e la facoltà di anticipata risoluzione del contratto di swap) sarebbe stata idonea a consentire alla ricorrente il conseguimento della medesima utilitas giuridica del proposto ricorso ex art. 700 c.p.c. E ciò proprio per la sua idoneità a dare luogo ad esborsi particolarmente onerosi. In particolare, non è contestato che l’anticipata risoluzione del contratto di swap avrebbe comportato il pagamento, da parte della Carparelli, di una penale e del c.d. mark to market (allo stato pari a circa € 250.000,00). Va poi condiviso, sempre in base ad una valutazione sommaria, tipica della fase cautelare, l’assunto della reclamata relativo alla configurabilità di un collegamento negoziale – di tipo, però, funzionale e non anche temporale - tra i diversi strumenti contrattuali. Infatti, la causa del contratto di swap, appare, prima facie, costituita da una finalità di copertura delle oscillazioni dei tassi, ovvero dall’interesse delle parti a neutralizzare quelle variazioni. Depone in tal senso, in primo luogo, il dato testuale dell’Accordo Normativo stipulato inter partes, che alle lettere c) ed e) prevede espressamente che “il cliente pone in essere operazioni dalle quali derivano posizioni creditorie e/o debitorie a scadenza futura denominate in euro, o altra divisa, rispetto alle quali egli intende cautelarsi dagli eventuali effetti delle variazioni dei tassi di interesse,

che potrebbero intervenire prima della scadenza delle operazioni stesse”; cosicché “è interesse del cliente concludere contratti del tipo di quelli previsti dal presente Accordo per limitare i rischi di corso e/o di tasso e/o di cambio derivanti dalle suddette operazioni” (lett. c e d dell’Accordo Normativo). Inoltre, corrobora la tesi della finalità di copertura la stipulazione, seppur non contestuale, ma in epoca temporalmente ravvicinata del contratto di interest rate swap e di quelli di finanziamento (ed, in particolare, la stipula del primo dopo l’avvio dell’ammortamento dei mutui e prima della scadenza della prima rata), ossia quanto l’esigenza di garantirsi da possibili oscillazioni era divenuta particolarmente pressante. Né ha pregio l’assunto secondo cui difetterebbe una esplicita funzione di copertura in considerazione della «rischiosità della cd. posizione base così come richiesto dalle prescrizioni Consob». Invero, la comunicazione della Consob n. DI/99013791 richiamata dalla reclamante – senza incidere sull’applicabilità dell’istituto del collegamento negoziale - si limita a stabilire che, allorché ricorrano le condizioni ivi indicate (fra le quali una espressa previsione della funzione di copertura della rischiosità della cd. posizione base), tali strumenti non sono assoggettati agli obblighi, essenzialmente informativi, riconosciuti a protezione del cliente di cui al Regolamento Consob n. 11522/1998. Dunque, la Comunicazione de qua, lungi dall’assumere la valenza di un principio generale, detta una definizione di operazione c.d. di “copertura” limitata (e, quindi, circoscritta) all’applicazione della disciplina regolamentare. Ne il valore degli elementi sopra analizzati, che univocamente depongono per una finalità di copertura, e, quindi, per uno stretto

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collegamento funzionale tra i due contratti, può essere incrinato dalla deduzione della reclamante secondo cui non ricorrerebbe la contestualità dei contratti: «il primo contratto di mutuo, per l’importo di 2.400.000,00 euro è stato sottoscritto addirittura nel gennaio del 2005 e quindi più di un anno prima del contratto di swap … (che è del marzo 2006); ed anche il contratto di mutuo (del novembre 2005 per 600.000 euro) è stato stipulato ben prima del contratto di IRS». Anche se tale circostanza risponde a verità, nondimeno, costituisce principio consolidato quello per cui la mancanza di contestualità fra più atti negoziali, non è di ostacolo ad un collegamento negoziale fra gli stessi, quando gli stessi siano, comunque, preordinati al raggiungimento di un interesse unitario. Orbene, in presenza di una risoluzione anticipata dei contratti di mutuo e venuta meno la suddetta esigenza di copertura, il contratto di swap, ad una valutazione allo stato degli atti, deve ritenersi oramai privo di giustificazione e sprovvisto di una funzione economico – sociale meritevole di tutela, con conseguente applicabilità del principio simul stabunt simul cadent. Non dirimente appare la considerazione per cui anche se il contratto di IRS «fosse stato stipulato con finalità di copertura del mutuo ciò non oscura il fatto che ogni contratto abbia la sua individualità, abbia la sua disciplina e siano assolutamente autonomi. (…) Il contratto di mutuo ed il contratto di IRS sono in grado di “sopravvivere l’uno all’altro”». E’ noto, infatti, come il collegamento negoziale non incida sull’autonomia strutturale dei contratti, i quali – in sé perfetti e singolarmente produttivi di effetti giuridici – conservano una loro causa autonoma, una loro specifica individualità giuridica e restano soggetti alla disciplina propria del rispettivo schema negoziale.

Nondimeno, poiché le parti perseguono un risultato economico unitario e complessivo – che viene appunto realizzato attraverso una pluralità coordinata di contratti – questi sono, al contempo, finalizzati ad un unico regolamento dei reciproci interessi (ex multis, Cass. 10.7.2008, n. 18884), e soggiacciono alla medesima sorte. La “comunicazione” delle cause di invalidità, risoluzione o rescissione di uno dei negozi sull’altro (simul stabunt simul cadent) consegue, appunto, alla impossibilità di realizzazione dell’interesse perseguito dalle parti attraverso il coordinamento dei negozi collegati (amplius, la giurisprudenza già menzionata e, fra le altre, Cass. 5.6.2007, n. 13164; Cass. 21.11.2011, n. 24511; Cass. 8.10.2008, n. 24792; Cass. 27.3.2007, n. 7524; Cass. 28.6.2001, n. 2844;Cass. 12.7.2005, n. 14611, secondo cui «In definitiva, in caso di collegamento funzionale tra più contratti, non dando essi luogo ad un contratto unico, ma, conservando la propria individualità giuridica, gli stessi restano conseguentemente soggetti alla disciplina propria del rispettivo schema negoziale, mentre l’interdipendenza si risolve nel principio di una regolamentazione unitaria delle vicende relative alla permanenza del vincolo contrattuale, per cui “simul stabunt, simul cadent”). Quanto all‘eventuale mancanza di causa del contratto ove stipulato con finalità speculative» – ipotesi vagliata, ma solo in astratto ed in linea generale dal primo Giudice – va ribadito come il contratto di swap stipulato inter partes non abbia funzione speculativa o di investimento (c.d. trading), ma una finalità di copertura (c.d. hedging); profilo funzionale che, a seguito del venir meno del negozio presupposto, è venuto a mancare. Ciò, in applicazione della c.d. causa in concreto che configura lo scopo pratico del negozio – la sintesi, cioè, degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare – quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello

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astratto utilizzato (Cass. 8.5.2006, n. 10490; Cass. 12.11.2009, n. 23941). Deduce, inoltre, la reclamante che, anche a ritenere un collegamento negoziale, la previsione di una specifica disciplina pattizia dell’estinzione anticipata per tutte i negozi collegati, escluderebbe che la mera estinzione dei mutui dia luogo al medesimo effetto estintivo del contratto di swap. Ritiene, però, questo Collegio, ad una valutazione allo stato degli atti, che tale eccezione debba essere disattesa. Si deve, infatti, ritenere che, proprio la reciproca comunicazione delle vicende relative ad efficacia e validità dei singoli negozi – che è elemento qualificante del collegamento negoziale – sia idonea a circoscrivere la disciplina pattizia dell’estinzione anticipata alle ipotesi in cui la stessa consegua a vicende diverse dall’estinzione del negozio collegato. Quanto alla contestata sussistenza del periculum in mora, dev’essere innanzitutto ribadito che la (onerosa) possibilità della Carparelli di recedere pattiziamente dal contratto di swap non esclude affatto il lamentato rischio. Opinando diversamente – ed, escludendo il periculum e, quindi, la cautela richiesta – la società sarebbe costretta a subire l’ingiusta coercizione di dover versare ingenti somme alla Banca per ottenere la liberazione da un vincolo ormai privo di causa. E’ pacifico del resto che l’irreparabilità del pregiudizio (la quale va intesa in senso relativo e non assoluto, e cioè come semplice e ragionevole pericolo del determinarsi di una lesione di un proprio diritto) sussiste anche quando sussista uno scarto tra la soddisfazione integrale del diritto ed i risultati (parziali) conseguibili mediante altri rimedi[1]. Assume, poi, la Banca reclamante che il periculum in mora dovrebbe essere escluso in

quanto la Carparelli avrebbe conosciuto e tollerato per lungo tempo la violazione oggi lamentata. Invero, l’eccezione de qua deve essere disattesa, in quanto il periculum lamentato dalla Carparelli e considerato sussistente dal primo Giudice consiste nel «temuto rischio di segnalazione alla Centrale rischi presso la Banca d’Italia, la quale può portare ad una totale chiusura del credito da parte del circuito bancario con conseguente assoluta impossibilità della società di operare in mancanza di liquidità e con conseguente rischio di fallimento». E tale rischio non si era ancora verificato sino alla data di proposizione del ricorso (e di pronuncia dell’ordinanza impugnata), per cui è attuale. In secondo luogo, la giurisprudenza richiamata individua il lungo periodo di tempo nel decorso di diversi anni, condizione che, in virtù delle risultanze ex actis, non sembra integrata nel caso di specie. Peraltro, in via generale, il suddetto principio interpretativo – che rinviene la propria ratio nella volontà di “punire” il ricorrente che non si attivi tempestivamente, in via cautelare - non è applicabile quando, dopo che un periculum si è già verificato, si prospettino concreti rischi di sua reiterazione o comunque si paventino ulteriori effetti dannosi: in tali circostanze, infatti, anche il decorso di un apprezzabile periodo di tempo dall’evento dannoso non esclude il carattere di imminenza e attualità del pregiudizio, trattandosi di prevenire un fatto distinto da quello già consumato.

PQM 1. rigetta il reclamo ex art. 669 terdecies proposto dalla Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. con ricorso depositato in data 14.11.2012;

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2. condanna la reclamante al pagamento, in favore della reclamata, delle spese, che liquida in complessivi € 2000,00, oltre iva e cap come per legge. Brindisi, 29.1.2013 Il relatore IL PRESIDENTE (Dott. C. Almiento ) [1] N.d.R.: nello stesso senso, Trib. Catanzaro Sez. II, 10.2.2012, in ilProcessoCivile.com, 105, 2012. Nello stesso senso anche Trib. Lamezia Terme, Sezione Unica Civile, ordinanza 25.3.2011.

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Massima La tutela d’urgenza del diritto di credito può essere riconosciuta solo qualora si sia in presenza di un pregiudizio economico, dipendente dalla lesione del diritto fatto valere in giudizio, non integralmente riparabile dal futuro risarcimento pecuniario del danno, come accade qualora dal mancato adempimento della obbligazione pecuniaria derivi, quale conseguenza immediata e diretta, lo stato di insolvenza o il fallimento del creditore, oppure nel caso di impossibilità o estrema difficoltà di determinare esattamente la misura del risarcimento ove gli effetti pregiudizievoli dovessero persistere nel tempo, sì da non poter assicurare la reintegrazione della posizione giuridica che si assume lesa. L’iscrizione ipotecaria contra legem, che impedisce l’accesso al credito, è danno grave e difficilmente riparabile in termini monetari.

Tutela cautelare atipica ex art.700 c.p.c.: attivabile per cancellare

un’ipoteca

Sentenza Tribunale di Brindisi,

sezione di Monopoli,

Ordinanza del 7.02.2013

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LA SENTENZA PER ESTESO Tribunale di Bari, sezione distaccata di

Monopoli,

Ordinanza del 7.2.2013

Il Giudice,

letti gli atti di causa e sciolta la riserva che

precede nel procedimento cautelare

…omissis…

visto il ricorso introduttivo ex art. 700 c.p.c.

con il quale è stato chiesto di ordinare

…omissis…e provvedere a sua cura e spese a

cancellare immediatamente l’iscrizione

ipotecaria del 7.1.2010, n. 485 r.g. e n. 101

r.p., perché avvenuta in assenza dei

presupposti di legge, con vittoria delle spese di

giudizio;

vista la comparsa di costituzione

…omissis…che ha eccepito l’inammissibilità

del ricorso cautelare ex art. 700 c.p.c. e chiesto

comunque il rigetto del ricorso assumendo la

legittimità dell’ipoteca iscritta, con vittoria

delle spese di giudizio;

ritenuto che, contrariamente a quanto assunto

dalla difesa di parte resistente, il rimedio

cautelare atipico ex art. 700 c.p.c., volto alla

cancellazione dell’ipoteca, sia l’unico

strumento cautelare utilizzabile per ottenere la

cancellazione d’urgenza dell’ipoteca in

assenza di uno strumento cautelare tipico che

consenta di conseguire tale scopo[1];

considerato che la difesa di parte resistente ha

pure invocato la giurisprudenza per cui

dall’art. 2884 c.c. si evince che la

cancellazione dell’ipoteca può essere disposta

solo con una sentenza definitiva o un

provvedimento definitivo, cioè

immodificabile;

considerato che in base al riformato art. 669-

octies co. 6 c.p.c. i provvedimenti emessi in

via cautelare, quando idonei ad anticipare gli

effetti della sentenza di merito, acquistano

efficacia definitiva, essendo meramente

facoltativa l’instaurazione del giudizio di

merito, così dimostrando la loro possibile

attitudine alla stabilità, tanto che, ex art. 669-

octies co. 7 c.p.c. il giudice provvede anche

sulle spese di lite (v., al riguardo, anche art.

669-octies co. 8 c.p.c.);

ritenuto pertanto che sia ammissibile un

provvedimento cautelare ex art. 700 c.p.c.

qualora, come nella specie, l’iscrizione

ipotecaria sia manifestamente illegittima

perché eseguita ictu oculi in assenza dei

presupposti previsti dalla legge, il che rafforza

la prognosi di definitività del provvedimento

cautelare (nel caso di specie inoltre non si

pone neppure la questione dell’ammissibilità

di un provvedimento costitutivo ex art. 700

c.p.c. poiché non è stata chiesta la

cancellazione diretta dell’ipoteca per il tramite

del conservatore);

considerato, venendo al merito cautelare, che

l’art. 76 d.p.r. 602/1973 nella versione

testuale,

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applicabile ratione temporis (cioè come

modificato dall’articolo 3, co. 40 lett. b-bis)

del D.L. 30

settembre 2005, n. 203, lettera aggiunta dalla

legge 2 dicembre 2005, n. 248 in sede di

conversione),

dispone che “L’agente della riscossione può

procedere all’espropriazione immobiliare se

l’importo complessivo del credito per cui si

procede supera complessivamente 8000 euro”

(oggi 20000 euro);

ritenuto pertanto che l’ipoteca di cui all’art. 77

d.p.r. 602/1973 costituisca un atto preordinato

all’espropriazione, per cui deve

necessariamente soggiacere agli stessi limiti

per questa stabiliti dal precedente art. 76, nel

senso che non può essere iscritta se il debito

del contribuente non supera il limite degli

8000 euro (cfr. Cass. 5771/2012);

considerato che, nella specie, rispetto a due

delle cartelle esattoriali relative ad iscrizioni al

ruolo dell’Inps la ricorrente ha ottenuto lo

sgravio integrale (v. doc. 1 fasc. ric.) e che le

restanti tre cartelle per cui è stata iscritta

ipoteca (v. doc. 3 fasc. resistente), relative a

debiti di natura tributaria, non superano i

predetti 8000 euro;

ritenuto pertanto che non sussistano i

presupposti per mantenere l’iscrizione

ipotecaria ai danni della ricorrente (così come

del resto già riscontrato dalla Commissione

Tribuatria Provinciale di Bari, con la sentenza

del 27.10.2011, senza che questa peraltro

abbia ordinato la cancellazione dell’ipoteca

essendosi dichiarata incompetente sulle

restanti cartelle di natura non tributaria);

considerato, quanto al periculum in mora, che

secondo la giurisprudenza prevalente la tutela

d’urgenza del diritto di credito può essere

riconosciuta solo qualora si sia in presenza di

un pregiudizio economico, dipendente dalla

lesione del diritto fatto valere in giudizio, non

integralmente riparabile dal futuro

risarcimento pecuniario del danno, come

accade qualora dal mancato adempimento

della obbligazione pecuniaria derivi, quale

conseguenza immediata e diretta, lo stato di

insolvenza o il fallimento del creditore (Trib.

di Foggia 2.4.2004; Pret. Roma 31.7.1986),

oppure nel caso di impossibilità o estrema

difficoltà di determinare esattamente la misura

del risarcimento ove gli effetti pregiudizievoli

dovessero persistere nel tempo, sì da non poter

assicurare la reintegrazione della posizione

giuridica che si assume lesa[2] (cfr., tra le

altre, Trib Cassino 12.7.2000; Trib. Napoli

26.4.2000; Trib. Roma 25.3.2000; Trib.

Firenze 10.6.1998; Corte d’App. Milano,

15.7.1992; Pret. Roma 22.06.1991; Pretura

Roma, 14.12.1989; Trib. Roma, 3.11.1987;

Pretura Nocera Inferiore, 1.4.1987; Trib.

Rimini, 11.11.1983);

considerato che, nel caso che ci occupa, è

verosimile, come prospettato dalla ricorrente,

titolare di un’impresa individuale, che

l’iscrizione ipotecaria sul suo immobile non le

consente di accedere al credito per l’esercizio

dell’attività d’impresa, arrecandole così un

danno grave e difficilmente riparabile in

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termini monetari, stante la sostanziale

impossibilità di dimostrarne l’entità;

ritenuto, in conclusione, che debba essere

ordinato a…omissis… di provvedere a sua

cura e spese a cancellare immediatamente

l’ipoteca iscritta in data 7.1.2010, n. 485 r.g. e

n. 101 r.p., cioè a prestare il proprio consenso

alla cancellazione (cfr. art. 2882 c.c.);

ritenuto che le spese di giudizio debbano

seguire la soccombenza e debbano essere

liquidate così come in dispositivo, tenuto

anche conto del fatto che nonostante

l’illegittima iscrizione ipotecaria il

concessionario, contravvenendo al canone

della correttezza a cui deve improntarsi il

rapporto concessionario-debitore, ha insistito

sulla legittimità dell’iscrizione;

p.q.m.

- ordina a…omissis… di prestare il proprio

consenso alla cancellazione dell’ipoteca

iscritta in data 7.1.2010, n. 485 r.g. e n. 101

r.p.;

- condanna…omissis…al pagamento delle

spese processuali …omissis… che liquida in

complessivi euro 1.780,00, di cui euro 130,00

per esborsi, euro1.650,00 per compensi

professionali, oltre IVA e CAP come per

legge.

Si comunichi.

Monopoli, 7.2.2013.

Il Giudice

Dr. Michele De Palma

[1] Per approfondimenti sul tema della

residualità, si vedano COMOGLIO, Il

procedimento cautelare in generale – Le

singole misure cautelari, in COMOGLIO,

FERRI, TARUFFO (a cura di), Lezioni sul

processo civile, II, Procedimenti speciali,

cautelari ed esecutivi, Bologna, 2005, 41;

SCARPA, Sub 700 c.p.c., in CENDON (a cura

di), Commentario al codice di procedura

civile, Milano, 2012, 1065; MONTESANO, I

provvedimenti d’urgenza nel processo civile,

Napoli, 1955, 40; ARIETA, Trattato di diritto

processuale civile, vol. XI, Padova, 2011, 498;

PROTO PISANI, Provvedimenti d’urgenza, in

Enc. Giur., XXV, Roma, 1991, 6; ANDRIOLI,

Commento al codice di procedura civile, II,

Napoli, 1960, 264; TOMMASEO,

Provvedimenti di urgenza, in Enc. Dir.,

XXXVII, Milano, 1998, 858; NUZZO, Sub

700 c.p.c., in VIOLA (a cura di), Codice di

procedura civile (con schemi, approfondimenti

di dottrina e giurisprudenza, formulario),

Padova, 2013.

[2] In senso contrario, Tribunale di

Sant’Angelo dei Lombardi, sentenza del

14.6.2011, in ilProcessoCivile.com, 33, 2012,

secondo il quale il pericolo del verificarsi di

un danno patrimoniale non costituisce un

danno grave ed irreparabile, in quanto il danno

patrimoniale è per sua natura sempre riparabile

mediante il successivo risarcimento; è noto

infatti il principio secondo cui il pregiudizio

irreparabile previsto dall’art. 700 c.p.c.

sussiste solo quando siano in discussione

posizioni soggettive di carattere assoluto,

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

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principalmente attinenti alla sfera personale

del soggetto (e spesso anche dotate di rilievo e

protezione a livello costituzionale), che

rendano necessario un pronto ed immediato

intervento cautelare al fine di assicurarne la

completa tutela.

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di

GIANLUCA LUDOVICI

Massima Il detentore qualificato ha la legittimazione alla proposizione

dell'azione di reintegra verso i terzi ed anche verso il possessore.

Il detentore non qualificato vanta la legittimazione all'azione di

reintegra verso i terzi, ma non verso il possessore.

Detentore contro possessore: sì all’azione di reintegra nel possesso,

ma solo se la detenzione è qualificata

Sentenza Cassazione Civile,

sezione seconda,

sentenza del 4.1.2013, n. 99

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LA SENTENZA PER ESTESO

Cassazione civile, sezione seconda, sentenza

del 4.1.2013, n. 99

…omissis…

1) Con il primo motivo i ricorrenti denunciano

la violazione e falsa applicazione di norme di

diritto, nonchè l'insufficiente e contraddittoria

motivazione, in relazione alla ritenuta

sussistenza, in capo a C., di un possesso

giuridicamente rilevante in ordine al passaggio

attraverso il cancello e la scivola d'ingresso del

garage di proprietà esclusiva della P..

Lamentano, in particolare, che il giudice di

appello, pur dando atto che C. non aveva una

copia personale delle chiavi, abbia escluso

l'utilizzo precario ed a titolo di cortesia del

passaggio verso il garage, senza considerare

che i convenuti avevano dato all'attore il

consenso al passaggio nell'area di loro

proprietà solo fino al momento della

realizzazione dei tramezzi divisori previsti

nella piantina allegata all'atto di vendita dell'8-

11-1989.

Sostengono che le valutazioni espresse dalla

Corte di Appello circa la sussistenza di un

possesso tutelabile contrastano con le

risultanze della prova testimoniale e

documentale.

Il motivo è infondato.

La Corte di Appello, sulla base delle

deposizioni testimoniali e delle dichiarazioni

rese nella fase cautelare da C., ha accertato, in

punto di fatto, che C. sin dalla data di acquisto

dell'appartamento e del garage utilizzava per

accedere in quest'ultimo sia le scale

condominiali che il cancello che delimitava

l'area di proprietà della P., delle cui chiavi

aveva la disponibilità. Ciò posto, il giudice del

gravame ha osservato che, anche a voler

ritenere che il C. non avesse personalmente

una copia delle chiavi, ma dovesse prelevare

quelle lasciate dal fratello nella sua officina,

contigua al fabbricato, non si potrebbe parlare

di un utilizzo precario e a titolo di cortesia, in

quanto gli appellanti avevano dato un

consenso preventivo e generalizzato al

passaggio nell'area di loro proprietà.

Esso ha evidenziato, infatti, che lo stesso C.,

nel corso del suo interrogatorio, ha ammesso

che il fratello C. "usufruiva del passaggio

regolarmente ed a partire dal 1989", e che le

chiavi "erano appese dentro l'officina che si

trova di fronte all'immobile per cui è causa".

Così motivando, la Corte territoriale ha

sostanzialmente attribuito a C, in virtù del

consenso preventivo e generalizzato al

passaggio datogli dagli aventi diritto, un titolo

di detenzione qualificata, tale da legittimarlo

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

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alla proposizione dell'azione di reintegrazione,

ai sensi dell'art. 1168140 c.c..

In tal modo, essa si è uniformata alla

giurisprudenza di questa Corte, che distingue

tra detenzione nell'interesse proprio del

detentore (detenzione qualificata), in forza di

un rapporto contrattuale anche atipico, e

detenzione nell'interesse del possessore

(detenzione non qualificata, quale quella del

mandatario o del gestore), riconoscendo al

detentore qualificato la legittimazione alla

proposizione dell'azione di reintegra verso i

terzi ed anche verso il possessore (v. Cass. 20-

5-2008 n. 12751141; Cass. 22-7-2002 n.

10676142; Cass. 29-5-1998 n. 5314143), ed al

140 Così recita: Chi è stato violentemente od occultamente spogliato del possesso può, entro l'anno dal sofferto spoglio, chiedere contro l'autore di esso la reintegrazione del possesso medesimo.

L'azione è concessa altresì a chi ha la detenzione della cosa, tranne il caso che l'abbia per ragioni di servizio o di ospitalità.

Se lo spoglio è clandestino, il termine per chiedere la reintegrazione decorre dal giorno della scoperta dello spoglio.

La reintegrazione deve ordinarsi dal giudice sulla semplice notorietà del fatto, senza dilazione.

141 La massima così recita: in tema di spoglio violento e clandestino, il detentore che agisce, ex art. 1168, secondo comma, c.c., per la reintegra, può fornire la prova del titolo anche per presunzione non essendo in discussione la validità e gli effetti del vincolo che giustifica la detenzione qualificata ma esclusivamente il fatto storico dell'esistenza del corrispondente potere di fatto sulla cosa.

142 La massima – estratta da Arch. Civ., 2003, 556 – così recita: il detentore qualificato del bene, ovvero chi detenga la cosa nell'interesse proprio in forza di un titolo contrattuale anche atipico, è legittimato a proporre l'azione di reintegra nel possesso anche nei confronti dello stesso possessore, dovendosi escludere per contro che la legittimazione attiva sia estesa a qualsiasi detentore, purchè non sia tale per ragioni di servizio o di ospitalità.

143 La massima – estratta da Mass. Giur. It., 1998 – così recita: l'affidamento di un bene (come conseguenza della stipula di un contratto atipico) per la realizzazione di un interesse proprio anche dell'affidatario conferisce, a quest'ultimo, la detenzione qualificata della res, tutelabile, ex art. 1168 c.c., con l'esercizio dell'azione di reintegrazione non solo nei confronti del concedente, ma anche del terzo autore materiale dello spoglio e consapevole della violenza usata per

detentore non qualificato la legittimazione

all'azione di reintegra verso i terzi, ma non

verso il possessore (Cass. 22-7-2002 n. 10676;

Cass. 29-10-1974 n. 3276).

L'apprezzamento espresso in ordine

all'esistenza di un titolo e alla qualificazione

dell'interesse dell'attore, d'altro canto,

costituendo oggetto di un'indagine riservata al

giudice di merito, non è censurabile in sede di

legittimità, essendo supportato da una

motivazione congruente ed esaustiva, con la

quale sono stati valorizzati elementi, quali la

disponibilità delle chiavi di accesso e il lungo

tempo per il quale è stato esercitato in modo

pacifico il passaggio, poco compatibili con la

tesi di una utilizzazione precaria ed a mero

titolo di cortesia.

La decisione impugnata, pertanto, si sottrae

alle censure mosse dai ricorrenti, essendo

sorretta da una motivazione priva di vizi

logici, ed avendo fatto corretta applicazione

dei principi di diritto che disciplinano la

materia.

2) Con il secondo motivo i ricorrenti

lamentano la violazione di norme di diritto, in

relazione all'affermazione del giudice di

appello, secondo cui C., avendo per anni

coltivato il terreno ed avendo avuto le chiavi

del cancello d'ingresso, aveva la qualifica di

detentore ed era, quindi, legittimato

contrastare l'opposta volontà dello spoliatus (ancorchè tale terzo abbia agito su incarico del concedente), a condizione che il rapporto scaturente dal contratto abbia carattere non di mera saltuarietà od occasionalità, ma di concreta stabilità, onde consentire all'affidatario la detenzione della cosa fino a quando non sia esaurita l'attività per la quale essa gli era stata consegnata.

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all'esercizio dell'azione di spoglio. Deducono

che la detenzione qualificata ricorre solo nelle

ipotesi in cui il possessore conceda a terzi il

godimento di un bene in virtù di un titolo

giuridico che, nella specie, non sussiste. Il

fondo, infatti, non era coltivato dal resistente,

il quale aveva con esso un rapporto del tutto

precario, dovuto ai rapporti di parentela, ed

aveva la disponibilità delle chiavi di accesso al

terreno per mera tolleranza dell'avente diritto.

Sostengono che, a fronte delle contestazioni

mosse dai convenuti, incombeva sul ricorrente

in possessoria l'onere di provare la propria

detenzione qualificata, mentre non spettava

alla controparte la prova della detenzione

precaria.

Anche tale motivo è privo di fondamento.

La Corte di Appello, sulla base delle

deposizioni testimoniali acquisite, ha accertato

che C. "da parecchi anni" coltivava il terreno

di proprietà del fratello ed aveva le chiavi del

cancello d'ingresso al fondo e del casotto sullo

stesso insistente. Legittimamente, di

conseguenza, essa ha attribuito all'odierno

intimato la qualifica, se non di possessore,

quanto meno di detentore qualificato, abilitato

alla proposizione dell'azione di spoglio.

Per considerazioni analoghe a quelle svolte in

relazione al primo motivo, infatti, non par

dubbio che il protrarsi nel tempo della

coltivazione del fondo nel proprio interesse da

parte dell'intimato e la libertà di accesso al

terreno ed al caseggiato rurale al medesimo

concessa dal fratello mediante la dazione delle

chiavi, costituiscono elementi dai quali il

giudice del gravame ha ragionevolmente

desunto l'esistenza di un autonomo titolo di

detenzione in capo a C.

Anche in tal caso, pertanto, la tesi della

precarietà del rapporto e della mera tolleranza

dell'avente diritto è stata disattesa dal giudice

di merito sulla base di argomentazioni corrette

sul piano logico e giuridico, che rendono la

decisione impugnata immune dai vizi

denunciati dai ricorrenti.

3) Con il terzo motivo i ricorrenti si dolgono

dell'erronea condanna alle spese, sostenendo

che, per effetto dell'accoglimento del ricorso,

queste devono essere poste a carico del

resistente.

Il motivo è privo di autonomia, essendo basato

sul presupposto, rivelatosi erroneo, della

fondatezza degli altri motivi di ricorso e della

conseguente soccombenza del resistente.

4) Per le ragioni esposte il ricorso deve essere

rigettato. Poichè l'intimato non ha svolto

alcuna attività difensiva, non vi è pronuncia

sulle spese.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

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Annotazione alla sentenza della Cassazione

Civile n. 99, resa in data 4.1.2013

Articolo di Gianluca Ludovici

SOMMARIO: 1. Il fatto. – 2. Il possesso, la detenzione qualificata e la mera detenzione. – 3. La legittimazione attiva alla tutela ex artt. 1168 c.c. e 703 c.p.c. – 4. Onere della prova. – 5. Conclusioni: il principio di diritto.

1. La sentenza in epigrafe afferma, sulla

scorta di consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità, il principio di diritto in virtù del quale il detentore qualificato di un bene è legittimato a proporre l’azione ex art. 1168 c.c. anche nei confronti del possessore del medesimo.

Questi in breve i fatti di causa. Con ricorso depositato il 28.06.1997 presso la Pretura di Catania, Sezione Distaccata di Giarre, C.C.G., premesso di aver sempre esercitato l'accesso al suo garage sia dalla scala condominiale sia dal cancello che immette anche al garage di P.R., deduceva che nel Settembre 1996 quest'ultima e C.F.P. avevano occultamente chiuso lo spazio destinato a garage del ricorrente, mediante l'erezione di muri a mattoni, impedendo qualsiasi collegamento tra tale garage e le scale che conducono ai sovrastanti appartamenti, ed avevano altresì sostituito le chiavi del catenaccio apposto al cancello d'ingresso ai garage ed il telecomando per l'apertura automatica. Il ricorrente, inoltre, affermava che i convenuti avevano sostituito la serratura del cancello d'ingresso ad un terreno posto in (OMISSIS), coltivato a vigneto, con annesso casotto per il deposito degli attrezzi, del quale il deducente aveva il pacifico possesso da circa otto anni. Tanto premesso, il C.C.G. chiedeva l'adozione dei provvedimenti necessari alla tutela del suo possesso. Con ordinanza in data 31.12.1997 il Pretore disponeva la reintegra del ricorrente nel possesso.

Tale ordinanza veniva successivamente confermata dal Tribunale di Catania, Sezione Distaccata di Giarre, con sentenza del 07.6.2001. Il Tribunale, in particolare, osservava che era stata raggiunta la prova dello spoglio sofferto dal ricorrente, e che per

contro non era stato dimostrato che il possesso avesse fondamento nella mera tolleranza e nei rapporti di parentela e di buon vicinato.

C.F.P. e P.R. proponevano appello avverso il provvedimento giudiziale di primo grado; con sentenza depositata il 17.09.2005, tuttavia, la Corte territoriale di Catania rigettava il gravame proposto avverso la predetta decisione, confermando la valutazione degli elementi probatori acquisiti in corso di istruttoria, nonché la qualificazione giuridica dei fatti allegati operata dal giudice di prime cure.

Gli appellanti proponevano, infine, ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello, denunciando essenzialmente con due autonomi motivi di impugnazione, la violazione di norme di legge tanto in relazione alla sussistenza di un possesso giuridicamente rilevante in capo al ricorrente in possessoria, quanto in relazione alla qualificazione della situazione di fatto in cui quest’ultimo si trovava come detenzione qualificata. C.C.G. non ha svolgeva attività difensive. La Suprema Corte rigettava il ricorso avvalorando l’attività di ermeneutica giuridica operata dalla Corte territoriale siciliana.

2. Con la pronuncia in commento gli

Ermellini della Suprema Corte, prima di giungere alla pronuncia di un principio di diritto proprio dell’ordinamento processualcivilistico144, hanno dovuto affrontare e risolvere una questione tipica del diritto sostanziale: per tali ragioni appare opportuno procedere alla presente trattazione, cominciando proprio dalla corretta qualificazione della posizione giuridica in cui viene a trovarsi un soggetto che intrattenga con un bene una relazione basata sulla mera materialità.

Nell’ordinamento, come noto, i rapporti intercorrenti tra i soggetti che ne fanno parte e le cose che ricadono all’interno dei confini dello stesso possono essere sorretti da uno specifico titolo giuridico (id est: la sussistenza del diritto di proprietà o di altro diritto reale di godimento) ovvero avvenire in virtù di mere ragioni di fatto; sia nell’uno, che nell’altro caso essi acquistano comunque rilevanza

144 Id est la questione della legittimazione ad agire e resistere in giudizio ex art. 81 c.p.c.

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giuridica e vengono conseguentemente disciplinati dalla Legge.

Nell’alveo dei rapporti tra soggetti e beni caratterizzati esclusivamente dall’esistenza di una relazione di mero fatto, che si concretizza nell’apprensione materiale della res, si collocano gli istituti del “possesso” e della “detenzione”, quest’ultima a sua volta suddivisa tra “detenzione qualificata” e “non qualificata”145. Mentre il possesso è la situazione di fatto in virtù della quale il possessore oltre ad avere il bene nella sua materialità esercita tale signoria e controllo nella consapevolezza di averlo come proprio (animus rem sibi habendi), la detenzione si contraddistingue per il fatto che il soggetto che la esercita ha sì la disponibilità fisica della cosa, ma il suo stato psicologico è quello di colui che riconosce l’altruità del possesso (cosiddetta laudatio possessoris) e quindi quello di colui che riconosce la propria qualità di strumento (una sorta di longa manus) per la mediata disponibilità del bene.

Ciò chiarito, se la disponibilità fisica del bene da parte del detentore è giustificata dal soddisfacimento di un interesse (anche) proprio146 di quest’ultimo, stante la vigenza tra possessore e detentore di un rapporto giuridico tanto tipico147, quanto atipico, si può parlare di detenzione qualificata; al contrario, se la signoria è esercitata dal detentore

145 Per un approfondito esame degli istituti del possesso e della detenzione si vedano: LIOTTA, Detenzione, in Enc. giur. Treccani; MONTEL, Detenzione (dir.civ.), in N. Dig. it.; MONTEL, Il contenuto del rapporto possessorio, in Giur. agraria it., 1965, pp. 525 e ss. per cui “La detenzione consiste infatti nell'avere la disponibilità di una cosa, ossia nell'avere la possibilità di utilizzarla tutte le volte che si desideri, pur nella consapevolezza che essa appartiene ad altri, ai quali comunque si deve render conto (animus detinendi)”; MONTEL, La disciplina del possesso, Torino, 1951, p. 24; TORRENTE-SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, Milano, 1985, p. 384.

146 In queste pagine per interesse si vuole intendere una situazione di vantaggio materiale che il rapporto diretto con la res mira a soddisfare.

147 Si pensi in tal caso ai rapporti negoziali nascenti dalla stipulazione di contratti di locazione, di comodato, di affitto di azienda

nell’esclusivo interesse del possessore148, allora questi svolge davvero ed unicamente il ruolo di un mezzo per l’esercizio del possesso da parte di chi ha la disponibilità della res cum animo rem sibi habendi e la posizione di fatto del mero detentore viene così definita “detenzione non qualificata”

L’ultimo gradino della scala gerarchica delle relazioni tra gli individui ed i beni è occupato da coloro che utilizzano le cose a titolo precario e/o di cortesia; trattasi di una forma di signoria sulla res che avviene per spirito di tolleranza manifestato dal possessore, il quale mantiene anche il contatto diretto ed immediato con il bene, cedendone solo occasionalmente il controllo per consentirne ad altri un uso limitato nello spazio e nel tempo.

Nel caso di specie, storicamente caratterizzato dall’esistenza di “un consenso preventivo e generalizzato al passaggio nell'area di proprietà”149 dei possessori convenuti in giudizio concesso da questi ultimi per molti anni al ricorrente, la Corte di Cassazione ha riconosciuto corretta la qualificazione giuridica operata dai Giudici di merito di prima e di seconda istanza circa la

148 Questa è la tipica posizione del mandatario e del gestore

149Sic la pronuncia della Suprema Corte in esame. Più correttamente il Giudice di legittimità così ha argomentato sul fatto storico: “La Corte di Appello, sulla base delle deposizioni testimoniali e delle dichiarazioni rese nella fase cautelare da C.F. P., ha accertato, in punto di fatto, che C.C. G. sin dalla data di acquisto dell'appartamento e del garage utilizzava per accedere in quest'ultimo sia le scale condominiali che il cancello che delimitava l'area di proprietà della P., delle cui chiavi aveva la disponibilità. Ciò posto, il giudice del gravame ha osservato che, anche a voler ritenere che il C. non avesse personalmente una copia delle chiavi, ma dovesse prelevare quelle lasciate dal fratello nella sua officina, contigua al fabbricato, non si potrebbe parlare di un utilizzo precario e a titolo di cortesia, in quanto gli appellanti avevano dato un consenso preventivo e generalizzato al passaggio nell'area di loro proprietà”.

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natura del rapporto intercorso tra il ricorrente e le res oggetto di causa. Le modalità di esercizio della signoria sui beni de quibus, seppur traente origine da un rapporto contrattuale non espressamente previsto e disciplinato dal Codice Civile e, quindi, atipico, non hanno ingenerato dubbi al riguardo ed hanno comunque condotto alla individuazione di una situazione di “detenzione qualificata” ossia di detenzione operata (anche) nell’interesse del detentore.

3. Passando dal piano del diritto

sostanziale a quello del diritto processuale civile si può pervenire ad consequentias ed attribuire un senso più pragmatico alle figurae iuris sin qui esaminate. E’ noto in dottrina, infatti, come la distinzione tra la detenzione qualificata e non qualificata assuma particolare rilievo ed interesse con riferimento alla questione della legittimazione150 all’esercizio delle azioni di reintegrazione nel possesso151, apparendo queste ultime come l’unico strumento giuridico idoneo e diretto alla più pronta tutela del rapporto tra la res ed il soggetto che su di essa esercita una signoria materiale, pur in assenza di titolarità di un diritto reale che ad essa afferisca.

Il Giudice di legittimità con la pronuncia in esame ha deciso di seguire il proprio costante insegnamento al riguardo152, distinguendo “tra detenzione nell'interesse proprio del detentore (detenzione qualificata),

150 Si tratta della corrispondenza tra le parti in causa come legittimi contraddittori. Infatti chi agisce in giudizio è affermato nella domanda come attore o ricorrente ovvero il titolare della situazione giuridica soggettiva o, come nel caso in esame, della situazione di fatto di cui si chiede la tutela giudiziale; chi resiste, contestandola, è affermato come legittimo contraddittore ovvero soggetto passivo del rapporto sostanziale dedotto in giudizio.

151 GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 1996, p. 213; BIANCA, Diritto civile, vol. VI, Milano, 1999, p. 727.

152 Cfr. Cass., sentenza resa in data 20.05.2008, n. 12751, in Diritto & Giustizia, 2008; Cass., sentenza resa in data 22.07.2002, n. 10676, in Giust. civ. Mass., 2002, p. 1304; Cass., sentenza resa in data 29.05.1998, n. 5314, in Giust. civ. Mass., 1998, p. 1165.

in forza di un rapporto contrattuale anche atipico, e detenzione nell'interesse del possessore (detenzione non qualificata, quale quella del mandatario o del gestore)” e conseguentemente “riconoscendo al detentore qualificato la legittimazione alla proposizione dell'azione di reintegra verso i terzi ed anche verso il possessore ed al detentore non qualificato la legittimazione all'azione di reintegra verso i terzi, ma non verso il possessore”.

Sebbene il Supremo Collegio si limiti a richiamare propri precedenti arresti senza esplicitare i termini del ragionamento logico-giuridico sotteso alle richiamate pronunce, nonché a quella in commento, è facile intuire la ratio della decisione de qua se si tiene nel dovuto conto l’aspetto sostanziale dell’istituto in argomento ovvero se ben si comprendono gli elementi costitutivi della “detenzione qualificata”.

È evidente, in fatti, come chi detiene (anche) per un proprio interesse sia, per il solo fatto di poter legittimamente vantare ed esercitare tale situazione di concreto vantaggio153, astrattamente titolato (rectius: legittimato) ad agire in giudizio per la tutela dello stesso: ciò avverso quelle condotte poste in essere tanto da soggetti terzi, quanto e persino dal possessore (ossia il soggetto per conto del quale detiene), ben potendo teoricamente quest’ultimo, attraverso azioni di spoglio violento e/o clandestino, agire (illecitamente) al fine di restringere o escludere la sfera di materiale autonomia sulla cosa conservata dal detentore qualificato per il soddisfacimento del proprio lecito interesse.

L’assenza di una simile, pur tenue, posizione di concreto vantaggio comporta logicamente l’assoluta impossibilità per il detentore non qualificato di pretendere alcunché dal soggetto per il quale dispone materialmente del bene (rectius: il possessore), essendo il primo un mero strumento del secondo per l’esercizio del controllo sulla res; in qualità di mezzo, il detentore non qualificato è, però, al pari del possessore, legittimato alle azioni di tutela ex art. 1168 c.c. nei confronti di quei terzi che abbiano fatto venir meno la propria relazione diretta ed

153 L’interesse, per l’appunto.

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immediata con il bene154 e ciò in ragione del fatto che in simili casi chi pone in essere lo spoglio violento e/o clandestino è soggetto estraneo al rapporto giuridico da cui scaturisce la situazione de facto in virtù della quale si possiede e si detiene.

Quest’ultima possibilità, infine, è esclusa (così come viene esclusa ogni tipo di tutela giuridica alla relazione con la cosa) per quei soggetti che abbiano l’apprensione materiale del bene per motivi di semplice tolleranza ossia a titolo di cortesia: anche le ragioni di una simile esclusione sono razionali ed evidenti, non esaurendo, l’uso occasionale e tollerato della cosa, il rapporto materiale tra la res e chi ne abbia l’effettivo possesso o detenzione (sia essa qualificata o non qualificata). Sarà il soggetto che riveste tali posizioni a dover agire per la reintegrazione dello status quo ante.

4. La questione della sussistenza della

legittimazione attiva in capo a chi agisce in giudizio è una questione pregiudiziale di rito155, logicamente preliminare rispetto all’accertamento dei requisiti necessari per concedersi tutela possessoria in favore del ricorrente, ma pur tuttavia questione che in molti casi156 necessita paradossalmente dello svolgimento di un’istruttoria157 e che, quindi, è destinata ad essere decisa unitamente al merito della controversia.

154 Cfr. Cass. sentenza resa in data 22.07.2002, n. 10676, cit.; Cass. sentenza resa in data 29.10.1974, n. 3276 in www.cortedicassazione.it.

155 La questione della legittimazione all’azione ex art. 81 c.p.c. è una questione di rito rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo.

156 Tutti quei casi, ovviamente, in cui la individuazione del ricorrente come “detentore qualificato” non possa operarsi in virtù di prove precostituite, vale a dire di prove documentali (ad es. contratto di locazione, contratto di comodato, contratto di affitto di nazienda, etc…), le quali consentano al giudice adito una valutazione della situazione di fatto allegata in giudizio dal ricorrente in un tempo anteriore all’espletamento delle prove orali.

157 Rectius: escussione di sommari informatori nella fase cautelare e dei testimoni nella fase a cognizione piena.

Ciò avviene in considerazione del fatto che anche nei procedimenti speciali-cautelari opera il principio “onus probandi incumbit ei qui dicit”158 (art. 2697 c.c.), per cui il ricorrente dovrà, in primis, sempre offrire la prova del proprio status di possessore ovvero di detentore qualificato, onde poter legittimamente accreditarsi come titolare di un interesse o di una situazione di fatto suscettibile di tutela giuridica nelle forme di cui agli artt. 1168 c.c. e 703 c.p.c.. Valgono anche qui, dunque, le regole generali dell’istruzione in senso stretto, elaborate dal Legislatore per il processo civile ordinario: ne consegue che all’accertamento della sussistenza degli accadimenti allegati dal ricorrente concorrono non solo gli elementi probatori offerti da chi agisce in giudizio, ma anche quelli offerti dalle parti resistenti ed entrambi saranno oggetto dell’attività di ricostruzione fattuale e valutazione giuridica da parte dell’organo giudicante di merito, attività che, se correttamente159 motivate in

158 Cfr. Cass.Civ., Sez.II, sentenza resa in data 22.10.1998, n.10477, in Giust. civ. Mass., 1998, p. 2149; Cass.Civ., Sez.II, sentenza resa in data 03.03.1994, n. 2111, in Giust. civ. Mass., 1994, p. 256.

159 Vale a dire che se, come nel caso che occupa, la motivazione che sorregge e giustifica l’attività logico-deduttiva di accertamento della sussistenza del fatto storico realizzata dal giudice di merito è priva di vizi logici, la stessa non sarà più censurabile in Cassazione. Così si è testualmente espressa la Suprema Corte nella sentenza in commento: “L'apprezzamento espresso in ordine all'esistenza di un titolo e alla qualificazione dell'interesse dell'attore, d'altro canto, costituendo oggetto di un'indagine riservata al giudice di merito, non è censurabile in sede di legittimità, essendo supportato da una motivazione congruente ed esaustiva, con la quale sono stati valorizzati elementi, quali la disponibilità delle chiavi di accesso e il lungo tempo per il quale è stato esercitato in modo pacifico il passaggio, poco compatibili con la tesi di una utilizzazione precaria ed a mero titolo di cortesia. La decisione impugnata, pertanto, si sottrae alle censure mosse dai ricorrenti, essendo sorretta da una motivazione priva di vizi logici, ed avendo fatto corretta applicazione dei principi di diritto che disciplinano la materia”.

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sentenza, non potranno più essere censurate da parte del Giudice di legittimità.

Questo è quanto accaduto nel caso di specie: avendo rilevato prima il Tribunale e poi la Corte territoriale siciliana che il ricorrente "usufruiva del passaggio regolarmente ed a partire dal 1989", e che le chiavi "erano appese dentro l'officina che si trova di fronte all'immobile per cui è causa", entrambi gli organi giudicanti di merito giungevano ad acclarare “in punto di fatto, che C.C. G. sin dalla data di acquisto dell'appartamento e del garage utilizzava per accedere in quest'ultimo sia le scale condominiali che il cancello che delimitava l'area di proprietà della P., delle cui chiavi aveva la disponibilità” per cui il ricorrente si trovava in un rapporto materiale con la res controversa tale da poter essere definito come “detenzione qualificata” e da consentire al C.C.G. l’utilizzo dello strumento ex artt. 1168 c.c. e 703 c.p.c. anche nei confronti dei due resistenti possessori del bene oggetto di causa.

5. In conclusione, la decisione in

commento ribadisce il costante insegnamento della Suprema Corte in virtù del quale “il

detentore qualificato del bene […] è legittimato a proporre l'azione di reintegra nel possesso anche nei confronti dello stesso possessore, dovendosi escludere per contro che la legittimazione attiva sia estesa a qualsiasi detentore”.

Il Giudice di legittimità, in altri termini, non ha fatto altro che avallare il ragionamento seguito dal Giudice di merito di primo e di secondo grado circa la integrazione degli elementi costitutivi della fattispecie astratta della “detenzione qualificata” da parte del fatto storico descritto dal ricorrente e risultato provato in corso di giudizio, pervenendo poi ad applicare ad una simile ricostruzione giuridico-fattuale, gli effetti ad essa ricollegati dall’ordinamento processuale civile e riconoscendo così, infine, la legittimazione attiva per l’esercizio dell’azione possessoria nei confronti del possessore di un bene anche a colui che quel medesimo bene detiene in ragione di un titolo non necessariamente tipico, purché sussista un rapporto materiale e diretto con la res caratterizzato dall’esistenza di un interesse proprio al mantenimento della relazione con il bene de quo.

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

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di

MIRIANA BOSCO

Massima La prova della sussistenza del credito può essere fornita dal

professionista che chieda il compenso per le sue prestazioni in sede di

richiesta di decreto ingiuntivo con la produzione della parcella e del

relativo parere dell’Ordine professionale competente, ma tale

documentazione non è sufficiente nel giudizio di opposizione, che si

svolge secondo le regole ordinarie del giudizio di cognizione.

L’avvocato prova il credito con la parcella: ok per il decreto

ingiuntivo, ma non per il giudizio ordinario

Sentenza Cassazione Civile,

Sentenza n. 2471/2013

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LA SENTENZA PER ESTESO

Cassazione civile, sezione seconda, sentenza

del 1.2.2013, n. 2471

Svolgimento del processo

1. - Con ricorso notificato il 20 maggio 1991,

D. ottenne dal Presidente del Tribunale di

Salerno decreto ingiuntivo nei confronti di B.,

titolare di un'azienda avicola, per il pagamento

della somma di lire 5.760.000 per prestazioni

professionali di consulenza contabile relative

al periodo 1987-1989.

Il B. propose opposizione avverso detto

decreto, deducendo di non avere mai

intrattenuto rapporti con il D.D. ed assumendo

di essere stato assistito da tale Dott. F., cui

aveva consegnato due assegni a titolo di

compenso per il lavoro svolto.

Dedusse poi la carenza di prova circa

l'esistenza del rapporto professionale.

Il D., costituitosi in giudizio, sostenne che il

rapporto professionale era in realtà intercorso

con lo studio C.., di cui egli era titolare ed il F.

solo un collaboratore.

Il Tribunale di Salerno ridusse l'importo delle

competenze dovute al D.

2. - Il B. propose avverso tale sentenza

gravame, che fu accolto dalla Corte d'appello

di Salerno con sentenza depositata l'11 aprile

2005. Il giudice di secondo grado osservò che

il D. - il cui fascicolo di primo grado, peraltro,

non risultava nemmeno allegato alla

produzione - a fronte delle specifiche

contestazioni mosse dal B., non aveva fornito

la prova nè del conferimento dell'incarico, nè

dell'effettivo espletamento dello stesso, nè del

contenuto della contabilità, nè del compenso

convenuto.

Del tutto sterile ai fini probatori era poi,

secondo la Corte di merito, il contenuto

dell'interrogatorio formale reso dallo stesso D.,

che non aveva neanche specificato la forma

della presunta collaborazione del F.

Sottolineò quindi il secondo giudice che la

prova della sussistenza del credito può essere

fornita dal professionista che chieda il

compenso per le sue prestazioni in sede di

richiesta di decreto ingiuntivo con la

produzione della parcella e del relativo parere

dell'Ordine professionale competente, ma che

tale documentazione non è sufficiente nel

giudizio di opposizione, che si svolge secondo

le regole ordinarie del giudizio di cognizione.

3. - Per la cassazione di tale sentenza ricorre il

D. sulla base di due motivi. Resiste con

controricorso il B., che ha altresì depositato

memoria.

Motivi della decisione

1. - Con il primo motivo di ricorso si deduce

violazione degli artt. 115, 165 e 169 c.p.c., e

degli artt. 741 e 772 disp. att. c.p.c., per non

avere il giudice di appello ordinato la ricerca

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

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del fascicolo di parte, risultato disperso

nell'ambito della cancelleria, e per non aver

disposto, nel contraddittorio delle parti, la

ricostruzione del fascicolo mancante nel quale

risultavano inseriti i documenti comprovanti il

rapporto professionale tra le parti stesse.

2. - La censura è inammissibile.

La sentenza non ha rilevato la mancanza del

fascicolo di parte, ma l'omessa allegazione del

fascicolo di primo grado alla produzione

depositata in appello, e costituisce questione

nuova, oltre che priva di riscontro, quella

relativa alla mancata allegazione del fascicolo

per essere stato lo stesso disperso nella

cancelleria e non per un comportamento

omissivo della parte.

3. - Con il secondo motivo si deduce carenza

di motivazione in ordine al fatto che il

rapporto professionale era intercorso

esclusivamente con lo studio C. di cui il

ricorrente, commercialista, era il socio

amministratore e il F., matematico, era il

collaboratore. Osserva il ricorrente che

dall'interrogatorio formale, mai contestato, e

dalla documentazione prodotta e poi

scomparsa era emerso che tra il B. ed il D.D.

erano intercorsi rapporti professionali. Tale

assunto era stato poi avvalorato

dall'accettazione del contraddittorio da parte

del B. sulla entità delle somme richieste.

4. - Il motivo è in parte inammissibile, in parte

infondato.

4.1. - E' inammissibile per difetto di

autosufficienza nella parte in cui censura

l'omesso esame di documenti prodotti in primo

grado, e non rinvenuti in atti, senza

specificarne il contenuto.

4.2. - E' infondato per la parte residua, avendo

la Corte di merito adeguatamente motivato il

proprio convincimento con l'affermazione che

l'opposto non aveva soddisfatto l'onere su di

lui gravante di provare il conferimento

dell'incarico, l'effettivo espletamento dello

stesso e la determinazione del compenso, e

con la considerazione che il contenuto

dell'interrogatorio formale dell'opposto sulla

asserita collaborazione con il F. era irrilevante

ai fini probatori.

5. - Conclusivamente, il ricorso deve essere

rigettato. In applicazione del criterio della

soccombenza, le spese del presente giudizio,

che vengono liquidate come da dispositivo,

devono essere poste a carico del ricorrente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il

ricorrente al pagamento delle spese del

presente giudizio, che liquida in complessivi

Euro 2200,00, di cui Euro 2000,00 per

compensi, oltre alle spese generali ed accessori

di legge.

1 Così recita: gli atti e i documenti di

causa sono inseriti in sezioni separate del

fascicolo di parte. Gli atti sono costituiti

dagli originali o dalle copie notificate

della citazione, della comparsa di risposta

o d'intervento, delle memorie, delle

comparse conclusionali e delle sentenze.

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Sulla copertina del fascicolo debbono

essere iscritte le indicazioni richieste per il

fascicolo d'ufficio. Il cancelliere, dopo

aver controllato la regolarità anche fiscale

degli atti e dei documenti, sottoscrive

l'indice del fascicolo ogni volta che viene

inserito in esso un atto o documento.

2 Così recita: per ritirare il proprio

fascicolo a norma dell'articolo 169 del

Codice, la parte deve fare istanza con

ricorso al giudice istruttore. Il ricorso e il

decreto di autorizzazione sono inseriti dal

cancelliere nel fascicolo d'ufficio. In calce

al decreto il cancelliere fa scrivere la

dichiarazione di ritiro del fascicolo e

annota la restituzione di esso.

PROVA DEL CREDITO TRAMITE

PARCELLA.

ANNOTAZIONE ALLA SENTENZA

DELLA CORTE DI CASSAZIONE,

SEZIONE SECONDA, DEL 1°

FEBBRAIO 2013, N. 2471.

di MIRIANA BOSCO

1) IL CASO

Con ricorso notificato il 20 maggio 1991,

D.D.A. otteneva dal Presidente del

Tribunale di Salerno un decreto ingiuntivo

nei confronti di B.G., titolare di un'azienda

avicola, per il pagamento della somma di £

5.760.000 per prestazioni professionali di

consulenza contabile relative al periodo

1987-1989.

Il B.G. proponeva opposizione avverso

detto decreto, deducendo di non avere mai

intrattenuto rapporti con il D.D.A. ed

assumendo di essere stato assistito da tale

Dott. F., cui aveva consegnato due assegni

a titolo di compenso per il lavoro svolto.

Deduceva, inoltre, la carenza di prova

circa l'esistenza del rapporto professionale.

Il D.D.A., costituitosi in giudizio,

sosteneva che il rapporto professionale era,

in realtà, intercorso con lo studio C.E.M.,

di cui egli era titolare ed il Dott. F. un

collaboratore.

Il Tribunale di Salerno riduceva l'importo

delle competenze dovute al D.D.A..

Avverso la sentenza del Tribunale di

Salerno, il B.G. proponeva gravame,

accolto dalla Corte d'appello di Salerno

con sentenza depositata l'11 aprile 2005. Il

giudice di secondo grado osservava che il

D.D.A. - il cui fascicolo di primo grado,

peraltro, non risultava allegato alla

produzione - a fronte delle specifiche

contestazioni mosse dal B.G., non aveva

fornito la prova del conferimento

dell'incarico e dell'effettivo espletamento

dello stesso, né tantomeno del contenuto

della contabilità e del compenso

convenuto.

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Del tutto sterile, ai fini probatori, era,

secondo la Corte di merito, il contenuto

dell'interrogatorio formale reso dallo

stesso D.D.A., che non aveva neanche

specificato la forma della presunta

collaborazione del Dott. F..

Sottolineava, quindi, il secondo giudice

che la prova della sussistenza del credito

può essere fornita dal professionista che

chieda il compenso per le sue prestazioni

in sede di richiesta di decreto ingiuntivo

con la produzione della parcella e del

relativo parere dell'Ordine professionale

competente, ma che tale documentazione

non è sufficiente nel giudizio di

opposizione, che si svolge secondo le

regole ordinarie del giudizio di cognizione.

Il D.D.A. ricorreva per la cassazione di

tale sentenza, deducendo la violazione

degli artt. 115, 165 e 169 c.p.c., e degli

artt. 74 e 77 disp. att. c.p.c., per non avere

il giudice di appello ordinato la ricerca del

fascicolo di parte, risultato disperso

nell'ambito della cancelleria, e per non

aver disposto, nel contraddittorio delle

parti, la ricostruzione del fascicolo

mancante nel quale risultavano inseriti i

documenti comprovanti il rapporto

professionale tra le parti stesse. Deduceva,

inoltre, la carenza di motivazione in ordine

al fatto che il rapporto professionale era

intercorso esclusivamente con lo studio

C.E.M. di cui il ricorrente D.D.A.,

commercialista, era il socio amministratore

e il dott. F., matematico, era il

collaboratore. Osservava il ricorrente che

dall'interrogatorio formale, mai contestato,

e dalla documentazione prodotta e poi

scomparsa era emerso che tra il B.G. ed il

D.D.A. erano intercorsi rapporti

professionali. Tale assunto era stato, poi,

avvalorato dall'accettazione del

contraddittorio da parte del B.G. sulla

entità delle somme richieste.

Resisteva con controricorso il B.G., che

depositava memoria.

La Suprema Corte di Cassazione

dichiarava inammissibile la censura.

Ed invero, a giudizio della Suprema Corte,

la sentenza di II grado non aveva rilevato

la mancanza del fascicolo di parte, ma

l'omessa allegazione del fascicolo di primo

grado alla produzione depositata in appello

ed aveva evidenziato che costituisce

questione nuova, oltre che priva di

riscontro, quella relativa alla mancata

allegazione del fascicolo per essere stato lo

stesso disperso nella cancelleria e non per

un comportamento omissivo della parte.

A giudizio degli Ermellini, il secondo

motivo è in parte inammissibile, in parte

infondato. E' inammissibile per difetto di

autosufficienza nella parte in cui censura

l'omesso esame di documenti prodotti in

primo grado e non rinvenuti in atti, senza

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

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specificarne il contenuto. E' infondato per

la parte residua, avendo la Corte di merito

adeguatamente motivato il proprio

convincimento con l'affermazione che

l'opposto non aveva soddisfatto l'onere su

di lui gravante di provare il conferimento

dell'incarico, l'effettivo espletamento dello

stesso e la determinazione del compenso e

con la considerazione che il contenuto

dell'interrogatorio formale dell'opposto

sulla asserita collaborazione con il dott. F.

era irrilevante ai fini probatori.

Pertanto, la Corte di Cassazione rigettava

il ricorso e condannava il ricorrente al

pagamento delle spese del giudizio, che

liquidava in complessivi € 2.200,00, di cui

€ 2.000,00 per compensi, oltre alle spese

generali ed accessori di legge.

2) IL COMMENTO

Il procedimento monitorio è rivolto a far

ottenere - più velocemente rispetto alle

modalità tipiche della cognizione ordinaria

- al soggetto che ne fruisca un

provvedimento di condanna, con

successiva formazione del titolo esecutivo.

Lo svolgimento del procedimento di

ingiunzione – seppure con modalità più

celeri e semplificate - rappresenta

espressione dello stesso potere

giurisdizionale proprio dei provvedimenti

decisori ordinari. Fine precipuo è la celere

formazione della cosa giudicata, sempre

che l’inerzia dell’intimato permetta

l’ottenimento di un tale esito. Ed invero,

nel procedimento monitorio si verifica

un’inversione - a carico di detto soggetto -

dell’onere di instaurare il contraddittorio

per il giudizio a cognizione piena e

completa.

La ratio della particolare disciplina dei

diritti che possono essere azionati con il

procedimento monitorio risiede nella

sussistenza di due fondamentali

presupposti, rappresentati dalla forte

probabilità di esistenza del credito ed, al

contempo, dalla possibilità di un rapido

riscontro della fondatezza della domanda;

l’uno e l’altro ancorati al fatto che la prova

del diritto è documentale. Per quanto

concerne i crediti professionali, va rilevato

che l’art. 636 c.p.c. prevede la possibilità

di esperire la procedura monitoria per la

tutela dei crediti in questione, allegando

“la parcella delle spese e prestazioni,

munita della sottoscrizione del ricorrente e

corredata dal parere della competente

associazione professionale. Il parere non

occorre se l'ammontare delle spese e delle

prestazioni è determinato in base a tariffe

obbligatorie”.

Il prevalente indirizzo dottrinario,

propenso a ritenere – in forza della

previsione dell’art. 636, comma 2, c.p.c. –

che il giudice fosse, senz’altro, vincolato a

ritenere provate le spese e prestazioni

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

150

esposte nella parcella, quanto meno in sede

monitoria, è stato innovato dalle

precisazioni introdotte in merito dalla

Corte Costituzionale (C. Cost. 4 maggio

1984, n.137; C. Cost. 19 gennaio 1988,

n.34). Ed invero, la Corte Costituzionale

ha precisato che la competente

associazione professionale non deve

limitarsi a fornire un mero parere di

congruità, in relazione alle voci di tariffa

applicate, ma deve estendere la sua

indagine al se e al come le prestazioni

siano state effettuate dal professionista.

Con l’effetto che se tale indagine non

rileva dal parere espresso, il giudice può

ritenere non sufficientemente provata la

domanda ed invitare il ricorrente ad

integrare la prova, ex art. 640 c.p.c. 1. Se il

ricorrente non risponde all'invito o non

ritira il ricorso oppure se la domanda non è

accoglibile, il giudice la rigetta con decreto

motivato2. Tale decreto non pregiudica la

riproposizione della domanda, anche in via

ordinaria 3.

Bisogna sottolineare che, alla stregua del

puntuale disposto di cui all'art. 125 c.p.c.,

espressamente richiamato dall'art. 638

c.p.c., il ricorso per decreto ingiuntivo

deve contenere l'indicazione delle parti,

delle ragioni della domanda (causa

petendi) e dell'istanza (petitum) e di tutti

gli elementi probatori. Ed invero, con la

notificazione del ricorso monitorio

(unitamente al relativo decreto, art. 643

c.p.c.) si cristallizza la aeditio actionis a

tutti gli effetti sostanziali e processuali,

anche ai fini del giudizio di opposizione

(Cass., 28/4/1981, n.2588; Cass, 7/4/1987,

n. 3341; Cass., 17/8/1973, n. 2356; Cass.,

10/9/1990, n. 9311 e Cass., 13/6/1992, n.

7292 anticipano al momento del deposito

del ricorso monitorio taluni effetti ed

ormai Cass., Sezioni Unite, 17/6/2010, n.

14610 afferma che "l'inizio dell'azione

deve ritenersi coincidere con il momento

del deposito in cancelleria del ricorso per

decreto ingiuntivo, ai sensi dell'art. 638

c.p.c., così come chiarito da una pluralità

di pronunce di questa Corte, senza

contrasti sul punto, avendo il ricorso de

quo ad oggetto anche il giudizio di

cognizione che segue all'opposizione e

dovendosi ritenere proposta all'atto del

deposito dello stesso... (Cass. 22 maggio

2008 n. 13085, 27 dicembre 2004 n. 24021

e 18 marzo 2003 n. 3984, tra altre, tutte

conseguenti a S.U. 7 luglio 1993 n. 7448).

Ora, per quanto riguarda i crediti dei

professionisti, la sentenza della Corte di

Cassazione n.2471/2013 ha evidenziato

che la prova della sussistenza del credito

può essere fornita dal professionista che

chieda il compenso per le sue prestazioni

in sede di richiesta di decreto ingiuntivo

con la produzione della parcella e del

relativo parere dell'Ordine professionale

competente, ma che tale documentazione

non è sufficiente nel giudizio di

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opposizione, che si svolge secondo le

regole ordinarie del giudizio di cognizione.

Ed invero, nel procedimento monitorio la

valutazione della prova documentale è

subordinata a talune regole particolari: per

un verso, al vincolo di alcune fattispecie di

prova legale, per altro verso, all’opposto

ampliamento del principio del libero

convincimento, in virtù del quale sono

utilizzabili, ai fini dell’emissione del

decreto ingiuntivo, documenti che non

avrebbero valore probatorio in un giudizio

ordinario di cognizione. Il che deriva dal

fatto che la forma speciale del

procedimento monitorio impedisce al

giudice, a causa dell’istituzionale assenza

del contraddittore, una previa e completa

valutazione di tutte le ragioni e le

eccezioni delle parti in causa.

Pertanto, ogniqualvolta la prova scritta

della fase monitoria degrada ad indizio nel

successivo giudizio di opposizione, si pone

a carico del professionista l’onere di dare

compiuta prova del conferimento e

dell’espletamento dell’incarico, se la

controparte contesti, seppure in modo

“sommario”, l’uno o l’altro.

Il professionista ha l’onere di costituirsi in

giudizio, depositando il fascicolo della

fase monitoria. La documentazione posta

alla base del ricorso per decreto ingiuntivo

è destinata – per effetto della opposizione

a decreto ingiuntivo e della trasformazione

in giudizio di cognizione ordinaria – ad

entrare nel fascicolo del creditore. La

documentazione prodotta nella fase

monitoria deve, dunque, essere

nuovamente prodotta a cura dell’opposto.

Ed invero, essa non è automaticamente

acquisita al fascicolo di ufficio della fase

di opposizione e se il creditore opposto

non deposita nuovamente il fascicolo della

fase monitoria, il Giudice di cognizione

non può tenerne conto, ai fini della

decisione 4.

In sede di opposizione a decreto ingiuntivo

per pagamento di prestazioni professionali,

incombe al professionista l'onere di

provare, oltre al conferimento

dell'incarico, anche l'effettività delle

prestazioni indicate in parcella, mentre

incombe all'opponente l'onere di provare i

versamenti effettuati in acconto

Il fatto che il creditore si limiti a chiedere

il rigetto della opposizione non restringe la

cognizione del giudice di questa fase al

mero controllo della legittimità o meno del

credito. Introdotta l’opposizione, il

controllo si estende automaticamente sulla

sussistenza della relativa pretesa.

In conclusione, “la parcella del

professionista corredata dal … competente

Ordine di appartenenza ha valore di prova

privilegiata e carattere vincolante per il

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

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Giudice soltanto ai fini della ingiunzione e

non riveste tale valore probatorio nel

successivo giudizio di opposizione

(costituendo semplice dichiarazione

unilaterale del professionista). Ove vi sia

contestazione in ordine alla effettività e

alla consistenza delle prestazioni eseguite

incombe sul professionista l’onere

probatorio ex art. 2697 c.c. 5”.

1 Deve rilevarsi che non sempre la

giurisprudenza - anche di legittimità - ha

fatto corretta applicazione delle linee

interpretative tracciate dalla Corte

Costituzionale, in tal modo accentuando

nuovamente il carattere di “privilegio”

che la disposizione in parola sembra

rivestire, sul piano probatorio, in

considerazione della peculiare tipologia

del creditore che si avvale del

provvedimento. In tal senso sono state,

infatti, riprese - in qualche pronuncia più

recente - le affermazioni circa la

presunzione di veridicità della parcella del

professionista che avevano caratterizzato

l’indirizzo precedente, sulla base del

discutibile assunto che la mera iscrizione

all’albo del professionista medesimo

costituirebbe “una garanzia della sua

personalità”. Di conseguenza si è ribadito

- in contrasto con le menzionate

affermazioni della Corte Costituzionale -

che il parere del Consiglio dell’ordine o

della associazione di appartenenza – è

limitato alla verifica circa la

corrispondenza delle voci indicate in

parcella a quelle della tariffa, senza alcun

controllo in ordine al valore e

all’importanza della controversia.

2 Il giudice può rigettare la domanda per

mancanza di taluna delle condizioni

prescritte dall'art. 633 c.p.c. ovvero per

ragioni di rito (ad esempio, un ricorso

sottoscritto da un avvocato sfornito di

procura o privo di alcuno degli elementi di

cui all'art. 638 c.p.c. o presentato ad un

giudice incompetente ove l'incompetenza

sia rilevabile d'ufficio) o di merito (ad es.,

per la sussistenza di fatti impeditivi o

estintivi rilevabili, come la prescrizione,

d'ufficio). La pronuncia di rigetto per

motivi di rito ha carattere meramente

processuale

3 Il provvedimento è steso in calce al

ricorso e il cancelliere ne dà

comunicazione alla parte. È opinione

pacifica che esso non sia impugnabile, né

col regolamento di competenza, né per

cassazione ex art. 111 Cost., attesa la sua

inidoneità al giudicato.

4 Cass. civ. 18 aprile 2006, n. 8955.

5 Cass. civ. n. 24381/2010.

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

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Massima Per l’ammissibilità dell’appello, è ora necessario indicare

specificamente ed espressamente, senza aggiunte superflue o non

pertinenti, di modo che il giudice possa averne immediata contezza

senza essere costretto a defatiganti e dispersive ricerche, sia le precise

parti della motivazione della sentenza che il ricorrente chiede con il

supporto di adeguata e pertinente critica di eliminare, sia, ed in stretta

ed ordinata corrispondenza, permettendo una immediata intelligibilità

(nonché le eventuali valutazioni ex art. 436 bis c.p.c.), le parti

motivazionali, idoneamente argomentate, che il ricorrente chiede che

siano in sostituzione inserite, richieste adeguatamente corredate dalla

altrettanto chiara, ordinata e pertinente indicazione degli elementi

fondanti la denuncia di violazioni della legge e della loro rilevanza ai

fini della decisione impugnata.

Appello filtrato: a pena di inammissibilità, si deve proporre

un ragionato progetto alternativo di decisione

Sentenza Corte di Appello di Salerno,

Sentenza n. n. 139/2013

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

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LA SENTENZA PER ESTESO

Corte di Appello di Salerno, sentenza

del 1.2.2013, n. 139

…omissis…

4. All’esito dell’udienza odierna, fissata per la

discussione, la Corte ha deciso la causa come

da dispositivo in atti.

5. Il gravame va scrutinato in primo luogo

sotto il profilo della sua ammissibilità,

ammissibilità peraltro messa in dubbio dalla

difesa della parte appellata.

6. Tale verifica va condotta alla luce della

novella1 intervenuta per effetto dell’art. 54 del

D.L. 83/2012 convertito (con modifiche) in L.

134/2012 e che ha condotto alla seguente

formulazione del primo comma dell’art. 434

c.p.c., valevole per i ricorsi depositati

dall’11.9.2012 in poi, tra i quali rientra quello

che occupa:

"Il ricorso deve contenere le indicazioni

prescritte dall'articolo 414.

L'appello deve essere motivato. La

motivazione dell'appello deve contenere, a

pena di inammissibilità:

1) l'indicazione delle parti del provvedimento

che si intende appellare e delle modifiche che

vengono richieste alla ricostruzione del fatto

compiuta dal giudice di primo grado;

2) l'indicazione delle circostanze da cui deriva

la violazione della legge e della loro rilevanza

ai fini della decisione impugnata".

7. La precedente formulazione dell’art. 434,

co. I, c.p.c. era invece la seguente: “il ricorso

deve contenere l’esposizione sommaria dei

fatti e i motivi specifici dell’impugnazione,

nonché le indicazioni prescritte dall’art. 414”.

8. Le interpretazioni emergenti dai primi

commenti sulla portata della novella si

collocano ad estremi opposti.

9. In un’ottica restrittiva se non finanche

“regressiva”, si potrebbe in primo luogo

sostenere che, non essendo più espressamente

richiesta la specificità dei motivi di

impugnazione, il gravame sarebbe ammissibile

ove il giudice, ad un esame (non importa se

faticoso e con ampi margini di incertezza)

complessivo dello stesso (cfr. Cass. Sez. Lav.,

Sentenza n. 15966 del 18/07/20072; Cass. Sez.

3, Sentenza n. 23870 del 08/11/20063), e

nonostante la mancanza di specifiche critiche

alle ragioni della decisione impugnata, sia

comunque in grado di risalire alle “parti del

provvedimento” appellate (eventualmente

identificabili, in senso ancora più restrittivo,

con riferimento al solo “dictum” contenuto nel

dispositivo”), alle violazioni di legge

denunciate ed alla conseguente riforma

richiesta.

Possibilità, questa, che potrebbe essere offerta

anche da una mera riproposizione delle tesi

motivatamente disattese dal primo giudice

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

155

(riproposizione, secondo la precedente

formulazione dell’art. 434 c.p.c. ritenuta fonte

di inammissibilità: cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza

n. 9244 del 18/04/2007, secondo cui non è

sufficiente che l'atto di appello consenta di

individuare le statuizioni concretamente

impugnate, ma è altresì necessario, pur quando

la sentenza di primo grado sia censurata nella

sua interezza, che le ragioni sulle quali si

fonda il gravame siano esposte con sufficiente

grado di specificità da correlare, peraltro, con

la motivazione della sentenza impugnata –

conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8771 del

13/04/2010).

10. Non lontano da tale interpretazione può

collocarsi quella secondo cui, pur non

ravvisandosi effetti regressivi, non

sussisterebbero nemmeno profili innovativi, e

la novella si limiterebbe a confermare i

risultati acquisiti dal diritto vivente circa

l’onere di specificazione dei motivi.

11. All’estremo opposto, si sostiene invece che

la novella abbia inteso profondamente incidere

sulla formulazione dell’appello, esigendo non

solo la proposizione di specifiche doglianze

(ritenute indispensabili, dalla stessa dottrina

ricordata, anche in teorica assenza di

previsione normativa “dedicata”, bensì già

solo “in base all’interesse ad impugnare”), ma

che le stesse si articolino nella indicazione

(necessariamente espressa e precisa delle parti

del provvedimento motivatamente contestatee

delle modifiche (corrispondentemente

motivazionali)che vengono richieste.

12. Si è variamente osservato, in tal senso,

anche in sede degli approfondimenti condotti

presso gli Uffici Giudiziari ex art. 47quater

O.G. ovvero di espressione di parere da parte

del C.S.M.:

- che il ricorso al termine motivazione

richiama più la sentenza che l’atto e

sembra spiegarsi con l’esigenza che l’appello

sia redatto in modo più organico e strutturato

proprio come una sentenza;

- che, dovendosi indicare esattamente al

giudice quali parti del provvedimento

impugnato si intendono sottoporre a riesame e,

per tali parti, quali modifiche si richiedono

rispetto a quanto formato oggetto della

ricostruzione del fatto compiuta dal primo

giudice, vanno indicate non solo quelle parti

che non vanno, ma anche come dovrebbero

andare4, senza riferirsi alle sole statuizioni del

dispositivo;

- che se poi si lamenta una violazione di legge

bisogna indicare le circostanze da cui essa

deriva e, non bastando una critica formale, la

rilevanza di tali circostanze ai fini della

decisione, sicchè, se ad esempio nel ricorso in

appello ci si limitasse a dedurre che tutta la

sentenza di primo grado è errata senza

specificare criticamente le parti della

motivazione contestate e le modifiche ad esse

richieste, il gravame dovrebbe ritenersi

inammissibile;

- che è in definitiva opportuno che, in un’ottica

di leale collaborazione delle parti alla pronta

definizione del giudizio, come previsto nel

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156

codice di rito tedesco al § 520 comma terzo, la

parte, in relazione ai singoli passi della

sentenza impugnata non condivisi, indichi con

inequivocabile nettezza i motivi

dell’evidenziato dissenso, proponendo essa

stessa un ragionato progetto alternativo di

decisione fondato su precise censure rivolte

alla sentenza di primo grado.

13. Questo collegio ritiene che, tra le opposte

interpretazioni sopra ricordate,

le prime non appaiano convincenti, giacchè, se

il Legislatore avesse voluto meramente

confermare l’orientamento giurisprudenziale

formatosi in tema di specificità dei motivi di

appello, non vi sarebbe stata alcuna ragione di

procedere con decretazione d’urgenza alla

modifica normativa in esame, per di più

eliminando l’espresso riferimento proprio a

detta specificità, atteso che il predetto

orientamento era del tutto consolidato (cfr. tra

le più recenti, cfr. Cass., Sez. 3, Sentenza n.

27727 del 16/12/2005; conf. Cass., Sez. Lav.,

Sentenza n. 1707 del 23/01/2009Cass., SS.

UU, Sentenza n. 23299 del 09/11/20115;

Cass., Sez. 3, Sentenza n. 25218 del

29/11/20116).

14. Per contro, diverse ragioni inducono a

prendere maggiormente in considerazione

l’ultimo orientamento esposto, seppure con la

cautela imposta dalla mancanza allo stato di un

consolidato indirizzo giurisprudenziale e con

la comprensione dovuta in sede di prima

applicazione per l’assimilazione della nuova

disciplina processuale da parte del Foro.

15. In aggiunta alle argomentazioni già

riportate, e che si ritengono appropriate e

convincenti, si può osservare :

- che già sotto la precedente formulazione

dell’art. 434 c.p.c. si andavano affermando

interpretazioni tali da escludere l’ammissibilità

dell’appello laddove l'esposizione delle ragioni

di fatto e di diritto fondanti l'impugnazione

non si risolvesse in una critica adeguata e

specifica della decisione impugnata, per tale

intesa quella “che consenta al giudice del

gravame di percepire con certezza e chiarezza

il contenuto delle censure in riferimento ad

una o più statuizioni adottate dal primo

giudice” (cfr. Cass., Sez. Lav., Sentenza n.

25588 del 17/12/2010, in fattispecie nella

quale detto onere di specificazione era stato

ritenuto assolto dal mero dissenso avverso

conteggi elaborati dal consulente tecnico

d'ufficio attraverso l'allegazione di copiosi

conteggi di parte, trascritti in molteplici pagine

e materialmente spillati all'atto di appello,

elaborati dalle associazioni sindacali su

documentazione reperita successivamente alla

pubblicazione della sentenza di primo grado,

traducendosi la contestazione in una censura

"per relationem" che, oltre ad introdurre

inammissibili documenti nuovi nel giudizio di

appello, era inidonea a consentire al giudice

del gravame di percepire in alcun modo il

contenuto delle contestazioni, non valendo al

riguardo il rilievo, di mero buon senso ma

processualmente irrilevante, di poter desumere

dalla discordanza tra i dati numerici ivi

riportati e quelli elaborati dagli ausiliari del

primo giudice le intrinseche ragioni del

dissenso alle statuizioni adottate, restando

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157

esclusa la possibilità di demandare al giudice

dell'appello un'operazione di comparazione

dalla quale evincere le pertinenti censure alla

consulenza tecnica d'ufficio);

- che, venendo alla nuova formulazione

dell’art. 434 c.p.c., come si evince anche dalle

relazioni che hanno accompagnato la novella,

introdotta con D.L. recante “misure urgenti per

la crescita del Paese”, la finalità della stessa è

quella di migliorare, ispirandosi in particolare

al modello tedesco7, l‘efficienza delle

impugnazioni a fronte della violazione

pressoché sistematica dei tempi di ragionevole

durata del processo, con conseguenti

indennizzi disciplinati dalla legge n. 89 del

2001, con incidenza diretta sulla finanza

pubblica e con configurazione, come osservato

da importanti organizzazioni nazionali e

internazionali, di un formidabile disincentivo

allo sviluppo degli investimenti nel nostro

Paese;

- che il chiaro il riferimento al § 520 della

ZPO tedesca8 identifica tale norma come un

importante parametro comparativo, oltre che

ineludibile elemento di valutazione in una

interpretazione necessariamente tendente

all’armonizzazione dei sistemi legislativi

comunitari (cfr., sul tema dell’armonizzazione,

anche Cass., Sez. Lav., Sentenza n. 15973 del

18/07/2007);

- che la suddetta norma obbliga l’appellante ad

indicare in primo luogo le parti della sentenza

delle quali chiede la riforma, nonché le

modifiche richieste, sicchè è stato osservato

che il lavoro assegnato al giudice dell’appello

appare alquanto simile a un preciso e mirato

intervento di “ritaglio” delle parti di sentenza

di cui si imponga l’emendamento, con

conseguente innesto – che appare quasi

automatico, giusta l’impostazione dell’atto di

appello – delle parti modificate, con

operazione di correzione quasi chirurgica del

testo della sentenza di primo grado;

- che la stessa enumerazione progressiva degli

elementi contenutistici della motivazione

dell’appello sembra suggerire un ordine

preciso degli stessi (in forte analogia ancora

una volta con la struttura del § 520 ZPO9,

nonché con l’ordinata enumerazione dei punti

contenutistici della sentenza ex art. 132 c.p.c.),

senza nemmeno potersi escludere una lettura

“in negativo” della norma che porti a ritenere

che il contenuto motivazionale indicato debba

essere il solo consentito oltre che il solo

richiesto, con preclusione quindi di

considerazioni che non siano chiaramente e

strettamente rapportate a parti della decisione

impugnata;

- che appaiono evidenti la facilitazione e lo

sveltimento del lavoro del giudice che ne

possono derivare, potendo il decidente

individuare con immediatezza e senza studi

defatiganti sia le richieste tendenti ad un

effetto demolitorio di precise parti della

motivazione della decisione impugnata, sia le

richieste, sorrette da specifica ed adeguata

motivazione critica, tendenti con stretta

corrispondenza anche espositiva ad un effetto

sostitutivo e, come si è appunto detto,

altrettanto “chirurgicamente” preciso di tali

parti con le parti indicate dall’appellante, il che

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si armonizza anche con le funzionalità di

editing redazionale consentite sul piano

informatico dal processo civile telematico (non

a caso altra innovazione che allo stato riceve

forte impulso sempre nell’ottica di un recupero

dei tempi di giustizia);

- che la finalità di agevolazione e sveltimento

dell’attività decisoria del giudice di appello

vieppiù si coglie ponendo mente alla

contestualità della novella dell’art. 434 c.p.c

con l’introduzione dell’art. 436-bis c.p.c. e

delle norme da esso richiamate (artt. 348-bis e

348-ter c.p.c.), relative al c.d. “filtro” di

ammissibilità dell’appello (a sua volta mutuato

dal § 522 della ZPO) a seconda della

sussistenza o meno di una ragionevole

probabilità di accoglimento del gravame,

giacchè è evidente che in tanto tale ultima

valutazione potrà essere agevolmente e

sollecitamente condotta in quanto chiara,

pertinente e precisa appaia la traccia decisoria

proposta dall’appellante;

- che tale senso del “trapianto” del § 520 della

ZPO nel c.p.c. lo si trova confermato anche

nella motivazione dell’emendamento

approvato dalla Commissione Giustizia della

Camera dei Deputati il 23.7.2012, laddove, in

sostanza recependosi le indicazioni del CSM,

si afferma che la novella, traendo “spunto,

ovviamente nella cornice ordinamentale

italiana, dal § 520, comma 3, della ZPO

tedesca” fa sì che “il giudice di appello vedrà

agevolato il proprio compito di esame, e per

altro verso si vedrà fugato il rischio di utilizzo

arbitrario del filtro, impedito dalla traccia

specifica proposta dall’appellante e su cui

necessariamente dovrà tararsi la prognosi di

ragionevole probabilità di accoglimento”;

- che depone infine fortemente nel senso

dell’interpretazione in questione anche il

principio, affermato in motivazione da Cass. n.

13825/2008, secondo il quale la regola della

ragionevole durata del processo ex art. 111,

comma 2, Cost. costituisce un parametro per

valutare la compatibilità con il dettato

costituzionale delle singole norme processuali

o, quanto meno, per patrocinarne una

interpretazione costituzionalmente orientata,

essendo di tutta evidenza chel’economia di

tempi processuali perseguita dalla novella (in

questo affattoinsignificante bensì di notevole e

strategica rilevanza per invertire la tendenza

all’accumulo di arretrato a carico delle Corti di

Appello) può essere ottenuta solo esigendo il

rispetto da parte dell’appellante, in un’ottica di

leale collaborazione ed a pena di

inammissibilità del gravame, dei predetti oneri

formali, e non consentendo più che il giudice,

se non in limiti ragionevoli (da valutare più

elasticamente in sede di prima applicazione

della novella), sia costretto a disperdere tempo

prezioso ed energie, a discapito di altre

risposte di giustizia attese, nella ricerca di

elementi che la parte ben può e deve fornire in

maniera ordinata e puntuale.

16. Conforta fortemente l’orientamento del

Collegio la circostanza che le prime decisioni

confermano una siffatta lettura della novella in

esame. In particolare, giova richiamare il

recente pronunciamento della Corte di Appello

di Roma (C. App. Roma, S.L., 15.1.2013, n.

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7491/2012 R.G., Pres. est. A. Torrice10),

secondo cui:

- la nuova formulazione dell’art. 434 1°

comma c.p.c “impone precisi oneri di forma

dell’appello in quanto non si è limitata a

codificare i più rigorosiorientamenti della

S.C.(Cass., 24 novembre 2005, n. 2483411;

Cass. 28 luglio 2004, n. 14251, Cass., 24

novembre 2005, n. 24834n. 110; 28 luglio

2004, n. 14251) in punto di specificità dei

motivi di appello, imposti dal vecchio testo

dell’art. 434 c.p.c.”, ma, prevedendo che

l’appello deve essere, a pena di

inammissibilità, motivato, ciò significa “che

esso deve essere redatto in modo più organico

e strutturato rispetto al passato, quasi come

una sentenza: occorre infatti indicare

esattamente al giudice quali parti del

provvedimento impugnato si intendono

sottoporre a riesame e per tali parti quali

modifiche si richiedono rispetto a quanto

formato oggetto della ricostruzione del fatto

compiuta dal primo giudice”;

- di conseguenza “non solo non basterà

riferirsi alle sole statuizioni del dispositivo,

dovendo tenersi conto anche delle parti di

motivazione che non si condividono e su cui si

sono basate le decisioni del primo giudice, ma

occorrerà anche, per le singole statuizioni e per

le singole parti di motivazione oggetto di

doglianza, articolare le modifiche che il

giudice di appello deve apportare, con attenta e

precisa ricostruzione di tutte le conclusioni,

anche di quelle formulate in via subordinate”;

- pertanto “l’appello per superare il vaglio di

ammissibilità di cui all’art. 434 c.p.c. deve

indicare espressamente le parti del

provvedimento che vuole impugnare (profilo

volitivo); per parti vanno intesi non solo i capi

della decisione ma anche tutti i singoli

segmenti (o se si vuole, “sottocapi”) che la

compongono quando assumano un rilievo

autonomo (o di causalità) rispetto alla

decisione; deve suggerire le modifiche che

dovrebbero essere apportate al provvedimento

con riguardo alla ricostruzione del fatto

(profilo argomentativo); il rapporto di causa ad

effetto fra la violazione di legge che è

denunziata e l’esito della lite (profilo di

causalità)”;

- tale opzione interpretativa è l’unica a poter

garantire che nel giudizio di gravame sia

assicurata la garanzia costituzionale di cui

all’art. 111 Costituzione, nei segmenti

intimamente correlati del giusto processo e

della durata ragionevole, anche con riguardo

alla disposizione contenuta nell’art. 436 bis

c.p.c.”, sotto tale ultimo profilo evidenziandosi

che è “assai più probabile che il giudice di

appello riesca a pervenire in tempi ragionevoli

alla definizione del processo quanto più i

motivi si conformeranno in misura

convincente allo stilema dell’art. 434 c.p.c.” e

che “quanto più gli appelli saranno sviluppati

nel rigoroso rispetto dell’art. 434 c.p.c. tanto

meno discrezionale sarà la valutazione di cui

all’art. 436 bis c.p.c. e tanto più giusto sarà nel

concreto il processo di appello”.

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160

Nella fattispecie esaminata dalla Corte

capitolina, pertanto, è stata ritenuta

l’inammissibilità di gravame che, tra l’altro:

- pur contenendo l’indicazione delle singole

statuizioni non condivise, aveva “omesso di

indicare le modifiche proposte con riferimento

a ciascuna part della sentenza”;

- non si era estrinsecato “nella produzione di

prospetti contabili alternativi rispetto a quelli

allegati al ricorso di primo grado e posti a base

dell decisione impugnata” né “in una proposta

di modifica” della statuizione su capo rilevante

della decisione impugnata;

- aveva mancato di “individuare il testo di una

nuova pronuncia volta a modificare le

argomentazioni del giudice di prime cure” in

ordine ad ulteriore capo rilevante; - aveva in

via subordinata richiesto la rideterminazione di

somme senza indicare “in relazione alle

singole doglianze i corrispondenti valori

monetari delle diverse voci”;

- in definitiva, aveva impedito “direttamente al

giudice di comprendere per quale motivo la

sentenza dovrebbe essere riformata e in quali

precisi termini debba essere motivata”.

17. Per le esposte ragioni, ad avviso di questa

Corte la novella dell’art. 434 c.p.c. intervenuta

per effetto dell’art. 54 del D.L. 83/2012

convertito (con modifiche) in L. 134/2012

appare rettamente interpretabile nel senso che,

per l’ammissibilità dell’appello, è ora

necessario indicare specificamente ed

espressamente, senza aggiunte superflue o non

pertinenti, di modo che il giudice possa averne

immediata contezza senza essere costretto a

defatiganti e dispersive ricerche, sia le precise

parti della motivazione della sentenza che il

ricorrente chiede con il supporto di adeguata e

pertinente critica di eliminare, sia, ed in stretta

ed ordinata corrispondenza, permettendo una

immediata intelligibilità (nonché le eventuali

valutazioni ex art. 436 bis c.p.c.), le parti

motivazionali, idoneamente argomentate, che

il ricorrente chiede che siano in sostituzione

inserite, richieste adeguatamente corredate

dalla altrettanto chiara, ordinata e pertinente

indicazione degli elementi fondanti la

denuncia di violazioni della legge e della loro

rilevanza ai fini della decisione impugnata.

18. In virtù di quanto detto, risulta palese che

la mera reiterazione da parte dell’appellante di

una tesi difensiva che non tenga conto delle

ragioni della decisione impugnata risulta

inidonea a determinare sia l’effetto

demolitorio di tali ragioni, sia l’effetto

sostitutivo delle stesse con nuova motivazione

(motivazione per la quale è richiesto il

superamento critico del precedente assunto

decisorio).

19. In particolare, con riferimento al caso di

specie, giova ricordare sotto il primo profilo

che, per costante orientamento

giurisprudenziale, allorquando, in una

controversia previdenziale, il giudice di primo

grado abbia recepito e fatte proprie le

conclusioni e le argomentazioni del CTU

(come nella fattispecie), deve ritenersi che i

motivi di appello vadano correlati alla

esposizione, pur sommaria ma chiara, delle

censure mosse a tali argomentazioni e

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conclusioni (cfr. Cass. 23-2-98 n. 192012), il

cui richiamo, in mancanza di specifiche

doglianze fatte dalla parte e sempreché il

giudice non si discosti dalla stessa CTU, ben

può esaurire l’obbligo di motivazione della

sentenza (cfr. Cass. 16-3-92 n. 3207, Cass. 24-

8-92 n. 9797, Cass. 8-11-93 n. 11024, Cass. III

civ. 6-4-98 n. 3551, Cass. I civ. 26-4-99 n.

4138; cfr. anche Cass., Sez. 1, Sentenza n.282

del 09/01/200913).

20. Sotto il secondo profilo, va del pari

richiamato l’altrettanto granitico orientamento

per il quale, ove il giudice di appello formi il

proprio convincimento in difformità degli

accertamenti del consulente tecnico di ufficio

di primo grado, è tenuto ad una critica

valutazione della relazione del primo

consulente, che ne dimostri l’erroneità

rendendo conto dei criteri logici della

decisione (cfr. Cass., Sez. Lav., Sentenza n.

2659 del 25/05/1978; Cass., Sez. Lav.,

Sentenza n. 1716 del 17/02/1987; Cass., Sez.

1, Sentenza n. 25569 del 17/12/201014).

21. Sicchè, nel caso che occupa, non può

ammissibilmente l’appellante richiedere la

riforma della gravata decisione in base alla

generica considerazione che “il parere del

consulente tecnico di ufficio, con il quale il

Giudice ha motivato la sua sentenza, nel

riconoscere il diritto alla prestazione, non

trova alcun riscontro nella realtà psico-fisica

dell’appellato”, con richiamo a “deduzioni

medico-legali del Sanitario dell’I.N.P.S.” a

loro volta essenzialmente riportanti il “verbale

di verifica su visita” del 13.12.2010, giacchè

le considerazioni ivi contenute,

cronologicamente precedenti gli accertamenti

peritali e di relativi rilievi conclusivi, non

possono logicamente né confutare criticamente

questi ultimi, né conseguentemente proporre,

in sostituzione della precedente, una nuova

motivazione che tale confutazione

necessariamente richiederebbe.

22. Per le suesposte – ed assorbenti –

considerazioni, l’appello deve essere quindi

dichiarato inammissibile.

23. Le spese del presente grado seguono la

soccombenza e sono liquidate ex D.M. n.

140/2012 come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte così provvede:

a) dichiara inammissibile l’appello;

b) condanna l’appellante al pagamento delle

spese processuali del presente grado, liquidate

in € 930,00.

Così deciso in Salerno, li 1.2.2013

Il Consigliere est. Il Presidente

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Massima E’ inammissibile la domanda di appello laddove presenti doglianze

non condivisibili rispetto a risultanze processuali correttamente

valutate in primo grado.

Appello filtrato: se la domanda si fonda su doglianze non

condivisibili, allora è inammissibile

Sentenza Corte di Appello di Bologna,

Ordinanza del 21.01.2013

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LA SENTENZA PER ESTESO

Corte di Appello di Bologna , sezione

terza, ordinanza del 21.1.2013

…omissis…

- che tali doglianze non appaiono condivisibili:

il teste Gabriella, addetta alla contabilità della

società appellante, ha, infatti, reso sul punto

dichiarazioni del tutto generiche affermando di

aver sentito parlare di tale asserito accordo da

non meglio specificati "addetti de La F. s.r.l."

il che, in assenza di un riscontro documentale

proveniente dalla società cedente, non può

certo di per sé solo valere a confermare

l'assunto difensivo della Valle dei T.;

- che parimenti l'appellante non può dolersi

della mancata ammissione del teste Donato,

dichiarato incapace a deporre con ordinanza in

data 14.10.2008, atteso che in sede di

precisazione delle conclusioni davanti al primo

Giudice non ha espressamente richiesto la

revoca della suddetta ordinanza né alcuna

difesa ha svolto sotto tale profilo delle sue

difese conclusive;

- che date tali risultanze correttamente il

Tribunale ha applicato l'art. 1248, 2° co., c.c.

ai sensi del quale la cessione non accettata

(come nel caso di specie) dal debitore ceduto,

ma allo stesso notificata, impedisce la

compensazione dei crediti sorti posteriormente

alla notificazione (è pacifico che i crediti di cui

La Valle dei T. pretende la compensazione si

riferiscono a fatture dalla stessa emesse nei

confronti della società La F. s.r.l.

successivamente all'avvenuta notifica delle

cessioni di credito prodotte da e. ai doc. da 1 a

9 allegati al ricorso per decreto ingiuntivo);

- che contrariamente a quanto ritenuto

dall'appellante la mancata produzione del

contratto di factoring (che si assume

originariamente stipulato tra e. e la

società La F.) non incide sulla legittimazione

di E. ad esigere i crediti di cui alle fatture in

oggetto, essendo le singole cessioni

puntualmente documentate in atti con scritture

sottoscritte dalla cedente società La Fonte e

non contestate (doc. 1-9 E.);

- che non essendo il creditore cedente parte

necessaria nel giudizio promosso dal

cessionario nei confronti del debitore ceduto

(Cass.n.3554/1971), il mancato accoglimento

della richiesta della Valle dei T. s.r.l. di

chiamata in causa del Fallimento della società

La F. s.r.l. non incide sulla validità

dell'impugnata sentenza non ricorrendo alcuna

delle ipotesi di cui all'art. 354 c.p.c.;

- che le esposte considerazioni portano a

ritenere che la proposta impugnazione non

abbia una ragionevole probabilità di essere

accolta;

P. Q. M.

Visto l'art. 348 bis c.p.c.

dichiara inammissibile l'appello proposto dalla

società Valle dei Trulli s.r.l.;

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

164

condanna la società appellante al rimborso, a

favore della società e.r. s.p.a., della spese del

grado che liquida in €.1.980 per compensi

professionali, oltre IVA e CPA come per

legge.

Bologna, 29 gennaio 2013

Il Presidente

dott. Giuseppe Colonna

Il Consigliere est.

Dott. Lucia Ferrigno

Depositata in Cancelleria il 29/01/2013

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165

di

MARCO MECACCI

Massima L’appello non ha ragionevoli probabilità di accoglimento quando è

prima facie infondato, così palesemente infondato da non meritare che

siano destinate ad esso le energie del servizio- giustizia, che non sono

illimitate.

Appello filtrato: l’assenza di ragionevole probabilità equivale

alla manifesta infondatezza

Sentenza Corte di Appello di Roma,

Ordinanza del 25.01.2013

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166

LA SENTENZA PER ESTESO

LA CORTE D’APPELLO Dl ROMA

SEZIONE TERZA CIVILE

così composta:

dr. Gianni Buonomo consigliere

dr. Mauro Di Marzio consigliere relatore

dr. Maria Rosaria Rizzo consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

…OMISSIS…

Osserva quanto segue.

§ 1. — La novità dell’istituto che il collegio è

chiamato ad applicare giustifica un suo

preventivo inquadramento. Stabilisce l’art. 348

bis c.p.c. che: «Fuori dei casi in cui deve

essere dichiarata con sentenza

l’inammissibilità o l’improcedibilità

dell’appello, l’impugnazione è dichiarata

inammissibile dal giudice competente quando

non ha una ragionevole probabilità di essere

accolta».

Non ritiene il collegio sebbene una simile

opinione sia stata sostenuta da una Patte della

dottrina o trovi qualche aggancio nei lavori

preparatori — che il giudizio di ragionevole

probabilità di accoglimento si risolva in una

valutazione sommaria assimilabile a quella

identificata col fumus boni juris che è

condizione del rilascio dei provvedimenti

cautelari. La sommarietà della cognizione, nel

sistema del rito civile, difatti, si presenta, di

regola, sotto due distinti profili: a volte intesa

come cognizione superficiale, altre volte come

cognizione parziale.

La prima forma di cognizione sommaria si

riscontra in un’ampia gamma di procedimenti,

per l’appunto cautelari, e trova fondamento su

una valutazione meramente delibativa del

materiale probatorio allo stato degli atti

disponibile, salvo, di norma, il successivo

controllo dell’esattezza della decisione

sommaria mediante il giudizio di cognizione

ordinaria. La seconda si riscontra nel caso dei

procedimenti a contraddittorio eventuale e,

segnatamene, nel procedimento per

ingiunzione, nel quale il giudice conosce della

fondatezza della pretesa solo attraverso la

documentazione prodotta dal creditore istante.

Con riguardo al giudizio di appello,

naturalmente, non può certamente discorrersi

di cognizione sommaria perché parziale.

Quanto alla configurabilità di una cognizione

sommaria perché superficiale, occorre

rammentare che l’appello può essere proposto

in ragione della ricostruzione del fatto

erroneamente operata dal primo giudice

ovvero in dipendenza di violazioni di legge dal

medesimo commosse:

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

167

i) in quest’ultimo caso non ha senso discorrere

di cognizione sommaria perché superficiale,

dal momento che la cognizione in jure non è

suscettibile, pei sua natura, di evolversi in

ragione dello sviluppo del processo e degli

ulteriori approfondimenti che, all’interno di

esso, possono aver luogo; la cognizione in jure

è insomma in se stessa cognizione piena;

ii) ma, anche dal versante della ricostruzione

del fatto appare tutt’altro che agevole

immaginare una cognizione del giudice

d’appello meramente sommaria e, come tale,

suscettibile di ulteriore approfondimento nel

corso ulteriore del processo; il giudizio di

appello, infatti, nel suo assetto determinato in

particolare dall’ultima riforma, è pressoché

integralmente chiuso ad ogni novità di alcun

genero, sia sul piano delle allegazioni che delle

acquisizioni probatorie: esso, al di fuori di

ipotesi marginali, certamente non avute di

mira dal legislatore, si riassume cioè nel

riesame del materiale già acquisito in primo

grado ai fini della verifica di ben determinati

errori commessi dal primo giudice nella

ricostruzione del fatto; per altro verso, il

giudizio di appello, con riguardo alla

ricostruzione del fatto, non è compiuto nel

vuoto ovvero sulla base di acquisizioni

probatorie soltanto provvisorie, bensì, almeno

di regola, sulla base del materiale probatorio

già raccolto dinanzi al primo giudice; ed il

giudice d‘appello è tendenzialmente vincolato

agli accertamenti di fatto compiuti in primo

grado; neppure a tal riguardo, dunque, ha

senso discorrere di cognizione sommaria, e

tanto meno di fumus boni juris, giacché il

giudice fonda la propria decisione stilla

valutazione delle intere risultanze dcl giudizio

di primo grado, destinate perlopiù a rimanere

ferme in quello di secondo.

Insomma, la cognizione in jure non è

cognizione sommaria perché non può esserlo;

la cognizione della ricostruzione del fatto non

è di regola sommaria perché si fonda stilla

valutazione dell’intero materiale acquisito in

primo grado, riguardato attraverso la duplice

lente della sentenza impugnata e, quindi, dei

motivi di impugnazione.

L’aggettivo «sommario» è poi adoperato nel la

locuzione «Del procedimento sommario di

cognizione», che intitola il capo aperto

dall’art. 702 bis c.p.c. ma, in questo caso,

sembra doversi ritenere, con buona parte della

dottrina, che la cognizione non sia sommaria ,

ma piena, sebbene attuata attraverso un

procedimento semplificato ed informa le.

Posta tale premessa, sembra allora potersi dire

che l’appello non ha ragionevoli probabilità di

accoglimento quando è prima facie infondato,

così palesemente infondato da non meritare

che siano destinate ad esso le energie del

servizio- giustizia, che non sono illimitate:

questo, a parere del collegio, è il senso della

riforma, volta ad interdire l’accesso alle (ed

alle sole) impugnazioni dilatorie e pretestuose.

L’ordinanza di cui all’art. 348 bis c.p.c., per

questa via, si inserisce in un ampio intervento

legislativo volto a sanzionare l’abuso del

processo, abuso in cui si risolve l’esercizio del

diritto di interporre appello in un quadro di

plateale infondatezza.

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Appello privo di probabilità di accoglimento

non è quello che tale appare al giudice secondo

la sua soggettiva percezione, a seguito di una

sbrigativa lettura degli atti, ma è quello

oggettivamente tale, perché palesemente

infondato. Si può dire, quindi, che l’ordinanza

di cui all’art. 348 bis c.p.c, non ha un

contenuto concettualmente diverso dal nucleo

centrale della sentenza: essa manca invece di

tutto ciò che è superfluo a fronte di un appello

manifestamente privo di fondamento.

Ciò, del resto, è reso manifesto dalla

previsione del successivo art. 348 ter c.p.c.

concernente il ricorso per cassazione contro la

<<doppia conforme». Tale disposizione,

infatti, circoscrive l’ammissibilità del ricorso

per cassazione quando l’ordinanza di

inammissibilità dell’appello «è fondata sulle

stesse ragioni, inerenti alle questioni diritto,

poste a base della decisione impugnata»: il che

vuol dire che l’ordinanza dichiarativa della

ammissibilità non si allontana, sotto il profilo

contenutistico, dalla sentenza, tanto che la

motivazione dell’una può essere raffrontata

con l’altra al fine di verificare se il giudice

d’appello abbia deciso, in fatto, sulla falsariga

della decisione adottata dal primo giudice. Il

meccanismo della «doppia conforme» è

d’altronde previsto anche per il giudizio di

appello conclusosi come di norma con

sentenza: il che val quanto dire, a conferma di

quanto appena osservato, che tanto l’ordinanza

di inammissibilità ex art. 348 bis c.p.c. quanto

la sentenza d’appello, se fondate sulle

medesime ragioni in fatto che la sentenza di

primo grado, producono l’identico effetto di

precludere il ricorso per cassazione ai sensi del

n. 5 dell’art 360 c.p.c.. Anche questa

osservazione, allora, rende manifesto che

l’ordinanza e la sentenza si pongono da un

punto di vista contenutistico sullo stesso piano.

Si potrebbe dire — volendo paragonare un

filtro all’altro che l’ordinanza di cui all’art.

348 bis c.p.c. abbia un contenuto analogo a

quello dell’ordinanza di cui all’art. 375, n. 5,

c.p.c.: ordinanza cui è da credere nessuno

attribuirebbe natura di provvedimento a

cognizione sommaria, trattandosi di

provvedimento soltanto semplificato rispetto

alla sentenza.

…omissis…

La convenuta ha resistito.

Il tribunale di con sentenza …, ha accolto la

domanda osservando:

i) che ai sensi dell’articolo 651 c.p.p. la

sentenza penale irrevocabile di condanna

pronunciata in seguito a dibattimento nei

confronti della convenuta aveva efficacia di

giudicato, nell‘intrapreso giudizio di danno,

quanto al I ‘accertamento della sussistenza dcl

fatto, della sua illiceità penale e

all’affermazione che l’imputato lo aveva

commesso;

ii) che, essendo stata pronunciata in sede

penale sentenza di condanna generica, al

giudice civile non restava che quantificare il

danno;

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169

iii) che tale danno doveva essere provato nel

quantum e che la prova si desumeva dalle

testimonianze raccolte, dalle quali era risultato

che la , nell’arco temporale compreso tra il / cd

il , era molto spaventata, tanto da volersi

sempre far accompagnare da qualcuno;

iv) che il danno in questione non poteva che

essere liquidato equitativamente ai sensi dell

‘articolo 1226 c.c., trattandosi di danno

intrinsecamente non suscettibile di essere

provato nel suo preciso ammontare, e che la

liquidazione poteva essere effettuata in €

1OOOO,OO, tenuto conto della gravità dlelle

frasi e delle condotte minacciose Poste in

essere in un significativo arco temporale.

§ 4. …ha proposto appello (con atto notificato

il – - — – — ) con quattro motivi con cui ha in

breve sostenuto:

…omissis…

b) che il tribunale avrebbe nuovamente violato

le già menzionate disposizioni poiché, «invece

di verificare la gravità effettiva del danno,

verificava la gravità effettiva delle frasi e delle

condotte minacciose poste in essere, da parte

della (presunta) responsabile, come le frasi e le

condotte, di epr sé, fossero probanti del danno

lamentato, mentre le stesse erano inidonee a

provare il danno lamentato»;

e) che il tribunale avrebbe ancora una volta

violato le già menzionate disposizioni poiché

avrebbe ri conosciuto il risarcimento del danno

pur in mancanza della prova di un transeunte

turbamento psicologico, sicché «la domanda

dalla stessa proposta, era infondata, e andava

rigettata, avendo “giurato” i testimoni dalla

stessa indicati, che la stessa — svolgesse

regolarmente il proprio lavoro, sia in

… che nel suo … ..,

nonché che svolgesse tutte le ulteriori attività

extralavorative, e che tali fatti non provando

che la stesso, fosse in tale “lungo periodo” in

evidente sia/o di turbamento, psicologico

(quindi non spaventata) che le impediva di

svolgere anche le ordinarie occupazioni»

inoltre, a quanto par di capire, i testi, secondo i

… non sarebbero stati

attendibili;

d) che la liquidazione della misura di €

10.000,00 sarebbe stata «meramente

apodittica». mentre la somma avrebbe dovuto

essere di «congrua equità», mentre gli E

10.000,00 riconosciuti «non sommo altro che

€ 1.100,00 mensili, per un pregiudizio dovuto

a minacce sporadiche e non dalla mattina alla

sera!!!».

§ 5, L’appello spiegato è manifestamente

infondato e va pertanto dichiarato

inammissibile.

Tale decisione si fonda sulle stesse ragioni,

inerenti alle questioni di fatto, poste a base

della decisione impugnata. Ed infatti:

i) del tutto correttamente il tribunale ha

ritenuto che la sentenza penale di condanna,

recante altresì la condanna generica al

risarcimento del danno (la liquidarsi in

separato giudizio, comportasse la fondatezza

della domanda spiegata sotto il profilo dell’an;

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

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ii) del tutto correttamente il tribunale ha

ritenuto che la prova del quantum potesse

essere desunta dalle testimonianze raccolte,

riguardo alle quali non emerge del resto alcun

profilo di inattendibilità;

iii) del tutto correttamente il tribunale ha

ritenuto che attraverso le testimonianze fosse

stato dimostrato un permanente stato di

turbamento emotivo, descritto come spavento,

tale da alterare lo stato interiore della vittima,

producendo altresì una modificazione

peggiorativa delle sue abitudini di vita, poiché

costretta, in ragione della permanente

condizione di paura, a farsi accompagnare sia

nelle situazioni (li lavoro, che nella vita

personale;

iv) del tutto correttamente il tribunale ha

ritenuto che il danno non patrimoniale in

discorso potesse essere liquidato soltanto

equitativamente;

v) del tutto condivisibilmente il tribunale ha

ritenuto che il pregiudizio patito, tenuto conto

della reiterazione della condotta lesiva e della

sua gravità dovesse essere liquidato nella

misura di € 10.000,00.

§ 6. Le spese seguono la soccombenza.

PER QUESTI MOTIVI

visto l’articolo 348 bis c.p.c. dichiara

inammissibile l’appello proposto da …

nei confronti di … , condannando

l’appellante al rimborso, in favore

dell’appellata, delle spese sostenute per questo

grado dcl giudizio, liquidate in complessivi €

2400,00, di cui € 150,00 per esborsi ed il resto

per compenso.

Roma, 25.1.2013

Il presidente

Commento all’ordinanza della Corte

d’Appello di Roma, sez. III, 25.1.2013.

di Marco Mecacci[1]

La pronuncia in commento, costituisce una

delle prime applicazioni pratiche del disposto

dell’art. 348 bis c.p.c.[2], nel testo introdotto

dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83,

convertito con modificazioni dalla l. 7 agosto

2012, n. 134.

Con l’emissione di un’ordinanza, che invece di

essere succintamente motivata si estende per

alcune pagine in ragione della novità della

materia trattata, la Corte d’Appello fornisce

un’applicazione del contenuto del nuovo

disposto normativo, assai vicina ai principi del

processo a cognizione piena, cercando di

allontanare quale parametro di giudizio la

valutazione sommaria, che assimila

testualmente “a quella identificata con il

fumus boni juris che è condizione di rilascio

dei provvedimenti cautelari”.

Il tentativo di rendere il testo dell’articolo 348-

bis conforme ai principi del gravame a

cognizione piena storicamente propri del

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

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giudizio d’appello, è sicuramente lodevole

nelle finalità, ma si traduce forse in

un’interpretazione fin troppo prudente e

timidamente “costituzionalizzata” della

riforma.

La Corte infatti, scartando la possibilità di

emettere un giudizio probabilistico collegato

alla “ragionevole probabilità” che

l’impugnazione sia accolta, finisce per

proporre, in concreto, uno schema decisionale

più riferibile a una sentenza che a

un’ordinanza.

Il ragionamento compiuto per giustificare la

scelta di un’esame non meramente sommario

dell’impugnazione, senz’altro coerente a

livello sistematico, non appare tuttavia

completamente conforme al dettato del

paradigma normativo da applicare.

Nella sua sintetica chiarezza, la Corte parte

dalla premessa, non scontata e forse

assiomatica, che anche lo scrutinio imposto

dall’art. 348-bis, debba necessariamente avere

per oggetto gli errores in judicando tipici del

decisum a cognizione piena.

Nel dettaglio, si afferma che l’oggetto

dell’appello possa riguardare, o l’error

derivante da un’omessa, errata o falsa

applicazione di legge, o quello conseguente ad

una “ricostruzione del fatto erroneamente

operata dal primo giudice”.

Posta la premessa, la conseguenza che il

giudicante dà per scontata, è che sia nella

prima che nella seconda fattispecie, la

cognizione debba essere necessariamente

piena per ragioni sistematiche connesse

all’indagine che il giudice di secondo grado è

chiamato a compiere.

Dev’essere piena in jure, perché la cognizione

che ha per oggetto norme di diritto “non è

suscettibile, per sua natura, di evolversi in

ragione dello sviluppo del processo e degli

ulteriori approfondimenti che, all’interno di

esso, possono aver luogo; la cognizione in jure

è insomma in se stessa cognizione piena”;

Dev’essere piena anche in facto, perché la

struttura processuale chiusa conferita al

giudizio d’appello dalle riforme succedutesi

nel tempo, rende difficilmente ipotizzabile una

cognizione “meramente sommaria, e come

tale, suscettibile di ulteriore approfondimento

nel corso ulteriore del processo”

Questa argomentazione, tuttavia, più che

dall’art. 348-bis, pare avere tratto origine dal

disposto del nuovo testo dell’art. 342[3], che

espressamente impone “a pena

d’inammissibilità dell’appello”, l’obbligo di

indicare in punto di fatto le parti del

provvedimento che si intende appellare, con le

modifiche richieste alla ricostruzione del fatto

compiuta dal giudice di primo grado, e in

punto di diritto, le circostanze da cui deriva la

violazione della legge e la loro rilevanza ai fini

della decisione impugnata.

Anche se la norma non è stata espressamente

richiamata dalla Corte, le argomentazioni

sull’obbligo di scrutinare espressamente il

contenuto dell’appello in jure ed in facto,

appaiono chiaramente riferite a tale

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

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disposizione, perché non ne esistono altre, nel

codice, che a tale obbligo fanno riferimento

Se questa è la base normativa da cui la Corte

d’Appello ha tratto argomento per giustificare

un esame non sommario del gravame, non può

sfuggire il possibile iato tra norma e decisum,

conseguente a un’interpretazione assiomatica

del complesso normativo.

Il possibile iato, è imputabile al fatto che le

prescrizioni contenutistiche dell’art 342 sono

imposte “a pena d’inammissibilità”

dell’appello, senza che sia specificato se tale

inammissibilità debba essere pronunciata con

sentenza o con ordinanza.

Il ragionamento compiuto dalla Corte

d’Appello, dunque, può avere una sua

consequenzialità, soltanto ove si ritenga di

dover pronunciare l’inammissibilità con

sentenza, qualora il contenuto dell’atto

introduttivo difetti dei requisiti richiesti

dall’art. 342.

L’art. 348-bis, infatti, precisa espressamente

che il giudice pronuncia ordinanza, “fuori dei

casi in cui dev’essere dichiarata con sentenza

l’inammissibilità o l’improcedibilità

dell’appello”.

Se così è, tuttavia, l’argomentazione a

sostegno dell’obbligo di scrutinio

dell’inammissibilità “nel merito” appare

riduttiva rispetto al portato dell’art. 348-bis,

che impone un esame prognostico in ordine

alla futura possibilità di accoglimento delle

doglianze proposte proprio allo scopo di

differenziare il difetto dei requisiti di forma

contenuto dell’atto introduttivo per il quale

sarebbe prevista la pronunzia con sentenza,

dall’esame del merito.

Che questo sia il ragionamento, peraltro, è

chiaramente indicato nella parte successiva

dell’ordinanza, che testualmente recita: “…

appello privo di probabilità di accoglimento

non è quello che tale appare al giudice secondo

la sua soggettiva percezione, a seguito di una

sbrigativa lettura degli atti, ma è quello

oggettivamente tale, perché palesemente in

fondato. Si può dire, quindi, che l’ordinanza di

cui all’art, 348—bis c.p.c, non ha un contenuto

concettualmente diverso dal nucleo centrale

della sentenza: essa manca invece di tutto ciò

che è superfluo a fronte di un appello

manifestamente privo di fondamento”.

Appurato dunque che l’ordinanza, non ha un

contenuto “concettualmente diverso” dalla

sentenza, il risultato cui giunge la Corte nella

successiva esposizione dei motivi

d’inammissibilità si traduce – coerentemente

con l’impostazione a monte – in un esame

piuttosto esteso del fatto e in una succinta

motivazione che ricorda da vicino, più che il

testo di una sentenza ex art. 281- sexies,[4] la

pronuncia ex art. 74 del codice del processo

amministrativo (di seguito CPA)[5], a norma

del quale, il giudice decide con sentenza in

forma semplificata, nel caso in cui ravvisi la

manifesta fondatezza ovvero la manifesta

irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità

o infondatezza del ricorso.

L’art. 74 CPA, infatti, dispone che la

motivazione della sentenza può consistere in

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

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un “sintetico riferimento” al punto di fatto o di

diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso,

ad un precedente conforme, mentre l’art. 348 –

ter[6], prevede “il rinvio agli elementi di fatto

e di diritto riportati in uno o più atti di causa e

il riferimento a precedenti conformi”.

L’evidente differnza contenutistica tra le

disposizioni, consiste nell’obbligo di indicare

il “punto decisivo” della controversia, imposto

dall’art. 74 CPA, e non dall’art. 348 – ter.

Nel rito amministrativo, è proprio il

riferimento al “punto decisivo” che si rivela

essenziale nel favorire la speditezza e

l’efficacia del processo decisionale.

L’art. 348 – ter, non prevedendo questa

essenziale imposizione contenutistica al

decisum appare frutto di una scelta di politica

legislativa, più diretta a sanzionare l’abuso del

processo tout court che a prevedere forme di

gestione efficace ed effettiva del

contenzioso[7].

Alla luce di quanto esposto, lo iato tra

l’interpretazione della Corte d’Appello di

Roma e il disposto letterale dell’art. 348 – bis,

appare evidente, e consegue all’assioma di

avere ritenuto, in contrasto con il tenore

letterale della norma, che l’oggetto

dell’ordinanza che dichiara l’inammissibilità

debba necessariamente essere coincidente al

contenuto della sentenza.

[1] Avvocato, Studio Legale Mecacci, Firenze.

Componente della Redazione della rivista La

Nuova Procedura Civile.

[2] Articolo 348 Bis Inammissibilità

dell’appello

Fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con

sentenza l’inammissibilità o l’improcedibilità

dell’appello, l’impugnazione è dichiarata

inammissibile dal giudice competente quando

non ha una ragionevole probabilità di essere

accolta.

Il primo comma non si applica quando:

a) l’appello è proposto relativamente a una

delle cause di cui all’articolo 70, primo

comma;

b) l’appello è proposto a norma dell’articolo

702 -quater.

Articolo inserito dall’art. 54, D.L.

22.06.2012, n. 83, così come modificato

dall’allegato alla legge di conversione, L.

07.08.2012, n. 134, con decorrenza dal

12.08.2012. In virtù dell’art. 54, D.L.

22.06.2012, n. 83 le disposizioni di cui al

presente articolo si applicano ai giudizi di

appello introdotti con ricorso depositato o con

citazione di cui sia stata richiesta la

notificazione dal trentesimo giorno successivo

al 12.08.2012.

[3] Articolo 342 Forma dell’appello

L’appello si propone con citazione contenente

le indicazioni prescritte dall’articolo 163.

L’appello deve essere motivato.

La motivazione dell’appello deve contenere, a

pena di inammissibilità:

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

174

1) l’indicazione delle parti del provvedimento

che si intende appellare e delle modifiche che

vengono richieste alla ricostruzione del fatto

compiuta dal giudice di primo grado;

2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva

la violazione della legge e della loro rilevanza

ai fini della decisione impugnata.

Tra il giorno della citazione e quello della

prima udienza di trattazione devono

intercorrere termini liberi non minori di quelli

previsti dall’articolo 163 bis.

Il comma 2 è stato così sostituito

dall’art. 54, D.L. 22.06.2012, n. 83, così come

modificato dall’allegato alla legge di

conversione, L. 07.08.2012, n. 134, con

decorrenza dal 12.08.2012 ed è entrato in

vigore l’11 settembre 2012.

[4] La possibilità per il giudice

dell’appello di pronunciare sentenza ex art-.

281 – sexies è stata espressamente prevista

anche dal novo testo degli art. 351 e 352

introdotto dall’art. 27 della legge n. 183/2011.

[5] Articolo 74 D.lgs 104/2010 –

Sentenze in forma semplificata

1. Nel caso in cui ravvisi la manifesta

fondatezza ovvero la manifesta irricevibilita’,

inammissibilita’, improcedibilita’ o

infondatezza del ricorso, il giudice decide con

sentenza in forma semplificata. La

motivazione della sentenza puo’ consistere in

un sintetico riferimento al punto di fatto o di

diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso,

ad un precedente conforme

[6] Articolo 348-ter Pronuncia

sull’inammissibilità dell’appello

All’udienza di cui all’articolo 350 il giudice,

prima di procedere alla trattazione, senti le

parti, dichiara inammissibile l’appello, a

norma dell’articolo 348 -bis , primo comma,

con ordinanza succintamente motivata, anche

mediante il rinvio agli elementi di fatto

riportati in uno o più atti di causa e il

riferimento a precedenti conformi. Il giudice

provvede sulle spese a norma dell’articolo 91.

L’ordinanza di inammissibilità è pronunciata

solo quando sia per l’impugnazione principale

che per quella incidentale di cui all’articolo

333 ricorrono i presupposti di cui al primo

comma dell’articolo 348 -bis . In mancanza, il

giudice procede alla trattazione di tutte le

impugnazioni comunque proposte contro la

sentenza.

Quando è pronunciata l’inammissibilità,

contro il provvedimento di primo grado può

essere proposto, a norma dell’articolo 360,

ricorso per cassazione [nei limiti dei motivi

specifici esposti con l'atto di appello]. In tal

caso il termine per il ricorso per cassazione

avverso il provvedimento di primo grado

decorre dalla comunicazione o notificazione,

se anteriore, dell’ordinanza che dichiara

l’inammissibilità. Si applica l’articolo 327, in

quanto compatibile.

Quando l’inammissibilità è fondata sulle stesse

ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a

base della decisione impugnata, il ricorso per

cassazione di cui al comma precedente può

essere proposto esclusivamente per i motivi di

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

175

cui ai numeri 1), 2), 3) e 4) del primo comma

dell’articolo 360.

La disposizione di cui al quarto comma si

applica, fuori dei casi di cui all’articolo 348 -

bis , secondo comma, lettera a) , anche al

ricorso per cassazione avverso la sentenza

d’appello che conferma la decisione di primo

grado.

__________

Articolo inserito dall’art. 54 D.L.

22.06.2012, n. 83, così come modificato

dall’allegato alla legge di conversione, L.

07.08.2012, n. 134, con decorrenza dal

12.08.2012. In virtù dell’art. 54, D.L.

22.06.2012, n. 83 le disposizioni di cui al

presente articolo si applicano ai giudizi di

appello introdotti con ricorso depositato o con

citazione di cui sia stata richiesta la

notificazione dal trentesimo giorno successivo

al 12.08.2012.

[7] Conferma questa impostazione,

l’ideazione del complesso meccanismo di

ricorso per cassazione “quasi per saltum”

disposto dall’art. 348 – ter, e la previsione di

una vera e propria sanzione pecuniaria

aggiuntiva del pagamento di un ulteriore

contributo unificato nell’ipotesi in cui l’

mpugnazione anche incidentale sia è respinta

integralmente o dichiarata inammissibile o

improcedibile, imposto dall’art. 1, comma 27

della l. 228/2012.

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Nella nuova disposizione, non v’è più traccia dei motivi specifici, ma si prevede che l’appello, da

proporsi come prima dell’intervento riformatore con ricorso contenente le indicazioni prescritte

dall’art. 414 c.p.c., deve essere, a pena di inammissibilità, motivato.

Il che significa che esso deve essere redatto in modo più organico e strutturato rispetto al passato,

quasi come una sentenza: occorre infatti indicare esattamente al giudice quali parti del provvedimento

impugnato si intendono sottoporre a riesame e per tali parti quali modifiche si richiedono rispetto a

quanto formato oggetto della ricostruzione del fatto compiuta dal primo giudice.

Con la conseguenza che non solo non basterà riferirsi alle sole statuizioni del dispositivo, dovendo

tenersi conto anche delle parti di motivazione che non si condividono e su cui si sono basate le decisioni del primo giudice, ma occorrerà anche, per le singole statuizioni e per le singole parti di

motivazione oggetto di doglianza, articolare le modifiche che il giudice di appello deve apportare, con

attenta e precisa ricostruzione di tutte le conclusioni, anche di quelle formulate in via subordinate.

L’appello per superare il vaglio di ammissibilità di cui all’art. 434 c.p.c. deve:

-indicare espressamente le parti del provvedimento che vuole impugnare (profilo volitivo); per parti

vanno intesi non solo i capi della decisione ma anche tutti i singoli segmenti (o se si vuole, “sottocapi”) che la compongono quando assumano un rilievo autonomo (o di causalità) rispetto alla

decisione;

-suggerire le modifiche che dovrebbero essere apportate al provvedimento con riguardo alla

ricostruzione del fatto (profilo argomentativi );

-indicare il rapporto di causa ad effetto fra la violazione di legge che è denunziata e l’esito della lite

(profilo di causalità).

N.d.R.: le note, presenti nel provvedimento di seguito riportato, sono state aggiunte dalla Redazione.

Appello filtrato: dagli specifici

motivi alla motivazione

Sentenza Corte di Appello di Roma,

Sentenza del 15.01.2013

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LA SENTENZA PER ESTESO

Corte di Appello di Roma, sezione lavoro,

sentenza del 15.1.2013

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

CORTE DI APPELLO DI ROMA

sezione controversie lavoro, previdenza e

assistenza obbligatoria

la Corte composta dai Consiglieri

TORRICE dott. Amelia

Presidente rel.

ORRU’ dott. Tiziana

Consigliere

ZACCARDI dott. Glauco

Consigliere

…omissis…

SENTENZA

Oggetto: appello contro sentenza resa dal

Tribunale di Velletri n. 969/2012 in data

20.3.2012

Conclusioni: Per ciascuna parte come da

rispettivi scritti difensivi e come da verbale

dell’udienza di discussione.

fatto e motivi

Pronunziando sul ricorso proposto da… nei

confronti di…, ricorso volto alla condanna di

quest’ultima al pagamento della somma di €

12.853,69 , oltre rivalutazione monetaria ed

interessi legali a titolo di differenze retributive,

così ha statuito il Tribunale di Velletri, in

funzione di giudice del lavoro: ..disattesa ogni

diversa istanza, eccezione e

deduzione,definitivamente pronunciando,

condanna la … in persona del legale

rappresentante pro tempore al pagamento della

somma di € 12.853,69, oltre rivalutazione

monetaria sulla base degli indici I.S.T.A.T.

annuali ed interessi legali, calcolati sulla

somma anno per anno rivalutata,dalla

maturazione al saldo; condanna la convenuta

al rimborso delle spese di lite, da liquidarsi in

favore del procuratore antistatario del

ricorrente, che liquida in € 2.100,00 oltre iva e

cpa come per legge.

Con atto depositato il 24.9.2012 … ha

proposto appello avverso detta sentenza, per

chiedere che, in sua riforma, sia dichiari che

nulla è dovuto da essa appellante al …a titolo

di differenze retributive; in via subordinata ha

domandato che si ridetermini la somma dovuta

tenendo conto delle censure sopra evidenziate;

ha domandato che l’appellato sia condannato

alla refusione delle spese dei due gradi del

giudizio.

Si è costituito in giudizio…, il quale ha

contestato la fondatezza dell’appello e ne ha

domandato il rigetto.

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178

Alla udienza odierna la causa è stata discussa

e decisa con pubblica lettura del dispositivo

Il giudice di prime cure è pervenuto alla

statuizione impugnata sulla scorta delle

argomentazioni motivazionali che seguono:

- era pacifico che il livello attribuito dalla

società al …era quello che emergeva dalle

buste paga

- era infondata la prospettazione difensiva

della società secondo cui non spettava la

somma di € 2498,19 rivendicata a titolo di

differenze retributive sul rilievo che per il

periodo 1.4.2004-17.3.2006 il conteggio era

stato elaborato con riferimento al V livello e

non con riferimento al IV; e tanto perché

l’esame della tavola riassuntiva dei minimi

tabellari per i livelli II, III e IV evidenziava

che i conteggi erano stati correttamente

sviluppati con applicazione dei minimi tariffari

previsti in relazione ai diversi livelli nei quali

il …era stato inquadrato nel corso del rapporto

di lavoro (il giudice ha richiamato a fini

esemplificativi la retribuzione rivendicata per i

mesi di gennaio e febbraio 2005 per

evidenziare che era stato fatto corretto

riferimento ai minimi tabellari previsti per il

IV livello)

- le ore di lavoro indicate nei conteggi e,

segnatamente, quelle risultanti dai prospetti

paga di maggio 1992, dicembre 1993, aprile

1996, gennaio e settembre 1998, dicembre

2003, mensilità alle quali erano riferite le

contestazioni formulate dalla società, erano

conformi all’orario di lavoro osservato dal…,

nei termini quantitativi riferiti dai testi escussi

(il giudice di prime cure ha richiamato le

deposizioni rese dia testi …) che avevano

confermato quanto sul punto allegato dal

ricorrente;

- i conteggi esponevano per la più gran parte

orari di lavoro inferiori alle 173 ore mensili

mentre nel mese di ottobre 2003 il numero di

ore lavorate (184) risultava conforme al dato

esposto nella corrispondente busta paga;

- le voci esposte nei conteggi relativamente a

festività, straordinario, ferie e trasferte

risultavano corrisposte nelle buste paga ma

quantificate con riferimento a minimi tabellari

diversi da quelli relativo all’effettivo livello

nel quale il …era stato inquadrato nel corso

del rapporto di lavoro;

- quanto ai permessi cd riduzione di orario

di lavoro di cui all’art. 5 della parte generale

del CCNL di categoria, dalla prova

testimoniale era stata smentita la tesi difensiva

della società secondo cui i permessi annui

retribuiti di 15 minuti al giorno erano fruiti,

secondo prassi aziendale, all’inizio ovvero alla

fine della giornata di lavoro: i testi … avevano

avvalorato che l’orario di lavoro era pari ad 8

ore al giorno e non avevano confermato

l’esistenza dell’uso aziendale allegato dalla

società; le brevi pause di cui avevano parlato i

testi, cd pausa caffè, non erano sussumbili

entro la prospettata prassi aziendale , rimasta

senza alcun riscontro probatorio;spettavano

dunque le differenze correlate a detti permessi

L’atto di appello ( pgg II e III) riporta le

premesse in fatto che si leggono nella memoria

di costituzione nel giudizio di primo grado (

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

179

pgg II,III,IV ) ; lo svolgimento del processo di

primo grado è descritto nella pg. IV .

Nell’atto di appello sono riproposte le

contestazioni formulate nei confronti dei

conteggi allegati al ricorso di primo grado;

l’appellante riproponendo le eccezioni di

insussistenza del diritto dell’appellato a

percepire differenze retributive – Erroneità e

genericità dei conteggi allegati al ricorso di

primo grado deduce che la statuizione del

giudice di prime cure in ordine alla correttezza

di detti conteggi è destituita di fondamento, al

pari della statuizione con la quale il giudice di

prime cure ha affermato la correttezza dei

conteggi in relazione al numero di ore mensili

lavorate e al pari della statuizione con la quale

il giudice ha accertato il diritto al ricalcalo

delle voci retributive festività, straordinario,

ferie e trasferte ; l’appellante sostiene che il

giudice non avrebbe tenuto conto del fatto che

per gennaio e febbraio 2005 il minimo

retributivo indicato come parametro di

riferimento era di € 1.297,56 che era proprio

del V livello e non del quarto; che, se i

conteggi allegati al ricorso avessero tenuto

conto dell’orario contrattuale di 40 ore

settimanali avrebbero dovuto riportare sempre

come numero complessivo di ore lavorate 173

e non il numero variabile riportato nei

conteggi , numero corrispondente alle ore

indicate nelle buste paga, cifra, questa, anche

inferiore a 173; che le voci festività,

straordinario, ferie e trasferte erano state

computate con riguardo al V livello e non con

riguardo all’inquadramento effettivamente

spettante al ….

Nella prospettiva dell’appellante il giudice non

aveva considerato che il ricorrente non aveva

contestato quanto allegato nella memoria di

contestazione nel giudizio di primo grado e

che i testi escussi avevano confermato la

fruizione di 15 minuti di permesso all’inizio o

alla fine della giornata di lavoro e comunque

durante al giornata di lavoro.

L’art. 434 1° comma c.p.c, come sostituito

dall’art. 54, comma 1 lett. c-bis D.l. 22.6.2012

n. 83, convertito in legge 7.8.2012 n. 134[1]

dispone:

il ricorso deve contenere le indicazioni

prescritte dall’art. 414.L’appello deve essere

motivato.La motivazione dell’appello deve

contenere , a pena di inammissibilità :

1) l’indicazione delle parti del provvedimento

che si intende appellare[2] e delle modifiche

che vengono richieste alla ricostruzione del

fatto compiuta dal giudice di primo grado;

2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva

la violazione della legge e della loro rilevanza

ai fini della decisione impugnata.

La nuova disposizione, a parere di questa

Corte territoriale, impone precisi oneri di

forma dell’appello in quanto non si è limitata a

codificare i più rigorosi orientamenti del S.C.

(Cass., 24 novembre 2005, n. 24834n. 110; 28

luglio 2004, n. 14251, Cass., 24 novembre

2005, n. 24834n. 110; 28 luglio 2004, n.

14251,) in punto di specificità dei motivi di

appello, imposti dal vecchio testo dell’art. 434

c.p.c.

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

180

Nella nuova disposizione, infatti, non v’è più

traccia dei motivi specifici, ma si prevede che

l’appello, da proporsi come prima

dell’intervento riformatore con ricorso

contenente le indicazioni prescritte dall’art.

414, deve essere, a pena di inammissibilità,

motivato.

Il che significa, a giudizio di questa Corte

territoriale, che esso deve essere redatto in

modo più organico e strutturato rispetto al

passato, quasi come una sentenza[3]: occorre

infatti indicare esattamente al giudice quali

parti del provvedimento impugnato si

intendono sottoporre a riesame e per tali parti

quali modifiche si richiedono rispetto a quanto

formato oggetto della ricostruzione del fatto

compiuta dal primo giudice.

Con la conseguenza che non solo non basterà

riferirsi alle sole statuizioni del dispositivo,

dovendo tenersi conto anche delle parti di

motivazione che non si condividono e su cui si

sono basate le decisioni del primo giudice, ma

occorrerà anche, per le singole statuizioni e per

le singole parti di motivazione oggetto di

doglianza, articolare le modifiche che il

giudice di appello deve apportare, con attenta e

precisa ricostruzione di tutte le conclusioni,

anche di quelle formulate in via subordinate.

In conclusione a giudizio di questa Corte

territoriale l’appello per superare il vaglio di

ammissibilità di cui all’art. 434 c.p.c. deve

indicare espressamente le parti del

provvedimento che vuole impugnare (profilo

volitivo); per parti vanno intesi non solo i capi

della decisione ma anche tutti i singoli

segmenti (o se si vuole, “sottocapi”) che la

compongono quando assumano un rilievo

autonomo (o di causalità) rispetto alla

decisione; deve suggerire le modifiche che

dovrebbero essere apportate al provvedimento

con riguardo alla ricostruzione del fatto

(profilo argomentativi ); il rapporto di causa ad

effetto fra la violazione di legge che è

denunziata e l’esito della lite (profilo di

causalità).

L’opzione interpretativa sopra esposta è

l’unica che, a parere di questa Corte

territoriale, garantisce che nel giudizio di

gravame sia assicurata la garanzia

costituzionale di cui all’art. 111 Costituzione,

nei segmenti intimamente correlati del giusto

processo e della durata ragionevole, anche con

riguardo alla disposizione contenuta nell’art.

436 bis c.p.c.

È, infatti, assai più probabile che il giudice di

appello riesca a pervenire in tempi ragionevoli

alla definizione del processo quanto più i

motivi si conformeranno in misura

convincente allo stilema dell’art. 434 c.p.c.

E’ evidente, inoltre, che quanto più gli appelli

saranno sviluppati nel rigoroso rispetto

dell’art. 434 c.p.c. tanto meno discrezionale

sarà la valutazione di cui all’art. 436 bis

c.p.c. e tanto più giusto sarà nel concreto il

processo di appello.

L’appello in esame, per essere stato depositato

il 24.9.2012 soggiace alla disciplina di cui

all’art. 434 c.p.c. nel testo vigente a fra data

dall’11.9.2012 .

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

181

Esso è costruito in maniera difforme rispetto

alla previsione contenuta nell’art. 434 c.p.c. in

quanto l’appellante, pur avendo indicato le

singole statuizioni che non condivide, ha

omesso di indicare le modifiche proposte con

riferimento a ciascuna parte della sentenza.

L’ indicazione delle singole modifiche

proposte era necessaria avuto riguardo alla

esaustività e completezza della decisione

impugnata, che si è confrontata in maniera

analitica con le singole voci o capi di

domanda, con i dettagliati conteggi allegati al

ricorso introduttivo del giudizio e con le

singole contestazioni formulate dalla parte

convenuta.

Dalla analiticità e specificità delle singole

statuizioni della sentenza impugnata, correlate

ai conteggi allegati al ricorso introduttivo del

giudizio conseguiva per l’appellante un dovere

di conformazione alle previsioni della nuova

disposizione rigoroso e puntuale; in particolare

l’assolvimento dei precetti contenuti nell’art.

434 c.p.c. avrebbe dovuto estrinsecarsi nella

produzione di prospetti contabili alternativi

rispetto a quelli allegati al ricorso di primo

grado e posti a base della decisione impugnata;

avrebbe dovuto estrinsecarsi in una proposta di

modifica della statuizione che ha escluso alle

cd pause caffè rilievo e significanza ai sensi

dell’art. 5 del CCNL applicato al rapporto

dedotto in giudizio; avrebbe dovuto

individuare il testo di una nuova pronuncia

volta a modificare le argomentazioni del

giudice di prime cure in ordine alla inesistenza

della prassi aziendale dedotta dalla società,

quanto al regime di fruizione dei permessi ex

art. 5 CCNL citato.

Tanto più che nelle conclusioni formulate

nell’atto di appello è domandata, in via

subordinata, la rideterminazione delle somme

spettanti all’appellato, rideterminazione alla

quale il giudice di appello non può e non deve

per comando di legge pervenire in quanto non

risultano indicate in relazione alle singole

doglianze i corrispondenti valori monetari

delle diverse voci retributive differenziali.

L’art. 434 c.p.c. nuovo testo conferma il

principio affermato dal S.C. per cui il difetto

che assiste l’impugnazione, impedendo

l’esame nel merito del gravame, va trattato con

la dichiarazione di inammissibilità e non di

nullità; con la conseguenza che la condotta

processuale dell’appellato non servirà in alcun

modo a “recuperare” l’appello in quanto il

vizio impedisce direttamente al giudice di

comprendere per quale motivo la sentenza

dovrebbe essere riformata e in quali precisi

termini debba essere motivata.

Avuto riguardo alla novità della questione le

spese sono compensate

P.Q.M.

Dichiara l’inammissibilità dell’appello.

Spese del grado compensate.

Roma, 15.1.2013

Il Presidente Estensore

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

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[1] In dottrina sono state espresse critiche alla

riforma. In particolare, ci si è chiesti se sia

davvero possibile pretendere dal collegio

giudicante una capacità di selezionare, a colpo

d’occhio, gli appelli seri dagli altri: è realistico

auspicare e pretendere che alla prima udienza si

possa, da un giudice collegiale, in un mare di

gravami malamente fascicolati, con infallibile e

subitaneo colpo d’occhio, di cui è rara finora la

evidenza proprio in appello, secernere gli appelli

privi di serietà dagli altri? Così, CONSOLO, Lusso

o necessità nelle impugnazioni delle sentenze, in

Judicium.it., 2012. L’immediata ricorribilità della

sentenza di primo grado provocherà un ulteriore

appesantimento del carico di lavoro della Corte di

cassazione, già sovraccarica oltre misura; così,

CAPONI, La riforma dell’appello civile dopo la

svolta nelle commissioni parlamentari, in

Judicium.it, 2012; nella stessa direzione, anche

IMPAGNATIELLO, Il «filtro» di ammissibilità

dell’appello, in L’appello e il ricorso in cassazione

nella riforma del 2012, in Foro It., 2012, V. In

senso critico, pure FERRI, Filtro in appello: passa

lo svuotamento di fatto e si perpetua la tradizionale

ipocrisia italiana, in Guida al Diritto, 32, 2012, 10

ss. Per MONTELEONE, Il Processo civile in mano

al governo dei tecnici, in Judicium.it, 2012, la

riforma del filtro indurrà “ragionevolmente” i

giudici a comportarsi come hanno sempre fatto,

così in concreto non tenendo conto della novella;

tale ultimo assunto è smentito dal provvedimento

qui pubblicato.

[2] Si legge in COSTANTINO, Le riforme

dell’appello civile e l’introduzione del “filtro”, in

Treccani.it, 2012, 14, che l’indicazione delle parti

del provvedimento impugnate, non attiene alla

motivazione della sentenza, ma al suo oggetto.

[3] In questo senso, si era già espresso VIOLA, Il

nuovo appello filtrato, Pistoia, 2012, 23.

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

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Massima

L’articolo 1 della L. 7 ottobre 1969, n.742, il quale stabilisce che se il

decorso del termine ha inizio durante il periodo di sospensione,

l’inizio stesso è differito alla fine del periodo, va interpretato nel

senso che il giorno sedici settembre deve essere compreso nel novero

di quelli concessi dal termine, atteso che esso segna non già l’inizio di

quest’ultimo, bensì del suo decorso, in relazione al quale il dies a quo,

in base all’articolo 155, primo comma, c.p.c., non va computato.

Sospensione feriale dei termini: il

16 settembre va computato?

Sentenza Corte di Appello di Napoli,

Sentenza del 28.01.2013

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

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LA SENTENZA PER ESTESO

Corte di Appello di Napoli, sezione terza

bis, sentenza del 28.1.2013

…omissis…

Va premesso che per i termini mensili o

annuali, fra i quali è compreso quello di

decadenza dall'impugnazione ex art. 327

c.p.c., si osserva, a norma degli artt. 155,

secondo comma, c.p.c. e 2963 (1), quarto

comma, c.c., il sistema della computazione

civile, non ex numero bensì ex nominatione

dierum, nel senso che il decorso del tempo si

ha, indipendentemente dall'effettivo numero

dei giorni compresi nel rispettivo periodo, allo

spirare del giorno corrispondente a quello del

mese iniziale; analogamente si deve procedere

quando il termine di decadenza interferisca

con il periodo di sospensione feriale dei

termini: in tal caso, infatti, al termine annuale

di decadenza dal gravame, di cui all'art. 327,

comma primo, c.p.c., devono aggiungersi

quarantasei giorni computati ex numeratione

dierum, ai sensi del combinato disposto

dell'art.155, comma primo, c.p.c. e 1, comma

primo, della L. n. 742 del 1969, non dovendosi

tenere conto dei giorni compresi tra il primo

agosto e il quindici settembre di ciascun anno

per effetto della sospensione dei termini

processuali nel periodo feriale (cfr. Cass.

9.7.2012 n.11491(2), Cass. 11.8.2004

n.15530(3), Cass. 3.6.2003 n. 8850(4)).

Inoltre, l'articolo 1 della L. 7 ottobre 1969,

n.742, il quale stabilisce che se il decorso del

termine ha inizio durante il periodo di

sospensione, l'inizio stesso è differito alla fine

del periodo, va interpretato nel senso che il

giorno sedici settembre deve essere compreso

nel novero di quelli concessi dal termine,

atteso che esso segna non già l'inizio di

quest'ultimo, bensì del suo decorso, in

relazione al quale il dies a quo, in base

all'articolo 155, primo comma, c.p.c., non va

computato (cfr. Cass. 16.1.2006 n. 6885, Cass.

29.3.2007 n.77576, Cass. 24.6.2011 n.13973,

Cass. 14.11.2012 n. 19874). Tale regola non

subisce deroga neppure quando il giorno sedici

sia festivo, in quanto la proroga di diritto al

primo giorno successivo, prevista dal terzo

comma dell'articolo 155 c.p.c., riguarda la

scadenza e non già l'inizio del decorso del

termine (cfr. Cass. 30.3.2005 n.66797).

Da tali principi deriva che il termine annuale

previsto dall'articolo 327 c.p.c., dalla data

della pubblicazione della sentenza (14

settembre 1006), sospeso fino al 15 settembre

2006 e dal 1 agosto al 15 settembre 2007, ha

iniziato il suo decorso dal 16 settembre 2006

(compreso) ed è scaduto mercoledì 31 ottobre

2007. Infatti, in mancanza della sospensione

feriale, il termine in questione sarebbe scaduto

il 14 settembre 2007; aggiunti quarantasette

giorni (uno per la sospensione del 15

settembre 2006 e quarantasei per la

sospensione del 2007), si arriva al termine di

scadenza del 31 ottobre 2007.

L'appello è perciò inammissibile.

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

185

Le spese seguono la soccombenza (art. 91

c.p.c.) e si liquidano secondo i criteri dettati

dal D.M. 20 luglio 2012, n.140, tenendosi

conto che il procuratore della M. S.r.l., dopo la

Costituzione in giudizio, è comparso solo alla

prima udienza (del 28 febbraio 2008),

dichiarando di aderire all'astensione dalle

udienze proclamata dal competente ordine

professionale, e alla successiva udienza del 3

luglio 2008, fissata in prosieguo di prima

comparizione, senza svolgere,

successivamente, alcuna attività difensiva. Di

conseguenza, i compensi previsti dalla tabella

A allegata al predetto decreto ministeriale sono

conteggiati solo per la fase di studio e per

quella introduttiva.

P.Q.M.

La Corte di Appello di Napoli così provvede:

a) dichiara inammissibile l'appello;

b) condanna D.Z. e G.Z. in solido al

pagamento, in favore della M. S.r.l., delle

spese di appello, liquidate in Euro 1.030,00 (di

cui Euro 10,00 per spese ed Euro 1.020,00 per

compensi di avvocato).

1 Così recita: i termini di prescrizione contemplati

dal presente codice e dalle altre leggi si computano

secondo il calendario comune. Non si computa il

giorno nel corso del quale cade il momento iniziale

del termine e la prescrizione si verifica con lo

spirare dell'ultimo istante del giorno finale Se il

termine scade in giorno festivo, è prorogato di

diritto al giorno seguente non festivo. La

prescrizione a mesi si verifica nel mese di scadenza

e nel giorno di questo corrispondente al giorno del

mese iniziale. Se nel mese di scadenza manca tale

giorno, il termine si compie con l'ultimo giorno

dello stesso mese.

2 La massima così recita: per i termini mensili o

annuali, fra i quali è compreso quello di decadenza

dall'impugnazione ex art. 327 cod. proc. civ., si

osserva, a norma degli artt. 155, secondo comma,

cod. proc. civ. e 2963, quarto comma, cod. civ., il

sistema della computazione civile, non "ex numero"

bensì "ex nominatione dierum", nel senso che il

decorso del tempo si ha, indipendentemente

dall'effettivo numero dei giorni compresi nel

rispettivo periodo, allo spirare del giorno

corrispondente a quello del mese iniziale;

analogamente si deve procedere quando il termine

di decadenza interferisca con il periodo di

sospensione feriale dei termini: in tal caso, infatti,

al termine annuale di decadenza dal gravame, di

cui all'art.327, comma primo, cod. proc. civ.,

devono aggiungersi 46 giorni computati "ex

numeratione dierum", ai sensi del combinato

disposto dell'art.155, comma primo, stesso codice e

1, comma primo, della legge n.742 del 1969, non

dovendosi tenere conto dei giorni compresi tra il

primo agosto e il quindici settembre di ciascun

anno per effetto della sospensione dei termini

processuali nel periodo feriale.

3 La massima così recita: in tema di impugnazione,

al termine annuale di decadenza dal gravame, di

cui all'art. 327 c.p.c., comma primo, che va

calcolato "ex nominatione dierum", prescindendo

cioè dal numero dei giorni da cui è composto ogni

singolo mese o anno, ai sensi dell'art. 155 c.p.c.,

comma secondo, devono aggiungersi 46 giorni

computati "ex numeratione dierum", ai sensi del

combinato disposto dell'art. 155 c.p.c., comma

primo, e dell'art. 1, comma primo, della legge n.

742 del 1969, non dovendosi tenere conto dei

giorni compresi tra il primo agosto e il quindici

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

186

settembre di ciascun anno per effetto della

sospensione dei termini processuali nel periodo

feriale.

Inoltre,

4 La massima – estratta da Gius, 2003, 22, 2541 –

così recita: in tema di impugnazioni, al termine

annuale di decadenza dal gravame, di cui all'art.

327, comma primo, c.p.c., che va calcolato "ex

nominatione dierum", ai sensi dell'art. 155, comma

secondo, c.p.c., prescindendo dal numero dei

giorni da cui è composto ogni singolo mese od

anno, devono aggiungersi i 46 giorni di

sospensione dei termini processuali nel periodo

feriale (primo agosto - quindici settembre di

ciascun anno), calcolati "ex numeratione dierum",

nella misura di quarantasei giorni, ai sensi del

combinato disposto degli artt. 155, comma primo, e

1, comma primo, della legge n. 742 del 1969.

5 La massima così recita: in tema di sospensione

dei termini durante il periodo feriale, dal 1 agosto

al 15 settembre, l'art.1 della legge 7 ottobre 1969,

n.742 - il quale stabilisce che se il decorso del

termine ha inizio durante il periodo di sospensione,

l'inizio stesso è differito alla fine del periodo - va

interpretato nel senso che il giorno 16 settembre

deve essere compreso nel novero di quelli concessi

dal termine, atteso che esso segna non già l'inizio

di quest'ultimo, bensì del suo decorso, in relazione

al quale il " dies a quo ", in base all'art.155, primo

comma, cod. proc. civ., non va computato.

6 La massima così recita: in tema di sospensione

dei termini durante il periodo feriale dal 1° agosto

al 15 settembre, l'articolo 1 della legge 7 ottobre

1969 n.742 (il quale stabilisce che, se il decorso

del termine abbia inizio durante il periodo di

sospensione, l'inizio stesso è differito alla fine di

detto periodo), va inteso nel senso che il giorno 16

settembre deve essere compreso nel novero dei

giorni concessi dal termine, atteso che esso segna

non l'inizio del termine, ma l'inizio del suo decorso,

il quale non include il "dies a quo" in applicazione

del principio fissato dall'articolo 155, primo

comma, cod. proc. civ..

7 La massima così recita: in tema di sospensione

dei termini durante il periodo feriale dall'1 agosto

al 15 settembre, l'art. 1 della legge 7 ottobre 1969,

n. 742 (il quale stabilisce che, se il decorso del

termine abbia inizio durante il periodo di

sospensione, l'inizio stesso è differito alla fine di

detto periodo) va inteso nel senso che il giorno 16

settembre deve essere compreso nel novero dei

giorni concessi dal termine, atteso che esso segna

non già l'inizio di quest'ultimo bensì del suo

decorso, in relazione al quale il "dies a quo" non è,

in applicazione del principio fissato dall'art. 155

c.p.c., primo comma, da computarsi. Né tale regola

subisce deroga nel caso in cui il detto giorno 16

cada in giorno festivo (nel caso, domenica), in

quanto la proroga di diritto al primo giorno

successivo non festivo costituisce eccezione al

principio generale secondo cui i termini si

calcolano secondo il calendario comune non

computando il giorno iniziale ma quello finale, la

cui previsione peraltro nel caso non risulta da

norma alcuna, non soccorrendo al riguardo il terzo

comma del medesimo art. 155 c.p.c., che concerne

la scadenza, e non già l'inizio, del decorso del

termine.

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

187

di

MARIELENA D’AMATO

Massima

Ai fini di valutare la tempestività o meno dell’attività del notificante

occorre che questi fornisca rigorosa prova in ordine all’aver

consegnato il plico agli Ufficiali Giudiziari nell’orario regolamentare

in cui gli uffici rimangono aperti al pubblico dal momento che la

scadenza del termine si verifica all’ora regolamentare di chiusura

dell’ufficio giudiziario al pubblico, anche se , dopo tale ora, questo sia

stato trovato aperto e l’atto sia stato accettato dal cancelliere.

L’atto è tempestivo quando viene accettato dopo l’orario

regolamentato?

Sentenza Tribunale di Piacenza,

Sentenza del 28.02.2013

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

188

LA SENTENZA PER ESTESO

Tribunale di Piacenza, sentenza del

28.2.2013

…omissis…

In data 14 dicembre 2011 l’ufficiale

giudiziario dava atto di non aver reperito

l’ingiunta per la notifica del ricorso e del

decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di

Piacenza che, pertanto, veniva notificato ai

sensi dell’art 140 c.p.c. (1) e veniva,

quindi, ritirato presso l’Ufficio postale,

dalla stessa parte opponente in data 24

dicembre 2011.

Successivamente, come attestato

dall’esame dell’originale dell’atto di

opposizione poi notificato alla s.p.a., la

difesa di parte opponente si recava per

eseguire tale adempimento presso l’Ufficio

degli Ufficiali Giudiziari di Piacenza ove

l’addetta, A. G. , procedeva ad apporre il

proprio timbro e la propria sigla con il

timbro 2 febbraio 2012 nella parte

sottostante il cronologico 1859 riportante

la distinta delle spese di notifica, mentre

nella parte iniziale dell’atto, a penna ,

l’Ufficiale Giudiziario vergava la seguente

dicitura “ pervenuto alle ore 12,00 oltre

l’orario previsto” apponendo sotto di essa

la scritta “urgente” con un timbro, ed altra

data, a penna, 3/2. Sempre dalla lettura del

testo in originale emerge che sia il timbro

dell’ufficiale giudiziario, sia la data “ 2

febbraio 2012” che la dicitura “urgente”,

apposta sempre con il timbro, venivano

redatti sopra la bianchettatura di una

sottostante scritta rimasta così coperta.

Da ultimo risulta sempre in atti che l’atto

di citazione in opposizione perveniva al

domicilio di parte opposta il giorno 3

febbraio 2012.

Ciò precisato, non pare, in primo luogo,

fondatamente dubitabile la circostanza

secondo la quale, avendo l’ingiunta

ricevuto notifica del decreto ingiuntivo in

data 24 dicembre 2011 il termine

perentorio di 40 giorni entro il quale

doveva attivarsi per proporre l’opposizione

scadesse il 2 febbraio 2012 e non già,

come inizialmente prospettato dalla sua

difesa, in data 5 febbraio 2012,

computando l’inizio della decorrenza di

esso dal 27 dicembre (termine per la

compiuta giacenza relativa all’avviso di

ricevimento ex art 140 c.p.c.).

Ed, invero, avendo l’interessata ritirato la

copia a lei destinata il 24 dicembre 2011,

non vi è dubbio che il termine di compiuta

giacenza per il perfezionamento della

notifica nei suoi confronti è stato interrotto

con detto ritiro e, pertanto, il termine di 40

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

189

giorni per proporre opposizione deve

essere computato a decorrere da tale data.

Secondo la costante giurisprudenza della

Corte di Legittimità nonché della Consulta

in tema di notifica, richiamata anche da

parte attrice occorre, quindi, ribadire il

principio secondo il quale “la notifica di

un atto processuale, almeno quando debba

compiersi entro un determinato termine, si

intende perfezionata dal lato dell’istante, al

momento dell’affidamento dell’atto

all’ufficiale giudiziario, posto che, come

affermato dalle sentenze della Corte

Costituzionale n 69 del 1994 e n 477 del

2002, il notificante deve rispondere

soltanto del compimento delle formalità

che non esulano dalla sua sfera di

controllo, secondo il principio della

scissione soggettiva del momento

perfezionativo del procedimento

notificatorio” (Cass. Civ. sez. Lav. 13

gennaio 2010, 359; Cass. sez. Lav., 2

febbraio 2007, 2261).

Una volta così richiamati i principi

generali enunciati dalla Corte di

Legittimità, delicato e diverso problema

sottoposto all’esame del Tribunale è quello

posto dalla peculiare fattispecie in esame,

relativa ad un atto pervenuto nella

disponibilità del soggetto addetto alla

notifica, Ufficiale giudiziario, il quale al

momento della sua ricezione, ha apposto

su di esso la propria sigla e il proprio

timbro, nella data del 2 febbraio 2012, cioè

nell’ultimo giorno utile per il notificante,

ma in un orario, le ore 12,00 come indicato

a penna nell’atto medesimo, successivo a

quello previsto dovendosi verificare se tale

dato abbia ai presenti fini una sua

rilevanza.

Sul punto, ritiene questo Giudice,

necessario richiamare la giurisprudenza

della Corte di Legittimità la quale , anche

in epoca recente ha, proprio con riguardo

ad una fattispecie peculiare e assimilabile

a quella in oggetto, formulato significative

statuizioni.

In particolare si è affermato che “ il

principio secondo il quale la notifica a

mezzo del servizio postale si perfeziona

con la consegna dell’atto all’Ufficiale

giudiziario pone a carico del notificante, a

fronte della puntuale contestazione ad

opera della controparte della tardività della

notifica, l’onere di provare l’avvenuto e

tempestivo avvio del procedimento

notificatorio, essendo a tal fine sufficiente

la dimostrazione dell’avvenuto deposito

del plico nel rispetto del termine di

apertura dell’ufficio al servizio, mentre è

irrilevante che la registrazione sul registro

dell’ufficiale giudiziario sia avvenuta

successivamente, trattandosi di dato

imputabile all’organizzazione interna

dell’Ufficio. In applicazione di tale

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

190

principio la Suprema Corte ha ritenuto

tempestiva la notifica del ricorso per

cassazione, il quale risultava depositato

l’ultimo giorno ma in orario in cui

l’organizzazione dell’ufficio non

consentiva la ricezione delle richieste

urgenti ai fini della loro evasione , ed era

quindi stato caricato sul registro

dell’ufficiale giudiziario solo il giorno

successivo” (Cass. sez. Unite, 1 giugno

2010, n. 13338).

Ed, ancora, si è ribadito che, ai fini di

valutare la tempestività o meno

dell’attività del notificante occorre che

questi fornisca rigorosa prova in ordine

all’aver consegnato il plico agli Ufficiali

Giudiziari nell’orario regolamentare in cui

gli uffici rimangono aperti al pubblico dal

momento che,”la scadenza del termine si

verifica all’ora regolamentare di chiusura

dell’ufficio giudiziario al pubblico, anche

se , dopo tale ora, questo sia stato trovato

aperto e l’atto sia stato accettato dal

cancelliere” (Consiglio di Stato sez.V, 2

novembre 2011, 5836; Cass. sez. I, 16

luglio 2005, 15103(2); Cass. sez. III, 24

agosto 1983, 5468; Cass. sez. Unite, 8

aprile 1976, n. 1226; Cass. sez. I, 15

gennaio 1973, 125; Cass. sez. I, 20 marzo

1972, 853). Da ultimo si è anche precisato

come, in caso di contestazione, la parte

interessata a provare la tempestività

dell’atto ben possa produrre una

certificazione integrativa che attesti che

esso è, in ipotesi, pervenuto presso

l’Ufficio competente entro l’orario

regolamentare per l’apertura al pubblico e

non già oltre ad esso rilevando tale dato ai

fini della fondamentale qualificazione

dell’attività del notificante come più o

meno tempestiva. Tornando, quindi, alla

fattispecie in esame occorre rilevare come

l’attestazione in precedenza esaminata,

riportata sull’originale dell’atto di

opposizione, non consenta di ritenere

provata, come prospettato dalla difesa di

parte attrice, nelle sue note conclusive, che

l’atto sia certamente pervenuto

all’Ufficiale Giudiziario che lo ha

ricevuto, entro l’orario regolamentare di

Ufficio e non, piuttosto, oltre ad esso a

seguito di discussioni e di contestazioni

insorte tra il difensoe e l’Ufficiale

giudiziario, come peraltro, riferito dalla

parte nelle note conclusive.

Ed, invero, non si può non osservare come

sull’originale l’Ufficiale giudiziario, come

non contestato, abbia espressamente

annotata la dicitura “ pervenuto alle ore

12,00 oltre l’orario previsto”.

Orbene, tale puntualizzazione,

diversamente da come prospettato da parte

attrice, che sul punto non ha ritenuto di

integrare eventualmente con una

certificazione dell’ufficiale Giudiziario il

significato dell’ attestazione medesima, in

ordine agli orari all’epoca praticati da

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

191

quell’Ufficio, ben può essere intesa,

secondo il suo significato letterale, nel

senso che l’atto di opposizione sia stato

consegnato per la notifica oltre l’orario

regolamentare e, pertanto, tardivamente,

(come affermato dalla giurisprudenza di

Legittimità), così come, in astratto,

potrebbe significare che esso è pervenuto

semplicemente oltre l’orario regolamentare

previsto solo per le notifiche urgenti ma,

comunque , entro l’orario regolamentare,

forse più ampio, previsto dall’Ufficio per

ricevere atti non urgenti e, pertanto, in

modo tempestivo.

Né, sul punto, si può ipotizzare, a

giustificazione del ritardo, che la

conoscenza di tali orari non sia possibile

ovvero, al contrario, che costituisca fatto

notorio, non appena si consideri come si

verta, pur sempre, nell’ambito di una

conoscenza di orari di uffici aperti al

pubblico con orari determinati a

prescindere dalla flessibilità e disponibilità

o meno a rimanere presente, del singolo

addetto.

All’esito delle valutazioni esposte si

impone, pertanto, in assenza di rigorosa

prova da parte del soggetto notificante, che

renda univoco il tenore della dicitura in

esame, in ordine alla tempestività della

notifica con riguardo alla vicenda del tutto

peculiare in oggetto, la declaratoria di

tardività dell’opposizione così come

eccepito dalla difesa di parte convenuta e

come, peraltro, rilevabile d’ufficio dal

Giudice, con conseguente dichiarazione di

esecutorietà del decreto ingiuntivo

opposto.

Avendo, da ultimo, l’opponente

prospettato che, nel caso di specie, sarebbe

comunque configurabile la fattispecie di

cui all’art 650 c.p.c. relativa all’ipotesi di

opposizione tardiva , rileva questo Giudice

come tale richiesta non possa trovare nella

presente sede esame , presupponendo una

situazione di fatto ed allegazioni di

elementi del tutto estranei al tema del

contendere oggetto del giudizio come

articolati nell’atto introduttivo.

In considerazione della peculiarità della

fattispecie in esame, sussistono,

comunque, gravi motivi per compensare

integralmente tra le parti le spese

processuale.

P . Q . M .

IL TRIBUNALE DI PIACENZA

definitivamente pronunciando così

provvede

DICHIARA

improcedibile l’opposizione proposta da C.

A. di B. R. M. T. impresa individuale nei

confronti della G. s.p.a. in persona del

legale rappresentante pro tempore e per

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

192

l’effetto dichiara esecutivo il decreto

ingiuntivo n 1692 emesso dal Tribunale

di Piacenza il giorno 14-15 novembre

2011 in favore della G. s.p.a. in persona

del legale rappresentante

DICHIARA

integralmente compensate tra le parti le

spese processuali

Così deciso in Piacenza,il giorno 28

febbraio 2013. Giudice dott.ssa G.

Schiaffino

1 In dottrina, si vedano CAPONI, Sulla

legittimazione dell'ufficiale giudiziario a notificare

il ricorso per cassazione a mezzo del servizio

postale, nota a C. 11140/2004, in Foro it., 2004, I;

VERDE, Profili del processo civile, Napoli, 1991.

2 La massima – estratta da Fallimento, 2006, 2,

218 – così recita: in tema di ricorso, art. 100 legge

fallimentare - R.D. n. 267/1942, per l'impugnazione

dei crediti ammessi, al fine di stabilirne la

tempestività, ove il deposito del ricorso sia

avvenuto l'ultimo giorno utile, occorre accertare

l'orario di apertura al pubblico della cancelleria

del giudice fallimentare, essendo irrilevante

l'eventuale protrazione del servizio dei funzionari

ad essa addetti per il disbrigo del lavoro interno.

Consegna dell’atto all’U.G. oltre l’orario di

ufficio: la notifica è tempestiva?

Annotazione sentenza del Tribunale di

Piacenza del 28.02.2013

di Marielena D’Amato

Sommario: 1. Premessa 2. Il caso 3. Quaestio

juris 4. Momento di perfezionamento della

notifica 5. Tempestività della notifica 6. Onere

della prova

1. Premessa

Quotidianamente gli avvocati si devono

districare fra diversi uffici per far fronte ai

numerosi incombenti. Il Tribunale di Piacenza,

con la sentenza in commento, ha richiamato

l’attenzione sull’obbligo di rispettare

rigorosamente gli orari di apertura al pubblico

dell’uffici degli Ufficiali Giudiziari, affinché

la notifica effettuata l’ultimo giorno utile non

risulti tardiva, ed ha specificato, altresì, che

spetta alla parte notificante l’onere di provarne

la tempestività in caso di contestazione.

2. Il caso

Il Tribunale di Piacenza emetteva decreto

ingiuntivo, che veniva notificato dall’Ufficiale

Giudiziario, in data 14 dicembre 2011, ai sensi

dell’art. 140 c.p.c.(1), stante l’irreperibilità

della parte ingiunta; quest’ultima, tuttavia, il

24 dicembre 2011 ritirava presso l’ufficio

postale l’atto giudiziario di cui era destinataria

così interrompendo il decorrere dei termini di

compiuta giacenza e perfezionando, in quel

momento, la notifica del decreto ingiuntivo nei

propri confronti.

Il difensore dell’ingiunta, determinato a

proporre opposizione avverso detto decreto

ingiuntivo ai sensi dell’art. 645 c.p.c., in data 2

febbraio 2012, ultimo giorno utile (2), si

recava presso gli uffici dell’Ufficiale

Giudiziario di Piacenza per consegnare la

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193

propria citazione in opposizione affinché la

stessa fosse notificata alla controparte.

L’addetto accettava l’atto e vi apponeva il

timbro con la propria sigla e la data, sotto al

numero cronologico riportante la distinta delle

spese di notifica. Tuttavia, sulla parte iniziale

dell’atto, egli annotava testualmente:

“pervenuto alle ore 12.00 oltre l’orario

previsto” e al di sotto apponeva il timbro

“urgente” e la data “3/2”. Peraltro, il timbro

dell’U.G., della data e quello riportante la

dicitura “urgente” venivano apposti sopra una

bianchettatura che nascondeva una scritta

sottostante.

L’atto veniva regolarmente ricevuto il giorno

successivo dalla parte opposta, la quale,

costituitasi in giudizio, eccepiva la tardività

dell’opposizione, in quanto proposta oltre il

termine decadenziale di 40 giorni previsto dal

legislatore.

3. Quaestio juris

La questione preliminare ed assorbente

affrontata dal Tribunale di Piacenza attiene la

tempestività dell’avvio del processo

notificatorio dell’atto di citazione in

opposizione, atteso che lo stesso è stato

consegnato all’Ufficiale Giudiziario l’ultimo

giorno utile per il notificante, ma oltre l’orario

di apertura al pubblico dell’ufficio.

La mera disponibilità dell’impiegato ad

accettare l’atto oltre l’orario regolamentare

rende la notifica valida e tempestiva?

Nel caso di specie, il Giudice ha accolto

l’eccezione sollevata da parte opposta di

tardività dell’opposizione, dichiarandone

l’improcedibilità, in assenza di prova contraria

in ordine alla consegna dell’atto entro l’orario

previsto.

4. Momento di perfezionamento della

notifica

Detta decisione riposa su un consolidato

sostrato giurisprudenziale in ordine al

momento in cui si perfeziona la notifica; in

particolare, la disamina della questione ha

preso le mosse dal fondamentale “principio

della scissione soggettiva del momento

perfezionativo del procedimento notificatorio”

(3), il quale prevede che la notifica debba

considerarsi eseguita per il notificante sin dal

momento in cui l’atto da comunicare viene

consegnato all’Ufficiale Giudiziario, mentre

per il destinatario da quando, successivamente,

ne prende conoscenza legale. In dottrina, si è

parlato, più precisamente, di un’anticipazione

di taluni effetti, il cui consolidamento

definitivo resta comunque condizionato al

compimento integrale del procedimento di

notifica (4). In tal modo si attua una tutela più

efficace nei confronti del soggetto notificante,

finalizzata ad evitare che egli sopporti il

rischio di ritardi o di inefficienze nella

notifica, non a lui ascrivibili, ed incorra in

un’eventuale decadenza.

Resta fermo che gli altri effetti ricollegati al

perfezionamento della notifica si producono,

sia per il richiedente che per il destinatario, al

termine dell’intero processo notificatorio (5),

così come disciplinato dalle disposizioni

normative specifiche.

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194

Detta scissione degli effetti della notifica si

pone quale principio generale

dell’ordinamento giuridico e, in quanto tale, è

applicabile in via interpretativa a tutte le forme

di notificazione disciplinate dal codice di rito,

senza la necessità di ulteriori pronunce di

illegittimità costituzionale (6).

Tanto è stato ribadito più volte anche dalla

giurisprudenza di legittimità della Corte di

Cassazione (7), la quale ha sottolineato che il

notificante debba rispondere solo degli atti

ricompresi nella propria sfera di azione e di

controllo, tant’è che la notifica può dirsi

perfetta ab origine, anche qualora il primo

tentativo non abbia avuto esito positivo per

causa non imputabile all’istante e si sia reso

necessario un diverso procedimento (8).

5. Tempestività della notifica

Acclarato che la notifica si intenda

perfezionata per la parte istante con la

consegna dell’atto all’Ufficiale Giudiziario, va

precisato che debba essere premura della

stessa attivarsi prima della scadenza del

termine decadenziale, quindi, finanche

nell’ultimo giorno utile, ma pur sempre nel

rispetto degli orari di apertura al pubblico

degli uffici preposti, salvo incorrere

inesorabilmente nel compimento di un atto

tardivo.

Va da sé, infatti, che per ragioni di certezza

giuridica e di parità di trattamento, il deposito

di un atto effettuato, nel giorno di scadenza,

presso un ufficio giudiziario può dirsi

tempestivo solo se sia avvenuto nell’arco degli

orari regolamentari, mentre è del tutto

irrilevante che l’ufficio sia stato casualmente

trovato aperto e l’atto sia stato accettato oltre

detti orari. Diversamente, si rischierebbe di

estendere ad libitum la possibilità di consegna,

con l’illogica conseguenza di rendere

imprecisato ed assolutamente discrezionale

anche un eventuale termine perentorio fissato

dal legislatore a pena di decadenza, in quanto

tale termine sarebbe legato alla disponibilità

dell’impiegato ad accettare il plico nonostante

sia pervenuto fuori orario, piuttosto che

rifiutarlo.

Tale principio, la cui applicazione è stata

estesa dalla giurisprudenza al deposito e alla

notifica di qualsiasi atto giudiziario, trova il

proprio saldo riferimento normativo nell’art.

172, co. 6, c.p.p. il quale recita che “il termine

per fare dichiarazioni, depositare documenti o

compiere altri atti in un ufficio giudiziario si

considera scaduto nel momento in cui,

secondo i regolamenti, l'ufficio viene chiuso al

pubblico”. Appare opportuno effettuare un

distinguo fra l’orario di servizio dell’ufficio –

ossia di funzionamento interno, valido

esclusivamente per gli impiegati - e quello di

apertura al pubblico, valevole per tutti gli

utenti e rilevante al fine

di verificare la tempestività dell’attività

compiuta (9), la quale prescinde dalla chiusura

effettiva dell’ufficio (10).

Quanto detto è corroborato da costante e

consolidata giurisprudenza di legittimità (11);

tra tutte si cita la recente sentenza del

Consiglio di Stato, 2 novembre 2011, n. 5836,

la quale, in modo chiaro ed inequivocabile, ha

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195

statuito che: “la scadenza del termine si

verifica all’ora regolamentare di chiusura

dell’ufficio giudiziario al pubblico, anche se,

dopo tale ora, questo sia stato trovato aperto e

l’atto sia stato accettato dal cancelliere”.

D’altronde, incombe sull’utente l’onere di

conoscere gli orari di apertura di tutti gli uffici

pubblici e di attenervisi scrupolosamente (12).

6. Onere della prova

Ciò posto, è pacifico che l’onere di dimostrare

la tempestività dell’avvio del procedimento

notificatorio gravi sulla parte notificante, la

quale, in caso di contestazione, deve provare,

tramite idonea documentazione, di aver

consegnato l’atto all’Ufficiale Giudiziario

prima che fosse maturato il termine di

decadenza (13). Segnatamente, non è

sufficiente che l’istante fornisca adeguata

prova relativamente al giorno di consegna

dell’atto, ma deve dimostrare, altresì, che essa

sia avvenuta nel rispetto degli orari di apertura

al pubblico dell’ufficio (14), in quanto la

scadenza del termine si verifica all’ora

regolamentare di chiusura.

La tempestiva consegna dell’atto per la

notifica può essere provata tramite l’esibizione

di apposita ricevuta rilasciata dall’Ufficiale

Giudiziario, oppure può essere desunta dal

timbro apposto sull’atto, riportante il numero

cronologico e la data (15); in caso di

contestazione della conformità dell’atto

all’originale o di quanto risulti da detto atto,

deve essere prodotta idonea documentazione

integrativa anche rilasciata dall’Ufficiale

Giudiziario.

Nel caso di specie, tale onere incombeva sulla

parte opponente. Dall’annotazione effettuata

dall’Ufficiale Giudiziario sull’atto -

“pervenuto alle ore 12,00 oltre l’orario

previsto” -, infatti, non era dato comprendere

se esso fosse stato consegnato entro l’orario

regolamentare o meno.

Infatti, atteso che gli uffici giudiziari

normalmente fissano un orario, meno ampio

rispetto a quello ordinario, per la ricezione

degli atti urgenti - ossia quelli da notificare in

tempi brevissimi -, sarebbe possibile ipotizzare

astrattamente che la dicitura apposta

dall’Ufficiale Giudiziario fosse ad indicare

l’avvenuta consegna del plico oltre l’orario

previsto per la notifica degli atti urgenti, ma

nell’arco dell’orario regolamentare; se così

fosse il processo notificatorio sarebbe stato

avviato tempestivamente. Allo stesso modo,

non era fuor di luogo ipotizzare che il plico

fosse pervenuto effettivamente oltre l’orario

ordinario e, pertanto, tardivamente.

Poiché, a fronte dell’eccezione di tardività

sollevata da parte opposta e della confusione

emergente dalla dicitura apposta sull’atto,

parte istante non ha fornito rigorosa prova

circa il tenore e il significato di detta

annotazione, il Tribunale di Piacenza, sulla

scia di pacifico orientamento

giurisprudenziale, ha dichiarato

l’improcedibilità dell’opposizione.

1 L’art. 140 c.p.c. è stato dichiarato

parzialmente illegittimo dalla Corte

Costituzionale con sentenza n. 3/2010 nella

parte in cui prevede che la notifica si

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perfezioni per il destinatario con la spedizione

della raccomandata informativa, anziché con

il ricevimento della stessa o, comunque,

decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione.

2 Il dies a quo per il decorso dei 40 giorni

previsti dall’art. 641 c.p.c. per la proposizione

dell’opposizione coincideva, infatti, con il 24

dicembre, data in cui l’interessata prendeva

legale conoscenza dell’atto, ritirandone la

copia a lei destinata presso l’Ufficio Postale

ed interrompendo il termine di compiuta

giacenza utile al perfezionamento della

notifica eseguita ex art. 140 c.p.c..

3 Tale principio è stato sancito dalla Corte

Cost. 26 novembre 2002, n. 477, relativamente

alla notifica a mezzo posta, con cui ha

dichiarato la parziale incostituzionalità

dell’originario art. 149 c.p.c. (poi modificato

dalla l. 263/2005) letto in combinato disposto

con l’art. 4, co. 3 L. 890/1982, sulla scorta

della precedente pronuncia n. 69 del 1994, per

quanto in contrasto con gli artt. 3 (principio di

eguaglianza) e 24 (diritto di difesa) Cost..

4 V. BALENA, Elementi di diritto processuale

civile, p. 252.

5 Cass. Civ. S.U. n. 458/2005.

6 Corte Cost. 23 gennaio 2004, n. 28.

7 Cass. civ. Sez. I, 04/06/2012, n. 8945; Cass.

Civ. 13 gennaio 2010, n. 359; Cass. civ. 2

febbraio 2007, n. 2261.

8 Cass. 13 aprile 2004, n. 7018; Cass. 23

marzo 2005, n. 6316.

9 Cass. 16 luglio 2005, n. 15103; Cass. pen.,

sez. I, 26 marzo 1998, n. 7112.

10 Cass. pen., sez. V, 27 maggio 1993, n.

1217.

11 Cass. Sez. Unite 1 giugno 2010, n. 13338;

Cass. 16 luglio 2005 n. 15103; Cass. 2 maggio

2005, n. 9069.

12 Consiglio di Stato, sez. V, 26 marzo 2001,

n. 1725; Cass. civ. 14 dicembre 1998, n.

12533.

13 Cass. 28 luglio 2005, n. 15797.

14 Cass. sez. Unite 1 giugno 2010, n. 13338.

15 Cass. Lav. 1 settembre 2008, n. 22003.

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Massima

L’inammissibilità della domanda tardiva è rilevabile d’ufficio, atteso

che il regime di preclusioni introdotto nel rito civile ordinario deve

ritenersi inteso non solo nell’interesse di parte, ma anche

nell’interesse pubblico all’ordinato e celere andamento del processo,

con la conseguenza che la tardività delle domande, eccezioni,

allegazioni e richieste, deve essere rilevata d’ufficio dal giudice

indipendentemente dall’atteggiamento processuale della controparte

al riguardo e dall’eventuale accettazione del contraddittorio.

La domanda tardiva è inammissibile anche se è stato

accettato il contraddittorio

Sentenza Tribunale di Reggio Emilia,

Sentenza n. 618 del 3.4.2013

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LA SENTENZA PER ESTESO

Tribunale di Reggio Emilia, sentenza n. 618

del 3.4.2013

…omissis…

DIRITTO

va innanzitutto evidenziato che solo in sede di

precisazione delle conclusioni (cfr. foglio

allegato a verbale d’udienza del 17/11/2011),

la difesa attorea ha chiesto la condanna, oltre

che della Casa di Cura, anche del dott. Caio,

mentre detta richiesta, invece, non è mai stata

formulata prima dello scadere delle preclusioni

assertive di cui all’articolo 183 comma 5

ratione temporis vigente.

Deriva, in tutta evidenza, la tardività di tale

domanda, e quindi la sua inammissibilità,

correttamente eccepita da controparte (cfr.

verbale d’udienza sempre del 17/11/2011, ove

si dichiara di ‘non accettare il contraddittorio’)

e comunque pacificamente rilevabile

d’ufficio160, atteso che il regime di preclusioni

160 Per approfondimenti si veda VIOLA, Le domande nuove inammissibili nel processo civile, Milano, 2012, 103, secondo cui problema decisamente discusso è quello dell’accettazione del contraddittorio. In linea di massima, la parte interessata dovrebbe rilevare l’inammissibilità della domanda, così inducendo il giudicante a non pronunciandosi nel merito di questa. Cosa succede, però, quando il convenuto non eccepisce l’inammissibilità, ma anzi – con il proprio silenzio/comportamento – sembra accettare il contraddittorio sui nova?

Può, in questo caso, il giudice non pronunciarsi nel merito della domanda, oppure deve rispondere ex art. 112 c.p.c.?

In pratica:

-la parte può accettare il contraddittorio su “temi” esorbitanti rispetto a quelli iniziali, così imponendo al giudice di rispondere nel merito (tesi positiva)?

-oppure la parte non può comunque accettare il contraddittorio su “temi” esorbitanti rispetto a quelli iniziali, così che il giudice dovrà pronunciare l’inammissibilità (tesi negativa)?

Accogliendo la tesi positiva, condivisa da parte della giurisprudenza minoritaria, ne deriverebbe che, in caso di mancata eccezione di inammissibilità, il giudice dovrebbe rispondere anche sulla domanda nuova, decodificando il silenzio della controparte interessata come accettazione del contradditorio.

Se si accetta il contraddittorio, allora si amplia di comune accordo la piattaforma processuale, ed il giudice deve tenerne conto .

A favore di tale tesi, emergono i dati che:

-la ratio sottesa al divieto di domande nuove è quella di assicurare il pieno contraddittorio che diversamente verrebbe stravolto, con la conseguenza che – in tutti i casi in cui tale contraddittorio è rispettato – allora dovrebbero essere ammissibili domande nuove; sotto questa angolazione prospettica, pertanto, se la controparte accetta il contraddittorio, allora le domande nuove sono ammissibili;

-il processo è essenzialmente su iniziativa di parte ed il giudice deve rispondere a quanto chiesto ex art. 112 c.p.c., con la conseguenza che è legittimo lasciare spazio alle parti di decidere, in comune tra l’altro, l’area della disputa, relegando al giudice un ruolo di “giudicante nella sola parte finale del processo”;

-l’art. 115 c.p.c. oggi (con la novella introdotta dalla legge 69/2009) impone la contestazione specifica come principio generale (l’art. 115 c.p.c. è collocato sistematicamente entro le “Disposizioni generali”), così che è la legge ad imporre di eccepire l’inammissibilità su iniziativa di parte, con la conseguenza che in caso di omissione si avrà un silenzio-significativo da intendere come rinuncia all’eccezione e, per l’effetto, accettazione del contraddittorio; dinnanzi a tale “omissione” il giudice non può restare indifferente perché “deve porre a fondamento della decisione” i fatti non specificatamente contestati; si dice “deve” e non già “può” ;

-diversamente opinando, si violerebbe il disposto dell’art. 99 c.p.c. (circa il principio della domanda) e quello dell’art. 112 c.p.c. (circa l’obbligo del giudice di rispondere alle domande processuali in modo simmetrico e consequenziale), nonché l’art. 115 c.p.c. (che impone al giudice il “dovere” di porre a fondamento della decisione anche la mancata contestazione).

Accogliendo la tesi negativa prevalente, anche con il silenzio della parte sull’eccezione di inammissibilità, il giudice sarebbe tenuto a sollevare la questione d’ufficio, con la conseguenza di non dover entrare nel merito della questione inammissibile, anche se è stato accettato il contraddittorio; tra l’altro, trattandosi di rilievo d’ufficio inerente una questione rilevante ai fini della decisione finale (sentenza), il giudice dovrà sottoporre – a pena di nullità della sentenza – la quaestio iuris al sindacato delle parti processuali, ex art. 101 comma 2 c.p.c.

In favore della tesi negativa, si rileva che:

-la ratio sottesa al divieto di domande nuove è soprattutto il buon andamento processuale , con la conseguenza che l’accettazione del contraddittorio espresso o tacito non può soddisfarla; più chiaramente:

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introdotto nel rito civile ordinario deve

ritenersi inteso non solo nell’interesse di parte,

ma anche nell’interesse pubblico all’ordinato e

celere andamento del processo, con la

conseguenza che la tardività delle domande,

eccezioni, allegazioni e richieste, deve essere

rilevata d’ufficio dal giudice

indipendentemente dall’atteggiamento

processuale della controparte al riguardo e

dall’eventuale accettazione del

contraddittorio161 (Cass. n. 25598/2011162,

l’obiettivo della norma è assicurare il buon andamento che non può essere assicurato con il solo contraddittorio accettato;

-le parti non possono disporre in assoluto del thema decidendum, perché con il sistema preclusivo ex artt. 183-184 c.p.c. (per il rito ordinario) ed artt. 414-420 c.p.c. (per il rito del lavoro) sono assoggettati a ritmi “contingentati” ex lege, anche se accettano il contraddittorio dopo (è al di fuori delle loro facoltà);

-l’art. 115 c.p.c. non attiene alle eccezioni di inammissibilità, perché riguarda solo le contestazioni di “fatti” storici narrati nell’atto, mentre l’eccezione di inammissibilità è una contestazione diretta al petitum e non ai fatti storici; e, comunque, a tutto concedere, l’art. 115 c.p.c. impone sì la contestazione specifica, tale che l’omissione deve essere posta a fondamento della decisione, ma limitatamente ai diritti disponibili ed alle eccezioni in senso stretto rilevabili solo dalla parte, non anche alle questioni d’ufficio.

La giurisprudenza prevalente condivide la tesi negativa esposta.

161 Nello stesso senso, Cassazione civile, sentenza del 4.9.2012, n. 14803, in il ProcessoCivile.com, 201, 2012, secondo cui nel vigore del regime delle preclusioni di cui al nuovo testo degli artt. 183 e 184 c.p.c., introdotto dalla legge 26 novembre 1990, n. 353, la questione della novità della domanda risulta del tutto sottratta alla disponibilità delle parti, ed è, pertanto, pienamente ed esclusivamente ricondotta al rilievo officioso del giudice, essendo l’intera trattazione improntata al perseguimento delle esigenze di concentrazione e speditezza che non tollerano - in quanto espressione di un interesse pubblico - l’ampliamento successivo del thema decidendi, anche se su di esso si venga a registrare il consenso del convenuto. Il sistema delle preclusioni impedisce che, in sede di precisazione delle conclusioni, possa essere chiesto il risarcimento di un danno già verificatosi alla data della redazione dell’atto di citazione ovvero a quella dell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. e tuttavia non domandato (in esito all’interpretazione della domanda che compete al giudice del merito), ma non preclude la possibilità di richiedere il risarcimento di danni verificatisi successivamente.

162 La massima così recita: nel vigore del regime delle preclusioni di cui al nuovo testo degli artt. 183 e 184 c.p.c., introdotto dalla legge 26 novembre 1990, n. 353, la questione della novità della domanda risulta del tutto sottratta alla disponibilità delle parti, e pertanto pienamente ed esclusivamente ricondotta al rilievo officioso del giudice, essendo l'intera trattazione improntata al perseguimento delle esigenze

Cass. n. 16541/2011163, Cass. n.

10063/2011164, Cass. n.

14625/2010165,Cass.n.24442/2009,Cass.n.

20859/2009, Cass. n. 7270/2008, Cass. n.

11305/2007, Cass. n. 11298/2007, Cass. n.

6639/2007, Cass. n. 4901/2007, Cass. n.

26691/2006, Cass. n. 25242/2006, Cass. n.

24606/2006,Cass.n.20953/2006,Cass. n.

17152/2006, Cass. n. 19453/2005, Cass. n.

11318/2005, Cass. n. 23127/2004,

Cass.n.5539/2004, Cass. n. 16921/2003, Cass.

n. 378/2002, Cass. n. 4376/2000).

di concentrazione e speditezza che non tollerano - in quanto espressione di un interesse pubblico - l'ampliamento successivo del "thema decidendi", anche se su di esso si venga a registrare il consenso del convenuto.

163 La massima – estratta da CED Cassazione – così recita: in tema di esecuzione forzata, il principio per cui spetta al giudice dell'esecuzione verificare la sussistenza originaria e la permanenza del titolo esecutivo per tutto il corso del processo esecutivo deve essere coordinato, in sede di opposizione all'esecuzione, con i principi della domanda e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, di cui agli artt. 99 e 112 c.p.c. Ne consegue che, allorquando nel giudizio di opposizione si controverta della illegittimità del titolo esecutivo, costituisce domanda nuova - come tale inammissibile, secondo il regime preclusivo di cui alla legge 26 novembre 1990, n. 353, applicabile nella specie "ratione temporis" - la proposizione, nel corso del giudizio di primo grado o per la prima volta in appello, della richiesta di accertamento della carenza originaria del titolo per un motivo diverso da quello dedotto con l'atto introduttivo del giudizio di opposizione.

164 La massima – estratta da Foro It., 2012, 3, 1, 832 – così recita: spetta alla Corte dei conti la giurisdizione in ordine all'azione di responsabilità che il pubblico ministero presso la stessa corte abbia proposto nei confronti di un amministratore e di un membro del collegio sindacale di una società consortile per azioni costituita da enti pubblici, in relazione al danno da essi recato con atti di mala gestio agli enti pubblici consorziati.

165 La massima così recita: con riguardo a procedimento pendente alla data del 30 aprile 1995 - per il quale trovano applicazione le disposizioni di cui agli artt. 183, 184 e 345 cod. proc. civ., nel testo vigente anteriormente alla "novella" di cui alla legge 26 novembre 1990, n. 353 (art. 9 del d.l. 18 ottobre 1995, n. 432, convertito, con modificazioni, nella legge 20 dicembre 1995, n. 534) - il divieto di introdurre una domanda nuova nel corso del giudizio di primo grado risulta posto a tutela della parte destinataria della domanda; pertanto la violazione di tale divieto - che è rilevabile anche d'ufficio, non essendo riservata alle parti l'eccezione di novità della domanda - non è sanzionabile in presenza di un atteggiamento non oppositorio della parte medesima, consistente nell'accettazione esplicita del contraddittorio o in un comportamento concludente che ne implichi l'accettazione.

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

200

Né può opinarsi che la domanda attorea possa

considerarsi automaticamente estesa al Caio in

quanto chiamato in causa da parte del

convenuto.

Infatti, l’automatica estensione al terzo della

domanda attorea, si ha allorquando il

convenuto chiami in causa il terzo al fine di

ottenere la propria liberazione e

l’individuazione del chiamato quale unico e

diretto responsabile, sicché la chiamata

assolve il compito di supplire al difetto di

citazione in giudizio da parte dell’attore del

soggetto indicato dal convenuto come

obbligato in sua vece (Cass. n. 20610/2011166,

Cass. n. 12317/2011167, Cass. n. 5057/2010168,

166 La massima così recita: nell'ipotesi in cui la parte convenuta in un giudizio di risarcimento dei danni, derivanti dalla realizzazione di una nuova costruzione, nel dedurre il difetto della propria legittimazione passiva, chiami in causa un terzo, con il quale non sussista alcun rapporto contrattuale, chiedendone, in caso di affermazione della propria responsabilità, la condanna a garantirla e manlevarla, l'atto di chiamata, al di là della formula adottata, va inteso come chiamata del terzo responsabile e non già come chiamata in garanzia impropria, dovendosi privilegiare l'effettiva volontà della chiamante in relazione alla finalità, in concreto perseguita, di attribuire al terzo la responsabilità della cattiva esecuzione delle opere e dei danni conseguentemente arrecati. In tal caso, si verifica l'estensione automatica della domanda al terzo chiamato, indicato dal convenuto come il vero legittimato, onde il giudice può direttamente emettere nei suoi confronti una pronuncia di condanna, anche se l'attore non ne abbia fatto richiesta, senza per questo incorrere nel vizio di extrapetizione.

167 La massima così recita: il principio dell'estensione automatica della domanda dell'attore al chiamato in causa da parte del convenuto trova applicazione allorquando la chiamata del terzo sia effettuata al fine di ottenere la liberazione dello stesso convenuto dalla pretesa dell'attore, in ragione del fatto che il terzo s'individui come unico obbligato nei confronti dell'attore ed in vece dello stesso convenuto, il che si verifica quando il convenuto evocato in causa estenda il contraddittorio nei confronti di un terzo assunto come l'effettivo titolare passivo della pretesa dedotta in giudizio dall'attore. Il suddetto principio, invece, non opera allorquando il chiamante faccia valere nei confronti del chiamato un rapporto diverso da quello dedotto dall'attore come "causa petendi" come avviene nell'ipotesi di chiamata di un terzo in garanzia, propria o impropria.

168 La massima così recita: nell'ipotesi in cui la parte convenuta in un giudizio di responsabilità civile chiami in causa un terzo in qualità di corresponsabile dell'evento dannoso, la domanda risarcitoria deve intendersi estesa al terzo anche in mancanza di un'espressa dichiarazione in tal senso dell'attore, in quanto la diversità e pluralità

Cass. n. 25559/2008, Cass.

n.17954/2008,Cass. n. 6883/2008, Cass. n.

13374/2007, Cass. n. 13165/2007, Cass. n.

13131/2006, Cass. n. 1522/2006, Cass. n.

254/2006, Cass. n. 1748/2005, Cass. n.

15563/2004, Cass. n. 3643/2004, Cass. n.

14060/2003, Cass. n. 7273/2003, Cass. n.

5164/2003, Cass. n. 4740/2003, Cass. n.

4145/2003, Cass. n. 1294/2003, Cass. n.

11371/2002, Cass. n. 11366/2002, Cass. n.

6771/2002, Cass. n. 6026/2001, Cass. n.

2471/2000), mentre nel caso di specie il

convenuto ha evocato in giudizio il terzo

semplicemente deducendo che la causa è “a

lui comune” (pag. 4 comparsa di risposta), e

quindi non al fine di ottenere la propria

liberazione e l’individuazione del chiamato

quale unico e diretto responsabile.

Resta confermata, quindi, l’inammissibilità

della domanda di condanna del terzo formulata

dall’attore per la prima volta in sede di

precisazione di conclusioni, trattandosi di

domanda tardiva e di domanda che non può

essere qualificata come automaticamente

estesa al terzo al momento della sua chiamata.

Discende che unico destinatario delle pretese

di pagamento dell’attore è il convenuto Casa

di Cura Villa Verde.

b) Venendo al merito di tale domanda, la causa

può essere decisa sulla base della CTU, svolta

con motivazione convincente e pienamente

delle condotte produttive dell'evento dannoso non dà luogo a diverse obbligazioni risarcitorie, con la conseguenza che la chiamata in causa del terzo non determina il mutamento dell'oggetto della domanda ma evidenzia esclusivamente una pluralità di autonome responsabilità riconducibili allo stesso titolo risarcitorio.

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

201

condivisibile, neppure contestata dalle parti,

dalla quale il Giudicante non ha motivo di

discostarsi in quanto frutto di un iter logico

ineccepibile e privo di vizi, condotto in modo

accurato ed in continua aderenza ai documenti

agli atti ed allo stato di fatto analizzato.

Ha sul punto spiegato il CTU che, dopo

l’intervento chirurgico effettuato presso Villa

Verde, vi è stata una “carenza nella

tempestività della diagnosi e terapia della

mobilizzazione protesica, presente sin dal

1999 ma trattata solo nel non 2003” (pag. 15

perizia), atteso che l’attrice “attese fino a 2003

per procedere alla revisione chirurgica,

espianto ed impianto protesico, che già dal

1999 doveva ritenersi opportuna e non

concretamente evitabile” (pag. 14 perizia).

Ciò detto, occorre verificare se tale ritardo sia

addebitabile a parte convenuta; ed a tale

quesito, ritiene il Giudice debba darsi risposta

positiva.

Infatti, risulta per tabulas che l’attrice, dopo

l’operazione del 1997, è stata visitata a

pagamento presso Betadal dottor Caio almeno

per cinque controlli post operatori (cfr. pag. 8

e 13 perizia), ed almeno in uno di essi, il

18/9/2000, successivamente ai radiogrammi

del 24/5/99 ed 11/9/2000 che rendevano

necessaria ed inevitabile la nuova operazione,

poi effettuata solo nel 2003 (cfr. pag. 8 e 13

perizia).

Tanto premesso, era onere della Casa di Cura

provare di avere correttamente adempiuto alla

propria obbligazione tramite il tempestivo

suggerimento alla Marciani di sottoporsi al

nuovo intervento chirurgico.

Infatti, secondo la giurisprudenza da anni

consolidata, il rapporto che si instaura tra

paziente e casa di cura ha natura contrattuale, e

la responsabilità contrattuale della casa di cura

nei confronti del paziente può conseguire, ai

sensi dell’art. 1218 c.c., all’inadempimento

delle obbligazioni direttamente a suo carico,

nonché, in virtù dell’art. 1228 c.c.,

all’inadempimento della prestazione medico-

professionale svolta direttamente dal sanitario,

quale suo ausiliario necessario pur in assenza

di un rapporto di lavoro subordinato,

comunque sussistendo un collegamento tra la

prestazione da costui effettuata e la sua

organizzazione aziendale, non rilevando in

contrario al riguardo la circostanza che il

sanitario risulti essere anche ‘di fiducia’ dello

stesso paziente, o comunque dal medesimo

scelto (Cass. n. 24742/2008, Cass. n.

13953/2007, Cass. n. 23918/2006, Cass. n.

1698/2006, Cass. n. 571/2005, Cass. n.

13066/2004).

Detto della responsabilità contrattuale della

Casa di Cura anche per l’attività del medico,

l’applicazione del principio posto in termini

Delta da Cass. Sez. Un. n. 13533/2001 in tema

di responsabilità contrattuale alla

responsabilità medica, porta a ritenere che il

paziente deve provare l’esistenza del contratto

e l’aggravamento della situazione patologica,

restando a carico dell’ente ospedaliero la prova

che la prestazione professionale è stata

eseguita in modo diligente e che gli esiti

peggiorativi sono stati determinati da un

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

202

evento imprevisto e imprevedibile (Cass. Sez.

Un. n. 577-581/2008169; conforme la

successiva Cass. n. 10743/2009).

169 La massima – estratta da Altalex Massimario, 3, 2008 – così recita: anche allorché sia proposta domanda di condanna generica al risarcimento del danno, da liquidarsi in separato giudizio, il convenuto, che assuma che il proprio debito sia in tutto o in parte prescritto, ha l'onere di sollevare la relativa eccezione in tale giudizio nei termini di legge a pena di decadenza e non nel successivo giudizio di liquidazione del danno; il giudice di primo grado ha l'obbligo di decidere su tale eccezione, che integra una preliminare di merito, per cui l'eventuale sussistenza della prescrizione fa venir meno ogni interesse della parte all'accertamento dell'esistenza del diritto azionato.

Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre, non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione che produce il danno altrui o dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, ma dal momento in cui viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l'ordinaria oggettiva diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche.

L’onere della prova della provenienza del sangue utilizzato e dei controlli eseguiti grava non solo sul danneggiato, ma anche sulla struttura sanitaria che dispone per legge o per regola tecnica della documentazione sulla “tracciabilità” (c.d. principio della vicinanza alla prova).

Non può riconoscersi la responsabilità per omissione quando il comportamento omesso, ove anche fosse stato tenuto, non avrebbe comunque impedito l'evento prospettato: la responsabilità non sorge non perché non vi sia stato un comportamento antigiuridico (l'omissione di un comportamento dovuto è di per sé un comportamento antigiuridico), ma perchè quell'omissione non è causa del danno lamentato. Il giudice pertanto è tenuto ad accertare se l'evento sia ricollegabile all'omissione (causalità omissiva) nel senso che esso non si sarebbe verificato se (causalità ipotetica) l'agente avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli, con esclusione di fattori alternativi. L'accertamento del rapporto di causalità ipotetica passa attraverso l'enunciato "controfattuale" che pone al posto dell'omissione il comportamento alternativo dovuto, onde verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato. Si deve quindi ritenere che i principi generali che regolano la causalità di fatto sono anche in materia civile quelli delineati dagli artt. 40 e 41 c.p e dalla "regolarità causale", in assenza di altre norme nell'ordinamento in tema di nesso eziologico ed integrando essi principi di tipo logico e conformi a massime di esperienza.

Tali norme, però, vanno adeguate alla specificità della responsabilità civile, rispetto a quella penale, perché muta la regola probatoria: mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”, nel processo civile vige la regola della preponderanza dell’evidenza, o del “più probabile che non”.

Sul Ministero grava un obbligo di controllo e di vigilanza in materia di impiego di sangue umano per uso terapeutico (emotrasfusioni o preparazione di emoderivati) anche strumentale alle funzioni di programmazione e coordinamento in materia sanitaria, affinchè venga utilizzato sangue non infetto, con la conseguenza che, un’eventuale omissione, giustifica una piena responsabilità civile.

Ciò, nel caso di specie, non è avvenuto, atteso

che parte convenuta non ha provato, ed in

realtà nemmeno dedotto o quantomeno offerto

di provare, di avere diligentemente adempiuto

la propria obbligazione tramite la

segnalazione, quantomeno a partire dalla vista

del 18/9/2000, della necessità di un immediato

intervento chirurgico.

Consegue la sussistenza della dedotta

responsabilità medica per ritardo diagnostico e

l’inadempimento di parte convenuta alle

obbligazioni assunte nei confronti dell’attrice.

…omissis…

Pertanto, sulla base dei parametri liquidatori

cd. del Tribunale di Milano aggiornati

all’attualità - che qui si intendono applicare in

quanto condivisibili ed adeguati, e comunque

ritenuti dalla stessa Suprema Corte il metro

della corretta liquidazione del danno non

patrimoniale (in questi termini Cass. n.

12408/2011170, nella sostanza confermata e

ribadita dalle successive Cass. n. 14402/2011,

170 La massima – estratta da Altalex Massimario, 24, 2011 - così recita: in tema di scontro tra veicoli e di applicazione dell'art. 2054 c.c., l'accertamento in concreto della colpa di uno dei conducenti non comporta di per sè il superamento della presunzione di colpa concorrente dell'altro non può essere inteso nel senso che, anche quando questa prova non sìa in concreto possibile e sia positivamente accertata la responsabilità di uno dei conducenti per avere tenuto una condotta in sé del tutto idonea a cagionare l'evento, l'apporto causale colposo dell'altro conducente debba essere, comunque, in qualche misura riconosciuto.

Poiché l'equità va intesa anche come parità di trattameneo, la liquidazione del danno non patrimoniale alla persona da lesione dell'integrità psico-fisica presuppone l'adozione da parte di tutti i giudici di merito di parametri di valutazione uniformi che, in difetto di previsioni normative (come l'art. 139 del codice delle assicurazioni private, per le lesioni di lieve entità conseguenti alla sola circolazione dei veicoli a motore e dei natanti), vanno individuati in quelli tabellari elaborati presso il tribunale di Milano, da modularsi a seconda delle circostanze del caso concreto.

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Cass. n. 17789/2011, Cass. n.

2228/2012,Cass.n. 12464/2012, Cass. n.

19376/2012, Cass. n. 134/2013) - tenuto conto

di un’età di 73 anni al momento dell’errore

medico nel 1999, spetta a parte attrice un

complessivo risarcimento per danno non

patrimoniale, già comprensivo delle sofferenze

biologiche, morali ed esistenziali, di € 21.027

(ed in particolare, € 18.827 per danno

biologico permanente del 10%; sulla base

teorica di euro 110 giornaliere per ITT, somma

ricompresa tra quella minima di 91 e massima

di 136, € 2.200 per 60 giorni di ITP al 33%).

Su tale somma capitale, che integra

all’evidenza un debito di valore in quanto

posta risarcitoria, così come da domanda ed in

base ai principi Delta, vanno riconosciuti,

secondo la pacifica giurisprudenza,

rivalutazione ed interessi sulla somma stessa

via via rivalutata, dalla data del fatto, id est il

1999, al saldo. Tuttavia, essendo la somma

capitale già calcolata all’attualità ed in ragione

della difficoltà di procedere alla devalutazione,

in piena aderenza all’insegnamento dalla

Suprema Corte, gli interessi possono essere

calcolati sulla somma integralmente rivalutata,

ma da un momento intermedio tra il fatto e la

sentenza, id est il 1/1/2006.

c) Detto della condanna, nei termini di cui

supra, di parte convenuta, deve ora muoversi

all’esame delle posizioni dei terzi chiamati e

delle relative domande di manleva proposte

nei loro confronti.

Sul punto, va innanzitutto evidenziato che,

così come correttamente evidenziato dalla

difesa del Caio sin da pagina 6 della propria

comparsa di risposta, nessuna domanda di

manleva, garanzia o regresso, è stata proposta

dalla convenuta nei confronti del medico,

essendosi la difesa della Casa di Cura

singolarmente limitata a ritenere la causa “a

lui comune”, ma non avendo nei suoi

confronti spiegato alcuna domanda (cfr.

comparsa di risposta e citazione del terzo),

atteso che l’unica domanda di manleva

formulata è quella nei confronti delle

assicurazioni (cfr. nuovamente citazione del

terzo).

Pertanto, nonostante l’istruttoria abbia

comprovato la sua responsabilità medica per

ritardo diagnostico, nessuna statuizione di

condanna può essere effettuata nei confronti

del dottor Caio, atteso che, in ragione di

quanto sopra, l’attrice ha solo tardivamente

proposto domanda di condanna verso di lui, e

la convenuta non ha mai svolto nei suoi

confronti domanda di regresso.

d) Resta da esaminare le posizioni delle

assicurazioni, con riferimento alla domanda di

manleva proposta dalla Casa di Cura Villa

Verde.

In proposito, va innanzitutto evidenziato che la

difesa di parte convenuta, in sede di

precisazione delle conclusioni, si è riportata

solamente alla propria comparsa di risposta.

Ciò comporta che l’unica domanda di manleva

che deve essere analizzata è quella formulata,

per l’appunto in comparsa di risposta, nei

confronti della Alfa Assicurazioni, non

potendosi statuire sulle ulteriori domande

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

204

inizialmente proposte nei confronti delle

presunte coassicurazioni, in quanto formulate

nell’atto di citazione del terzo le cui

conclusioni non sono state richiamate in sede

di udienza di precisazione.

Quanto sopra, all’evidenza, consente di

ritenere assorbite le difese di merito svolte da

Gamma, Delta, Gamma, che hanno resistito in

rito e nel merito, per il dirimente rilievo che,

come detto, nessuna conclusione risulta verso

di loro proposta.

e) Ribadito che l’unica domanda di manleva

conclusivamente proposta è allora quella verso

Alfa, la domanda stessa è solo parzialmente

fondata.

In proposito, va innanzitutto disattesa

l’eccezione di prescrizione sollevata dalla Alfa

sin dalla comparsa di risposta e reiterata in

tutti i successivi atti, relativa alla pretesa

prescrizione del diritto risarcitorio azionato da

parte attrice, per il decorso di cinque anni

previsto in tema di responsabilità

extracontrattuale. Sul punto, basta osservare

che, diversamente da quanto opinato dalla

difesa della terza chiamata e così come invece

chiarito dalla giurisprudenza da anni pacifica

sul punto e più sopra citata, la responsabilità

medica rientra nell’alveo della responsabilità

contrattuale, e pertanto la prescrizione è

decennale e non già quinquennale.

L’eccezione di prescrizione, quindi, è

manifestamente infondata, riferendosi i fatti

per cui è processo al periodo 1997-1999 ed

essendo la causa stata promossa nel 2005.

Nel merito della domanda di garanzia, si

evidenzia che, sulla base della polizza prodotta

agli atti, Alfa assicura solo il 40% del danno, e

pertanto, in ragione dell’articolo 1911 c.c.,

essa è tenuta a rispondere nei confronti

dell’assicurato solo per tale quota, con

detrazione di una franchigia contrattuale pari

al 10% delle somme dovute e con un minimo

di lire 5 milioni (cfr. all. 2 fascicolo di parte

convenuta).

Discende che, solo in tali limiti è accoglibile la

domanda di garanzia formulata da parte

convenuta verso Alfa Assicurazioni, che dovrà

quindi essere condannata a rifondere a Casa di

Cura Beta il 40% di quanto pagato a Clelia

Marciani, in dipendenza della presente

sentenza, per somma capitale, interessi,

rivalutazione spese di lite, con una franchigia

pari al 10% e con un minimo di lire 5 milioni

di lire, pari ora ad € 2.582,29.

f) Circa le spese di lite, occorre distinguere tra

i vari rapporti processuali.

Nei rapporti tra attore e convenuta, non vi

sono motivi per derogare ai principi Delta

codificati dall’art. 91 c.p.c., e pertanto le

spese, liquidate come da dispositivo in assenza

di nota e con riferimento al D.M. n. 140/2012,

in ragione della previsione di retroattività

posta dal suo articolo 41 ed atteso che l’attività

degli avvocati si è esaurita dopo la

caducazione delle tariffe il 23/7/2012 (cfr.

Cass. Sez. Un. nn. 17405171-6/2012, Cass. n.

171 La massima - estratta da Altalex Massimario, 4, 2013 - così recita: in tema di spese processuali, agli effetti dell'art. 41 del D.M. 20 luglio 2012, n. 140, il quale ha dato attuazione all'art. 9,

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

205

18920/2012), sono poste a carico della

soccombente parte convenuta ed a favore della

vittoriosa parte attrice, tenendo a mente il

valore medio per ciascuna delle quattro fasi di

studio, di introduzione, istruttoria e decisoria,

con riferimento peraltro al decisum e non già

al disputatum.

Allo stesso modo, anche nei rapporti tra

convenuta e terza chiamata Alfa Assicurazioni,

non vi sono motivi per derogare ai principi

Delta codificati dall’art. 91 c.p.c., e pertanto le

spese sono poste a carico della soccombente

terza chiamata ed a favore della vittoriosa

parte convenuta, sempre tenendo a mente il

valore medio delle quattro fasi, con

riferimento al decisum e non già al disputatum.

Possono invece essere compensate le spese di

lite del dottor Caio, rinvenendosi i giusti

motivi di cui all’articolo 92 comma 2 c.p.c.

ratione temporis vigente, nel fatto che le

domande nei suoi confronti sono state rigettate

solo per motivi procedurali, mentre risulta

dalla CTU che …omissis…

rinvenendosi i giusti motivi di cui all’articolo

92 comma 2 c.p.c. ratione temporis vigente,

sia nel fatto che la domanda nei loro confronti

è stata rigettata per motivi procedurali; sia

co. 2, del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito in L. 24 marzo 2012, n. 27, i nuovi parametri, cui devono essere commisurati i compensi dei professionisti in luogo delle abrogate tariffe professionali, sono da applicare ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, ancorché tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta quando ancora erano in vigore le tariffe abrogate, evocando l'accezione omnicomprensiva di "compenso" la nozione di un corrispettivo unitario per l'opera complessivamente prestata.

altresì nel fatto che l’attività difensiva si è

svolta con un’unica comparsa di risposta,

redatta dallo stesso difensore che ha curato la

difesa di Alfa.

Le spese di CTU, già liquidate in corso di

causa, possono essere definitivamente poste a

carico di Alfa Assicurazioni, sostanzialmente e

conclusivamente soccombente nella presente

controversia.

Si dà atto che il presente fascicolo è per la

prima volta pervenuto a questo Giudice,

trasferito al Tribunale di Reggio Emilia il

11/4/2012, all’udienza del 21/3/2013, ed in

tale udienza è stato deciso con sentenza

contestuale ex art. 281 sexies c.p.c.

P.Q.M.

il Tribunale di Reggio Emilia in composizione

monocratica

definitivamente pronunciando, nel

contraddittorio tra le parti, ogni diversa istanza

disattesa

- dichiara inammissibile la domanda di

condanna formulata da Tizia verso Tiziano

Caio;

- condanna Casa di Cura Privata Beta a

pagare a Tizia € 21.027, oltre interessi

legali dal 1/7/2006 al saldo;

- condanna Alfa Assicurazioni a rifondere a

Casa di Cura Privata Beta il 40% di quanto

pagato a Tizia in dipendenza della

presente sentenza per somma capitale,

interessi, rivalutazione e spese di lite, con

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

206

una franchigia del 10% ed una misura

minima di tale franchigia in € 2.582,29;

- condanna Casa di Cura Privata Beta a

rifondere a Tizia le spese di lite del

presente giudizio, che liquida in € 550 per

rimborsi, € 2.500 per compensi, oltre IVA

e CPA come per legge;

- condanna Alfa Assicurazioni s.p.a. a

rifondere a Casa di Cura Privata Beta le

spese di lite del presente giudizio, che

liquida in € 50 per rimborsi, € 2.500 per

compensi, oltre IVA e CPA come per

legge;

- compensa le spese di lite di Caio Tiziano,

Gamma Assicurazioni s.p.a., Delta

Assicurazioni s.p.a. ed Gamma

Assicurazioni s.p.a.;

- pone le spese di CTU, già liquidate in

corso di causa, definitivamente a carico di

Alfa Assicurazioni s.p.a.

Reggio Emilia, 3/4/2013

Il Giudice

dott. Gianluigi MORLINI

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

207

.

Massima

I presupposti, legittimanti la notificazione a norma dell’art. 143 c.p.c.,

non sono solo il dato soggettivo dell’ignoranza, da parte del

richiedente o dell’ufficiale giudiziario, circa la residenza, la dimora o

il domicilio del destinatario dell’atto, né il mero possesso del

certificato anagrafico, dal quale risulti il destinatario stesso trasferito

per ignota destinazione, essendo anche richiesto che la condizione di

ignoranza non sia superabile attraverso le indagini possibili nel caso

concreto, da compiersi ad opera del mittente con l’ordinaria diligenza.

Il quesito pertanto non coglie nel segno laddove individua una

legittimazione alla notifica con il rito degli irreperibili acquisibile solo

per effetto dell’esperimento infruttuoso delle citate forme di notifica.

Notificazione agli irreperibili: bisogna andare a “chi l’ha visto?”

Sentenza Cassazione Civile,

Sentenza n. 3071/2013

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208

LA SENTENZA PER ESTESO

Corte di Cassazione, sezione prima,

sentenza del 8.2.2013, n. 3071

Svolgimento del processo

…omissis…

7. Va in primo luogo riscontrata la regolarità

della notifica del ricorso per cassazione al Ga.

eseguita il 5 aprile 2012 presso la sua dimora

…omissis…ricevuta dalla sig.ra G. R. che si è

dichiarata addetta alla casa.

8. Con il primo motivo di ricorso si deduce

omessa, insufficiente e contraddittoria

motivazione circa un punto decisivo della

controversia in relazione agli artt. 101(1), 116,

210 c.p.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.). Secondo la

ricorrente la Corte di appello avrebbe reso una

motivazione contraddittoria in ordine al

proposto motivo di appello concernente la

nullità della notificazione del ricorso

introduttivo del giudizio di primo grado.

9. Il motivo è inammissibile. In primo luogo

perché sfornito della sintesi richiesta a pena di

inammissibilità dall'art. 366 bis c.p.c., nel testo

applicabile ratione temporis alla controversia,

al fine di individuare con chiarezza il fatto

controverso, in relazione al quale la

motivazione si assume omessa o

contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali

la dedotta insufficienza della motivazione la

renderebbe inidonea a giustificare la decisione.

Inoltre deve rilevarsi come la motivazione

venga contestata dalla ricorrente proprio con

riferimento alle ragioni che hanno portato la

Corte di appello ad affermare la regolarità

della notificazione ex art. 143 c.p.c. (2) sulla

base di una interpretazione di quest'ultima

norma che la ricorrente contesta. Anche sotto

questo profilo il motivo di ricorso appare

inammissibile, per erronea individuazione

della tipologia del vizio. Infatti il motivo di

ricorso per cassazione col quale si censura

come vizio di motivazione un errore in cui si

assume che sia incorso il giudice di merito

nell'interpretazione della norma di diritto

rilevante nella fattispecie attiene a un vizio che

deve essere denunciato ai sensi del numero 3

dell'art. 360 c.p.c.(cfr. Cass. Civ., sezione

terza, n. 7267 dell'11.05. 2012(3)).

10. Con il secondo motivo di ricorso si deduce

violazione e falsa applicazione degli artt. 116 e

143 c.p.c. e 2697 c.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.). La

ricorrente sottopone alla Corte i seguenti

quesiti di diritto relativamente alla violazione

dell'art. 143 c.p.c.: a) se l'art. 143 c.p.c. deve

essere interpretato nel senso che si possa

ricorrere alla notificazione ex art. 143 c.p.c.

solo dopo che la stessa sia stata effettuata ai

sensi dell'art. 139 c.p.c. e, ove ricorrano i

presupposti previsti dall'art. 140 dello stesso

codice, eventualmente nei modi stabiliti da

questa norma; b) se l'art. 143 c.p.c. deve essere

interpretato nel senso che il ricorso alla

notificazione ex art. 143 c.p.c. per le persone

irreperibili può considerarsi rituale e legittimo

soltanto se il notificante dimostri che,

nonostante l'impiego della normale diligenza e

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

209

le informazioni raccolte in rapporto al caso

concreto, non sia riuscito ad individuare il

luogo di nuova residenza del destinatario

dell'atto e nel senso che l'ufficiale giudiziario,

dopo aver svolto tutte le ricerche che la

situazione impone, deve darne atto nella sua

relazione, a pena di nullità. Per quanto

concerne la violazione degli artt. 2697 (4) c.c.,

116 c.p.c. in relazione all'art. 143 c.p.c, la

ricorrente formula il seguente quesito di

diritto: c) se allorché la notificazione non sia

avvenuta a mani del destinatario, ma ex art.

143 c.p.c., la prova della sussistenza dei

relativi presupposti in caso di contestazione

spetti al notificante. 11. Quanto al primo

quesito occorre richiamare la giurisprudenza di

questa Corte (recentemente, Cass. Civ. sezione

prima, n. 20971 del 27.11.2012(5)) secondo

cui i presupposti, legittimanti la notificazione a

norma dell'art. 143 c.p.c., non sono solo il dato

soggettivo dell'ignoranza, da parte del

richiedente o dell'ufficiale giudiziario, circa la

residenza, la dimora o il domicilio del

destinatario dell'atto, né il mero possesso del

certificato anagrafico, dal quale risulti il

destinatario stesso trasferito per ignota

destinazione, essendo anche richiesto che la

condizione di ignoranza non sia superabile

attraverso le indagini possibili nel caso

concreto, da compiersi ad opera del mittente

con l'ordinaria diligenza. Il quesito pertanto

non coglie nel segno laddove individua una

legittimazione alla notifica con il rito degli

irreperibili acquisibile solo per effetto

dell'esperimento infruttuoso delle citate forme

di notifica.

12. Il secondo quesito di diritto è coerente alla

giurisprudenza di legittimità citata nel

precedente s punto ma appare astratto in

riferimento al caso in esame. Sia perché la

ricorrente non fa riferimento alla circostanza

emergente dalla motivazione della sentenza di

primo grado secondo cui la difesa del Ga. esibì

al giudice la copia del ricorso notificato ex art.

143 c.p.c. e il giudice ritenne regolare tale

notifica. Sia perché nel suo atto di appello la

ricorrente non ha fornito alcuna indicazione

specifica, come ha sottolineato nella sua

motivazione la Corte di appello, in ordine alle

circostanze che avrebbero dovuto portare il

giudice di secondo grado a ritenere che il

notificante dell'atto introduttivo del giudizio

non avesse impiegato la normale diligenza al

fine di acquisire le informazioni utili, in

rapporto al caso concreto, per individuare il

suo luogo di nuova residenza.

13. Il terzo quesito è anch'esso coerente alla

giurisprudenza di legittimità e, nello stesso

tempo e per le stesse ragioni del precedente, si

presenta astratto rispetto alla specifica

controversia in esame, nella quale il giudizio è

stato introdotto con atto di citazione ritenuto

notificato regolarmente dal giudice di primo

grado ai sensi dell'art. 143 c.p.c. mentre la

contestazione, in merito alla sussistenza dei

presupposti per il ricorso alla notifica ex art.

143 c.p.c., è stata ritenuta dal giudice

dell'appello generica e sfornita delle

indicazioni necessarie per poter effettuare il

necessario controllo sul dedotto difetto di

diligenza nella ricerca del luogo di nuova

residenza della Ga. presso il quale sarebbe

stato possibile notificare utilmente l'atto

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210

introduttivo del giudizio. Per altro verso la

Corte di appello ha messo in rilievo una serie

di circostanze che non le hanno consentito di

presumere la facilità di tali ricerche, al fine di

una eventuale integrazione, con dati di comune

esperienza, o di specifica emergenza implicita,

della genericità della contestazione della

appellante. Ne deriva che la pretesa inversione

dell'onere della prova non caratterizza la

decisione impugnata.

14. Con il terzo motivo di ricorso la ricorrente

deduce la violazione e falsa applicazione

dell'art. 6 della Convenzione Europea per la

salvaguardia dei diritti dell'uomo e degli artt.

21-22 del regolamento del Consiglio

dell'Unione Europea n. 2201/2003 in relazione

all'art. 354 c.p.c. (art. 360 n. 3 c.p.c). La

ricorrente sottopone alla Corte i seguenti

quesiti di diritto: a) se in mancanza di prove

certe che la contumacia sia dovuta al desiderio

di un soggetto di non comparire e non

difendersi, allo stesso debba essere garantita la

possibilità che un organo giurisdizionale

giudichi nuovamente; b) se l'uso della

procedura di notificazione a persone

irreperibili, senza che ne sussistessero le

effettive condizioni, comporta la violazione

della C.E.D.U. per l'impossibilità di godere di

un effettivo diritto di difesa. Il motivo è

infondato perché i principi affermati dalla

ricorrente come espressivi della Convenzione

E.D.U. e del regolamento Euro/unitario

(indefettibilità del controllo della regolare

formazione del contraddittorio e

conseguentemente della conoscenza della

editio actionis da parte del soggetto chiamato a

contraddire in giudizio) sono in realtà, ancor

prima, principi propri del nostro ordinamento

costituzionale e processuale civile, sicché la

ricorrente altro non fa attraverso i citati quesiti

che dare apoditticamente per scontato che

nella specie non si sarebbe dovuta pronunciare

la sua contumacia in primo grado perché non

sussistevano i presupposti per il ricorso alla

notificazione ex art. 143 c.p.c..

15. Per tutti questi motivi il ricorso va respinto

senza alcuna statuizione sulle spese del

giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

1 Per approfondimenti: BALENA, Istituzioni di

diritto processuale civile, I, I principi, Bari 2009;

CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale

civile, I, Padova, 2008; FAZZALARI, Istituzioni di

diritto processuale, Padova, 1992; FERRI,

Sull'effettività del contraddittorio, in Riv. Trim.

Dir. Proc. Civ., 1988, 780.

2 Per approfondimenti in dottrina: BALENA,

Notificazioni e Comunicazioni, in Digesto, XII,

Torino, 1995, 259;CAPONI, Sulla legittimazione

dell'ufficiale giudiziario a notificare il ricorso per

cassazione a mezzo del servizio postale, nota a

Cassazione civile 11140/2004, in Foro it., 2004, I;

PUNZI, La notificazione degli atti nel processo

civile, Milano, 1959; PUNZI, Notificazione (diritto

processuale civile), in Enc. Dir., XXVIII, Milano,

1978, 641; VERDE, Profili del processo civile,

Napoli, 1991; STAIANO, sub art. 143 c.p.c., in

VIOLA (a cura di), Codice di procedura civile,

Padova, 2013.

3 La massima così recita: è inammissibile, per

erronea individuazione della tipologia del vizio, il

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motivo di ricorso per cassazione col quale si

censura come vizio di motivazione un errore in cui

si assume che sia incorso il giudice di merito

nell'interpretazione della norma di diritto rilevante

nella fattispecie, trattandosi di vizio che deve

essere denunciato ai sensi del numero 3 dell'art.

360 c.p.c.

4 Così recita: chi vuol far valere un diritto in

giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il

fondamento. Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti

ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o

estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si

fonda.

5 La massima così recita: i presupposti,

legittimanti la notificazione a norma dell'art. 143

c.p.c., non sono solo il dato soggettivo

dell'ignoranza, da parte del richiedente o

dell'ufficiale giudiziario, circa la residenza, la

dimora o il domicilio del destinatario dell'atto, né

il mero possesso del certificato anagrafico, dal

quale risulti il destinatario stesso trasferito per

ignota destinazione, essendo anche richiesto che la

condizione di ignoranza non sia superabile

attraverso le indagini possibili nel caso concreto,

da compiersi ad opera del mittente con l'ordinaria

diligenza. A tal fine, la relata di notificazione fa

fede, fino a querela di falso, circa le attestazioni

che riguardano l'attività svolta dall'ufficiale

giudiziario procedente e limitatamente ai soli

elementi positivi di essa, mentre non sono assistite

da pubblica fede le attestazioni negative, come

l'ignoranza circa la nuova residenza del

destinatario della notificazione

Notificazione agli irreperibili: annotazione alla sentenza 3071/2013 della Cassazione

Civile.

di Diana Salonia172

Sommario: 1. Il caso oggetto della sentenza

2. L'analisi delle questioni rilevanti: notifica

agli irreperibili 2.1. Validità della

notificazione

1. Il caso oggetto della sentenza

Nel caso in oggetto la sig.ra E. G. impugnava

la sentenza di primo grado, con la quale il

Tribunale di Roma aveva pronunciato la

cessazione degli effetti civili del matrimonio,

eccependo di non aver ricevuto alcuna notizia

del giudizio di divorzio, poichè l'atto

introduttivo era stato notificato ex art. 143

c.p.c. sulla base dell'esito negativo delle mere

ricerche anagrafiche. La Corte di Appello

adita, però, respingeva il gravame, sostenendo

la regolarità della notifica ex art. 143 c.p.c.

dell'atto introduttivo del giudizio di primo

grado.

Pertanto la sig.ra E. G. ricorreva alla Corte di

Cassazione affidandosi a tre motivi di

impugnazione.

In particolare, con il secondo motivo di ricorso

la ricorrente sottoponeva alla Corte i seguenti

quesiti di diritto relativamente alla violazione

dell'art. 143 c.p.c.: a) se l'art. 143 c.p.c. doveva

essere interpretato nel senso che si possa

ricorrere alla notificazione ex art. 143 c.p.c.

solo dopo che la stessa sia stata effettuata ai

sensi dell'art. 139 c.p.c. e, ove ricorrano i

172 Avvocato, Studio Legale Salonia, Siracusa. Redazione de La Nuova Procedura Civile.

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presupposti previsti dall'art. 140 dello stesso

codice, eventualmente nei modi stabiliti da

questa norma; b) se l'art. 143 c.p.c. doveva

essere interpretato nel senso che il ricorso alla

notificazione ex art. 143 c.p.c. per le persone

irreperibili possa considerarsi rituale e

legittimo soltanto se il notificante dimostri

che, nonostante l'impiego della normale

diligenza e le informazioni raccolte in rapporto

al caso concreto, non sia riuscito ad

individuare il luogo di nuova residenza del

destinatario dell'atto e nel senso che l'ufficiale

giudiziario, dopo aver svolto tutte le ricerche

che la situazione impone, debba darne atto

nella sua relazione, a pena di nullità. Per

quanto concerne la violazione degli artt. 2697

c.c., 116 c.p.c. in relazione all'art. 143 c.p.c, la

ricorrente formulava il seguente quesito di

diritto: c) se allorché la notificazione non fosse

avvenuta a mani del destinatario, ma ex art.

143 c.p.c., la prova della sussistenza dei

relativi presupposti in caso di contestazione

spettasse al notificante.

Investita dell’intera questione, la Cassazione

anzitutto richiamava il consolidato e

indiscutibile principio secondo cui i

presupposti legittimanti la notificazione a

norma dell'art. 143 c. p.c. non sono solo il dato

soggettivo dell'ignoranza, da parte del

richiedente o dell'ufficiale giudiziario, circa la

residenza, la dimora o il domicilio del

destinatario dell'atto, né il mero possesso del

certificato anagrafico, dal quale risulti il

destinatario stesso trasferito per ignota

destinazione, essendo anche richiesto che la

condizione di ignoranza non sia superabile

attraverso le indagini possibili nel caso

concreto, da compiersi ad opera del mittente

con l'ordinaria diligenza.

Tuttavia, riteneva che i quesiti posti dalla

ricorrente presentavano carattere di astrattezza

rispetto al caso concreto, dal momento che il

giudizio era stato introdotto con atto di

citazione ritenuto notificato regolarmente dal

Giudice di primo grado ai sensi dell'art. 143

c.p.c..

Invero, la Suprema Corte rilevava che la

ricorrente non aveva fatto riferimento alla

circostanza emergente dalla motivazione della

sentenza di primo grado secondo cui la difesa

del sig. Ga. aveva esibito al Giudice la copia

del ricorso notificato ex art. 143 c.p.c. e il

Giudice aveva ritenuto regolare tale notifica.

Inoltre, nel suo atto di appello la ricorrente non

aveva fornito alcuna indicazione specifica in

ordine alle circostanze che avrebbero dovuto

portare il Giudice di secondo grado a ritenere

che il notificante dell'atto introduttivo del

giudizio non avesse impiegato la normale

diligenza al fine di acquisire le informazioni

utili, in rapporto al caso concreto, per

individuare il suo luogo di nuova residenza.

Per altro verso la Corte di Appello aveva

messo in rilievo una serie di circostanze che

non le avevano consentito di presumere la

facilità di tali ricerche, al fine di una eventuale

integrazione, con dati di comune esperienza, o

di specifica emergenza implicita, della

genericità della contestazione della appellante.

Di conseguenza la pretesa inversione

dell'onere della prova non poteva

caratterizzare la decisione impugnata.

Il ricorso proposto veniva, dunque, respinto.173

173 Cass. Civ. n. 3071/13.

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2. L'analisi delle questioni rilevanti: notifica

agli irreperibili

A norma dell'art. 143 c.p.c. se non sono

conosciuti la residenza, la dimora e il

domicilio del destinatario e non vi è il

procuratore previsto nell'articolo 77 c.p.c.,

l'ufficiale giudiziario esegue la notificazione

mediante deposito di copia dell'atto nella casa

comunale dell' ultima residenza o, se questa è

ignota, in quella del luogo di nascita del

destinatario174 . Se non sono noti né il luogo

dell'ultima residenza né quello di nascita,

l'ufficiale giudiziario consegna una copia

dell'atto al pubblico ministero.

Tuttavia, mentre per il notificante la notifica si

perfeziona al momento dell’affidamento

dell’atto all’ufficiale giudiziario, per il

destinatario la notifica si ha per eseguita solo

dopo venti giorni dal compimento delle dette

formalità prescritte dalla legge.

Invero, lo sfasamento tra il momento di

perfezionamento della notifica e quello della

sua efficacia è un principio generale posto a

tutela del destinatario che trova applicazione in

tutto il settore delle notificazioni degli atti nel

processo civile.

Ebbene, si può allora affermare che i

presupposti che giustificano l’applicazione

dell’art. 143 c.p.c. sono essenzialmente due:

3) deve trattarsi di notificazione a

persona di cui si ignori la residenza, la

dimora e il domicilio;

4) non deve esserci un procuratore del

174 Il d. lgs. 196/03 (Testo Unico sulla privacy) ha soppresso, tra gli adempimenti necessari, quello di eseguire la notificazione mediante affissione di altra copia nell’albo dell’ufficio giudiziario davanti al quale si procede.

destinatario dell’atto, previsto dall’art.

77 c.p.c..

Ma quando si può escludere una “ignoranza

colpevole” del recapito del destinatario?

A tal proposito giurisprudenza e dottrina

affermano che la semplice ignoranza

“soggettiva” della parte o dell’ufficiale

giudiziario, intesa quale mancata conoscenza

della residenza, della dimora o del domicilio

del destinatario dell’atto, o, ancora, il possesso

del solo certificato anagrafico dal quale risulti

che il destinatario è trasferito per ignota

destinazione, non sono condizioni legittimanti

la notificazione ex art. 143 c.p.c., ma

l’ignoranza deve essere “oggettiva” e non

superabile attraverso le indagini possibili, nel

caso concreto, suggerite dalla ordinaria

diligenza, le quali debbono risultare dalla

stessa relazione dell’ufficiale notificatore.

Il che equivale a dire che l'ufficiale giudiziario

deve, preliminarmente, accedere

concretamente nel luogo di ultima residenza

nota, al fine - fra l'altro - di attingere, anche

nell'ipotesi di riscontrata assenza di addetti o

incaricati alla ricezione della notifica,

comunque eventuali notizie utili in ordine alla

residenza attuale del destinatario della

notificazione.175

Inoltre, deve essere provato che le indagini

compiute da chi ha domandato la notificazione

non sono fondate solo sulle risultanze

anagrafiche, ma sono state ampliate anche con

accertamenti e informazioni sul reale avvenuto

trasferimento di detto destinatario in luogo

sconosciuto, ovvero su quale sia questo, dopo

175 Cass. Civ. n. 18385/03.

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l'inutile tentativo dell'ufficiale giudiziario di

eseguire la notifica all'indirizzo indicato.176

Nel delineato concetto di normale diligenza,

oltre all'esperimento di rituali ricerche

anagrafiche, rientra anche il compimento di

indagini presso il portiere dello stabile di

originaria residenza e il tentativo di notifica

presso la madre del notificando.177

E’ doveroso, tuttavia, precisare che l’ordinaria

diligenza del notificante non può spingersi

fino al compimento di qualunque indagine

astrattamente idonea a tal fine: pertanto

quando il destinatario risulti aver

definitivamente abbandonato la residenza

anagrafica e non sia possibile conoscerne la

nuova, non può ritenersi che la "normale

diligenza" debba tradursi in una ulteriore

infinita ricerca in qualunque altra possibile

località.178 Altresì restano escluse dal concetto

di diligenza le indagini che richiedano spese

eccessive e attese di estenuante durata così

come la ricerca telefonica, previa

consultazione dell'apposito elenco, tra plurime

omonimie che dovessero, all'esito,

presentarsi.179

Ai fini della verifica del grado di diligenza

impiegato, occorre che l'ufficiale giudiziario

indichi nella relata le ricerche e le indagini

compiute per accertare la residenza del

destinatario, dando contezza dell' attività in

concreto svolta e delle informazioni raccolte in

176 Cass. Civ. n. 7964/08.

177 Cass. Civ. n. 6618/97.

178 Cass. Civ. n. 540/00.

179 Cass. Civ. n. 6618/97.

relazione al caso concreto.

La relata di notificazione fa fede fino a querela

di falso per le attestazioni che riguardano

l'attività svolta dall'ufficiale giudiziario

procedente, limitatamente ai soli elementi

positivi di essa, mentre non sono assistite da

pubblica fede le attestazioni negative, come

l'ignoranza circa la nuova residenza del

destinatario della notificazione.180

2.1. Validità della notificazione

La notificazione eseguita ai sensi dell'art. 143

c.p.c. in difetto delle condizioni che

legittimano l’applicazione della norma è nulla.

Altresì, è nulla la notificazione eseguita ex art.

143 c.p.c., qualora l'ufficiale giudiziario, dopo

aver dato atto nella relata di non aver potuto

notificare l'atto al destinatario, per essere

questo sconosciuto nel luogo di residenza

anagrafica, non fornisca alcuna indicazione in

ordine alle ricerche o indagini compiute per

accertare la nuova residenza o il domicilio del

detto destinatario.181

Occorre, a questo punto, sottolineare che le

ipotesi summenzionate concretano la nullità

ma non l’inesistenza giuridica della

notificazione.

Da ciò derivano importanti conseguenze quali,

ad esempio, l’ obbligo per il Giudice di

disporne il rinnovo, con la fissazione di

apposito termine perentorio, ai sensi dell’art.

291 c.p.c.182, oppure che la nullità della

180 Cass. Civ. n. 6462/07.

181 Cass. Civ. n. 3073/09; 5127/08.

182 Cass. Civ. n. 2909/08.

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

215

notifica potrà essere sanata in caso di

costituzione della parte nel processo, in

applicazione del principio del conseguimento

dello scopo dell’atto183.

183 Cass. Civ. n. 8955/06.

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

216

.

di

MIRIANA BOSCO

Massima

La consulenza tecnica d’ufficio, anche se non costituisce, in linea di

massima, mezzo di prova, ma strumento per la valutazione della prova

acquisita, tuttavia rappresenta una fonte oggettiva di prova quando si

risolve nell’accertamento di fatti rilevabili unicamente con l’ausilio di

specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche.

La c.t.u. non è mezzo di prova… ma può diventare fonte oggettiva di

prova

Sentenza Cassazione Civile,

Sentenza n. 2663/2013

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217

LA SENTENZA PER ESTESO

Cassazione civile, sezione terza, sentenza del

5.2.2013, n. 2663

…omissis…

Ed infatti, in tale consulenza ha deviato in

concreto il CTU ispezionando il locus rei

(ovvero l’interno della veranda) alla ricerca di

una possibile causa delle infiltrazioni che

l’attrice nell’atto di citazione del 18/5/2001

aveva fatto consistere nei lavori di

ristrutturazione e trasformazione eseguiti dalla

V. nel proprio immobile, ricollegandosi così al

tenore della raccomandata del 7/9/2000 in cui

aveva prefigurato che le infiltrazioni erano

conseguenza dei lavori di frazionamento

dell’appartamento sovrastante (della V.). E

bensì vero che – pur nella costante condivisa

affermazione che la consulenza non possa

essere un mezzo sostitutivo dell’onus probandi

(ex plurimis Cass. 14/271994 n. 1467) – si

distingue, in giurisprudenza (Cass. Sez. Un.

4/11/1996 n. 9522), la figura del consulente

deducente e del consulente percipiente nel

senso che, nella prima ipotesi, la consulenza

presuppone l’avvenuto espletamento dei mezzi

di prova e ha per oggetto fatti già

completamente provati dalle parti, mentre

nella seconda, essa stessa potrà si costituire

fonte oggettiva di prova, ma anche qui è

sempre necessario che la parte abbia dedotto

quanto meno il fatto che pone a fondamento

della propria domanda di cui il giudice affida

l’accertamento ad un ausiliario in possesso di

cognizioni tecniche che egli non possiede. In

altri termini è in ogni caso ineludibile

l’individuazione del fatto costitutivo della

domanda (la c.d. causa petendi che, in

relazione ai fatti lesivi, si atteggia

propriamente come causa petendi passiva)

devoluto alla cognizione del giudice e che si

riflette, per derivazione, sia sui limiti intrinseci

del mandato conferito al CTU (oltrepassando i

quali si incorrerà nel vizio di extrapetizione

per interpolazione della causa petendi) e,

parallelamente, sull’estensione dell’indagine

del CTU che non può da essi decampare; tanto

più trattandosi di domande eterodeterminate

(come la domanda risarcitoria di cui si discute)

che postulano in apicibus – diversamente dalle

domande autodeterminate – l’identificazione

di un preciso fatto genetico della

responsabilità enunciato nell’atto di citazione.

Ne deriva che la consulenza in discorso,

avendo ecceduto i limiti intrinseci del mandato

risulta inficiata da nullità per la violazione del

principio del contraddicono e, come tale, priva

di efficacia probatoria. In quest’ordine di idee,

il Condominio obietta che la nullità in

questione si sarebbe sanata siccome

tardivamente eccepita ma il rilievo non coglie

nel segno giacchè risulta ex actis che il

procuratore della V. già nella prima udienza

utile a “seguire il deposito dell’elaborato

peritale, eccepì i nuovi fatti costitutivi scaturiti

dall’indagine tecnica ricusando su di essi il

contraddittorio (cfr. verbale del 19/12/2001);

ebbe a ribadire l’eccezione nella successiva

udienza del 27/2/2003 e infine la ripropose in

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218

sede di precisazione delle conclusioni

all’udienza del 2/10/2003. Sotto altro profilo il

Condominio assume pure che gli elementi

comunque acquisiti dal CTU, anche al di fuori

del mandato, ben potevano valere – nella

forma di prove atipiche – a fondare anch’essi il

convincimento del primo giudice. Questo

orientamento (tra le altre, v. Cass. 19/2/1990 n.

1223) argomenta in tal senso dal difetto nel

nostro ordinamento di una norma di chiusura

che sancisca la tassatività dei mezzi di prova.

In questa linea di pensiero, il Collegio non

ignora la Cass. 25/3/2004 n. 5965 (che giunge

ad affermare che elementi di convincimento

possono trarsi dalle parti della consulenza che

abbia esorbitato i limiti del mandato), ma

ritiene di doversi discostare da tale pronuncia

che – come rileva autorevole dottrina – desta

perplessità. Non persuade, infatti, che una

consulenza inficiata da nullità, per aver

ecceduto i limiti del fatto costitutivo

(rappresentativo del limite intrinseco del

mandato), possa consentire l’ingresso nel

processo, nella sembianza di prove atipiche, di

elementi di cognizione sui fatti ulteriori

rispetto a quelli cristallizzati nella

formulazione della domanda ed acquisiti in

violazione del principio del contraddittorio.

Inoltre non può sfuggire che, a voler ritenere il

contrario, si avrebbe per le prove atipiche

l’applicazione della regola “vitiatur sed non

vitiat” di cui non è dato comprendere la rat io e

che non vale per le prove tipiche. In

conclusione, la Corte territoriale riteneva che

la nullità della CTU privandola di ogni

efficacia probatoria comportava che là

domanda, siccome aliunde non provata,

dovesse essere rigettata, restando assorbiti gli

altri motivi di gravame”.

Inoltre, la Corte territoriale condannava in

solido alle spese di secondo grado la R. ed il

Condominio, perchè riteneva una comunanza

di interessi tra loro, dato che il Condominio

aveva contrastato i motivi di appello

concernenti la posizione della stessa, la quale,

limitandosi a chiedere la conferma della

sentenza id primo grado, aveva inteso

acquisire la responsabilità e la condanna della

V., rinunciando ad affermare quelle del

Condominio.

3. – La R. propone ricorso per cassazione,

illustrato con memoria, deducendo: omissione

o, quanto meno, insufficienza della

motivazione su punto decisivo sollevato dalle

parti. Al riguardo, precisa: a) che i fatti su cui

la decisione si denuncia come omessa o

insufficiente sono quelli attinenti:

1.- alla pretesa elevazione, fatta dalla R. con la

citazione introduttiva, di lavori di

ristrutturazione e trasformazione o di

frazionamento dell’appartamento soprastante

di proprietà della V. a causa delle infiltrazioni

lamentate;

2.- alla considerazione che lavori di

realizzazione di veranda in ampliamento

dell’appartamento V. sull’annesso suo terrazzo

a livello rientravano comunque

concettualmente e logicamente nella categoria

di lavori di ristrutturazione e trasformazione o

di frazionamento di tale immobile;

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219

3.- a) alla nessuna rilevanza che rivestono tutti

tali lavori ai fini dei limiti della domanda

proposta e del rispetto degli elementi a

fondamento della stessa; b) che la rilevanza di

tale omissione (o insufficienza) rispetto alla

decisione adottata nella sentenza impugnata è

data da ciò: se in base a più esauriente

motivazione quella pretesa rilevanza dei lavori

di ristrutturazione e trasformazione o di

frazionamento, o quella pretesa diversità tra il

genus “lavori di ristrutturazione e

trasformazione o di frazionamento” e la

categoria specifica dei lavori di realizzazione

della veranda sul terrazzo a livello in

ampliamento dell’appartamento di proprietà V.

o comunque quella pretesa modifica degli

elementi costitutivi della domanda si fossero

escluse, sarebbe venuta meno la premessa su

cui la sentenza impugnata ha fondato la sua

pronuncia di accoglimento del primo motivo

di appello della V., assorbiti gli altri, e

ravvisato la nullità della CTU per l’è fletto

respingendo la domanda della R..

4. – Il Condominio resiste cosi controricorso e

propone ricorso incidentale, premettendo di

avere interesse all’impugnativa della sentenza

resa dalla Corte di Appello di Napoli, in

quanto l’accoglimento della riconvenzionale

proposta dalla V. nel corso del giudizio di

merito. con la conseguente condanna del

condominio stesso alle spese di secondo grado

in solido con la R., trovava il suo fondamento

nella declaratoria di nullità della consulenza

che aveva dato atto che la causale del sinistro

era da rinvenirsi nella manomissione della

tubazione di scarico delle acque piovane al

fine d’incanalarvi le acque bianche e luride

della cucina della stessa V..

Deduce i seguenti motivi:

4.1. – Violazione e falsa applicazione dell’art.

112 c.p.c., artt. 2043 e 2051 c.c., in relazione

all’art. 360 c.p.c., n. 3, e chiede alla Corto se il

giudice di appello sia o meno incorso nella

violazione e falsa interpretazione della

domanda per aver individuato il fatto

costitutivo della stessa nella sola responsabilità

ex art. 2043 c.c., e non anche in quella ex art.

2051 c.c., con la conseguente violazione da

parte dell’ausiliare dei limiti del mandato,

nonostante l’avvenuto affidamento di una

consulenza percipiente, per accertare le causali

delle infiltrazioni in atto, senza che

l’appellante abbia mai dedotto il superamento

da parte del primo giudice dei cosiddetti limiti

intrinseci del mandato con conseguente

interpolazione della causa pelanti mediante

l’allegazione di fatti costitutivi della domanda

non dedotti dall’attore nell’atto introduttivo.

4.2. – Nullità della sentenza per extrapetizione

(artt. 112 e 360 c.p.c.) e chiede alla Corte se il

giudice di appello sia o meno incorso in

extrapetizione, avendo accolto il motivo di

gravame fondato sulla pretesa nullità della

consulenza, senza tenere conto che

l’appellante mai aveva dedotto il superamento

da parte del Tribunale dei cosiddetti limiti

intrinseci del mandato, con conseguente

interpolazione della causa petendi mediante

l’allegazione di fatti costitutivi della domanda

non dedotti dall’attore nell’atto introduttivo”.

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220

4.3. – Violazione e falsa applicazione degli

artt. 101, 115, 116, 162.

Corte se il giudice di appello:

4.3.a. – abbia violato e falsamente applicato le

norme che disciplinano l’ammissione e lo

svolgimento della consulenza tecnica nel corso

del processo civile, non avendo tenuto conto

che i limiti intrinseci del mandato erano

perfettamente coincidenti con il thema

decidendum:

4.3.b. – attesa la coincidenza tra domanda e

mandato, abbia fatto o meno corretta

applicazione del principio di diritto secondo

cui il giudice può trarre elementi di

convincimento anche dalla parte della

consulenza eccedente i limiti del mandato;

4.3.c. – abbia o meno violato i principi

generali del contraddittorio e della

rinnovazione degli atti nulli fissati dagli artt.

101 e 162 c.p.c., negando, dopo aver

dichiarato la nullità della svolta consulenza

tecnica di ufficio, la rinnovazione delle

operazioni peritali, nonostante questa fosse

stata richiesta da tutte le parti in causa inclusa

la stessa appellante.

4.4. – Vizio di motivazione su punti

controversi e decisivi del giudizio (art. 360

c.p.c., n. 5) e chiede alla Corte se il giudice di

appello sia o meno incorso in vizio di

motivazione su di un punto decisivo della

controversia. per aver affermato.

4.4.a. – il superamento dei limiti del mandalo a

lui conferito dal Tribunale, per aver

ispezionato “il loctis rei (ovvero l’interno della

veranda) alla ricerca di una possibile causa

delle infiltrazioni” nonostante l’ampiezza

dell’indagine demandatagli sia in merito alle

causali delle infiltrazioni che alla loro

imputabilità;

4.4.b. – pur dando atto della liceità della c.d.

consulenza percipiente che il consulente,

esperendo indagini in loco alla ricerca delle

effettive causali delle infiltrazioni, avrebbe

“decampato” dai limiti del mandato conferito

dal giudice.

4.5. – Violazione e falsa applicazione degli

artt. 1123, 1134 e 2697 c.c., artt. 101, 116 e

162 c.p.c., art. 191 c.p.c. e ss., con riferimento

all’art. 360, n. 3, e chiede alla Corte se il

giudice di appello abbia violato e falsamente

applicato.

4.5.a. – la norma dell’art. 1134 c.c.,

concedendo il chiesto rimborso, nonostante le

riparazioni abbiano riguardato la proprietà

esclusiva del condomino e siano state eseguite,

in diletto di una necessità immediata ed,

impellente, nel tentativo di ovviare alla cattiva

esecuzione di precedenti lavori di

ristrutturazione:

4.5.b. – le norme di cui all’art. 2697 c.c.,

avendo, di fatto, onerato il condominio di

fornire la prova liberatoria, ritenendo provati

in re ipsa i fatti costitutivi della domanda

proposta dalla condomina valendosi dell’art.

1134 c.c., negando, in violazione del principio

del contraddittorio e della rinnovazione degli

atti nulli, la chiesta rinnovazione della

consulenza tecnica che avrebbe consentito di

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221

appurare la insussistenza dei requisiti richiesti

dal richiamato art. 1134 c.c..

4.6. – Vizio di motivazione su punti

controversi e decisivi del giudizio (art. 360

c.p.c., n. 5) e chiede alla Corte se il giudice di

appello sia o meno in corso in vizio di

motivazione su di un punto decisivo della

controversia, affermando, nonostante.

4.6.a. – fosse acquisita agli atti di causa prova

documentale dalla quale poteva inferirsi che le

riparazioni hanno riguardato l’immobile della

stessa signora V., che la riparazione per la

quale è stato chiesto il rimborso della spesa è

stata eseguita su di un bene condominiale:

4.6.b. – la corrispondenza in atti, invocata a

fondamento del convincimento espresso, fosse

di segno contrario, la ricorrenza del requisito

dell’urgenza della riparazione per la quale è

stato chiesto il rimborso”.

4.7. – Violazione e falsa applicazione dell’art.

97 c.p.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., n.

3, e chiede alla Corte “se il giudice di appello

ha violalo e falsamente applicato l’art. 97

c.p.c., ritenendo sussistere l’interesse comune

tra le parti appellale soccombenti, nonostante

entrambe abbiano resistito al gravame inerente

la validità della consulenza tecnica svolta in

prime cure nell’interesse esclusivo di ciascuna

di esse tonsurando un medesimo fatto (la

pretesa inerzia del condominio

nell’eliminazione delle causali delle

infiltrazioni, alfa quale sarebbe seguita

l’esecuzione dei lavori di cui è chiesto il

rimborso), che la V. ha, però, fatto valere

diversamente nei confronti dell’una e dell’altro

degli appellati, posto che lo ha invocato nei

confronti della signora R. come l’atto estintivo

della pretesa risarcitomi da quest’ultima

azionata in suo danno e nei confronti del

condominio come fatto costitutivo della

pretesa di rimborso delle spese”.

4.8. Resiste con rispettivi controricorsi la V. e

chiede dichiararsi inammissibile e, comunque,

rigettarsi le avverse impugnazioni.

Diversamente da quanto sostenuto dalla V., il

ricorso del condominio è tempestivo perchè

consegnalo per la notifica il 28 giugno 2007.

5. – I ricorsi vanno riuniti, essendo stati

proposti avverso la medesima sentenza (art.

335 c.p.c.).

5.1. – Vanno esaminati congiuntamente il

ricorso principale, nonchè il primo, il secondo

ed il quarto motivo del ricorso incidentale,

avendo tutti ad oggetto le questioni,

intimamente connesse, dell’interpretazione

della domanda dell’originaria attrice, del titolo

di responsabilità azionalo, del connesso onere

probatorio e dell’ambito dei poteri d’indagine

del C.T.U..

5.2. Tali censure si rivelano fondate, nei

termini di seguito precisali ed il loro

accoglimento assorbe ogni decisione in ordine

alle altre formulate dal Condominio.

Va premesso che il consulente d’ufficio ha

accertato, sulla base del mandato ricevuto dal

giudice di primo grado, che le infiltrazioni non

erano riconducigli alle opere di trasformazione

dell’appartamento della V., ma alla

manomissione delle tubazioni di scolo delle

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acque piovane, al fine di convogliarvi le acque

bianche e luride della cucina della stessa V..

Sussistono i vizi motivazionali dedotti nel

ricorso principale e nel quarto motivo di quello

incidentale e si rivela fondata la censura del

condominio, riguardante la violazione dell’art.

112 c.p.c., e artt. 2043 e 2051 c.c.

(rispettivamente, secondo e primo motivo del

ricorso incidentale).

Effettivamente, la Corte territoriale ha errato

nel ritenere la nullità della consulenza tecnica

d’ufficio svolta in primo grado, per il

superamento dei limiti del mandato. Infatti, la

R. aveva convenuto in giudizio sia la V. che il

Condominio, fondando la sua pretesa tanto

sull’art. 2043 c.c., quanto sull’art. 2051 c.c., e

lo stesso giudice di primo grado, nel formulare

i quesiti al CTU lo aveva invitato ad accertare

quali fossero le cause del fenomeno ed a ehi

fossero imputabili le infiltrazioni.

Per gli stessi motivi, si rivela sussistente anche

il vizio motivazionale dedotto nel 4^ motivo

del ricorso proposto in via incidentale dal

Condominio e nel coincidente ricorso

principale della R.. Con tali doglianze, si

censurano. in effetti, le ragioni sulla base delle

quali l’indagine tecnica, secondo la Corte

territoriale, non avrebbe potuto estendersi

anche all’ispezione dell’intero immobile della

V. per accertare le effettive cause delle

infiltrazioni.

Va ribadito, al riguardo, che la consulenza

tecnica d’ufficio, anche se non costituisce, in

linea di massima, mezzo di prova, ma

strumento per la valutazione della prova

acquisita, tuttavia rappresenta una fonte

oggettiva di prova quando si risolve

nell’accertamento di fatti rilevabili unicamente

con l’ausilio di specifiche cognizioni o

strumentazioni tecniche (Cass. n. 6585/2001,

in motivazione: 15630/2000; 10916/2000: v.

anche Cass. n. 1020/2006 e n. 1149/2011).

In considerazione di quanto precede, min si

rivela pertinente, quindi, la questione

dell’interpretazione della domanda della R..

Oltre tutto, il giudice di primo grado aveva

comunque esteso i limiti del mandato

all’accertamento delle cause delle infiltrazioni

e la R. aveva pur sempre denunciato il vizio

motivazionale in cui è incorsa la Corte

territoriale. Invero, la formulazione dei quesiti

rientra nei poteri discrezionali del giudice del

merito, sicchè non costituisce violazione dei

diritti della difesa formulare quesiti diversi da

quelli ritenuti necessari da una delle parti,

sempre che i difensori siano stati posti in

condizione di presenziare alle operazioni e di

porre istanze e osservazioni ritenute necessaire

e pertinenti, circostanza, quest’ultima, non

controversa in questa sede (Cass. n. 62152001,

in motivazione).

6. – Conclusivamente, vanno accolli il ricorso

principale ed il primo, secondo e quarto

motivo di quello incidentale, assorbita ogni

altra censura; va cassata la sentenza impugnata

e la causa rinviata – per nuovo esame, alla luce

di quanto affermato ai precedente punto 5 e

per la determinazione in ordine alle spese,

incluse quelle relative al presente giudizio di

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223

cassazione -alla medesima Corte territoriale in

diversa composizione.

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi. Accoglie il ricorso

principale ed il primo, secondo e quarto

motivo di quello incidentale, assorbita ogni

altra censura; cassa la sentenza impugnata e

rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello

di Napoli in diversa composizione.

Annotazione a Corte di

Cassazione, sezione terza,

sentenza del 5.2.2013, n. 2663

di Miriana Bosco

Il caso

In data 8 giugno 2001, M.L.R. conveniva in

giudizio V.M.S. e il Condominio, lamentando

il verificarsi di infiltrazioni nel proprio

appartamento, a seguito di lavori di

ristrutturazione eseguiti da V.M.S. e

chiedendo il risarcimento dei danni a ciascuno

dei convenuti per quanto di rispettiva

competenza.

Nel costituirsi in giudizio, la V.M.S.: a)

proponeva domanda riconvenzionale nei

confronti del Condominio per l’importo di £

2.760.000 (circa € 1.425.00), spese al fine di

eliminare la rottura della pluviale; b) eccepiva

la propria carenza di legittimazione passiva,

deducendo che le lamentate infiltrazioni erano

ascrivibili ad altra causa (quale la condensa o

la rottura della pluviale); c) attesa la

contumacia del condominio, si faceva

autorizzare dal G.I. a notificare la propria

comparsa di costituzione e risposta a questo.

Il condominio, costituitosi successivamente a

tale notifica, deduceva la generica

infondatezza della domanda.

Il Tribunale: a) accoglieva la domanda

proposta dalla M.L.R.. contro la V.M.S. per le

infiltrazioni cagionate all’appartamento in

questione; b) rigettava tutte le altre domande;

c) condannava la V.M.S. al pagamento in

favore della M.L.R. dell’importo di €

1.350,00, oltre interessi dal fatto, nonché ad

eseguire i lavori per l’eliminazione della causa

delle infiltrazioni come elencati nella C.T.U.

richiesta dalla M.L.R..

Con la sentenza oggetto delle presenti

impugnazioni, depositata il 24 gennaio 2007,

la Corte di Appello di Napoli riformava la

sentenza di primo grado, affermando:

“mancando nel nostro ordinamento la

previsione tipologica della consulenza

esplorativa, essa non deve considerarsi

ammessa. Ed infatti, tale consulenza ha

deviato, in concreto, il C.T.U., ispezionando il

locus rei (ovvero l’interno della veranda) alla

ricerca di una possibile causa delle infiltrazioni

che l’attrice, nell’atto di citazione del

18/5/2001, aveva fatto consistere nei lavori di

ristrutturazione e di trasformazione eseguiti

dalla V.M.S. nel proprio immobile. E’ bensì

vero che – pur nella costante condivisa

affermazione che la consulenza non possa

essere un mezzo sostitutivo dell’onus probandi

(ex plurimis Cass. 14/271994 n. 1467) – si

distingue, in giurisprudenza (Cass. Sez. Un.

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

224

4/11/1996 n. 9522), la figura del consulente

deducente e del consulente percipiente. Nella

prima ipotesi, la consulenza presuppone

l’avvenuto espletamento dei mezzi di prova e

ha per oggetto fatti già completamente provati

dalle parti, mentre nella seconda, essa stessa

potrà costituire fonte oggettiva di prova, ma è

sempre necessario che la parte abbia dedotto,

quanto meno, il fatto che pone a fondamento

della propria domanda di cui il giudice affida

l’accertamento ad un ausiliario in possesso di

cognizioni tecniche che egli non possiede. In

altri termini, è, in ogni caso, ineludibile

l’individuazione del fatto costitutivo della

domanda (la c.d. causa petendi che, in

relazione ai fatti lesivi, si atteggia

propriamente come causa petendi passiva)

devoluto alla cognizione del giudice e che si

riflette, per derivazione, sui limiti intrinseci

del mandato conferito al C.T.U. (oltrepassando

i quali si incorrerà nel vizio di extrapetizione

per interpolazione della causa petendi) e,

parallelamente, sull’estensione dell’indagine

del C.T.U. che non può da essi decampare;

tanto più trattandosi di domande

eterodeterminate (come la domanda

risarcitoria di cui si discute) che postulano in

apicibus – diversamente dalle domande

autodeterminate – l’identificazione di un

preciso fatto genetico della responsabilità

enunciato nell’atto di citazione. Ne deriva che

la consulenza in discorso, avendo ecceduto i

limiti intrinseci del mandato, risulta inficiata

da nullità per la violazione del principio del

contraddittorio e, come tale, priva di efficacia

probatoria”.

Il Condominio assumeva che gli elementi,

comunque, acquisiti dal C.T.U., anche al di

fuori del mandato, ben potevano valere – nella

forma di prove atipiche – a fondare anch’essi il

convincimento del primo giudice. Questo

orientamento (tra le altre, v. Cass. 19/2/1990 n.

1223) argomenta, in tal senso, dal difetto, nel

nostro ordinamento, di una norma di chiusura

che sancisca la tassatività dei mezzi di prova.

In questa linea di pensiero, il Collegio non

ignora la sentenza Cass. 25/3/2004 n. 5965

(che giunge ad affermare che elementi di

convincimento possono trarsi dalle parti della

consulenza che abbia esorbitato i limiti del

mandato), ma ritiene di doversi discostare da

tale pronuncia che – come rileva autorevole

dottrina – desta perplessità. Non persuade,

infatti, che una consulenza inficiata da nullità,

per aver ecceduto i limiti del fatto costitutivo

(rappresentativo del limite intrinseco del

mandato), possa consentire l’ingresso nel

processo, nella sembianza di prove atipiche, di

elementi di cognizione sui fatti ulteriori

rispetto a quelli cristallizzati nella

formulazione della domanda ed acquisiti in

violazione del principio del contraddittorio.

Inoltre, non può sfuggire che, a voler ritenere

il contrario, si avrebbe per le prove atipiche

l’applicazione della regola “vitiatur sed non

vitiat” di cui non è dato comprendere la ratio e

che non vale per le prove tipiche. In

conclusione, la Corte territoriale riteneva che

la nullità della C.T.U., privandola di ogni

efficacia probatoria comportava che la

domanda, poiché aliunde non provata, dovesse

essere rigettata, restando assorbiti gli altri

motivi di gravame”. Inoltre, la Corte

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territoriale condannava in solido alle spese di

secondo grado la M.L.R. ed il Condominio,

perché riteneva una comunanza di interessi tra

loro, dato che il Condominio aveva contrastato

i motivi di appello concernenti la posizione

della stessa, la quale, limitandosi a chiedere la

conferma della sentenza di primo grado, aveva

inteso acquisire la responsabilità e la condanna

della V.M.S., rinunciando ad affermare quelle

del Condominio.

La M.L.R. proponeva ricorso per cassazione,

deducendo omissione o, quanto meno,

insufficienza della motivazione su un punto

decisivo sollevato dalle parti.

Il Condominio resisteva con controricorso e

proponeva ricorso incidentale, premettendo di

avere interesse all’impugnativa della sentenza

resa dalla Corte di Appello di Napoli, in

quanto l’accoglimento della riconvenzionale,

proposta dalla V.M.S. nel corso del giudizio di

merito con la conseguente condanna del

Condominio stesso alle spese di secondo grado

in solido con la M.L.R., trovava il suo

fondamento nella declaratoria di nullità della

consulenza. Quest’ultima aveva dato atto che

la causale del sinistro era da rinvenirsi nella

manomissione della tubazione di scarico delle

acque piovane al fine d’incanalarvi le acque

bianche e luride della cucina della stessa

V.M.S.

Il Condominio eccepiva:

A) la violazione e la falsa

applicazione degli artt. 112 c.p.c., 2043 e 2051

c.c. in relazione all’art. 360 n.3 c.p.c.;

B) la nullità della sentenza per

extrapetizione (art. 112 e 360 c.p.c.) e

chiedeva alla Suprema Corte se il giudice di

appello fosse o meno incorso in extrapetizione,

avendo accolto il motivo di gravame fondato

sulla pretesa nullità della consulenza, senza

tenere conto che l’appellante mai aveva

dedotto il superamento da parte del Tribunale

dei cosiddetti limiti intrinseci del mandato, con

conseguente interpolazione della causa petendi

mediante l’allegazione di fatti costitutivi della

domanda non dedotti dall’attore nell’atto

introduttivo.

C) la violazione e la falsa

applicazione degli artt. 101, 115, 116 e 162

c.p.c.

D) il vizio di motivazione su punti

controversi del giudizio

E) la violazione e la falsa

applicazione degli artt. 1123, 1134 e 2697 cc.

101, 116, 162, 191 ss. c.p.c. con riferimento

all’art. 360 n. 3 e chiedeva alla Suprema Corte

se il giudice di appello avesse violato e

falsamente applicato: a) la norma dell’art.

1134 c.c., concedendo il chiesto rimborso,

nonostante le riparazioni avessero riguardato

la proprietà esclusiva del condomino e fossero

state eseguite, in difetto di una necessità

immediata ed impellente, nel tentativo di

ovviare alla cattiva esecuzione di precedenti

lavori di ristrutturazione; b) le norme di cui

all’art. 2697 c.c., avendo, di fatto, onerato il

condominio di fornire la prova liberatoria,

ritenendo provati in re ipsa i fatti costitutivi

della domanda proposta dalla condomina

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

226

valendosi dell’art. 1134 c.c. negando, in

violazione del principio del contraddittorio e

della rinnovazione degli atti nulli, la chiesta

rinnovazione della consulenza tecnica che

avrebbe consentito di appurare la insussistenza

dei requisiti richiesti dal richiamato art. 1134

c.c..

F) il vizio di motivazione su punti

controversi e decisivi del giudizio, chiedendo

alla Suprema Corte se la Corte di Appello

fosse o meno incorsa in vizio di motivazione

su di un punto decisivo della controversa,

affermando che nonostante:

fosse acquisita agli atti di causa prova

documentale dalla quale poteva inferirsi che le

riparazioni hanno riguardato l’immobile della

signora V.M.S., che la riparazione per la quale

è stato chiesto il rimborso della spesa è stata

eseguita su di un bene condominiale;

la corrispondenza in atti, invocata a

fondamento del convincimento espresso, fosse

di segno contrario, la ricorrenza del requisito

dell’urgenza della riparazione per la quale è

stato richiesto il rimborso.

G) La violazione e la falsa

applicazione dell’art. 97 c.p.c. con riferimento

all’art. 360, n.3, c.p.c..

Resisteva, con rispettivi controricorsi, la

V.M.S. e chiedeva dichiararsi inammissibile e,

comunque, rigettarsi le avverse impugnazioni.

La Corte di Cassazione ritiene che i ricorsi

debbano essere riuniti, in quanto proposti

avverso la medesima sentenza (art. 335 c.p.c.).

Devono essere esaminati congiuntamente il

ricorso principale, nonché il primo, il secondo

ed il quarto motivo del ricorso incidentale,

avendo tutti ad oggetto le questioni,

intimamente connesse, dell’interpretazione

della domanda dell’originaria attrice, del titolo

di responsabilità azionato, del connesso onere

probatorio e dell’ambito dei poteri d’indagine

del C.T.U.. Tali censure si rivelano fondate ed

il loro accoglimento assorbe ogni decisione in

ordine alle altre formulate dal Condominio.

Reputa la S.C. che il consulente d’ufficio ha

accertato, sulla base del mandato ricevuto dal

giudice di primo grado, che le infiltrazioni non

erano riconducibili alle opere di

trasformazione dell’appartamento della

V.M.S., ma alla manomissione delle tubazioni

di scolo delle acque piovane, al fine di

convogliarvi le acque bianche e luride della

cucina della stessa V.M.S..

Sussistono i vizi motivazionali dedotti nel

ricorso principale e nel quarto motivo di quello

incidentale e si rivela fondata la censura del

condominio, riguardante la violazione degli

artt. 112 c.p.c. e 2043 e 2051 c.c.

(rispettivamente, secondo e primo motivo del

ricorso incidentale).

Secondo gli Ermellini, la Corte di Appello di

Napoli ha errato nel ritenere la nullità della

consulenza tecnica d’ufficio svolta in primo

grado, per il superamento dei limiti del

mandato. Infatti, la M.L.R. aveva convenuto in

giudizio sia la V.M.S. che il Condominio,

fondando la sua pretesa tanto sull’art. 2043

c.c., quanto sull’art. 2051 c.c. e lo stesso

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giudice di primo grado, nel formulare i quesiti

al C.T.U. lo aveva invitato ad accertare quali

fossero le cause del fenomeno ed a chi fossero

imputabili le infiltrazioni. Per gli stessi motivi,

si rivela sussistente anche il vizio

motivazionale dedotto nel quarto motivo del

ricorso proposto in via incidentale dal

Condominio e nel coincidente ricorso

principale della M.L.R..

Con tali doglianze, si censurano, in effetti, le

ragioni sulla base delle quali l’indagine

tecnica, secondo la Corte territoriale, non

avrebbe potuto estendersi anche all’ispezione

dell’intero immobile della V.M.S. per

accertare le effettive cause delle infiltrazioni.

La Suprema Corte ha ribadito, al riguardo, che

la consulenza tecnica d’ufficio, anche se non

costituisce, in linea di massima, mezzo di

prova, ma strumento per la valutazione della

prova acquisita, tuttavia rappresenta una fonte

oggettiva di prova quando si risolve

nell’accertamento di fatti rilevabili unicamente

con l’ausilio di specifiche cognizioni o

strumentazioni tecniche (Cass. n. 6585/2001,

in motivazione: 15630/2000; 10916/2000: v.

anche Cass. n. 1020/2006 e n. 1149/2011). In

considerazione di quanto precede, si rivela

pertinente, quindi, la questione

dell’interpretazione della domanda della

M.L.R..

Oltre tutto, il giudice di primo grado aveva,

comunque, esteso i limiti del mandato

all’accertamento delle cause delle infiltrazioni

e la M.L.R. aveva pur sempre denunciato il

vizio motivazionale in cui è incorsa la Corte

territoriale. Invero, la formulazione dei quesiti

rientra nei poteri discrezionali del giudice del

merito, sicché non costituisce violazione dei

diritti della difesa formulare quesiti diversi da

quelli ritenuti necessari da una delle parti,

sempre che i difensori siano stati posti in

condizione di presenziare alle operazioni e di

porre istanze e osservazioni ritenute necessaire

e pertinenti, circostanza, quest’ultima, non

controversa in questa sede (Cass. n.

6215/2001, in motivazione).

In conclusione, la Corte di Cassazione ha

accolto il ricorso principale ed il primo,

secondo e quarto motivo di quello incidentale,

assorbita ogni altra censura; ha cassato la

sentenza impugnata e rinviato la causa per

nuovo esame e per la determinazione in ordine

alle spese, incluse quelle relative al giudizio di

cassazione alla medesima Corte d’Appello di

Napoli in diversa composizione.

Il commento

Questa annotazione ha la finalità di chiarire se

la consulenza tecnica di ufficio la si debba

considerare solo come strumento di

valutazione dei fatti già acquisiti ed accertati

all’interno del processo o se possa essere essa

stessa mezzo di acquisizione di prove

utilizzabili per la decisione.

Nel processo civile, il giudice è coadiuvato

nell’assolvimento delle sue funzioni da una

serie di soggetti, denominati, appunto, ausiliari

del giudice. Di essi fa menzione il Codice di

Procedura Civile agli art. 61 e seguenti, in cui

si delinea, in via generale, la figura ed il ruolo

del consulente tecnico d’ufficio, del cui

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operato ci si avvale, per lo più, in fase

istruttoria.

La consulenza tecnica, per dottrina e

giurisprudenza unanimi, è un mezzo

istruttorioe non una prova vera e propria; quale

mezzo istruttorio, la consulenza tecnica è

sottratta alla disponibilità delle parti ed è

affidata al prudente apprezzamento del giudice

del merito [1], il quale se ne avvale quando è

indispensabile per verificare i fatti del

procedimento, nonché l’impiego di

conoscenze tecniche o scientifiche particolari

che vanno al di là della cultura media e delle

quali il Giudice non dispone [2].

La c.t.u. è, pertanto, uno strumento di

valutazione, sotto il profilo tecnico-scientifico,

di dati già acquisiti. Tuttavia, essa può

contenere elementi idonei a formare il

convincimento del giudice [3] e non può

essere impiegato per dispensare le parti

dall’onus probandi gravante su di esse.

Ciò nonostante, nell’autorizzare la C.T.U., il

giudice deve adeguarsi al suo limite

caratteristico, ovvero la sua funzionalità alla

risoluzione di questioni di fatto, presumenti

competenze di ordine tecnico e non giuridico:

ne consegue, quindi, che qualora il giudice

“erroneamente affidi al consulente lo

svolgimento di accertamenti e la formulazione

di valutazioni giuridiche o di merito

inammissibili, non può risolvere la

controversia in base ad un richiamo alle

conclusioni del consulente stesso, ma può

condividerle soltanto ove formuli una propria

autonoma motivazione basata sulla

valutazione degli elementi di prova

legittimamente acquisiti al processo e dia

sufficiente ragione del proprio convincimento,

tenendo conto delle contrarie deduzioni delle

parti che siano sufficientemente specifiche”

[4].

D’altra parte, come ritenuto dalla migliore

dottrina [5], il ricorso alla collaborazione di un

consulente tecnico implica, semplicemente, un

perfezionamento delle conoscenze del giudice,

il quale non si spoglia affatto dei propri poteri

decisori. Ed invero, “il giudice di merito non

può ritenersi vincolato dalle deduzioni tratte

dai c.t.u. in base agli accertamenti tecnici,

essendo suo precipuo compito trarre

autonomamente logiche conclusioni,

giuridiche e di merito, sulla base del materiale

probatorio acquisito” (cfr. Cassazione civile,

sez. I, 20 luglio 2001, n. 9922).

Come ritenuto dalla costante giurisprudenza di

legittimità, rientra nel potere discrezionale del

giudice eludere le conclusioni della consulenza

tecnica d’ufficio, senza l’obbligo di ordinare

un’ulteriore perizia, purché abbia elementi

istruttori e cognizioni proprie, rinforzati da

presunzioni e da nozioni di comune esperienza

sufficienti a dar conto della decisione adottata.

Tra l’altro, “detta decisione può essere

censurata in sede di legittimità solo ove la

soluzione scelta non risulti sufficientemente

motivata” [6]

Le valutazioni espresse dal consulente tecnico

d’ufficio, difatti, non possiedono efficacia

vincolante per il giudice, il quale può

legittimamente non osservarle tramite una

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

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valutazione critica ancorata alle risultanze

processuali e congruamente e logicamente

motivata. In tal caso, il Giudice deve indicare

gli elementi di cui si è avvalso per ritenere

inesatti gli argomenti sui quali il consulente si

è basato, ovvero gli elementi probatori, i criteri

di valutazione e gli argomenti logico-giuridici

per addivenire alla decisione discordante con

l’opinione del c.t.u.[7].

Il Giudice può affidare al consulente tecnico

non solo l’incarico di valutare i fatti da lui

stesso accertati o dati per esistenti (consulente

deducente), ma anche quello di accertare i fatti

stessi (consulente percipiente). Nel primo caso

la consulenza presuppone l’avvenuto

espletamento dei mezzi di prova ed ha per

oggetto la valutazione dei fatti i cui elementi

sono già stati completamente provati dalle

parti. Nel secondo caso, la consulenza può

costituire essa stessa fonte oggettiva di prova,

purché la parte quanto meno deduca il fatto

che pone a fondamento del proprio diritto

l’accertamento implichi cognizioni tecniche

che il Giudice non possiede [8].

In nessun caso, tuttavia, la consulenza può

servire ad esonerare la parte dal fornire la

prova che le spetta di fornire in base ai principi

che regolano l’onere relativo [9]. Conviene

evidenziare che, nel caso di fatti il cui

accertamento richieda l’impiego di un sapere

tecnico qualificato, l’onere probatorio è

limitato alla allegazione, competendo, poi, al

giudice decidere se ricorrano o meno le

condizioni per autorizzare la consulenza [10].

Bisogna, ulteriormente, precisare che la

relazione deve essere trasmessa dal consulente

alle parti costituite nel termine stabilito dal

giudice con ordinanza resa all’udienza di cui

all’articolo 193 c.p.c.. Con la medesima

ordinanza, il giudice fissa il termine entro il

quale le parti devono trasmettere al consulente

le proprie osservazioni sulla relazione e il

termine, anteriore alla successiva udienza,

entro il quale il consulente deve depositare in

cancelleria la relazione, le osservazioni delle

parti e una sintetica valutazione sulle stesse

Si badi che la relazione di consulenza tecnica

d’ufficio non è suscettibile di querela di falso

ai sensi degli art. 221 ss. c.p.c., né in via

principale né in corso di causa, non essendo il

consulente tecnico d’ufficio, nel redigere tale

documento, autorizzato dalla legge ad

attribuirgli pubblica fede, con la conseguenza

che il documento, pur essendo atto pubblico,

non si configura come prova legale munita di

fede privilegiata e, quindi, non è vincolante

per il giudice e può essere contestata dalle

parti con qualsiasi mezzo di prova [11].

In conclusione, la consulenza tecnica non può

essere considerata un mezzo di prova, poiché

la sua funzione è, essenzialmente, non quella

di accertare la verità dei fatti affermati dalle

parti, ma quella di offrire al giudice l’ausilio di

cognizioni tecniche che questi, normalmente,

non possiede. Anche se essa non costituisce, in

linea di massima, un mezzo di prova, ma uno

strumento per la valutazione della prova

acquisita, tuttavia rappresenta una fonte

oggettiva di prova quando si risolve

nell’accertamento di fatti rilevabili unicamente

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con l’ausilio di specifiche cognizioni o

strumentazioni tecniche

L’attività del consulente tecnico serve, in

definitiva, per integrare l’attività del giudice

come organo decisorio, sia in quanto può

offrire elementi per valutare le risultanze di

determinate prove, sia in quanto può offrire

elementi diretti di giudizio.

[1] Sul punto, Cassazione civile, sez. lav., 4

febbraio 1999, n. 996.

[2] Cfr. Taruffo, Lezioni sul processo civile,

Comoglio-Ferri-Taruffo, Il Mulino, Bologna,

2° edizione, 1995, pag. 679

[3] Cassazione civile, sez. lav., 10 luglio 1999,

n. 7319.

[4] Ibidem, Cassazione civile, sez. lav.

996/1999.

[5] Cfr. Taruffo, ibidem, pag. 680; Luiso,

Diritto processuale civile. Il processo di

cognizione, Giuffrè Editore, Milano, 3°

edizione, 2000, pag. 91.

[6] Cassazione civile, sez. II, 4 gennaio 2002,

n. 71.

[7] Cassazione civile, sez. I, 14 gennaio 1999,

n. 333. Si veda anche Cassazione civile, sez. I,

20 maggio 2005, n. 10668: “il giudice del

merito non è tenuto a giustificare diffusamente

le ragioni della propria adesione alle

conclusioni del consulente tecnico d’ufficio

ove manchino contrarie argomentazioni delle

parti o esse non siano specifiche, potendo, in

tal caso, limitarsi a riconoscere quelle

conclusioni come giustificate dalle indagini

svolte dall’esperto e dalle spiegazioni

contenute nella relativa relazione; non può,

invece, esimersi da una più puntuale

motivazione, allorquando le critiche mosse

alla consulenza siano specifiche e tali, se

fondate, da condurre ad una decisione diversa

da quella adottata

[8] Sul punto, si veda Cassazione civile, sez.

un., 4 novembre 1996, n. 9522; Cassazione

civile, sez. II, 14 gennaio 1999, n. 321;

Cassazione civile, sez. III, 10 marzo 2000, n.

2802.

[9] Per l’effetto, “la consulenza tecnica non

può essere ammessa dal giudice allorquando è

sollecitata da una delle parti al solo scopo di

colmare le carenze delle proprie istanze

istruttorie” (Cassazione civile, sez. III, 7

luglio 2005, n. 14306).

[10] Conseguentemente, vìola gli art. 61 e 116

CPC il giudice che non ammette la consulenza

tecnica per il solo fatto che non è stato

adempiuto l’onere probatorio, così come il

giudice che, ammessa ed espletata la

consulenza tecnica, rifiuta per la stessa

ragione di tenerne conto”: Cassazione civile,

sez. III, 22 giugno 2005, n. 13401.

[11] Tribunale Foggia, 9 novembre 1998

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

231

.

di

FEDERICA FEDERICI

Massima

La circostanza che la notificazione della sentenza sia stata effettuata con la mancanza di

alcune pagine può incidere sulla sua idoneità a far decorrere il termine c.d. breve di cui

all’art. 325 c.p.c. ai fini della proposizione del ricorso per cassazione, ove l’incompletezza

determini l’inidoneità della notificazione allo scopo di assicurare una conoscenza della

sentenza sufficiente a consentire l’esercizio del diritto di impugnazione. Ove, tuttavia, il

destinatario scelga di esercitare comunque il diritto di ricorrere in cassazione entro quel

termine, così mostrando che quella inidoneità non v’è stata, egli non è esentato dall’onere di

munirsi di una copia autentica completa delle pagine mancanti, al fine di ottemperare

all’onere di cui all’art. 369, secondo comma, n. 2 c.p.c. Cassazione civile.

Notificazione della sentenza senza

alcune pagine: che succede ai fini del decorso del termine breve per

l’impugnazione?

Sentenza Cassazione Civile,

Sentenza n. 2976/2013

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

232

LA SENTENZA PER ESTESO

Cassazione civile, sezione terza, sentenza del

7.2.2013, n. 2976

…omissis…

Vi si lamenta che la sentenza impugnata, che è

stata notificata il 26 marzo 2007, lo sarebbe

stata in copia con la mancanza di due pagine e

che ciò, da un lato sarebbe reso “inesistente o

quantomeno nulla la notificazione e, dall'altra,

perplesso e contraddittorio il provvedimento

impugnato”, perché non sarebbe stato

“possibile ...intendere integralmente la

motivazione data dal giudice alla propria

decisione” e ciò avrebbe impedito “al

ricorrente di esperire una congrua e logica

impugnazione della decisione e, quindi,

ostacola gravemente l'esercizio del diritto di

difesa”.

p.1.1.1. Ora, è effettivamente vero che la copia

della sentenza impugnata, notificata dal

resistente agli effetti del decorso del termine di

cui all'art. 325 c.p.c. e, quindi, depositata dal

ricorrente agli effetti dell'art. 369, secondo

comma, n. 2 c.p.c., risulta mancante di due

pagine, ma non si comprende come tale

circostanza possa avere integrato un vizio della

sentenza stessa, dato che si tratta di un evento

che riguarda solo la sua notificazione. Essa

avrebbe potuto assumere rilievo solo in quanto

idonea a determinare eventualmente la nullità

della notificazione della sentenza e, quindi, la

sua inidoneità a provocarne gli effetti, id est il

decorso del termine di cui all'art. 325 c.p.c. e

tale inidoneità sarebbe potuta venire in ipotesi

(cioè se effettivamente si fosse verificata una

nullità ed all'uopo si veda, al riguardo, Cass.

sez. un. n. 2081 del 1995 e da ultimo Cass. n.

10488 del 2012(1)) in rilievo se il ricorrente,

invece di attivarsi esercitando il diritto di

impugnazione entro quel termine, avesse

ritenuto di esercitarlo nel termine lungo.

Avendo optato nel primo senso il ricorrente ha

determinato la sanatoria della nullità agli

effetti della decorrenza del termine breve e,

quindi, ha accettato di esercitare il diritto di

impugnazione dovendo osservare tutte le sue

condizioni di rito come se la notificazione

fosse avvenuta ritualmente. Ne consegue che

egli aveva l'onere, per esercitare quel diritto, di

acquisire copia della sentenza integrale per

articolarne i motivi in modo corrispondente e

non può pretendere di non averlo potuto fare

in ragione della notifica incompleta.

Va detto anzi che a questo punto, avendo il

ricorrente depositato proprio la copia autentica

notificatagli, priva delle due pagine, si

potrebbe profilare una causa di

improcedibilità, dato che secondo Cass. sez.

un. n. 14110 del 2006 “Ai fini del rispetto

della condizione di procedibilità del ricorso

per cassazione, prevista dall'art. 369, secondo

comma, n. 2 c.p.c., è necessario il deposito, nel

termine perentorio di venti giorni dall'ultima

notificazione dell'atto, di una copia autentica

della sentenza impugnata, contenente tutte le

pagine che consentano di comprendere

l'oggetto della controversia e le ragioni poste a

fondamento della decisione, nonché di

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valutare la fondatezza o meno dei motivi di

censura”. Poiché lo stesso ricorrente assume

che non avrebbe potuto esercitare il suo diritto

di difesa, perché la mancanza delle pagine

renderebbe incomprensibile la motivazione,

l'applicazione del riportato principio

giustificherebbe l'improcedibilità del ricorso.

Andrebbe, infatti, considerato che, al lume di

quanto affermato dalle Sezioni Unite, non

sembrerebbe condivisibile il principio di

diritto affermato da Cass. n. 2494 del 2004,

secondo cui “La procedibilità del ricorso per

Cassazione non è esclusa dal fatto che la copia

autentica della sentenza impugnata (che il

ricorrente è tenuto a depositare unitamente al

ricorso ex art. 369, comma secondo c.p.c.) sia

incompleta perché priva di alcune pagine della

parte motivazionale (nella specie, di due

facciate) tutte le volte in cui, come nella

specie, il ricorrente stesso si sia attenuto a

quanto disposto dal citato art. 369 del codice

di rito depositando copia autentica della

sentenza impugnata cosi come notificatagli

dalla controparte, e contenente l'attestazione di

conformità all'originale della sentenza della

Corte di Appello apposta dal cancelliere di

detta Corte (cui è da attribuirsi l'errore di

omesso controllo sulla esattezza della

certificazione da lui compiuta)”.

La motivazione di tale decisione si articolò in

questi termini, dopo aver dato atto che, con

ordinanza disposta in udienza la Corte, rilevato

che la copia della sentenza impugnata

depositata dal ricorrente Spadini, pure se

attestata conforme all'originale dal cancelliere

della Corte di appello di Ancona, mancava di

alcune pagine al cui contenuto le parti si erano

riferite negli scritti difensivi, onde ne era

impedita la piena comprensione, aveva

disposto l'acquisizione della copia autentica

integrale della sentenza impugnata mediante

apposita richiesta alla Corte di appello di

Ancona, nei seguenti termini: “Va,

innanzitutto, affermata la procedibilità del

ricorso per Cassazione proposto dallo Spadini,

anche se la copia autentica della sentenza

impugnata, depositata dal ricorrente

unitamente al ricorso a norma dell'art. 369,

secondo comma, n. 2 c.p.c., è incompleta

perché risulta priva di due delle pagine dei

motivi della decisione, come risulta dal

confronto tra la copia della sentenza depositata

dal ricorrente e quella qui inviata dalla Corte

di appello di Ancona a seguito della richiesta

della cancelleria della Cassazione in data 16

dicembre 2002 (mancano nella prima copia le

pag. 7 e 9 del fax inviato dalla Corte di

appello). Il ricorrente, invero, si è attenuto al

citato disposto dell'art. 369 c.p.c., depositando

la copia autentica della sentenza impugnata

che gli è stata notificata dalla controparte, e

cioè dalla società La Fondiaria Assicurazioni.

Ed infatti l'attestazione di conformità della

copia all'originale della sentenza della Corte di

appello è stata effettuata dal cancelliere di

detta Corte su richiesta del difensore della

menzionata società assicuratrice. Quindi, il

difensore dello S., depositando, insieme col

ricorso per Cassazione, la copia autentica della

sentenza impugnata con la relazione di

notificazione della stessa, effettuata dalla

controparte, ha osservato pienamente l'art.

369, secondo comma, n. 2, c.p.c, onde non è a

lui imputabile il fatto che la copia autentica

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della sentenza (come tale certificata dal

cancelliere della Corte di appello) non sia tale,

perché mancante, rispetto all'originale della

sentenza stessa, di due pagine. Non può,

quindi, essere condiviso l'orientamento seguito

dalla Sez. 2^ di questa Corte, con la sentenza

16 maggio 2001 n, 6749, che, in fattispecie

identica a quella qui giudicata, ha dichiarato

improcedibile il ricorso per Cassazione, sulla

base dell'osservazione che l'art. 369 c.p.c. non

prevede eccezioni alla regola che il deposito di

copia autentica della sentenza impugnata deve

essere effettuato dalla parte ricorrente (anche

nel precedente caso mancava una pagina nella

copia autentica della sentenza impugnata,

notificata dalla controparte alla parte che

l'aveva depositata insieme con il ricorso per

Cassazione). Tale orientamento non tiene

conto del fatto che il ricorrente ha allegato al

ricorso la copia autentica della sentenza

impugnata, come richiesto dal citato art. 369, e

che la difformità della copia rispetto

all'originale (per incompletezza della prima

rispetto al secondo) è da attribuirsi all'errore

del cancelliere che ne ha certificato

l'autenticità. Se anche si volessero fare

ricadere sul ricorrente (che ha depositato la

copia autentica incompleta della sentenza

impugnata) le conseguenze del mancato

controllo sulla esattezza della certificazione

compiuta dal cancelliere, tale (opinabile)

considerazione non varrebbe nell'ipotesi

(verificatasi nel presente caso) in cui la copia

autentica della sentenza impugnata sia stata

rilasciata al difensore della controparte che

l'abbia notificata a colui che abbia poi

proposto ricorso per Cassazione, depositando

la copia notificatagli della sentenza impugnata,

come prescritto proprio dall'art. 369, secondo

comma, n. 2, c.p.c., disposizione che, pertanto,

nel caso qui considerato, non può ritenersi

sotto alcun aspetto violata dal ricorrente”.

Invero, le considerazioni svolte in tale

motivazione circa la responsabilità del

cancelliere, che rilasci copia priva di pagine

non considerano che l'attività di deposito della

sentenza in copia autentica è attività di cui è

onerato il ricorrente e la cui conformità a

diritto spetta a lui di controllare. Si tratta di

attività che prescinde dalla notificazione della

sentenza, la quale determina l'ulteriore onere

di depositare la relata della notifica, che è atto

distinto dalla copia notificata e ciò ancorché

sia redatta in calce e di seguito ad essa. Di

modo che il necessario controllo della

completezza della copia notificata non può

venir meno. Né il deposito di una copia priva

di pagine, essendo adempimento imposto a

pena di inammissibilità tollera l'esercizio del

potere giudiciale della Corte di cassazione di

invitare il giudice a quo a trasmettere la copia

integrale della sentenza. Nemmeno può

giustificarsi una soluzione come quella della

citata decisione con il fatto che dall'attività

diretta ad ottenere il rilascio di una copia

integrale il ricorrente potrebbe essere

pregiudicato nella possibilità di fruire

dell'intero termine breve per la notificazione:

s'è già detto che, se l'incompletezza è tale da

incidere sulla possibilità di impugnare tutto il

decisum della sentenza la notificazione è nulla

e non decorre il termine breve.

Dunque il ricorso dovrebbe essere dichiarato

improcedibile sulla base del seguente principio

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

235

di diritto: “La circostanza che la notificazione

della sentenza sia stata effettuata con la

mancanza di alcune pagine può incidere sulla

sua idoneità a far decorrere il termine c.d.

breve di cui all'art. 325 c.p.c. ai fini della

proposizione del ricorso per cassazione, ove

l'incompletezza determini l'inidoneità della

notificazione allo scopo di assicurare una

conoscenza della sentenza sufficiente a

consentire l'esercizio del diritto di

impugnazione. Ove, tuttavia, il destinatario

scelga di esercitare comunque il diritto di

ricorrere in cassazione entro quel termine, così

mostrando che quella inidoneità non v'è stata,

egli non è esentato dall'onere di munirsi di una

copia autentica completa delle pagine

mancanti, al fine di ottemperare all'onere di

cui all'art. 369, secondo comma, n. 2 c.p.c.”.

p.2. La ritenuta improcedibilità del ricorso a

questo punto esimerebbe dal riferire

analiticamente dei motivi ulteriori del ricorso,

i quali sarebbero tutti connotati

dall'inammissibilità per inosservanza dell'art.

366-bis c.p.c. e gradatamente da infondatezza.

Per completezza se ne da dimostrazione con

specifico riguardo al secondo, al terzo motivo

ed al quarto motivo.

p.2.1. Con il secondo motivo si denuncia

"violazione dell'art. 132 c.p.c. e dell'art. 118

delle disp.att.".

L'illustrazione si conclude con il seguente

quesito: “la motivazione che, come nella

fattispecie, si riferisca a fatti diversi e solo in

parte ai fatti del presente giudizio viola le

norme in rubrica e rende nulla la sentenza

impugnata?”. Il quesito prospetta un

interrogativo del tutto generico ed astratto, in

quanto non solo non fornisce alcuna

indicazione della parte di motivazione cui ci si

relaziona, ma nemmeno offre una pur minima

indicazione del riferirsi della motivazione a

"fatti diversi" e solo in parte ai fatti del

giudizio e sulle ragioni della violazione delle

norme di cui all'intestazione del motivo.

L'art. 366-bis c.p.c., infatti, quando esigeva

che il quesito di diritto dovesse concludere il

motivo imponeva che la sua formulazione non

si presentasse come la prospettazione di un

interrogativo giuridico del tutto sganciato dalla

vicenda oggetto del procedimento, bensì

evidenziasse la sua pertinenza ad essa. Invero,

se il quesito doveva concludere l'illustrazione

del motivo ed il motivo si risolve in una critica

alla decisione impugnata e, quindi, al modo in

cui la vicenda dedotta in giudizio è stata decisa

sul punto oggetto dell'impugnazione e criticato

dal motivo, appare evidente che il quesito, per

concludere l'illustrazione del motivo, doveva

necessariamente contenere un riferimento

riassuntivo ad esso e, quindi, al suo oggetto,

cioè al punto della decisione impugnata da cui

il motivo dissentiva, si che ne risultasse

evidenziato - ancorché succintamente - perché

l'interrogativo giuridico astratto era

giustificato in relazione alla controversia per

come decisa dalla sentenza impugnata. Un

quesito che non presenta questa contenuto è,

pertanto, un non quesito (si veda, in termini,

fra le tante, Cass. sez. un. n. 26020 del 2008

(2); nonché n. 6420 del 2008(3)).

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236

È da avvertire che l'utilizzo del criterio del

raggiungimento dello scopo per valutare se la

formulazione del quesito sia idonea

all'assolvimento della sua funzione appare

perfettamente giustificato dalla soggezione di

tale formulazione, costituente requisito di

contenuto-forma del ricorso per cassazione,

alla disciplina delle nullità e, quindi, alla

regola dell'art. 156, secondo comma, c.p.c. (4),

per cui all'assolvimento del requisito non

poteva bastare la formulazione di un quesito

quale che esso fosse, eventualmente anche

privo di pertinenza con il motivo, ma

occorreva una formulazione idonea sul piano

funzionale, sul quale emergeva appunto il

carattere della conclusività. Da tanto l'esigenza

che il quesito rispettasse i criteri innanzi

indicati.

Per altro verso, la previsione della necessità

del quesito come contenuto del ricorso a pena

di inammissibilità escludeva che si potesse

utilizzare il criterio di cui al terzo comma

dell'art. 156 c.p.c., posto che quando il

legislatore qualifica una nullità di un certo atto

come determinativa della sua inammissibilità

deve ritenersi che abbia voluto escludere che il

giudice possa apprezzare l'idoneità dell'atto al

raggiungimento dello scopo sulla base di

contenuti desunti aliunde rispetto all'atto: il

che escludeva che il quesito potesse integrarsi

con elementi desunti dal residuo contenuto del

ricorso, atteso che l'inammissibilità era

parametrata al quesito come parte dell'atto

complesso rappresentante il ricorso, ivi

compresa l'illustrazione del motivo (si veda, in

termini, già Cass. (ord.) n. 16002 del 2007;

(ord.) n. 15628 del 2009, a proposito del

requisito di cui all'art. 366 n. 6 c.p.c.).

È, altresì, da avvertire, che l'intervenuta

abrogazione dell'art. 366-bis c.p.c. non può

determinare - in presenza di una

manifestazione di volontà del legislatore che

ha mantenuto ultrattiva la norma per i ricorsi

proposti dopo il 4 luglio 2009 contro

provvedimenti pubblicati prima ed ha escluso

la retroattività dell'abrogazione per i ricorsi

proposti antecedentemente e non ancora decisi

- l'adozione di un criterio interpretativo della

stessa norma distinto da quello che la Corte di

Cassazione, quale giudice della nomofilachia

anche applicata al processo di cassazione,

aveva ritenuto di adottare anche con numerosi

arresti delle Sezioni Unite.

L'adozione di un criterio di lettura dei quesiti

di diritto ai sensi dell'art. 366-bis c.p.c. dopo il

4 luglio 2009 in senso diverso da quanto si era

fatto dalla giurisprudenza della Corte

anteriormente si risolverebbe, infatti, in una

patente violazione dell'art. 12, primo comma,

delle preleggi, posto che si tratterebbe di

criterio contrario all'intenzione del legislatore,

il quale, quando abroga una norma, tanto più

processuale, e la lascia ultrattiva o comunque

non assegna effetti retroattivi all'abrogazione,

manifesta non solo una voluntas nel senso di

preservare l'efficacia della norma per la

fattispecie compiutesi anteriormente

all'abrogazione e di assicurarne l'efficacia

regolatrice rispetto a quelle per cui prevede

l'ultrattività, ma anche una implicita voluntas

che l'esegesi della norma abrogata continui a

dispiegarsi nel senso in cui antecedentemente

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

237

è stata compiuta. Per cui l'interprete e, quindi,

anche la Corte di Cassazione ai sensi dell'art.

65 dell'Ordinamento Giudiziario, debbono

conformarsi a tale doppia voluntas e ciò

ancorché, in ipotesi, l'eco dei lavori preparatori

della legge abrogativa riveli che l'abrogazione

possa essere stata motivata anche e proprio

dall'esegesi che della norma sia stata data.

Invero, anche l'adozione di un criterio

esegetico che tenga conto della ragione in

mente legislatoris dell'abrogazione impone di

considerare che l'esclusione dell'abrogazione

in via retroattiva ed anzi la previsione di una

certa ultrattività per determinate fattispecie

sempre in mente legislatoris significhino

voluntas di permanenza dell'esegesi

affermatasi, perché il contrario interesse non è

stato ritenuto degno di tutela.

Il secondo motivo è, dunque, inammissibile

perché si conclude con un quesito inidoneo al

rispetto dell'art. 366 bis c.p.c..

p.2.1. Se si passasse all'esame del motivo

leggendone l'illustrazione si dovrebbe,

peraltro, rilevare che vi si postula che con

quanto argomentato dalla pagina dieci alla

tredici della sentenza il Tribunale si sarebbe

riferito ad un'opposizione a pignoramento

presso terzi che nulla avrebbe a che fare con

l'opposizione a precetto, ma l'assunto non tiene

conto che nel testo con riguardo al quale il

ricorrente ha esercitato l'impugnazione

mancano la pagina otto e la dodici, sicché non

è dato comprendere come egli possa sostenere

quanto enuncia nel motivo senza che sia dato

sapere a che cosa si riferivano quelle pagine e

se per caso esse davano conto del

pignoramento.

Si aggiunga che il resistente, argomentando

dalle parti della sentenza non prodotte ha dato

conto a sua volta del perché il Tribunale abbia

evocato quel pignoramento.

…omissis…

p.6. Conclusivamente dev'essere dichiarata

l'improcedibilità del ricorso. Le spese del

giudizio di cassazione seguono la

soccombenza e si liquidano in applicazione

della tariffa di cui al d.m. n. 140 del 2012.

P.Q.M.

La Corte dichiara improcedibile il ricorso.

Condanna il ricorrente alla rifusione al

resistente delle spese del giudizio di

cassazione, liquidate in Euro

quattromiladuecento, di cui duecento per

esborsi, oltre accessori come per legge.

1 La massima così recita: al fine di escludere

il decorso del termine breve di impugnazione,

la nullità della notificazione della sentenza

(per essere stata questa consegnata in copia

priva della seconda pagina) può essere

affermata - in difetto di una espressa

comminatoria della nullità medesima - solo se

il destinatario deduca e dimostri che detta

incompletezza gli abbia precluso la compiuta

conoscenza dell'atto e quindi abbia inciso

negativamente sul pieno esercizio della facoltà

di impugnazione dello stesso.

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2 La massima così recita: il quesito di diritto

deve essere formulato, ai sensi dell'art. 366-

bis c.p.c., in termini tali da costituire una

sintesi logico-giuridica della questione, così

da consentire al giudice di legittimità di

enunciare una "regula iuris" suscettibile di

ricevere applicazione anche in casi ulteriori

rispetto a quello deciso dalla sentenza

impugnata. Ne consegue che è inammissibile il

motivo di ricorso sorretto da quesito la cui

formulazione, ponendosi in violazione di

quanto prescritto dal citato art. 366-bis, si

risolve sostanzialmente in una omessa

proposizione del quesito medesimo, per la sua

inidoneità a chiarire l'errore di diritto

imputato alla sentenza impugnata in

riferimento alla concreta fattispecie.

3 La massima così recita: a norma dell'art.

366 "bis" c.p.c., è inammissibile il motivo di

ricorso per cassazione il cui quesito di diritto

si risolva in un'enunciazione di carattere

generale e astratto, priva di qualunque

indicazione sul tipo della controversia e sulla

sua riconducibilità alla fattispecie in esame,

tale da non consentire alcuna risposta utile a

definire la causa nel senso voluto dal

ricorrente, non potendosi desumere il quesito

dal contenuto del motivo o integrare il primo

con il secondo, pena la sostanziale

abrogazione del suddetto articolo.

4 Per approfondimenti si veda MECACCI, sub

art. 156 c.p.c., in VIOLA (a cura di), Codice di

Procedura Civile (sistematico), Padova, 2013.

Si vedano anche AULETTA, Nullità e

inesistenza degli atti processuali civili,

Padova, 1999, 132; BALENA, Elementi di

diritto processuale civile, I, Bari, 2007, 236;

MANDRIOLI, Diritto processuale civile, I, 20ª

ed., Torino, 2009, par. 72; MONTESANO,

ARIETA, Diritto processuale civile, I, Torino,

1999, 372; ORIANI, Nullità degli atti

processuali, in Enc. Giur., XXI, Roma, 1990,

ANNOTAZIONEALLA

SENTENZA

di Federica Federici

Sommario: 1. Sintesi del caso 2. La

materia del contendere 3 Quaestio juris 4.

Nota esplicativa 5. Dottrina 6. Sentenze e

precedenti conformi e difformi

1. Sintesi del caso Trattasi di un ricorso

straordinario per Cassazione avverso una

sentenza con la quale il Tribunale primo

grado aveva rigettato l'opposizione

proposta dal ricorrente avverso un precetto

intimatogli, del quale esso ricorrente aveva

dedotto la nullità ai sensi dell'art. 480,

secondo comma, c.p.c., per l'omessa

indicazione della data di notificazione del

titolo, rappresentato da una sentenza

emessa interpartes dallo stesso Tribunale.

2. La materia del contendere Ricorso per

cassazione – Nullità notificazione sentenza

incompleta - Termini e diritto

impugnazione ricorso cassazione - Oneri

ricorrente se impugna incompleta 3.

Quaestio juris Diritto, termini e oneri di

impugnazione per Cassazione di sentenza

notificata incompleta:

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

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a) formulazione quesito ex art. 366 bis

c.p.c.

b) la mancanza di n. pagine nella copia di

una notifica rende inesistente o

quantomeno nulla la notificazione e

perplesso e contraddittorio il

provvedimento impugnato? c) la notifica

di una sentenza incompleta e quindi non

conforme all'originale viola l'art. 137,

comma 2, c.p.c. e, allo stesso tempo, l’art.

132, comma 2, n. 4, l'art. 118 disp. att.

c.p.c. e l'art. 111, comma 2, Cost.? d)

violazione degli artt. 221 e 617 c.p.c.

nonché degli artt. 183 e 184 c.p.c. e)

violazione degli artt. 221, 156 e 480,

comma 2, c.p.c.

4. Nota esplicativa

Sul punto a) la Corte premette che l'art.

366bis c.p.c. (ora abrogato dalla l. n. 69

del 2009, ma rimasto ultrattivo per i ricorsi

proposti nel regime della sua vigenza) è da

ritenersi applicabile anche al ricorso

straordinario (peraltro già stato affermato

dalla Corte nell'ord. n. 20919 del 2008,

alla cui motivazione la stessa Corte fa

rinvio).

L'intervenuta abrogazione dell'art. 366-bis

c.p.c. non può determinare - in presenza di

una manifestazione di volontà del

legislatore che ha mantenuto ultrattiva la

norma per i ricorsi proposti dopo il 4

luglio 2009 contro provvedimenti

pubblicati prima ed ha escluso la

retroattività dell'abrogazione per i ricorsi

proposti antecedentemente e non ancora

decisi - l'adozione di un criterio

interpretativo della stessa norma distinto

da quello che la Corte di Cassazione, quale

giudice della nomofilachia anche applicata

al processo di cassazione, aveva ritenuto di

adottare anche con numerosi arresti delle

Sezioni Unite.

Tanto rilevato, la Corte quindi osserva che

il quesito formulato è del tutto inidoneo ad

assolvere al requisito di cui all'art. 366-bis

c.p.c., giacché si è concretato nella

prospettazione alla Corte dell'interrogativo

sul se siano state violate le norme indicate

nell'intestazione del motivo. Al riguardo,

viene in rilievo il principio di diritto

secondo cui “È inammissibile, ai sensi

dell'art. 366-bis cod. proc. civ., il ricorso

per cassazione in cui l'espressione quesito

giuridico sia seguita da una mera

elencazione di norme, asseritamente

violate, senza che - a conclusione o nel

corpo del mezzo impugnatorio - risulti

formulato il quesito in ordine al quale si

chiede alla Corte l'enunciazione del

correlativo principio di diritto”.

Sul punto b) la Corte viene interrogata in

merito alla possibile inesistenza o nullità

della notifica in quanto non sarebbe

“possibile [...] intendere integralmente la

motivazione data dal giudice alla propria

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decisione” e ciò impedirebbe “al ricorrente

di esperire una congrua e logica

impugnazione della decisione ostacolando,

quindi, gravemente l'esercizio del diritto di

difesa”. La Corte, pur riconoscendo

effettivamente vero che la copia della

sentenza impugnata, notificata dal

resistente agli effetti del decorso del

termine di cui all'art. 325 c.p.c. e, quindi,

depositata dal ricorrente agli effetti dell'art.

369, secondo comma, n. 2 c.p.c., risulta

mancante di due pagine, dichiara di non

comprendere come tale circostanza possa

avere integrato un vizio della sentenza

stessa, dato che si tratta di un evento che

riguarda solo la sua notificazione. Essa

avrebbe potuto assumere rilievo solo in

quanto idonea a determinare

eventualmente la nullità della notificazione

della sentenza e, quindi, la sua inidoneità a

provocarne gli effetti, id est il decorso del

termine di cui all'art.325 c.p.c. Rileva la

Corte come il ricorrente abbia, invece,

determinato la sanatoria della nullità agli

effetti della decorrenza del termine breve

e, quindi, accettato di esercitare il diritto di

impugnazione dovendo osservare tutte le

sue condizioni di rito come se la

notificazione

fosse avvenuta ritualmente. Ne consegue

che egli aveva l'onere, per esercitare quel

diritto, di acquisire copia della sentenza

integrale per articolarne i motivi in modo

corrispondente e non può pretendere di

non averlo potuto fare in ragione della

notifica incompleta.

Invero, avendo il ricorrente depositato

proprio la copia autentica notificatagli,

priva delle due pagine, si potrebbe

profilare una causa di improcedibilità, dato

che secondo Cass. sez. un. n. 14110 del

2006 “Ai fini del rispetto della condizione

di procedibilità del ricorso per cassazione,

prevista dall'art. 369, secondo comma, n. 2

cod. proc. civ., è necessario il deposito, nel

termine perentorio di venti giorni

dall'ultima notificazione dell'atto, di una

copia autentica della sentenza impugnata,

contenente tutte le pagine che consentano

di comprendere l'oggetto della

controversia e le ragioni poste a

fondamento della decisione, nonché di

valutare la fondatezza o meno dei motivi

di censura”. Poiché lo stesso ricorrente

assume che non avrebbe potuto esercitare

il suo diritto di difesa, perché la mancanza

delle pagine renderebbe incomprensibile la

motivazione, l'applicazione del riportato

principio giustificherebbe l'improcedibilità

del ricorso.

Dunque il ricorso dovrebbe essere

dichiarato improcedibile sulla base del

seguente principio di diritto: “La

circostanza che la notificazione della

sentenza sia stata effettuata con la

mancanza di alcune pagine può incidere

sulla sua idoneità a far decorrere il termine

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c.d. breve di cui all'art. 325 c.p.c. ai fini

della proposizione del ricorso per

cassazione, ove l'incompletezza determini

l'inidoneità della notificazione allo scopo

di assicurare una conoscenza della

sentenza sufficiente a consentire l'esercizio

del diritto di impugnazione. Ove, tuttavia,

il destinatario scelga di esercitare

comunque il diritto di ricorrere in

cassazione entro quel termine, così

mostrando che quella inidoneità non v'è

stata, egli non è esentato dall'onere di

munirsi di una copia autentica completa

delle pagine mancanti, al fine di

ottemperare all'onere di cui all'art. 369,

secondo comma, n. 2 c.p.c.”.

Nonostante la ritenuta improcedibilità del

ricorso la Corte - per completezza -

affronta analiticamente i motivi ulteriori

del ricorso, i quali sarebbero tutti connotati

dall'inammissibilità per inosservanza

dell'art. 366bis c.p.c. e gradatamente da

infondatezza.

Il quesito di cui al punto c) secondo la

Corte prospetta un interrogativo del tutto

generico ed astratto, in quanto non solo

non fornisce alcuna indicazione della parte

di motivazione cui ci si relaziona, e non

offre una minima indicazione del riferirsi

della motivazione a "fatti diversi" e solo in

parte ai fatti del giudizio e sulle ragioni

della violazione delle norme di cui

all'intestazione del motivo. L'art. 366bis

c.p.c., infatti, quando esigeva che il quesito

di diritto dovesse concludere il motivo,

imponeva che la sua formulazione non si

presentasse come la prospettazione di un

interrogativo giuridico del tutto sganciato

dalla vicenda oggetto del

procedimento, bensì evidenziasse la sua

pertinenza ad essa. Appare pertanto

evidente che il quesito, per concludere

l'illustrazione del motivo, doveva

necessariamente contenere un riferimento

riassuntivo ad esso e, quindi, al suo

oggetto, cioè al punto della decisione

impugnata da cui il motivo dissentiva, si

che ne risultasse evidenziato - ancorché

succintamente - perché l'interrogativo

giuridico astratto era giustificato in

relazione alla controversia per come decisa

dalla sentenza impugnata. Un quesito che

non presenta questa contenuto è, pertanto

considerato dalla Corte, un non-quesito e

quindi il motivo è stato ritenuto

inammissibile perché conclusosi con un

quesito inidoneo al rispetto dell'art. 366 bis

c.p.c.

Per ciò che riguarda il quesito di diritto di

cui al punto d) “nel punto in cui si afferma

che la querela di falso introduce

tardivamente un motivo di opposizione

diverso da quello prospettato nell'atto di

citazione, e quindi le si disconosce la vera

natura di strumento processuale diretto a

conseguire la inutilizzabilità di un atto o

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

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documento pregiudizievole, la sentenza

impugnata viola le norme di cui agli art.

221 e 617 nonché degli art. 183 e 184

c.p.c.?”. Secondo la Corte il quesito è

astratto e il motivo viola l’art. 366 n. 6

c.p.c., atteso che si fonda sulla notifica del

precetto di cui non si fornisce l'indicazione

specifica. Peraltro viene ritenuto anche

infondato, perché il Tribunale di primo

grado aveva ritenuto che la querela

dovesse farsi come motivo di opposizione.

Il motivo si conclude con un ulteriore

quesito, anch’esso nuovamente astratto

rivolgendo alla sentenza impugnata una

critica che non tiene conto della struttura

del giudizio di opposizione agli atti e della

soggezione delle doglianze con esso

proponibili ad un termine decadenziale,

come ha invece correttamente ritenuto il

Tribunale di primo grado.

Per la violazione delle norme di cui al

punto e) la Corte ha ritenuto che si

trattasse di motivi tutti dipendenti dal

punto d). 5. Dottrina

In generale, la consegna al destinatario di

copia della sentenza incompleta per la

mancanza di alcune pagine dà luogo a

vizio della notificazione non qualificabile

come inesistenza e quindi improduttività

degli effetti (mancanza totale degli estremi

e dei requisiti essenziali), ma soltanto

come nullità. Il vizio della notificazione è

sanato per raggiungimento dello scopo

dell'atto se il destinatario ha comunque

proposto l'impugnazione. Tuttavia, va

precisato che tale nullità può essere

affermata solo se il destinatario deduca e

dimostri che detta incompletezza gli abbia

precluso la compiuta conoscenza dell'atto

e quindi abbia inciso negativamente sul

pieno esercizio della facoltà di

impugnativa della stesso (Cass. 25 luglio

2003, n. 11528; Cass. SS.UU. 23 febbraio

1995, n. 2081).

Si segnala che secondo parte della

giurisprudenza, in ipotesi di nullità della

notifica, l'impugnazione successivamente

proposta non comporterebbe il

raggiungimento dello scopo di quella

notifica ai fini del decorso del termine

breve di cui all'art. 326 c.p.c., atteso che

l'impugnazione successiva avrebbe

carattere autonomo rispetto alla

notificazione della sentenza, senza

presupporla necessariamente come

avvenuta in una data precisa (Cass. 11

settembre 1996, n. 8226). 6. Sentenze e

precedenti conformi e difformi

Sul quesito a) Cass. sez. un. n. 19811 del

2008; in precedenza, fra tante Cass. (ord.)

n. 19892 del 2007, secondo cui “È

inammissibile, per violazione dell'art. 366-

bis cod. proc. civ., introdotto dall'art. 6 del

d.lgs. n. 40 del 2006, il ricorso per

cassazione nel quale il quesito di diritto si

risolva in una generica istanza di decisione

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sull'esistenza della violazione di legge

denunciata nel motivo”.

Sul punto b) cioè se effettivamente si fosse

verificata una nullità si veda, al riguardo,

Cass. SS.UU. n. 2081 del 1995 e da ultimo

Cass. n. 10488 del 2012 in rilievo se il

ricorrente, invece di attivarsi esercitando il

diritto di impugnazione entro quel termine,

avesse ritenuto di esercitarlo nel termine

lungo.

Sull’improcedibilità alla luce di quanto

affermato dalle Sezioni Unite, non

sembrerebbe condivisibile il principio di

diritto affermato da Cass. n. 2494 del

2004, secondo cui “La procedibilità del

ricorso per Cassazione non è esclusa dal

fatto che la copia autentica della sentenza

impugnata (che il ricorrente è tenuto a

depositare unitamente al ricorso ex art.

369, comma secondo cod. proc. civ.) sia

incompleta perché priva di alcune pagine

della parte motivazionale (nella specie, di

due facciate) tutte le volte in cui, come

nella specie, il ricorrente stesso si sia

attenuto a quanto disposto dal citato art.

369 del codice di rito depositando copia

autentica della sentenza impugnata cosi

come notificatagli dalla controparte, e

contenente l'attestazione di conformità

all'originale della sentenza della Corte di

Appello apposta dal cancelliere di detta

Corte (cui è da attribuirsi l'errore di

omesso controllo sulla esattezza della

certificazione da lui compiuta)”.

La Corte si discosta dall’orientamento

seguito dalla Sez. 2^ con sentenza 16

maggio 2001 n. 6749, che, in fattispecie

identica a quella qui analizzata, aveva

dichiarato improcedibile il ricorso per

Cassazione, sulla base dell'osservazione

che l'art. 369 c.p.c. non prevedeva

eccezioni alla regola che il deposito di

copia autentica della sentenza impugnata

dovesse essere effettuato dalla parte

ricorrente (anche nel precedente caso

mancava una pagina nella copia autentica

della sentenza impugnata, notificata dalla

controparte alla parte che l'aveva

depositata insieme con il ricorso per

Cassazione): “tale orientamento non tiene

conto del fatto che

il ricorrente ha allegato al ricorso la copia

autentica della sentenza impugnata, come

richiesto dal citato art. 369, e che la

difformità della copia rispetto all'originale

(per incompletezza della prima rispetto al

secondo) è da attribuirsi all'errore del

cancelliere che ne ha certificato

l'autenticità. Se anche si volessero fare

ricadere sul ricorrente (che ha depositato la

copia autentica incompleta della sentenza

impugnata) le conseguenze del mancato

controllo sulla esattezza della

certificazione compiuta dal cancelliere,

tale (opinabile) considerazione non

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

244

varrebbe nell'ipotesi (verificatasi nel

presente caso) in cui la copia autentica

della sentenza impugnata sia stata

rilasciata al difensore della controparte che

l'abbia notificata a colui che abbia poi

proposto ricorso per Cassazione,

depositando la copia notificatagli della

sentenza impugnata, come prescritto

proprio dall'art. 369, secondo comma, n. 2,

c.p.c., disposizione che, pertanto, nel caso

qui considerato, non può ritenersi sotto

alcun aspetto violata dal ricorrente”.

Sul punto c) si veda Cass. SS.UU., n.

26020 del 2008; nonché n. 6420 del 2008.

La consegna al destinatario della notifica

di copia incompleta dell'atto non

determina l'inesistenza ma la nullità della

notificazione, difettando il presupposto

dell'inesistenza giuridica, costituito dal

mancato perfezionamento della fattispecie

come delineata dall'ordinamento. (Nella

specie, era stata notificata copia di decreto

ingiuntivo mancante della parte finale

dell'atto contenente l'intimazione di

pagamento). Corte di Cassazione Civ. Sez.

1, Sentenza n. 26364 del 07/12/2011.

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

245

di

GIULIO SPINA

Massima

La vittima di un sinistro stradale è incapace ex art. 246 c.p.c. a

deporre nel giudizio avente ad oggetto la domanda di

risarcimento del danno proposta da altra persona danneggiata

in conseguenza del medesimo sinistro, a nulla rilevando nè

che il testimone abbia dichiarato di rinunciare al risarcimento,

nè che il relativo credito si sia prescritto.

L’incapacità a testimoniare va

valutata ex ante

Sentenza Cassazione Civile,

Sentenza n. 3642/2013

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

246

LA SENTENZA PER ESTESO

Cassazione civile, sezione terza, sentenza del

14.2.2013, n. 3642

…omissis…

Motivi della decisione

1. Preliminare è l'esame del secondo motivo di

ricorso con cui si denunzia violazione dell'art.

246 ex art. 360 c.p.c. n. 3 e difetto di

motivazione sul punto.

Il ricorrente lamenta che senza adeguata

motivazione la Corte di merito ha rigettato la

eccezione di incapacità a testimoniare del teste

Al. ai sensi dell'art. 246 cod. proc. civ..

Il teste era invece incapace a testimoniate in

quanto danneggiato nel sinistro e, quindi,

titolare di un interesse che avrebbe potuto

legittimare la sua partecipazione al giudizio.

2. La doglianza è fondata.

In ordine alla natura dell'interesse che

determina la incapacità a testimoniare la

giurisprudenza di legittimità ha affermato che,

ai sensi dell'art. 246 cod. proc. civ.,

l'incapacità è determinata soltanto da un

interesse giuridico attuale e concreto, che

legittimerebbe, ex art. 100 cod. proc. civ., la

partecipazione del teste al giudizio, mentre la

sussistenza di un interesse di mero fatto,

idoneo ad influire sulla veridicità della

testimonianza, attiene unicamente alla

attendibilità del teste (Cass. 13 aprile 2005 n.

7677).

3. L'interesse che determina l'incapacità a

testimoniare, ai sensi dell'art. 246 cod. proc.

civ., è solo quello giuridico, personale,

concreto ed attuale, che comporta o una

legittimazione principale a proporre l'azione

ovvero una legittimazione secondaria ad

intervenire in un giudizio già proposto da altri

cointeressati. Tale interesse non si identifica

con l'interesse di mero fatto, che un testimone

può avere a che venga decisa in un certo modo

la controversia in cui esso sia stato chiamato a

deporre, pendente fra altre parti, ma identica a

quella vertente tra lui ed un altro soggetto ed

anche se quest'ultimo sia, a sua volta, parte del

giudizio in cui la deposizione deve essere resa.

Nè l'eventuale riunione delle cause connesse

(per identità di questioni) può far insorgere

l'incapacità delle rispettive parti a rendersi

reciproca testimonianza, potendo tale

situazione soltanto incidere sull'attendibilità

delle relative deposizioni(Cass. 12 maggio

2006 n. 11034 v).

4. In ordine alla rilevanza del "posterius"

rispetto alla concretezza ed attualità

dell'interesse si è affermato che l'interesse a

partecipare al giudizio previsto come causa

d'incapacità a testimoniare dall'art. 246 cod.

proc. civ. va valutato indipendentemente dalle

vicende che rappresentano un "posterius"

rispetto alla configurabilità di quell'interesse a

partecipare al giudizio che determina la

incapacità stessa, con la conseguenza che la

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

247

presenza di una fattispecie estintiva del diritto

azionabile, quale la prescrizione o la

transazione, non fa venir meno il

coinvolgimento nel processo e non fa,

pertanto, riacquistare la capacità a

testimoniare. (Nella occasione, la S.C. ha

precisato che non valeva ad escludere tale

incapacità la circostanza che fosse intervenuta

tra le parti del contratto una transazione con la

quale si estinguevano le pretese creditorie

derivanti dai pregressi rapporti) Cass. 23

ottobre 2002 n. 14963.

5. Ed ancora si è detto che la configurabilità in

capo ad un soggetto di quell'interesse concreto

e attuale che sia idoneo ad attribuirgli, in

relazione alla situazione giuridica che forma

oggetto del giudizio, la legittimazione a

chiedere nello stesso processo il

riconoscimento di un proprio diritto o a

contrastare quello da altri fatto valere e che lo

rende incapace a testimoniare, dev'essere

valutato indipendentemente dalle vicende che

rappresentano un "posterius" rispetto alla

configurabilità di quell'interesse;pertanto

l'eventuale opponibilità della prescrizione così

come non potrebbe impedire la partecipazione

al giudizio del titolare del diritto prescritto,

così non può rendere tale soggetto carente

dell'interesse previsto dall'art. 246 cod. proc.

civ. come causa di incapacità a testimoniare

(Cass. 1 giugno 1974 n. 1580). Cass. 22

gennaio 2002 n. 703.

6. Chi è privo della capacita di testimoniare

perchè titolare di un interesse che ne potrebbe

legittimare la partecipazione al giudizio nel

quale deve rendere la testimonianza, in

qualsiasi veste, non esclusa quella di

interventore adesivo, non riacquista tale

capacità per l'intervento di una fattispecie

estintiva del diritto quale la transazione o la

prescrizione, in quanto l'incapacità a

testimoniare deve essere valutata prescindendo

da vicende che costituiscono un "posterius"

rispetto alla configurabitità dell'interesse a

partecipare al giudizio che la determina, con la

conseguenza che la fattispecie estintiva non

può impedire la partecipazione al giudizio del

titolare del diritto che ne è colpito e non può

renderlo carente dell'interesse previsto dall'art.

246 cod. proc. civ. come causa di incapacità a

testimoniare. Cass. 21 luglio 2004 n. 13585.

7. Tale orientamento è stato confermato da

questa Corte anche in recenti sentenze.

Con la decisione n. 16499 del 28 luglio 2011 i

giudici di legittimità hanno ritenuto

l'incapacità a testimoniare di una parte

portatrice di un interesse diretto e immediato

tale da legittimare la sua partecipazione al

giudizio in qualità di parte, "senza che la

circostanza di essere stata già soddisfatta, nelle

sue pretese creditorie in conseguenza

dell'avvenuto versamento della somma in

contestazione potesse dirsi idonea a riattivare

una capacità a testimoniare che, per costante

giurisprudenza di questa corte regolatrice, va

valutata a prescindere da vicende che

costituiscano un posterius facti rispetto alla

predicabilità ex ante dell'interesse a

partecipare al giudizio".

8. Inoltre è stato affermato che la vittima di un

sinistro stradale è incapace ex art. 246 cod.

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248

proc. civ. a deporre nel giudizio avente ad

oggetto la domanda di risarcimento del danno

proposta da altra persona danneggiata in

conseguenza del medesimo sinistro, a nulla

rilevando nè che il testimone abbia dichiarato

di rinunciare al risarcimento, nè che il relativo

credito si sia prescritto ( Cass. 28 settembre

2012 n. 16541).

8. Questo Collegio, pur non ignorando qualche

decisione di segno contrario in ordine alla

rilevanza del "posterius", in particolare relativa

alla posizione del lavoratore che ha concluso

una conciliazione giudiziale (Cass. 9 maggio

2007 n. 10545), condivide la interpretazione

dell'art. 246 c.p.c. sulla valutazione ex ante

della incapacità a testimoniare e sulla

indifferenza delle vicende successive,

interpretazione in linea con la ratio della

norma evidenziata dalla giurisprudenza

costituzionale.

…omissis…

11. E' del tutto razionale la previsione che

impedisce a chi sia portatore di un interesse

che ne legittimerebbe la partecipazione al

giudizio di essere teste nel medesimo, potendo

questi giovarsi, in base alla disciplina

sostanziale, degli effetti della sentenza; Corte

Cost. ord. n. 143 2009.

12. La Corte di appello ha affermato che la

deposizione del teste Al. non era preclusa dalla

disposizione di cui all'art. 246 c.p.c., giacchè il

teste era stato integralmente risarcito dalla W.,

società assicuratrice del motociclo del B., e

non aveva pertanto un interesse concreto ed

attuale che potesse legittimare la

partecipazione al giudizio.

13. Si osserva che il teste A., quale trasportato

sul motoveicolo del B., ha subito danni in

occasione dell'incidente in oggetto ed è

pertanto portatore di un interesse concreto ed

attuale che legittimerebbe la sua

partecipazione ai giudizio.

La circostanza che egli afferma di essere stato

risarcito dalla W., società assicuratrice del

veicolo di proprietà del B. su cui era

trasportato, non fa venir meno la sua

legittimazione a partecipare al giudizio e la

conseguente incapacità a testimoniare, che

deve essere valutata ex ante proprio nel

rispetto della ratio dell'art. 249 c.p.c. che è

quella di evitare che chi potrebbe essere parte

di un giudizio contemporaneamente assuma

anche la veste di testimone.

14. Gli altri motivi di ricorso sono assorbiti.

La sentenza va cassata in relazione al motivo

accolto con rinvio ad altra Sezione della Corte

di Appello di Roma che provvederà anche alle

spese del giudizio di cassazione e si atterrà al

seguente principio: la vittima di un sinistro

stradale è titolare di un interesse giuridico,

personale, concreto ed attuale che legittima la

sua partecipare al giudizio avente ad oggetto la

domanda di risarcimento del danno proposta

da altra persona danneggiata in conseguenza

del medesimo sinistro e la circostanza che

abbia dichiarato di essere stata risarcita dalla

compagnia assicuratrice non fa venir meno la

sua incapacità a testimoniare ex art. 246 cod.

proc. civ..

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

249

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso;cassa e rinvia ad

altra Sezione della Corte di appello di Roma

che provvederà anche alle spese del giudizio di

cassazione.

Così deciso in Roma, il 7 novembre 2012.

Depositato in Cancelleria il 14 febbraio 2013

Annotazione alla sentenza della Corte di Cassazione civile, 14 febbraio 2013, n. 3642

di Giulio Spina 1. Il Caso

- In seguito a sinistro stradale, il conducente di uno dei due motocicli coinvolti decedeva. Gli eredi del defunto proponevano domanda di risarcimento dei danni. Il Tribunale adito rigettava la domanda (ritenendo che l’incidente fosse accaduto per colpa esclusiva del defunto, avendo egli effettuato una improvvisa ed azzardata manovra di inversione ad U, subito dopo una curva con scarsa visibilità, intercettando la traiettoria di marcia dell’altro motociclo, il cui conducente nulla aveva potuto fare per evitare l’incidente). La Corte di appello confermava la decisione di primo grado. 2. La questione sottoposta alla Suprema

Corte -

Ciò posto, assume rilievo osservare che la Corte di merito aveva ricostruito le modalità dell’incidente sulla base della deposizione dell’unico teste presente al fatto: il passeggero del motoveicolo investitore. I Giudici dell’appello, con riferimento a tale teste, avevano rigettato l’eccezione di incapacità a testimoniare proposta dagli eredi del defunto, ritenendo che detta deposizione non risultava preclusa dalla disposizione di cui all’art. 246 c.p.c., giacché il teste era stato integralmente risarcito

dalla Società assicurativa del motoveicolo investitore184. Innanzi alla Suprema Corte di Cassazione ricorrono gli eredi del defunto dolendosi, tra l’altro, che senza adeguata motivazione la Corte di merito aveva rigettato l’eccezione di incapacità a testimoniare del teste ai sensi dell’art. 246 c.p.c. dovendosi invero ritenere incapace a testimoniate in quanto danneggiato nel sinistro e, quindi, titolare di un interesse che avrebbe potuto legittimare la sua partecipazione al giudizio185. 3. Il principio di diritto dettato dalla

Cassazione -

I Giudici di legittimità considerano tale doglianza fondata e, cassando (con rinvio) la sentenza impugnata, dettano il principio di diritto che qui si riporta: La vittima di un sinistro stradale è titolare di

un interesse giuridico, personale, concreto ed

attuale che legittima la sua partecipare al

giudizio avente ad oggetto la domanda di

risarcimento del danno proposta da altra

persona danneggiata in conseguenza del

medesimo sinistro e la circostanza che abbia

dichiarato di essere stata risarcita dalla

compagnia assicuratrice non fa venir meno

la sua incapacità a testimoniare ex art. 246

cod. proc. civ. 4. Le argomentazioni della decisione

- 4.1. Premessa

- L’iter argomentativo seguito dalla Corte tocca, essenzialmente, tre aspetti: - la tematica generale dell’incapacità a

testimoniare di cui all’art. 246 c.p.c.;

184 L’art. 246 c.p.c. dispone che “non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio”.

185 Sulla testimonianza si veda, innanzitutto, Taruffo, Prova testimoniale, in enciclopedia del diritto, XXXVII, 1988, p. 279 e ss. Sull’istituto della testimonianza, analizzato alla luce degli orientamenti più rilevanti e recenti espressi da dottrina e giurisprudenza, si veda L. Viola, La testimonianza nel processo civile, Giuffré, 2012. Sul carattere giudiziale della prova per testimoni e testimonianza come dichiarazione su fatti si veda anche, di recente, R. Crevani, La prova testimoniale, in M. Taruffo (a cura di), La prova nel processo civile, Giuffré, 2012, 275 e 22.

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

250

- il tema della rilevanza, con riferimento all’incapacità a testimoniare, del c.d. posterius.

- lo specifico tema dell’applicazione dell’art. 246 c.p.c. alle controversie in materia di risarcimento dei danni da sinistro stradale. - 4.2. L’incapacità a testimoniare di cui

all’art. 246 c.p.c. -

Quanto al primo aspetto, i Giudici ricordano preliminarmente la distinzione elaborata dalla giurisprudenza di legittimità tra186: - interesse giuridico attuale e concreto:

interesse che legittima o legittimerebbe, a norma dell’ art. 100 del codice di rito187, la partecipazione del teste al giudizio (legittimazione principale a proporre l’azione ovvero legittimazione secondaria ad intervenire in un giudizio già proposto da altri cointeressati188), con la conseguenza che ne determina l’incapacità a testimoniare189; si tratta, quindi, di quella legittimazione, nello stesso processo, a190:

o chiedere il riconoscimento di un proprio diritto; ovvero

186 Si veda al riguardo Cass. n. 7677 del 2005.

187 L’art 100 c.p.c. dispone, con riferimento all’esercizio dell’azione, che per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse. Sulla rilevanza di tale “clausola generale” si veda N. Picardi, Manuale del processo civile, Giuffré, 2010, p. 159

188 Sul punto si veda Cass. n. 11034 del 2006.

189 Sulla nozione di interesse di parte concreto, personale ed attuale si veda Cass. n. 3864 del 1995 e, con riferimento all’interesse meramente ipotetico, Cass. n. 5232 del 2004.

190 Si veda sul punto Cass. 22 gennaio 2002 n. 703. In argomento si precisa unicamente che la giurisprudenza di legittimità ha identificato la titolarità dell’interesse che potrebbe legittimare la partecipazione del teste al giudizio nel quale deve rendere la testimonianza in qualsiasi veste, non escludendo dunque la rilevanza della legittimazione all’intervento adesivo che dunque, pure, determina, l’incapacità di testimoniare (così Cass. n. 13585 del 2004). In argomento si veda, tra gli altri, Luisio, il quale ricorda come, in via generale, siano incapaci a testimoniare i titolari di una situazione sostanziale, connessa con quella oggetto del processo, in modo tale da legittimare la loro partecipazione al processo sotto qualsiasi veste. F. P. Luisio, Diritto processuale civile, Volume II, Il processo di cognizione, Giuffré, 2011, p. 135 e ss.

o contrastare il riconoscimento di un diritto da altri fatto valere.

- interesse di mero fatto: interesse attiene unicamente all’attendibilità del teste, in quanto interesse che il teste può avere a che venga decisa in un certo modo la controversia in cui esso sia stato chiamato a deporre, idoneo dunque ad influire solo sulla veridicità della testimonianza, che quindi non assume rilevanza con riferimento all’incapacità a testimoniare191.

4.3. Il posterius

Il tema del posterius è connesso all’indagine in ordine alla rilevanza della concretezza e dell’attualità dell’interesse del teste a partecipare al giudizio (interesse – come detto – previsto come causa d’incapacità a testimoniare dall’art. 246 c.p.c.)192. Sul punto il prevalente orientamento interpretativo ha puntualizzato che detto interesse “va valutato indipendentemente dalle vicende che rappresentano un posterius rispetto alla configurabilità di quell’interesse a partecipare al giudizio”193. Pertanto, anche la presenza di una fattispecie estintiva del diritto azionabile, quale una transazione, non fa riacquistare la capacità a testimoniare194: la

191 Sul punto, con specifico riferimento alla valutazione della prova testimoniale, basti ricordare come di recente la giurisprudenza di legittimità abbia ribadito che la valutazione delle risultanze delle prove e il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti. Cass. n. 17257 del 2010, in Navigatore settimanale del diritto, Maggioli, n. 5/2012, da cui è tratta la massima sopra riportata.

192 In argomento si veda l’accezione di posterius quale fattispecie estintiva dell’interesse a partecipare al giudizio (Cass. n. 13585 del 2004) o fattispecie estintiva del diritto azionabile (Cass. n. 703 del 2002).

193 Così Cass. n. 14963 del 2002.

194 In senso conforme si veda Cass. n. 703 del 2002 nonché Cass. n. 13585 del 2004, che puntualizza che la fattispecie estintiva non può dunque impedire la partecipazione al giudizio del titolare del diritto che ne è colpito e non può renderlo quindi carente dell’interesse previsto dall’art. 246 c.p.c. come causa

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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2

251

capacità a testimoniare, pertanto, non può essere riacquistata in conseguenza del verificarsi di fattispecie successive rispetto alla configurabitità dell’interesse a partecipare al giudizio195. Tale filone interpretativo appare confermato dalle più recenti pronunce di legittimità196. Secondo invece un diverso orientamento (minoritario), assumerebbe rilevanza il posterius facti, rispetto alla predicabilità ex ante dell’interesse a partecipare al giudizio, dell’avvenuta conciliazione giudiziale.197 Ciò considerato, la pronuncia in commento, richiamando anche la giurisprudenza costituzionale198, ricorda che la ratio dell’art. 249 c.p.c. è quella di evitare che chi potrebbe essere parte di un giudizio assuma, contemporaneamente, anche la veste di testimone e, pertanto, aderisce all’orientamento prevalente sopra richiamato. Viene dunque ribadita la tesi costituita dalla: - valutazione ex ante della incapacità a

testimoniare;

di incapacità a testimoniare; si veda inoltre Cass. n. 1580 del 1974 la quale, in particolare, ha affermato che nemmeno l’eventuale opponibilità della prescrizione, così come non potrebbe impedire la partecipazione al giudizio del titolare del diritto prescritto, non può rendere tale soggetto carente dell’interesse previsto dall'art. 246 cod. proc. civ. come causa di incapacità a testimoniare.

195 Sul limite soggettivo alla capacità di testimoniare previsto dall’art. 246 c.p.c. in commento, intesa come valutazione legislativa, a priori, dell’inattendibilità della dichiarazione proveniente da chi, interessato come parte virtuale o potenziale, non abbia la qualità di terzo, si veda N. Picardi, Manuale del processo civile, Giuffré, 2010, p. 322.

196 Si veda, in particolare, Cass. n. 16541 del 2012, proprio in tema di responsabilità civile da sinistro stradale, nonché Cass n. 16499 del 2011, la quale ha ritenuto la sussistenza dell’incapacità a testimoniare senza che la circostanza (in capo a chi avrebbe dovuto deporre) di essere stato già soddisfatto nelle proprie pretese creditorie in conseguenza dell’avvenuto versamento della somma in contestazione, potesse dirsi idonea a riattivare una capacità a testimoniare.

197 In senso conforme si veda Cass. n. 10545 del 2007, relativa alla posizione del lavoratore.

198 Si veda, in particolare, Corte Cost. ord. n. 143 del 2009 e Corte Cost. 75 del 1997.

- indifferenza delle vicende successive.

4.4. Risarcimento dei danni da sinistro stradale

Quanto all’applicazione di tali principi nei giudizi di risarcimento del danno da sinistro stradale, i Giudici ricordano la recente statuizione di legittimità secondo cui, in aderenza al richiamato orientamento, la vittima di un sinistro stradale risulta incapace ex art. 246 c.p.c. a deporre nel giudizio avente ad oggetto la domanda di risarcimento del danno proposta da altra persona danneggiata in conseguenza del medesimo sinistro, a nulla rilevando né che il testimone abbia dichiarato di rinunciare al risarcimento, né che il relativo credito si sia prescritto199.

4.5. Conclusioni Tutto ciò considerato, con riferimento al caso di specie, la Corte osserva che il teste in questione: - era passeggero di uno dei veicoli coinvolti

nel sinistro; - ha subito danni in occasione

dell’incidente; - è pertanto portatore di un interesse

concreto ed attuale che legittimerebbe la sua partecipazione ai giudizio;

- tuttavia afferma di essere stato risarcito dalla società assicuratrice del veicolo di proprietà su cui era trasportato.

Sulla base di tali premesse, tale ultima affermazione – argomentano i Giudici sulla base dei principi sopra esposti – “non fa venir meno la sua legittimazione a partecipare al giudizio e la conseguente incapacità a testimoniare”. In conclusione, dettando il principio di diritto di cui alla massima sopra riportata, la Suprema Corte cassa la decisione impugnata laddove la Corte di appello aveva affermato che la deposizione del teste non era preclusa dalla disposizione di cui all’art. 246 c.p.c. in quanto egli era stato integralmente risarcito e non aveva pertanto un interesse concreto ed attuale che potesse legittimare la partecipazione al giudizio.

199 Cass. n. 16541 del 2012. Si veda inoltre Cass. n. 21057 del 2009.

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