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La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
(ANNO 1 - N°2 – Aprile / Maggio 2013)
ISBN 978-88-98212-10-1
Tutti i diritti riservati. 2013 PE Primiceri Editore
www.lanuovaproceduracivile.it
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Giurisprudenza)
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Coordinamento Redazionale
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Valeria Vasapollo
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Comitato Redazionale
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Mariantonietta Crocitto, Paolo F. Cuzzola, Marielena D’Amato, Giovanni D’Ambrosio, Ines De
Caria, Maria De Pasquale, Anna Del Giudice, Silvia Di Iorio, Ilaria Di Punzio, Anna Di Stefano,
Federica Federici, Addy Ferro, Bruno Fiammella, Silvia Foiadelli, Michele Filippelli, Andrea
Giordano, Elisa Ghizzi, Tiziana Giudice, Valentina Guzzabocca, Francesca Imposimato, Gianluca
Ludovici, Damiano Marinelli, Marco Mecacci, Alessandra Mei, Emanuela Palamà, Michele
Papalia, Enrico Paratore, Giulio Perrotta, Filippo Pistone, Manuela Rinaldi, Antonio Romano,
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Trigilia, Annunziata Maria Tropeano, Nicolò Vittoria, Alessandro Volpe, Luca Volpe
Progetto Editoriale
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INDICE
Dottrina & Opinioni
Eccesso di potere giurisdizionale 07
Articolo di Vincenzo Carbone Deontologia ed Etica del giudice 24 Articolo di Antonio Valitutti Le problematiche connesse con il nuovo rito per i licenziamenti 28 Articolo di Paolo Spaziani
Nuovo appello filtrato: primi orientamenti e strategie 60 Articolo di Luigi Viola Le dinamiche della procedura di mediazione condominiale 69 Articolo di Mario Tocci Il pignoramento presso terzi alla luce della Legge di stabilità 2013 75 Articolo di Fabrizio Tommasi
La condanna d’ufficio ex art. 96 comma 3 c.p.c. a cavallo tra funzione 80 risarcitoria e sanzionatoria Articolo di Gianluca Cascella
Schemi & Formule
Atto di pignoramento presso terzi dopo la riforma 2013 94 Formula di Elena Bruno
Atto di appello dopo la Legge 134/2012 99 Formula annotata di Luigi Viola Il nuovo rito Fornero 102 Schema di Valeria Conti Le nullità processuali 107 Schema di Marco Mecacci
Il riparto dell’onere probatorio 111 Schema di Valeria Vasapollo
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Sentenze & Annotazioni
Attivabile il rimedio ex art. 700 c.p.c. quando l’esercizio dell’eventuale diritto di recesso implichi esborsi onerosi 124 Ordinanza del Tribunale di Brindisi del 29.01.2013
Tutela cautelare atipica ex art.700 c.p.c.: attivabile per cancellare 130 un’ipoteca Ordinanza del Tribunale di Brindisi, sezione di Monopoli, del 7.02.2013
Detentore contro possessore: sì all’azione di reintegra nel possesso, ma solo se la detenzione è qualificata 135 Sentenza della Cassazione civile n. 99/2013 con nota di Gianluca Ludovici L’avvocato prova il credito con la parcella: ok per il
decreto ingiuntivo, ma non per il giudizio ordinario 144 Sentenza della Cassazione civile n. 2471/2013 con nota di Miriana Bosco Appello filtrato: a pena di inammissibilità, si deve proporre
un ragionato progetto alternativo di decisione 153 Sentenza della Corte di Appello di Salerno n. 139/2013 Appello filtrato: se la domanda si fonda su doglianze
non condivisibili, allora è inammissibile 162 Ordinanza della Corte di Appello di Bologna del 21.01.2013 Appello filtrato: l’assenza di ragionevole probabilità equivale alla
manifesta infondatezza 165 Ordinanza della Corte di Appello di Roma del 25.01.2013 con nota di Marco Mecacci Appello filtrato: dagli specifici motivi alla motivazione 176
Sentenza della Corte di Appello di Roma del 15.01.2013 Sospensione feriale dei termini: il 16 settembre va computato? 183 Sentenza della Corte di Appello di Napoli del 28.01.2013 L’atto è tempestivo quando viene accettato dopo l’orario regolamentato? 187 Sentenza del Tribunale di Piacenza del 28.02.2013 con nota di Marielena D’Amato La domanda tardiva è inammissibile anche se è stato accettato il Contraddittorio 197
Sentenza del Tribunale di Reggio Emilia del 3.4.2013 Notificazione agli irreperibili: bisogna andare a “chi l’ha visto?” 207 Sentenza della Cassazione civile n. 3071/2013 con nota di Diana Salonia
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La c.t.u. non è mezzo di prova… ma può diventare fonte oggettiva di prova 216
Sentenza della Cassazione civile n. 2663/2013 con nota di Miriana Bosco Notificazione della sentenza senza alcune pagine:
che succede ai fini del decorso del termine breve per l’impugnazione? 231 Sentenza della Cassazione civile n. 2976/2013 con nota di Federica Federici L’incapacità a testimoniare va valutata ex ante 245 Sentenza della Cassazione civile n. 3642/2013 con nota di Giulio Spina
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di
VINCENZO CARBONE (Presidente Emerito Suprema Corte di Cassazione)
Premessa
Eccesso di potere: espressione
ontologicamente problematica.
Potere o potestà indica la situazione
giuridica di colui al quale è legalmente
consentito o quanto meno non è vietato di
fare qualcosa e si avvicina a “diritto”,
“facoltà”, “legittimazione”. Nei confronti di
chi esercita un potere pubblico (legislatore,
giudice, governo e P.A.) e cioè potere
legislativo, esecutivo, giudiziario significa
potestà legalmente attribuita di produrre
con una sua pronuncia legge, atto
amministrativo, decisione, una modifica nei
rapporti giuridici.
L’eccesso di potere, non indica un soggetto
incompetente o non legittimato, ma vuole
significare che il giudice o la P.A. agisce oltre
i limiti, entro i quali la legge vuole che il che
il soggetto operi o che il potere sia
adoperato.
Il termine deriva dall’espressione francese
“excès de pouvoir” cara a Charles-Louis de
Secondat, barone de La Brède et de
Montesquieu, meglio noto unicamente come
Montesquieu che intorno all’anno 1750 si
batteva per la separazione dei poteri: il
concetto venne accolto dalle legislazioni
europee non come straripamento di potere,
ma con l’espressione détournement de
pouvoir come uso improprio del potere per
un fine diverso da quello attribuito.
I. I nuovi criteri di interpretazione.
Dall’interpretazione statica a quella
dinamica. Dall’art.12 delle preleggi: (lettera,
ratio e voluntas del legislatore, analogia
legis e iuris; se l’analogia non basta, si
ricorre ai principi generali dell’ordinamento
dello Stato), all’art. 117 co.1 Cost. novellato
nel 2001 sull’interpretazione
costituzionalmente e comunitariamente
orientata e conforme ai principi dell’U.E.
Dottrina &
Opinioni
Eccesso di potere giurisdizionale
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Modernità del c.p.a. del 2010 (art.1) rispetto
al c.p.c. del 1942 che richiama la
Costituzione e diritto europeo.
L’art. 117 co. 1 Cost. vincola non solo il
legislatore, ma anche il giudice.
Il primato del diritto comunitario impone al
giudice nazionale di disapplicare le
disposizioni nazionali contrarie,
indipendentemente dal fatto che il giudice
costituzionale nazionale abbia deciso di
rinviare la cessazione degli effetti delle
disposizioni dichiarate incostituzionali:
Corte giustizia Comunità europee, 19-11-
2009, 314/08, in Foro amm.-Cons. Stato,
2009, 2483
II Il difficile dialogo tra legge astratta e
caso concreto da risolvere.
1.Leggi giuridiche non sono fisse e
immutabili come quelle fisiche. (Galileo
Eppur si muove. Brecht, Ode al dubbio tra
Tolomeo e Copernico)
2. Ne cives ad arma ruant (lotta legale art
111 Cost. davanti ad un giudice terzo e
imparziale) per risolvere il caso. (Menandro
Epitrepontes pastore Dravo boscaiolo Siro
decide Smicrine).
3. L’evoluzione interpretativa tra testo e
contesto: la tesi di Porzia (Shakespeare, Il
Mercante di Venezia)
4. La sistematicità: il tessuto come il
risultato dei fili correttamente impostati.
(Faust di Goethe).
III. I riferimenti codicistici sull’eccesso di
potere giurisdizionale
1.L'art. 362 c.p.c. rivisitato (nel 1999)
dall’art. 111 Cost. co. 7 e 8. Il fossile
giuridico dell’art. 368 c.p.c. Il lodo arbitrale.
1.1.L’art.362 c.p.c. al co.1 prevedeva il
ricorso per cassazione per motivi attinenti
alla giurisdizione delle decisione di un
giudice speciale, nonché la ricorribilità per
cassazione avverso i conflitti positivi o
negativi di giurisdizione tra giudici speciali
o tra questi e i giudici ordinari e i conflitti
negativi di attribuzione tra la P.A. e il
giudice ordinario vale a dire questioni di
giurisdizione e di attribuzione.
La disposizione è dal 1999 integrata in base
al disposto di cui all' art. 111, c. 7, Cost. e in
parte dall' art. 111, c. 8, Cost..
In base alla prima modifica le sentenze dei
giudici speciali - ancorché la legge ne
preveda l'impugnabilità solo per problemi
di giurisdizione o di incompetenza - sono
ritenute ricorribili in cassazione per ogni
ipotesi di violazione di legge, alla luce della
loro natura giurisdizionale, e non solo
quindi per motivi attinenti alla
giurisdizione.
La seconda modifica limita la ricorribilità
delle decisioni del Consiglio di Stato e della
Corte dei Conti solo per motivi attinenti alla
giurisdizione. La giurisprudenza è ferma nel
ritenere che rispetto a questi giudici
riconosciuti nel titolo IV sez., I, all’art. 103
co. 1 e 2 non sia sindacabile la violazione di
legge: Cass. s.u. 16.2.09 n. 3688. L' art. 111,
c. 8, Cost. non distingue tra pronunce in
tema di interessi legittimi e pronunce in
tema di diritti soggettivi e, pertanto, trova
applicazione tanto per le une quanto per le
altre.
1.2 L'innovazione costituzionale comporta
che le decisioni dei giudici, amministrativi e
contabili l’impugnazione con ricorso alle
sezioni unite per i soli motivi attinenti alla
giurisdizione, mentre le decisioni degli altri
giudici, pur definiti speciali, come i tributari,
fanno capo alla Corte di Cassazione
utilizzando gli altri motivi di ricorso dell’art.
360 c.p.c.
Tra i possibili esempi di pronunce di giudici
speciali, contro le quali si può ricorrere in
cassazione, si ricordano le decisioni del
Tribunale superiore delle acque pubbliche,
le decisioni della sezione disciplinare del
Consiglio Superiore della Magistratura, del
Consiglio di presidenza della giustizia
amministrativa, e le decisioni del Consiglio
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nazionale forense o di altri organi
professionali investiti di giurisdizione
disciplinare interna come la Commissione
centrale per gli esercenti le professioni
sanitarie.
1.3. Un fossile giuridico: l’art. 368 c.p.c.
Il decreto con cui il prefetto, nel caso in cui
la P.A. non sia parte in causa, richiedeva, a
norma degli artt. 41, co. 2, e 368 c.p.c. che le
Sezioni unite della Corte di cassazione
dichiarino il difetto di giurisdizione del
giudice ordinario a causa dei poteri
attribuiti alla P.A., costituiva in realtà,
l'esercizio di un potere di veto, cui
conseguiva, la sospensione del
procedimento, e l'onere per le parti del
giudizio di investire della questione di
giurisdizione la Corte di cassazione,
mediante ricorso per regolamento di
giurisdizione (Cass. civ., sez. un., 27-07-
1998, n. 7340).
La norma, che metteva in evidenza
un'insanabile frattura con il processo civile,
attraverso l'interferenza di un terzo nel
processo, il prefetto, è stata implicitamente
abrogata.
È venuto meno il referente normative
perché l'art. 19, co. 2, r.d. 3.3.1934 n. 383,
che regolava i poteri del prefetto è stato
abrogato dal nuovo t.u. sull'ordinamento
degli enti locali (d.lgs. 18.8.2000 n. 267),
che all' art. 274, c. 1 , lett. a, ha abrogato
l’intero r.d. 3.3.34, n. 383.
1.4 Quid juris se l’eccesso di potere
giurisdizionale riguardi un lodo arbitrale?
Cass. civ., sez. I, 18-09-2009, n. 20141.
L’eccesso di potere giurisdizionale in cui
siano incorsi gli arbitri, traducendosi in un
vizio del lodo che ne comporta la nullità (ex
art. 829, 1 co. n. 4, c.p.c.), deve essere
dedotto, come motivo di impugnazione,
dinanzi alla corte d’appello, e non anche,
per la prima volta, in cassazione (pena
l’inammissibilità del ricorso), applicandosi
anche alle sentenze arbitrali il principio
(art. 161, 1 comma, c.p.c.) della conversione
in motivi di gravame delle cause di nullità
della sentenza.
IV. Denuncia dei conflitti di
giurisdizione.
1 Il tempo della denuncia
Alle sez. un. della Cassazione i conflitti di
giurisdizione tra giudici speciali e quelli tra
giudici speciali e giudici ordinari possono
essere denunciati, in ogni tempo e
indipendentemente dal passaggio in
giudicato delle sentenze in contrasto.
Non è necessario, affinché si riscontri
l'esistenza di un conflitto reale, che le due
cause siano perfettamente identiche,
essendo sufficiente che - pur in presenza di
diverso petitum - le cause postulino la
soluzione della medesima questione di
giurisdizione.
Di contrario avviso, si è ritenuto che
presupposto indefettibile per la
denunciabilità con ricorso per cassazione di
un conflitto reale, positivo o negativo, di
giurisdizione è l'identità della lite cui si
riferiscono le decisioni dei diversi giudici:
non si configura, tuttavia, un vero e proprio
contrasto di giurisprudenza, atteso che,
anche secondo la più recente pronuncia,
tale identità è da valutare alla stregua del
petitum sostanziale, cioè del titolo della
pretesa.
2 Conflitto positivo e reale in base a
sentenze affermative della giurisdizione
sulla stessa domanda da parte di giudici
diversi
Deve trattarsi di un conflitto reale e non
virtuale: il conflitto reale è positivo quando
un giudice speciale ed uno cd. ordinario,
ovvero due giudici speciali, abbiano
entrambi emesso una sentenza - è
necessario infatti che il conflitto sorga in
base a sentenze - (ancorché impugnata o
suscettibile d'impugnazione) affermando la
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propria giurisdizione sulla stessa domanda,
cioè in presenza di identità di petitum
sostanziale.
Ove si intenda far valere il principio della
prevalenza della forma sulla sostanza (per
avere il provvedimento la forma di
ordinanza anziché quello, richiesto a mente
dell'art. in commento, di sentenza), è
necessario allegare e dimostrare l'effettiva
realizzazione della funzione conclusiva del
giudizio, che postula la cessazione del
procedimento davanti al giudice che abbia
emesso la pronuncia medesima. Così,
l'ordinanza che declini la giurisdizione in
sede cautelare, non può generare un
conflitto negativo, anche a fronte di una
sentenza emessa da un altro ordine
giurisdizionale, declinatoria sulla domanda
proposta per il merito, stante l'appellabilità
della pronuncia impugnata. A fronte di tale
conflitto, le s.u. individuano il giudice
investito della giurisdizione ed annullano la
decisione emessa dal giudice che ne è privo.
3. Conflitto, negativo di giurisdizione e di
attribuzione
Ricorre quando nella stessa situazione
entrambi i giudici abbiano negato la propria
giurisdizione e si siano spogliati della causa,
anche con provvedimenti che non siano
equiparabili a sentenze, nel qual caso non
può farsi ricorso al regolamento di
giurisdizione. Poiché, appunto, ai fini della
configurabilità del conflitto negativo di
giurisdizione è necessario che entrambi i
giudici abbiano escluso in capo a sé il potere
di decidere la causa, detta ipotesi non
ricorre qualora, mentre il giudice
amministrativo abbia declinato la propria
giurisdizione, quello civile abbia, invece,
emesso provvedimenti che presuppongano
l'affermazione della propria giurisdizione.
4 Il diritto vivente ha introdotto il giudicato
implicito.
Il giudicato interno o implicito sussiste sia
se la questione di giurisdizione sollevata e
decisa nel primo grado del processo
speciale non sia stata impugnata, sia se sia
stata sollevata solo in sede di gravame dopo
essere stata accettata in primo grado. In tal
caso la questione è preclusa per [Cass. s.u.
6.3.09 n. 5468; Cass. s.u. 21.11.08 n. 27618].
5 La translatio iudicii
Con l'intervento delle ben note sentenze C
s.u. 22.2.07 n. 4109 e C. Cost., 12.3.07 n. 77
nonché C Stato VI 13.3.08 n. 1059, che
hanno riconosciuto interpretativamente la
translatio iudicii che impone al giudice
dichiaratosi privo di giurisdizione di
rimettere le parti innanzi a quello indicato
come fornito di giurisdizione per consentire
che il processo prosegua senza ricominciare
da capo, ma non hanno risolto la questione
del conflitto negativo.
6. Regolamento d’ufficio dal 2009 del
giudice cui è rimessa la causa se ritiene di
non avere giurisdizione
Con l'entrata in vigore dell'art. 59, l.
69/2009, e con il regolamento d’ufficio si
riteneva che i conflitti negativi sarebbero
destinati a scomparire. A fronte di una
sentenza denegatoria di giurisdizione, la
parte riassume la controversia davanti al
giudice dichiarato fornito di giurisdizione,
senza bisogno di proporre nuovamente la
domanda.
Il secondo giudice adito in riassunzione non
potrebbe più declinare la propria
giurisdizione, ma solo (eventualmente)
sollevare la questione di giurisdizione
davanti alle Sezioni unite.
Contra: Cass. civ. sez. un. 24.1.2013 n. 1714
che si è espressa per l’irrilevanza della
mancata proposizione del regolamento
d’ufficio. Il conflitto negativo di
giurisdizione (art. 362 co. 2 n.1 c.p.c.) tra
giudice ordinario e giudice amministrativo è
ammissibile, anche dopo l’art. 59 della l.
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18.6.2009 n.69, che ha introdotto per il
giudice cui è stata rimessa la causa per il
dichiarato difetto di giurisdizione il potere
di sollevare d’ufficio il regolamento di
giurisdizione. Nella specie il conflitto
negativo di giurisdizione, è stato risolto a
favore del giudice ordinario sulla domanda
di indennità spettante al ricorrente per
l’occupazione legittima del terreno di sua
proprietà.
7 Conflitti positivi di attribuzione tra
giudice e P.A. Art. 134 Cost.
L' art. 362, c. 2, deve essere armonizzato
con il disposto dell' art. 134 Cost., secondo il
quale giudice dei conflitti positivi di
attribuzione tra i poteri dello Stato è la
Corte Costituzionale.
L'art. 362 trova spazio solo ove il conflitto
tra giudice civile e P.A. sia negativo e non
anche se questo sia positivo. Né in materia
va pretermesso il dato testuale dell'art. 37,
c. 2, l. 11.3.53 n. 87, contenente la disciplina
della Corte Costituzionale, a norma del
quale "restano ferme le norme vigenti per le
questioni di giurisdizione", con ciò
tendenzialmente escludendo che i conflitti
di giurisdizione possano ricondursi alla
materia affidata alla cognizione della
Consulta dall' art. 134 Cost..
Secondo una parte della dottrina che si è
occupata dell'argomento, un conflitto
negativo tale da giustificare il rimedio in
parola si verifica nel momento in cui giudice
civile e P.A. sono sostanzialmente d'accordo
nel negare l'esistenza in capo all'interessato
di un interesse in qualche modo meritevole
di tutela. In realtà, esso si profila quando il
giudice civile nega la tutela richiesta,
affermando che trattasi di una questione
che spetta ai poteri della P.A. e questa, da
parte sua, nega il provvedimento richiesto
affermando che la pronuncia di un simile
provvedimento rientri nei poteri del giudice
civile. Quindi, il conflitto "origina dalla
motivazione del rifiuto di occuparsi di una
certa materia da parte del giudice civile e
della P.A., non dal puro e semplice rifiuto di
occuparsene".
V Evoluzione del concetto di
giurisdizione.
1. Le decisioni del Consiglio di Stato e della
Corte dei Conti sono impugnabili in
Cassazione solo per motivi inerenti alla
giurisdizione.
1.1 Il cattivo esercizio della giurisdizione
attiene all'esplicazione interna del potere
giurisdizionale conferito dalla legge al
giudice amministrativo e contabile. La
cassazione delle decisioni del giudice
amministrativo o del giudice contabile, non
può essere chiesta per violazione di norme
di diritto (art. 360 c.p.c. , n. 3) o di norme
che regolano il processo davanti a sé o ne
disciplinano i poteri (art. 360 c.p.c. , n. 4).
Il sindacato, cioè, non può essere esteso al
modo in cui la giurisdizione sia stata
esercitata (per denunciare errores in
procedendo o errores in iudicando) perché
ciò non attiene ai limiti esterni delle
attribuzioni giurisdizionali (Cass. s.u. 3.3.10
n. 5030, Cass. s.u. 11.2.10 n. 3202; Cass. s.u.
6.2.09 n. 3688).
Tale ipotesi ricorre quando il Consiglio di
Stato o la Corte dei Conti:
a) abbia giudicato su materia attribuita alla
giurisdizione civile o ad altra giurisdizione
speciale, oppure
b) abbia negato la propria giurisdizione
nell'erroneo convincimento che essa
appartenesse ad altro giudice, ovvero
ancora quando,
c) in materia attribuita alla propria
giurisdizione limitatamente al solo
sindacato della legittimità degli atti
amministrativi, abbia compiuto un
sindacato di merito.
Il sindacato delle sez. un. è circoscritto in
concreto all'accertamento di vizi che
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attengano all'essenza della funzione
giurisdizionale e non al modo del suo
esercizio.
1.2 Si deve anche tener conto
dell’evoluzione del concetto di giurisdizione
(Cass. civ., sez. un., 23-12-2008, n. 30254).
Ai fini dell’individuazione dei limiti esterni
della giurisdizione amministrativa, che
tradizionalmente delimitano il sindacato
consentito alle sezioni unite sulle decisioni
del consiglio di stato che quei limiti
travalichino, si deve tenere conto
dell’evoluzione del concetto di
giurisdizione, dovuta a molteplici fattori e
valori
a) costituzionali: giusto processo, tempi
ragionevoli, parità delle parti, terzietà del
giudice, giurisdizione sul rapporto o sul
rapporto che deriva dall’atto
amministrativo, ampliarsi della
giurisdizione ed esclusiva ed ampliarsi del
sindacato sul potere amministrativo
b) comunitari: effettività della tutela
giurisdizionale, ricorso alla pregiudiziale
comunitaria, ampliato controllo della Corte
di Lussemburgo dopo il trattato di Lisbona
sulle attività amministrativa.
1.3 L’evoluzione del controllo
giurisdizionale:
a) Non più un giudizio di mera
qualificazione della situazione soggettiva
dedotta, alla stregua del diritto oggettivo, e
di mero accertamento del potere di
conoscere date controversie attribuito ai
diversi ordini di giudici di cui l’ordinamento
è dotato,
b) La tutela giurisdizionale dei diritti e degli
interessi, (24 e 111 Cost.) che comprende le
diverse tutele che l’ordinamento assegna ai
giudici per assicurare l’effettività della
tutela dei diritti e degli interessi legittimi
(che sono un bene della vita) dei cittadini
anche nei confronti della P.A.
c) La giurisdizione non individua solo i
presupposti dell’attribuzione del potere
giurisdizionale, ma dà contenuto a quel
potere, stabilendo le forme di tutela
attraverso le quali esso si estrinseca;
pertanto, rientra nello schema logico del
sindacato per motivi inerenti alla
giurisdizione l’operazione che consiste
nell’interpretare la norma attributiva di
tutela, onde verificare se il giudice
amministrativo, ai sensi dell’art. 111, 8º
comma, cost., la eroghi concretamente e nel
vincolarlo ad esercitare la giurisdizione
rispettandone il contenuto essenziale, così
esercitando il sindacato per violazione di
legge che la suprema corte può compiere
anche sulle sentenze del giudice
amministrativo
2. Le questioni di giurisdizione affrontate in
sede di giudizio di ottemperanza.
2.1. Il ricorso per cassazione avverso le
decisioni del Consiglio di Stato comprende
anche le questioni di giurisdizione in sede di
giudizio di ottemperanza
Nel caso in esame il comune di Roma non
rilascia la concessione edilizia, richiesta nel
1976 e illegittimamente negata nel 1995
come ritiene il giudice amministrativo Nel
giudizio di ottemperanza il commissario ad
acta nominato nel 2010 autorizza la
realizzazione di un complesso immobiliare
di tipologia e dimensioni maggiori. Il ricorso
del Comune di Roma è respinto (Cass., sez.
un. 19 ottobre 2012 n. 17936) perché
l’eccesso di potere giurisdizionale, che
consente il ricorso alle Sezioni Unite, nel
caso di ipotetico abuso dello strumento del
giudizio di ottemperanza, si verifica non in
presenza di un errore nella scelta del rito o
di violazione delle regole processuali
amministrative (ove è astrattamente
possibile configurare errores in
procedendo, non certo esorbitanza dai
confini del potere), ma unicamente se, per
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
13
effetto dell’estensione della giurisdizione al
merito, ex art. 134 comma 1, lett. a, c.p.a. ne
sia derivato un indebito sconfinamento del
provvedimento giurisdizionale nella sfera
delle attribuzioni proprie
dell’amministrazione o, eventualmente, di
un giudice appartenente ad un ordine
diverso.
In un altro caso le S.U. hanno rigettato il
ricorso volto a denunciare lo sconfinamento
dei limiti esterni della giurisdizione
generale di legittimità del giudice
amministrativo nella sentenza che aveva
disposto che al rinnovo della procedura
valutativa in un concorso per la copertura
di un posto di professore universitario
associato avrebbe dovuto provvedere una
commissione d'esame diversamente
composta, da nominarsi a cura
dell'Università (Cass. civ. Sez. Unite, 28
aprile 2011, n. 9443)
Si è affermato che l'eccesso di potere
giurisdizionale, denunziabile ai sensi
dell'art. 111, co. 8 Cost. sotto il profilo dello
sconfinamento nella sfera del merito, è
configurabile solo quando l'indagine svolta
non sia rimasta nei limiti del riscontro di
legittimità del provvedimento impugnato,
ma sia stata strumentale a una diretta e
concreta valutazione dell'opportunità e
convenienza dell'atto, ovvero quando la
decisione finale, pur nel rispetto della
formula dell'annullamento, esprima una
volontà dell'organo giudicante che si
sostituisce a quella dell'amministrazione,
nel senso che, procedendo ad un sindacato
di merito, si estrinsechi in una pronunzia
autoesecutiva, intendendosi per tale quella
che abbia il contenuto sostanziale e
l'esecutorietà stessa del provvedimento
sostituito, senza salvezza degli ulteriori
provvedimenti dell'autorità amministrativa.
3.L'eccesso di potere giurisdizionale, sotto il
profilo dello sconfinamento nella sfera del
merito.
3.1 Lo sconfinamento nel merito da parte
del giudice amministrativo si configura
quando l'indagine svolta non sia rimasta nei
limiti del riscontro di legittimità del
provvedimento impugnato, ma sia stata
strumentale a una diretta e concreta
valutazione dell'opportunità e convenienza
dell'atto.
Lo stesso vale quando la decisione finale,
pur nel rispetto della formula
dell'annullamento, esprima una volontà
dell'organo giudicante che si sostituisce a
quella dell'amministrazione, nel senso che,
procedendo ad un sindacato di merito, si
estrinsechi in una pronunzia autoesecutiva,
intendendosi per tale quella che abbia il
contenuto sostanziale e l'esecutorietà stessa
del provvedimento sostituito, senza
salvezza degli ulteriori provvedimenti
dell'autorità amministrativa.
Tra i casi in cui le s.u. hanno escluso un
conflitto di giurisdizione (Cass. civ., sez. un.,
26-04-2012, n. 6491), rientra
l'autorizzazione alla produzione di energia
da fonte eolica, concessa dalla P.A. e
confermata dal giudice amministrativo
nonostante l’opposizione di Italia nostra,
escludendo la necessità del parere della
sopraintendenza alla tutela del paesaggio.
La sentenza del giudice amministrativo di
rigetto del ricorso, proposto avverso la
deliberazione assunta dalla p.a. che
autorizzi la realizzazione di un impianto di
produzione di energia elettrica da fonte
eolica, non è affetta da eccesso di potere
giurisdizionale per invasione della sfera di
attribuzioni riservata al legislatore e alla
stessa p.a., laddove interpreti la normativa a
tutela del patrimonio culturale e rurale, di
cui all’art. 12, 7º comma, d.leg. 29 dicembre
2003 n. 387, in senso restrittivo, negando la
necessità del parere della sovrintendenza
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
14
per il paesaggio ed escludendo che
l’impianto di aerogeneratori assentito possa
arrecare pregiudizio al patrimonio culturale
della popolazione.
Sempre in tema di sconfinamento nel
merito, Cass. sez. un. civ. 12 novembre 2007
n. 23441 ha precisato con riguardo alle
pronunzie del Consiglio di Stato, che
l'eccesso di potere giurisdizionale,
denunziabile ai sensi dell'art. 111, comma 8,
Cost., sotto il profilo dello sconfinamento
nella sfera del merito, è configurabile solo
quando l'indagine svolta non sia rimasta nei
limiti del riscontro di legittimità del
provvedimento impugnato, ma sia stata
strumentale a una diretta e concreta
valutazione dell'opportunità e convenienza
dell'atto, ovvero quando la decisione finale,
pur nel rispetto della formula
dell'annullamento, esprima una volontà
dell'organo giudicante che si sostituisce a
quella dell'amministrazione, nel senso che,
procedendo ad un sindacato di merito, si
estrinsechi in una pronunzia autoesecutiva,
intendendosi per tale quella che abbia il
contenuto sostanziale e l'esecutorietà stessa
del provvedimento sostituito, senza
salvezza degli ulteriori provvedimenti
dell'autorità amministrativa.
3.2. L'eccesso di potere giurisdizionale del
giudice contabile è configurabile solo
quando l'attività di tale giudice non sia
rimasta nei limiti del riscontro della liceità
dei comportamenti dei pubblici dipendenti
e funzionari (che presuppone un implicito
controllo di legittimità) e della eventuale
produzione di un danno patrimoniale
(erariale) all'ente pubblico, con
conseguente assoggettamento degli autori
dell'illecito al risarcimento del danno.
4.Recentissime e sempre più incisive le
decisioni in tema di concorsi e di appalti
pubblici
4.1 In tema di appalti pubblici
a) contrasti del giudice amministrativo (tra
ad. pl. 4/2011 e 11/2008 con Tar Piemonte
208/2012 che rimette gli atti alla Corte di
Giustizia dell’U.E.) sul valore escludente o
paralizzante del ricorso incidentale
dell’aggiudicatario secondo cui il ricorrente
principale che ha impugnato l’esito della
gara non poteva partecipare alla gara stessa
Secondo Cass. civ. sez. un. 21 giugno 2012,
n. 10294 la soluzione offerta dall’Adunanza
Plenaria n. 4 del 2011 in tema di ordine di
esame di ricorso principale e incidentale,
pur generando perplessità, non è
contestabile con ricorso per cassazione, in
quanto la stessa non ha costituito la
conseguenza di un aprioristico diniego di
giustizia, ma del richiamo di norme e
principi processuali che, peraltro, erano
stati in precedenza diversamente
interpretati, conducendo al risultato di
ristabilire il dovuto ordine delle cose
attraverso l’esame di entrambe le censure
incrociate; ciò di cui si discute è un possibile
errore di diritto commesso dall’Adunanza
Plenaria che non può formare oggetto di
doglianza dinanzi alle Sezioni Unite.
Il principio espresso dal Consiglio di Stato –
secondo cui nel giudizio amministrativo il
ricorso incidentale, diretto a contestare la
legittimazione del ricorrente principale
mediante la censura della sua ammissione
alla procedura di gara di affidamento di
appalti pubblici, deve essere sempre
esaminato prioritariamente, anche nel caso
in cui il ricorrente principale alleghi
l’interesse strumentale alla rinnovazione
dell’intera procedura – non è condivisibile,
in quanto, al cospetto di due imprese che
sollevano a vicenda la medesima questione,
ne sanziona una con l’inammissibilità del
ricorso e ne favorisce l’altra con il
mantenimento di un’aggiudicazione (in tesi)
illegittima, denotando una crisi del sistema
che, al contrario, proclama di assicurare a
tutti la possibilità di provocare l’intervento
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
15
del giudice per ripristinare la legalità e dare
alla vicenda un assetto conforme a quello
voluto dalla normativa di riferimento, tanto
più che l’aggiudicazione può dare vita ad
una posizione preferenziale soltanto se
acquisita in modo legittimo. Esso, tuttavia,
non costituisce conseguenza di un
aprioristico diniego di giustizia, ma di un
possibile errore di diritto che, pur rendendo
ammissibile il ricorso avverso la predetta
sentenza del Consiglio di Stato, ai sensi
dell’art. 111, comma 8, Cost., stante
l’evoluzione del concetto di giurisdizione
nel senso di strumento per la tutela effettiva
delle parti, non ne giustifica la cassazione
per eccesso di potere giurisdizionale.
b) Appalto, anomalia di un’offerta.
Cass. civ. sez. un., 10-08-2011, n. 17143.
Non ricorre l’eccesso di potere
giurisdizionale se si resta nell’ambito della
discrezionalità tecnica.
L’eccesso di potere giurisdizionale, sotto il
profilo dello sconfinamento nella sfera del
merito, preclusa al giudice amministrativo,
non è configurabile allorquando vengano
sindacate le valutazioni compiute dalle
commissioni di gara (nella specie, per
l’aggiudicazione di un appalto per i lavori di
adeguamento di un tratto autostradale) in
sede di verifica dell’anomalia di un’offerta,
non attenendo tale controllo al merito
dell’azione amministrativa, ma all’esercizio
della discrezionalità tecnica
4.2. Sotto il profilo dei concorsi sempre più
attenta è la valutazione del giudice senza
dar luogo all’eccesso di potere
giurisdizionale.
a)Esami di avvocato. (Cass. Civ., sez. un., 28-
05-2012, n. 8412).
Le valutazioni tecniche delle commissioni
giudicatrici di esami o concorsi pubblici
sono assoggettabili al sindacato di
legittimità del giudice amministrativo per
manifesta illogicità del giudizio tecnico o
travisamento di fatto in relazione ai
presupposti del giudizio medesimo, senza
che ciò comporti eccesso di potere
giurisdizionale per sconfinamento nella
sfera del merito amministrativo (principio
enunciato in riferimento all’operato della
commissione giudicatrice per l’esame di
abilitazione alla professione di avvocato,
che non aveva ammesso alla prova orale un
candidato rilevando nel suo elaborato una
serie errori di grammatica e improprietà di
forma, la cui insussistenza era stata
viceversa accertata dal Con. Stato).
b) Concorso per la nomina a professore
associato (Cass. sez. un. 22 maggio 2012 n.
8071).
L’eccesso di potere giurisdizionale ricorre
se il giudice, eccedendo i limiti del riscontro
di legittimità del provvedimento impugnato
e sconfinando nella sfera del merito
(riservato alla P.A.), compia una diretta e
concreta valutazione della opportunità e
convenienza dell’atto, ovvero quando la
decisione finale, pur nel rispetto della
formula dell’annullamento, esprima la
volontà dell’organo giudicante di sostituirsi
a quella dell’Amministrazione, così
esercitando una giurisdizione di merito in
situazioni che avrebbero potuto dare
ingresso soltanto a una giurisdizione di
legittimità (dunque, all’esercizio di poteri
cognitivi e non anche esecutivi) o esclusiva
o che comunque ad essa non avrebbero
potuto dare ingresso.
Le valutazioni tecniche delle commissioni
esaminatrici dei concorsi pubblici, inserite
in un procedimento amministrativo
complesso e dipendenti dalla valorizzazione
dei criteri predisposti preventivamente
dalle medesime commissioni, sono
assoggettabili al sindacato giurisdizionale
del giudice amministrativo – senza che ciò
comporti un’invasione della sfera del merito
amministrativo, denunciabile con il ricorso
per cassazione per motivi inerenti alla
giurisdizione – anche qualora risultino
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
16
affette da illogicità manifesta o
travisamento del fatto od irragionevolezza
evidente o grave, o da grave difetto di
motivazione.
Non può quindi ritenersi illegittima, per
eccesso di potere giurisdizionale, la
sentenza del Consiglio di Stato che,
nell’accogliere un ricorso avverso gli atti di
una procedura concorsuale, ha ordinato la
ripetizione delle operazioni con una
commissione giudicatrice diversamente
composta. Tale sentenza infatti, senza
esorbitare dai limiti della giurisdizione e
senza invadere il merito amministrativo, ha
semplicemente disposto una misura idonea
“ad assicurare l’attuazione del giudicato”
(art. 34 lett. e) c.p.a.), “al fine di assicurare
condizioni oggettive di imparzialità” nel
caso concreto; tale “misura” risponde
quindi palesemente all’esigenza di
effettività della tutela giurisdizionale
propria del giudice amministrativo, nella
fattispecie concreta.
In tal senso il Consiglio di Stato, senza
esorbitare dai limiti della propria
giurisdizione e senza invadere il merito
amministrativo, ha semplicemente disposto
una misura idonea “ad assicurare
l’attuazione del giudicato”.
c) Concorso per notaio: travisamento della
traccia Cass. civ., sez. un., 21-06-2010, n.
14893, in Foro amm.CDS 2010, 12, 2628 n.
Gagliardi
Non invade la sfera di discrezionalità
tecnica della p.a. e non costituisce, pertanto,
violazione del limite esterno della
giurisdizione assegnata al giudice
amministrativo, la decisione del consiglio di
stato che, nel giudizio avente ad oggetto la
correzione di una prova scritta del concorso
pubblico per l’accesso alla professione
notarile, abbia ritenuto che i criteri
valutativi adottati dalla commissione
esaminatrice siano stati irragionevolmente
restrittivi (nella specie, la suprema corte ha
confermato la decisione con la quale il
consiglio di stato aveva annullato l’atto col
quale una candidata al concorso per notaio
era stata esclusa, in ragione di un preteso
«travisamento della traccia»,
dall’ammissione alle prove orali, nonostante
avesse valorizzato nell’elaborato scritto una
delle plausibili risposte richieste dalla
traccia).
Le valutazioni tecniche delle commissioni
esaminatrici dei pubblici concorsi, inserite
in un procedimento amministrativo
complesso e dipendenti dalla valorizzazione
dei criteri predisposti preventivamente
dalle medesime commissioni, sono
assoggettabili al sindacato giurisdizionale
del giudice amministrativo - senza che ciò
comporti un’invasione della sfera del merito
amministrativo, denunciabile con il ricorso
per cassazione per motivi inerenti alla
giurisdizione - qualora risultino affette da
illogicità manifesta o travisamento del fatto
od irragionevolezza evidente o grave, vizio,
quest’ultimo, che si configura anche quando
la valutazione negativa sia stata
conseguenza dell’attribuzione alla traccia di
una prova di una portata delimitante i
risultati «accettabili» (sul piano della
condivisibilità tecnica della soluzione
prospettata rispetto alla gamma di quelle in
ipotesi attendibili) in termini indebitamente
restrittivi (principio enunciato dalle sezioni
unite con riferimento all’impugnazione del
risultato delle prove scritte del concorso
notarile).
d) Concorso per notaio: mancato
tempestivo deposito del ricorso Cass. civ.
sez. unite, sent., 21-11-2011, n. 24411
Esclusione dalle prove orali. Non ricorre
eccesso di potere se il giudice speciale,
rilevata l'inesistenza di notifica alla
Commissione Esaminatrice e la nullità della
notifica ai controinteressati non costituiti,
quindi ordinando la relativa integrazione ed
all'uopo fissando sia il termine per
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
17
l'incombente notificatorio sia il termine per
il deposito (quindici giorni dall'ultima delle
notifiche effettuate), individui una regula
juris facendo uso dei suoi poteri di
rinvenimento della norma applicabile,
attraverso l’interpretazione. Si tratta di una
norma esistente e non di un'attività di
produzione normativa inammissibilmente
esercitata dal giudice e poiché il ricorrente
non ammesso ha effettuato il deposito oltre
il termine il Consiglio di Stato ha dichiarato
improcedibile l'appello per decadenza dal
rispetto del termine perentorio assegnato
per il deposito dell'atto di integrazione.
d) Concorso a P.G. presso la Cassazione: non
si può ripetere il concorso se alcuni sono
andati in pensione (Cass. civ., sez. un., 09-
11-2011, n. 23302).
La sentenza con cui il consiglio di stato,
pronunciando su un ricorso per
l’ottemperanza di un giudicato avente ad
oggetto l’annullamento del conferimento di
pubbliche funzioni a seguito di una
procedura concorsuale non più ormai
ripetibile (nella specie, per l’avvenuto
pensionamento dei candidati concorrenti),
ordina alla competente amministrazione
(nella specie, al Csm) di provvedere
ugualmente a rinnovare il procedimento
«ora per allora», al solo fine di determinare
le condizioni per l’eventuale accertamento
di diritti azionabili dal ricorrente in altra
sede e nei confronti di altra
amministrazione, eccede i limiti entro i
quali è consentito al giudice amministrativo
l’esercizio della speciale giurisdizione di
ottemperanza ed è soggetta, pertanto, al
sindacato della corte di cassazione in punto
di giurisdizione che annulla la decisione del
Consiglio di Stato.
e) Accesso a categoria superiore di
lavoratore comunale.
Un lavoratore comunale con diritto
all’accesso alla procedura di inquadramento
in una categoria superiore, di fronte al
Comune che temporegginia, chiede al
giudice amministrativo l’inquadramento
immediato. La Corte (Cass., sez. un., 29-05-
2012, n. 8513) afferma che nel giudizio di
ottemperanza di sentenza del giudice
ordinario, il giudice amministrativo non
cade in eccesso di potere giurisdizionale
quando si limita all’interpretazione del
giudicato, al quale si tratta di assicurare
l’ottemperanza stessa e cioè l’ammissione
alla procedura e non l’inquadramento
immediato.
VI. Riflessioni finali sul diritto vivente
(das lebende Recht o flexible droit)
dell’eccesso di potere giurisdizionale.
In armonia con il pensiero di Emilio Betti,
L’interpretazione della legge e degli atti
giuridici, Milano, 1949, 17, 34: il diritto
«non è qualcosa di bello e fatto, né un
organismo che si sviluppa da sé per mera
legge naturale», «è qualcosa che non è ma si
fa, in accordo con l’ambiente sociale
storicamente condizionato proprio per
l’opera assidua d’interpretazione».
1. Duplice senso dell’eccesso di potere
giurisdizionale:
a) statico definizione del concetto di eccesso
di potere della giurisprudenza che invade o
supera i limiti ritenendo di poter valutare le
funzioni di altri organi come gli organi di
gestione e la P.A.
b) dinamico nel senso di sempre maggiore
attenzione al problema attraverso il diritto
vivente dell’interpretazione
giurisprudenziale che esamina non solo il
potere o la potestà della P.A., ma anche i
compiti, gli scopi e le funzioni assegnate e
come sono gestite.
Concetto di recente accolto da Cass. civ. sez.
un. 21 febbraio 2013 n. 4283, in tema di
conferimenti indebiti di incarichi da parte di
amministratori di s.p.a. pubblica e controllo
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
18
della corte dei conti sulla giuridicità
sostanziale del potere discrezionale.
Secondo le sezioni unite: Le scelte elettive
degli amministratori pubblici, dovendosi
conformare ai criteri di legalità ed a quelli
giuridici di economicità, di efficacia e di
buon andamento, sono soggette al controllo
della Corte dei Conti, in quanto assumono
rilevanza sul piano della legittimità e non
della mera opportunità dell'azione
amministrativa.
La Corte dei Conti non viola il limite
giuridico della riserva di amministrazione,
sancito dall'art.1 co.1 l. n. 20/1994,
modificato dall'art. 3 l. n. 546/1993,
controlla anche la giuridicità sostanziale
dell'esercizio del potere discrezionale,
verificando non solo se la l'amministratore
abbia compiuto l'attività per il
perseguimento di finalità istituzionali
dell'ente, ma anche se nell'agire
amministrativo abbia rispettato dette
norme e principi giuridici.
La discrezionalità che la L. 14.1.1994, n. 20,
art. 1, co. 1, riconosce agli amministratori
pubblici nell'individuazione della scelta più
idonea, nel caso concreto, per il
perseguimento del pubblico interesse per
esser legittima deve rispettare i criteri
giuridici informatori dell'agere della P.A.
dettati dalla Costituzione (art. 97), codificati
da apposita normativa secondo cui: "Le
pubbliche amministrazioni devono: a)
garantire la legittimità, regolarità e
correttezza dell'azione amministrativa
(controllo di regolarità amministrativa e
contabile); b) verificare l'efficacia, efficienza
ed economicità dell'azione amministrativa
al fine di ottimizzare, anche mediante
tempestivi interventi di correzione, il
rapporto tra costi e risultati (controllo di
gestione)".
Pertanto l'esame da parte della Corte dei
Conti delle scelte degli amministratori
pubblici di UNIRE di incaricare
professionisti esterni per consulenze, pareri
e difesa giudiziale alla luce dei presupposti
legali e delle clausole generali di giuridicità
innanzi richiamati al fine di verificare la
legittimità della scelta e la correttezza della
gestione delle risorse pubbliche per i
compensi corrisposti, alla luce anche del
fondamentale principio del buon
andamento e della ragionevole
proporzionalità tra costi e benefici in
relazione ai fini da perseguire, non travalica
il limite esterno della giurisdizione erariale.
Ne consegue che il conferimento
dell'incarico è legittimo solo in ipotesi di
impossibilità oggettiva, da rappresentare
nella delibera di far fronte all'esigenza
richiesta con personale interno
all'organizzazione, la cui qualificazione
professionale l'amministrazione ha infatti
l'obbligo di verificare periodicamente ed
incrementare.
2. Eccesso di potere: profili di diritto
europeo.
Anche dal punto di vista dell’Unione
europea il sistema è in evoluzione. Mentre il
precedente testo dell’art. 173 del trattato
CEE non prevedeva il sindacato sull’eccesso
di potere nella giurisprudenza della Corte di
Giustizia di Lussemburgo, (così Police, in
Dir. proc. amm. 1995, 3, 608), il nuovo
articolo 263 del Trattato di Lisbona del
1.12.2009, ribadisce espressamente che la
Corte di giustizia dell’U.E. esercita un
controllo di legittimità degli atti legislativi
del Parlamento e del Consiglio europeo e
anche della BCE (come nel vecchio testo),
ma prevede anche un controllo di
legittimità sugli atti amministrativi degli
organi o organismi dell’U.E. che producono
effetti giuridici nei confronti dei terzi
(novella del 2009, in Adam, Tizzano,
Lineamenti di diritto dell’U.E., 258 ss. )
3. L’intricato sviluppo storico dell’eccesso di
potere giurisdizionale (Nigro).
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
19
Il termine ontologicamente vuole significare
sia l’eccesso di potere giurisdizionale come
invasione di un giudice nel sfera di poteri di
un altro giudice, come il giudice ordinario
nella sfera di attribuzioni riservate al
giudice speciale (amministrativo, contabile)
e viceversa, sia l’eccesso di potere
giurisdizionale come invasione da parte di
un giudice (ordinario, amministrativo,
contabile) della sfera di attribuzioni
riservate alla discrezionalità del complesso
Governo-P.A.
Possiamo ricordare la l. 31.3.1877 n.3761
sui conflitti di attribuzioni tra giudici e P.A.
attribuito alla Cass. Roma o i richiami
espressi all’eccesso di potere nell’art.3 della
legge istitutiva della IV sez. del Cons. di
Stato (l. 31.3.1889 n.5892) o ancora nell’art.
22. t.u. 17.8.1907 n.638 o nell’art.5 r.d.
30.12.1923 n.2840 sull’introduzione della
giurisdizione esclusiva
Si pensi agli interessi legittimi comunitari in
base all’art.13 della legge 142 del 1992 che
consentiva al giudice amministrativo
l’annullamento dell’atto, e al giudice
ordinario il risarcimento del danno, il
superamento del riparto basato sulla
posizione soggettiva tutelata: interesse
legittimo-annullamento dell’atto e diritto
soggettivo-risarcimento del danno è
superata dopo lunghi contrasti con il
principio che alla giurisdizione del giudice
amministrativo vanno le controversie
relative agli atti e «i comportamenti delle
p.a. e dei soggetti ad esse equiparati»,
riconducibili all’esercizio di un pubblico
potere, mentre al giudice ordinario i
comportamenti non riconducibili, nemmeno
mediatamente all’esercizio del potere del
governo o della P.A. anche se è prevista la
giurisdizione esclusiva (Corte cost., 06-07-
2004, n. 204;Corte cost., 11-05-2006 n.191).
Sono tramontate molte questioni sui
rapporti tra giurisdizioni come quelle tra
giudice ordinario e giudice amministrativo
in tema di diritti soggettivi, specie dopo
l’emanazione del codice del processo
amministrativo nato del 2010 e oggetto già
di ritocchi, (195/2011 e l’ultimo è ad opera
del dlgs 14.9.2012 n.160), la creazione del
regolamento di giurisdizione d’ufficio da
parte del secondo giudice (giudice
ordinario, giudice amministrativo, giudice
contabile etc.) che non condivide la
giurisdizione attribuitagli in relazione alla
controversa rimessagli in base alla traslatio
iudici, all’introduzione del giudicato
implicito che impedisce di sollevare la
questione di giurisdizione solo perché il
merito è andato male.
Inoltre la giurisdizione esclusiva è in
costante aumento: il t.u. sul Consiglio di
Stato 26.6.1924 n.1054 all’art. 29 prevedeva
solo 9 ipotesi di giurisdizione esclusiva,
pochi casi divenuti nell’art 133 del nuovo
c.p.a. l’intero alfabeto fino a Z-quinques
introdotta con l.56 del 2012.
4.Dal sindacato all’eccesso di potere
giurisdizionale al sindacato sull’eccesso di
potere amministrativo
La giurisprudenza specie di recente va
sviluppando il concetto di eccesso di potere
giurisdizionale proprio nei rapporti tra
potere giudiziario e potere di governo e di
gestione dell’attività dell’esecutivo e della
P.A.
4.1 Il primo punto concerne l’essenza del
potere amministrativo incentrato sulla
discrezionalità, prima considerata
“assoluta” e oggi invece “virtuosa” perché
“orientata” o ”finalizzata” al “buon
andamento e all’imparzialità” della P.A. che
prestabilisce le sfere di competenza, le
attribuzioni e l’imparzialità della P.A.”
(art.97 Cost.), anche se si vanno
diffondendo “organizzazioni pubbliche in
forme privatistiche” in base alla l.15/2005
con ripetuti problemi di costituzionalità
(Cerulli Irelli, Amministrazione pubblica e
dirirtto privato, Torino 2011, 38).
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
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In proposito Cass. civ., sez. un., 19-08-2009,
n. 18375 ha ritenuto non configurabile un
eccesso di potere giurisdizionale del giudice
amministrativo, per invasione della sfera
riservata al potere discrezionale della p.a.,
nel caso in cui il giudice dell’ottemperanza,
rilevata la violazione od elusione del
giudicato amministrativo, adotti
provvedimenti in luogo
dell’amministrazione inadempiente,
sostituendosi al soggetto obbligato ad
adempiere, in quanto, in ossequio al
principio dell’effettività della tutela
giuridica, il giudizio di ottemperanza, al fine
di soddisfare pienamente l’interesse
sostanziale del soggetto ricorrente, non può
arrestarsi di fronte ad adempimenti
parziali, incompleti od addirittura elusivi
del contenuto della decisione del giudice
amministrativo.
4.2 Il secondo il profilarsi di un “diritto ad
una buona amministrazione” riconosciuto
anche dall’art.41 della Carta europea dei
diritti dell’uomo Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea (Carta di
Nizza e di Strasburgo) allegato al Tratto di
Lisbona entrato in vigore il 1.12.2009 in cui
all’art.41 si riconosce per il cittadino
europeo il “diritto ad una buona
amministrazione” che deve motivare le
proprie decisioni, con diritto per ogni
persona ad un trattamento “equo ed
imparziale” ed in termini ragionevoli delle
questioni che lo riguardano, con diritto ad
essere ascoltato, ad accedere agli atti che lo
riguardano ed al risarcimento (art.41 co.3)
dei danni cagionati dalle sue istituzioni.
4.3 Il terzo è il sindacato anche sulla
discrezionalità tecnica della P.A.
consentendo al potere giurisdizionale di
superare l’argine al dilatarsi dell’influenza
della tecnica come usbergo a protezioni
delle decisioni della P.A., anche attraverso la
consulenza d’ufficio prevista dall’art. 67 del
c.p.a. Pima del c.p.a. il Cds.( sez. IV, 14-04-
2010, n. 2099) riteneva ammissibile, dopo
la entrata in vigore della l. 21 luglio 2000 n.
205, la consulenza tecnica d’ufficio anche
nella giurisdizione di legittimità quale
strumento di ausilio del giudice nel
sindacato di provvedimenti che sono
espressione di discrezionalità tecnica.
4.4 Dal controllo degli atti sui risultati del
concorso notarile (Cass. sez. un. 21.6.2010
n. 14893) al tramonto dell’appalto pubblico
senza gara (Cons. Stato, sez. III, 8 gennaio
2013 n. 26), motivata da ragioni di natura
tecnica (art. 57 d.lgs. 163/2006 co..2 lett. b,
Codice dei contratti pubblici, procedura
negoziata senza previa pubblicazione di un
bando di gara).
La scelta della P.A. va controllata con rigore
nella individuazione dei presupposti
giustificativi, da interpretarsi
restrittivamente, dal giudice amministrativo
tenuto ad assicurare una tutela piena ed
effettiva secondo i principi della
Costituzione e del diritto europeo (art.1
c.p.a.). Nella specie non avendo la P.A.
dimostrato che solo l’impresa scelta era in
grado di eseguire la prestazione oggetto del
contratto, è illegittimo l’affidamento di un
servizio pubblico, mediante una procedura
negoziata, senza previa pubblicazione del
bando di gara, "per ragioni di natura
tecnica", in mancanza di indagine di
mercato sul se il contraente sia l’unico
operatore possibile, anche perché non
rileva l’affermazione, indimostrata, che la
scelta di un’altra impresa avrebbe
comportato modifiche di fornitura e di
servizi con costi economici sproporzionati e
con tempi tecnici non compatibili con la
continuità del servizio.
Il Consiglio di Stato ritenuta la nullità
dell’appalto senza gara, a norma dell’art.
267 lett. b) del Trattato U.E. ha rimesso la
questione pregiudiziale alla Corte di
Giustizia U.E. al fine del decidere, se la P.A.,
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
21
prima di stipulare il contratto con un
determinato operatore scelto senza il bando
di gara, pubblicando sulla Gazzetta ufficiale
dell’Unione europea l’avviso di trasparenza
preventiva, dieci giorni prima della
stipulazione del contratto, precluda al
giudice nazionale, di dichiarare la
conseguente inefficacia del contratto,
nonostante l’accertata illegittimità delle
procedura, ed in via subordinata, se una
siffatta disciplina contrasti con i principi di
parità delle parti, di non discriminazione e
di tutela della concorrenza.
5. L’eccesso di potere tra interpretazione
della norma e una norma putativa ideata dal
giudice.
La giurisprudenza qualifica l’eccesso di
potere giurisdizionale come l’applicazione
di una norma diversa da quella reale, in
qualche modo ritenuta dal giudice come
esistente, putativa e quindi da applicare.
Il concetto dell’insistenza della norma
putativa e della semplice interpretazione
compiuta è utilizzata dalla giurisprudenza
5.1.Nel caso di un istituto professionale non
statale parificato solo per la prima classe la
Corte (cass., sez. unite civili – 12 dicembre
2012 n. 22784) ha respinto la protesta degli
studenti che attraverso un giudizio
volevano l’intera parificazione, affermando
che l’eccesso di potere giurisdizionale per
invasione della sfera di attribuzioni
riservata al legislatore è configurabile solo
qualora si possa affermare che il giudice
abbia applicato non la norma esistente, ma
una norma da lui creata, ponendo in essere
un’attività di produzione normativa che non
gli compete. Non sussiste tale vizio, che
rende ricorribile in Cassazione la sentenza
del giudice di merito per difetto di
giurisdizione, quando il medesimo giudice
si sia attenuto al compito d’interpretazione
che gli è proprio, ricercando
nell’ordinamento gli elementi da cui
desumere la volontà della legge applicabile
nel caso concreto, anche se questa sia stata
desunta non dal tenore letterale delle
singole disposizioni, ma dalla ratio che il
loro coordinamento sistematico disvela, tale
operazione ermeneutica potendo dare
luogo, tutt’al più, ad un error in iudicando,
non alla violazione dei limiti esterni della
giurisdizione.
5.2 Anche in un’altra decisione (Cass., sez.
unite civili – 14 settembre 2012 n. 15428)
per negare il vizio di eccesso di potere
giurisdizionale si afferma che in tanto le
Sezioni Unite della Cassazione possono
annullare una sentenza del Consiglio di
Stato in quanto si configura che il giudice
amministrativo abbia sconfinato dalla
giurisdizione di legittimità in quella di
merito, ovvero che abbia applicato non già
una norma esistente bensì una norma da lui
creata, a condizione che si possa distinguere
tra un’attività di formale produzione
normativa – inammissibilmente esercitata
dal giudice – da un’attività interpretativa
che si sostanzia invece in un’opera creativa
della volontà di legge nel caso concreto.
Nella specie non ricorre il vizio di eccesso di
potere giurisdizionale nel caso di sentenza
emessa dal Consiglio di Stato in forma
semplificata, ai sensi dell’art. 60 c.p.a., senza
che siano trascorsi almeno 20 giorni dal
perfezionamento della notifica dell’appello
principale nel caso in cui comunque risulti
dalla stessa sentenza che il Collegio abbia
sentito le parti “in ordine alla possibilità di
definire la questione con sentenza in forma
semplificata”
5.3 Non si tratta di un caso isolato, perché
Cass. civ., sez. un., 28-01-2011, n. 2068, in
tema di limiti al sindacato delle sezioni
unite della corte di cassazione sulle
decisioni del consiglio di stato in sede
giurisdizionale che accoglie il ricorso in
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
22
tema di una procedura concorsuale, precisa
che l’eccesso di potere giurisdizionale per
invasione della sfera di attribuzioni
riservata al legislatore è figura di rilievo
meramente teorico, in quanto - postulando
che il giudice applichi, non la norma
esistente, ma una norma da lui creata -
potrebbe ipotizzarsi solo a condizione di
poter distinguere un’attività di produzione
normativa inammissibilmente esercitata dal
giudice, da un’attività interpretativa, che si
sostanzia in un’opera creativa della volontà
della legge nel caso concreto (in
applicazione del principio, la suprema corte
ha dichiarato inammissibile il ricorso con
cui un comune denunciava eccesso di
potere da parte del consiglio di stato, che
avrebbe invaso il campo del legislatore,
disapplicando l’art. 34, 2º co. del codice dei
contratti a seguito della sentenza della corte
di giustizia Ue 19 maggio 2009, resa nel
proc. C-538/07, posteriore al bando ed alla
gara, ed applicando retroattivamente l’art.
3, d.l. n. 135 del 2009, conv. in l. 166 del
2009, norma ricettiva della citata decisione
europea).
5.4 Ed ancora (Cass., sez. un. 15 gennaio
2010 n. 530) sempre ai fini di identificare
l’eccesso di potere giurisdizionale, per
invasione della sfera di attribuzioni
riservata al legislatore, che consente la
proposizione del ricorso in Cassazione
avverso le decisioni del Consiglio di Stato, è
ravvisabile se e in quanto il giudice applichi
non la norma esistente, ma una norma da
lui stesso creata, si che la sua opera si
risolva in una operazione creativa della
volontà del legislatore e non meramente
interpretativa.
Nella specie il Consiglio di Stato ha
dichiarato inammissibile un ricorso
incidentale, per carenza di interesse dei
ricorrenti incidentali; anche attraverso
un’opinabile equiparazione tra chi non
aveva partecipato alla gara e che non poteva
parteciparvi.
5.5 In conclusione la giurisprudenza, ai fini
dell’individuazione dei limiti esterni della
giurisdizione amministrativa, che
tradizionalmente delimitano il sindacato
consentito alle sezioni unite sulle decisioni
del consiglio di stato che quei limiti
travalichino, si deve tenere conto
dell’evoluzione del concetto di giurisdizione
- dovuta a molteplici fattori: il ruolo
centrale della giurisdizione nel rendere
effettivo il primato del diritto comunitario;
il canone dell’effettività della tutela
giurisdizionale; il principio di unità
funzionale della giurisdizione nella
interpretazione del sistema ad opera della
giurisprudenza e della dottrina, tenuto
conto dell’ampliarsi delle fattispecie di
giurisdizione esclusiva; il rilievo
costituzionale del principio del giusto
processo, ecc. - e della conseguente
mutazione del giudizio sulla giurisdizione
rimesso alle sezioni unite, non più
riconducibile ad un giudizio di pura
qualificazione della situazione soggettiva
dedotta, alla stregua del diritto oggettivo, né
rivolto al semplice accertamento del potere
di conoscere date controversie attribuito ai
diversi ordini di giudici di cui l’ordinamento
è dotato, ma nel senso di tutela
giurisdizionale dei diritti e degli interessi,
che comprende, dunque, le diverse tutele
che l’ordinamento assegna a quei giudici
per assicurare l’effettività dell’ordinamento;
infatti è norma sulla giurisdizione non solo
quella che individua i presupposti
dell’attribuzione del potere giurisdizionale,
ma anche quella che dà contenuto a quel
potere stabilendo le forme di tutela
attraverso le quali esso si estrinseca;
pertanto, rientra nello schema logico del
sindacato per motivi inerenti alla
giurisdizione l’operazione che consiste
nell’interpretare la norma attributiva di
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
23
tutela, onde verificare se il giudice
amministrativo, ai sensi dell’art. 111, 8º
comma, Cost., la eroghi concretamente e nel
vincolarlo ad esercitare la giurisdizione
rispettandone il contenuto essenziale, così
esercitando il sindacato per violazione di
legge che la suprema corte può compiere
anche sulle sentenze del giudice
amministrativo (fattispecie relativa a
domanda di risarcimento del danno causato
dall’esercizio illegittimo della funzione
pubblica espropriativa, della provincia di
Mantova per la costruzione di una
circonvallazione, avendo la suprema corte
considerato che la tutela risarcitoria anche
autonomamente proposta, a prescindere dal
pregiudiziale annullamento del
provvedimento lesivo illegittimo,
costituisce una misura minima e perciò
necessaria di tutela dell’interesse
sostanziale dedotto dal privato).
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
24
di Antonio Valitutti (Consigliere della Suprema Corte di Cassazione)
Relazione esposta dal dott. Antonio Valitutti (Consigliere della Corte Suprema di Cassazione), componente
del Comitato Scientifico della rivista La Nuova Procedura Civile, in occasione del convegno dal titolo
Principio di responsabilità e procedimento disciplinare: ordinamento giudiziario e forense a confronto,
tenutosi in Roma presso la Suprema Corte di Cassazione in data 1.3.2013.
E’ noto che giuristi i rimani definivano il processo actus trium personarum, nel quale, invero, ai due contendenti si aggiungeva la figura di un organo, già allora estraneo alla controversia (terzo), costituito dal iudex. Il processo, strumento del lavoro dei magistrati e degli avvocati, li unisce, dunque, in maniera indissolubile, nel vissuto quotidiano delle rispettive attività; ed un vincolo di tal fatta non è ravvisabile, ma neppure ipotizzabile, in qualsiasi altro settore professionale. E, del resto, a ben vedere, le due attività forensi sono accomunate dall’oggetto stesso dell’agire professionale del giudice e dell’avvocato, cui il processo appresta lo strumento indispensabile. E’ – per vero – l’uomo ed il suo stesso essere, nella molteplicità delle direzioni nelle quali si orienta e si dispiega la sua vita, a costituire l’oggetto unico dell’agire degli operatori del diritto, anche qui con una peculiarità tutta propria ed esclusiva di tali attività, che non ha eguali in altre funzioni
pubbliche o professioni private. Di qui il plauso che il sottoscritto ha sempre inteso tributare alle occasioni di riflessione comune che l’Avvocatura ha sentito, da ultimo più spesso in varie sedi giudiziarie, il bisogno di organizzare, come è accaduto nel recente, riuscitissimo, incontro di studio sulla deontologia delle professioni forensi, organizzato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma, in data 1.3.2013. Chi scrive, consigliere della Corte Suprema di Cassazione, giunto ormai alla vigilia del trentennio di magistratura, e quasi al vertice della carriera, ha sempre avvertito l’esigenza – che nasce da un profondo rispetto per la classe forense, come interlocutrice indispensabile e preziosa della sua attività – di far “conoscere” meglio all’avvocato la figura del giudice, al di là ed al di fuori delle pastoie burocratiche, delle scansioni processuali, del carattere asettico di atti e sentenze; di far conoscere, insomma, il giudice sotto il connessi ed indissolubili profili dei doveri che
Dottrina &
Opinioni
Deontologia ed Etica del Magistrato
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
25
l’ordinamento gli impone, e del ruolo che la cultura gli ha ormai assegnato, da millenni, nello sviluppo delle civiltà umane. Muovendo dal primo profilo, rilevo anzitutto che solo dopo anni di battaglie (il giudice applica le leggi per gli altri, ma non ha avuto, per lunghissimo tempo, una legge applicabile alle sue stesse mancanze) il codice deontologico dei magistrati è stato previsto legislativamente, ed è ora contenuto nel d.lgs. 109/06, che prevede due canali attraverso i quali può venire in luce la violazione deontologica da parte del magistrato: 1) l’esercizio delle funzioni attribuitegli; 2) la vita sociale, al di fuori dell’esercizio delle funzioni giudiziarie. Sotto il primo profilo vengono in considerazione i doveri di: a) imparzialità (es. arrecare un ingiusto danno o un indebito vantaggio ad una delle parti), di cui un corollario è la terzietà; b) correttezza (es., l’ingiustificata interferenza nell’attività di altro magistrato); c) diligenza (es. non fare ritardi nel deposito dei provvedimenti, non adottare provvedimenti nei casi non consentiti dalla legge, che siano affetti da negligenza grave ed inescusabile e che siano lesivi di diritti personali, o gravemente di quelli patrimoniali delle parti); d) laboriosità (il che vuol dire fare un congruo numero di provvedimenti, in relazione al carico di lavoro dell’ufficio di appartenenza); e) riserbo sugli affari in corso (es. evitare di sollecitare notizie della stampa sul proprio lavoro, istituire canali privilegiati con i media); f) equilibrio (es. evitare di tenere rapporti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti delle parti., dei difensori, dei testimoni o periti e degli altri magistrati o collaboratori). Sotto il secondo profilo, viene in considerazione il divieto di comportamenti che compromettano la credibilità personale (es. l’uso della qualità di magistrato per conseguire vantaggi ingiusti per sé o per gli altri), il prestigio ed il decoro del magistrato, o il prestigio dell’istituzione giudiziaria (es. iscrizione ad associazioni segrete, partiti politici, assunzione di incarichi senza autorizzazione del CSM, prestiti di denaro, o altre utilità, da parti di indagati in processi penali o civili o dai loro difensori, in relazione a processi all’interno del proprio ufficio o del distretto).
A tal proposito, la Cassazione ha precisato che l'insindacabilità del provvedimento giurisdizionale in sede disciplinare viene meno nei casi in cui il provvedimento sia “abnorme”, in quanto al di fuori di ogni schema processuale, ovvero sia stato adottato sulla base di un errore macroscopico o di grave e inescusabile negligenza, nel qual caso l'intervento disciplinare ha per oggetto non già il risultato dell'attività giurisdizionale ma il “comportamento deontologicamente deviante” posto in essere dal magistrato nell'esercizio della sua funzione. Come il comportamento del magistrato che inserisca in un decreto di perquisizione e di sequestro un contenuto costituito da atti istruttori assolutamente irrilevanti ed estranei all'indagine, contenenti allusioni e insinuazioni, notizie inutili, violando molteplici disposizioni della Costituzione, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e del codice di procedura penale (Cass.S.U. 20159/10); o il comportamento posto in essere, come giudice dell'esecuzione, consistente nell’autorizzare la vendita di un immobile senza incanto omettendo di fissare l'udienza ex art. 569 c.p.c., o comunque di sentire le parti, nonché nel disporre la vendita sebbene la pubblicità fosse stata effettuata in difformità da quanto stabilito nell'ordinanza, con fissazione di rilevanti margini di aumento per le eventuali offerte successive, ed imponendo il versamento delle stesse nella misura integrale, a differenza di quanto stabilito per la prima offerta (Cass.S.U. 11069/12). E’ la peculiarità della funzione esercitata dal magistrato a far sì, peraltro, che la sua condotta, in sede disciplinare e risarcitoria, incontri il limite del dolo e della colpa grave, come del resto anche quella dei pubblici funzionari. Ma a differenza di questi e degli esercenti una professione, la responsabilità civile del magistrato è soggetta a regole particolari, atteso il rilievo costituzionale che la posizione del giudice, in quanto potere dello Stato riveste. Sul piano del diritto costituzionale, la Consulta ha – per vero – precisato, al riguardo, che, poiché la disciplina dell'attività del giudice deve essere tale da rendere quest'ultima immune da vincoli che possano comportare la sua soggezione, formale o sostanziale, ad altri
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
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organi, ma al contempo suscettibile di assicurare l’effettiva soggezione del magistrato medesimo alla legge, e in primo luogo alla Costituzione, le cui norme (artt. 101, 104 e 108) sanciscono ad un tempo il principio d'indipendenza e quello di responsabilità, non merita censura una disciplina della responsabilità civile del magistrato caratterizzata da una serie di misure e di cautele dirette a salvaguardare l'indipendenza dei magistrati nonché l'autonomia e la pienezza dell'esercizio della funzione giudiziaria. Ed, in base a tale principio, è stata dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'intera l. n. 117/88, nella parte in cui prevede e disciplina la responsabilità dei giudici per colpa grave (C. Cost. 18/1989). E, d’altro canto, sul piano del diritto comunitario, l’art. 47, co. 2 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione qualifica l’indipendenza del magistrato come un diritto del singolo individuo: “ogni individuo ha diritto che la sua causa sia esaminata da un giudice indipendente ed imparziale”. Infine, sul piano del diritto comparato, la responsabilità civile diretta del giudice esiste solo in Spagna (in solido con quella dello Stato), mentre negli Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Israele, vi è immunità assoluta (il giudice nei Paesi anglosassoni può essere revocato solo dalla Corona su istanza dei due rami del Parlamento). Un sistema grosso modo equiparabile al nostro esiste, infine, in Francia, Paesi Bassi, Svizzera, nei quali è prevista l’azione diretta esclusivamente contro lo Stato, con una – più, o meno, limitata possibilità di rivalsa sul singolo magistrato. Fin qui il diritto, ma il ruolo del giudice è un ruolo culturale, millenario. Basti ricordare, al riguardo, le celebri parole di Ugo Foscolo: “dal dì che nozze, tribunali ed are diero alle umane genti d’essere pietose di se stesse e d’altrui”, con le quali la nascita della società civile si fa risalire proprio alla comparsa del giudice, nel tendenziale ripudio della autotutela privata. Ebbene, il percorso esistenziale del giudice muove dalla sua “vocazione”; non esito, infatti, ad adoperare questo vocabolo, denso di significati assai pregnanti, non parendomi adeguato nessun altro a connotare un’attività che consiste
nell’occuparsi, per tutta la vita, come incisivamente rilevavano – con un’espressione che ha cessato di sembrarmi enfatica da molto tempo – della “divinarum atque umanarum rerum notitia”. Notizia di cose divine ed umane, ma – in special modo – notizia dell’ infinita sofferenza degli uomini cagionata, non sempre soltanto dalle forze della natura, ma assai spesso dalla malvagità dei loro simili, nella quale il giudice si immerge, consapevole della sua inadeguatezza di uomo: “sotto gli archi del processo scorre la fiumana inesausta della sorte umana”, ed il giudice, affacciato alle spallette del ponte, può cogliere, “se ha orecchie per sentire, le voci che salgono da questa corrente, questo ansito universale di giustizia” (Calamandrei). Compito sovrumano ed immane , dunque, quello del giudice, la cui considerazione induceva un grande magistrato, Mario Berri (che fu Primo Presidente della Cassazione) a scrivere: ”chiedo perdono a Dio di aver fatto il giudice”. Ma è proprio per questo che, secondo Calamandrei, l’elogio non va alle leggi, ma alla condizione umana del giudice, “a quest’ordine di asceti civili, condannati, in una società sempre più sprezzante dei valori morali, alla solitudine, all’isolamento, e tuttavia capaci di rimanere con dignità e discrezione al loro posto, anche in tempi di generale rovina, per cercare di introdurre nelle formule spietate delle leggi la comprensione umana della ragione illuminata dalla pietà”. Viene in mente la celeberrima sentenza di Pascal, per il quale l’uomo altro non è che “una canna che pensa”: non lo spazio e la durata connotano l’uomo tra gli esseri viventi. Tutta la dignità dell’uomo consiste nel pensiero. “Il sonno della ragione genera mostri” ammonisce Goya, in una delle tavole dei Capricci. Ed in questo il ruolo del giudice è soprattutto quello di agevolare l’emersione di pensieri buoni, ossia la ragione, quale distillato del pensiero sano ed onesto. Un ruolo, pertanto, di agevolazione dello sviluppo morale dei consociati, di penetrazione nel corpo sociale per avvertirne le istanze e le trasformazioni. Ma il secondo profilo del giudizio – nella sintesi di Calamandrei - è la “pietà”: “in verità nel dolore risiede tutto il mistero del diritto” ammoniva V. Jhering. Il dolore del fare giustizia con leggi umane, e perciò,
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
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imperfette: “a rendere le leggi autorevoli non è il numero degli anni o l’autorità dei promulgatori, bensì la giustizia” (Tertulliano). L’esigenza, dunque, di una giustizia non disgiunta dalla carità. “Quel che v’ha di più orrendo al mondo è la giustizia separata dalla carità”, diceva Mauriac; e la carità è anzitutto dare voce e chi non ne ha, “riempire le leggi – onde renderle più giuste – di occhi ed orecchie, per sentire e vigilare quando sia necessaria la fermezza e quando la tolleranza e la comprensione” (N. Ginzburg). “La legge nella sua maestosa equità – scriveva uno degli autori francesi più significativi del secolo scorso – proibisce così al ricco come al povero di dormire sotto i ponti, di elemosinare nelle strade e di rubare pane” (A. France), ma è il povero a pagare. E il giudice è chiamato, attraverso l’ermeneutica, e senza sostituirsi mai al legislatore, a riempire questo vuoto tra legge e giustizia. Il giudice, dunque, è giudice quando pensa, quando fa giustizia con la ragione illuminata dal cuore. Di qui il dovere del giudice di ripiegarsi malinconicamente sulla sua stessa inadeguatezza di uomo, sul fare giustizia con mezzi imperfetti: “la giustizia non è ardore giovanile e decisione energica ed impetuosa: giustizia è malinconia” osservava T. Mann. Ma la riflessione non può non vertere anche sul male che non risparmia il giudice stesso: pigrizia mentale, conformismo, servilismo, e soprattutto – peggio di ogni altra deprecabile ed immonda, soprattutto se riferita al giudice – la corruzione nell’esercizio della sua attività. Di qui, l’ambiguità eterna della giustizia: le leggi non l’assicurano, perché frutto di compromesso politico, con la conseguente incessante ricerca di parametri normativi di giustizia più elevati, come le leggi costituzionali, internazionali e comunitarie; ma l’operatore che deve cercare la giustizia è umanamente inadeguato. Così, “finchè l’uomo sia tale, la giustizia sarà la sua più alta esigenza, ma la sua città sarà giusta, nella misura in cui, nella coscienza di non esserlo ancora di non esserlo ancora, lotterà per diventarlo” (E. Garin). Ed è ai giudici che lottano, a fianco degli avvocati, accomunati da un unico destino ed uniti da un solo nobilissimo scopo, ai
magistrati “per i quali la giustizia non fu svogliato disbrigo di pratiche, ma impegno religioso di tutta la vita” (Calamandrei), a colleghi come Falcone e Borsellino, che la vita hanno offerto per un ideale che superava sé stessi, siano dedicate queste brevi riflessioni che la mia coscienza e la mia passione di giudice hanno inteso sottoporvi.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
28
di
PAOLO SPAZIANI
SOMMARIO: 1. Il nuovo rito per i
licenziamenti nel sistema dei riti speciali.
Struttura, natura e funzione. – 2.
Carattere pubblicistico dell’interesse
tutelato dal procedimento e conseguenze
sul piano ermeneutico. – 3. L’ambito di
applicazione. Il regime intertemporale. La
rilevanza della domanda ai fini della
determinazione del rito. – 4. Le questioni
relative alla qualificazione del rapporto e
il problema dei limiti oggettivi del
giudicato. – 5. Le domande fondate su
fatti costitutivi identici a quelli posti a
fondamento dell’impugnativa di
licenziamento. – 6. Le domande non
fondate su fatti costitutivi identici a quelli
posti a fondamento dell’impugnativa di
licenziamento: a) l’errore assoluto sul
rito. – 7. (Segue): b) il cumulo di
domande. L’errore relativo sul rito. – 8.
(Segue): c) la mancanza di errore sul rito.
La contemporanea pendenza dinanzi al
medesimo giudice del lavoro di più cause
soggette a riti differenti.
1. Il nuovo rito per i licenziamenti nel
sistema dei riti speciali. Struttura,
natura e funzione.
Il sistema processuale civile
italiano si caratterizza storicamente per la
tendenza alla specializzazione dei riti.
Le problematiche connesse con il nuovo rito per i licenziamenti
Dottrina &
Opinioni
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
29
Si tratta di una tendenza
tradizionale del nostro legislatore, già
riscontrabile nel codice di procedura
civile del 1940 (nel cui Libro IV,
intitolato, appunto, “Dei procedimenti
speciali”, sono disciplinati numerosi e
diversi riti particolari) e perpetuatasi nella
successiva legislazione speciale, che trova
fondamento nell’esigenza di rendere più
agevole la tutela di particolari posizioni
giuridiche soggettive, mediante la
previsione di forme e strumenti
processuali maggiormente aderenti alla
loro specifica natura.
Negli ultimi decenni il ricorso del
legislatore alla creazione di procedimenti
speciali è, tuttavia, sensibilmente
aumentato, essendosi visto in questo
strumento uno dei possibili rimedi alla
cronica lentezza della giustizia civile.
L’incontrollata proliferazione di riti
caratterizzati da più o meno sensibili
deviazioni rispetto al modello del
processo ordinario – anche quando tali
deviazioni non fossero giustificate, a
livello sostanziale, dalla particolare natura
della situazione soggettiva tutelata – ha,
peraltro, determinato l’effetto opposto a
quello avuto di mira: la tutela
giurisdizionale, lungi dall’essere resa più
agevole, è divenuta paradossalmente più
complicata, in considerazione, da un lato,
della crescente difficoltà di individuare la
disciplina processuale concretamente
applicabile alla singola fattispecie, e,
dall’altro lato, della maggiore possibilità
che nella concreta vicenda processuale si
intreccino fattispecie diverse,
eventualmente da trattarsi con riti
differenti, con conseguenti problemi di
coordinamento non sempre facilmente
risolvibili attraverso gli strumenti
tradizionali offerti dal codice.
Di ciò ha preso atto lo stesso
legislatore, il quale, come è noto, con la
delega contenuta nell’art.54 della legge
n.69 del 2009 e con l’attuazione di tale
delega ad opera del d.lgs. n.150/2011, ha
manifestato il proposito di realizzare una
netta inversione di rotta rispetto alla sua
precedente tendenza, in funzione della
“riduzione” e “semplificazione” dei riti
civili di cognizione contenziosa devoluti
alla giurisdizione ordinaria e regolati dalla
legislazione speciale.
A pochi mesi dall’attuazione della
delega legislativa funzionale alla
riduzione dei riti, il legislatore è, peraltro,
“ricaduto” nella tendenza alla
specializzazione, predisponendo,
all’interno della legge 28 giugno 2012,
n.92, recante “Disposizioni in materia di
riforma del mercato del lavoro in una
prospettiva di crescita” (c.d. legge
Fornero), una serie di disposizioni
processuali (art.1, commi 47-69) destinate
ad essere applicate alle “controversie
aventi ad oggetto l’impugnativa dei
licenziamenti nelle ipotesi regolate
dall’art.18 della legge 20 maggio 1970,
n.300”.
La rilevanza e l’incidenza di queste
disposizioni è tale da consentire di
ritenere che esse non integrano una mera
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
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specificazione della disciplina propria del
rito tradizionale del lavoro (artt.414 s.
c.c.) né di taluno dei riti speciali già
contemplati dall’ordinamento processuale
(ad es.: il procedimento sommario di
cognizione di cui agli artt.702 bis s. c.p.c.;
il rito cautelare uniforme di cui agli
artt.669 bis s. c.p.c.; il procedimento per
la repressione della condotta antisindacale
di cui all’art.28 della legge n.300 del
1970), ma concretano un nuovo e distinto
rito speciale, che si aggiunge a quelli già
conosciuti, connotandosi per una propria
specifica autonomia, con tutto ciò che ne
consegue in ordine all’individuazione
delle fonti di integrazione della lacunosa
disciplina positiva1.
1 Le disposizioni processuali contenute nella legge Fornero non disciplinano aspetti rilevanti del procedimento come, ad es., la competenza per territorio, l’atto di costituzione del convenuto, gli effetti processuali della proposizione della domanda riconvenzionale ecc..
È allora evidente la rilevanza pratica del problema relativo all’inquadramento del nuovo rito nel sistema dei procedimenti speciali, atteso che, nell’ipotesi in cui esso venga qualificato come species di un genus già esistente, l’integrazione andrà ricercata nella disciplina di quel genus, mentre, nella contraria ipotesi in cui venga qualificato come nuovo ed autonomo procedimento, l’integrazione andrà cercata nella disciplina del rito tradizionale del lavoro (artt.414 s. c.p.c.), generalmente applicabile alle controversie aventi ad oggetto rapporti di lavoro subordinato, nelle quali rientrano quelle in materia di licenziamenti.
Quest’ultima soluzione è quella che tende decisamente a prevalere nella prima letteratura, la quale trae appunto argomento, da un lato, dalla non riconducibilità delle regole processuali della legge n.92/2012 ad alcuno dei riti speciali già conosciuti e, dall’altro lato, dall’oggetto delle controversie da esse regolate, che rientrano nelle controversie individuali di lavoro e che sono “estratte” da quelle contemplate nell’art.409 c.p.c.: v. CONSOLO-RIZZARDO, Vere o presunte novità, sostanziali e processuali, sui licenziamenti individuali, in Corr. giur., 2012, 736; CURZIO, Il nuovo rito per i licenziamenti, relazione all’incontro di studio del CSM sul tema La riforma del mercato del lavoro nella legge 28 giugno 2012 n.92, svoltosi a Roma dal 29 al 31 ottobre 2012, 2; DE ANGELIS, Art.18 dello Statuto dei lavoratori e processo: prime considerazioni, in Working Papers Massimo D’Antona, 2012, www.lex.unict.it, 10; LUISO, La disciplina processuale
Il nuovo procedimento si struttura
in due fasi, quella urgente o sommaria e
quella a cognizione piena o di
opposizione.
La prima si caratterizza, oltre che
per una trattazione deformalizzata, per
una cognizione meramente sommaria
(comma 49); viene introdotta con un
ricorso che deve presentare i requisiti di
cui all’art.125 c.p.c. e non quelli di cui
all’art.414 (comma 48); non prevede
preclusioni o decadenze istruttorie né per
il ricorrente né per il convenuto, sulla cui
costituzione nulla si dice2; e si conclude
speciale della legge n.92 del 2012 nell’ambito del processo civile: modelli di riferimento ed inquadramento sistematico, relazione all’incontro di studio del CSM sul tema La riforma del mercato del lavoro nella legge 28 giugno 2012 n.92, svoltosi a Roma dal 29 al 31 ottobre 2012, 2; SORDI, L’ambito di applicazione del nuovo rito per l’impugnazione dei licenziamenti e disciplina della fase di tutela urgente, relazione all’incontro di studio del CSM sul tema La riforma del mercato del lavoro nella legge 28 giugno 2012 n.92, svoltosi a Roma dal 29 al 31 ottobre 2012 (ora rinvenibile anche sul sito www.giuslavoristi.it), 5.
2 L’art.1, comma 48, della legge n.92/2012 dice soltanto che, dopo che il giudice ha fissato con decreto l’udienza di comparizione delle parti non oltre 40 giorni dal deposito del ricorso, il convenuto (cui nel frattempo sarà stato notificato il ricorso e il decreto, a cura del ricorrente, anche a mezzo di posta elettronica certificata, nel rispetto di un termine, fissato nello stesso decreto, non inferiore a 25 giorni prima dell’udienza) deve costituirsi rispettando a sua volta un termine (non inferiore a 5 giorni prima dell’udienza stessa) fissato con il medesimo decreto, ma non dice che la costituzione deve avvenire mediante deposito di una memoria difensiva né che questa debba avere il contenuto previsto dall’art.416 c.p.c..
La lacuna legislativa consente di formulare alternative ipotesi esegetiche, potendosi sostenere sia che la costituzione del convenuto debba avvenire ai sensi dell’art.416 c.p.c. (SORDI, cit., 21) sia che essa possa avvenire anche oralmente, purché con il ministero del difensore (TREGLIA, Brevi note sul nuovo processo per licenziamento introdotto dalla riforma del mercato del lavoro, in Lav. giur., 2012, 766).
Poste queste due alternative esegetiche estreme, ad avviso di chi scrive si può fondatamente formulare una tesi intermedia, ritenendo sibbene necessario, ai fini della costituzione in giudizio del resistente, il deposito di un atto scritto, in omaggio ad una regola generale del nostro sistema processuale, ma escludendo, tuttavia, che il
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
31
con un’ordinanza immediatamente
esecutiva, con la quale il giudice provvede
all’accoglimento o al rigetto della
domanda (comma 49).
L’esecutorietà dell’ordinanza
conclusiva della fase urgente non può
essere sospesa né revocata fino alla
pronuncia della sentenza con cui il giudice
definisce3 la fase di opposizione (comma
50)4.
contenuto di questo atto scritto debba determinarsi ai sensi dell’art.416 c.p.c., sembrando più corretto fare riferimento all’art.125 c.p.c., in applicazione analogica, con riguardo al convenuto, della regola espressamente dettata per l’attore.
D’altra parte, l’utilizzazione del criterio esegetico che impone di ricercare nel rito codicistico del lavoro le regole integrative della disciplina del nuovo procedimento speciale è corretta nella misura in cui si tratti di colmare vere e proprie lacune di tale disciplina, ma non anche quando quest’ultima consente, sia pure attraverso il procedimento analogico, di risolvere adeguatamente la questione interpretativa.
Si consideri, inoltre, che, ove si ritenesse applicabile l’art.416 c.p.c. alla costituzione del convenuto, si determinerebbe l’irragionevole conseguenza per cui soltanto per quest’ultimo, e non anche per l’attore, maturerebbero preclusioni istruttorie contestuali al deposito dell’atto introduttivo.
Al contrario, ritenendo anche per la memoria del resistente applicabile l’art.125 c.p.c., si conferma che il nuovo rito non prevede preclusioni istruttorie nella fase sommaria (così CONSOLO-RIZZARDO, cit., 736; in tema v. anche CURZIO, cit., 11).
3 Sebbene la formula sia infelice, il predicato “definisce”, riferito al soggetto (il giudice) dell’ultima proposizione dell’unico periodo in cui si articola il comma 50, non può ingenerare equivoci. È stato infatti notato (SORDI, cit., 33) che, per quanto l’ordinanza possa essere stabile, essa, in quanto provvedimento conclusivo di una fase a cognizione sommaria, non può resistere ad un provvedimento di contenuto contrario emesso a conclusione di una fase a cognizione piena, ancorché non ancora irrevocabile, sicché non occorre che la sentenza sia passata in giudicato.
4 La regola non rappresenta una novità perché ripete, nella sostanza, la previsione contenuta nell’art.28, secondo comma, dello Statuto dei lavoratori con riguardo al decreto conclusivo della prima fase del procedimento di repressione della condotta antisindacale.
Cionondimeno, la dottrina ha avanzato dubbi circa la sua legittimità costituzionale, ritenendo che l’impossibilità di ottenere un provvedimento di
Questa fase viene introdotta con
ricorso da depositarsi, a pena di
decadenza, entro trenta giorni dalla
comunicazione o notificazione
dell’ordinanza (comma 51); si caratterizza
per un’istruttoria deformalizzata,
analogamente alla fase precedente ma,
diversamente da quest’ultima, si connota
per una cognizione piena (comma 57); è
soggetta alle preclusioni e decadenze del
rito del lavoro in quanto la disciplina degli
atti introduttivi è regolata dall’art.414
c.p.c. (per l’opponente: comma 51) e
dall’art.416 c.p.c. (per l’opposto: comma
53); e si conclude con una sentenza,
“reclamabile” davanti alla Corte di
Appello (comma 58)5, avverso la cui
decisione è proponibile ricorso per
cassazione (comma 62).
Il nuovo procedimento ha natura
complessa.
sospensione o di revoca dell’efficacia esecutiva sia lesiva del diritto di difesa della parte soccombente in fase sommaria (CAPONI, La corsia preferenziale per alcune cause di lavoro rallenta le altre in assenza delle adeguate risorse, in Guida dir., 2012, fasc.18, 10).
5 Ad onta del termine “reclamo” utilizzato dall’art.1, comma 58, della legge n.92/2012, non è dubbio né che il giudizio con esso introdotto abbia natura impugnatoria, né che si tratti di appello, per modo che, da un lato, trova operatività il principio per cui la devoluzione è circoscritta entro i confini delineati dai motivi di impugnazione (del che, del resto, si ha immediata conferma nel divieto di ius novorum previsto dal comma 59) e, dall’altro lato, trovano applicazione, come norme integrative della disciplina speciale, sia le regole generali sulle impugnazioni di cui agli artt.323 s. c.p.c., sia quelle che disciplinano l’appello nel rito codicistico del lavoro (così DE ANGELIS, cit., p.18; nello stesso senso, in sostanza, CONSOLO-RIZZARDO, cit., 736, i quali evidenziano che l’improprio utilizzo del termine “reclamo” si giustifica in quanto ‹‹tributo semantico alla celerità››).
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32
La prima fase ha natura di
procedimento sommario non cautelare a
prevalente funzione esecutiva.
Il carattere sommario riguarda non
solo il rito (che prevede una trattazione
deformalizzata nella quale deve essere
“omessa ogni formalità non essenziale al
contraddittorio”: comma 49, prima
parte)6, ma anche (e soprattutto) la
cognizione, in quanto il giudice deve
procedere soltanto “agli atti di istruzione
indispensabili” (comma 49, seconda
parte) ai fini della formazione di un
giudizio probabilistico di mera
verosimiglianza circa la fondatezza o
l’infondatezza della domanda, e ciò in
conformità alla funzione del
procedimento, che è quella di consentire
l’emanazione, il più rapidamente
possibile, di un provvedimento volto, sia
pure in via meramente provvisoria, a
porre fine alla situazione di incertezza
formatasi in ordine alla legittimità od
illegittimità del licenziamento assistito da
una delle tutele di cui all’art.18 dello
Statuto dei lavoratori, rinviando ad una
fase successiva gli approfondimenti
istruttori necessari acciocché il giudizio di
verosimiglianza si tramuti in giudizio di
certezza7.
6 Sotto tale aspetto, analogamente a quanto accade con riguardo al rito di cui agli artt.702 bis s. c.p.c. (in proposito, si noti che la formula utilizzata dalla prima parte del comma 49 dell’art.1 legge n.92/2012 ripete pedissequamente quella rinvenibile nell’art.702 ter, quinto comma, c.p.c.), può dunque parlarsi di un rito sommario che si giustappone al rito formale, proprio dell’ordinario procedimento di cognizione.
7 Sotto tale aspetto, analogamente a quanto accade con il rito cautelare (in proposito, si noti che la formula utilizzata
Il carattere non cautelare deriva
dalla circostanza che l’esigenza di un
provvedimento rapido fondato su una
cognizione meramente sommaria non
trova fondamento in ragioni cautelari (e
cioè sulla necessità di ovviare al pericolo
che, durante il tempo occorrente per farlo
valere in via ordinaria, il diritto del
lavoratore sia minacciato da un
pregiudizio imminente e irreparabile) ma
trova fondamento nel rilievo che viene
dato dalla nuova legge all’interesse di
pervenire nel più breve tempo possibile ad
dalla seconda parte del comma 49 dell’art.1 legge n.92/2012 ripete quella rinvenibile nell’art.669 sexies, primo comma, c.p.c), può dunque parlarsi di procedimento a cognizione sommaria che si giustappone ai procedimenti a cognizione piena, e cioè di un procedimento nel quale le esigenze di rapidità dell’accertamento prevalgono su quelle di ricerca della verità materiale, sicché ai fini del provvedimento è sufficiente il fumus della sussistenza – o dell’insussistenza – del diritto, non essendo necessario che sull’una o l’altra si formi un giudizio di certezza, che viene rinviato ad una successiva fase processuale.
E’ stato, peraltro, opportunamente notato (SORDI, cit., 24-25) che la formula del comma 49 dell’art.1 della legge n.92/2012 è più infelice di quella contenuta nell’art.669 sexies c.p.c., in quanto quest’ultimo qualifica l’indispensabilità degli atti istruttori “in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento [cautelare] richiesto” mentre analoga precisazione non è contenuta nella legge Fornero, sicché può sorgere il dubbio che gli atti istruttori “indispensabili” in nulla divergano dagli atti istruttori “rilevanti” (artt.702 ter, quinto comma; 420, quinto comma, c.p.c.; ) o “ammissibili e rilevanti” (art.183, settimo comma, c.p.c.) funzionali ad un giudizio a cognizione piena.
Il dubbio va, peraltro, sciolto in senso negativo, ove si tenga conto non solo della indicata funzione del procedimento (volto, appunto a consentire l’emissione in tempi rapidissimi di un provvedimento che rimuova, sia pure sulla base di un giudizio meramente probabilistico suscettibile di futura revisione, l’incertezza generatasi sulla legittimità dell’atto di recesso datoriale, quando esso sia assistito da una delle forme di tutela di cui all’art.18 della legge n.300/1970), ma anche, sotto un profilo più squisitamente testuale, del raffronto tra la formula utilizzata dal comma 49 in relazione alla fase urgente (“atti di istruzione indispensabili”) e quella utilizzata dal comma 57 in relazione alla fase di opposizione (“atti di istruzione ammissibili e rilevanti”), raffronto dal quale emerge, con evidenza, che i due concetti non coincidono.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
33
un primo pronunciamento, sia pure
orientativo e suscettibile di essere
successivamente rimosso, sulla legittimità
del recesso irrogato.
Il lavoratore che agisce con il
nuovo rito non deve dunque né allegare né
tanto meno provare la sussistenza di
esigenze cautelari8.
Il carattere di procedimento a
prevalente funzione esecutiva deriva dal
fatto che la fase sommaria non verte
all’emissione di un provvedimento
decisorio destinato ad assumere
l’incontrovertibilità propria della cosa
giudicata ma tende a determinare la
formazione anticipata di un titolo
esecutivo basato su un giudizio
superficiale, suscettibile di essere rimosso
all’esito di un successivo, più
approfondito esame istruttorio, da
compiersi nella fase di opposizione, ma
stabile sino all’emanazione della sentenza
conclusiva di tale fase.
8 La natura non cautelare del procedimento comporta, come necessaria conseguenza, l’astratta compatibilità dello stesso con la possibilità che venga richiesto ed ottenuto un provvedimento cautelare ante causam o durante la fase sommaria (ad es.: un provvedimento ex art.700 c.p.c.), anche se deve ammettersi che il presupposto del periculum in mora potrebbe risultare, in concreto, difficilmente individuabile, avuto riguardo alla rapidità dell’accertamento giudiziale “ordinario” (in tal senso sembrano orientarsi le prime applicazioni giurisprudenziali: cfr. Trib. Bari, Ord. 17 ottobre 2012 e Trib. Firenze, Ord. 17 ottobre 2012).
Non sembra invece ammissibile la richiesta, proveniente dalla parte soccombente nella fase sommaria, di un provvedimento cautelare lite pendente nella fase di opposizione, in considerazione non soltanto dell’avvenuta emissione dell’ordinanza opposta (circostanza che preclude la possibilità di ritenere esistente il requisito del fumus boni iuris) ma anche della stabilità ad essa attribuita dalla legge (art.1, comma 50, legge n.92/2012) che non consente l’emissione di provvedimenti di revoca o di sospensione sino alla sentenza con cui viene definita la fase a cognizione piena.
La funzione meramente esecutiva,
peraltro, è prevalente ma non esclusiva, in
quanto anche l’ordinanza emessa a
conclusione della prima fase, se non viene
opposta nel termine (stabilito a pena di
decadenza) di 30 giorni dalla
comunicazione o notificazione, assume
l’incontrovertibilità propria del giudicato
in senso sostanziale (art.2909 c.c.)9 ed
acquisisce, pertanto, contenuto
decisorio10.
La seconda fase ha natura di
procedimento a cognizione piena e a
contenuto decisorio.
Infatti, pur dovendo anche in
questa fase omettere ogni formalità
superflua (comma 57, prima parte), il
giudice deve, peraltro, provvedere ad una
istruttoria completa di tutti gli atti
ammissibili e rilevanti che siano richiesti
dalle parti o che ritenga di disporre ex
officio, ai sensi dell’art.421 c.p.c. (comma
57, seconda parte).
9 DE ANGELIS, cit., 11; SORDI, cit., 34.
In senso contrario, CONSOLO-RIZZARDO, cit., 735.
10 Nel senso del testo, per la natura sommaria non cautelare della fase urgente, cfr. SORDI, cit., 4, 26.
La natura di procedimento a cognizione sommaria è affermata anche da VALLEBONA, La riforma del lavoro, Torino, 2012, 74, secondo cui, nella fase urgente, ‹‹il convincimento in fatto è per definizione superficiale, riguardando il “fumus” di fondatezza della domanda››.
In senso diverso cfr., invece, CAVALLARO, La riforma c.d. Fornero: questioni processuali, relazione all’incontro di studio sul tema La tutela del lavoratore tra novità normative e revirements giurisprudenziali, svoltosi ad Agrigento il 21 settembre 2012, 3 e BOLLANI, Il rito speciale in materia di licenziamento, in M. Magnani-M. Tiraboschi (a cura di), La nuova riforma del lavoro, Milano, 2012, 320.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
34
Dunque, la cognizione non è basata
sui soli atti istruttori indispensabili ad un
giudizio probabilistico di verosimiglianza,
ma è fondata su tutti gli atti istruttori
necessari ad un giudizio di piena certezza
processuale.
Il provvedimento conclusivo,
inoltre, è espressamente indicato con il
nomen iuris di “sentenza”, suscettibile di
appello e di ricorso per cassazione.
Si tratta, pertanto, di un
provvedimento decisorio, destinato ad
accertare, una volta per tutte, la
sussistenza o meno del diritto soggettivo
azionato, assumendo l’efficacia, oggettiva
e soggettiva, del giudicato sostanziale, ex
art.2909 c.c.11.
2. Carattere pubblicistico dell’interesse
tutelato dal procedimento e
conseguenze sul piano ermeneutico.
L’aver chiarito che la funzione del
procedimento è quella di consentire di
porre fine, nel tempo più rapido possibile
(e sia pure in via provvisoria), alla
situazione di incertezza ingeneratasi in
ordine alla legittimità o meno del
licenziamento nelle ipotesi in cui può
essere invocata una delle tutele di cui
all’art.18 dello Statuto dei lavoratori,
permette di individuare l’interesse tutelato
dal rito speciale.
11 In tal senso, cfr. LUISO, cit., 3.
Nella teorica dei procedimenti
speciali – la cui incontrollata
proliferazione ha dato àdito, come si è
accennato, alla creazione di modelli
processuali caratterizzati da discipline
incomplete e lacunose, bisognevoli di
integrazione attraverso il continuo ricorso
a regole ed istituti propri del rito ordinario
o di altri riti speciali – l’individuazione
dei caratteri dell’interesse tutelato non
risponde ad un’esigenza meramente
descrittiva e classificatoria, ma costituisce
un’operazione ineludibile per l’interprete,
in quanto presupposto fondamentale per la
risoluzione dei concreti problemi
ermeneutici12.
12 Non è questa la sede per richiamare l’evoluzione della scienza processualcivilistica in ordine ai criteri metodologici da utilizzare per colmare, in sede interpretativa, le lacune della disciplina positiva dei procedimenti speciali.
Giova, peraltro, ricordare che si deve a CALAMADREI, Il processo inquisitorio nel nuovo codice civile, in Giur. it., 1939, 237 s., l’avere evidenziato, già prima dell’emanazione del codice di rito vigente, il parallelismo esistente tra la situazione soggettiva sostanziale tutelata e la disciplina processuale, nel senso che ove la prima assuma carattere disponibile, trova applicazione, quanto alla seconda, il c.d. principio dispositivo (nella duplice accezione di principio dispositivo in senso materiale o principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato: art.112 c.p.c.; e di principio dispositivo in senso formale o principio della disponibilità delle prove: art.115 c.p.c.), mentre, ove la situazione soggettiva sostanziale assuma carattere indisponibile, trova applicazione il principio inquisitorio, nella duplice accezione suddetta.
Questa intuizione – peraltro non pienamente condivisa dalla dottrina moderna (si veda, ad es., MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, I, Torino, 1991, 97, per il quale il principio della disponibilità delle prove non troverebbe fondamento nella natura disponibile dell’interesse tutelato dal procedimento, ma dipenderebbe esclusivamente da una scelta di opportunità tecnica non legata al carattere della situazione sostanziale dedotta in giudizio) – non è stata tuttavia da subito utilizzata per risolvere le problematiche applicative generate dalla lacunosa disciplina dei procedimenti speciali, preferendosi piuttosto far dipendere tale soluzione dal previo inquadramento del singolo procedimento nella giurisdizione c.d. contenziosa o in quella c.d. volontaria (per tutti, si veda FAZZALARI, Giurisdizione volontaria-dir. proc. civ., in Enc. dir., XIX; in giurisprudenza, un notevole
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
35
Precisamente, se l’interesse
tutelato assume una rilevanza meramente
individuale e privatistica, connotandosi
quale interesse disponibile, il
procedimento assumerà, tendenzialmente,
la struttura di processo dispositivo ad
impulso di parte, analoga a quella del
giudizio ordinario di cognizione, le cui
regole saranno tendenzialmente
esempio dell’utilizzazione di questo criterio metodologico è rappresentato da Cass. 16 dicembre 1971, n.3664, in Riv. dir. proc., 1973, 315, con nota del COMOGLIO, nella quale l’affermata soluzione dell’inammissibilità della rinuncia all’azione e agli atti del giudizio nel procedimento di interdizione viene tratta dal previo inquadramento di questo procedimento speciale tra i procedimenti di volontaria giurisdizione).
Lo studioso che per primo ha posto l’attenzione sulle caratteristiche dell’interesse tutelato in funzione della soluzione delle questioni interpretative poste dai procedimenti speciali, è stato Enrico Allorio, il quale, in uno studio pubblicato negli anni cinquanta del secolo scorso (ALLORIO, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, in Problemi di diritto, I, Milano, 1957, 116) ha individuato una categoria di processi – i processi a contenuto oggettivo – funzionali alla tutela, non di una situazione soggettiva privata (diritto soggettivo o status personale), ma di un interesse superindividuale di rilevanza pubblicistica, di norma indisponibile.
Nella riflessione dottrinaria successiva (cui hanno contribuito, tra gli altri, MONTESANO, Sull’efficacia, sulla revoca e sui sindacati contenziosi dei provvedimenti non contenziosi dei giudici civili, in Riv. dir. civ., 1986, I, 596 e TOMMASEO, I processi a contenuto oggettivo, in Riv. dir. civ., 1988, I, 495 s., 695 s.) sono stati precisati i confini di questa categoria di procedimenti (inserendovi, tra gli altri, i giudizi di falso, il procedimento di interdizione e di inabilitazione, quello di assenza e morte presunta, quello per la dichiarazione dello stato di adottabilità e quello di fallimento) e si è evidenziato come il carattere superiore e indisponibile dell’interesse in essi tutelato determini conseguenze notevoli sulla disciplina positiva, escludendo tendenzialmente l’operatività dei principi dell’impulso di parte, della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (principio dispositivo in senso materiale) e della disponibilità delle prove (principio dispositivo in senso formale) ed impedendo la pedissequa applicazione, nel rito speciale, di tutti quegli istituti, propri del rito ordinario, fondati sui principi predetti (sul tema, con particolare riguardo al procedimento di interdizione e di inabilitazione ma con notazioni di carattere generale, ci si permette di rinviare a SPAZIANI, Natura giuridica del giudizio di interdizione e riflessi su aspetti problematici della disciplina, in Emilio Vito Napoli (a cura di) Gli incapaci maggiorenni - Dall’interdizione all’amministrazione di sostegno, Milano, 2005, 39 s.).
applicabili, per quanto non disposto dalla
disciplina speciale.
Al contrario, se l’interesse tutelato
assume una rilevanza superindividuale e
pubblicistica, connotandosi quale
interesse indisponibile, il procedimento
tenderà a strutturarsi come processo
inquisitorio ad impulso d’ufficio,
caratterizzato da più o meno apprezzabili
deviazioni rispetto alla disciplina del rito
ordinario e, in particolare, da una
tendenziale disapplicazione del principio
dell’impulso di parte (artt.99, 306 e 307
c.p.c.), di quello della corrispondenza tra
il chiesto e il pronunciato (art.112 c.p.c.) e
di quello della disponibilità delle prove
(art.115 c.p.c.).
Tanto premesso, il rilievo che il
nuovo rito per i licenziamenti è
strumentale a consentire nel più breve
tempo possibile la rimozione della
situazione di incertezza ingeneratasi in
ordine alla legittimità di un recesso
datoriale quando esso sia assistito da una
delle tutele contemplate dall’art.18 della
legge n.300/1970, non consente di ritenere
che esso verta unicamente alla protezione
dell’interesse del lavoratore
ingiustamente licenziato ad ottenere
rapidamente un titolo esecutivo per
l’immediata tutela del proprio diritto alla
reintegrazione nel posto di lavoro.
Questa tesi, pur astrattamente
sostenibile ove si ipotizzi che nel sistema
della legge n.92/2012 le norme
processuali costituiscano una specie di
“contraltare” alle norme sostanziali (e
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
36
cioè una compensazione, mediante la
predisposizione di più rapida ed incisiva
tutela processuale, della diminuzione della
tutela sostanziale determinatasi in seguito
alla riforma, ad opera della stessa legge,
del citato art.18), trova, in realtà, una
smentita nel rilievo che, ai fini
dell’impugnativa del licenziamento con il
nuovo rito, non è richiesta alcuna esigenza
cautelare, nonché nel rilievo che il
procedimento tende ad assicurare, non già
la rapidità della tutela, ma la rapidità della
decisione quale essa sia, e dunque anche
della decisione di rigetto.
Conformemente all’opinione che
tende a prevalere nella prima letteratura,
deve pertanto ritenersi che il
procedimento sia funzionale alla tutela
dell’interesse di entrambe le parti13, e più
in generale alla tutela dell’interesse,
superindividuale e di rilevanza
pubblicistica, alla realizzazione di un
“mercato del lavoro inclusivo e dinamico,
in grado di contribuire alla creazione di
occupazione, in quantità e qualità, alla
13 Per l’affermazione che il procedimento intende tutelare tanto l’interesse del lavoratore ad ottenere rapidamente la tutela del suo diritto quanto l’interesse del datore di lavoro a che sia fatta immediata luce sulla legittimità del suo recesso, avuto riguardo alle conseguenze che, sul piano dell’organizzazione aziendale, può provocare l’esecuzione della decisione giudiziale con la quale si conceda una delle tutele previste nel “nuovo” art.18 dello Statuto dei lavoratori, specie quando si tratti di tutela reintegratoria, v. SORDI, cit., 4.
Cfr. anche RIVERSO, Indicazioni operative sul rito Fornero (con una divagazione minima finale), relazione all’incontro di studio del CSM sul tema La riforma del mercato del lavoro nella legge 28 giugno 2012 n.92, svoltosi a Roma dal 29 al 31 ottobre 2012, 1, secondo cui ‹‹il rito è dettato nell’interesse di entrambe le parti della causa, alla celerità del giudizio; e non già nell’interesse dell’uno o dell’altro soggetto››.
crescita sociale ed economica e alla
riduzione permanente del tasso di
disoccupazione”14.
Le norme processuali, dunque, non
costituiscono una compensazione,
nell’interesse del lavoratore, della
riduzione di tutela realizzata mediante le
norme sostanziali ma si inseriscono nel
medesimo solco di queste ultime15,
concorrendo con esse alla realizzazione di
un obiettivo di pubblico interesse, che,
nell’attuale contingenza di crisi sociale ed
economica del paese, deve essere
perseguito anche con il sacrificio dei
contrastanti interessi individuali delle
parti16.
Nella visione del legislatore, in
altre parole, la creazione di un modello
processuale volto a consentire la
rimozione, in tempi rapidissimi, dello
stato di incertezza sulla legittimità del
recesso datoriale, nelle ipotesi in cui esso
può dare àdito ad una tutela (reintegratoria
o risarcitoria) particolarmente
14 Così l’ incipit dell’art. 1, comma 1, della legge n.92/2012, il quale non fa altro che esplicitare la finalità avuta di mira dal legislatore già nella rubrica del provvedimento legislativo, significativamente intitolato “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”.
15 LUISO, cit., 4, richiamando testualmente il brano di un lavoro in corso di pubblicazione di BUONCRISTIANI (Rito licenziamenti: disciplina e profili sistematici, par.5), evidenzia come questo autore abbia acutamente rilevato che ‹‹l’introduzione del nuovo rito speciale si pone quindi non come risposta ma come completamento alle modifiche apportate al diritto sostanziale››.
16 Per CAPONI, cit., 9, il nuovo rito integra un esempio di utilizzazione del processo civile per perseguire finalità di politica pubblica, ulteriori rispetto a quella, istituzionale, della tutela dei diritti individuali.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
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penetrante17, è suscettibile di incidere
positivamente sul mercato del lavoro, con
potenziali apprezzabili riflessi sul sistema
socio-economico del paese, inserendosi,
unitamente al contrasto all’ “uso
improprio e strumentale degli elementi di
flessibilità” e all’adeguamento “alle
esigenze del mutato contesto di
riferimento” della disciplina sostanziale
del licenziamento, tra le misure volte a
ridistribuire “in modo più equo le tutele
dell’impiego”18.
La considerazione della natura
pubblicistica dell’interesse tutelato
consente di superare i problemi di
carattere interpretativo-applicativo non
risolvibili mediante la meccanica
applicazione delle norme tratte dalla
naturale fonte di integrazione della
incompleta disciplina speciale, costituita,
17 Scrive LUISO, cit., 4, che la funzione specifica del procedimento consiste nel ‹‹ridurre le incertezze, legate ad una possibile reintegrazione del dipendente, giungendo quanto prima ad un provvedimento che, una volta per tutte, stabilisca se, a seguito del licenziamento, si avrà o meno la prosecuzione del rapporto di lavoro››.
18 Così l’art.1, comma 1, lett. c), della legge n.92/2012.
Secondo CURZIO, cit., 3, ‹‹l’accelerazione è ricercata nell’interesse di entrambe le parti del giudizio, considerata la delicatezza della materia, e forse soprattutto di un interesse più generale a che i conflitti giudiziari concernenti i licenziamenti, così determinanti nei meccanismi del mercato del lavoro, pervengano in tempi ragionevoli a definizioni dotate di stabilità e certezza››.
Aggiunge il chiaro autore – mostrando di condividere il criterio metodologico secondo il quale la previa individuazione dei caratteri dell’interesse tutelato da un procedimento speciale costituisce il presupposto fondamentale per la risoluzione delle questioni applicative lasciate aperte dalla disciplina positiva dello stesso – che ‹‹quali che siano le spiegazioni della scelta, ciò che è certo essa costituisce la ragione di fondo dell’intervento sulla normativa processuale e quindi la sua cifra ermeneutica››.
come si è veduto19, dal rito tradizionale
del lavoro.
Infatti, se in via generale le lacune
del rito speciale devono essere colmate
utilizzando le regole contenute negli
artt.413 s. c.p.c., vi sono dei casi
particolari in cui la pura e semplice
applicazione di queste regole risulta
incompatibile con la funzione del
procedimento sicché spetta all’interprete
individuare l’interpretazione correttiva,
tenendo presenti i caratteri dell’interesse
tutelato dal rito speciale.
Così è, in particolare, ad avviso di
chi scrive, per la regola che nel processo
del lavoro disciplina i poteri istruttori del
giudice (art.421 c.p.c.), pur espressamente
richiamata nel rito speciale sia con
riguardo alla fase urgente sia con riguardo
alla fase di opposizione, potendo gli atti
istruttori disposti d’ufficio, ai sensi
dell’art.421 c.p.c., figurare, unitamente a
quelli richiesti dalle parti, tanto tra gli atti
“indispensabili” ai fini dell’emanazione
dell’ordinanza fondata sulla cognizione
meramente sommaria, quanto tra gli atti
“ammissibili e rilevanti” funzionali
all’emanazione della sentenza conclusiva
della fase a cognizione piena (art.1,
commi 49 e 57, legge n.92/2012).
Come è noto, nell’elaborazione
giurisprudenziale, il potere del giudice del
lavoro di “disporre d’ufficio in qualsiasi
momento l’ammissione di ogni mezzo di
prova” (art.421, secondo comma, c.p.c.) è
19 V., supra, par.1 e, ivi, particolarmente, nota 1.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
38
stato configurato come potere-dovere, il
cui esercizio è possibile soltanto se si
integrino specifici presupposti, ed è
comunque confinato entro precisi limiti20.
Mentre i limiti attengono al
rispetto della volontà delle parti, del
principio della domanda e dell’onere di
allegazione, nonché al divieto di
utilizzazione della scienza privata del
giudice, i presupposti consistono nella
mancanza di carenze probatorie imputabili
alle parti (presupposto soggettivo) e nella
sussistenza di “piste probatorie”
emergenti dagli atti (presupposto
oggettivo) sicché i poteri istruttori del
giudice hanno natura meramente
integrativa, e non sostitutiva, delle prove
dedotte dalle parti21.
Tale orientamento applicativo non
può essere meccanicamente trasferito nel
nuovo rito per i licenziamenti, quanto
meno limitatamente alla fase urgente di
esso.
Ed invero, da un lato, con riguardo
al presupposto oggettivo, poiché questa
fase si caratterizza per un’istruttoria
meramente sommaria, è evidente che, ove
dagli atti di causa emergessero già
significative “piste probatorie” di natura
indiziaria, atte ad orientare, sia pure in
20 Sul tema, sia consentito rinviare, in generale, a SPAZIANI, I poteri istruttori del giudice (commento dell’art.421 c.p.c), in Codice ipertestuale commentato del lavoro UTET, a cura di R. Pessi, Torino, 2011, 2042 s.
21 In tema, tra le tante sentenze della Corte di Cassazione (non soltanto della sezione lavoro), cfr.: Cass., Sez. lav., 6 luglio 2000, n.9034; Cass., Sez. un., 17 giugno 2004, n.11353; Cass., Sez. III, 20 luglio 2011, n.15899.
termini meramente probabilistici e di
verosimiglianza, il giudizio sulla
legittimità o meno del recesso datoriale, il
giudice dovrebbe immediatamente
emettere l’ordinanza di accoglimento o di
rigetto della domanda, senza indugiare su
atti istruttori integrativi che, per un verso,
non sarebbero compatibili con la
superficialità dell’istruttoria richiesta
mentre, per altro verso, sacrificherebbero
l’interesse alla rapidità dell’accertamento,
interesse avuto sommamente di mira dal
legislatore.
Dall’altro lato, con riguardo al
presupposto soggettivo, poiché nella fase
sommaria non maturano preclusioni
istruttorie, è evidente che non può
neppure ipotizzarsi una colpevole inerzia
delle parti nella deduzione dei mezzi di
prova, con conseguente decadenza per
inosservanza di oneri processuali.
Diversamente che nel rito
tradizionale del lavoro, dunque, deve
ritenersi che i poteri istruttori officiosi del
giudice non assumono, nel nuovo
procedimento, carattere meramente
integrativo delle prove richieste dalle
parti, ma possono essere utilizzati –
nell’ambito di un potere discrezionale da
esercitarsi tenendo conto di tutte le
circostanze del caso concreto – anche in
via sostitutiva, con la conseguenza che, se
all’udienza fissata ai sensi dell’art.1,
comma 48, della legge n.92/2012, le parti
non abbiano ancora formulato richieste
istruttorie (senza che – si badi – tale
omissione abbia prodotto una qualche
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
39
decadenza, non essendo previste
preclusioni in tal senso), esse non solo
possono essere sollecitate dal giudice a
proporre le predette richieste, ma il
giudice, valutate tutte le circostanze del
caso concreto, può d’ufficio ammettere i
mezzi di prova indispensabili per emettere
una, sia pur provvisoria, decisione di
merito.
Tale soluzione trova conferma nel
rilievo che la predetta decisione di merito
è funzionale non solo alla tutela
dell’interesse privato delle parti, ma è
anche (e soprattutto) alla tutela
dell’interesse pubblico posto a base del
rito speciale, il cui carattere indisponibile
impone che la decisione stessa non sia
rallentata – nei limiti in cui ciò è possibile
nell’ambito di un procedimento che
rimane comunque fondato sull’iniziativa e
sull’impulso di parte, nonché sulla
necessità che sia rispettato il principio
della corrispondenza tra il chiesto e il
pronunciato – dal comportamento dei
soggetti privati.
Il richiamo all’art.421 c.p.c.,
contenuto nell’art.1, comma 49, della
legge n.92/2012 – diversamente
dall’omologo richiamo contenuto nel
successivo comma 57 –, deve dunque
essere inteso come richiamo al contenuto
e ai limiti dell’iniziativa probatoria
officiosa del giudice del lavoro, ma non
anche come richiamo ai presupposti ai
quali essa è subordinata, la cui
integrazione non appare necessaria nella
fase urgente del rito speciale.
Il carattere pubblicistico
dell’interesse tutelato e, più in generale, la
funzione del procedimento mentre non
incidono, pertanto, sulla persistente
operatività, anche nel rito speciale, del
principio dell’impulso di parte (artt.99,
306, 307 c.p.c.) e del principio dispositivo
in senso materiale (art.112 c.p.c.),
incidono, invece, notevolmente
sull’operatività del principio dispositivo in
senso formale (art.115 c.p.c.),
determinando un allargamento degli
inquinamenti inquisitori, già apprezzabili
nel rito tradizionale del lavoro.
3. L’ambito di applicazione. Il regime
intertemporale. La rilevanza della
domanda ai fini della
determinazione del rito.
Ai sensi dell’art.1, comma 47,
della legge n.92/2012, le nuove
disposizioni processuali si applicano
“alle controversie aventi ad oggetto
l’impugnativa dei licenziamenti nelle
ipotesi regolate dall’art.18 della legge 20
maggio 1970, n.300, e successive
modificazioni”.
Presupposto per l’applicazione del
nuovo rito è, dunque, che il lavoratore
licenziato invochi una qualsiasi delle
forme di tutela contemplate dall’art.18
dello Statuto dei lavoratori, vale a dire la
tutela reintegratoria assistita da tutela
risarcitoria piena (primo comma), la
tutela reintegratoria assistita da tutela
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
40
risarcitoria attenuata (quarto comma e
prima parte del settimo comma), la tutela
indennitaria forte (quinto comma e
seconda parte del settimo), la tutela
indennitaria debole (sesto comma)22.
Si ritiene pressoché pacificamente
che il nuovo rito sia applicabile ai
licenziamenti collettivi, i quali, sebbene
disciplinati dalla legge n.223/1991,
soggiacciono, ove illegittimi, al regime
sanzionatorio dell’art.18 della legge
n.300/1970, per effetto della previsione
contenuta nell’art.1, comma 46, della
legge Fornero23.
Pressoché pacificamente si ritiene,
inoltre, che il rito non sia applicabile alle
azioni di accertamento della nullità del
termine apposto al contratto di lavoro a
tempo determinato con conseguente
domanda di conversione dello stesso in
contratto a tempo indeterminato24.
Per quanto riguarda le azioni di
accertamento della legittimità del recesso
proposte dal datore di lavoro, si discute
se, dopo le modifiche apportate dalla
22 V. CURZIO, cit., 3 e SORDI, cit.,8.
23 In tal senso v. CAVALLARO, cit., 2; CURZIO, cit., 4; SORDI, ult. cit..
In senso diverso, CIRIELLO-LISI, Disciplina processuale, in PELLACANI, Riforma del lavoro. Tutte le novità introdotte dalla legge 28 giugno 2012 n.92, Milano, 279 s.
24 Sul presupposto che non si versa in ipotesi di impugnativa di licenziamento ma di azione di mero accertamento, volta far dichiarare la nullità della clausola appositiva del termine finale posto al contratto di lavoro: così CAVALLARO, ult. cit.; CIRIELLO-LISI, ult. cit., CURZIO, cit., 5; VALLEBONA, cit., 73.
In senso diverso, CONSOLO-RIZZARDO, cit., 735.
legge n.183/2010 (c.d. Collegato lavoro)
all’art.6 legge n.604/1966 – volte a
stabilire l’inefficacia dell’impugnazione
stragiudiziale del licenziamento ove non
seguita, nel termine di 270 giorni (poi
ridotto a 180 giorni dall’art.1, comma 38,
legge Fornero), dal deposito del ricorso o
dalla richiesta del tentativo di
conciliazione o di arbitrato – sia ancora
configurabile l’interesse ad agire del
datore di lavoro medesimo25.
In ogni caso, quand’anche si
dovesse optare per la persistente
sussistenza dell’interesse ad agire, la
soluzione al problema dell’applicabilità o
meno del nuovo rito dovrebbe reputarsi
negativa, non vertendosi in ipotesi di
“impugnativa” di licenziamento26.
La nuova disciplina processuale è
certamente inapplicabile alle impugnative
dei licenziamenti irrogati nell’ambito
delle cc.dd. imprese di tendenza – cioè
dai “datori di lavoro non imprenditori che
svolgono senza fine di lucro attività di
natura politica, sindacale, culturale, di
istruzione ovvero di religione o di culto”
(art.4 l. n.108/1990) nei confronti dei
quali, per espressa previsione della norma
appena citata, non si applica la disciplina
di cui all’art.18 dello Statuto dei
lavoratori27 – , nonché alle impugnative
dei recessi operati nei confronti dei
25 Sul problema v. LUISO, cit., 7-8.
26 In tal senso cfr. RIVERSO, cit., 1 e SORDI, cit., 11.
27 CURZIO, ult. cit..
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
41
dirigenti, salvo che ricorra l’ipotesi di cui
al comma primo del citato art.18, unica
disposizione applicabile ai dirigenti
medesimi28.
Particolarmente problematica è la
questione se il nuovo rito trovi
applicazione alle impugnazioni dei
licenziamenti dei pubblici dipendenti in
regime privatizzato.
Il problema investe non solo le
disposizioni processuali, ma anche (e
prima ancora) le disposizioni sostanziali
contenute nella legge Fornero.
Prima dell’entrata in vigore di
questa legge, non si dubitava
dell’applicabilità, ai pubblici dipendenti
in regime contrattualizzato, della
disciplina contenuta nell’art.18 dello
Statuto dei lavoratori.
In tal senso militava sia il rinvio
generale operato dall’art.2, comma 2, del
d.lgs. n.165/2001 al codice civile e alle
leggi sul rapporto di lavoro subordinato
nell’impresa quali fonti regolatrici del
rapporto di lavoro pubblico per quanto
non fosse specificamente previsto dalla
fonte speciale, sia il rinvio specifico
contenuto nell’art.51, comma 2, stesso
decreto legislativo, a mente del quale “la
legge 20 marzo 1970, n.300, e successive
modificazioni ed integrazioni, si applica
alle pubbliche amministrazioni a
prescindere dal numero dei dipendenti”29.
28 CURZIO, ult. cit..
29 La tesi era condivisa in giurisprudenza: cfr. Cass. 5 gennaio 2011, n.190: “in tema di lavoro pubblico privatizzato nel caso di licenziamento
Dopo l’entrata in vigore della
legge Fornero, si dubita dell’applicabilità
delle disposizioni in essa contenute (e
dunque anche di quelle di cui all’art.1,
comma 42, che ha sostituito il vecchio
testo dell’art.18 dello Statuto dei
lavoratori) ai pubblici dipendenti, in
ragione di quanto disposto nei commi 7 e
8 del medesimo art.1.
Il comma 7 stabilisce che “le
disposizioni della presente legge, per
quanto da esse non espressamente
previsto, costituiscono principi e criteri
per la regolazione dei rapporti di lavoro
dei dipendenti delle pubbliche
amministrazioni”, in regime
contrattualizzato.
Il comma 8 stabilisce che “al fine
dell’applicazione del comma 7 il Ministro
per la pubblica amministrazione e la
semplificazione, sentite le organizzazioni
sindacali maggiormente rappresentative
dei dipendenti delle amministrazioni
pubbliche, individua e definisce, anche
mediante iniziative normative, gli ambiti,
le modalità e i tempi di armonizzazione
della disciplina relativa ai dipendenti
delle amministrazioni pubbliche”.
illegittimo, ai fini della liquidazione del danno, si applica l’art. 18 legge 20 maggio 1970, n. 300, con la conseguenza che il risarcimento del danno non incontra il limite delle sei mensilità retributive previste dall’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come sostituito dall’art. 2, comma quinto, della legge 11 maggio 1990, n. 108, che riguarda i soli rapporti di lavoro privato con tutela obbligatoria”.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
42
Dinanzi a queste previsioni sono
state prospettate due diverse tesi
interpretative.
Secondo la prima, le disposizioni
di cui ai commi 7 e 8 dell’art.1 della
legge Fornero non inciderebbero sul
sistema precedente, che sarebbe anzi
confermato, sicché, per effetto del
carattere mobile del rinvio operato
dall’art.51, comma 2, d.lgs. n.165/2001
(riferito non solo al contenuto originario
della legge n.300 del 1970 ma anche alle
sue successive integrazioni e
modificazioni), anche la nuova disciplina
dell’art.18 troverebbe applicazione ai
pubblici dipendenti, con tutto quel che ne
consegue in ordine all’applicabilità
(anche) delle disposizioni processuali30.
Secondo l’altra tesi interpretativa,
invece, i commi 7 e 8 dell’art.1 della
legge n.92/2012 escluderebbero la diretta
30 In tal senso, cfr. CURZIO, cit., 4, il quale, dopo aver evidenziato che, avuto riguardo al rinvio mobile operato dall’art.51, secondo comma, d.lgs. 165/2001, ‹‹l’art.18, in quanto parte della legge 300 del 1970, si applica … al lavoro pubblico››, con la conseguenza che ‹‹le relative controversie dinanzi al giudice del lavoro saranno soggette al rito specifico››, aggiunge che ‹‹questa conclusione non sembra essere messa in discussione dalle disposizioni specifiche, il settimo e l’ottavo comma, che la legge 92/2012 dedica al raccordo con la disciplina dell’impiego pubblico››, in quanto la prima disposizione, pur ‹‹con una formula alquanto contorta››, ‹‹afferma un principio di fondo per cui, a parte previsioni espressamente indirizzate in senso contrario, le regole contenute nella legge 92/2012 valgono anche per l’impiego pubblico››, mentre la seconda disposizione subordina l’armonizzazione della disciplina ad iniziative normative del Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, per modo che, ‹‹sino a quando tali iniziative non verranno prese e non si concretizzeranno in norme, deve ritenersi che il quadro regolativo sia quello su descritto, implicante l’applicazione dell’art.18 e del rito specifico per i licenziamenti anche alle controversie dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni soggetti al regime privatistico››.
applicabilità delle norme in essa
contenute ai pubblici dipendenti.
La previsione secondo la quale tali
norme costituiscono “principi” e “criteri”
per la regolazione dei rapporti di lavoro
pubblico, postulerebbe infatti l’attuale
difformità di disciplina tra le due
categorie di rapporti di lavoro (pubblico e
privato) la quale dovrebbe
tendenzialmente essere ridotta attraverso
la predisposizione di una regolazione del
rapporto di lavoro pubblico che abbia tra
i principi informatori quelli desumibili
dalle norme della legge Fornero.
Tale lettura sarebbe ulteriormente
confermata dalla previsione volta ad
attribuire al Ministro per la pubblica
amministrazione e la semplificazione il
compito di intraprendere iniziative
normative volte a definire gli ambiti, le
modalità e i tempi di armonizzazione
delle due discipline, previsione dalla
quale si desume che prima di tale
armonizzazione i due rapporti restano
regolati da una disciplina differente.
Tanto premesso, gli autori che
aderiscono a questa tesi, si chiedono se la
non applicabilità ai pubblici dipendenti
delle disposizioni della legge Fornero
riguardi unicamente le disposizioni di
carattere sostanziale (e tra queste, in
particolare, il comma 42 dell’art.1,
contenente il nuovo testo dell’art.18 dello
Statuto dei lavoratori) o si estenda anche
alle disposizioni processuali di cui ai
successivi commi 47-69.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
43
A questo quesito si risponde nel
senso che il divieto di immediata
applicabilità concernerebbe unicamente
le norme di carattere sostanziale in
quanto soltanto in relazione alla
disciplina sostanziale del rapporto di
lavoro può porsi l’esigenza di un
intervento di armonizzazione quale quello
previsto dai commi 7 e 8 dell’art.1 della
legge n.92/2012, i quali richiedono al
Ministro della pubblica amministrazione
di predisporre una regolazione del
rapporto di lavoro pubblico che, pur
vertendo verso la tendenziale
uniformazione della disciplina a quella
del rapporto di lavoro privato, tenga
comunque conto delle peculiarità
concernenti specifici aspetti, in relazione
ai quali persista la necessità di una
regolazione specifica e differenziata,
pena la violazione del principio di
ragionevolezza.
Una simile esigenza non si
porrebbe, invece, in relazione alle norme
processuali, che possono essere applicate
senza necessità di armonizzazione e che,
anzi, devono essere applicate in modo
uniforme alle due categorie di rapporti,
non essendovi ragioni che possono
giustificare un trattamento processuale
differenziato delle due categorie di
dipendenti, entrambi soggetti al regime
contrattuale privatistico.
Del resto, si aggiunge, una simile
impostazione trova una conferma – sotto
il profilo storico – nel tradizionale assetto
della disciplina sostanziale del rapporto
di lavoro pubblico in relazione a quello
privato, in quanto, anche a seguito della
privatizzazione, pur affermandosi la
generale applicazione al primo delle
regole e degli istituti riguardanti il
secondo (art.2 d.lgs. n.165/2001), sono
state previste norme specifiche e
differenziate per taluni aspetti del
rapporto31, mentre tale differenziazione
non ha riguardato in alcun modo la
disciplina processuale, normalmente
improntata a criteri di rigorosa
uniformità32.
31 Ciò è accaduto, in particolare, per le mansioni (in relazione alle quali l’art.52 del d.lgs. n.165/2001 detta, per il lavoro pubblico, una disciplina notevolmente diversa rispetto a quella dettata dall’art.2103 c.c. per il lavoro privato) e per il regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi, che nel pubblico impiego è tradizionalmente connotato da una tutela di tipo reale.
32 In tal senso, cfr. SORDI, cit., 10, il quale, dopo aver posto il problema ‹‹se le disposizioni della legge n.92 la cui applicabilità ai rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici è condizionata all’adozione, da parte del Ministro per la pubblica amministrazione, delle iniziative di cui al citato comma 8 siano tutte quelle contenute nella legge (e dunque, anche quelle relative al nuovo procedimento per l’impugnazione dei licenziamenti) ovvero solamente quelle aventi ad oggetto la disciplina sostanziale del rapporto di lavoro››, rileva che ‹‹l’estraneità delle norme processuali alla disciplina transitoria di cui ai commi 7 e 8 sembra confermata sia dal tenore letterale di quest’ultima sia dalla sua incompatibilità “ontologica” con una normativa di natura processualcivilistica, per sua natura tendenzialmente uniforme per tutte le controversie aventi ad oggetto rapporti contrattuali della stessa natura (altrimenti detto: mentre è comprensibile che il recesso della pubblica amministrazione sia regolato da norme diverse da quelle che disciplinano l’analogo atto dei datori di lavoro privati, non altrettanto può dirsi a proposito della disciplina processuale delle controversie aventi ad oggetto l’impugnazione dei licenziamenti››.
Più in generale – conclude in nota il chiaro autore – ‹‹nonostante le profonde differenze di disciplina sostanziale tra rapporto di lavoro subordinato nel settore privato e impiego pubblico “contrattualizzato”, la disciplina processuale è sempre stata uniforme, salvo che per aspetti del tutto marginali›› quali la competenza per territorio (art.413, quinto comma, c.p.c.) e la difesa in giudizio (art.417 bis c.p.c.).
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
44
Il nuovo rito per i licenziamenti
previsto dalla legge n.92/2012 sarebbe,
dunque, bensì applicabile ai rapporti di
lavoro pubblico privatizzato, ma, sotto il
profilo sostanziale, continuerebbe,
esclusivamente per tale categoria di
rapporti, a trovare applicazione l’art.18
dello Statuto dei lavoratori nel testo
antecedente a quello introdotto dalla
legge medesima33.
Sotto il profilo temporale, l’ambito
di applicazione del nuovo rito è segnato
dall’art.1, comma 67, della legge
n.92/2012, secondo il quale le nuove
disposizioni processuali “si applicano alle
controversie instaurate successivamente
alla data di entrata in vigore della
presente legge”.
Dunque, il nuovo rito non si
applica alle impugnative di licenziamenti
già pendenti alla data del 18 luglio
201234, neppure nel passaggio dal primo
al secondo grado35.
A far tempo dal 18 luglio 2012, le
nuove norme processuali trovano
generale applicazione per le impugnative
di tutti licenziamenti sottoposti, in ipotesi
di illegittimità o inefficacia, al regime
sanzionatorio dell’art.18 dello Statuto dei
lavoratori, sia che si tratti del regime
antecedente (licenziamento irrogato
33 Così SORDI, ult. cit.; VALLEBONA, cit., 55.
34 La legge 28 giugno 2012, n.92 è stata pubblicata in GU 3 luglio 2012, n.153, S.O., e dunque è entrata in vigore il 18 luglio successivo.
35 SORDI, cit., 9.
prima del 18 luglio 2012 nell’area di
operatività della tutela reale) sia che si
tratti del regime successivo
(licenziamento irrogato dopo il 18 luglio
2012 nell’area di operatività di una delle
nuove quattro forme di tutela).
Ove, in virtù della normativa
sostanziale temporalmente applicabile, il
licenziamento non sia sottoposto al
predetto regime, l’impugnativa deve
essere proposta con il rito tradizionale del
lavoro36.
Va, infine, evidenziato che,
l’individuazione della fattispecie, ai fini
del rito, va compiuta in base alla
domanda37 e, in particolare, con
riferimento al petitum e alla causa
petendi con essa esposti,
indipendentemente dalla sua fondatezza.
In altre parole, la verifica che la
controversia abbia ad oggetto
l’impugnativa di un licenziamento nelle
ipotesi regolate dall’art.18 dello Statuto
dei lavoratori, deve essere compiuta
avuto riguardo a quanto viene dedotto
nell’atto introduttivo della causa, non
assumendo rilevanza gli esiti della
36 Cfr. SORDI, ult. cit., il quale fa l’esempio del licenziamento orale intimato, prima del 18 luglio 2012, da un imprenditore con meno di 16 dipendenti, per chiarire che l’impugnativa di tale atto di recesso, anche se proposta dopo l’entrata in vigore della nuova legge, deve seguire il rito ordinario del lavoro, trattandosi di fattispecie che si pone fuori dall’ambito di applicazione dell’art.18 nella formulazione antecedente a quella introdotta dalla riforma Fornero, senza che assuma rilevanza la circostanza che la fattispecie medesima sia invece contemplata dal “nuovo” comma primo dell’art.18 medesimo, non essendo tale disciplina applicabile, sul piano temporale, ai licenziamenti irrogati in epoca anteriore alla sua entrata in vigore.
37 LUISO, cit., 9; RIVERSO, cit., 1-2; SORDI, cit., 11.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
45
successiva istruzione probatoria, i quali,
al pari delle eccezioni del convenuto,
attengono al merito della pretesa,
potendo, in ipotesi, condurre al rigetto
della stessa.
Questo principio, tradizionalmente
applicato dalla giurisprudenza ai fini
dell’individuazione del rito come della
competenza38, trova un limite nel potere-
dovere del giudice di procedere alla
qualificazione giuridica della domanda,
ma tale potere-dovere, in quanto
espressione del principio iura novit
Curia, è legittimamente esercitato
unicamente quando concerna
l’individuazione delle norme giuridiche
ritenute applicabili al caso concreto (che
possono essere diverse da quelle invocate
dalla parte), non anche quando si traduca
nella immutazione dei fatti costitutivi,
dedotti dalla parte medesima a
fondamento della domanda, o nella
immutazione della modalità funzionale di
tutela (di mero accertamento, di
condanna, costitutiva) da questa invocata,
immutazione che determinerebbe
un’indebita violazione, per eccesso o per
difetto, del principio della corrispondenza
tra il chiesto e il pronunciato.
Così, per fare degli esempi, se il
lavoratore, deducendo la nullità della
clausola appositiva del termine finale
posto al contratto di lavoro, non si limiti
38 Cass.16 febbraio 1993, n.1916, in Giust. civ., 1993, I, 3013; Cass.17 giugno 1996, n.5544, in Arch. loc., 1996, 910; Cass.6 aprile 1998, n.3546, in Foro it., 2000, I, 603; Cass.3 marzo 2000, n.2368, in Arch. loc., 2000, 740.
ad invocare al conversione del contratto
ma, erroneamente, invochi l’applicazione
di una delle tutele di cui all’art.18 dello
Statuto dei lavoratori, il giudice non può
trattare la controversia con il rito
ordinario del lavoro, previa
qualificazione della domanda come mera
azione di nullità parziale del contratto,
perché il potere di qualificazione non può
spingersi a trasformare una domanda di
condanna (quale quella formulata, sia
pure infondatamente, dall’attore) in una
domanda dichiarativa. La controversia
dovrà quindi essere trattata con il rito
specifico previsto dalla legge n.92/2012,
anche se la domanda di tutela ex art.18
dovrà essere rigettata nel merito.
Al contrario, se il lavoratore
licenziato, deducendo che non ricorrono
gli estremi della giusta causa o del
giustificato motivo, chieda la condanna
del datore di lavoro a riassumerlo o, in
alternativa a risarcirgli il danno mediante
versamento di un’indennità di importo
compreso tra 2,5 e 6 mensilità,
erroneamente invocando l’art.18 dello
Statuto dei lavoratori, il giudice, avuto
riguardo alla causa petendi e al petitum,
potrà-dovrà qualificare la domanda come
domanda di tutela ex art.8 legge
n.604/1966, correggendo l’impostazione
della parte solo in ordine alle norme
giuridiche ritenute applicabili al caso
concreto, senza incidere sui fatti dedotti e
sulla modalità funzionale di tutela
invocata. La controversia dovrà quindi
essere trattata con il rito ordinario del
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
46
lavoro, non rientrando tra quelle cui si
applica il nuovo rito, ai sensi dell’art.1,
comma 47, legge n.92/2012.
4. Le questioni relative alla
qualificazione del rapporto e il
problema dei limiti oggettivi del
giudicato.
Ai sensi dell’ultimo inciso del
comma 47 dell’art.1 della legge
n.92/2012, il nuovo rito si applica alle
controversie ivi previste “anche quando
devono essere risolte questioni relative
alla qualificazione del rapporto di
lavoro”.
Il legislatore ha considerato i casi
in cui sia controversa la natura giuridica
del rapporto, in quanto lo stesso sia
formalmente qualificato come rapporto
diverso (lavoro autonomo,
parasubordinato, associazione in
partecipazione ecc.), ma il lavoratore ne
deduca la natura sostanzialmente
subordinata, ponendo l’accertamento di
quella natura (contestata dal datore di
lavoro) a presupposto della qualificazione
del recesso datoriale come licenziamento,
del quale si contesta la legittimità
invocandosi l’applicazione del regime
sanzionatorio di cui all’art.18 dello
Statuto dei lavoratori.
In questi casi, il legislatore ha
opportunamente prevenuto la possibilità
di un’irragionevole frammentazione
dell’attività processuale, prevedendo la
risoluzione nel medesimo processo anche
delle questioni che, pur estranee alla
domanda relativa all’impugnativa del
licenziamento, sono tuttavia ad essa legate
da un nesso di pregiudizialità logica.
Il problema interpretativo posto
dalla disposizione in esame concerne il
significato da attribuire al termine
“questioni”, dovendosi chiarire se esso è
usato in senso ampio, comprensivo delle
vere e proprie domande di accertamento
della natura subordinata del rapporto,
oppure se esso è usato in senso stretto, per
i casi in cui, pur non chiedendosi
l’accertamento, con efficacia di giudicato,
della natura subordinata del rapporto, la
contestazione di tale natura ad opera del
datore di lavoro ponga la necessità di
risolvere la relativa questione,
eventualmente in via meramente
incidentale, come antecedente logico della
decisione sull’impugnativa del
licenziamento.
Nel primo senso sembrano deporre
le prime indicazioni fornite dalla dottrina
processualistica, la quale individua
nell’ultimo inciso del comma 47 il
grimaldello per consentire il simultaneus
processus tra la domanda di impugnativa
del licenziamento e la domanda (legata
alla prima da nesso di pregiudizialità
logica) di accertamento della natura
subordinata del rapporto, domanda,
quest’ultima, che, in mancanza di tale
previsione non avrebbe potuto essere
cumulata alla prima, non essendo fondata
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
47
sui medesimi fatti costitutivi ai sensi del
successivo comma 4839.
Nel secondo senso sembra invece
deporre il testo dell’ultimo inciso del
comma 47, nell’ambito del quale
l’utilizzazione del termine “questioni” non
può ritenersi né casuale né fungibile con il
termine “domande”, che viene
consapevolmente utilizzato dal legislatore,
in luogo del precedente, nel successivo
comma 48.
Deve pertanto ritenersi che il
legislatore, avuto riguardo all’interesse
tutelato dal rito specifico40 e all’esigenza
– che esso intende soddisfare – di
assicurare la massima rapidità
dell’accertamento relativo alla domanda
di impugnativa del licenziamento, ha
inteso escludere la cumulabilità a tale
domanda di tutte le domande non fondate
sui medesimi fatti costitutivi ai sensi del
successivo comma 48, e quindi anche
delle domande aventi ad oggetto
l’accertamento, con efficacia di giudicato,
della natura subordinata del rapporto,
nonostante il nesso di pregiudizialità con
l’impugnativa di licenziamento.
39 Cfr., ad es., LUISO, cit., 5, il quale mostra di identificare le questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro di cui all’art.1, comma 47, della legge n.92/2012, con ‹‹le controversie relative all’accertamento dell’esistenza e qualificazione del rapporto che rientrano nella previsione dell’art.409 c.p.c.››, per inferirne la conseguenza che, ‹‹in mancanza di quanto espressamente previsto nell’ultima frase del comma 47, si sarebbe potuto sostenere che – ove l’esito di un’impugnativa del licenziamento dipendesse dalla qualificazione del rapporto – tale qualificazione dovesse essere effettuata con il rito del lavoro, con la conseguente sospensione del procedimento speciale, o la sua attrazione al rito del lavoro ex art.40 c.p.c.››.
40 V., supra, par.2.
Se, dunque, il lavoratore propone,
oltre all’impugnativa di licenziamento,
anche la distinta e autonoma domanda di
accertamento della natura subordinata del
rapporto, questa deve subire il destino
riservato alle domande diverse che non
siano fondate sui medesimi fatti costitutivi
dell’impugnativa del licenziamento,
formando oggetto, a seconda della tesi che
si accolga sul punto41, di un
provvedimento di separazione (con
conseguente provvedimento di mutamento
del rito) o di una pronuncia di
inammissibilità42.
La necessità della trattazione
separata viene meno, invece, quando la
questione relativa alla qualificazione del
rapporto di lavoro non formi oggetto di
un’autonoma domanda, ma si inserisca,
quale antecedente logico necessario, tra le
questioni da risolvere in vista della
decisione sull’unica domanda proposta,
quella avente ad oggetto l’impugnativa
del licenziamento.
La tesi che si è esposta, se da un
lato appare conforme alla lettera e alla
ratio della legge, dall’altro lato lascia
41 V., infra, par. 7.
42 Non sembra invece ipotizzabile l’applicazione dell’art.40, comma terzo, c.p.c. (e la conseguente attrazione, al rito del lavoro, anche della domanda di impugnativa del licenziamento), in quanto, come si sta per vedere nel testo, tra le due domande non ricorre un nesso di pregiudizialità tecnica (unico nesso di pregiudizialità idoneo a dar luogo, secondo la giurisprudenza di legittimità, alla connessione qualificata di cui all’art.34 c.p.c., rilevante ai fini dell’applicazione dell’art.40, comma terzo, stesso codice), ma un nesso di pregiudizialità logica, alla quale non si applica l’art.34 c.p.c. e, per conseguenza, neppure l’art.40, comma terzo, stesso codice.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
48
aperto il problema dell’individuazione dei
limiti oggettivi del giudicato (costituito
dall’ordinanza non opposta emessa a
seguito della fase sommaria o dalla
sentenza non reclamata emessa a seguito
della fase di opposizione) allorché siano
state risolte questioni relative alla
qualificazione del rapporto di lavoro.
Ed invero, una volta che si è
chiarito che sono escluse dal simultaneus
processus con il rito specifico le domande
autonome, aventi ad oggetto
l’accertamento della natura subordinata
del rapporto, dovrebbe coerentemente
ritenersi che la soluzione della relativa
questione, allorché essa si ponga come
antecedente logico necessario della
decisione sull’impugnativa di
licenziamento, abbia la natura di
accertamento meramente incidentale, e
non acquisti efficacia di giudicato.
Deve peraltro ricordarsi
l’orientamento giurisprudenziale secondo
il quale la disposizione (art.34 c.p.c.) che
consente di risolvere le questioni
pregiudiziali in via meramente incidentale
– in difetto di una disposizione di legge o
di un’esplicita domanda di una delle parti
dalle quali derivi la necessità di deciderle
con efficacia di giudicato – si applica alla
sola pregiudizialità tecnica (che ricorre
allorché l’accertamento di un diritto – o
comunque di una situazione giuridica
soggettiva: si pensi, ad es., allo status –
costituisce il presupposto di un altro
diritto), e non anche alla c.d.
pregiudizialità logica, che ricorre allorché
l’accertamento dell’esistenza, della
validità e della natura di un rapporto
giuridico costituisce il presupposto di un
diritto43.
In quest’ultimo caso, infatti, se per
decidere sulla domanda avente ad oggetto
l’accertamento del diritto viene risolta
anche la questione logicamente
pregiudiziale relativa all’esistenza,
validità e natura giuridica del rapporto, il
giudicato costituito dalla sentenza di
accertamento del diritto si estende anche
alla questione logicamente pregiudiziale,
che non può più essere messa in
discussione in successivi processi44.
43 V., tra le più recenti, Cass., Ord. 21 dicembre 2011, n.27932: “in tema di sospensione necessaria del processo, tanto l’art.34, quanto l’art.295 c.p.c. fanno riferimento alla pregiudizialità in senso tecnico giuridico e non anche alla pregiudizialità in senso meramente logico, sicché la sospensione può essere disposta unicamente quando in un altro giudizio deve essere decisa una questione pregiudiziale intesa nel primo senso”.
44 Cfr., tra le tante, Cass. 9 aprile 2009, n.8723: “in tema di formazione del giudicato in relazione ai rapporti di durata, se l’accertamento dell’esistenza, validità e natura giuridica di un contratto, fonte di un rapporto obbligatorio, costituisce il presupposto logico-giuridico di un diritto derivatone, il giudicato si estende al predetto accertamento e spiega effetto in ogni altro giudizio, tra le stesse parti, nel quale il medesimo contratto è posto a fondamento di ulteriori diritti, inerenti al medesimo rapporto”.
Con particolare riguardo al rapporto di durata presupposto di un credito accertato con decreto ingiuntivo non opposto, cfr. Cass. 11 maggio 2010, n.11360, ove, ribadendo un principio di diritto già precedentemente enunciato (Cass.24 marzo 2006, n.6628), si afferma, tra l’altro, che “il giudicato sostanziale conseguente alla mancata opposizione di un decreto ingiuntivo copre … l’esistenza del credito azionato, del rapporto di cui esso è oggetto e del titolo su cui il credito ed il rapporto stessi si fondano”.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
49
Applicando questo orientamento
alla fattispecie relativa all’impugnativa di
licenziamento che presuppone la
soluzione della questione logicamente
pregiudiziale relativa alla qualificazione
del rapporto di lavoro, non vi può allora
essere dubbio che il giudicato costituito
dall’ordinanza (o dalla sentenza) di
accoglimento si estenda anche
all’accertamento del carattere subordinato
del rapporto.
Diversamente, con riguardo
all’ordinanza (o sentenza) di rigetto,
bisogna distinguere l’ipotesi in cui il
rigetto sia stato fondato sulla soluzione
della questione logicamente pregiudiziale
(ad es.: rigetto dell’impugnativa di
licenziamento sul presupposto
dell’accertamento della natura autonoma
del rapporto) dall’ipotesi in cui il rigetto
sia fondato su ragioni diverse,
l’apprezzamento delle quali ha reso
irrilevante la questione pregiudiziale che
non è stata neppure affrontata (ad es.:
rigetto dell’impugnativa di licenziamento
fondato sull’accertata insussistenza del
requisito dimensionale).
Nella prima ipotesi il giudicato si
estenderà alla decisione sulla questione
pregiudiziale sicché dovrà intendersi
accertato, una volte per tutte, che il
rapporto non aveva natura di lavoro
subordinato ma aveva natura di lavoro
autonomo; nella seconda ipotesi la
questione della natura del rapporto,
rimasta impregiudicata, potrà formare
oggetto di un successivo processo45.
5. Le domande fondate su fatti costitutivi
identici a quelli posti a fondamento
dell’impugnativa di licenziamento.
Ai sensi dell’art.1, comma 48, l.
n.92/2012, “con il ricorso non possono
essere proposte domande diverse da
quelle di cui al comma 47, salvo che
siano fondate sugli identici fatti
costitutivi”.
Per essere cumulata
all’impugnativa di un licenziamento ed
essere trattata con il rito specifico, la
domanda diversa deve dunque essere
fondata sui medesimi fatti costitutivi.
Tenuto conto che gli elementi
identificativi dell’azione sono tre, il
primo soggettivo (personae) gli altri
oggettivi (petitum e causa petendi) e che
l’elemento soggettivo deve
necessariamente coincidere (in quanto le
parti sono sempre il lavoratore e il datore
di lavoro), è difficile ipotizzare una
diversità tra due domande caratterizzate
da una totale coincidenza di fatti
costitutivi, in quanto, identificati questi
ultimi nella causa petendi, residuerebbe,
quale unico elemento distintivo, il
petitum, nelle due forme di petitum
immediato (provvedimento giudiziale
45 In tal senso, cfr. SORDI, cit., 35.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
50
invocato) e di petitum mediato (bene
della vita avuto di mira)46.
Se, dunque, ai fini del simultaneus
processus, si pretendesse l’assoluta
identità tra i fatti costitutivi, la norma non
avrebbe alcuno spazio applicativo.
L’ interpretatio abrogans della
disposizione, tendendo ad escludere ogni
possibilità di cumulo, (anche
nell’ipotesi47 in cui alla domanda
principale, volta ad invocare
l’applicazione dell’art.18, sia
accompagnata la domanda subordinata,
volta ad invocare la meno penetrante
tutela di cui all’art.8 legge n.604/196648),
non terrebbe conto, inoltre, di
fondamentali esigenze di economia
processuale, determinando la necessità
46 Ed infatti si è prontamente osservato che con tale previsione il legislatore si è spinto ‹‹ai limiti dell’ossimoro›› (così CURZIO, cit., 7) e che ‹‹dal punto di vista processuale, ipotizzare che vi possano essere domande “diverse” fondate su “identici fatti costitutivi” è un nonsense›› perché ‹‹se i fatti costitutivi sono identici, anche la domanda è necessariamente identica›› (così LUISO, cit., 6).
47 Che – si prevede condivisibilmente – tenderà a verificarsi con sempre maggiore frequenza nella pratica giudiziaria ‹‹data la frammentazione della materia e le incertezze insite nel nuovo sistema›› (così CURZIO, ult. cit.).
48 È ben vero che a seguito della storica sentenza delle Sezioni unite n.141 del 2006 (cfr. Cass., Sez. un., 10 gennaio 2006 n.241, in Riv. dir. proc., 2006, 1437; Giur. it., 2006, 1829; Foro it., 2006, I, 704), seguita dalla successiva giurisprudenza della Sezione lavoro (Cass., Sez. lav., 16 marzo 2009, n.6344) , tra i fatti costitutivi del diritto vantato dal lavoratore (dei quali egli è chiamato a fornire la prova ai sensi dell’art.2697, primo comma, c.c.) non deve annoverarsi il requisito dimensionale richiesto per la tutela reale, atteso che il difetto di tale requisito rientra piuttosto tra i fatti impeditivi del diritto medesimo, che il datore di lavoro ha l’onere di provare ai sensi dell’art.2697, secondo comma, stesso codice, ma è altrettanto vero che a seguito della riforma dell’art.18 operata dalla legge Fornero, potrebbe anche essere sostenuta la tesi opposta, volta ad individuare nel requisito dimensionale un fatto costitutivo del diritto ad una delle tutele previste nelle disposizioni dei (“nuovi”) commi dal quarto al settimo della norma statutaria.
che siano presentati più ricorsi per la
delibazione di domande aventi contenuto
pressoché sovrapponibile o comunque
suscettibili di essere decise con
un’istruttoria comune.
Tende dunque a prevalere la tesi
secondo la quale, ai fini della
disposizione in esame, è sufficiente che
tra le due domande vi sia una comunanza
parziale di fatti costitutivi, la quale
consente di ritenere cumulabili
all’impugnativa di licenziamento ex
art.18 le domande che trovino comunque
fondamento, tra l’altro, nell’illegittimità
del recesso datoriale (come, ad es., la
domanda subordinata ex art.8 legge
n.604/1966) mentre impone di escludere
dalla cumulabilità le domande che non
presuppongono questa specifica
circostanza di fatto (ad es. la domanda di
differenze retributive)49.
49 CAVALLARO, cit., 5-7; CURZIO, ult. cit..
In tema v. anche VALLEBONA, cit., 73-74.
Particolarmente degna di nota, in questa prospettiva, è la tesi specifica sostenuta da SORDI, cit., 14-15, il quale, al fine di evitare le possibili conseguenze aberranti della soluzione interpretativa volta a ritenere sufficiente una comunanza meramente parziale dei fatti costitutivi, propone di distinguere i fatti costitutivi delle domande aventi ad oggetto le tutele di cui all’art.18 dello Statuto dei lavoratori in due categorie, quella dei fatti costitutivi comuni a tutte le forme di tutela contemplate dalla norma statutaria (esistenza del rapporto di lavoro subordinato e illegittimità dell’atto espulsivo) e quella dei fatti costitutivi specifici di singole forme di tutela previste dalla norma medesima (ad es. una delle fattispecie di nullità, che costituiscono il presupposto della tutela di cui al comma primo; l’insussistenza del fatto contestato che costituisce uno dei presupposti della tutela di cui al comma quarto; una delle fattispecie di inefficacia che costituiscono il presupposto della tutela di cui al comma sesto, ecc.).
Ai fini della cumulabilità della domanda diversa con quella avente ad oggetto la tutela ex art.18 e della simultanea trattazione di entrambi con il rito specifico, sarebbe necessaria e sufficiente – secondo il chiaro autore –
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
51
6. Le domande non fondate su fatti
costitutivi identici a quelli posti a
fondamento dell’impugnativa di
licenziamento: a) l’errore assoluto sul
rito.
Resta da esaminare il destino delle
domande fondate su fatti costitutivi
diversi da quelli posti a fondamento
dell’impugnativa di licenziamento che,
non rientrando nella categoria
contemplata dall’art.1, comma 48, legge
n.92/2012, non possono essere proposte
con il rito specifico, neppure unitamente
alla domanda di tutela ex art.18.
In proposito possono distinguersi
tre diverse ipotesi:
a) la domanda fondata su fatti
costitutivi diversi viene proposta con
ricorso ex art.1, comma 48, legge
92/2012, senza che sia cumulativamente
proposta una domanda di impugnativa di
licenziamento (in questo caso si ha un
errore assoluto sul rito, poiché la
domanda avrebbe dovuto essere proposta
la coincidenza dei fatti costitutivi appartenenti alla prima categoria, mentre non occorrerebbe che la comunanza si estenda anche agli altri.
Cumulabili, quindi, sarebbero quelle domande che, al pari di quella avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento, siano fondate (anche) sulla (dedotta) sussistenza, tra le parti, di un rapporto di lavoro subordinato e sulla (dedotta) illegittimità del recesso datoriale (ad es., la domanda subordinata ex art.8 legge n.604/1966 o la domanda di risarcimento dei danni ulteriori, eventualmente causati dal licenziamento illegittimo, alla salute o all’onore) mentre non sarebbero proponibili con il rito specifico le domande fondate su fatti che prescindono dall’illegittimità del recesso (ad es. la domanda di differenze retributive o di TFR).
con ricorso ex art.414 c.p.c., seguendo il
rito tradizionale del lavoro)50;
b) la domanda viene proposta con
ricorso ex art.1, comma 48, legge
Fornero, unitamente alla domanda avente
ad oggetto una delle tutele contemplate
dall’art.18 (in questo caso si ha un errore
relativo sul rito, che è quello giusto per
l’impugnativa di licenziamento ma non
per l’altra domanda, non essendo questa
cumulabile alla prima perché non fondata
sui medesimi fatti costitutivi);
c) la domanda viene proposta con
ricorso ex art.414 c.p.c., senza cumularla
a quella avente ad oggetto l’impugnativa
del licenziamento ex art.18, che viene
formulata separatamente con il nuovo rito
(in questa ipotesi, non vi è errore sul rito
e si determina la contemporanea
pendenza dinanzi al giudice del lavoro di
due cause tra le stesse parti, trattate con
riti diversi).
Esaminiamo analiticamente le tre
ipotesi.
Con riguardo alla prima (alla quale
deve assimilarsi la fattispecie, inversa ma
omologa, in cui una domanda di
impugnativa di licenziamento ex art.18
sia proposta con ricorso ex art.414 c.p.c.),
sebbene non manchi una tesi minoritaria
tendente a ritenere che la domanda
50 L’errore vi sarebbe anche nell’ipotesi in cui si trattasse di domanda cumulabile ex art.1, comma 48, perché fondata su fatti costitutivi identici a quelli che potrebbero essere posti a fondamento della domanda ex art.18: infatti, non essendo stata proposta in questo caso una simile domanda, non è possibile utilizzare il rito specifico per la domanda connessa.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
52
indebitamente formulata con il rito
specifico debba essere dichiarata
inammissibile51, l’opinione largamente
prevalente è dell’avviso che, in questo
caso, il giudice debba semplicemente
emettere un provvedimento di mutamento
di rito52.
Questa opinione deve essere
condivisa, in quanto, alla stregua dei
principi generali del nostro sistema
processuale, una decisione negativa in
rito si giustifica soltanto in presenza di un
51 In tal senso DE ANGELIS, cit., 15, e, tra le prime applicazioni giurisprudenziali, Trib. Monza 22 ottobre 2012.
La tesi trae argomento dal rilievo che alla trattazione delle controversie soggette al nuovo rito è stata riservata dal legislatore (art.1, comma 65, legge n.92/2012) una corsia preferenziale, per modo che l’utilizzazione strumentale del rito medesimo per la proposizione di domande diverse, essendo finalizzata a conseguire un indebito vantaggio, concreterebbe un vero e proprio abuso dello strumento processuale, da sanzionarsi con una pronuncia di inammissibilità.
Al medesimo risultato potrebbe giungersi sulla base dell’interpretazione analogica dell’art.702 ter, secondo comma, c.p.c., che, con riguardo al rito sommario indebitamente utilizzato per introdurre una causa non rientrante tra quelle indicate nel precedente art.702 bis, prevede che il giudice dichiari l’inammissibilità della domanda con ordinanza non impugnabile.
L’applicazione analogica dell’art.702 ter, secondo comma, c.p.c. sembra peraltro trovare un ostacolo insormontabile nella circostanza che l’introduzione della causa nelle forme del procedimento sommario di cognizione, allorché la legge lo consente, costituisce l’oggetto di una facoltà riconosciuta alla parte, mentre il nuovo rito per i licenziamenti, secondo l’opinione pressoché unanime dei primi commentatori, ha carattere indisponibile in ragione della natura pubblicistica dell’interesse in esso tutelato (in tal senso, BOLLANI, cit., 315; CAVALLARO, cit., 3; CURZIO, cit., 9; DE ANGELIS, cit., 11, LUISO, cit., 7; RIVERSO, cit., 1. In senso contrario, CONSOLO-RIZZARDO, 735. Peculiare la posizione di SORDI, cit., 6-7, il quale, pur propendendo per il carattere obbligatorio del rito, ritiene che le parti, con il loro ‹‹comune consenso››, possano “saltare” la fase sommaria, iniziando il processo dalla fase di opposizione).
52 LUISO, cit., 8; CURZIO, cit., 8; SORDI, cit., 39-42.
vizio insanabile derivante dalla mancanza
di un presupposto processuale o di una
condizione dell’azione oppure da una
nullità di un atto processuale che non può
raggiungere lo scopo cui è destinato53.
D’altra parte, normalmente
l’ordinamento prevede, per rimediare
all’errore sul rito, l’apposito istituto del
mutamento del rito e dalla circostanza
che tale rimedio non sia stato
espressamente contemplato nell’ambito
della stringata disciplina del nuovo
procedimento per i licenziamenti non può
inferirsi come conseguenza che in questa
specifica ipotesi l’errore sul rito conduca
ad una pronuncia di inammissibilità della
domanda, dovendo invece vedersi in
questa omissione una delle tante lacune
della predetta disciplina, da colmarsi
attraverso il ricorso alle regole previste
per i procedimenti contigui.
Ciò posto, si pone dunque il
problema se per disporre il mutamento di
rito, il giudice debba utilizzare lo
strumento posto a disposizione dagli
artt.426 e 427 c.p.c.54 oppure se debba
utilizzare lo strumento previsto dall’art.4
d.lgs. n.150/201155.
53 Cfr. LUISO, ult. cit., il quale, richiamando Proto Pisani, Andrioli e Chiovenda (nota 29), evidenzia che ‹‹il processo deve tendere, laddove possibile, ad una decisione di merito e limitare le pronunce di mero rito ai casi strettamente necessari: quelli, cioè, in cui il vizio processuale è insanabile››; cosa che – aggiunge l’illustre autore – non si verifica nell’ipotesi di mero errore di rito perché in tale ipotesi ‹‹il vizio è sanabile appunto con il passaggio dal rito sbagliato a quello giusto››.
54 Come vuole LUISO, cit., 10.
55 Come ritiene SORDI, ult. cit., particolarmente 40-41.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
53
La questione non assume
particolare rilevanza perché in entrambi i
casi il processo proseguirà con il rito
giusto.
Può comunque rilevarsi che in
favore della prima soluzione milita il
rilievo che essa è l’effetto
dell’applicazione del corretto criterio
metodologico sopra indicato56, che
impone di ricercare la fonte di
integrazione della disciplina del rito
speciale nell’ordinario processo del
lavoro.
In favore della seconda soluzione
milita invece il rilievo che lo strumento
contemplato nell’art.4 d.lgs. n.150/2011
ha una portata generale, come tale
tendenzialmente applicabile a tutte le
ipotesi di errore sul rito, mentre gli
artt.426 e 427 c.p.c. hanno una portata e
un ambito di applicazione specifici, in
quanto regolano il passaggio dal rito
civile ordinario al rito speciale del lavoro
e viceversa.
7. (Segue): b) il cumulo di domande.
L’errore relativo sul rito.
La seconda ipotesi da esaminare,
come si è accennato, è quella – che
verosimilmente assumerà maggiore
rilevanza nella pratica – in cui vengano
cumulate, attraverso il ricorso ex art.1,
56 V., supra, par.1.
comma 48, legge n.92/2012, domande da
trattare con il nuovo rito (in quanto aventi
ad oggetto un’impugnativa di
licenziamento e la richiesta di una delle
tutele di cui all’art.18 dello Statuto dei
lavoratori) e domande da trattare con il
rito ordinario del lavoro (in quanto non
fondate sui medesimi fatti costitutivi
posti a fondamento delle prime, nel senso
che si è sopra precisato57: ad es.,
domande di differenze retributive, di
TFR, ecc.).
Questa ipotesi (alla quale deve
essere assimilata la fattispecie, inversa
ma omologa, in cui attraverso il ricorso
ex art.414 c.p.c., oltre a domande da
trattare con il rito ordinario del lavoro,
vengano formulate domande da trattare
con il rito specifico di cui ai commi 47-68
della legge Fornero) determina un errore
relativo sul rito, il quale è correttamente
individuato soltanto per una delle
domande cumulate mentre è sbagliato per
l’altra.
Al riguardo, deve senz’altro
escludersi la possibilità di fare
applicazione della disposizione contenuta
nell’art.40, comma terzo, c.p.c. che
imporrebbe la trattazione delle cause
cumulativamente proposte con il rito
codicistico del lavoro.
Tale disposizione, infatti, opera nei
casi di connessione qualificata (atta a
determinare modificazioni della
competenza) ai sensi degli artt.31, 32, 34,
57 V., supra, par.5.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
54
35 e 36 del codice di procedura civile,
mentre, nell’ipotesi in esame non sussiste
alcuna connessione, integrandosi un mero
cumulo oggettivo ai sensi dell’art.104
stesso codice58.
Ciò vale, ad avviso di chi scrive,
anche con riguardo al caso in cui
all’impugnativa di licenziamento sia
cumulata la domanda autonoma di
accertamento della natura subordinata del
rapporto di lavoro, la quale, come si è
veduto59, per un verso, deve essere
sottratta all’ambito di operatività
dell’ultimo inciso del comma 47
dell’art.1 legge Fornero (che si riferisce
alle sole questioni logicamente
pregiudiziali e non anche alle vere e
proprie domande) e, per altro verso, è
legata all’impugnativa di licenziamento
da un nesso di mera pregiudizialità
logica, al quale, diversamente dalla
pregiudizialità tecnica, non si applica, per
giurisprudenza consolidata, l’art.34
c.p.c.60
58 La tesi circa l’inapplicabilità al cumulo di domande della disposizione contenuta nell’art.40, comma terzo, c.p.c. è condivisa da SORDI, cit., 45.
59 V., supra, par.4.
60 In senso contrario, peraltro, v., autorevolmente, LUISO, cit., 5, il quale, come si è già veduto (supra, par.4, nota 38), da un lato, ritiene che la domanda pregiudizialmente connessa di accertamento della natura subordinata del rapporto sia cumulabile, ex art.1, comma 47, ultima parte, all’impugnativa di licenziamento e, dall’altro lato, evidenzia che, in mancanza della predetta disposizione, il processo sull’impugnativa di licenziamento, da trattarsi con il nuovo rito, dovrebbe essere sospeso in attesa della decisione sulla domanda pregiudiziale o, in alternativa, essere trattato unitamente a quest’ultima, previa attrazione al rito del lavoro, ex art.40, comma terzo, c.p.c..
Esclusa l’applicabilità dell’art.40,
comma terzo, c.p.c., in questa ipotesi,
diversamente da quella esaminata in
precedenza di errore assoluto sul rito,
sembra risultare maggiormente condivisa,
tra i primi commentatori61, la tesi
secondo la quale, quanto meno nella fase
sommaria del procedimento, il giudice
deve dichiarare l’inammissibilità della
domanda indebitamente cumulata
all’impugnativa di licenziamento e non
fondata sui medesimi fatti costitutivi.
Per affermare questa tesi, vengono
fondamentalmente utilizzati due
argomenti, l’uno di carattere letterale
l’altro di carattere logico.
Sotto il profilo letterale si trae
argomento dal tenore testuale del secondo
periodo del comma 48 dell’art.1
l.n.92/2012, il quale perentoriamente
dispone che “non possono essere
proposte domande diverse da quelle di
cui al comma 47 del presente articolo,
salvo che siano fondate sugli identici fatti
costitutivi”.
La previsione di un vero e proprio
divieto, si rileva, deve necessariamente
condurre ad una pronuncia di
61 Cfr., ad es., SORDI che, con riguardo all’ipotesi di errore assoluto sul rito, aderisce, come si è veduto (v. par. precedente), alla tesi secondo la quale il giudice deve emettere l’ordinanza di mutamento di rito, ai sensi dell’art.4 d.lgs. n.150/2011, mentre, con riguardo all’ipotesi di errore relativo sul rito in seguito al cumulo di domande, ritiene (cit., 46) che ‹‹l’unica soluzione che sembra coerente con la disciplina del nuovo rito definita dal legislatore è quella in base alla quale il giudice, con l’ordinanza conclusiva della fase “urgente”, decide nel merito le domande ammissibili e dichiara l’inammissibilità di tutte le altre››, non apparendo ‹‹possibile, invece, una separazione delle cause con conversione del rito per quelle extra art.1, comma 48››.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
55
inammissibilità della domanda formulata
in violazione dello stesso.
Sotto il profilo logico, si trae
argomento dalla disciplina dettata per la
domanda riconvenzionale dal comma 56,
secondo il quale “quando la causa
relativa alla domanda riconvenzionale
non è fondata su fatti costitutivi identici a
quelli posti a base della domanda
principale il giudice ne dispone la
separazione”.
La circostanza che questa
disposizione, al pari di quella relativa alla
chiamata di terzo (comma 54), sia dettata
esclusivamente con riguardo alla fase di
opposizione determinerebbe, infatti, due
ordini di conseguenze.
La prima conseguenza
consisterebbe in ciò che tali domande
(riconvenzionale e chiamata di terzo)
sarebbero ammissibili solo nella fase a
cognizione piena e non anche nella fase
urgente, in cui l’esigenza di giungere nel
più breve tempo possibile ad una
pronuncia in ordine alla legittimità o
illegittimità del recesso renderebbe
inammissibile il cumulo.
La seconda conseguenza
consisterebbe in ciò che la sanzione di
inammissibilità dovrebbe colpire anche
qualsiasi altra domanda indebitamente
cumulata all’impugnativa di
licenziamento in mancanza dei
presupposti previsti dal comma 48,
sempre in ragione delle esigenze di
rapidità che connotano l’accertamento
della fase sommaria, le quali rendono
intollerabile qualsiasi appesantimento
non espressamente consentito; soltanto
nella fase di opposizione, dunque,
analogamente a quanto espressamente
previsto per la domanda riconvenzionale,
potrebbe porsi il problema della
separazione della domanda indebitamente
cumulata non fondata sugli stessi fatti
costitutivi posti a fondamento
dell’impugnativa di licenziamento,
mentre nella fase urgente il giudice
dovrebbe senz’altro orientarsi per una
pronuncia di inammissibilità62.
Nessuno degli argomenti esaminati
appare convincente.
Quanto a quello letterale, è
evidente che da esso può trarsi
unicamente il rilievo che esiste il divieto
di proporre con il rito specifico domande
fondate su fatti costitutivi diversi da
quelli posti a base dell’impugnativa del
licenziamento, ma non può trarsi alcuna
indicazione in ordine alle conseguenze
della violazione dello stesso e, in
particolare, in ordine alla sanzione
processuale applicabile, che non
necessariamente deve consistere nella
62 Secondo SORDI, ult. cit., ‹‹la normativa dettata dalla legge n.92 del 2012 … offre chiari ed inequivoci elementi che depongono nel senso dell’incompatibilità con il nuovo rito di qualsiasi “complicazione” della prima fase, la quale è finalizzata esclusivamente alla delibazione della domanda di impugnazione del recesso datoriale (e, per comprensibili ragioni di economia processuale, di quelle fondate sui medesimi fatti costitutivi), con inevitabile dichiarazione di inammissibilità per tutte le altre domande eventualmente formulate dalle parti››.
In senso conforme, CAVALLARO, cit., 6.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
56
declaratoria di inammissibilità della
domanda63.
L’argomento volto a richiamare ed
estendere il regime della domanda
riconvenzionale, invece, non tiene conto
della circostanza che esso, analogamente
a quello della chiamata di terzo, trova
fondamento negli effetti processuali della
proposizione di tale domanda.
Sebbene non sia espressamente
richiamato, infatti, non vi può essere
dubbio – non solo in applicazione del
criterio ermeneutico che impone di
ricercare nel rito tradizionale del lavoro le
regole integrative della lacunosa
disciplina speciale ma anche (e
soprattutto) in considerazione della
circostanza che si tratta di norma posta a
garanzia del contraddittorio – che,
nell’ipotesi di formulazione di una
domanda riconvenzionale, trovi
applicazione l’art.418 c.p.c.64, con
conseguente necessità di spostamento
dell’udienza di discussione fissata a
norma dell’ultimo periodo del comma 51.
63 Incisivo, al riguardo l’esempio offerto da LUISO, cit., 10, il quale, dopo aver affermato che anche la fattispecie dell’errore relativo sul rito per cumulo di domande è governata dalla regola che impone al giudice di emettere un semplice provvedimento di mutamento di rito (qui preceduto da una separazione delle domande non soggette al procedimento specifico) evidenzia che, se da un lato ‹‹è vero che il comma 48 stabilisce che esse non possono essere “proposte”››, dall’altro lato ‹‹è anche vero che ciò non significa che, ove proposte, debbano essere inesorabilmente rigettate in rito››, concludendo che ‹‹anche l’art.102 c.p.c. stabilisce che, ove si abbia litisconsorzio necessario, tutti i litisconsorti debbono agire o essere convenuti nello stesso processo: ma se ciò non accade, si ha non già il rigetto in rito della domanda, sibbene la sua sanatoria sulla base del secondo comma della stessa norma››.
64 Sul punto v. CURZIO, cit., 14.
Deve dunque condividersi il
rilievo che la domanda riconvenzionale
(al pari della domanda per chiamata di
terzo) non è ammissibile nella fase
sommaria ma deve anche precisarsi che la
ragione della scelta legislativa va
ricercata proprio negli effetti processuali
della proposizione di tali domande, le
quali, per esigenze connesse con
l’attuazione del contraddittorio,
determinano necessariamente lo
spostamento in avanti dell’udienza di
discussione (spostamento specificamente
previsto a seguito della chiamata di terzo:
art.1, comma 54, legge n.92/2012) e il
conseguente allungamento dei tempi di
trattazione del procedimento.
Esse domande, dunque, non
appaiono compatibili con le esigenze di
celerità che contraddistinguono la fase
sommaria, sicché ove indebitamente
proposte in tale fase, andranno dichiarate
inammissibili.
Questo regime, peraltro, non può
essere analogicamente esteso alle altre
domande indebitamente cumulate
all’impugnativa di licenziamento in
difetto dei presupposti di cui al comma
48, in quanto, diversamente dalla
domanda riconvenzionale e dalla
domanda per chiamata di terzo, la loro
proposizione non determina lo
spostamento dell’udienza.
Si conferma, dunque, che per tali
ulteriori domande, l’errore sul rito deve
trovare il rimedio ordinariamente previsto
dall’ordinamento e conforme ai principi
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
57
generali del nostro sistema processuale,
vale a dire l’ordinanza di mutamento di
rito, previa separazione delle cause65.
D’altra parte, la tesi che afferma
l’inammissibilità delle domande non
fondate sui medesimi fatti costitutivi
posti a base dell’impugnativa ex art.18
Statuto dei lavoratori, trovando
fondamento, in ultima analisi, sulla
ritenuta incompatibilità di queste
domande con le esigenze di rapidità della
fase sommaria del nuovo procedimento,
non può essere sostenuta in relazione
all’ipotesi inversa in cui la domanda ex
art.18 sia indebitamente cumulata, con un
ricorso ex art.414 c.p.c., ad una domanda
da trattare con il rito tradizionale del
lavoro66.
Secondando questa tesi, dunque, si
cade nell’incoerenza di prevedere, per la
fattispecie dell’errore relativo sul rito, un
regime differenziato a seconda della
direzione in cui l’errore venga commesso.
Altra incoerenza, infine, è quella
per cui l’errore relativo sul rito finisce per
essere sanzionato in maniera più grave
dell’errore assoluto sul rito, in relazione
al quale, come si è sopra veduto67,
65 Su questa linea, oltre a LUISO, ult. cit., sembra porsi anche CURZIO, cit., 9, il quale richiama il principio di conservazione ‹‹che impone al giudice, in presenza di errore sul rito, di non azzerare il processo, ma di adottare i provvedimenti necessari per consentirne la prosecuzione››.
66 In questa diversa ipotesi, infatti, si ammette che il giudice, dopo aver fissato l’udienza di discussione ai sensi dell’art.420 c.p.c., disponga la separazione delle cause e il conseguente mutamento di rito per l’impugnativa di licenziamento, proseguendo con il rito tradizionale del lavoro per l’altra domanda (SORDI, ult. cit.).
67 V. par. precedente.
l’opinione che ritiene applicabili le norme
sul mutamento di rito (di volta in volta
identificate negli art.426 e 427 c.p.c. o
nell’art.4 d.lgs. n.150/2011) è pressoché
generalmente condivisa, pur non
mancando autorevoli prese di posizione
di segno contrario.
8. (Segue): c) la mancanza di errore sul
rito. La contemporanea pendenza
dinanzi al medesimo giudice del lavoro
di più cause soggette a riti differenti.
La terza possibilità concerne la
fattispecie in cui il lavoratore abbia
correttamente proposto la domanda di
tutela ex art.18, avverso il recesso
datoriale reputato illegittimo, seguendo il
rito specifico previsto dalla legge
n.92/2012; e la domanda fondata su fatti
costitutivi diversi (ad es. la domanda di
condanna al pagamento di differenze
retributive o la domanda di
riconoscimento di mansioni superiori,
ecc.) seguendo il normale rito del lavoro.
In questo caso non si ha errore sul
rito ma ci si deve chiedere se, data la
pendenza, dinanzi al medesimo giudice,
di più cause tra le stesse parti, queste
possano essere riunite per essere trattate
nello stesso processo oppure se la
trattazione deve procedere separatamente.
Il tradizionale orientamento
giurisprudenziale – del resto conforme ai
principi generali dell’ordinamento
processuale – è nel senso di favorire, per
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
58
quanto possibile, il simultaneus
processus, in funzione sia della
salvaguardia di esigenze di economia
processuale (si pensi all’ipotesi in cui più
domande possano essere delibate sulla
base di un’istruttoria parzialmente o
totalmente comune) sia della prevenzione
di possibili contrasti logici tra le diverse
pronunce (si pensi all’ipotesi in cui, pur
non ricorrendo un’identità di azione e pur
non operando i limiti connessi al
principio del ne bis in idem, la decisione
dipenda dalla soluzione di una o più
questioni comuni).
Così, anche quando non si
integrino i presupposti per l’operatività di
regole specifiche dettate in relazione a
particolari tipologie di controversie68, la
giurisprudenza di legittimità tende ad
assicurare il simultaneus processus,
mediante un’ interpretazione ampia della
nozione di continenza ai sensi e per gli
effetti dell’art.39, secondo comma, c.p.c.,
la quale viene ritenuta sussistente non
solo nell’ipotesi classica di identità di
personae e causa petendi con differenza
del petitum sotto il profilo quantitativo,
ma anche nell’ipotesi in cui la decisione
delle diverse cause presupponga la
68 Nelle controversie in materia di lavoro e di previdenza, assume particolare rilevanza la disposizione di cui all’art.151 disp. att. c.p.c., che prevede la necessità di una riunione delle cause, salve le ipotesi in cui ne derivi l’eccessiva gravosità o il ritardo del processo, quando esse siano “connesse anche soltanto per identità delle questioni dalla cui risoluzione dipende, totalmente o parzialmente, la loro decisione”.
soluzione anche di una sola questione ad
esse comune69.
Tale possibilità è preclusa
nell’ipotesi in cui la comunanza di
questioni si ponga in relazione a domande
assoggettate al rito specifico di cui
all’art.1, commi 47-68, legge n.92/2012 e
domande assoggettate al rito tradizionale
del lavoro, in quanto l’introduzione del
nuovo rito tende ad assicurare proprio la
trattazione separata della cause, in
funzione della fondamentale esigenza, di
69 Cfr., ad es., Cass.1° ottobre 2007, n.20596, in Riv. dir. proc., 2008, 1759: “ai sensi dell'art. 39, comma secondo, cod. proc. civ., la continenza di cause ricorre non solo quando due cause siano caratterizzate da identità di soggetti (identità non esclusa, peraltro, dalla circostanza che in uno dei due giudizi sia presente anche un soggetto diverso) e di titolo e da una differenza quantitativa dell’oggetto, ma anche quando fra le cause sussista un rapporto di interdipendenza, come nel caso in cui sono prospettate, con riferimento ad un unico rapporto negoziale, domande contrapposte o in relazione di alternatività e caratterizzate da una coincidenza soltanto parziale delle “causae petendi”, nonché quando le questioni dedotte con la domanda anteriormente proposta costituiscano il necessario presupposto (alla stregua della sussistenza di un nesso di pregiudizialità logico-giuridica) per la definizione del giudizio successivo, come nell’ipotesi in cui le contrapposte domande concernano il riconoscimento e la tutela di diritti derivanti dallo stesso rapporto e il loro esito dipenda dalla soluzione di una o più questioni comuni. (Nella specie, in applicazione dell’enunciato principio, le Sezioni unite hanno ritenuto la sussistenza di un rapporto di continenza tra la domanda proposta da un istituto di credito nei confronti del correntista, avente ad oggetto il pagamento del saldo negativo del conto, e quella proposta dal correntista nei riguardi della banca, avente ad oggetto l’accertamento della nullità della clausola che fissava gli interessi in misura ultralegale e di quella di capitalizzazione degli stessi).
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
59
rilievo pubblicistico, che la rimozione, ad
opera del giudice, della situazione di
incertezza generatasi sulla legittimità o
meno di un licenziamento assistito da una
delle tutele di cui all’art.18 dello Statuto
dei lavoratori, sia operata nel più breve
tempo possibile70.
70Nello stesso senso, per il rilievo che la disciplina dell’art.39 c.p.c. non è applicabile all’ipotesi in cui vi sia contemporanea pendenza di più cause, l’una delle quali da trattarsi con il nuovo rito per i licenziamenti, v. SORDI, cit., 18 secondo il quale ‹‹la norma del codice di rito›› è ‹‹incompatibile con la disciplina specificamente dettata dalla legge n.92››.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
60
di Luigi Viola Sommario: 1. Il nuovo appello filtrato - 2. Le critiche della prima dottrina - 3. L’udienza filtrante - 4. Il nuovo atto di appello motivato - 4.1. Eliminazione del riferimento all’esposizione sommaria dei fatti - 4.2. Dagli specifici motivi alla motivazione - 5. I primi orientamenti giurisprudenziali - 5.1. L’orientamento romano - 5.2. Il preferibile orientamento milanese - 6. La pronuncia 1041/2013 del Tribunale di Vasto - 6.1. Profili critici - 7. Conclusioni e Strategie
1. Il nuovo appello filtrato
L’art. 111 Cost. delinea a chiare lettere il percorso che il legislatore ordinario deve seguire per rendere il processo giusto: bisogna assicurare qualità (anche per la vie del contraddittorio, parità, giudice terzo ed imparziale) e ragionevole durata.
Entrambi gli enunciati vanno rispettati, senza che l’uno possa essere sacrificato per realizzare l’altro[1].
In questo quadro normativo, si innesta la riforma sull’appello filtrato, di cui alla legge 134/2012: è un nuovo istituto volto a selezionare le cause meritevoli di andare avanti, in quanto fondate su una ragionevole probabilità di accoglimento, rispetto a quelle immeritevoli.
Le novità sono molteplici ed incidono sia sull’atto che sul procedimento in senso stretto:
-sull’atto perché è richiesta una redazione più mirata su come si vorrebbe fosse la pronuncia impugnata, piuttosto che solo sul cosa non va; ciò in quanto è scritto che l’atto deve contenere, a pena di inammissibilità, l’indicazione “delle modifiche che vengono
Nuovo appello filtrato: primi orientamenti e strategie
Dottrina &
Opinioni
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
61
richieste alla ricostruzione del fatto”, ex art. 342 n. 1 c.p.c.;
-sull’atto perchè vengono bandite del tutto critiche meramente teoriche, dovendosi spiegare la rilevanza di quanto dedotto al fine di ottenere una pronuncia più favorevole; ciò è desumibile dall’inciso “loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”, ex art. 342 n. 2 c.p.c.
-sul procedimento in quanto è previsto che la prima udienza sia anche filtrante, ove approfondire la presenza di almeno una probabilità di successo; difatti, per gli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c., il giudice competente, sentite le parti, dichiara inammissibile l’impugnazione quando “non ha una ragionevole probabilità di essere accolta”.
Ruolo fondamentale – pur se non dirimente – andrà assumendo il riferimento ai precedenti giurisprudenziali, sia perché idoneo a provare una probabilità di successo, e sia perché il giudice può appoggiare la propria motivazione anche solo sulla sussistenza di questi, ex art. 348 ter c.p.c.: sio sta andando de facto verso un sistema di common law misto a civil law[2].
2. Le critiche della prima dottrina
La dottrina – da subito – è stata critica sulla riforma.
Alcuni[3] si sono chiesti se sia davvero possibile pretendere dal collegio giudicante una capacità di selezionare, a colpo d’occhio, gli appelli seri dagli altri: è realistico auspicare e pretendere che alla prima udienza si possa, da un giudice collegiale, in un mare di gravami malamente fascicolati, con infallibile e subitaneo colpo d’occhio, di cui è rara finora la evidenza proprio in appello, secernere gli appelli privi di serietà dagli altri?
L’immediata ricorribilità della sentenza di primo grado provocherà un ulteriore appesantimento del carico di lavoro della
Corte di cassazione, già sovraccarica oltre misura[4]; il parametro di giudizio che l’impugnazione non abbia una “ragionevole probabilità di essere accolta” concede un margine di apprezzamento eccessivo al giudice dell’impugnazione, poiché gli consente di dichiarare inammissibile un’impugnazione che pur abbia una probabilità di essere accolta, sol che questa probabilità sia a suo giudizio non “ragionevole[5]”. Non si sa bene che cosa ciò significhi in via generale ed astratta. Lo si potrà sapere solo dopo aver letto la succinta motivazione dell’ordinanza che reca questo giudizio[6].
Per altra dottrina[7], la riforma del filtro indurrà “ragionevolmente” i giudici a comportarsi come hanno sempre fatto, così in concreto non tenendo conto della novella: non ci si può esimere dall’osservare che i giudici di appello, già sommersi di lavoro in conseguenza dell’inutile e dannosa introduzione generalizzata del giudice unico di primo grado, non trarranno dalle nuove norme particolari benefici. Infatti, per poter decidere alla prima udienza e preliminarmente alla trattazione se l’appello non ha una ragionevole probabilità di essere accolto, dovranno studiarsi a fondo subito tutte le cause perché solo così potranno delibare quella ragionevole “possibilità” e provvedere in conseguenza. E’ facile, pertanto, prevedere che, salvo casi limite di mera scuola, quei giudici non applicheranno mai la nuova norma e salteranno a piè pari l’ordinanza succintamente motivata continuando ragionevolmente a comportarsi come al solito.
3. L’udienza filtrante
La novità più dirompente, almeno a prima vista, emerge dalla lettera del nuovo art. 348 bis c.p.c.: fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l'inammissibilita' o l'improcedibilita' dell'appello, l'impugnazione e' dichiarata inammissibile dal giudice competente quando non ha una ragionevole probabilita' di essere accolta.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
62
Tale enunciazione non vale per le cause in cui è obbligatoria la presenza del pubblico ministero e nel grado di appello[8] ad ordinanza decisoria conclusiva di rito sommario di cognizione, ex art. 702 quater c.p.c.
All'udienza di cui all'articolo 350 c.p.c. il giudice, prima di procedere alla trattazione, sentite le parti, dichiara inammissibile l'appello, a norma dell'articolo 348 bis, comma 1° c.p.c., con ordinanza succintamente motivata, anche mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o piu' atti di causa e il riferimento a precedenti conformi.
Quando e' pronunciata l'inammissibilità, contro il provvedimento di primo grado puo' essere proposto, a norma dell'articolo 360 c.p.c., ricorso per Cassazione.
In tal caso, il termine per il ricorso per Cassazione avverso il provvedimento di primo grado decorre dalla comunicazione o notificazione, se anteriore, dell'ordinanza che dichiara l'inammissibilita'.
L'ordinanza di inammissibilita' e' pronunciata solo quando sia per l'impugnazione principale che per quella incidentale di cui all'articolo 333 c.p.c. ricorrono i presupposti di cui al primo comma dell'articolo 348 bis c.p.c.; in mancanza, il giudice procede alla trattazione di tutte le impugnazioni comunque proposte contro la sentenza; in pratica: o entrambe le impugnazioni sono inammissibili, così da dichiarare l’inammissibilità, oppure deve essere dichiarata l’ammissione (in caso di ammissibilità solo di una impugnazione); non c’è spazio per l’inammissibilità parziale.
Tutto quanto detto vale anche per il rito del lavoro.
4. Il nuovo atto di appello motivato
Il nuovo art. 342 c.p.c. appare radicalmente modificato, si ritiene[9] anche nella sostanza.
Sono stati abrogati i riferimenti espressi:
all’esposizione “sommaria dei fatti”;
agli “specifici motivi”.
4.1. Eliminazione del riferimento all’esposizione sommaria dei fatti
Per quanto riguarda l’eliminazione dell’esposizione sommaria dei fatti (voluta, secondo alcuni[10], per allinearsi al nuovo art. 132 c.p.c. che si accontenta della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto), si ritiene che – ciononostante - il riferimento ai fatti vada scritto, ai fini dell’ammissibilità dell’appello; ciò in quanto:
è vero che il riferimento all’esposizione sommaria dei fatti è stato espunto dall’art. 342 c.p.c., ma resta il rinvio alle prescrizioni dell’art. 163 c.p.c. che al n. 4 pretende l’esposizione dei fatti, neanche in via “sommaria”; ciò vuol dire che con il pregresso art. 342 c.p.c. la narrazione era sommaria in quanto si derogava a quanto espressamente sanciva l’art. 163 c.p.c., ma - venuta meno la narrazione sommaria – si ha una sorta di “riespansione” del predicato dell’art. 163 c.p.c.; più chiaramente, la novella ha eliminato l’eccezionalità della sommarietà, così facendo rientrare l’appello nei binari dell’ordinarietà scolpiti all’art. 163 c.p.c.;
altresì, lo stesso art. 342 c.p.c., come innovato, esige l’indicazione delle “modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto”; id est: bisogna indicare cosa si vuole venga modificato della ricostruzione fatta dal primo giudice a proposito del fatto e, dunque, per poter spiegare cosa si vuole, bisogna anche indicare come sono andate le cose, ovvero i fatti;
la ratio è comunque salvaguardata dalla presenza solo di fatti e diritti rilevanti, visto che al n. 2 dell’art. 342 c.p.c. è scritto “l'indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”;
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
63
una lettura diversa sarebbe contraria alla lettera della legge e l’interpretazione letterale prevale sulle altre[11], ex art. 12 delle Preleggi.
4.2. Dagli specifici motivi alla motivazione
Sono stati eliminati i riferimenti agli specifici motivi d’appello.
Invero, l’art. 342 c.p.c. è passato dalla pretesa degli “specifici motivi” a quella della “motivazione”
E’ motivazione e non più motivi specifici perché accanto alle critiche, l’atto di appello dovrà contenere le “proposte di modifica”, così assomigliando di più ad un provvedimento giurisdizionale (in particolare, sentenza) che ad un atto di parte (normalmente è il primo che deve essere motivato): l’atto di appello deve essere costruito come una sorta di “proposta di sentenza[12]”.
Proprio in questa direzione si è espressa la prima ed autorevolissima giurisprudenza[13] (confermando l’impostazione esposta dallo scrivente prima della pronuncia[14]), secondo cui l’atto di appello motivato deve essere redatto in modo più organico e strutturato rispetto al passato, quasi come una sentenza: occorre infatti indicare esattamente al giudice quali parti del provvedimento impugnato si intendono sottoporre a riesame e per tali parti quali modifiche si richiedono rispetto a quanto formato oggetto della ricostruzione del fatto compiuta dal primo giudice.
Pertanto, non è fuori luogo affermare che il nuovo atto di appello di cui all’art. 342 c.p.c. deve contenere una parte “rescindente ed una rescissoria”, ovvero sia criticare e sia costruire.
Prima della novella l’atto processuale era essenzialmente costruito in “modo rescindente” perché si colpiva solo la sentenza di primo grado indicando cosa non andava, trovando linfa legittimante nell’inciso “esposizione sommaria dei fatti ed i motivi
specifici”: i motivi potevano limitarsi ad evidenziare i contrasti diretti con la legge, ovvero indiretti (ad esempio nei casi di aporie logiche non superabili).
Oggi la motivazione, pretesa dall’art. 342 c.p.c., impone una rivisitazione delle vecchie formule di atto di appello: bisognerà redigere l’atto con una parte rescindente ed una rescissoria, ovvero una parte che critica, spiegandone il “perché”, ed un’altra che “costruisce” la versione fattuale che si auspica.
L’atto di appello diviene – per questa via – rescindente e rescissorio.
In favore di questa affermazione possono evidenziarsi i rilievi che:
l’atto deve contenere, a pena d’inammissibilità, l’indicazione delle parti del provvedimento appellate (parte rescindente);
l’atto deve contenere, a pena d’inammissibilità, l’indicazione delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado (parte rescissoria);
è pretesa una motivazione dell’atto, in luogo dei precedenti specifici motivi, così allineando l’atto di parte al provvedimento del giudicante e, normalmente, questo presenta una parte rescissoria; pertanto si è passati dai “motivi” alla “motivazione” proprio perché l’atto di appello oggi deve contenere pure una parte rescissoria.
E’ aumentata la simmetria – anche in senso formale, in questo caso - tra chiesto e pronunciato, predicata dall’art. 112 c.p.c.
5. I primi orientamenti giurisprudenziali
L’atto di appello motivato, si è detto, deve avere una ragionevole probabilità di accoglimento; in difetto di questa, l’atto potrà essere dichiarato inammissibile ex art. 348 ter
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
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c.p.c., con l’ulteriore aggravio economico introdotto dalla L. 228/2012[15] (in base al quale la parte – che si vede respinta la domanda di impugnazione – e’ tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione).
Non è del tutto chiaro come debba essere decodificato l’inciso “una ragionevole probabilità di essere accolta”, ex art. 348 ter c.p.c.
5.1. L’orientamento romano
E’ stato evidenziato[16] che l’appello non ha ragionevoli probabilità di accoglimento quando è prima facie infondato, così palesemente infondato da non meritare che siano destinate ad esso le energie del servizio giustizia, che non sono illimitate.
La pretesa ad una ragionevole probabilità di accoglimento potrebbe ben coincidere con quella di manifesta infondatezza: il giudice alla prima udienza, sentite le parti, valuterebbe la fondatezza della questione presentata ed in caso di “manifesta infondatezza” dovrebbe emettere un’ordinanza, succintamente motivata, di inammissibilità.
In pratica: “una ragionevole probabilità” sarebbe nozione equivalente a quella di “non manifesta infondatezza”; se la pretesa è manifestamente infondata, allora non ha neanche un ragionevole probabilità di accoglimento.
Tale interpretazione è essenzialmente di tipo logico.
Pur ritenendo complessivamente corretta tale lettura, ciononostante, non si ritiene di assecondarla perché:
la ragionevole probabilità richiede un’indagine più penetrante che deve andare un po’ oltre ciò che si manifesta; per cogliere una probabilità – si ritiene – bisogna approfondire di più che se si trattasse solo della “manifesta
infondatezza”, tant’è che è richiesto di ascoltare le parti proprio al fine di fare un minimo di indagine;
la manifesta infondatezza è prevista in sede inammissibilità del ricorso in Cassazione ex art. 360 bis c.p.c., così evidenziando che quando il legislatore ha “parlato” di manifesta infondatezza, lo ha fatto espressamente, con la conseguenza logica che, laddove ha utilizzato una terminologia diversa, ha voluto intendere altro; pertanto, parificare l’assenza di “una ragionevole probabilità” alla “manifesta infondatezza” è errato sul piano ermeneutico, finendo per trattare in modo uguale situazioni giuridiche diseguali, contro l’art. 3 Cost., oltre a vulnerare la voluntas legis sottesa (volta a differenziare le due nozioni);
è preteso un sorta ragionamento in positivo (una ragionevole probabilità) e non in negativo (manifesta infondatezza).
5.2. Il preferibile orientamento milanese
Si ritiene che l’opzione interpretativa preferibile (già espressa in passato[17]), oggi condivisa dalla Corte di Appello di Milano[18], sia quella che tende ad associare la ragionevole probabilità al fumus boni iuris, comunemente richiamato in tema di misure cautelari[19].
L’art. 348 bis c.p.c. recita testualmente che l'impugnazione e' dichiarata inammissibile dal giudice competente quando non ha una ragionevole probabilita' di essere accolta.
La ragionevole probabilità ben potrebbe essere associata al requisito del fumus boni iuris, strumentalmente necessario ai fini dell’emissione di un’ordinanza cautelare: per lo più, il fumus boni iuris viene definito come l'apparenza del diritto a salvaguardia del quale si intende richiedere la tutela, la cui sussistenza deve apparire come verosimile e probabile alla luce degli elementi di prova esistenti prima facie; id est: il diritto preteso deve apparire come verosimile, alla luce degli
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
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elementi di prova sussistenti; la valutazione è sommaria, intendendo con ciò allo stato delle produzioni documentali presentate.
Ebbene, lo stesso avviene nell’ambito della ragionevole probabilità di accoglimento: il giudice competente valuta se sussiste una sola probabilità di accoglimento, ed in caso di giudizio prognostico positivo, il filtro dell’inammissibilità è superato.
Rispetto al fumus boni iuris, però, è preteso qualcosa in più: non solo la ragionevolezza, ma anche – se non soprattutto – una probabilità; non solo possibilità, ma probabilità che è qualcosa in più sul piano statistico.
Il fumus boni iuris si accontenta della parvenza del diritto, ovvero della sua credibilità o ragionevole esistenza[20] rapportata al singolo caso[21], oppure addirittura un’opinione di credibilità[22]; diversamente, la ragionevole probabilità pretende un quid pluris statistico.
Esemplificativamente: se nel collegio giudicante nessun giudice ritiene fondata la domanda, allora questa avrà sì la possibilità di essere accolta nel merito, ma è improbabile; diversamente, se nel collegio giudicante un giudice su tre ritiene fondata la domanda, allora sussisterà una probabilità di accoglimento, con la conseguenza pratica che la domanda dovrà superare il filtro dell’inammissibilità.
A favore di questa ricostruzione, ritenuta qui preferibile, emergono i rilievi che:
è sufficiente una sola probabilità di successo, visto che è scritto che la domanda è dichiarata inammissibile quando “non ha una ragionevole probabilita' di essere accolta”, ex art. 348 bis c.p.c.;
il giudizio è prognostico circa quello che potrebbe accadere nel merito, al pari di quanto avviene in sede cautelare circa lo scrutinio sul fumus boni iuris; così anche il filtro dell’inammissibilità presenterebbe i caratteri
della sommarietà e strumentalità, proprio come avviene per le misure cautelari[23];
è pretesa una probabilità e non semplice possibilità; pertanto l’atto di appello dovrà cercare di indicare tale probabilità, facendo leva sui dati normativi, sulle prove, sulla contradditorietà della pronuncia di primo grado, sulla sussistenza di precedenti giurisprudenziali, ecc.; tra l’altro, parte della giurisprudenza[24], anche ai fini del riconoscimento del fumus boni iuris, suole parlare di ragionevole probabilità;
i precedenti giurisprudenziali possono essere utilizzati come argomento di convincimento, visto che l’art. 348 ter c.p.c. espressamente ammette la motivazione, seppur succinta, fondata su un mero rinvio a precedenti – al plurale[25] – conformi, così legittimando a pieno la c.d. motivazione per relationem.
6. La pronuncia 1041/2013 del Tribunale di Vasto
La pronuncia del Tribunale Vasto 1041/2013 sostanzialmente, in tema di ragionevole probabilità di accoglimento, sposa la tesi c.d. della probabilità giurisprudenziale[26].
Si afferma che non vi è alcuna probabilità di accoglimento della domanda presentata per pregiudizi chiesti a titolo di danno esistenziale, laddove si tratti di meri disagi, fastidi o ansie, come tali privi del requisito della “ingiustizia costituzionalmente qualificata”; l’ordinanza viene motivata ancorandosi al “famoso” precedente giurisprudenziale (Cass., S.U., 11.11.2008, n. 26972)[27]
A favore di questa ricostruzione, che sostanzialmente traduce l’inciso “ragionevole probabilità di essere accolta” in una sorta di probabilità giurisprudenziale ancorata ai precedenti depongono i rilievi che:
si parla di “ragionevole probabilità” di accoglimento, per cui ben si potrebbe utilizzare il quadro giurisprudenziale
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
66
precedente per calcolare la presenza di probabilità;
nel nuovo art. 348 ter c.p.c. è data la possibilità di motivare utilizzando precedenti conformi, così inducendo legittimamente l’interprete a ritenere che ben possa farsi riferimento ai precedenti, almeno ai fini della ragionevole probabilità di accoglimento;
la probabilità è essenzialmente un concetto statistico;
la ragionevolezza della probabilità ben può essere collegata a precedenti; è ragionevole la probabilità, e non meramente ipotetica o teorica o residuale, in virtù di un precedente conforme.
6.1. Profili critici
L’impostazione del Tribunale di Vasto non è esente da rilievi critici.
Seppur sul piano formale non è criticabile - trovando linfa legittimante nell’inciso “ordinanza succintamente motivata, anche mediante… il riferimento a precedenti conformi[28]” di cui all’art. 348 ter c.p.c. – lo è sul piano sostanziale.
Il riferimento fatto al precedente giurisprudenziale non sembra porre uno sbarramento legittimo all’ammissibilità dell’appello: l’appello è inammissibile se non ha (neanche) una ragionevole probabilità di accoglimento, ma la citazione di un solo precedente giurisprudenziale – anche se autorevolissimo – non esclude la sussistenza di “una” probabilità di accoglimento soprattutto perché il giudice di merito può legittimamente discostarsi dal dictum di un precedente a Sezioni Unite[29]; e, d’altronde, non vige formalmente un sistema di common law.
Pertanto, sussisteva una ragionevole probabilità di accoglimento, tanto più che si è toccato un tema – quello del danno esistenziale – quanto mai tormentato[30] e per nulla stabile.
7. Conclusioni e Strategie
La riforma del nuovo appello filtrato sta incominciando a “vivere” nei Tribunali, dimostrando che non sarà esattamente tutto come prima, diversamente da ciò che era stato affermato da una parte della dottrina[31]: ogni legge trascina con sé novità, che incidono comunque sul complessivo assetto processuale, soprattutto laddove vengano toccate le impugnazioni.
In questa fase transitoria, è consigliabile rispettare alla lettera la legge, indicando anche – nel proprio atto di appello motivato – la presenza di significative probabilità di accoglimento: sarà preferibile citare pronunce favorevoli (rectius: conformi) per dimostrare, almeno in via di logica, la sussistenza di (almeno) una ragionevole probabilità di accoglimento, seppur ciò non è espressamente preteso dall’art. 342 c.p.c.; tuttavia, se – a valle - il giudicante può ritenere inammissibile una domanda perché priva di ragionevole probabilità di accoglimento, allora – a monte – conviene indicare la presenza della detta ragionevole probabilità.
D’altronde, alla luce del quadro giurisprudenziale che si sta formando, soprattutto con riferimento alla pronuncia di Vasto, può costare molto caro non dedicare una parte dell’atto alla dimostrazione circa la sussistenza della c.d. ragionevole probabilità.
_______________
[1] COSTANTINO, Le riforme dell’appello civile e l’introduzione del filtro, in Treccani.it, 2012.
[2] VIOLA, Il nuovo appello filtrato, Pistoia, 2012, 1.
[3] CONSOLO, Lusso o necessità nelle impugnazioni delle sentenze, in Judicium.it., 2012.
[4] CAPONI, La riforma dell’appello civile dopo la svolta nelle commissioni parlamentari, in Judicium.it, 2012.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
67
[5] CAPONI, già cit.
[6] CAPONI, già cit.
[7] MONTELEONE, Il Processo civile in mano al governo dei tecnici, in Judicium.it, 2012; questa ricostruzione è stata smentita dalla prima giurisprudenza che si è occupata dell’appello filtrato, di cui si tiene conto nei paragrafi successivi.
[8] L’appello ad ordinanza decisoria, ex art. 702 quater c.p.c., deve essere presentato nella forma dell’atto di citazione. Corte di Appello di Roma, 11.5.2011, in ilProcessoCivile.com, 74, 2011 afferma che l’appello, ex art. 702quater c.p.c., ad ordinanza decisoria si propone con citazione e non con ricorso. Il giudizio di appello contro l'ordinanza di accoglimento conclusiva del procedimento sommario di cognizione è retto dalla disciplina ordinaria dell'appello, per quanto l'art. 702-quater c.p.c. nulla di diverso dispone in proposito: ciò vuol dire anzitutto che il giudizio di appello delineato dall'art. 702-quater c.p.c. rimane, come di regola, una revisio prioris istantiae fondata sulla deduzione di specifiche doglianze connotate dal requisito di specificità di cui all'art. 342 c.p.c. Sicché, se il giudice di primo grado non è incorso in errori, non è pensabile che la sua decisione debba essere ribaltata. E dunque la sola reale peculiarità dell'art. 702 quater c.p.c, con riguardo all'attività istruttoria, è la previsione della delega dell'assunzione dei mezzi di prova ad uno dei componenti del collegio.
[9] VIOLA, Il nuovo appello filtrato, Pistoia, 2012, 17.
[10] TONA, La citazione dovrà andare subito al solo, in IlSole24Ore del 6.8.2012, n. 216, 6.
[11] Cassazione civile, Sezione lavoro, sentenza del 26.1.2012, n. 1111, in Overlex.com, 2012.
[12] Tale tesi è stata espressa in VIOLA, Il nuovo appello filtrato, Pistoia, 2012, 23;
[13] Corte di Appello di Roma, sezione lavoro, sentenza del 15.1.2013, in La Nuova Procedura Civile, 2, 2013 (in fase di stampa).
[14] VIOLA, op. cit.
[15] Il riferimento è alla Legge n. 228 del 24.12.2012, recante Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilita’ 2013), pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 302 del 29.12.2012, in vigore dal 30 gennaio 2013; tale legge ha introdotto il comma 1quater, all’art. 13 del D.p.r. n. 115 del 30.5.2002, che recita quando l’impugnazione, anche incidentale, e’ respinta integralmente o e’ dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta e’ tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis. Il giudice da’ atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso.
[16] Corte di Appello di Roma, ordinanza del 25.1.2013, in La Nuova Procedura Civile, 2, 2013, con nota di MECACCI.
[17] VIOLA, Il nuovo appello filtrato, Pistoia, 2012, 33; VIOLA, La testimonianza nel processo civile, Milano, 2012, 267.
[18] Si vedano le linee guida della Corte di Appello di Milano, rese note il 10.10.2012, in ilProcessoCivile.com, 252, 2012, secondo cui “in ordine ai criteri per la valutazione prognostica di insussistenza della probabilità di accoglimento dell'appello, la prescrizione dettata dall'art. 348 ter c.p.c. va letta, quanto alla ragionevolezza della prognosi, alla stregua della valutazione del fumus boni iuris”.
[19] Per approfondimenti sulle misure cautelari, si vedano almeno CIPRIANI, Procedimento cautelare, regolamento di giurisdizione e riforma del processo civile, in GI, 1995; MERLIN, Procedimenti cautelari ed urgenti in generale, in Digesto civ., XIV,
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
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Torino, 1996; SALVANESCHI, in TARZIA (a cura di), Il nuovo processo cautelare, Padova, 1993; SIRACUSANO, sub art. 669 bis, in PICARDI (a cura di), Codice di procedura civile, Milano, 2000; TARZIA, Il nuovo processo cautelare, Padova, 1993; CONSOLO, LUISO, Codice di procedura civile commentato, Milano, 2000; OBERTO, Il nuovo processo cautelare, Milano, 1992; FERRI, Decreto cautelare inaudita altera parte in corso di causa e mancata fissazione dell'udienza per la conferma modifica o revoca, nota a T. Aquila 31.10.2002, in GM, 2003; CARPI, TARUFFO, Commentario breve al codice di procedura civile, Padova, 1999; RICCI, La riforma del processo civile, Torino, 2009; BALENA, La disciplina del procedimento cautelare uniforme, in BALENA, BOVE, Le riforme più recenti al processo civile, Bari, 2006; PILONI, Rimedi giudiziali esperibili in sede di attuazione dei provvedimenti cautelari, in Esecuzione forzata, 2005, 4.
[20] FIORUCCI, I provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c., Milano, 2009, 112.
[21] LUISO, Diritto processuale civile, IV, Milano, 2011, 186.
[22] Così sostiene Liebman.
[23]PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991, 376.
[24] Cass. civ. Sez. II, 22-11-2004, n. 22026.
[25] Alla lettera un solo precedente dovrebbe ritenersi insufficiente, poiché è utilizzato il plurale e non il singolare.
[26] Tale tesi è stata esposta dettagliatamente in VIOLA, Il nuovo appello filtrato, Pistoia, 2012, 31.
[27] In Massimario.it, 2008.
[28] E’ scritto al plurale, per cui almeno “due precedenti” si sarebbero dovuti citare.
[29] E’ solo la giurisprudenza nomofilattica che deve sostanzialmente adeguarsi a quanto
detto dalle Sezioni Unite, salvo rimessione alle stesse, ex art. 374 c.p.c., e non anche la giurisprudenza di merito.
[30] Si pensi, a mero titolo esemplificativo, alla pronuncia apprezzabilissima (e rivoluzionaria) della Cassazione civile, sez. III, sentenza 02.10.2012 n° 16754, che ammette il risarcimento per una “condizione esistenziale negativa”.
[31] MONTELEONE, op. cit.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
69
di
Mario Tocci* 1. Cenni introduttivi 2. Le parti 3. Materie
delle vertenze 3.1 La misura e le modalità
d’uso dei servizi di condominio 3.2 La
sussistenza di un diritto nell’ambito del
condominio 3.3 L’impugnativa di una
delibera assembleare 3.4 L’applicazione del
regolamento 3.5 L’impugnativa del
regolamento 3.6 La nomina e la revoca
dell’amministratore 4. Il raggiungimento
dell’accordo conciliativo.
Cenni introduttivi
La riforma del condominio, approvata con
Legge 220/2012 e destinata ad entrare in
vigore il 17 giugno 2013, ha introdotto – tra
gli altri – l’istituto della mediazione
condominiale, attualmente disciplinato
dall’art. 71 quater delle disposizioni di
attuazione al Codice Civile.
Una prima problematica preliminare da
affrontare concerne la risoluzione del
dubbio amletico in ordine all’individuazione
dell’esperimento della procedura di
mediazione, di cui al Decreto Legislativo
28/2010, quale condizione di procedibilità
dell’azione giurisdizionale afferente
questione in materia condominiale.
L’ormai celeberrima sentenza 272/2012
della Corte Costituzionale ha di fatto
statuito che generaliter l’esperimento della
procedura mediatizia de qua non possa più
ritenersi condizione di procedibilità
dell’azione giurisdizionale vertente su una
delle materie doviziosamente enumerate
nell’art. 5 del medesimo Decreto Legislativo.
Quantunque la Legge 220/2012 è
successiva alla pubblicazione della cennata
sentenza della Consulta.
In tale quadro si colloca il disposto del
primo comma dell’art. 71 quater delle
disposizioni di attuazione al Codice Civile, a
cui mente in relazione alle controversie
condominiali si applica l’art. 5 – indi
qualsiasi disposizione, espressamente
Le dinamiche della procedura di mediazione condominiale
Dottrina &
Opinioni
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
70
richiamata – del Decreto Legislativo
28/2010, che sanciva il carattere
obbligatorio pregiudiziale della mediazione.
Quid iuris?
A parere di chi scrive, l’art. 71 quater delle
disposizioni di attuazione al Codice Civile
contiene un rinvio ricettizio alle
disposizioni del Decreto Legislativo
28/2010.
In sintesi, il rinvio ricettizio è operato non
in relazione alla fonte richiamata ma in
ordine alle disposizioni in essa contenute; il
che produce il risultato dell’integrazione del
contenuto della fonte richiamata all’interno
della fonte richiamante, senza che le
vicende della prima incidano sulla sorte
dell’ultima.
Sostanzialmente il rinvio ricettizio
costituisce una tecnica – non propriamente
felice – di nomopoiesi, potenzialmente utile
a riproporre per relationem elementi
testuali già espressi dal Legislatore altrove.
La tesi appena proposta sarebbe peraltro
corroborata dalla circostanza della
posteriorità della Legge 220/2012 rispetto
alla sentenza 272/2012 della Corte
Costituzionale.
Nondimeno, il secondo comma dell’art. 71
quater delle disposizioni di attuazione al
Codice Civile usa toni perentori (ed è ben
noto il principio espresso dal brocardo ubi
lex voluit, dicit), allorché sancisce che la
domanda di mediazione debba essere
presentata presso un organismo ubicato
nella circoscrizione del Tribunale ove sia
situato il condominio in seno al quale sia
insorta la controversia da dirimere.
Altresì al mediatore è attribuita facoltà di
formulare proposta, mutuando il regime
all’uopo plasmato dall’art. 11 del Decreto
Legislativo 28/2010 (ex art. 71 quater,
comma sesto, delle disposizioni di
attuazione al Codice Civile).
Indi possono affermarsi pacificamente due
corollari:
l’esperimento della procedura di
mediazione, di cui al Decreto Legislativo
28/2010, è condizione di procedibilità
dell’azione giurisdizionale afferente
questione in materia condominiale;
alla procedura di mediazione de qua si
applica il Decreto Legislativo 28/2010,
oggetto di rinvio ricettizio ad opera dell’art.
71 quater delle disposizioni di attuazione al
Codice Civile, nella sua strutturazione
anteriore alla pubblicazione della sentenza
272/2012 della Consulta.
Altra complessa problematica da sciogliere
in via preliminare riguarda la competenza
territoriale dell’organismo di mediazione da
adire.
Il secondo comma dell’art. 71 quater delle
disposizioni di attuazione al Codice Civile
prevede che la domanda di mediazione
debba essere presentata sotto pena di
inammissibilità presso un organismo
ubicato nella circoscrizione del Tribunale
ove sia situato il condominio in seno al
quale sia insorta la controversia da
dirimere.
Chi scrive ritiene che l’inammissibilità di cui
si sta discettando debba intendersi nel
senso di irricevibilità amministrativa della
domanda da parte dell’organismo
incompetente che dovesse essere adito; il
che produce il composito risultato
dell’inidoneità del verbale di mediazione a
soddisfare la condizione di procedibilità
della successiva azione giurisdizionale e
dell’insorgenza di responsabilità risarcitoria
in capo all’organismo stesso verso le parti
per gli esborsi pecuniari inutiliter effettuati
nonché a cagione delle perdite di chance
difensive inevitabilmente patite.
D’altronde, però, l’inammissibilità
medesima neppure può rigidamente
intendersi come corrispettiva
dell’inderogabilità assoluta del disposto del
secondo comma dell’art. 71 quater delle
disposizioni di attuazione al Codice Civile,
laddove invero non appare analogicamente
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
71
inapplicabile il disposto del comma primo
dell’art. 29 del Codice di Procedura Civile.
Pertanto, qualora l’istanza di mediazione sia
congiuntamente presentata da tutti i
litisconsorti necessari della procedura
mediatizia, è plausibile la deroga al disposto
del secondo comma dell’art. 71 quater delle
disposizioni di attuazione al Codice Civile.
Tuttavia, secondo chi scrive, il
raggiungimento di accordo tra i litiganti in
seno ad organismo di mediazione
territorialmente incompetente elimina ipso
facto la problematica in esame; il verbale di
accordo di due o più soggetti in esito ad una
procedura di mediazione contiene
un’implicita rinuncia delle parti a far valere
l’incompetenza territoriale dell’organismo
adito in violazione del disposto del secondo
comma dell’articolo 71 quater delle
disposizioni di attuazione al Codice Civile.
Ancora va stigmatizzato come la legge non
distingua tra sede legale e ufficio distaccato
dell’organismo di mediazione, il che
consente l’adizione tanto dell’uno quanto
dell’altro entro i tracciati limiti del comma
secondo dell’art. 71 quater delle
disposizioni di attuazione al Codice Civile.
Infine, seppure integrativa di ipotesi di
scuola, bisogna rimarcare l’inosservabilità
del disposto del secondo comma
dell’articolo 71 quater delle disposizioni di
attuazione al Codice Civile, in tutte le
circostanze di inesistenza di un organismo
di mediazione nell’ambito territoriale di una
circoscrizione tribunalizia.
Insomma, un giusto compromesso tra il
formalismo forzosamente indotto dal
Legislatore sulla e l'informalità
intrinsecamente peculiare della procedura
di mediazione.
Le parti
Le parti della procedura di mediazione
afferente la materia condominiale sono
sicuramente il condomino interessato
ovvero i condomini interessati
dall’instauranda vertenza e
l’amministratore quale legale
rappresentante pro tempore del
condominio ovvero il curatore speciale
nominato in mancanza dall’Autorità
Giudiziaria – ex art. 65 delle disposizioni di
attuazione al Codice Civile – ad istanza dei
soggetti intenzionati ad instaurare la
medesima vertenza.
Occorre comunque comprendere quali
siano i condomini aventi legittimazione
attiva.
Hanno legittimazione attiva,
tendenzialmente, tutti i proprietari delle
singole unità immobiliari.
Laddove, tuttavia, l’unità immobiliare sia:
gravata da un diritto reale di usufrutto, la
legittimazione attiva compete (ex art. 67
delle disposizioni di attuazione al Codice
Civile) all’usufruttuario, con riferimento alle
vertenze che attengono all'ordinaria
amministrazione e al semplice godimento
delle cose e dei servizi comuni;
Iocata, la legittimazione attiva compete (ex
art. 10 della Legge 392/1978) al
conduttore, con riferimento alle vertenze
concernenti le delibere sulle spese e sulle
modalità di gestione dei servizi di
riscaldamento e condizionamento dell’aria
(seppur con riferimento all’impugnativa
giudiziale: Cass. Civ., 8755/1993).
Talvolta, qualora si verta in ipotesi
risarcitorie, potrebbe esser parte la
compagnia assicurativa con cui il
condominio sia assicurato per la
responsabilità civile.
Ciò per evidente applicabilità del disposto
del primo comma dell’art. 101 e del
disposto dell’art. 106 del Codice di
Procedura Civile.
L’art. 101 del Codice di Procedura Civile
dispone infatti al comma primo che: nei
procedimenti in cui la decisione non possa
che pronunciarsi nei confronti di più
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
72
soggetti, questi debbono agire o essere
convenuti.
Nella procedura di mediazione è pacifico
che non viene emessa alcuna decisione;
tuttavia al termine “decisione” può
sostituirsi quello di “accordo”.
Ed allora, iuxta applicazione del disposto
del comma primo dell’art. 101 del Codice di
Procedura Civile, può affermarsi che: nella
procedura di mediazione esitabile con un
accordo potenzialmente efficace tra più
soggetti, questi non possono che divenire
parti della procedura mediatizia medesima.
Resta da chiarire la motivazione in virtù
della quale la compagnia assicurativa con
cui il condominio sia assicurato per la
responsabilità civile professionale debba
essere potenzialmente destinataria degli
effetti dell’accordo con cui esiti la procedura
di mediazione.
A riguardo soccorre l’applicabilità, per
analogia, del disposto dell’art. 106 del
Codice di Procedura Civile.
A mente dell’art. 106 del Codice di
Procedura Civile, nel processo civile
ciascuna parte può chiamare un terzo cui
ritenga comune la causa o da cui pretenda
di esser garantita.
Orbene, si può affermare che: nella
procedura di mediazione ciascuna parte
può chiamare un soggetto originariamente
non evocato da cui pretenda di esser
garantito (indi, un eventuale assicuratore
del rischio connesso alla vertenza di cui si
discetta).
Quello testé delineato è tuttavia soltanto un
primo livello di litisconsorzio, ossia di
contestuale presenza di più soggetti in seno
alla procedura.
Sono da intendersi quali parti i titolari degli
interessi in lizza nel procedimento di
mediazione ovvero i loro rappresentanti
muniti di valido titolo rappresentativo.
Si parta dai condomini.
Le persone fisiche capaci di agire che
vogliano essere rappresentate devono
conferire al rappresentante volontario
mandato rappresentativo, da autenticarsi
alla presenza del mediatore principale,
oppure procura notarile ovvero
diplomatica.
Le persone fisiche incapaci di agire sono
rappresentate dal legale rappresentante (il
minore dal genitore o dal tutore, l’interdetto
dal tutore, l’inabilitato dal curatore
speciale), il quale deve recare seco
l’originale oppure la copia del
provvedimento giurisdizionale di
conferimento della rappresentanza.
Le persone giuridiche sono rappresentate
dal legale rappresentante, ossia colui cui la
legge ovvero l’atto costitutivo conferisca la
rappresentanza.
Il legale rappresentante della persona
giuridica deve recare seco l’originale
oppure la copia della visura camerale
aggiornata ovvero dell’atto costitutivo.
Si passi ora al condominio.
L’amministratore deve recare seco
l’originale oppure la copia della delibera di
nomina.
Il curatore speciale deve recare seco
l’originale oppure la copia del
provvedimento di designazione
dell’Autorità Giudiziaria.
Il mero accompagnatore di parte, ossia il
consulente difensivo o tecnico della parte
stessa, non è parte; può semplicemente
accompagnare la parte, per come sopra si è
inteso.
Quantunque, la partecipazione
dell’amministratore deve essere deliberata
dall’assemblea con la maggioranza dei due
terzi del valore dell'intero edificio e la
maggioranza dei partecipanti al condominio
(ex art. 71 quater, comma terzo, delle
disposizioni di attuazione al Codice Civile).
Se i termini di comparizione davanti al
mediatore non consentono di assumere la
necessaria delibera assembleare, su istanza
del condominio – che a parere di chi scrive è
libera nelle forme – il mediatore dispone
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
73
idonea proroga della prima comparizione
(ex art. 71 quater, comma quarto, delle
disposizioni di attuazione al Codice Civile).
Materie delle vertenze
Le materie delle vertenze condominiali in
relazione a cui deve esperirsi la procedura
di mediazione riguardano:
la misura e le modalità d’uso dei servizi di
condominio;
la sussistenza di un diritto nell’ambito del
condominio;
l’impugnativa di una delibera
dell’assemblea;
l’applicazione del regolamento;
l’impugnativa del regolamento;
la nomina e la revoca dell’amministratore.
La misura e le modalità d’uso dei servizi di
condominio
Le controversie aventi ad oggetto la misura
e le modalità d’uso dei servizi di
condominio concernono riduzioni o
limitazioni qualitative e quantitative del
diritto di godimento dei singoli condomini
sulle parti comuni del condominio.
La sussistenza di un diritto nell’ambito del
condominio
Le controversie aventi ad oggetto la
sussistenza di un diritto nell’ambito del
condominio concernono l’esistenza di un
diritto connesso allo status di condomino.
L’impugnativa di una delibera
dell’assemblea
L’impugnativa delle delibere dell’assemblea
di condominio passa evidentemente per il
previo esperimento della procedura di
mediazione.
Il termine di impugnazione, o meglio la
decadenza dalla stessa facoltà di
impugnativa, soggiace a sospensione per il
periodo di durata legale della procedura
mediatizia avviata (ex art. 5, comma sesto,
del D. Lgs. 28/2010).
E’ opportuno osservare che con l’accordo di
mediazione non si invalida
automaticamente la deliberazione
impugnata ma può verosimilmente sortirsi
l’effetto dell’approvazione di una nuova e
sostitutiva delibera congeniale alle ragioni
dei litiganti.
L’applicazione del regolamento
Le controversie concernenti l’applicazione
del regolamento di condominio concernono
l’interpretazione e l’esecuzione delle
disposizioni del medesimo.
L’impugnativa del regolamento
L’impugnativa del regolamento di
condominio passa evidentemente per il
previo esperimento della procedura di
mediazione.
Il termine di impugnazione, o meglio la
decadenza dalla stessa facoltà di
impugnativa, soggiace a sospensione per il
periodo di durata legale della procedura
mediatizia avviata (ex art. 5, comma sesto,
del D. Lgs. 28/2010).
E’ opportuno osservare che con l’accordo di
mediazione non si invalida
automaticamente il regolamento impugnato
ma può verosimilmente sortirsi l’effetto
dell’approvazione di un nuovo e sostitutivo
regolamento congeniale alle ragioni dei
litiganti.
La nomina e la revoca dell’amministratore
Le controversie aventi ad oggetto la nomina
dell’amministratore sottendono
l’impugnativa della relativa delibera
assembleare, in ordine a cui già si è detto.
Le controversie aventi ad oggetto la revoca
dell’amministratore possono, parimenti,
culminare con un accordo di mediazione
che non determina automaticamente la
medesima revoca ma può verosimilmente
sortire l’effetto dell’assunzione di precisi
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
74
impegni ovvero della rassegna delle
dimissioni da parte dell’amministratore
stesso, in modo congeniale ed incline alle
ragioni dei litiganti.
Il raggiungimento dell’accordo conciliativo
Il raggiungimento dell’accordo conciliativo
in mediazione è un po’ più farraginoso dal
punto di vista temporale.
Per questo motivo, il mediatore principale e
i mediatori ausiliari eventualmente
nominati devono gestire al meglio i tempi
procedurali, onde esaurire proficuamente il
procedimento nei termini di legge.
L’amministratore del condominio (ovvero il
curatore speciale), infatti, è continuamente
tenuto ad interfacciarsi con l’assemblea e
sottoporre alla stessa la bozza di accordo
cui si sia addivenuto tra i litiganti onde
questa deliberi e lo autorizzi ad impegnarsi
in nome e per conto del condominio (sicché
dovrà il mediatore principale – unitamente
agli eventuali mediatori ausiliari – verificare
che tale passaggio sia stato effettuato,
magari acquisendo l’originale o la copia
dell’afferente deliberazione assembleare).
Il Legislatore non ha fatto riferimento alla
maggioranza assembleare richiesta ai fini
dell’approvazione della bozza di accordo.
Tuttavia il quinto comma dell’art. 71 quater
delle disposizioni di attuazione al Codice
Civile stabilisce che la proposta di
mediazione debba essere inderogabilmente
accettata dall’assemblea con la maggioranza
dei due terzi del valore dell'intero edificio e
la maggioranza dei partecipanti al
condominio, in difetto del cui
raggiungimento la proposta medesima è da
reputarsi non approvata. La logica, spesso
suppletiva all’indolente inoperosità del
nomopoieta, induce a ritenere che anche la
bozza di accordo vada inderogabilmente
approvata con la stessa maggioranza e nelle
medesime modalità.
In caso di formulazione della proposta, ai
sensi del disposto del comma sesto dell’art.
71 quater delle disposizioni di attuazione al
Codice Civile, al mediatore è fatto obbligo di
fissare i termini afferenti tenendo conto
della necessità per l'amministratore
(ovvero per il curatore speciale) di munirsi
della delibera assembleare necessaria ai fini
dell’eventuale accettazione.
E’ opportuno osservare che con un accordo
di mediazione:
non si invalida automaticamente una
deliberazione assembleare impugnata ma
può verosimilmente sortirsi l’effetto
dell’approvazione di una nuova e sostitutiva
delibera congeniale alle ragioni dei litiganti;
non si invalida automaticamente un
regolamento impugnato ma può
verosimilmente sortirsi l’effetto
dell’approvazione di un nuovo e sostitutivo
regolamento congeniale alle ragioni dei
litiganti.
non si ottiene automaticamente la revoca
dell’amministratore ma può verosimilmente
sortirsi l’effetto dell’assunzione di precisi
impegni ovvero della rassegna delle
dimissioni da parte dell’amministratore
stesso, in modo congeniale ed incline alle
ragioni dei litiganti.
* Mario Tocci è avvocato in Cosenza nonché
docente di diritto sportivo nella Facoltà di
Scienze Sociali della Libera Università di
Scienze Umane e Tecnologiche di Lugano e
curatore scientifico delle pubblicazioni
ufficiali del Forum Nazionale dei Mediatori e
degli Organismi di Mediazione.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
75
di
Fabrizio Tommasi*
La legge n. 228 del 24 dicembre 2012, nota
come “legge di stabilità”, ha apportato una
profonda modifica alla disciplina del
pignoramento presso terzi, introducendo un
innovazione in merito agli effetti della
omessa dichiarazione del terzo.
Nella disciplina in vigore sino al 1 febbraio
2013 nel caso in cui il terzo non rendesse
alcuna dichiarazione una volta ricevuto
l’atto di pignoramento, al creditore
procedente non restava altra scelta, qualora
fosse convinto dell’esistenza del credito, che
iscrivere comunque l’esecuzione a ruolo per
poi alla prima udienza richiedere la
sospensione della procedura esecutiva per
dare avvio al procedimento di accertamento
dell’obbligo del terzo.
Appare evidente come, sempre nella
disciplina previgente, l’inosservanza di
obbligo di legge da parte di un soggetto (il
terzo) comportasse degli svantaggi, sia in
termini economici che di tempo,
unicamente per un altro soggetto (il
creditore) a cui nessuna colpa poteva essere
addebitata. Unico contraltare di tali
svantaggi era costituito dalla eventuale
condanna alle spese del terzo che fosse
risultato effettivamente debitor debitoris al
termine del processo di accertamento, tale
condanna, in ogni caso ha semplicemente
valenza risarcitoria non portando
comunque alcun vantaggio o arricchimento
al creditore procedente.
Il pignoramento presso terzi alla luce della Legge di stabilità 2013
Dottrina &
Opinioni
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
76
La novella del 2012, nell’ottica della
velocizzazione del processo esecutivo già
principio ispiratore della riforma del 2005
ed anche in ossequio al aggiornamento al
processo telematico, ha cercato di rimediare
agli imprevisti che spesso colpivano il
processo di esecuzione presso terzi
eliminandoli in radice.
Il nuovo testo dell’art. 543 c.p.c. infatti
prevede che la dichiarazione del terzo, che
già con la riforma del 2005 poteva essere
inviata senza particolari formalità al
creditore a mezzo raccomandata entro dieci
giorni dal pignoramento o comunque
utilmente prima dell’udienza di citazione,
ora possa essere inviata anche tramite
posta elettronica certificata.
La formulazione della norma non è
felicissima in quanto, pur essendo
necessaria la difesa tecnica nel
procedimento di esecuzione presso terzi,
trattandosi comunque di citazione innanzi
al Tribunale, ed essendo già per legge
previsto che il difensore indichi nell’atto il
proprio indirizzo di posta elettronica
certificata, non è chiaro se la pec, verso cui
il terzo deve inviare la dichiarazione, debba
appartenere necessariamente al creditore
procedente o se sia equivalente la pec del
procuratore costituito. La lettera della
norma non lascerebbe spazio a dubbi, in
quanto si enuncia espressamente la “pec del
creditore procedente” tuttavia sia la
collocazione della novella, all’interno del
capo dedicato all’elezione del domicilio, sia
l’assurdità dell’interpretazione letterale che
porrebbe come presupposto per l’esercizio
di un azione esecutiva di dotarsi di posta
elettronica certificata, ed in ultimo la prassi
consolidata per cui fin ora le raccomandate
con la dichiarazione venivano inviate presso
il domicilio eletto che normalmente
corrisponde con lo studio del procuratore
costituito, portano a ritenere,
ragionevolmente che la dichiarazione verrà
validamente inviata all’indirizzo pec del
difensore. Quel che invece appare se non
dubbio quantomeno pericoloso da un punto
di vista processuale è l’effetto che possa
avere sull’atto la mancata indicazione della
pec del creditore.
Non vi è dubbio che in caso di assenza sia
della pec del creditore che del procuratore
costituito, tale assenza potrebbe
comportare una gamma di vizi all’atto che
vanno dall’inapplicabilità della disciplina
del novellato art. 548 c.p.c di cui diremo più
innanzi sino alla nullità (sanabile)
dell’intero atto per assenza di uno degli
elementi indicati dal 543 c.p.c. (essendo in
pratica come se l’atto difettasse di elezione
di domicilio) sia per violazione dei requisiti
di cui all’art. 125 c.p.c., mentre rimane
dubbio se costituisca vizio la sola assenza
della pec del creditore in presenza di quella
del difensore.
Ad ogni modo, in attesa delle prime
pronunce in merito, per non incorrere in
inutili rischi sarà sufficiente indicare
separatamente l’indirizzo pec del creditore
e qualora questi non ne fosse in possesso
indicare quale indirizzo pec del creditore
quello del procuratore costituito, dacchè la
norma non precisa che debbano esserci due
diversi indirizzi, inoltre analogicamente
all’elezione di domicilio presso lo studio del
difensore non si incorrerà in alcuna
violazione di legge, dato che la lettera della
norma è stata rispettata e che il diritto del
terzo ad avere una forma più agevole di
comunicazione è comunque garantito.
Il terzo quindi, con la nuova formulazione
dell’ art. 543 c.p.c, si giova di una maggiore
semplicità di trasmissione della
dichiarazione, tuttavia come vedremo tra
poco, rischia di pagare a caro prezzo il non
avvalersi di questa comodità.
La nuova formulazione dell’art. 548 c.p.c.
riscrive completamente la disciplina della
mancata dichiarazione del terzo,
formulando due distinte ipotesi.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
77
La prima ipotesi contempla le procedure
esecutive dove il credito verso cui il
processo esecutivo è avviato sia uno di
quelli indicati al terzo e quarto comma
dell’art. 545 c.p.c. e precisamente somme
dovute a titolo di stipendio, salario o altra
indennità relativa al rapporto di lavoro od
impiego, comprese quelle dovute a titolo di
licenziamento quindi più generalmente
crediti da lavoro. In tal caso ove il terzo non
compaia all’udienza per rendere la
dichiarazione (non essendo possibile
inviarla a mezzo raccomandata o pec) il
giudice riterrà il credito pignorato come
non contestato e procederà quindi, senza
indugio, alla assegnazione o alla vendita.
La seconda ipotesi riguarda invece tutte le
altre fattispecie di crediti verso cui può
essere condotta l’esecuzione, in questo caso
sarà possibile per il terzo pignorato inviare
la dichiarazione a mezzo raccomandata o
pec entro dieci giorni dal ricevimento
dell’atto di pignoramento, tale termine deve
ritenersi ordinatorio essendo sufficiente
che la comunicazione venga ricevuta dal
creditore in tempo utile per l’udienza
innanzi al giudice dell’esecuzione, non
esistendo infatti alcun effetto o sanzione per
la dichiarazione ricevuta “tardivamente”.
Nel caso in cui la dichiarazione non sia
pervenuta entro l’udienza, il giudice,
raccolta la dichiarazione del creditore
procedente, fissa una nuova udienza
affinchè il terzo renda la dichiarazione, in
questo caso il terzo dovrà necessariamente
comparire all’udienza non essendo
concesso che invii la comunicazione a
mezzo raccomandata o pec.
Il creditore procedente sarà onerato di
notificare al terzo l’ordinanza contenente
l’ingiunzione a comparire almeno dieci
giorni prima dell’udienza.
Se il terzo compare e rende la dichiarazione,
sia negativa che positiva, la tardività della
dichiarazione non produce alcun effetto per
lui deteriore, ma se il terzo non compare
neppure all’udienza in tal caso il credito si
avrà per non contestato e il giudice
provvederà alla vendita o assegnazione.
La disciplina innanzi descritta aggrava
pesantemente gli obblighi del terzo, e
punisce forse in maniera sproporzionata
l’eventuale inattività dello stesso,
realizzando, ipso facto, una sostituzione nel
lato debitorio che va ben oltre la cessione
del credito che sin ora il pignoramento
presso terzi realizzava.
Non è difficile immaginare le ripercussioni
pratiche di tale nuova disciplina basti
pensare a grandi aziende, istituti di credito
o enti pubblici che ricevono centinaia di
pignoramenti presso terzi al mese, spesso
meramente “esplorativi” ovvero non basati
su un rapporto effettivamente in essere ma
solo sulla probabilità che il rapporto esista,
in questo caso una semplice inadempienza o
inattività produce degli effetti devastanti.
Nel caso di effetti prodotti dalla “non
azione” è facile porre in essere un
parallelismo con la figura del contumace nel
processo civile, la norma in esame è come
se avesse attribuito, meccanicamente, alla
contumacia l’effetto di perdere la causa.
Tale confronto stride ancora di più se si
considera che il contumace è comunque
parte del processo mentre il terzo, per
definizione e costante e conforme e
risalente giurisprudenza, è estraneo al
processo esecutivo.
La posizione del terzo diviene ancora più
deteriore se si passa ad esaminare l’ultimo
capoverso del novellato art. 548 c.p.c. nella
parte che prevede lo strumento di rimedio
nelle mani del terzo che si veda colpito da
un ordinanza di assegnazione per mancata
dichiarazione.
Al terzo è consentito proporre opposizione
agli atti esecutivi, nel termine perentorio di
venti giorni dalla notifica dell’ordinanza di
assegnazione.
Non solo, quindi, la norma indica uno
strumento sottoposto ancora una volta ad
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
78
uno stringente tempo di attivazione ma
addirittura prevede, decisamente un novus
nel diritto processuale, un opposizione
“condizionata”. Ovvero il terzo potrà
eccepire, sobbarcandosi il difficile onere
della prova negativa, unicamente che la
dichiarazione non è stata resa perchè egli
non ne ha avuto tempestiva conoscenza per
irregolarita' della notificazione o per caso
fortuito o forza maggiore.
Il combinato disposto degli effetti della
mancata dichiarazione, controbilanciata nel
solo caso dei crediti diversi da quelli di
lavoro da una seconda convocazione, unito
con un opposizione agli atti esecutivi
limitata offre un quadro devastante per la
posizione del terzo.
Tuttavia si possono evidenziare già adesso
due punti di debolezza della norma, il primo
è che la novella non ha investito anche l’art.
543 c.p.c. nella parte relativa agli avvisi da
dare al terzo, sarebbe stato opportuno
indicare l’obbligo per il creditore
procedente di avvisare il terzo che non
rendere la dichiarazione nei modi di legge
comporta la non contestazione del credito.
La formulazione dell’atto di pignoramento,
per come è adesso, assume il sapore della
trappola per il terzo, cosa che contrasta con
il disposto ancora in vigore che prevede
l’obbligo di comunicazione di avvertenze
che ora appaiono marginali.
Sul punto vi sarà sicuramente un intervento
integrativo o del legislatore o della
giurisprudenza, pertanto sin d’ora, al fine di
evitare di essere travolti in futuro, ritengo
sia opportuno indicare nell’atto di
pignoramento sia nella parte della citazione
sia nella parte dell’ingiunzione
l’avvertimento che “ai sensi e per gli effetti
dell’art. 548 c.p.c. non rendendo la
dichiarazione o non comparendo all’udienza
stabilita il credito sarà ritenuto non
contestato”, del pari non ritengo sia
necessario inserire l’ulteriore avviso che
avverso all’ordinanza di assegnazione o
vendita sia possibile esperire opposizione
all’esecuzione, atteso che tale avviso non
deve essere contenuto in altri atti (come ad
esempio l’atto di precetto o di
pignoramento immobiliare).
Il secondo punto di debolezza, o meglio di
equilibrio, consta nell’espresso riferimento
alla opposizione agli atti esecutivi quale
rimedio all’ordinanza di assegnazione o
vendita. Il dettato normativo non sembra
indicare l’opposizione agli atti esecutivi
quale unica impugnazione possibile, ma più
precisamente come atto preposto per
l’impugnazione basata sui motivi di
irregolarità della notificazione, caso fortuito
e forza maggiore. Similmente insomma a
quanto avviene per le opposizioni che
riguardano la regolarità formale di precetto
e titolo esecutivo che si propongono con
opposizione agli atti esecutivi anziché
all’esecuzione, pur non essendo alcuno dei
due un atto esecutivo. Resta quindi, a mio
avviso, esperibile la strada dell’opposizione
all’esecuzione quando il terzo intenda
semplicemente sostenere l’inesistenza del
rapporto con il debitore esecutato. Tale
strada seppur percorribile costituisce una
singolare inversione dell’onere probatorio,
infatti se nella disciplina previgente era il
creditore onerato, nel processo di
accertamento dell’obbligo, di dare prova
dell’esistenza del credito ora, invece, sarà il
terzo costretto a dare la non facile prova
negativa dell’inesistenza di tale rapporto.
In ultimo esaminiamo l’ipotesi in cui la
dichiarazione venga resa ma sia contestata,
l’art. 549 c.p.c. nella nuova formulazione
sancisce il definitivo addio al processo di
accertamento dell’obbligo del terzo.
Tale procedimento seppur autonomo e di
cognizione piena, era stato sempre ritenuto
come incidentale al processo di esecuzione,
come se fosse una fase, seppur eventuale di
questo. Ora alla luce della novella il
procedimento di accertamento viene
interiorizzato ed assorbito dal processo di
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
79
esecuzione tanto da perdere anche la
conclusione con sentenza in favore di una
più agevole, e tipicamente endoprocessuale,
ordinanza.
Il nuovo giudizio di accertamento appare
modellato, perlomeno dalla lettera
dell’articolo, sui procedimenti cautelari o
comunque a cognizione sommaria, infatti vi
è la totale abrasione della fase fase
istruttoria che sottratta all’iniziativa di
parte (tipicamente espletata nelle memorie
183 sesto comma c.p.c.) e viene rimessa
interamente nella discrezionalità del
giudice il quale “compiuti i necessari
accertamenti” dinanzi alle contestazioni
mosse semplicemente “le risolve”.
Il tenore semplicistico della norma mal si
concilia con l’esperienza dei tribunali ove
frequentemente il creditore procedente si
scontra con un terzo che poi tanto terzo non
è, e che spesso ha un vero e proprio
interesse, sotteso e non sempre legittimo,
affinchè il giudizio di esecuzione proceda in
un determinato senso.
E se già il giudizio di cognizione piena, con
le sue garanzie ed un apparato istruttorio di
eccellenza, non consentiva di raggiungere
con certezza la verità ci si permette di
sollevare forti dubbi che il nuovo
procedimento sommario possa eguagliarne
i risultati.
Molto più probabilmente la cognizione si
ridurrà a mera produzione documentale si
contrapporrà alla dichiarazione del terzo,
che però intanto è divenuto vera e propria
parte, che si avvantaggerà della ancora
esistente fides basata sulla presupposta
indifferenza all’esito del processo di
esecuzione.
Del pari il rimedio all’ordinanza emessa a
seguito dell’accertamento è individuato dal
legislatore nell’opposizione agli atti
esecutivi che comunque solleva non pochi
dubbi sull’effettiva ampiezza del thema
decidendum che in tale sede si potrà
imbastire.
Concludendo, indubbiamente si deve rilevare che il nuovo pignoramento presso terzi si presenta come uno strumento idoneo a portare a compimento, in un senso o nell’altro, il processo esecutivo più rapidamente tuttavia per tale velocità, a parere di chi scrive, si è sacrificato molto dal punto di vista della Giustizia, non si faranno attendere, e si auspicano, pronunce in merito o un intervento di un legislatore più illuminato che probabilmente ridimensioneranno il fenomeno. *Avvocato, Studio Legale Tommasi in Lecce. Cultore di Diritto Processuale Civile, Università degli Studi di Roma. Redazione La Nuova Procedura Civile.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
80
di Gianluca Cascella
1. Caratteri dell’istituto.- 2. La posizione
dottrina. – 3. Orientamenti giurisprudenziali.
– 4. I rapporti con gli altri istituti previsti
dall’art. 96 c.p.c. – 5. L’applicazione concreta
della norma. - 6. Riflessioni conclusive.
1. Caratteri dell’istituto
La condanna al pagamento di una somma di
denaro ai sensi dell’art. 96,3° comma c.p.c.,
quale reazione ad una condotta della
controparte che si riveli in aperto contrasto con
i principi di correttezza e buona fede possiede
indubbiamente una finalità al tempo stesso
sanzionatoria per il passato e deterrente pro
futuro.
In particolare, i referenti normativi della
disposizione in questione possono individuarsi
negli artt. 111 della Costituzione e 47 della
Carta Dei Diritti Fondamentali dell’Unione
Europea, entrambe dettati, con finalità di
deflazione del carico processuale, a tutela del
principio del giusto processo.
La sua applicabilità è circoscritta, per effetto di
una specifica previsione di diritto transitorio
contenuta nella L. 69/09, ovvero l’art. 58, 1°
comma della predetta disposizione, ai soli
giudizi instaurati dopo la sua entrata in vigore;
sulla scorta di tale principio, allora, la
giurisprudenza di legittimità ne ha escluso
La condanna d’ufficio ex art. 96 comma 3 c.p.c. a cavallo tra funzione risarcitoria e sanzionatoria
Dottrina &
Opinioni
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
81
l’applicabilità in un procedimento per
regolamento di competenza che, pur se
introdotto dopo l’entrata in vigore della
richiamata L. 69/09, aveva tuttavia ad oggetto
un provvedimento reso nel corso di un
giudizio di merito che, alla data di entrata in
vigore della legge istitutiva di tale strumento,
era già pendente, sul rilievo per cui il
regolamento di competenza possiede
indiscutibile natura di procedimento di
impugnazione incidentale nei confronti di un
provvedimento che è già stato emanato, e per
tale sua natura si inserisce in quel processo che
ha visto l’emanazione del provvedimento che
con esso viene impugnato71.
2. La posizione della dottrina.
Innanzitutto, secondo un'opinione, l'istituto
introdotto con l'aggiunta del 3° comma all'art.
96 c.p.c. costituisce un tentativo effettuato dal
legislatore del 2009 di apportare un
significativo contributo in termini di riduzione
del carico di lavoro gravante sui giudici
civili72; invero, in tale direzione, ad opinione
di chi scrive, il legislatore è andato
ulteriormente avanti con la riforma dell'art.
283 c.p.c., avendo infatti stabilito, al secondo
comma della norma, introdotto appositamente,
che, nel caso in cui, in appello, il giudice
dell'impugnazione ritenga l'istanza formulata
dall'appellante ai sensi dell'art. 283, 1° comma,
rispettivamente, inammissibile o
manifestamente infondata, potrà condannare,
con ordinanza non impugnabile, la parte che
71Cass. civ., sez. VI, ord. 17 maggio 2011, n. 10846, in Foro it., Mass., 2011, 415.
72DE MARZO G., Le spese giudiziali e le
riparazioni nella riforma del processo
civile, in Foro it., 2009, V, 399.
l'ha proposta ad una pena pecuniaria non
inferiore ad euro 250 e non superiore ad euro
10.000, salva la revocabilità del
provvedimento con la sentenza che definisce il
giudizio73, volendo quindi anche con la
seconda misura indicata scoraggiare la
proposizione di istanze di sospensiva dilatorie
e palesemente infondate, rivolte al solo fine di
allungare i tempi processuali e, tuttavia, in
grado di appesantire il carico di lavoro degli
uffici giudiziari.
Ritornando all'innovazione introdotta dalla
legge 69/2009 si rileva che la stessa, come del
resto messo in evidenza dai primi
commentatori, pur se non prevede un limite
massimo alla condanna, né una valutazione
circa la colpa grave nell’avere proposto la
domanda ovvero avervi resistito, comunque
appare considerare la malafede come
presupposto irrinunciabile per la sua
applicazione; inoltre, proprio per il fatto che
manca qualsivoglia riferimento ad un
<danno>, la condanna ad una somma di
denaro determinata, per un verso non può
essere né accomunata(né qualificata) ai danni
punitivi o esemplari conosciuti – e
significativamente applicati – da altri
ordinamenti, in specie quelli di common law;
per altro verso, poi, non necessita di alcuna
allegazione e prova da parte del soggetto in
favore del quale viene pronunziata, apparendo
invece assimilabile alle c.d. <pene private>, di
cui il giudice ne fa applicazione in favore della
parte processuale che ha subito l’abuso di tale
strumento74.
73A tanto il legislatore ha provveduto attraverso l'art. 27, 1° comma lettera a) della legge 12 novembre 2011 n. 183, di cui il successivo secondo comma ha stabilito l'applicabilità decorsi trenta giorni da quello in cui la legge stessa è entrata in vigore, data fissata per il 01.01.2012,.
74FINOCCHIARO G., Guida al Diritto, Dossier, n.1, 2009, 6-7, p. 4 e ss.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
82
Allora, secondo la medesima opinione, proprio
perché tale strumento appare, per un verso,
molto duttile e quindi utilizzabile in ogni
genere di procedimento(esclusi quelli di
esecuzione ove, a rigore, non vi è una parte
che tecnicamente possa definirsi
soccombente)mentre, per altro verso, non
implica alcuna istruttoria, esso si presenta
come potenzialmente molto efficace per
sanzionare le condotte di coloro che,
soccombenti a conclusione di un processo,
risultino avere abusato dello strumento
processuale anche se, essendo parimenti
innegabile la intrinseca pericolosità di tale
strumento75, il giudice che ne intenda fare
applicazione dovrà necessariamente assicurarsi
che sia rispettato il contraddittorio tra le parti,
consentendo alle stesse di formulare e proprie
deduzioni in ordine all’esistenza o meno dei
presupposti e condizioni applicative della
disposizione in questione76; aspetto,
quest’ultimo, non condiviso da altra opinione
che, come si dirà in seguito, non ritiene
sussistere a carico del giudice l’obbligo di
provocare sul punto il contraddittorio tra le
parti.
Di recente un’opinione ha sostenuto che alla
condanna ex art. 96, 3° comma deve essere
attribuita natura anfibologica - id est ambigua,
che ne autorizza una duplice interpretazione -
poiché lo stato sanziona mentre il giudice
risarcisce, trattandosi di una anfibologia
strutturale che emerge dalla doppia anima
dell’istituto in quanto esso, se – per tale autore
- resta comunque un risarcimento poiché copre
un danno presunto ad una delle parti
processuali, al tempo stesso possiede una
funzione sanzionatoria in quanto il giudice
rende la condanna consapevole degli
75Non ultimo in considerazione del fatto che non soggiace ad alcuna barriera preclusiva.
76FINOCCHIARO G., op. loc. cit.
importanti effetti che essa spiegherà anche al
di fuori del singolo processo in cui la
pronunzia, e per rimarcare la disapprovazione
per l’utilizzo emulativo dello strumento
processuale77.
Da altro punto di vista, un'opinione dottrinale
ha avuto recentemente modo di definire tale
istituto come pena privata, individuandone la
finalità quale strumento di deterrenza il cui
corretto impiego potrebbe consentire il
raggiungimento di comportamenti virtuosi in
un’ottica di generale prevenzione, comunque
mantenendosi entro i principi cardine della
responsabilità personale78 la cui introduzione,
sempre secondo la medesima opinione, risulta
indicativa di una accresciuta sensibilità del
legislatore nell’ottica di una parimenti
aumentata attenzione alla prevenzione dei
(maggiori79)costi sociali quali conseguenza di
condotte carenti anche della sia pur minima
diligenza, ed anche se le stesse costituiscano
esercizio di facoltà riconosciute
dall’ordinamento80.
Secondo altri, ancora, l’indubbio legame
esistente tra l’avere il legislatore previsto la
non indispensabilità della domanda di parte,
potendo comminare ex officio il giudice detta
condanna, da un lato e, dall’altro, il fatto che la
stessa può essere emanata anche in mancanza
di prova del danno, conduce ad attribuire
77BUFFONE G., Il contrasto alla lite temeraria è il sistema omeostatico del processo civile, nota a Trib. Monza, sez. III, 19 giugno 2012, su http://www.altalex.com/index.php?idstr=10&idnot=19287
78COVUCCI D., Deterrenza processuale e pena privata: il nuovo art. 96, 3° comma c.p.c., commento a Trib. Piacenza, 15 novembre 2011, est. Morlini, in Danno e resp., 2012, 5, 525 e ss.
79Il corsivo è di chi scrive.
80COVUCCI D., op. cit., p. 532.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
83
all’istituto funzione chiaramente
pubblicistica81, il cui fine è senza dubbio
quello di scoraggiare – appunto prevedendo
una(ulteriore) condanna pecuniaria, per quanto
a vantaggio della controparte – la proposizione
di liti che si rivelino, non sono per la
controparte, evidentemente nel giusto, quanto
anche per l’amministrazione della giustizia,
temerarie e/o comunque antieconomiche82.
In conseguenza, con la previsione di cui
all’art. 96, 3° c.p.c., come affermato in
dottrina, a quella che prima appariva una
ipotesi di applicazione ridotta e circoscritta, in
quanto limitata alla sola previsione di cui
all’art. 385 c.p.c., dettato in tema di processo
di cassazione e poi abrogato per effetto della
L. 69/09, è stata attribuita dignità di principio
generale83, con tutte le prevedibili
conseguenze soprattutto in tema di
(rilevante)ampliamento del suo ambito di
potenziale applicazione(comprensibilmente,
visto che la nuova previsione attiene
sostanzialmente ad ogni ipotesi processuale).
Allora, in considerazione del fatto che, come
da alcuni rilevato, l’art. 91 c.p.c., così come
riformulato dalla riforma del 2009, presenta
alcune storture che impediscono nella maggior
parte dei casi di sanzionare efficacemente il
convenuto soccombente quand’anche questi,
senza giustificato motivo, abbia rifiutato
proposte conciliative più favorevoli rispetto al
81PASSANNANTE L., Il nuovo regime delle spese processuali, in Il processo civile riformato, a cura di Taruffo M., Bologna, 2010, p. 189 e ss.
82PASSANNANTE L., op. loc. cit.
83SCARSELLI G., Le modifiche in tema di spese, in Foro it., 2009, V, 221.
dictum della sentenza84, non appare infondato
riconoscere all'istituto introdotto dall'art. 96,
3° comma c.p.c. un ambito di applicazione
ulteriore rispetto alle ipotesi di responsabilità
aggravata in senso stretto ed, in conseguenza,
come sostenuto dall’ultima opinione sopra
richiamata, riconoscere la legittimità del
ricorso ad esso anche in tutti i casi in cui, onde
riequilibrare la posizione delle parti, si riveli
opportuno sanzionare il convenuto
soccombente che abbia tenuto un
comportamento ostruzionista o ostinatamente
riluttante ad ipotesi conciliative, così
provocando un’inutile spreco di risorse
processuali.85.
In contrario, tuttavia, deve osservarsi, come
del resto già fatto dai primi commentatori della
legge di riforma del 2009, che, essendo
indubbio il fatto che alla funzione
riequilibratrice delle posizioni delle parti che
indubbiamente possiede la condanna in
questione, si accompagni altrettanto
indubbiamente una grande discrezionalità, per
il giudice, nella sua applicazione – visto che,
come già detto, non occorre più una specifica
domanda in tal senso, e nemmeno la prova di
avere subito un danno – vi è il non infondato
sospetto che il giudice risulti in tal modo
investito di un potere troppo ampio86; potere
che, ad opinione di chi scrive, è suscettibile, in
assenza di un suo accorto e ponderato
esercizio, guidato prima di tutto dall'esigenza
di realizzare un effettivo – e non meramente
astratto ed ipotetico – contemperamento delle
posizioni delle parti processuali, di sconfinare
con una certa facilità in un arbitrio
84PASSANNANTE L., op. loc. cit.
85PASSANNANTE L., op. loc. cit..
86SASSANI B., TISCINI R., Prime osservazioni sulla legge 18 giugno 2009 n. 69, in www.judicium.it.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
84
incontrollato, con i prevedibili - quanto
difficilmente rimediabili - pregiudizi che da un
simile esercizio possono derivare; infatti, in
tale ottica va segnalata quell'opinione che,
prudentemente, invoca quello che tutto
sommato appare un ritorno al passato,
predicando la necessità che, per l'applicazione
della disposizione di cui all'art. 96, 3° comma
c.p.c., risulti indispensabile che l'altra parte
abbia riportato un danno in conseguenza di
tale condotta87.
3. Orientamenti giurisprudenziali.
In proposito, va innanzitutto ricordato che di
tale istituto la giurisprudenza di legittimità ne
ha dato una definizione per c.d. a contrario,
ricavandone in sostanza i caratteri peculiari per
differenza rispetto alle altre disposizioni
contenute nell’art. 96 c.p.c. prima che a tale
norma venisse aggiunto, per effetto della L.
69/09, il terzo comma.
Infatti, secondo la Cassazione, innanzitutto la
facoltà concessa dall’art. 96 c.p.c., nella
formulazione anteriore alle modifiche
introdotte dalla l. n. 69 del 2009, di liquidare
d’ufficio il danno da responsabilità aggravata
risponde al criterio generale di cui agli art.
1226 e 2056 c.c., senza alcuna deroga
all’onere di allegazione degli elementi di fatto
idonei a dimostrarne l’effettività: tale facoltà,
invero, non trasforma il risarcimento in una
pena pecuniaria, né in un danno punitivo
disancorato da qualsiasi esigenza probatoria,
restando esso connotato dalla natura
riparatoria di un pregiudizio effettivamente
sofferto senza assumere invece, carattere
sanzionatorio od afflittivo; tale interpretazione
è, altresì, avvalorata dall’art. 45, 12 comma, l.
18 giugno 2009 n. 69, il quale ha aggiunto un
87SCARSELLI G., Il nuovo art. 96 comma 3 c.p.c.: consigli per l'uso, in Foro it, 2010, I, 2237.
3° comma all’art. 96 c.p.c., introducendo una
vera e propria pena pecuniaria, indipendente
sia dalla domanda di parte, sia dalla prova del
danno causalmente derivato alla condotta
processuale dell’avversario88.
Quindi, per i giudici di legittimità, quella
prevista dall’art. 96, 3° comma c.p.c. è
indiscutibilmente una pena pecuniaria.
Nella giurisprudenza di merito si è poi
affermato che, in sostanza, ratio dell’istituto è
quella di scoraggiare la parte ad adottare
condotte processuali dilatorie connotate dalla
totale assenza della sia pur minima diligenza e,
al tempo stesso, per raggiungere il risultato
avuto di mira89. Sempre in giurisprudenza, poi,
il presupposto applicativo dell’art. 96, 3°
comma c.p.c. è stato individuato in quelle
condotte debitorie che, aggravando in termini
economici e temporali la posizione del
creditore, lo costringono ad una serie di
defatiganti attività per conseguire il quantum
dovuto90; mentre, secondo altra pronunzia, con
l’introduzione dell’art. 96, 3º comma, c.p.c., il
legislatore ha voluto prevedere uno strumento
88Cass. civ., sez. I, 30 luglio 2010, n. 17902, in Foro it., Mass., 2010, 843.
89Trib. Pistoia, 20 settembre 2011, in Foro it., Rep., 2012, Spese di giustizia, n.15, secondo cui “La ratio del 3º comma dell’art. 96 c.p.c. non consiste nell’attribuzione di un risarcimento del danno derivante da temerarie iniziative processuali (che altrimenti si tratterebbe di una duplicazione di quanto previsto dal 1º comma dello stesso articolo) ma nel sanzionare strategie processuali non sorrette neppure da un minimo grado di diligenza; ne segue che il giudice, una volta accertata l’esistenza di siffatta grave negligenza, dovrà considerare, in una prospettiva sanzionatoria (per il passato) e deterrente (per il futuro), quale sia l’importo adeguato a rimuovere il vantaggio che la parte in malafede ha tratto dalla sua strategia dilatoria e a scoraggiare l’impiego di tali strategie”.
90Trib. S. Angelo dei Lombardi, 5 ottobre 2011, in Arch. Locazioni, 2012, 73.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
85
sanzionatorio volto a colpire condotte che,
indipendentemente dai torti e dalle ragioni
delle parti rispetto all’oggetto del giudizio,
configurano una violazione della lealtà
processuale e si pongono come gravemente
pregiudizievoli dell’interesse individuale ad un
corretto comportamento processuale della
controparte e dell’interesse collettivo ad una
giustizia efficiente91; inoltre, in giurisprudenza
si è riconosciuto che, sul presupposto per il
quale stante il carattere officioso della
pronuncia debba essere ad essa attribuita
natura sanzionatoria, allora tale norma risulta
applicabile anche nei procedimenti cautelari
che si concludano con una pronuncia sulle
spese, sul presupposto che l’espressione
sentenza contenuta nel 1º comma dell’art. 96
cit. ben può essere intesa come provvedimento
che definisce il procedimento92, mentre detta
norma è stata ritenuta applicabile anche nei
confronti del terzo.
Ancora più di recente, la giurisprudenza di
merito ha sia riconosciuto alla condanna
pronunziata dal giudice ai sensi della
richiamata disposizione la natura di punitive
damage93, sia riaffermato la natura
sanzionatoria94.
91Trib. Varese, 23 febbraio 2012, in Danno e resp., 2012, 1129.
92Trib. Verona, 21 marzo 2011, in Giur. merito, 2011, 2161.
93Trib. Piacenza, 15 novembre 2011, est. Morlini, in Danno e resp., 2012, 5, 523 e ss, secondo cui “l’art. 96, comma 3° c.p.c, introduce nell’ordinamento una forma di danno punitivo per scoraggiare l’abuso del processo e preservare la funzionalità del sistema giustizia deflazionando il contenzioso ingiustificato; infatti, il contenuto della norma pare in equivoco nell’escludere l’esistenza di un danno di controparte e, per altro verso, non vi sono parametri costituzionali che vietano al legislatore di introdurre tale tipologia di danno”.
94Trib. Monza, sez. III, 19 giugno 2012, su www.altalex.com.
Altre pronunzie successive, inserendosi sulla
strada aperta da quella in precedenza
richiamata ne hanno, in sostanza, precisato e
delineato ulteriormente i contorni, spingendosi
ad affermare che, all’istituto previsto dal terzo
comma dell’art. 96 c.p.c., come introdotto
dalla L. 69/2009, possono senza remore
attribuirsi i caratteri della pena pecuniaria, e
per addivenire a tale conclusione l’estensore
della predetta pronunzia mette in evidenza che
essa presenta i seguenti elementi costitutivi:
i)risulta applicabile ex officio dal giudice;
ii)non necessita che il danno venga provato95;
iii)la sua applicazione si giustifica in ragione
della condotta – all’evidenza improntata a
malafede o quantomeno a colpa grave - della
parte processuale che, sconsideratamente
agendo ovvero resistendo all’altrui azione, nel
giudizio in questione soccombe96, e di tale
condotta un palese esempio viene identificato
nell’agire di colui che si determina ad
introdurre una controversia nonostante tanto
gli fosse indubitabilmente precluso da un
precedente giudicato sfavorevole, ed al tempo
stesso connotata da una intrinseca
contraddittorietà che nega e smentisce
l’urgenza che viene asserita quale presupposto
della proposta azione97; per altro verso, poi, si
95Anche perché, come si evince dal testo della norma, non sono previsti limiti alla sua determinazione, che è rimessa alla decisione equitativa del giudice.
96Trib. Bari, 14 febbraio 2012, in Banca dati Pluris-cedam.utetgiuridica.it, voce Spese giudiziali civili
97Trib. Bari, 14 febbraio 2012, cit., secondo cui “Il sig.(omissis) va altresì condannato al pagamento in favore del convenuto di una somma equitativamente determinata, ai sensi dell'art. 96 c. III CPC. Tale disposizione ha introdotto una vera e propria pena pecuniaria che prescinde dalla domanda di parte e dalla prova dei un danno e si fonda sulla male fede o la colpa grave del soggetto risultato poi soccombente.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
86
Nel caso in esame si ritiene sussista la mala fede del sig.(omissis) perché ha agito pur in presenza di una pronuncia passata in giudicato, allegando peraltro la "urgenza" delle riparazioni che la sua stessa condotta "smentisce" in modo assoluto. Non può infatti non rilevarsi in proposito che - a dire dello stesso ricorrente - i danni alle mattonelle sono state denunciate al comune di(omissis)nel gennaio 2002 e che l’intervento riparatore a spese del conduttore è stato eseguito nel luglio 2004, più di due anni dopo. E' evidente che l'urgenza in realtà non sussisteva perché diversamente il sig.(omissis) non avrebbe atteso così tanto prima di eseguire i lavori. Esaminando peraltro le fatture prodotte dall'attore a dimostrazione delle spese sostenute (v. fascicolo di parte), si rileva dalle stesse che gli interventi operati dall’attore non si sono limitati al ripristino delle mattonelle cadute o alla sostituzione - ove necessario - di tutte le mattonelle ma sono consistiti nella ristrutturazione dell'intero bagno avendo sostituito i rivestimenti del bagno ed eseguito lavori agli impianti idrico e fognario. Tali interventi provano che il sig.(omissis) è andato ben oltre le riparazioni necessarie al ripristino delle mattonelle e che con questo giudizio ha tentato - in mala fede - di "recuperare" i costi della ristrutturazione del bagno non facenti capo all'ente locatore. Stante l'intento deflattivo della disposizione dello art. 96 c. III CPC, introdotta a tutela del principio costituzionale ( art. 111 Cost.) e comunitario (art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea) della ragionevole durata dei processi, si ritiene di liquidare la pena suddetta in Euro 1.000,00 all'anno, applicando il criterio elaborato dalla giurisprudenza comunitaria in tema di risarcimento del danno da irragionevole durata del processo. Considerata la durata di questo processo di quasi due anni, si ritiene di condannare il sig.(omissis) a versare al comune di(omissis)Euro 2.000,00 pari ad Euro 1.000,00 per ogni anno.
riconosce il carattere di pena pecuniaria, del
tutto svincolata dalla domanda di parte e dalla
prova di un effettivo pregiudizio98.
Infine, va detto che la giurisprudenza,
mostrando di condividere le perplessità ed i
timori palesati dalla dottrina innanzi
richiamata circa l'attribuzione al giudice di un
potere eccessivo, potenzialmente in grado di
sconfinare nell'arbitrio incontrollato, pur non
condividendo la soluzione proposta, tuttavia
ha posto l'accento sull'indispensabilità, quale
contraltare della mancata previsione, nella
norma in questione, di parametri oggettivi ai
fini della sua applicazione, sia in termini di
sussistenza di un concreto danno, sia di criteri
per la sua quantificazione, di fondare
l'applicazione dell'istituto sul rilievo della
sussistenza, nel caso concreto, di un
indispensabile elemento soggettivo,
rappresentato da una determinata condotta del
soggetto che della sanzione in questione si
rivela destinatario99, accertamento che
contiene una implicita quanto indubbio
contestazione della condotta medesima, della
quale si rileva la contrarietà a correttezza e
buona fede, se non addirittura il dolo e/o
comunque la colpa grave; anzi, non va
trascurato di evidenziare che, per altre
decisioni, nemmeno sarebbe indispensabile
una condotta della controparte che integri gli
98Trib. Bari, 14 febbraio 2012, cit.
99Trib. Piacenza, 7 dicembre 2010, in Giur. it., 2011, 2568, che ha inoltre affermato “La condanna di cui al 3º comma dell’art. 96 c.p.c. ha una duplice funzione, sanzionatoria e risarcitoria; la funzione sanzionatoria è assicurata dalla (possibile) officiosità della condanna e dal fatto che può essere pronunciata in assenza di qualsiasi prova di un danno effettivo; la funzione risarcitoria è, invece, perseguita in sede di liquidazione della somma, proprio agganciando la quantificazione ai criteri utilizzati per indennizzare il pregiudizio (sia pure presunto) subìto dalla parte vittoriosa per aver dovuto agire o resistere in giudizio”.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
87
estremi del dolo e/o della colpa grave,
risultando sufficiente per la condanna ai sensi
dell'art. 96, 3° comma c.p.c. un atteggiamento
psicologico suscettibile di una censura
sicuramente più lieve, quale il difetto di
prudenza e/o diligenza nell'agire in giudizio100,
che ove riscontrato impedisce che, nel
bilanciamento dei contrapposti interessi, il
diritto di cui all'art. 24 Cost. possa ritenersi
prevalente su quello previsto dall'art. 111 Cost.
Il concetto innanzi esplicato appare ancora
meglio delineato in un'ulteriore pronunzia di
merito che, innanzitutto, ha individuato, quali
elementi rivelatori del carattere
manifestamente pretestuoso e dilatorio della
resistenza opposta dal soggetto convenuto in
un giudizio, la manifesta infondatezza
dell’unica eccezione realmente sollevata,
l’estrema genericità della difesa nel merito e la
totale rinuncia al benché minimo tentativo di
far valere argomenti concreti in fatto o in
diritto, evidentemente inesistenti101; in
conseguenza, simile condotta è stata ritenuta
integrare gli estremi di un evidente abuso del
diritto costituzionale di resistere in giudizio ed
una grave violazione del corrispondente diritto
di azione della controparte, anch’esso tutelato
dagli art. 24 e 111 cost. e dall’art. 6 CEDU e,
per la quantificazione, in via equitativa, del
pregiudizio arrecato all’attore dalla temeraria
100Trib. Terni, 17 maggio 2010, in Giur. merito, 2011, 2702, secondo cui “In tema di responsabilità aggravata, l’art. 96, 3º comma, c.p.c. sanziona quelle condotte processuali non rispondenti ai presupposti minimi di diligenza professionale necessari per dar luogo alla prevalenza del diritto di difesa di cui all’art. 24 cost. sull’esigenza di assicurare la ragionevole durata del processo e il contenimento dei relativi costi collettivi di cui all’art. 111 cost.; nella fattispecie, relativa a introduzione di fase di opposizione sorretta da fini puramente dilatori, sussiste la condotta illecita descritta”.
101Trib. Roma, 11 gennaio 2010, in Giur. merito, 2010, 2175.
resistenza della convenuta, data la stretta
analogia tra le fattispecie, si è ritenuto che
occorresse fare riferimento alla giurisprudenza
di legittimità formatasi in materia di
risarcimento da irragionevole durata del
procedimento102 ; ancora, anche una condotta
integrante gli estremi del c.d. venire contra
factum proprium è stata ritenuta, dalla
giurisprudenza, idonea a giustificare
l'applicazione della pronunzia prevista dall'art.
96. 3° comma c.p.c., in una ipotesi in cui
l'appaltante, pur avendo accettato senza riserve
l'opera ed essendo nelle condizioni di
riscontrare la sussistenza di eventuali vizi,
ometta di corrispondere il compenso
all'appaltatore e, ricevuto il decreto ingiuntivo,
proponga opposizione assumendo l'esistenza
di, mai denunziati prima, vizi dell'opera103.
Per concludere sul punto, va tenuto presente
che, perché venga pronunziata la condanna in
questione, la soccombenza del destinatario di
essa deve necessariamente essere totale, il che
rende inapplicabile l'istituto de quo in presenza
di soccombenza parziale o reciproca104.
102Trib. Roma, 11 gennaio 2010, cit.
103Trib. Lamezia Terme, 12 luglio 2011in Banca dati Pluris-cedam.utetgiuridica.it.
104In tal senso, App. Firenze, 21 ottobre 2011, in Banca dati Pluris-cedam.utetgiuridica.it, secondo cui “La responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., integra una particolare forma di responsabilità processuale a carico della parte soccombente che abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, con la conseguenza che non può farsi luogo all'applicazione di detta norma quando non sussista il requisito della totale soccombenza per essersi verificata soccombenza reciproca”.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
88
4. I rapporti con gli altri strumenti previsti
dall’art. 96 c.p.c.
Se messa a confronto con gli strumenti previsti
dall’art. 96, 1° comma e dall’art. 96, 2°
comma c.p.c., quella introdotta con il terzo
comma, aggiunto dalla richiamata legge di
riforma del 2009, si rivela indiscutibilmente
diversa, e sotto plurimi aspetti, che già
possono evincersi da una sommaria
descrizione delle misure previste dai primi due
commi dell’art. 96 c.p.c.
Infatti, guardando alle previsioni di cui ai
primi due commi dell’art. 96 c.p.c, esse
considerano come imprescindibile l’espressa
richiesta della parte – la cui indispensabilità è
stata indirettamente confermata, con specifico
riguardo all’ipotesi prevista dal primo comma
dell’art. 96 c.p.c., dalla Corte Costituzionale105
- che si assume danneggiata da una condotta
del soccombente improntata alla mala fede e/o
colpa grave, nonché la presenza di specifici
requisiti, soggettivi ed oggettivi, per la loro
applicazione – che quindi condividono - ed
inoltre si pongono tra loro in rapporto di
genere a specie; invero, quella prevista dal
primo comma dell'art. 96 c.p.c., si rivela una
norma di carattere generale, della quale il
secondo comma della richiamata disposizione
prevede l'applicazione in ipotesi
tassativamente individuate, la cui unica
differenza appare, sostanzialmente, essere stata
individuata da legislatore nel fatto che la colpa
che legittima l'applicazione dello strumento
previsto dal secondo comma non è la colpa
grave né tantomeno la malafede richiesti dal
primo comma, bensì un'atteggiamento
psicologico(e quindi una condotta)di minore
gravità, riconducibile alla colpa lieve, e quindi
identificabile con imperizia, imprudenza e
105Corte Cost., 23 dicembre 2008, n.
435, in Giust. civ., 2009, I, 551.
negligenza; comune, infine, è la previsione
normativa di danni da risarcire(per le cui
modalità liquidative il 2° comma rimanda a
quanto previsto sul punto dal comma 1), che
porta con sé, indirettamente quanto
inequivocabilmente, una funzione risarcitoria
che accomuna le due ipotesi.
Netta e rilevante appare, allora, la differenza
con lo strumento introdotto con il nuovo terzo
comma che, invece, prescinde in toto da
istanza di parte ed allegazione(oltre che prova,
ovviamente)di danni da ristorare, per cui, in
particolare sotto tale ultimo aspetto, l'assenza
di ogni riferimento a profili risarcitori collegati
all'istituto in questione si appalesa come
elemento sistematico ulteriore che conduce a
ritenere che in legislatore abbia inteso
riconoscere alla condanna ex art. 96, 3°
comma c.p.c. carattere sanzionatorio.
Infatti, ove si esamini nel suo complesso la
disposizione di cui all'art. 96 c.p.c., emerge
con evidenza che, mentre il 3° comma non
qualifica il danno in termini di ingiustizia, per
converso l’area del danno aquiliano,
patrimoniale o non patrimoniale che sia,
appare integralmente tutelata e presidiata dalle
disposizioni contenute negli altri due commi, e
la circostanza per la quale il giudice può
procedere anche d’ufficio all'applicazione
della condanna prevista dal terzo comma porta
ad individuare in essa una finalità di tutela di
stampo pubblicistico, che rinviene la propria
ratio nella necessità di un intervento da parte
dello Stato – per il quale il legislatore non ha
affatto previsto come indispensabile la
pregressa esistenza, tra le parti, di qualsivoglia
obbligazione risarcitoria – allorquando una
delle parti con la sua condotta abbia distolto il
processo dal suo naturale scopo, ovvero la
tutela dei diritti e degli interessi legittimi ex
art. 24 Cost., anche se il beneficiario della
somma così determinata è la controparte, dato
che egli è colui che ha direttamente subito le
conseguenze negative della condotta
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
89
processuale pretestuosa o defatigante del suo
contraddittore.
5. L'applicazione concreta della norma.
Innanzitutto, va ricordato come la
giurisprudenza giustifica la non
indispensabilità della preventiva instaurazione
del contraddittorio in ordine alla pronunzia
della condanna ai sensi del terzo comma
dell'art. 96 c.p.c. affermandone la natura di
posterius, dal punto di vista logico, e non di
prius, rispetto alla decisione nel merito106, in
quanto non incide sulla decisione della causa,
ma si limita semplicemente ad affiancarla; il
palesato orientamento giurisprudenziale
rinviene l'adesione di parte della dottrina che,
al fine di giustificare l'inesistenza di un
obbligo, a carico del giudice, di dar vita al
contraddittorio tra le parti allorquando il
medesimo intenda applicare l'art. 96, 3°
comma c.p.c., richiama la previsione dell'art.
101, 2° comma c.p.c., secondo cui se il giudice
ritiene di porre a fondamento della decisione
una questione rilevata d'ufficio, riserva la
decisione, assegnando alle parti, a pena di
nullità, un termine, non inferiore a venti e non
superiore a quaranta giorni dalla
comunicazione, per il deposito in cancelleria
di memorie contenenti osservazioni sulla
medesima questione107, dalla quale si evince,
argomentando a contrario, che non può dirsi
esistente tale obbligo poiché il provvedimento
giudiziale previsto dall'art. 96, 3° comma c.p.c.
non attiene ad una questione che il giudice
rileva d'ufficio e che ritiene imprescindibile ai
106Trib. Piacenza. 22 novembre 2010, in Resp. civ., 2011, 2576.
107Per effetto della previsione contenuta nell''art. 45, 2° comma, della legge 18 giugno 2009, n. 69.
fini della decisione108 e, pertanto
obbligatoriamente da sottoporre al
contraddittorio delle parti.
In ordine agli elementi il cui riscontro nella
fattispecie concreta risulta indispensabile
perchè il giudice possa emettere il relativo
provvedimento, in dottrina non vi è concordia
di opinioni, in quanto si è sostenuto, per un
verso, che anche in assenza, nell'art. 96, 3°
comma c.p.c., di una specifica individuazione
dei presupposti applicativi, la collocazione
sistematica di essa nel contesto di una
disposizione inerente la responsabilità
aggravata induce a privilegiare
quell'interpretazione che pone a fondamento
della sua applicazione il positivo riscontro di
una condotta processuale del soggetto
sanzionato che integri gli estremi previsti dal
1° comma della norma stessa109; infatti, si
ritiene indubbiamente insoddisfacente ed
inaccettabile l'unica possibile interpretazione
alternativa, consistente nell'ancorare la sua
applicazione alla sola evenienza della
soccombenza, il che la renderebbe priva di
concreta giustificazione sia dal punto di vista
del suo utilizzo sia dal punto di vista della sua
collocazione sistematica, altrimenti
difficilmente giustificabile110, dato che la
soccombenza può verificarsi anche se non vi
sia stata azione e/o resistenza in giudizio con
malafede o colpa grave da parte del soggetto
destinatario dell'eventuale condanna ex art. 96,
3° c.p.c.; secondo altra opinione, invece, non
occorre avere agito e/o resistito in giudizio con
108POTETTI D., Novità della l. n. 69/2009 in tema di spese di causa e responsabilità aggravata, in Giur. Merito, 2010, 937.
109DE MARZO G., op. cit., p. 398.
110DE MARZO G., op. loc. cit.,
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
90
malafede o colpa grave perchè il giudice
pronunzi la condanna di cui al terzo comma111.
Va evidenziato che la giurisprudenza in alcune
pronunzie si è mostrata concorde con il
secondo orientamento innanzi richiamato,
pervenendo sostanzialmente ad affermare che,
quella che prima facie potrebbe sembrare una
dimenticanza del legislatore, deve in realtà
considerarsi il frutto di una scelta precisa volta
ad evitare che, attraverso l'indicazione di
elementi specifici e ben individuati, si
producesse il non voluto effetto di una
riduzione(eccessiva)dell'ambito applicativo
della norma, con contestuale riduzione della
sua (sperata dal legislatore)efficacia deflattiva
del contenzioso civile. Si è affermato, infatti,
che “La mancata predeterminazione degli
indici di liquidazione della sanzione prevista
dall’art. 96, 3º comma, c.p.c. non costituisce
violazione del principio di legalità, in
considerazione del fatto che tale modalità di
costruzione della norma assolve alla necessità
di non vincolare il giudice a fronte di
situazioni che per la loro mutevolezza non
possono essere previamente determinate ed
alla necessità di adeguare quanto più
compiutamente il fatto concreto alla norma
astratta”112; la citata decisione appare
meritevole di considerazione anche per il fatto
che ha inteso accogliere la ricostruzione che
assegna alla novella legislativa la finalità di
sanzionare l’abuso del processo al di fuori
dell’area della responsabilità aquiliana; a tale
ultimo proposito, infatti, condivide
quell'orientamento secondo cui “si tratta di
una pronuncia che introduce nell’ordinamento
una forma di danno punitivo per scoraggiare
l’abuso del processo e preservare la
111CECCHELLA C., Il nuovo processo civile, Milano, 2009, p. 90.
112Trib. minorenni Milano, 4 marzo 2011, in Famiglia e dir., 2011, 809.
funzionalità del sistema giustizia, ciò che
esclude la necessità di un danno di
controparte, pur se la condanna è prevista a
favore della parte e non dello stato; e di una
pronuncia che presuppone il requisito della
malafede o della colpa grave; è teoricamente
possibile la coesistenza di una pronuncia di
condanna ai sensi del 1º e 3º comma dell’art.
96 c.p.c.”113 e che si segnala, altresì, per il
pacifico riconoscimento della possibilità della
contestuale applicazione della condanna ai
sensi del primo e del terzo comma dell'art. 96
c.p.c..
La circostanza da ultimo rilevata in relazione
alla predetta decisione, unitamente alla
prevedibile condanna alle spese in
applicazione del principio della soccombenza,
consente di ipotizzare che un soggetto possa
venire, con la medesima decisione, gravato di
un triplice condanna, rispettivamente ai sensi
dell'art. 91 c.p.c., nonché dell'art. 91, 1°
comma c.p.c. e 96, 3° comma c.p.c.: tanto
appare giustificabile innanzitutto considerando
la differente natura da riconoscere ai due
istituti, risarcitoria quella ex art. 96, 1° e 2°
comma c.c., sanzionatoria, invece, quella ex
art. 96, 3° comma c.c., che appaiono, pur nella
loro diversità, convergere verso la tutela di un
nucleo composito di interessi, privatistico e
pubblicistico.
Inoltre, è la stessa espressione letterale
utilizzata dal legislatore nel testo del terzo
comma dell'art. 96 in questione che rende
legittimo ritenere che la condanna pronunziata
ai sensi del richiamato terzo comma si
aggiunga e non si sostituisca a quella
eventualmente disposta ai sensi dei primi due
commi.
Puntano in tale direzione, ed in modo invero
alquanto inequivoco, l'iniziale espressione “in
113Trib. Piacenza, 22 novembre 2010, cit.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
91
ogni caso”, che testimonia una volontà del
legislatore di rendere l'applicazione dell'art.
96, 3° comma indipendente dai primi due
commi della norma stessa; inoltre, l'avverbio
“altresì” pare togliere ogni residuo dubbio,
ove si tenga presente che, dal punto di vista
dell'analisi grammaticale, l'avverbio in
questione è uno di quelli definiti come
aggiuntivi, cioè utilizzati per aggiungere, nel
contesto di una frase, qualcosa al verbo e/o
all'intera frase, che i sinonimi di esso sono
anche ed inoltre e che, infine, detto avverbio
deriva dall'espressione latina alterum sic!
Ai fini della determinazione del quantum, uno
dei criteri individuati dalla giurisprudenza è
costituito dal prendere quale riferimento, in
termini di valore di partenza, il costo medio di
un anno di processo, procedendo
successivamente alla sua eventuale
modulazione ed adeguamento, in
considerazione delle specifiche caratteristiche
del caso concreto114; secondo altra decisione,
invece, i criteri di determinazione della somma
da liquidare ex art. 96, 3º comma, in virtù della
attribuita funzione sanzionatoria, possono
essere ricavati dall’intensità dell’elemento
soggettivo e dalla gravità della condotta di
abuso del processo e di incidenza sulla sua
durata115.
A mero titolo di esempio, la giurisprudenza di
merito ha fatto significativa applicazione
dell'istituto in presenza di una condotta della
parte processuale che avanzava reiterate
quanto immotivate, oltre che assolutamente
non suffragate dai necessari elementi e
riscontri, richieste di modifica del regime di
affidamento del figlio minore, con l'affermare
che “In tema di condanna alle spese nel
114Trib. Varese, 23 febbraio 2012, cit.
115Trib. Rovigo, sez. dist. Adria, 7 dicembre 2010, in Giur. it., 2011, 2568.
procedimento concernente l’affido del minore
la disposizione di cui all’art. 155 bis, ultimo
capoverso, è finalizzata a presidiare il regime
ordinario dell’affido condiviso contro
immotivate e pretestuose richieste di
affidamento esclusivo; pertanto, nel caso di
specie, la reiterazione di tale ultima domanda
senza fornire elementi a suo sostegno
configura una condotta contraria ai doveri di
lealtà e probità espressi dall’art. 88 c.p.c. e la
parte va condannata - in applicazione del
potere officioso concesso dal combinato
disposto degli art. 155 bis c.c. e 96, 3º comma,
c.p.c. - al pagamento di una somma
equitativamente determinata”116,
6. Riflessioni conclusive.
Alla luce di quanto innanzi esposto, ad
opinione di chi scrive, allo strumento
configurato dal 3º comma dell’art. 96 c.p.c.
non può, ragionevolmente, riconoscersi natura
risarcitoria, poiché altrimenti esso si
rivelerebbe una irragionevole ed anche, tutto
sommato, inutile, reiterazione delle
disposizioni di cui al 1º e 2º comma della
stessa norma, rispetto alle quali non si
rivelerebbe produttivo di benefici ulteriori, tali
da giustificare la scelta legislativa di sua
introduzione; infatti, in tale ottica, come
strumento puramente risarcitorio, esso si
rivelerebbe – e del resto non poche opinioni
critiche verso tale ricostruzione lo hanno
evidenziato – per un verso fonte di non
trascurabili problemi applicativi e, per altro
verso, suscettibile di aprire la strada ad un
arbitrio incontrollato ed incontrollabile del
giudice, con i prevedibili eventuali risvolti
negativi.
116Trib. Minorenni Milano, 29 marzo 2011, in Dir. Famiglia, 2012, 283.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
92
A tanto consegue, allora, che lo strumento in
questione deve ritenersi qualcosa di altro e
diverso rispetto a quelli previsti dai primi due
commi dell’art. 96 c.p.c., trattandosi dunque di
un nuovo illecito processuale, che ben poco o
nulla condivide con le altre ipotesi.
Inoltre, non appare infondato ritenere come lo
stesso costituisca – o dovrebbe costituire, nelle
intenzioni del legislatore - la generalizzazione
del disposto dell’abrogato ultimo comma
dell’art. 385 c.p.c., come i lavori preparatori
della legge 69/2009 e la relazione per il primo
disegno di legge attestano inequivocabilmente.
Infatti, con la nuova previsione, è stata
aggiunta alle preesistenti ipotesi una
fattispecie a carattere sanzionatorio, che di
certo si distacca da quelli che sono i tipici
canoni strutturali dell’illecito civile,
collocandosi sul diverso versante per
confluire nelle cd. condanne punitive o
sanzioni civili indirette.
Essa, invero, riveste funzione sia
sanzionatoria, per il passato, che deterrente,
per il futuro, nei confronti di condotte
processuali non sorrette dal minimo grado di
diligenza tollerabile, tanto da non consentire
che, nel bilanciamento degli interessi in gioco,
il diritto di difesa possa prevalere su quello a
una ragionevole durata del processo e quindi, a
maggiore ragione vista la previsione della
condanna in favore della controparte di colui
che del processo si serve indebitamente – id
est, ne abusa.
Che essa possa assimilarsi alle sanzioni civili
indirette appare confermato, anche se
indirettamente, ove si consideri che, se in
relazione all’ormai abrogato art. 385, 4°
comma c.p.c. la dottrina non aveva avuto
esitazioni a riconoscere che il legislatore, con
l’introduzione di tale norma, si era per la
prima volta spinto a dare ingresso, nel nostro
ordinamento, ad una simile sanzione117, allora,
considerato che l’art. 96, 3° comma c.p.c. è
sostanzialmente identico al citato art. 385,
appare alquanto lineare e difficilmente
revocabile in dubbio il riconoscimento di tale
natura anche alla misura afflittiva patrimoniale
prevista dall’art. 96, 3° comma c.p.c.
Quindi, quello in questione costituisce uno
strumento che, come il sottoscritto ha già
avuto modo di evidenziare, si rivela una diretta
esplicazione del principio del giusto processo
di cui all’art. 111 Cost. e che rappresenta, in
sostanza, la codificazione della reazione
dell’ordinamento giuridico ad una specifica
ipotesi di abuso del diritto, ovvero di quello
processuale118; sul punto, quanto sostenuto
pare avere trovato piena condivisione
nell'orientamento della giurisprudenza che ha
affermato sia che la norma prevista dall’art.
96, 3º comma, c.p.c. va interpretata nel senso
di rimedio al pregiudizio non patrimoniale
sofferto dalla parte interamente vittoriosa,
conseguente all’indebito coinvolgimento in un
processo evitabile con l’ordinaria diligenza e
prudenza, al fine di assicurare la riparazione di
un danno che, secondo l’id quod plerumque
accidit, è normalmente collegato alla
celebrazione di un processo irragionevole119.
Ancora, nel rilevare il fatto che la norma
sancita dall'art. 96, co. 3, c.p.c. persegua lo
scopo immediato di approntare una
117DE CRISTOFARO M., in Commentario al codice di procedura civile, a cura di Consolo C. e Luiso F.P., Milano, 2007, II, 3099.
118Sia consentito il rinvio a CASCELLA G., Giusto processo e frazionamento di un credito unitario, nota a Trib. Mantova, 3 novembre 2009, p. 22, in http://www.comparazionedirittocivile.it/sezioni.asp?cod_cat=27&nome_cat=Obbligazioni%20e%20Contratti%20%20Note,%20commenti%20e%20rassegne ISSN 2037-5662.
119Trib. Oristano, 17 novembre 2010, in Foro it., 2011, I, 2200.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
93
soddisfazione in denaro alla parte risultata
vincitrice in un processo civile, indirettamente
si coglie l'ulteriore intento della legge di
arginare il proliferare di cause superflue che
appesantiscono oggettivamente gli uffici
giudiziari ostacolando la realizzazione del
giusto processo attraverso il rispetto del valore
(costituzionale ed internazionale) della
ragionevole durata del processo120 .
In conclusione, per fare in modo che l’istituto
risponda effettivamente alla finalità per la
quale è stato introdotto nel 2009, evitando
situazioni estreme rappresentate, per un verso,
da sue utilizzazioni improntate al totale ed
incontrollato arbitrio da parte del giudice
oppure, da un punto di vista diametralmente
opposto, il suo totale – o quasi – inutilizzo,
sarebbe certo opportuno che il legislatore
intervenisse per rimediare, in termini di
interpretazione autentica – come del resto fatto
di recente, a fine 2011, per la nota
problematica dell’interpretazione dell’art. 645
c.p.c. - a quelli che appaiono gli interrogativi
di maggiore rilievo suscitati dalla norma,
facendo doverosa chiarezza sui presupposti
applicativi in termini di an e quantum della
disposizione stessa, sia sul versante di una –
quantomeno a grandi linee – definizione della
condotta tenuta dalla controparte e dei
parametri sulla scorta dei quali valutarla ai fini
di giustificare l’applicazione del 3° comma
dell’art. 96 c.p.c., sia su quello dei criteri con
cui calcolare l’ammontare della condanna,
risultando insufficiente, ictu oculi, il mero
riferimento alla sua liquidazione equitativa;
questo a maggiore ragione in considerazione
del fatto che, mancando nell’art. 96, 3° comma
c.p.c. qualsivoglia accenno ad un danno
ipoteticamente subito dalla controparte del
120Cons. Stato, sez. V, 23 maggio 2011, n.3083, in Banca dati Pluris-cedam.utetgiuridica.it.
soggetto che abbia tenuto una condotta
processuale illecita, il riferimento alla
liquidazione equitativa scolora e sbiadisce,
sino a diventare evanescente.
Non occorrerebbe, invero, un grande sforzo,
dal momento che, se il modello di riferimento
che il legislatore della legge 69/2009 ha preso
in considerazione per trasformare una norma
di applicazione indiscutibilmente circoscritta
al solo giudizio di cassazione121 in una
disposizione volta a sanzionare,
sostanzialmente, qualsiasi ipotesi di
responsabilità per un utilizzo abusivo e
fuorviante di qualsiasi tipo di processo, è –
indiscutibilmente – quello previsto
dall'abrogato quarto comma dell'art. 385 c.p.c.,
forse sarebbe stato sufficiente, per evitare gli
evidenziati problemi applicativi o di un suo
uso distorto e non conforme122, utilizzare in
pieno i criteri ed i parametri previsti, appunto,
dall'abrogata disposizione; anzi, ben potrebbe
dirsi che tanto era non solo sufficiente, quanto
e soprattutto doveroso, se l'intento del
legislatore – non dichiarato e non di meno
palese – era quello di farne una disposizione
suscettibile di applicazione generalizzata.
121Tale norma, introdotta dall'art. 13 del d.lgs 2 febbraio 2006, n. 40, che aveva aggiunto il quarto comma all'art. 385 c.p.c., prevedeva precisamente che, allorquando pronunciava sulle spese, anche nelle ipotesi di cui all'art. 375, la S.C. , anche d'ufficio, poteva altresì condannare il soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma, equitativamente determinata, non superiore al doppio dei massimi tariffari, ove ritenesse che il predetto soccombente aveva proposto il ricorso oppure vi aveva resistito anche solo con colpa grave.
122Nel qual caso si verificherebbe la paradossale situazione per cui uno strumento previsto dal legislatore per prevenire, agendo da deterrente, e comunque contrastare, utilizzi distorti fuorvianti e temerari del processo, finisca esso stesso per venire utilizzato abusivamente ed arbitrariamente.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
94
Formula di
ELENA BRUNO
TRIBUNALE DI __________
ATTO DI PIGNORAMENTO PRESSO TERZI E CONTESTUALE CITAZIONE EX
ART. 543 C.P.C.
Ad istanza della sig.ra ___________, nata a _________ (___) il _______, residente in
__________ (___) alla via ___________, C.F. _____________, rappresentata e difesa, in
virtù di procura al margine del presente atto dall'avv. ________________ presso il cui studio
in __________, piazza _________, _ (____) , elege domicilio e che dichiara di voler ricevere
eventuali comunicazioni all'indirizzo pec123 ____________ o al numero di fax _________
PREMESSO
che con sentenza del _______________ (cron. _____) della Corte d’Appello di
123 Indicazione oggi necessaria a seguito della modifica apportata all'art. 543 c.p.c. alla L. 228/2012
Atto di pignoramento presso terzi dopo la riforma 2013
Schemi &
Formule
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
95
__________ emessa a definizione del giudizio iscritto al n. _____ R.G. della stessa Corte
d'Appello introdotto da ______________, il Ministero ____________ era condannato al
pagamento, in favore della sig.ra ____________, della somma di euro ________ per esborsi,
euro ____ per diritti ed euro ______ per onorari, oltre cassa previdenziale ed IVA
sull'imponibile;
-che, la predetta sentenza, immediatamente esecutiva ex lege, è stata notificata in forma
esecutiva il ___________ al Ministero _________________, in persona del Ministro p.t.,
presso la sua sede;
che, essendo inutilmente trascorsi i 120 giorni di cui al primo comma dell’art. 14 D. Lgs
669/1996, in data _____________________ era notificato al Ministero ___________- atto di
precetto contenente l’intimazione al pagamento della somma di euro __________- oltre spese
successive ed occorrende ed interessi fino al soddisfo;
-- che, nonostante la ritualità della notifica dell’atto di precetto, l’istante, a tutt’oggi, risulta
ancora creditrice, nei confronti del Ministero ____________-, della somma di euro
___________________ oltre agli interessi fino al soddisfo, alle ulteriori eventuali spese,
diritti e onorari successivi, per cui si rende necessario procedere agli atti esecutivi;
-che il Ministero della ____________, in persona del Ministro pro tempore, risulta essere
titolare di conti correnti e depositi presso la Banca _________________-, sita in Via dei
__________, ___________;
-che, altresì, il Ministero _________- risulta essere titolare di conti correnti e depositi
presso la banca ___________ s.p.a. con sede alla Via _____________ - (___) __-;
- che l’istante – al fine di vedere soddisfatte le proprie ragioni – intende procedere al
pignoramento delle somme di proprietà del Ministero _________, in persona del Ministro p.t.
a qualsiasi titolo detenute e dovute presso gli indicati istituti bancari fino alla concorrenza
della somma dovuta, oltre interessi e spese e competenze successive.
Tanto premesso, l’istante, come sopra rappresentata e difesa
CITA
1) Il Ministero ___________, in persona del Ministro p.t., con sede in Roma, alla via
_________;
2) la Banca _________ spa in persona del legale rapp.te p.t. con sede in _________ alla
via _________ n. __;
3) la Banca __________ s.p.a. in persona del legale rapp.te p.t, con sede in ________
alla Via _____________ - _______;
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
96
a comparire innanzi al Giudice dell’esecuzione del Tribunale di ___________, ora di rito,
all’udienza del , (124quando il pignoramento non riguarda i crediti di cui
all’articolo 545, commi 3 e 4 cpc, si aggiunga: “i soli terzi pignorati mediante invio, entro
dieci giorni, di raccomandata ovvero di posta elettronica certificata”), affinché il Ministero, in
persona del Ministro p.t., sia presente alla dichiarazione e agli atti ulteriori e gli altri istituti
citati facciano la dichiarazione di rito prevista dall’art. 547 c.p.c. ed assistano agli atti
successivi, con avvertimento che, non comparendo, nei casi di cui all'art. 548 co. 1 c.p.c., i
crediti si intenderanno non contestati mentre, negli altri casi, si procederà come per legge125.
Inoltre
INTIMA
alla Banca __________, in persona del legale rapp.te p.t. in persona del suo legale
rapp.te pro tempore, con sede in __________ alla via __________;
nonché alla Banca __________ s.p.a. in persona del suo legale rapp.te p.t., presso la sua
sede di Via __________ - ___________ di non disporre delle somme pignorate e delle
successive occorrende senza ordine del Giudice, pena le sanzioni previste dalla legge.
Si dichiara che il valore della presente procedura esecutiva mobiliare è di € __________
Si produce atto di precetto e titolo esecutivo notificati.
____________, lì _________ Avv. _____________
RELATA DI NOTIFICA
A richiesta di. __________, rappresentata e difesa dall'avv. ______________
presso il cui studio in _______, ___________ , Io sottoscritto Ufficiale Giudiziario
addetto all’Ufficio Unico Esecuzioni e Notifiche presso il Tribunale di _________, vista
l’istanza di pignoramento che precede, vista la sentenza n. _______ emessa dalla Corte
d’Appello di ___________ in data ________ pubblicata il ______ munita della formula
esecutiva il ___________ e notificata in data ___________ al Ministero _____________,
124 Il nuovo art. 543 cpc, riscritto dalla L. 228/12 prevede l'obbligo per il terzo citato di comparire all'udienza solo quando il pignoramento riguardi crediti di lavoro. Negli altri casi il terzo può invece rendere la dichiarazione o a mezzo posta, come già stabilito dalla precedente riforma del 543 c.p.c. Oppure, dal 1 Gennaio 2013, anche a mezzo PEC
125 Il nuovo art. 548, pure modificato dalla L. 228/12 dispone che, qualora il terzo non compaia all'udienza e si tratti di crediti di lavoro, il credito stesso si intende non contestato. Negli altri casi, quando il terzo non abbia inviato la dichiarazione prevista ed il creditore, comparendo, lo dichiari, deve essere fissata altra udienza con ordinanza da notificarsi al terzo almeno dieci giorni prima della nuova udienza. Se anche alla seconda udienza il terzo non abbia reso la dovuta dichiarazione, il credito si intenderà non contestato.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
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in persona del Ministro p.t. presso la sua sede nonché, in data __________, presso
l’Avvocatura dello Stato di _________; visto, inoltre, l’atto di precetto, ritualmente
notificato in data _______________________ al Ministero della _______________ in
persona del Ministro p.t. presso la sua sede e il ____________________ presso
l'Avvocatura dello Stato di _________, con cui la creditrice ha intimato il pagamento
della somma di euro __________ oltre spese legali ed interessi successivi;
ritenuto che il termine per adempiere è infruttuosamente scaduto
HO PIGNORATO
In forza del suindicato titolo tutte le somme dovute e debende dalla Banca __________,
in persona del legale rapp.te p.t., con sede in ______ alla via _________________,
nonché dalla Banca ______________ s.p.a. in persona del suo legale rapp.te p.t., con
sede di ___________________ -__________ Roma al Ministero __________ in persona
del Ministro p.t. con sede in _______, alla via _______________ fino alla concorrenza di
euro ________, ai sensi dell’art. 546 co. 1 c.p.c., a tutela del credito dell’istante portato
dal precetto e fino alla concorrenza del complessivo credito dell’istante, somme che
dovranno essere rese indisponibili per il debitore sin dalla notifica del presente atto. A tal
fine
HO INGIUNTO
Ai sensi dell’art. 492 co. 1 c.p.c. al Ministero ___________, in persona del Ministro pro
tempore, con sede in _____, alla via ___________, di astenersi da qualunque atto diretto a
sottrarre alla garanzia del credito suddetto le somme pignorate fino alla concorrenza del
credito, oltre successive occorrende;
HO INVITATO
ai sensi dell’art. 492 co. 2 c.p.c., il debitore ad effettuare presso la cancelleria del Giudice
dell’esecuzione la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio in uno dei Comuni
del circondario in cui ha sede il Giudice competente per l’esecuzione, con l’avvertimento
che, in mancanza, ovvero in caso di irreperibilità presso la residenza dichiarata o il
domicilio eletto, le successive notifiche e comunicazioni allo stesso dirette saranno
effettuate presso la cancelleria dello stesso giudice.
HO AVVERTITO
Formalmente, ai sensi dell’art. 492 co. 3 c.p.c. il debitore stesso che ai sensi dell’art. 495
c.p.c., prima che sia disposta la vendita o l’assegnazione a norma degli artt. 530, 552 e
569, può chiedere di sostituire ai crediti o beni pignorati una somma di denaro pari
all’importo dovuto al creditore pignorante ed agli intervenuti, comprensivo del capitale,
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
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degli interessi e delle spese, oltre che delle spese di esecuzione, sempre che, a pena di
inammissibilità, sia dal medesimo debitore depositata in cancelleria, prima che sia
disposta la vendita o l’assegnazione a norma degli artt. 530, 552 e 569 c.p.c., la relativa
istanza unitamente ad una somma non inferiore ad un quinto dell’importo del credito per
cui è stato eseguito il pignoramento e dei crediti dei creditori intervenuti indicati nei
rispettivi atti di intervento, dedotti i versamenti eventualmente effettuati, di cui deve
essere data prova documentale. Nel contempo
HO INTIMATO
Ai sensi dell’art. 543 co. 2 c.p.c., alla Banca _____________ in persona del legale
rapp.te p.t. con sede in ___________ alla via _______ n. ____, nonché alla Banca
_____________ s.p.a. in persona del suo legale rapp.te p.t., con sede di
Via________________- ____________di non disporre delle somme pignorate, oltre
successive occorrende, senza ordine del Giudice con espresso avvertimento che, in difetto,
verranno applicate le sanzioni di legge.
In pari tempo
HO NOTIFICATO
I suestesi atti di citazione e di pignoramento così di seguito:
1) al MINISTERO _____________ in persona del Ministro p.t. con sede in ________,
alla via _____________, mediante
2) al MINISTERO _____________ persona del Ministro pro-tempore domiciliato ex
lege in __________ presso l’Avvocatura dello Stato in via ____________, mediante
3) alla BANCA __________, in persona del legale rapp.te p.t., con sede in _______
alla via _________ n. _____-, mediante
4) alla Banca ___________ s.p.a. in persona del suo legale rapp.te p.t., con sede di Via
____________ - _____________
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
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Formula di
LUIGI VIOLA
CORTE D'APPELLO DI ..... Atto di citazione in appello ex art. 342 c.p.c. come novellato dalla L. 134/2012 PER: dott. ..... elettivamente domiciliato ai fini del giudizio di cui al presente atto in ....., presso lo studio dell'Avv. ....., C.F. ......, pec. ......., fax ......, che lo rappresenta e difende in virtù di procura a margine del presente atto (1)..... FATTO e DIRITTO In data …veniva formulato atto di citazione diretto a….nei confronti di….. In fase istruttoria emergeva che…….come desumibile da quanto scritto….. In data…venivano presentate le memorie conclusionali e, successivamente, le repliche, con cui si chiedeva…. Con sentenza n. ..... pubblicata in data ..... notificata in data….il Tribunale di ..... statuiva che…. Avverso la predetta sentenza il dott….., come sopra generalizzato e difeso, propone appello per la seguente MOTIVAZIONE(2) Con il presente scritto difensivo si impugna la suddetta sentenza esattamente nella parte di cui al n. 3, pag. 3 dove si dice che “…” ed il n. 4, pag. 4 dove si dice che “…”; si chiede la modifica di tali parti in favore di una pronuncia che affermi
Atto di appello dopo la Legge 134/2012
Schemi &
Formule
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-….. -….. Difatti, -il fatto, per come enunciato dal giudice di prime cure, non è condivisibile perché in contrasto con ……… La nuova ricostruzione è rilevante ai fini della decisione perché….. -altresì…… Si evidenzia che la richiesta è in linea con la giurisprudenza prevalente di cui alle sentenze …., così sussistendo numerosissime probabilità di accoglimento(3). Tanto affermato, l’odierno appellante CITA il ……... a comparire innanzi alla Corte d'Appello di ..... per l'udienza del ..... , con invito al convenuto a costituirsi nel termine di venti giorni prima dell'udienza indicata, ai sensi e nelle forme stabilite dall'art. 166 c.p.c., ovvero di dieci giorni prima in caso di abbreviazione dei termini, e a comparire, nell'udienza indicata, dinanzi al collegio designato ai sensi dell'art. 168 bis c.p.c., con l'avvertimento che la costituzione oltre i suddetti termini implica la decadenza di cui all'art. 343 c.p.c. (appello incidentale), per ivi sentire accogliere le seguenti CONCLUSIONI Voglia la Corte d'Appello di ....., in riforma della sentenza impugnata: ......... con vittoria delle spese e compensi, nulla escluso, alla luce del D.M. 140/2012. In base all’ 283 c.p.c., si chiede che sia sospesa in tutto (o in parte) l'efficacia esecutiva della sentenza impugnata, per le ragioni che: a).. b)…. Ai sensi dell'art. 14, D.P.R. n. 115 del 2002, si dichiara che il valore della presente causa è di € ..... Si depositano copia autentica della sentenza di primo grado e il fascicolo di primo grado dell'appellante. Città e Data Firma ------------------------ (1) La procura al difensore per il giudizio di appello deve ritenersi validamente conferita in calce o a margine della copia notificata della sentenza impugnata, quando il deposito del documento - per la cui attestazione è sufficiente il timbro e la sottoscrizione del cancelliere in calce all'indice dei documenti contenuto nel fascicolo di parte - sia avvenuto al momento
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della costituzione in giudizio (Cassazione civile 6539/2002, in Arch. Giur. Circolaz., 2003, 337). Non costituisce causa di inammissibilità dell'appello l'indicazione, in esso, da parte del difensore, di una procura invalida, se il difensore stesso sia altresì provvisto di altra procura valida anche per la proposizione del gravame, rilasciatagli in primo grado, poiché il richiamo alla sola procura invalida non indica, di per sé, la volontà implicita di non avvalersi dell'altra (Cassazione civile 19975/2005, in Guida al Diritto, 2005, 46, 59). (2) L’art.342 c.p.c. recita che l’appello deve essere motivato, a pena d’inammissibilità. La motivazione, si ritiene (VIOLA, Il nuovo appello filtrato, Pistoia, Altalex ed., 2012, 23), debba essere “rescindente e rescissoria”, ovvero contenere sia l’indicazione della parte “criticata”, sia di come si vorrebbe fosse modificata la pronuncia. Oggi la motivazione, pretesa dall’art. 342 c.p.c., impone una rivisitazione delle vecchie formule di atto di appello: bisognerà redigere l’atto con una parte rescindente ed una rescissoria, ovvero una parte che critica, spiegandone il “perché”, ed un’altra che “costruisce” la versione fattuale che si auspica. L’atto di appello diviene – per questa via – rescindente e rescissorio. (3) Poiché il giudice d’appello può dichiarare l’inammissibilità basandosi su precedenti giurisprudenziali ex art. 348 ter c.p.c., allora al fine di evitare tale pronuncia può essere utile indicare la presenza di orientamenti favorevoli all’accoglimento dell’impugnazione. Quando è pronunciata l’inammissibilità, prima di procedere alla trattazione (sentite le parti), viene emessa un’ordinanza succintamente motivata, anche attraverso il rinvio ad uno o più atti di causa e il riferimento a precedenti conformi
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di
VALERIA CONTI
La legge del 28 giugno 2012, n. 92, meglio conosciuta come legge Fornero, ha introdotto un nuovo rito, ad istruttoria sommaria, per le sole controversie aventi ad oggetto l’accertamento della legittimità del licenziamento, rito caratterizzato, come vedremo, da indubbia celerità.
Il nuovo rito processuale si articola in due fasi: una prima, sommaria, volta a garantire al lavoratore una tutela urgente che inizia e si conclude in un'unica udienza; una seconda, eventuale, che prende avvio con l’impugnazione della precedente decisione del Giudice. Quest’ultima fase si instaura con rito ordinario ex art. 414 c.p.c.
Il nuovo rito Fornero
Schemi &
Formule
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Schema della fase sommaria
¹La riforma è intervenuta, altresì, sul termine per il deposito del ricorso, non più entro
270 giorni dall’impugnazione, termine introdotto dal Collegato Lavoro, bensì 180 giorni.
Si precisa che il nuovo termine decadenziale si applica ai soli licenziamenti intimati dopo
l’entrata in vigore della legge.
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² Il nuovo rito segue la falsariga dei procedimenti cautelari ex art. 700 c.p.c. Viene
meno, tuttavia, la necessità di dimostrare la sussistenza dei tradizionali requisiti di
urgenza, quali, il fumus boni juris ed il periculum in mora. Sul tema della compatibilità
tra azione ex art. 700 c.p.c. e nuovo rito Fornero si veda RINALDI, Procedimento
cautelare e “nuovo” rito Fornero ex L. 92/2012: “Scompare” o viene “tollerato” l’articolo
700 c.p.c. in materia di licenziamenti?, in La Nuova Procedura Civile, 1, 2013.
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Schema della fase eventuale (di opposizione)
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DI
MARCO MECACCI
A) I PRINCIPI CHE REGOLANO LE NULLITÀ PROCESSUALI
La nullità è un vizio dell'atto processuale che consegue alla mancata osservanza dei requisiti obbligatori di forma – contenuto richiesti dal codice di procedura civile
Non può mai essere pronunciata, se l'atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato; deve essere prevista dalla legge, o comunque conseguire all’impossibilità di perseguire la finalità dell’azione processuale.
Il disposto è diretta applicazione dei principi fissati in via generale dall’art. 121, che prevede la libertà delle forme degli atti processuali e l’impossibilità che questi possano essere invalidati quando hanno raggiunto il loro scopo.
ART. 156 RILEVANZA DELLA NULLITÀ
ART. 157 RILEVABILITÀ E SANATORIA DELLA NULLITÀ
Sempre in applicazione del principio della conservazione degli atti, la nullità è rilevabile solo su istanza di parte, a meno che la legge non disponga diversamente.
La parte che ha prodotto l’atto viziato o che ne è stata causa, non può mai invocare il vizio nel proprio interesse. Se ciò fosse possibile, le sarebbe attribuita una facoltà illimitata di vanificare gli effetti del suo comportamento.
Allo stesso modo, non ha legittimazione ad eccepire la nullità, la parte che a questa abbia liberamente rinunziato.
Schemi &
Formule
Le nullità processuali
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Il limite temporale per la pronuncia sulle nullità relativa, derivante dalla necessità di garantire la massima stabilità possibile al processo, è la prima istanza successiva all’atto o alla sua notizia.
Il principio ha carattere generale, e si applica a tutte le nullità processuali ad eccezione di quelle di carattere insanabile.
ART. 159 DIMENSIONE ED ESTENSIONE DELLE NULLITÀ PROCESSUALI
Il principio è sempre quello della massima conservazione possibile degli atti interni al processo.
La nullità, tuttavia, si estende all’atto che ne è affetto e a tutti quelli successivi che da questo dipendono.
Qualora riguardi una sola parte dell’atto, non si estende all’intero ove ne sia possibile la conservazione.
ART 162 PRONUNCIA SULLA NULLITÀ
Sempre nell’ottica di un’interpretazione funzionale dello strumento processuale, e dell’evidente favor verso la conservazione degli atti, si dispone che il giudice, ove sia possibile, ordini la rinnovazione degli atti processuali viziati.
In conseguenza della causa di nullità processuale, è inoltre attribuito al giudice il potere di sanzionare la parte che è stata causa della nullità, ponendo a suo carico le spese della rinnovazione.
Su istanza di parte, è previsto che il responsabile possa essere condannato al risarcimento dei danni quando il vizio processuale sia a lui imputabile per dolo o colpa grave.
Nella pratica si tratta di ipotesi di pressoché nulla ricorrenza.
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B) LE TIPOLOGIE DI NULLITÀ PROCESSUALE
CARATTERI DELLE NULLITÀ Si distinguono nullità sanabili (a) e nullità insanabili (b). Le prime possono essere oggetto di sanatoria per convalidazione oggettiva, cioè divenire atti processuali validi qualora abbiano raggiunto lo scopo o non siano state comunque rilevate nei tempie nelle forme regolate dal codice. Sono ugualmente sanabili, gli atti processuali che possono essere oggetto di rinnovazione. Le nullità insanabili, non possono essere in alcun modo convalidate e sono rilevabili in ogni stato e grado del processo
(a) NULLITÀ SANABILI
Sono previste espressamente dalla disciplina generale del codice ed attengono a tre precise tipologie.
(a1) ATTI PROCESSUALI
L’atto processuale è viziato, e pertanto nullo, soltanto quando sia totalmente inidoneo al raggiungimento del suo scopo (art. 156)
(a2) NOTIFICAZIONE
L’atto notificato è nullo, qualora non siano state osservate le disposizioni sulla persona cui deve essere consegnata la copia, o se vi processuale è incertezza assoluta sulla persona o sulla data. La notificazione è comunque valida quando l’atto ha raggiunto lo scopo ed è stato validamente indirizzato al destinatario, o quando il vizio non sia stato eccepito nelle forme di rito (art. 160)
(b1) COSTITUZIONE DEL GIUDICE
Il vizio relativo alla costituzione del giudice o del PM è sempre rilevabile in ogni stato e grado della fase processuale. Tuttavia diviene motivo di sola impugnazione qualora sia stata pronunciata sentenza (art. 158).
(b2) MANCATA SOTTOSCRIZIONE DELLA SENTENZA
È un vizio insanabile ma di rara verificazione (art. 161 comma 2), interpretato in senso restrittivo dalla giurisprudenza sempre nell’ottica della conservazione degli atti. Alla mancanza della sottoscrizione, si aggiunge la c.d. “sentenza incerta o impossibile”.
(b) NULLITÀ INSANABILI
Sono previste espressamente da alcune disposizioni del codice di procedura civile, oppure sono individuate dalla giurisprudenza a seguito di applicazione dei principi fondamentali del processo.
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(a3) SENTENZA
I vizi relativi alla sentenza, possono essere fatti valere unicamente nelle forme e nei limiti dei giudizi di impugnazione.
La disposizione opera una generale e molto ampia conversione legale dei motivi di nullità in motivi d’impugnazione, rendendo così non più rilevabili, e dunque convalidando, le nullità processuali verificatesi nel corso del giudizio. (Art. 161 comma 1).
(b3) MANCATA INTEGRAZIONE DEL CONTRADDITTORIO
Le conseguenze della mancata integrazione del contraddittorio, cioè dell’omessa evocazione in giudizio di una parte necessaria, senza la quale il processo non può svolgersi, sono regolate dall’articolo 102, comma 2, che impone al giudice di ordinare la comunicazione di tutti gli atti relativi al procedimento quando risulti che il processo avrebbe dovuto necessariamente svolgersi tra più parti e sia stato promosso solo da alcune o contro alcune.
Il vizio di mancata integrazione del contraddittorio è parzialmente insanabile. Qualora il vizio emerga nel corso della fase processuale, o successivamente, e non sia stato sanato, si determina una nullità insanabile che impone la regressione alla fase iniziale (art 354 e 383). In ipotesi marginali, può essere sanato, nei giudizi successivi, dalla mancata precedente rilevazione in sede d'impugnazione (es. a seguito di giudizio rescindente da parte della cassazione che tale difetto non abbia rilevato)
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di
VALERIA VASAPOLLO
Sommario: 1.1. L’onere della prova: l’art. 2697 c.c. 1.2. La regola generale dell’onere
probatorio 2. Presunzioni 2.1. Presunzioni legali assolute (iuris et de iure) 2.2. Presunzioni
legali relative (iuris tantum) 2.3. Presunzioni semplici 3. L’inversione pattizia dell’onere
probatorio 4. Fatti pacifici e fatti non contestati 5. Fatti notori 6. Il regime dell’onere della
prova delle norme applicabili.
1.1. L’onere della prova: l’art. 2697 c.c.
In tema di prove, il nostro ordinamento conosce tre principi cardine previsti, rispettivamente,
dall’art. 115 c.p.c. (disponibilità della prova secondo cui il giudice deve porre a fondamento
della decisione le prove proposte dalle parti), dall’art. 116 c.p.c. (principio della valutazione
della prova secondo il prudente apprezzamento del giudice) e dall’art. 2697126 c.c. ( principio
dell’onere della prova).
126 Così recita:
Il riparto dell’onere probatorio
Schemi &
Formule
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L’antico brocardo “onus probandi incumbit ei qui dicit; reus in excipiendo fit actor” è
richiamato nel nostro codice all’art. 2697 c.c.. secondo cui; “Chi vuol far valere un diritto in
giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.
Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto
deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda”
Il detto articolo, secondo la migliore dottrina127 ha una duplice funzione:
In primis, ripartisce, tra le parti del processo, l’onere di provare i fatti costituenti il
fondamento delle loro ragioni.
Da un’altra ottica, si inserisce coerentemente nel sistema del nostro processo, in quanto
permette al giudice, che non sia convinto della bontà della tesi attorea o di quella del
convenuto, per carenza di raggiungimento della prova, di emettere una pronuncia, sia essa di
accoglimento o rigetto.
Vi è dunque un raccordo tra l’articolo 116 c.p.c., (principio del libero convincimento) e la
norma di cui all’art. 2697, in quanto se il giudice non perverrà al convincimento della verità
dei fatti , dovrà risolvere la controversia in base a quanto previsto dall’art. 2697 c.c.
La norma è dunque, occasione di supporto al giudice in ordine al divieto di non liquet
(divieto pubblicistico di esimersi dal pronunciare), poiché questi, nell’ipotesi di
mancato convincimento applicherà il principio di soccombenza della parte che non ha
fornito la prova dei fatti allegati.
L’eventuale difetto di prova o l’incertezza dei fatti posti a fondamento della pretesa attorea,
infatti, devono tradursi in una pronuncia di rigetto definitivo.
Dall’art. 2697, quindi, emerge una regola formale di giudizio, con carattere residuale, in forza
della quale, se le risultanze istruttorie non offrono elementi idonei e sufficienti per
l’accertamento pieno dei fatti allegati, va dichiarata la soccombenza della parte che aveva
l’onere di darne la prova.
In tal modo, si previene ogni rischio di astensione dal decidere ed in ossequio al divieto di
non liquet, si rende possibile la pronuncia del giudice.
Nonostante l’onere in capo alle parti, di provare i rispettivi fatti allegati, vi è da sottolineare,
che il giudice può accogliere la domanda, anche se l’attore non ha fornito la prova dei fatti
I. Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.
II. Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda.
127 PATTI, Le Prove, Milano, 2010, 48; COMOGLIO, Le prove civili, Torino, 2010, 258.
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costituenti la propria pretesa, qualora, in corso di giudizio, emergano prove a lui favorevoli,
provenienti anche dal convenuto.
In tale ipotesi il Giudice, per il principio di acquisizione della prova, dovrà emettere una
sentenza favorevole alla parte, nonostante essa non abbia dato la prova dei fatti allegati,
purchè questi siano emersi e provati in corso di causa.
In sintesi la prova produce per intero l’effetto che è idonea a produrre,
indipendentemente dal soggetto che l’ha dedotta, purchè ritualmente acquisita128.
1.2 La regola generale dell’onere probatorio
Nel sistema processuale italiano, come noto, l’istruzione probatoria è rimessa all’iniziativa
processuale delle parti.
La regola generale in tema di onere probatorio è sancita dall’art. 2697 c.c. che ripartisce e
distribuisce il rischio della prova tra le parti, le quali devono provare in positivo o in
negativo i fatti allegati.
Segnatamente l’art. 2697 c.c. richiede all’attore di provare i fatti che costituiscono il
fondamento del diritto per cui si agisc ; il convenuto, specularmente, ha l’onere di
provare i fatti costituenti le proprie eccezioni, siano esse relative all’inefficacia dei fatti
allegati da controparte, nonchè di provare i fatti modificativi o estintivi del diritto
azionato.
Vi è da fare una precisazione: a ben guardare l’art. 2697 non fa menzione della figura di
attore o convenuto ma usa le locuzioni “ chi vuol far valere un diritto” e “chi eccepisce
l’inefficacia di tali fatti….” . Ciò in quanto se è pur vero che generalmente è l’attore a voler
far valere un diritto in giudizio, vi sono molteplici casi in cui l’attore nega l’esistenza del
diritto altrui (es. art. 949 c.c in tema di azione negatoria)
I fatti allegati dalle parti possono suddividersi in :
- fatti costitutivi, cui la legge ricollega determinati effetti giuridici;
- fatti impeditivi, che incidono negativamente sulla struttura del fatto costitutivo,
precludendo la produzione dell’effetto;
- fatti modificativi che mutano l’oggetto o il contenuto dell’effetto giuridico;
- fatti estintivi che determinano il caducare dell’effetto giuridico .
La norma in esame, è stata considerata in dottrina norma in bianco, in quanto opera una
sorta di rinvio necessario alle singole norme di diritto sostanziale da applicare nella
128 Cass. civ., Sez. V, 12 agosto 2010, n. 18647.
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fattispecie concreta al fine di individuare per ogni singolo caso quale siano gli elementi
costitutivi, impeditivi, modificativi ed estintivi della fattispecie129.
A titolo esemplificativo parte attrice, quali fatti costitutivi, dovrà provare:
a) Il titolo originario o derivativo, di acquisto della proprietà o dei diritti reali di
godimento, nelle azioni promosse per la loro tutela (artt. 948,949, 1079 c.c.);
b) Il contratto di compravendita o di locazione, quale titolo per la consegna della cosa
alienata o locata, (art.. 1470, 1476, 1477, 1571,1575 );
c) Il contratto di mutuo, quale titolo per restituzione delle somme mutuate ed
effettivamente consegnate al mutuatario ( artt. 1813-1819)
d) Il conferimento dell’incarico di prestazione professionale , quale titolo genetico per il
diritto al compenso (artt. 2230-2233);
e) fonte, negoziale o legale, del diritto nel caso di responsabilità contrattuale
f) Il fatto lesivo (condotta umana- nesso eziologico -evento lesivo), la colpevolezza -il
danno ed il nesso eziologico tra fatto e danno , per ciò che riguarda la responsabilità
aquiliana ex art. 2043 c.c.
Specularmente, il convenuto dovrà provare ad esempio:
a) La nullità del contratto in quanto difetta di uno dei requisiti indicati dall'articolo 1325
c.c., cioè 1) l'accordo delle parti, 2) la causa, 3) l'oggetto, 4) la forma, se prescritta
sotto pena di nullità (fatto impeditivo)
b) Il mancato avveramento di una condizione o termine non ancora scaduto(fatto
impeditivo)
c) I possibili vizi del consenso artt. 1427 c.c. e ss.;
d) L’ incapacità di intendere e di volere al momento della stipula del contratto art. 1425
e) La prescrizione (fatto estintivo)
f) Il pagamento, remissione del debito (fatto estintivo)
g) La cessione del credito (fatto estintivo)
2. Presunzioni
Esaminata la regola generale, è d’obbligo porre l’attenzione alle sue eccezioni.
Il nostro ordinamento, infatti, prevede delle ipotesi particolari, in cui le norme dettano regole
“eccezionali” circa la prova sui fatti, così determinando un’inversione dell’onere probatorio.
E’ il caso delle presunzioni e dell’inversione dell’onere probatorio convenzionale.
129 ANDRIOLI, Prova ( dir. Proc. Civ.), in Noviss. Dig. It, XIV , Torino, 1967, 293.
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Ai sensi dell’art. 2727 c.c. le presunzioni sono “le conseguenze che la legge o il giudice trae
da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato”.
La norma, pur contenendo una definizione unitaria delle presunzioni indica due tipi di
presunzioni :
1) Presunzioni legali, espressamente previste dalla legge;
2) Presunzioni semplici, elaborate di volta in volta dal Giudice nel corso del giudizio.
2.1. Presunzioni legali assolute (iuris et de iure)…
Le presunzioni legali esonerano la parte, a favore della quale sono ammesse, dall’onere di
provare determinati fatti allegati.
All’interno delle presunzioni legali è possibile operare un ulteriore riparto in presunzioni
legali (iuris et de iure) e presunzioni relative (iuris tantum).
Le presunzioni legali assolute, ex art. 2728130 c.c. non ammettono prova contraria . Il
fatto deve essere ritenuto dimostrato, senza che vi sia alcuna possibilità di provare il
contrario.
L’esempio più utilizzato è quello di cui all’art 599 c.c. che, in tema di capacità a ricevere per
testamento, prevede che le disposizioni testamentarie a vantaggio delle persone incapaci,
indicate dagli articoli indicate dagli articoli 596, 597 e 598, sono nulle anche se fatte sotto
nome d'interposta persona.
Altri esempi sono rinvenibili in tema di capacità di agire (art. 2 c.c.), commorienza (art. 4
c.c.), concepimento in costanza di matrimonio (232 c.c.); beni immobili ( art. 812 c.c.),
azione revocatoria fallimentare (art. 67 l.f.)
2.2. Presunzioni legali relative (iuris tantum)
Presunzioni legali relative o iuris tantum sono quelle per cui la legge fa salva la prova
contraria.
La presunzione relativa impone , quindi , al giudice di considerare provato il fatto presunto in
assenza di prova contraria.
130 Così recita:
I. Le presunzioni legali dispensano da qualunque prova coloro a favore dei quali esse sono stabilite.
II. Contro le presunzioni sul fondamento delle quali la legge dichiara nulli certi atti o non ammette l'azione in giudizio non può essere data prova contraria, salvo che questa sia consentita dalla legge stessa.
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In tal modo, la presunzioni incidono sul riparto dell’onere probatorio, determinandone
un’inversione rispetto a quanto previsto dalla regola generale di cui all’art. 2697 c.c.,
dispensando dalla prova di alcuni fatti ed imponendo al giudice di considerare veri
determinati fatti in difetto di prova contraria.
In ipotesi di presunzioni legali relative la controparte ha l’onere di provare che non sussiste o
non è vero il fatto presunto.
Le presunzioni iuris tantum sono un fenomeno ricorrente nel nostro ordinamento. A titolo
esemplificativo:
a) Presunzione di possesso intermedio secondo cui “Il possessore attuale che ha
posseduto in tempo più remoto si presume che abbia posseduto anche nel tempo
intermedio.” (art. 1142)
b) Presunzione di comunione del muro forzoso ( art. 880)
c) Presunzione di pagamento a favore del debitore cui il creditore restituisca
volontariamente i documenti del credito (art. 1237 c.c.);
d) Presunzione di colpa del debitore nella responsabilità contrattuale ex art. 1218 che
pone a carico del debitore l’onere di provare che l’inadempimento o il ritardo è stato
determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non
imputabile131.
e) Presunzione di Presunzione di colpa in materia di responsabilità extracontrattuale ex
art. 2050 c.c. , (Responsabilità per l'esercizio di attività pericolose - il danneggiato
deve provare il nesso di causalità tra attività pericolosa e evento dannoso mentre il
convenuto deve provare di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno);
art. 2051 c.c. ( Danno cagionato da cosa in custodia- il danneggiato deve provare il
nesso di causalità cosa e l'evento lesivo, mentre il convenuto deve provare il caso
fortuito132); Art. 2052 (Danno cagionato da animali- il danneggiato deve provare il
nesso di causalità tra evento dannoso ed animale , mentre il convenuto deve provare il
Caso fortuito) Art. 2053;
(Rovina di edificio – si presume la colpa del proprietario dell’edificio; il danneggiato
deve provare il nesso tra danno e la rovina, il responsabile deve provare che la
rovina non è dovuta a difetto di manutenzione o a vizio di costruzione) ; Art. 2054
131 Per un’attenta disamina sull’inadempimento si veda VIOLA, Inadempimento delle obbligazioni, accertamento, oneri probatori, danni patrimoniali e non patrimoniali, Padova, 2010; Cass. Civ. SS.UU., sentenza 30.10.2001 n° 13533; Cass. Civ. SS.UU 577/08; Cass. Civ. 17143/12
132 Cassazione civile, sezione terza, sentenza del 21.3.2013, n. 7125
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(Circolazione di veicoli),
f) Presunzione di conoscenza in tema di proposta, accettazione o revoca (Art 1335 c.c.)
g) presunzione di colpa a carico del conduttore ai sensi dell’ art. 1588 cod. civ., in base al
quale il conduttore risponde della perdita e del deterioramento della cosa locata anche
se derivante da incendio, qualora non provi che il fatto si sia verificato per causa a lui
non imputabile.
h) Presunzione di onerosità del mandato (art. 1709 c.c.)
i) Presunzione di gratuità del deposito (art. 1767 c.c.)
j) Presunzione di colpa in materia di risarcimento danno per concorrenza sleale ( art.
2600 c.c.)
2.3. Presunzioni semplici
Le presunzioni semplici o hominis, ex art 2729 c.c., vengono elaborate dal Giudice nel corso
del giudizio e, diversamente da quelle legali, hanno valore esclusivamente per il caso deciso.
Esse, quindi, sono ragionamenti logici che consentono di desumere l’esistenza di un fatto
ignoto prendendo le mosse da un fatto noto secondo la regola dell’ id quod plerumque accidit.
Le presunzioni semplici, sono lasciate alla prudenza del giudice il quale incontra, tuttavia,
due limitazioni nell’ ammissibilità delle stesse.
In effetti la norma prevede che le presunzioni debbano essere gravi (rilevante grado di
continuità logica tra fatto noto e quello ignoto) precise (oggettiva certezza del fatto noto) e
concordanti (univoco significato di una serie di elementi indiziari) e che esse non possano
essere utilizzate nei casi in cui è esclusa la prova per testimoni.
3. L’inversione pattizia dell’onere probatorio.
Oltre che dalla legge, l’inversione dell’onere probatorio può essere determinato dalla volontà
delle parti.
In effetti, ai sensi dell’art. 2698 c.c., anche le parti hanno la possibilità di invertire o
modificare l’onere della prova mediante appositi patti.
Tale potere viene riconosciuto dall’art. 2698 c.c., il quale ne sanziona la nullità nelle ipotesi
in cui l’inversione o la modificazione abbiano ad oggetto diritti indisponibili o quando
rendano eccessivamente difficile l’esercizio del diritto (vessatorietà delle clausole).
L’inversione pattizia dell’onere della prova, “ in mancanza di apposito patto ex art. 2698 c.c.,
può risultare anche dal comportamento processuale della parte, ma, affinché ciò si verifichi,
non è sufficiente che la parte sulla quale non grava l’onere deduca od anche offra la prova,
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occorrendo, invece, la inequivoca manifestazione della parte medesima di voler rinunciare ai
benefici ed ai vantaggi che le derivano dal principio che regola la distribuzione dell’onere
stesso e di subire le conseguenze dell’eventuale fallimento della prova dedotta od offerta133»
4. Fatti pacifici e fatti non contestati.
Secondo la giurisprudenza maggioritaria i fatti sono considerati pacifici in tre ipotesi:
a) Quando la controparte li ammette esplicitamente;
b) Quando la controparte imposta la propria difesa su argomenti logicamente
incompatibili con il loro disconoscimento;
c) Quando la controparte si limiti a contestare esplicitamente e specificamente alcune
circostanze, riconoscendo con ciò implicitamente le altre
Trattasi, quindi, di fatti ammessi esplicitamente od implicitamente134.
L’effetto della pacificità è il seguente: i fatti pacifici non hanno bisogno di essere provati.
Vi è da precisare che i fatti pacifici, per loro natura, andrebbero provati , tuttavia, l’assenza di
contestazione dell’altra parte rende superflua la prova dei fatti stessi.
L’orientamento giurisprudenziale già consolidato in materia di non contestazione 135è stato
codificato ad opera della L. 69/09 , che modificando il promo comma dell’art 115 c.p.c. ha
statuito che “Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della
decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero nonché i fatti non
specificatamente contestati dalla parte costituita” 136.
Il Giudice, con la nuova formulazione della norma in oggetto, che ha determinato l’ingresso
formale del principio di non contestazione nel nostro ordinamento, deve necessariamente
porre a fondamento della domanda i fatti che non siano stati specificatamente contestati dalla
parte costituitasi in giudizio137.
133 Cass. Civ. 14306/05
134 Cass. n. 14880/2002, Cass. n. 13814/2002, Cass. n. 9741/2002, Cass. n. 13904/2000, Cass. n. 10434/2000, Cass. n. 9424/2000, Cass. n. 11513/1999.
135 Su tutte Cass. Civ. SS.UU. 762/02.
136Sul tema: BUFFONE, L’onere di contestazione nella Legge 69/2009, in Altalex.it, 2010; SASSANI, L’onere della contestazione, in judicium.it, 2009; VIOLA, Il nuovo principio di non contestazione alla luce della prima giurisprudenza, in Altalex.it, 2010; VIOLA, L'udienza di prima comparizione ex art.183 c.p.c, Milano, 2011, 172.
137 Cassazione civile, sez. VI 21 agosto 2012, in IlCaso.it, 2012; Corte di Appello di Firenze, Sez. II, 19.9.2011 in ilProcessoCivile.com, 2011.
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119
Il mancato assolvimento dell’onere di contestazione, purchè non in pendenza di processo
contumaciale (la norma richiede che la parte sia costituita), comporta una vera e propria
relevatio ab onere probandi, in capo alla parte che inizialmente era onerata di provare i fatti
ai sensi dell’art. 2697 c.c., con la conseguenza che il giudice dovrà ritenerli provati.
5. I fatti notori
I fatti notori sono nozioni che rientrano nella comune esperienza; fatti , cioè, acquisiti alla
conoscenza della collettività con tale grado di certezza da apparire incontestabili.
Il codice di rito all’art. 115, II comma, stabilisce che il giudice “può tuttavia, senza bisogno
di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune
esperienza”.
La giurisprudenza definisce notorie “le nozioni di fatto che fanno parte del bagaglio di
conoscenza di ogni uomo di media cultura in un certo luogo e in un certo momento storico,
senza necessità di ricorso a particolari informazioni o giudizi tecnici”138. Diversamente, il
ricorso alle nozioni di comune esperienza (fatto notorio), comportando una deroga al
principio dispositivo ed al contraddittorio, in quanto introduce nel processo civile prove non
fornite dalle parti e relative a fatti dalle stesse non vagliati né controllati, va inteso in senso
rigoroso, e cioè come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di
certezza da apparire indubitabile ed incontestabile; di conseguenza, non si possono reputare
rientranti nella nozione di fatti di comune esperienza, intesa quale esperienza di un individuo
medio in un dato tempo e in un dato luogo, quegli elementi valutativi che implicano
cognizioni particolari, o anche solo la pratica di determinate situazioni, né quelle nozioni che
rientrano nella scienza privata del giudice, poiché questa, in quanto non universale, non
rientra nella categoria del notorio”139.
6. Il regime dell’onere delle prova delle norme applicabili
Generalmente per il principio “iura novit curia” (art 113 c.p.c.) incombe sul Giudice l’onere
di conoscere ed applicare le norme giuridiche.
Tale principio viene meno per alcune fonti che per la loro peculiare natura si reputa possano
esulare dal bagaglio di conoscenza del Giudice. Tali casi particolari possono intravedersi
nelle consuetudini , nei contratti collettivi nazionali, nel diritto antico.
138 Cass. n. 2859/1995.
139 Cass. Sentenza n. 23978 del 19/11/2007;.
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Nelle dette ipotesi, è opportuno che la parte indichi le norme nei propri atti o addirittura le
alleghi anche per estratto, assistendo così il giudice nell’acquisizione della conoscenza del
dato normativo.
Quanto al diritto straniero, la legge 218/1995 ha esteso il principio iura novit curia anche al
diritto straniero, stabilendo, all’art. 14, relativo alla “conoscenza della legge straniera
applicabile”, che “l’accertamento della legge straniera è compiuto d’ufficio dal giudice.
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REGOLA GENERALE RIPARTIZIONE ONERE : ART. 2697 C.C:
I. Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento II. Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si e' modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda
ATTORE : art. 2697, I comma, c.c.
CONVENUTO: art. 2697, II comma, c.c.
Onere di Provare i fatti che costituiscono il fondamento della propria pretesa
(fatti costitutivi)
Onere di provare i fatti costituenti le proprie eccezioni, relative all’inefficacia dei fatti allegati da controparte, nonchè i fatti modificativi o estintivi del diritto azionato
(fatti impeditivi – modificativi-estintivi)
Esempi:
a) Il titolo originario o derivativo, di acquisto della proprietà o dei diritti reali di godimento, nelle azioni promosse per la loro tutela (artt. 948,949, 1079 c.c.);
b) Il contratto di compravendita o di locazione, quale titolo per la consegna della cosa alienata o locata, (art.. 1470, 1476, 1477, 1571,1575);
c) Il contratto di mutuo, quale titolo per restituzione delle somme mutuate ed effettivamente consegnate al mutuatario ( artt. 1813-1819)
d) Il conferimento dell’incarico di prestazione professionale , quale titolo genetico per il diritto al compenso (artt. 2230-2233);
e) fonte, negoziale o legale, del diritto nel caso di responsabilità contrattuale
f) Il fatto lesivo (condotta umana- nesso eziologico -evento lesivo), la colpevolezza -il danno ed il nesso eziologico tra fatto e danno , per ciò che riguarda la responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.
Esempi:
a) La nullità del contratto in quanto difetta di uno dei requisiti indicati dall'articolo 1325 c.c., cioè 1) l'accordo delle parti, 2) la causa, 3) l'oggetto, 4) la forma, se prescritta sotto pena di nullità (fatto impeditivo)
b) Il mancato avveramento di una condizione o termine non ancora scaduto(fatto impeditivo)
c) I possibili vizi del consenso artt. 1427 c.c. e ss.;
d) L’ incapacità di intendere e di volere al momento della stipula del contratto art. 1425
e) La prescrizione (fatto estintivo) f) Il pagamento, remissione del debito (fatto
estintivo) g) La cessione del credito (fatto estintivo)
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ECCEZIONI ALLA REGOLA GENERALE :
INVERSIONE DELL’ONERE PROBATORIO
EX LEGE : PRESUNZIONI LEGALI (ART.
2727 E 2728 C.C. )
DI NATURA CONVENZIONALE:
INVERSIONE PATTIZIA DELL’ONERE PROBATORIO (ART. 2698 C.C.)
Esempi:
a) Presunzione di possesso intermedio secondo cui “Il possessore attuale che ha posseduto in tempo più remoto si presume che abbia posseduto anche nel tempo intermedio.” (art. 1142 c.c.) (Cass. civ. sez. II, 23 luglio 2010, n. 17322)
b) Presunzione di comunione del muro forzoso ( art. 880 c.c.) (Cass. civ., sez. III, 29 ottobre 2001, n. 13406)
c) Presunzione del termne per adempiere posto in favore del debitore (art. 1184 c.c) (Cass. civ., sez. II, 16 novembre 2001, n. 14429)
d) Presunzione di pagamento a favore del debitore cui il creditore restituisca volontariamente i documenti del credito (art. 1237 c.c.) (Cass. civ. sez. I, 03 giugno 2010, n. 13462);
e) Presunzione di colpa del debitore nella responsabilità contrattuale ex art. 1218 che pone a carico del debitore l’onere di provare che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. (Cass. Civ. SS.UU., sentenza 30.10.2001 n°
13533 App. Trieste, sez. II, 23 gennaio 2013, n. 54)
f) Presunzione Responsabilità per l'esercizio di attività pericolose ex art. 2050 c.c. → il danneggiato deve provare il nesso di causalità tra attività pericolosa e evento dannoso mentre il convenuto deve provare di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno (Cass. civ. sez. III, 24 luglio 2012, n. 12900)
g) Presunzione Responsabilità per Danno cagionato da cosa in custodia;art. 2051 c.c. →- il danneggiato deve provare il nesso di causalità cosa e l'evento lesivo, mentre il convenuto deve provare il caso fortuito (Cassazione civile, sezione terza, sentenza del 21.3.2013, n. 7125)
h) Presunzione responsabilità Danno cagionato da animali Art. 2052 → il danneggiato deve provare il nesso di causalità tra evento dannoso ed animale , mentre il convenuto deve provare il caso fortuito (App. Roma, sez. IV, 22 febbraio 2012 ; Cass. civ. sez. III, 06 dicembre 2011, n. 26205)
i) Presunzione responsabilità Rovina di edificio Art. 2053.(– si presume la colpa del proprietario dell’edificio; il danneggiato deve provare il nesso tra danno e la rovina, il responsabile deve provare che la rovina non è dovuta a difetto di manutenzione o a vizio di costruzione) ;
j) Presunzione di colpa del conducente nella Circolazione di veicoli Art. 2054, Cass. civ. sez. III, 14 marzo 2013, n. 6559; Cass. civ. sez. III, 10 dicembre 2012, n. 22381
Continua.....
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ULTERIORI ECCEZIONI ALLA REGOLA GENERALE :
k) Presunzione di conoscenza in tema di proposta, accettazione o revoca (Art 1335 c.c.)(cass. civ.
sez. III, 22 novembre 2012, n. 20583)
l) presunzione di colpa a carico del conduttore ai sensi dell’ art. 1588 c.c., in base al quale il
conduttore risponde della perdita e del deterioramento della cosa locata anche se derivante da
incendio, qualora non provi che il fatto si sia verificato per causa a lui non imputabile. (Cass. civ.
sez. III, 17 maggio 2010, n. 11972)
m) Presunzione di onerosità del mandato (art. 1709 c.c) (Cass. civ., sez. III, 15 maggio 1998, n. 4912)
n) Presunzione di gratuità del deposito (art. 1767 c.c.)
o) Presunzione di colpa in materia di risarcimento danno per concorrenza sleale ( art. 2600 c.c.)
(Trib. Torino, 15 settembre 1990)
FATTI PACIFICI
1) fatti ammessi implicitamente dalla controparte;
2) fatti specificatamente contestati dalla parte costituita (art. 115, I comma c.p.c.)
IL GIUDICE DEVE RITENERLI PROVATI ex art. 115, I comma, c.p.c. → Cass. civ. sez. III, 13 febbraio 2013, n. 3576; Cass. civ. sez. lav., 22 gennaio 2013, n. 1462; Cassazione civile, sez. VI 21 agosto 2012 ; Tribunale di Trento, sentenza del 9.2.2012;Cassazione civile, Sezioni Unite, sentenza del 22.11.2010, n. 23595
FATTI NOTORI
Nozioni che rientrano nella comune esperienza (art. 115 , II comma c.p.c.)
IL GIUDICE PUÒ RITENERLI PROVATI” ex art. 115, II comma, c.p.c.:-→ Cass. civ.
sez. V, 05 ottobre 2012, n. 16959 Cass. civ.
sez. III, 10 aprile 2012, n. 5644
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Massima Poichè l’art. 700 c.p.c. deve costituire l’extrema ratio, l’unico strumento fruibile per far valere, in via d’urgenza, il bene della vita di cui si teme la compromissione, deve ritenersi che, in genere, il ricorso ex art. 700 c.p.c. sia precluso non solo quando esista un istituto processuale idoneo ad assicurare la tutela agognata ma anche quando esista la facoltà, per il ricorrente, di invocare una previsione contrattuale – di natura, dunque, sostanziale – che sia idonea ad assicurare la medesima utilitas del rimedio processuale. Deve escludersi che la facoltà di recesso sia idonea a consentire alla ricorrente il conseguimento della medesima utilitas giuridica del proposto ricorso ex art. 700 c.p.c. quando l’esercizio della stessa implichi esborsi particolarmente onerosi.
Attivabile il rimedio ex art. 700
c.p.c. quando l’esercizio dell’eventuale diritto di recesso
implichi esborsi onerosi
Sentenza Tribunale di Brindisi,
ordinanza del 29.1.2013
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LA SENTENZA PER ESTESO
Tribunale di Brindisi, ordinanza del 29.1.2013 TRIBUNALE DI BRINDISI Sezione Civile Il Tribunale, riunito in camera di consiglio e composto dai seguenti Magistrati: Dott. C. Almiento Presidente Dott. P. Lisi Dott. C. Antonio I. Natali rel. Con ricorso in data 14.11.2012 (notificato in data 22.11.2012 unitamente al provvedimento di fissazione di udienza), la Banca Monte dei Paschi di Siena spa ha proposto reclamo, ex art. 669 terdecies, avverso l’ordinanza del 30.10.2012, con la quale si ordinava alla M.P.S. “di sospendere ogni attività volta alla esecuzione del contratto di interest swap stipulato inter partes in data 15-30.3.2006; di non dare attuazione coattiva ad eventuali pretese creditorie da esso originate; di astenersi dal procedere ad ulteriori operazioni di addebito delle somma in base a tale contratto dovute dalla Carparelli a titolo di c.d. differenziali negativi di astenersi da qualsivoglia segnalazione periodica alla Centrale Rischi riguardante la esposizione riveniente dal contratto di IRS per cui è causa sino alla definizione del giudizio di merito”. La reclamante ha chiesto che, «in accoglimento del reclamo proposto, il ricorso proposto ven(isse) dichiarato inammissibile e/o improponibile ovvero infondato. Con vittoria di spese e competenze del giudizio». In via pregiudiziale, quanto alla pretesa inammissibilità del ricorso per la supposta
insussistenza del requisito della residualità del mezzo, la reclamante si duole che il provvedimento impugnato non avrebbe tenuto in alcun conto l’eccezione de qua. In particolare, assume che la domanda cautelare sarebbe inammissibile in quanto il contratto di interest rate swap «a prescindere dal collegamento essenziale o meno con i contratti di mutuo, (conterrebbe) nella sua regolamentazione pattizia la possibilità di estinzione anticipata, sicché ……il risultato richiesto p(oteva) autonomamente essere conseguito mediante l’esercizio del diritto di recesso anticipato espressamente previsto dal contratto». La reclamante richiama, cioè, le previsioni contrattuali (art. 16 dell’accordo normativo in data 15.3.2006 ed atti di conferma dell’operazione in data 20.3.2006), per cui “ciascuna delle parti av(eva) facoltà di estinguere anticipatamente” il contratto. Nondimeno, non sembra costituire punto controverso tra le parti che se il cliente fosse receduto, questi avrebbe dovuto pagare una penale (nella specie, ammontante allo 0,25 dell’importo di riferimento) e versare, soprattutto, l’eventuale importo a suo debito, una volta provvedutosi alla “liquidazione del valore di mercato (cd. Mark to market) riferito alla durata residua dello strumento regolato dallo specifico contratto”. Orbene, ritiene questo Collegio, che, in via di principio, la residualità della tutela atipica sia da escludersi quando vi sia la possibilità, per il ricorrente, di azionare altro rimedio (indifferentemente se di natura sostanziale o processuale) e questo, perché l’art. 700 c.p.c. deve costituire l’extrema ratio, l’unico strumento fruibile per far valere, in via d’urgenza, il bene della vita di cui si teme la compromissione.
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Dunque, deve ritenersi che, in genere, il ricorso ex art. 700 c.p.c. sia precluso non solo quando esista un istituto processuale idoneo ad assicurare la tutela agognata ma anche quando esista la facoltà, per il ricorrente, di invocare una previsione contrattuale – di natura, dunque, sostanziale – che sia idonea ad assicurare la medesima utilitas del rimedio processuale. Ciò premesso, nel caso di specie, deve escludersi che la clausola contrattuale concernente il recesso (e la facoltà di anticipata risoluzione del contratto di swap) sarebbe stata idonea a consentire alla ricorrente il conseguimento della medesima utilitas giuridica del proposto ricorso ex art. 700 c.p.c. E ciò proprio per la sua idoneità a dare luogo ad esborsi particolarmente onerosi. In particolare, non è contestato che l’anticipata risoluzione del contratto di swap avrebbe comportato il pagamento, da parte della Carparelli, di una penale e del c.d. mark to market (allo stato pari a circa € 250.000,00). Va poi condiviso, sempre in base ad una valutazione sommaria, tipica della fase cautelare, l’assunto della reclamata relativo alla configurabilità di un collegamento negoziale – di tipo, però, funzionale e non anche temporale - tra i diversi strumenti contrattuali. Infatti, la causa del contratto di swap, appare, prima facie, costituita da una finalità di copertura delle oscillazioni dei tassi, ovvero dall’interesse delle parti a neutralizzare quelle variazioni. Depone in tal senso, in primo luogo, il dato testuale dell’Accordo Normativo stipulato inter partes, che alle lettere c) ed e) prevede espressamente che “il cliente pone in essere operazioni dalle quali derivano posizioni creditorie e/o debitorie a scadenza futura denominate in euro, o altra divisa, rispetto alle quali egli intende cautelarsi dagli eventuali effetti delle variazioni dei tassi di interesse,
che potrebbero intervenire prima della scadenza delle operazioni stesse”; cosicché “è interesse del cliente concludere contratti del tipo di quelli previsti dal presente Accordo per limitare i rischi di corso e/o di tasso e/o di cambio derivanti dalle suddette operazioni” (lett. c e d dell’Accordo Normativo). Inoltre, corrobora la tesi della finalità di copertura la stipulazione, seppur non contestuale, ma in epoca temporalmente ravvicinata del contratto di interest rate swap e di quelli di finanziamento (ed, in particolare, la stipula del primo dopo l’avvio dell’ammortamento dei mutui e prima della scadenza della prima rata), ossia quanto l’esigenza di garantirsi da possibili oscillazioni era divenuta particolarmente pressante. Né ha pregio l’assunto secondo cui difetterebbe una esplicita funzione di copertura in considerazione della «rischiosità della cd. posizione base così come richiesto dalle prescrizioni Consob». Invero, la comunicazione della Consob n. DI/99013791 richiamata dalla reclamante – senza incidere sull’applicabilità dell’istituto del collegamento negoziale - si limita a stabilire che, allorché ricorrano le condizioni ivi indicate (fra le quali una espressa previsione della funzione di copertura della rischiosità della cd. posizione base), tali strumenti non sono assoggettati agli obblighi, essenzialmente informativi, riconosciuti a protezione del cliente di cui al Regolamento Consob n. 11522/1998. Dunque, la Comunicazione de qua, lungi dall’assumere la valenza di un principio generale, detta una definizione di operazione c.d. di “copertura” limitata (e, quindi, circoscritta) all’applicazione della disciplina regolamentare. Ne il valore degli elementi sopra analizzati, che univocamente depongono per una finalità di copertura, e, quindi, per uno stretto
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collegamento funzionale tra i due contratti, può essere incrinato dalla deduzione della reclamante secondo cui non ricorrerebbe la contestualità dei contratti: «il primo contratto di mutuo, per l’importo di 2.400.000,00 euro è stato sottoscritto addirittura nel gennaio del 2005 e quindi più di un anno prima del contratto di swap … (che è del marzo 2006); ed anche il contratto di mutuo (del novembre 2005 per 600.000 euro) è stato stipulato ben prima del contratto di IRS». Anche se tale circostanza risponde a verità, nondimeno, costituisce principio consolidato quello per cui la mancanza di contestualità fra più atti negoziali, non è di ostacolo ad un collegamento negoziale fra gli stessi, quando gli stessi siano, comunque, preordinati al raggiungimento di un interesse unitario. Orbene, in presenza di una risoluzione anticipata dei contratti di mutuo e venuta meno la suddetta esigenza di copertura, il contratto di swap, ad una valutazione allo stato degli atti, deve ritenersi oramai privo di giustificazione e sprovvisto di una funzione economico – sociale meritevole di tutela, con conseguente applicabilità del principio simul stabunt simul cadent. Non dirimente appare la considerazione per cui anche se il contratto di IRS «fosse stato stipulato con finalità di copertura del mutuo ciò non oscura il fatto che ogni contratto abbia la sua individualità, abbia la sua disciplina e siano assolutamente autonomi. (…) Il contratto di mutuo ed il contratto di IRS sono in grado di “sopravvivere l’uno all’altro”». E’ noto, infatti, come il collegamento negoziale non incida sull’autonomia strutturale dei contratti, i quali – in sé perfetti e singolarmente produttivi di effetti giuridici – conservano una loro causa autonoma, una loro specifica individualità giuridica e restano soggetti alla disciplina propria del rispettivo schema negoziale.
Nondimeno, poiché le parti perseguono un risultato economico unitario e complessivo – che viene appunto realizzato attraverso una pluralità coordinata di contratti – questi sono, al contempo, finalizzati ad un unico regolamento dei reciproci interessi (ex multis, Cass. 10.7.2008, n. 18884), e soggiacciono alla medesima sorte. La “comunicazione” delle cause di invalidità, risoluzione o rescissione di uno dei negozi sull’altro (simul stabunt simul cadent) consegue, appunto, alla impossibilità di realizzazione dell’interesse perseguito dalle parti attraverso il coordinamento dei negozi collegati (amplius, la giurisprudenza già menzionata e, fra le altre, Cass. 5.6.2007, n. 13164; Cass. 21.11.2011, n. 24511; Cass. 8.10.2008, n. 24792; Cass. 27.3.2007, n. 7524; Cass. 28.6.2001, n. 2844;Cass. 12.7.2005, n. 14611, secondo cui «In definitiva, in caso di collegamento funzionale tra più contratti, non dando essi luogo ad un contratto unico, ma, conservando la propria individualità giuridica, gli stessi restano conseguentemente soggetti alla disciplina propria del rispettivo schema negoziale, mentre l’interdipendenza si risolve nel principio di una regolamentazione unitaria delle vicende relative alla permanenza del vincolo contrattuale, per cui “simul stabunt, simul cadent”). Quanto all‘eventuale mancanza di causa del contratto ove stipulato con finalità speculative» – ipotesi vagliata, ma solo in astratto ed in linea generale dal primo Giudice – va ribadito come il contratto di swap stipulato inter partes non abbia funzione speculativa o di investimento (c.d. trading), ma una finalità di copertura (c.d. hedging); profilo funzionale che, a seguito del venir meno del negozio presupposto, è venuto a mancare. Ciò, in applicazione della c.d. causa in concreto che configura lo scopo pratico del negozio – la sintesi, cioè, degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare – quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello
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astratto utilizzato (Cass. 8.5.2006, n. 10490; Cass. 12.11.2009, n. 23941). Deduce, inoltre, la reclamante che, anche a ritenere un collegamento negoziale, la previsione di una specifica disciplina pattizia dell’estinzione anticipata per tutte i negozi collegati, escluderebbe che la mera estinzione dei mutui dia luogo al medesimo effetto estintivo del contratto di swap. Ritiene, però, questo Collegio, ad una valutazione allo stato degli atti, che tale eccezione debba essere disattesa. Si deve, infatti, ritenere che, proprio la reciproca comunicazione delle vicende relative ad efficacia e validità dei singoli negozi – che è elemento qualificante del collegamento negoziale – sia idonea a circoscrivere la disciplina pattizia dell’estinzione anticipata alle ipotesi in cui la stessa consegua a vicende diverse dall’estinzione del negozio collegato. Quanto alla contestata sussistenza del periculum in mora, dev’essere innanzitutto ribadito che la (onerosa) possibilità della Carparelli di recedere pattiziamente dal contratto di swap non esclude affatto il lamentato rischio. Opinando diversamente – ed, escludendo il periculum e, quindi, la cautela richiesta – la società sarebbe costretta a subire l’ingiusta coercizione di dover versare ingenti somme alla Banca per ottenere la liberazione da un vincolo ormai privo di causa. E’ pacifico del resto che l’irreparabilità del pregiudizio (la quale va intesa in senso relativo e non assoluto, e cioè come semplice e ragionevole pericolo del determinarsi di una lesione di un proprio diritto) sussiste anche quando sussista uno scarto tra la soddisfazione integrale del diritto ed i risultati (parziali) conseguibili mediante altri rimedi[1]. Assume, poi, la Banca reclamante che il periculum in mora dovrebbe essere escluso in
quanto la Carparelli avrebbe conosciuto e tollerato per lungo tempo la violazione oggi lamentata. Invero, l’eccezione de qua deve essere disattesa, in quanto il periculum lamentato dalla Carparelli e considerato sussistente dal primo Giudice consiste nel «temuto rischio di segnalazione alla Centrale rischi presso la Banca d’Italia, la quale può portare ad una totale chiusura del credito da parte del circuito bancario con conseguente assoluta impossibilità della società di operare in mancanza di liquidità e con conseguente rischio di fallimento». E tale rischio non si era ancora verificato sino alla data di proposizione del ricorso (e di pronuncia dell’ordinanza impugnata), per cui è attuale. In secondo luogo, la giurisprudenza richiamata individua il lungo periodo di tempo nel decorso di diversi anni, condizione che, in virtù delle risultanze ex actis, non sembra integrata nel caso di specie. Peraltro, in via generale, il suddetto principio interpretativo – che rinviene la propria ratio nella volontà di “punire” il ricorrente che non si attivi tempestivamente, in via cautelare - non è applicabile quando, dopo che un periculum si è già verificato, si prospettino concreti rischi di sua reiterazione o comunque si paventino ulteriori effetti dannosi: in tali circostanze, infatti, anche il decorso di un apprezzabile periodo di tempo dall’evento dannoso non esclude il carattere di imminenza e attualità del pregiudizio, trattandosi di prevenire un fatto distinto da quello già consumato.
PQM 1. rigetta il reclamo ex art. 669 terdecies proposto dalla Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. con ricorso depositato in data 14.11.2012;
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2. condanna la reclamante al pagamento, in favore della reclamata, delle spese, che liquida in complessivi € 2000,00, oltre iva e cap come per legge. Brindisi, 29.1.2013 Il relatore IL PRESIDENTE (Dott. C. Almiento ) [1] N.d.R.: nello stesso senso, Trib. Catanzaro Sez. II, 10.2.2012, in ilProcessoCivile.com, 105, 2012. Nello stesso senso anche Trib. Lamezia Terme, Sezione Unica Civile, ordinanza 25.3.2011.
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Massima La tutela d’urgenza del diritto di credito può essere riconosciuta solo qualora si sia in presenza di un pregiudizio economico, dipendente dalla lesione del diritto fatto valere in giudizio, non integralmente riparabile dal futuro risarcimento pecuniario del danno, come accade qualora dal mancato adempimento della obbligazione pecuniaria derivi, quale conseguenza immediata e diretta, lo stato di insolvenza o il fallimento del creditore, oppure nel caso di impossibilità o estrema difficoltà di determinare esattamente la misura del risarcimento ove gli effetti pregiudizievoli dovessero persistere nel tempo, sì da non poter assicurare la reintegrazione della posizione giuridica che si assume lesa. L’iscrizione ipotecaria contra legem, che impedisce l’accesso al credito, è danno grave e difficilmente riparabile in termini monetari.
Tutela cautelare atipica ex art.700 c.p.c.: attivabile per cancellare
un’ipoteca
Sentenza Tribunale di Brindisi,
sezione di Monopoli,
Ordinanza del 7.02.2013
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
131
LA SENTENZA PER ESTESO Tribunale di Bari, sezione distaccata di
Monopoli,
Ordinanza del 7.2.2013
Il Giudice,
letti gli atti di causa e sciolta la riserva che
precede nel procedimento cautelare
…omissis…
visto il ricorso introduttivo ex art. 700 c.p.c.
con il quale è stato chiesto di ordinare
…omissis…e provvedere a sua cura e spese a
cancellare immediatamente l’iscrizione
ipotecaria del 7.1.2010, n. 485 r.g. e n. 101
r.p., perché avvenuta in assenza dei
presupposti di legge, con vittoria delle spese di
giudizio;
vista la comparsa di costituzione
…omissis…che ha eccepito l’inammissibilità
del ricorso cautelare ex art. 700 c.p.c. e chiesto
comunque il rigetto del ricorso assumendo la
legittimità dell’ipoteca iscritta, con vittoria
delle spese di giudizio;
ritenuto che, contrariamente a quanto assunto
dalla difesa di parte resistente, il rimedio
cautelare atipico ex art. 700 c.p.c., volto alla
cancellazione dell’ipoteca, sia l’unico
strumento cautelare utilizzabile per ottenere la
cancellazione d’urgenza dell’ipoteca in
assenza di uno strumento cautelare tipico che
consenta di conseguire tale scopo[1];
considerato che la difesa di parte resistente ha
pure invocato la giurisprudenza per cui
dall’art. 2884 c.c. si evince che la
cancellazione dell’ipoteca può essere disposta
solo con una sentenza definitiva o un
provvedimento definitivo, cioè
immodificabile;
considerato che in base al riformato art. 669-
octies co. 6 c.p.c. i provvedimenti emessi in
via cautelare, quando idonei ad anticipare gli
effetti della sentenza di merito, acquistano
efficacia definitiva, essendo meramente
facoltativa l’instaurazione del giudizio di
merito, così dimostrando la loro possibile
attitudine alla stabilità, tanto che, ex art. 669-
octies co. 7 c.p.c. il giudice provvede anche
sulle spese di lite (v., al riguardo, anche art.
669-octies co. 8 c.p.c.);
ritenuto pertanto che sia ammissibile un
provvedimento cautelare ex art. 700 c.p.c.
qualora, come nella specie, l’iscrizione
ipotecaria sia manifestamente illegittima
perché eseguita ictu oculi in assenza dei
presupposti previsti dalla legge, il che rafforza
la prognosi di definitività del provvedimento
cautelare (nel caso di specie inoltre non si
pone neppure la questione dell’ammissibilità
di un provvedimento costitutivo ex art. 700
c.p.c. poiché non è stata chiesta la
cancellazione diretta dell’ipoteca per il tramite
del conservatore);
considerato, venendo al merito cautelare, che
l’art. 76 d.p.r. 602/1973 nella versione
testuale,
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
132
applicabile ratione temporis (cioè come
modificato dall’articolo 3, co. 40 lett. b-bis)
del D.L. 30
settembre 2005, n. 203, lettera aggiunta dalla
legge 2 dicembre 2005, n. 248 in sede di
conversione),
dispone che “L’agente della riscossione può
procedere all’espropriazione immobiliare se
l’importo complessivo del credito per cui si
procede supera complessivamente 8000 euro”
(oggi 20000 euro);
ritenuto pertanto che l’ipoteca di cui all’art. 77
d.p.r. 602/1973 costituisca un atto preordinato
all’espropriazione, per cui deve
necessariamente soggiacere agli stessi limiti
per questa stabiliti dal precedente art. 76, nel
senso che non può essere iscritta se il debito
del contribuente non supera il limite degli
8000 euro (cfr. Cass. 5771/2012);
considerato che, nella specie, rispetto a due
delle cartelle esattoriali relative ad iscrizioni al
ruolo dell’Inps la ricorrente ha ottenuto lo
sgravio integrale (v. doc. 1 fasc. ric.) e che le
restanti tre cartelle per cui è stata iscritta
ipoteca (v. doc. 3 fasc. resistente), relative a
debiti di natura tributaria, non superano i
predetti 8000 euro;
ritenuto pertanto che non sussistano i
presupposti per mantenere l’iscrizione
ipotecaria ai danni della ricorrente (così come
del resto già riscontrato dalla Commissione
Tribuatria Provinciale di Bari, con la sentenza
del 27.10.2011, senza che questa peraltro
abbia ordinato la cancellazione dell’ipoteca
essendosi dichiarata incompetente sulle
restanti cartelle di natura non tributaria);
considerato, quanto al periculum in mora, che
secondo la giurisprudenza prevalente la tutela
d’urgenza del diritto di credito può essere
riconosciuta solo qualora si sia in presenza di
un pregiudizio economico, dipendente dalla
lesione del diritto fatto valere in giudizio, non
integralmente riparabile dal futuro
risarcimento pecuniario del danno, come
accade qualora dal mancato adempimento
della obbligazione pecuniaria derivi, quale
conseguenza immediata e diretta, lo stato di
insolvenza o il fallimento del creditore (Trib.
di Foggia 2.4.2004; Pret. Roma 31.7.1986),
oppure nel caso di impossibilità o estrema
difficoltà di determinare esattamente la misura
del risarcimento ove gli effetti pregiudizievoli
dovessero persistere nel tempo, sì da non poter
assicurare la reintegrazione della posizione
giuridica che si assume lesa[2] (cfr., tra le
altre, Trib Cassino 12.7.2000; Trib. Napoli
26.4.2000; Trib. Roma 25.3.2000; Trib.
Firenze 10.6.1998; Corte d’App. Milano,
15.7.1992; Pret. Roma 22.06.1991; Pretura
Roma, 14.12.1989; Trib. Roma, 3.11.1987;
Pretura Nocera Inferiore, 1.4.1987; Trib.
Rimini, 11.11.1983);
considerato che, nel caso che ci occupa, è
verosimile, come prospettato dalla ricorrente,
titolare di un’impresa individuale, che
l’iscrizione ipotecaria sul suo immobile non le
consente di accedere al credito per l’esercizio
dell’attività d’impresa, arrecandole così un
danno grave e difficilmente riparabile in
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
133
termini monetari, stante la sostanziale
impossibilità di dimostrarne l’entità;
ritenuto, in conclusione, che debba essere
ordinato a…omissis… di provvedere a sua
cura e spese a cancellare immediatamente
l’ipoteca iscritta in data 7.1.2010, n. 485 r.g. e
n. 101 r.p., cioè a prestare il proprio consenso
alla cancellazione (cfr. art. 2882 c.c.);
ritenuto che le spese di giudizio debbano
seguire la soccombenza e debbano essere
liquidate così come in dispositivo, tenuto
anche conto del fatto che nonostante
l’illegittima iscrizione ipotecaria il
concessionario, contravvenendo al canone
della correttezza a cui deve improntarsi il
rapporto concessionario-debitore, ha insistito
sulla legittimità dell’iscrizione;
p.q.m.
- ordina a…omissis… di prestare il proprio
consenso alla cancellazione dell’ipoteca
iscritta in data 7.1.2010, n. 485 r.g. e n. 101
r.p.;
- condanna…omissis…al pagamento delle
spese processuali …omissis… che liquida in
complessivi euro 1.780,00, di cui euro 130,00
per esborsi, euro1.650,00 per compensi
professionali, oltre IVA e CAP come per
legge.
Si comunichi.
Monopoli, 7.2.2013.
Il Giudice
Dr. Michele De Palma
[1] Per approfondimenti sul tema della
residualità, si vedano COMOGLIO, Il
procedimento cautelare in generale – Le
singole misure cautelari, in COMOGLIO,
FERRI, TARUFFO (a cura di), Lezioni sul
processo civile, II, Procedimenti speciali,
cautelari ed esecutivi, Bologna, 2005, 41;
SCARPA, Sub 700 c.p.c., in CENDON (a cura
di), Commentario al codice di procedura
civile, Milano, 2012, 1065; MONTESANO, I
provvedimenti d’urgenza nel processo civile,
Napoli, 1955, 40; ARIETA, Trattato di diritto
processuale civile, vol. XI, Padova, 2011, 498;
PROTO PISANI, Provvedimenti d’urgenza, in
Enc. Giur., XXV, Roma, 1991, 6; ANDRIOLI,
Commento al codice di procedura civile, II,
Napoli, 1960, 264; TOMMASEO,
Provvedimenti di urgenza, in Enc. Dir.,
XXXVII, Milano, 1998, 858; NUZZO, Sub
700 c.p.c., in VIOLA (a cura di), Codice di
procedura civile (con schemi, approfondimenti
di dottrina e giurisprudenza, formulario),
Padova, 2013.
[2] In senso contrario, Tribunale di
Sant’Angelo dei Lombardi, sentenza del
14.6.2011, in ilProcessoCivile.com, 33, 2012,
secondo il quale il pericolo del verificarsi di
un danno patrimoniale non costituisce un
danno grave ed irreparabile, in quanto il danno
patrimoniale è per sua natura sempre riparabile
mediante il successivo risarcimento; è noto
infatti il principio secondo cui il pregiudizio
irreparabile previsto dall’art. 700 c.p.c.
sussiste solo quando siano in discussione
posizioni soggettive di carattere assoluto,
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
134
principalmente attinenti alla sfera personale
del soggetto (e spesso anche dotate di rilievo e
protezione a livello costituzionale), che
rendano necessario un pronto ed immediato
intervento cautelare al fine di assicurarne la
completa tutela.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
135
di
GIANLUCA LUDOVICI
Massima Il detentore qualificato ha la legittimazione alla proposizione
dell'azione di reintegra verso i terzi ed anche verso il possessore.
Il detentore non qualificato vanta la legittimazione all'azione di
reintegra verso i terzi, ma non verso il possessore.
Detentore contro possessore: sì all’azione di reintegra nel possesso,
ma solo se la detenzione è qualificata
Sentenza Cassazione Civile,
sezione seconda,
sentenza del 4.1.2013, n. 99
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
136
LA SENTENZA PER ESTESO
Cassazione civile, sezione seconda, sentenza
del 4.1.2013, n. 99
…omissis…
1) Con il primo motivo i ricorrenti denunciano
la violazione e falsa applicazione di norme di
diritto, nonchè l'insufficiente e contraddittoria
motivazione, in relazione alla ritenuta
sussistenza, in capo a C., di un possesso
giuridicamente rilevante in ordine al passaggio
attraverso il cancello e la scivola d'ingresso del
garage di proprietà esclusiva della P..
Lamentano, in particolare, che il giudice di
appello, pur dando atto che C. non aveva una
copia personale delle chiavi, abbia escluso
l'utilizzo precario ed a titolo di cortesia del
passaggio verso il garage, senza considerare
che i convenuti avevano dato all'attore il
consenso al passaggio nell'area di loro
proprietà solo fino al momento della
realizzazione dei tramezzi divisori previsti
nella piantina allegata all'atto di vendita dell'8-
11-1989.
Sostengono che le valutazioni espresse dalla
Corte di Appello circa la sussistenza di un
possesso tutelabile contrastano con le
risultanze della prova testimoniale e
documentale.
Il motivo è infondato.
La Corte di Appello, sulla base delle
deposizioni testimoniali e delle dichiarazioni
rese nella fase cautelare da C., ha accertato, in
punto di fatto, che C. sin dalla data di acquisto
dell'appartamento e del garage utilizzava per
accedere in quest'ultimo sia le scale
condominiali che il cancello che delimitava
l'area di proprietà della P., delle cui chiavi
aveva la disponibilità. Ciò posto, il giudice del
gravame ha osservato che, anche a voler
ritenere che il C. non avesse personalmente
una copia delle chiavi, ma dovesse prelevare
quelle lasciate dal fratello nella sua officina,
contigua al fabbricato, non si potrebbe parlare
di un utilizzo precario e a titolo di cortesia, in
quanto gli appellanti avevano dato un
consenso preventivo e generalizzato al
passaggio nell'area di loro proprietà.
Esso ha evidenziato, infatti, che lo stesso C.,
nel corso del suo interrogatorio, ha ammesso
che il fratello C. "usufruiva del passaggio
regolarmente ed a partire dal 1989", e che le
chiavi "erano appese dentro l'officina che si
trova di fronte all'immobile per cui è causa".
Così motivando, la Corte territoriale ha
sostanzialmente attribuito a C, in virtù del
consenso preventivo e generalizzato al
passaggio datogli dagli aventi diritto, un titolo
di detenzione qualificata, tale da legittimarlo
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
137
alla proposizione dell'azione di reintegrazione,
ai sensi dell'art. 1168140 c.c..
In tal modo, essa si è uniformata alla
giurisprudenza di questa Corte, che distingue
tra detenzione nell'interesse proprio del
detentore (detenzione qualificata), in forza di
un rapporto contrattuale anche atipico, e
detenzione nell'interesse del possessore
(detenzione non qualificata, quale quella del
mandatario o del gestore), riconoscendo al
detentore qualificato la legittimazione alla
proposizione dell'azione di reintegra verso i
terzi ed anche verso il possessore (v. Cass. 20-
5-2008 n. 12751141; Cass. 22-7-2002 n.
10676142; Cass. 29-5-1998 n. 5314143), ed al
140 Così recita: Chi è stato violentemente od occultamente spogliato del possesso può, entro l'anno dal sofferto spoglio, chiedere contro l'autore di esso la reintegrazione del possesso medesimo.
L'azione è concessa altresì a chi ha la detenzione della cosa, tranne il caso che l'abbia per ragioni di servizio o di ospitalità.
Se lo spoglio è clandestino, il termine per chiedere la reintegrazione decorre dal giorno della scoperta dello spoglio.
La reintegrazione deve ordinarsi dal giudice sulla semplice notorietà del fatto, senza dilazione.
141 La massima così recita: in tema di spoglio violento e clandestino, il detentore che agisce, ex art. 1168, secondo comma, c.c., per la reintegra, può fornire la prova del titolo anche per presunzione non essendo in discussione la validità e gli effetti del vincolo che giustifica la detenzione qualificata ma esclusivamente il fatto storico dell'esistenza del corrispondente potere di fatto sulla cosa.
142 La massima – estratta da Arch. Civ., 2003, 556 – così recita: il detentore qualificato del bene, ovvero chi detenga la cosa nell'interesse proprio in forza di un titolo contrattuale anche atipico, è legittimato a proporre l'azione di reintegra nel possesso anche nei confronti dello stesso possessore, dovendosi escludere per contro che la legittimazione attiva sia estesa a qualsiasi detentore, purchè non sia tale per ragioni di servizio o di ospitalità.
143 La massima – estratta da Mass. Giur. It., 1998 – così recita: l'affidamento di un bene (come conseguenza della stipula di un contratto atipico) per la realizzazione di un interesse proprio anche dell'affidatario conferisce, a quest'ultimo, la detenzione qualificata della res, tutelabile, ex art. 1168 c.c., con l'esercizio dell'azione di reintegrazione non solo nei confronti del concedente, ma anche del terzo autore materiale dello spoglio e consapevole della violenza usata per
detentore non qualificato la legittimazione
all'azione di reintegra verso i terzi, ma non
verso il possessore (Cass. 22-7-2002 n. 10676;
Cass. 29-10-1974 n. 3276).
L'apprezzamento espresso in ordine
all'esistenza di un titolo e alla qualificazione
dell'interesse dell'attore, d'altro canto,
costituendo oggetto di un'indagine riservata al
giudice di merito, non è censurabile in sede di
legittimità, essendo supportato da una
motivazione congruente ed esaustiva, con la
quale sono stati valorizzati elementi, quali la
disponibilità delle chiavi di accesso e il lungo
tempo per il quale è stato esercitato in modo
pacifico il passaggio, poco compatibili con la
tesi di una utilizzazione precaria ed a mero
titolo di cortesia.
La decisione impugnata, pertanto, si sottrae
alle censure mosse dai ricorrenti, essendo
sorretta da una motivazione priva di vizi
logici, ed avendo fatto corretta applicazione
dei principi di diritto che disciplinano la
materia.
2) Con il secondo motivo i ricorrenti
lamentano la violazione di norme di diritto, in
relazione all'affermazione del giudice di
appello, secondo cui C., avendo per anni
coltivato il terreno ed avendo avuto le chiavi
del cancello d'ingresso, aveva la qualifica di
detentore ed era, quindi, legittimato
contrastare l'opposta volontà dello spoliatus (ancorchè tale terzo abbia agito su incarico del concedente), a condizione che il rapporto scaturente dal contratto abbia carattere non di mera saltuarietà od occasionalità, ma di concreta stabilità, onde consentire all'affidatario la detenzione della cosa fino a quando non sia esaurita l'attività per la quale essa gli era stata consegnata.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
138
all'esercizio dell'azione di spoglio. Deducono
che la detenzione qualificata ricorre solo nelle
ipotesi in cui il possessore conceda a terzi il
godimento di un bene in virtù di un titolo
giuridico che, nella specie, non sussiste. Il
fondo, infatti, non era coltivato dal resistente,
il quale aveva con esso un rapporto del tutto
precario, dovuto ai rapporti di parentela, ed
aveva la disponibilità delle chiavi di accesso al
terreno per mera tolleranza dell'avente diritto.
Sostengono che, a fronte delle contestazioni
mosse dai convenuti, incombeva sul ricorrente
in possessoria l'onere di provare la propria
detenzione qualificata, mentre non spettava
alla controparte la prova della detenzione
precaria.
Anche tale motivo è privo di fondamento.
La Corte di Appello, sulla base delle
deposizioni testimoniali acquisite, ha accertato
che C. "da parecchi anni" coltivava il terreno
di proprietà del fratello ed aveva le chiavi del
cancello d'ingresso al fondo e del casotto sullo
stesso insistente. Legittimamente, di
conseguenza, essa ha attribuito all'odierno
intimato la qualifica, se non di possessore,
quanto meno di detentore qualificato, abilitato
alla proposizione dell'azione di spoglio.
Per considerazioni analoghe a quelle svolte in
relazione al primo motivo, infatti, non par
dubbio che il protrarsi nel tempo della
coltivazione del fondo nel proprio interesse da
parte dell'intimato e la libertà di accesso al
terreno ed al caseggiato rurale al medesimo
concessa dal fratello mediante la dazione delle
chiavi, costituiscono elementi dai quali il
giudice del gravame ha ragionevolmente
desunto l'esistenza di un autonomo titolo di
detenzione in capo a C.
Anche in tal caso, pertanto, la tesi della
precarietà del rapporto e della mera tolleranza
dell'avente diritto è stata disattesa dal giudice
di merito sulla base di argomentazioni corrette
sul piano logico e giuridico, che rendono la
decisione impugnata immune dai vizi
denunciati dai ricorrenti.
3) Con il terzo motivo i ricorrenti si dolgono
dell'erronea condanna alle spese, sostenendo
che, per effetto dell'accoglimento del ricorso,
queste devono essere poste a carico del
resistente.
Il motivo è privo di autonomia, essendo basato
sul presupposto, rivelatosi erroneo, della
fondatezza degli altri motivi di ricorso e della
conseguente soccombenza del resistente.
4) Per le ragioni esposte il ricorso deve essere
rigettato. Poichè l'intimato non ha svolto
alcuna attività difensiva, non vi è pronuncia
sulle spese.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
139
Annotazione alla sentenza della Cassazione
Civile n. 99, resa in data 4.1.2013
Articolo di Gianluca Ludovici
SOMMARIO: 1. Il fatto. – 2. Il possesso, la detenzione qualificata e la mera detenzione. – 3. La legittimazione attiva alla tutela ex artt. 1168 c.c. e 703 c.p.c. – 4. Onere della prova. – 5. Conclusioni: il principio di diritto.
1. La sentenza in epigrafe afferma, sulla
scorta di consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità, il principio di diritto in virtù del quale il detentore qualificato di un bene è legittimato a proporre l’azione ex art. 1168 c.c. anche nei confronti del possessore del medesimo.
Questi in breve i fatti di causa. Con ricorso depositato il 28.06.1997 presso la Pretura di Catania, Sezione Distaccata di Giarre, C.C.G., premesso di aver sempre esercitato l'accesso al suo garage sia dalla scala condominiale sia dal cancello che immette anche al garage di P.R., deduceva che nel Settembre 1996 quest'ultima e C.F.P. avevano occultamente chiuso lo spazio destinato a garage del ricorrente, mediante l'erezione di muri a mattoni, impedendo qualsiasi collegamento tra tale garage e le scale che conducono ai sovrastanti appartamenti, ed avevano altresì sostituito le chiavi del catenaccio apposto al cancello d'ingresso ai garage ed il telecomando per l'apertura automatica. Il ricorrente, inoltre, affermava che i convenuti avevano sostituito la serratura del cancello d'ingresso ad un terreno posto in (OMISSIS), coltivato a vigneto, con annesso casotto per il deposito degli attrezzi, del quale il deducente aveva il pacifico possesso da circa otto anni. Tanto premesso, il C.C.G. chiedeva l'adozione dei provvedimenti necessari alla tutela del suo possesso. Con ordinanza in data 31.12.1997 il Pretore disponeva la reintegra del ricorrente nel possesso.
Tale ordinanza veniva successivamente confermata dal Tribunale di Catania, Sezione Distaccata di Giarre, con sentenza del 07.6.2001. Il Tribunale, in particolare, osservava che era stata raggiunta la prova dello spoglio sofferto dal ricorrente, e che per
contro non era stato dimostrato che il possesso avesse fondamento nella mera tolleranza e nei rapporti di parentela e di buon vicinato.
C.F.P. e P.R. proponevano appello avverso il provvedimento giudiziale di primo grado; con sentenza depositata il 17.09.2005, tuttavia, la Corte territoriale di Catania rigettava il gravame proposto avverso la predetta decisione, confermando la valutazione degli elementi probatori acquisiti in corso di istruttoria, nonché la qualificazione giuridica dei fatti allegati operata dal giudice di prime cure.
Gli appellanti proponevano, infine, ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello, denunciando essenzialmente con due autonomi motivi di impugnazione, la violazione di norme di legge tanto in relazione alla sussistenza di un possesso giuridicamente rilevante in capo al ricorrente in possessoria, quanto in relazione alla qualificazione della situazione di fatto in cui quest’ultimo si trovava come detenzione qualificata. C.C.G. non ha svolgeva attività difensive. La Suprema Corte rigettava il ricorso avvalorando l’attività di ermeneutica giuridica operata dalla Corte territoriale siciliana.
2. Con la pronuncia in commento gli
Ermellini della Suprema Corte, prima di giungere alla pronuncia di un principio di diritto proprio dell’ordinamento processualcivilistico144, hanno dovuto affrontare e risolvere una questione tipica del diritto sostanziale: per tali ragioni appare opportuno procedere alla presente trattazione, cominciando proprio dalla corretta qualificazione della posizione giuridica in cui viene a trovarsi un soggetto che intrattenga con un bene una relazione basata sulla mera materialità.
Nell’ordinamento, come noto, i rapporti intercorrenti tra i soggetti che ne fanno parte e le cose che ricadono all’interno dei confini dello stesso possono essere sorretti da uno specifico titolo giuridico (id est: la sussistenza del diritto di proprietà o di altro diritto reale di godimento) ovvero avvenire in virtù di mere ragioni di fatto; sia nell’uno, che nell’altro caso essi acquistano comunque rilevanza
144 Id est la questione della legittimazione ad agire e resistere in giudizio ex art. 81 c.p.c.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
140
giuridica e vengono conseguentemente disciplinati dalla Legge.
Nell’alveo dei rapporti tra soggetti e beni caratterizzati esclusivamente dall’esistenza di una relazione di mero fatto, che si concretizza nell’apprensione materiale della res, si collocano gli istituti del “possesso” e della “detenzione”, quest’ultima a sua volta suddivisa tra “detenzione qualificata” e “non qualificata”145. Mentre il possesso è la situazione di fatto in virtù della quale il possessore oltre ad avere il bene nella sua materialità esercita tale signoria e controllo nella consapevolezza di averlo come proprio (animus rem sibi habendi), la detenzione si contraddistingue per il fatto che il soggetto che la esercita ha sì la disponibilità fisica della cosa, ma il suo stato psicologico è quello di colui che riconosce l’altruità del possesso (cosiddetta laudatio possessoris) e quindi quello di colui che riconosce la propria qualità di strumento (una sorta di longa manus) per la mediata disponibilità del bene.
Ciò chiarito, se la disponibilità fisica del bene da parte del detentore è giustificata dal soddisfacimento di un interesse (anche) proprio146 di quest’ultimo, stante la vigenza tra possessore e detentore di un rapporto giuridico tanto tipico147, quanto atipico, si può parlare di detenzione qualificata; al contrario, se la signoria è esercitata dal detentore
145 Per un approfondito esame degli istituti del possesso e della detenzione si vedano: LIOTTA, Detenzione, in Enc. giur. Treccani; MONTEL, Detenzione (dir.civ.), in N. Dig. it.; MONTEL, Il contenuto del rapporto possessorio, in Giur. agraria it., 1965, pp. 525 e ss. per cui “La detenzione consiste infatti nell'avere la disponibilità di una cosa, ossia nell'avere la possibilità di utilizzarla tutte le volte che si desideri, pur nella consapevolezza che essa appartiene ad altri, ai quali comunque si deve render conto (animus detinendi)”; MONTEL, La disciplina del possesso, Torino, 1951, p. 24; TORRENTE-SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, Milano, 1985, p. 384.
146 In queste pagine per interesse si vuole intendere una situazione di vantaggio materiale che il rapporto diretto con la res mira a soddisfare.
147 Si pensi in tal caso ai rapporti negoziali nascenti dalla stipulazione di contratti di locazione, di comodato, di affitto di azienda
nell’esclusivo interesse del possessore148, allora questi svolge davvero ed unicamente il ruolo di un mezzo per l’esercizio del possesso da parte di chi ha la disponibilità della res cum animo rem sibi habendi e la posizione di fatto del mero detentore viene così definita “detenzione non qualificata”
L’ultimo gradino della scala gerarchica delle relazioni tra gli individui ed i beni è occupato da coloro che utilizzano le cose a titolo precario e/o di cortesia; trattasi di una forma di signoria sulla res che avviene per spirito di tolleranza manifestato dal possessore, il quale mantiene anche il contatto diretto ed immediato con il bene, cedendone solo occasionalmente il controllo per consentirne ad altri un uso limitato nello spazio e nel tempo.
Nel caso di specie, storicamente caratterizzato dall’esistenza di “un consenso preventivo e generalizzato al passaggio nell'area di proprietà”149 dei possessori convenuti in giudizio concesso da questi ultimi per molti anni al ricorrente, la Corte di Cassazione ha riconosciuto corretta la qualificazione giuridica operata dai Giudici di merito di prima e di seconda istanza circa la
148 Questa è la tipica posizione del mandatario e del gestore
149Sic la pronuncia della Suprema Corte in esame. Più correttamente il Giudice di legittimità così ha argomentato sul fatto storico: “La Corte di Appello, sulla base delle deposizioni testimoniali e delle dichiarazioni rese nella fase cautelare da C.F. P., ha accertato, in punto di fatto, che C.C. G. sin dalla data di acquisto dell'appartamento e del garage utilizzava per accedere in quest'ultimo sia le scale condominiali che il cancello che delimitava l'area di proprietà della P., delle cui chiavi aveva la disponibilità. Ciò posto, il giudice del gravame ha osservato che, anche a voler ritenere che il C. non avesse personalmente una copia delle chiavi, ma dovesse prelevare quelle lasciate dal fratello nella sua officina, contigua al fabbricato, non si potrebbe parlare di un utilizzo precario e a titolo di cortesia, in quanto gli appellanti avevano dato un consenso preventivo e generalizzato al passaggio nell'area di loro proprietà”.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
141
natura del rapporto intercorso tra il ricorrente e le res oggetto di causa. Le modalità di esercizio della signoria sui beni de quibus, seppur traente origine da un rapporto contrattuale non espressamente previsto e disciplinato dal Codice Civile e, quindi, atipico, non hanno ingenerato dubbi al riguardo ed hanno comunque condotto alla individuazione di una situazione di “detenzione qualificata” ossia di detenzione operata (anche) nell’interesse del detentore.
3. Passando dal piano del diritto
sostanziale a quello del diritto processuale civile si può pervenire ad consequentias ed attribuire un senso più pragmatico alle figurae iuris sin qui esaminate. E’ noto in dottrina, infatti, come la distinzione tra la detenzione qualificata e non qualificata assuma particolare rilievo ed interesse con riferimento alla questione della legittimazione150 all’esercizio delle azioni di reintegrazione nel possesso151, apparendo queste ultime come l’unico strumento giuridico idoneo e diretto alla più pronta tutela del rapporto tra la res ed il soggetto che su di essa esercita una signoria materiale, pur in assenza di titolarità di un diritto reale che ad essa afferisca.
Il Giudice di legittimità con la pronuncia in esame ha deciso di seguire il proprio costante insegnamento al riguardo152, distinguendo “tra detenzione nell'interesse proprio del detentore (detenzione qualificata),
150 Si tratta della corrispondenza tra le parti in causa come legittimi contraddittori. Infatti chi agisce in giudizio è affermato nella domanda come attore o ricorrente ovvero il titolare della situazione giuridica soggettiva o, come nel caso in esame, della situazione di fatto di cui si chiede la tutela giudiziale; chi resiste, contestandola, è affermato come legittimo contraddittore ovvero soggetto passivo del rapporto sostanziale dedotto in giudizio.
151 GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 1996, p. 213; BIANCA, Diritto civile, vol. VI, Milano, 1999, p. 727.
152 Cfr. Cass., sentenza resa in data 20.05.2008, n. 12751, in Diritto & Giustizia, 2008; Cass., sentenza resa in data 22.07.2002, n. 10676, in Giust. civ. Mass., 2002, p. 1304; Cass., sentenza resa in data 29.05.1998, n. 5314, in Giust. civ. Mass., 1998, p. 1165.
in forza di un rapporto contrattuale anche atipico, e detenzione nell'interesse del possessore (detenzione non qualificata, quale quella del mandatario o del gestore)” e conseguentemente “riconoscendo al detentore qualificato la legittimazione alla proposizione dell'azione di reintegra verso i terzi ed anche verso il possessore ed al detentore non qualificato la legittimazione all'azione di reintegra verso i terzi, ma non verso il possessore”.
Sebbene il Supremo Collegio si limiti a richiamare propri precedenti arresti senza esplicitare i termini del ragionamento logico-giuridico sotteso alle richiamate pronunce, nonché a quella in commento, è facile intuire la ratio della decisione de qua se si tiene nel dovuto conto l’aspetto sostanziale dell’istituto in argomento ovvero se ben si comprendono gli elementi costitutivi della “detenzione qualificata”.
È evidente, in fatti, come chi detiene (anche) per un proprio interesse sia, per il solo fatto di poter legittimamente vantare ed esercitare tale situazione di concreto vantaggio153, astrattamente titolato (rectius: legittimato) ad agire in giudizio per la tutela dello stesso: ciò avverso quelle condotte poste in essere tanto da soggetti terzi, quanto e persino dal possessore (ossia il soggetto per conto del quale detiene), ben potendo teoricamente quest’ultimo, attraverso azioni di spoglio violento e/o clandestino, agire (illecitamente) al fine di restringere o escludere la sfera di materiale autonomia sulla cosa conservata dal detentore qualificato per il soddisfacimento del proprio lecito interesse.
L’assenza di una simile, pur tenue, posizione di concreto vantaggio comporta logicamente l’assoluta impossibilità per il detentore non qualificato di pretendere alcunché dal soggetto per il quale dispone materialmente del bene (rectius: il possessore), essendo il primo un mero strumento del secondo per l’esercizio del controllo sulla res; in qualità di mezzo, il detentore non qualificato è, però, al pari del possessore, legittimato alle azioni di tutela ex art. 1168 c.c. nei confronti di quei terzi che abbiano fatto venir meno la propria relazione diretta ed
153 L’interesse, per l’appunto.
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142
immediata con il bene154 e ciò in ragione del fatto che in simili casi chi pone in essere lo spoglio violento e/o clandestino è soggetto estraneo al rapporto giuridico da cui scaturisce la situazione de facto in virtù della quale si possiede e si detiene.
Quest’ultima possibilità, infine, è esclusa (così come viene esclusa ogni tipo di tutela giuridica alla relazione con la cosa) per quei soggetti che abbiano l’apprensione materiale del bene per motivi di semplice tolleranza ossia a titolo di cortesia: anche le ragioni di una simile esclusione sono razionali ed evidenti, non esaurendo, l’uso occasionale e tollerato della cosa, il rapporto materiale tra la res e chi ne abbia l’effettivo possesso o detenzione (sia essa qualificata o non qualificata). Sarà il soggetto che riveste tali posizioni a dover agire per la reintegrazione dello status quo ante.
4. La questione della sussistenza della
legittimazione attiva in capo a chi agisce in giudizio è una questione pregiudiziale di rito155, logicamente preliminare rispetto all’accertamento dei requisiti necessari per concedersi tutela possessoria in favore del ricorrente, ma pur tuttavia questione che in molti casi156 necessita paradossalmente dello svolgimento di un’istruttoria157 e che, quindi, è destinata ad essere decisa unitamente al merito della controversia.
154 Cfr. Cass. sentenza resa in data 22.07.2002, n. 10676, cit.; Cass. sentenza resa in data 29.10.1974, n. 3276 in www.cortedicassazione.it.
155 La questione della legittimazione all’azione ex art. 81 c.p.c. è una questione di rito rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo.
156 Tutti quei casi, ovviamente, in cui la individuazione del ricorrente come “detentore qualificato” non possa operarsi in virtù di prove precostituite, vale a dire di prove documentali (ad es. contratto di locazione, contratto di comodato, contratto di affitto di nazienda, etc…), le quali consentano al giudice adito una valutazione della situazione di fatto allegata in giudizio dal ricorrente in un tempo anteriore all’espletamento delle prove orali.
157 Rectius: escussione di sommari informatori nella fase cautelare e dei testimoni nella fase a cognizione piena.
Ciò avviene in considerazione del fatto che anche nei procedimenti speciali-cautelari opera il principio “onus probandi incumbit ei qui dicit”158 (art. 2697 c.c.), per cui il ricorrente dovrà, in primis, sempre offrire la prova del proprio status di possessore ovvero di detentore qualificato, onde poter legittimamente accreditarsi come titolare di un interesse o di una situazione di fatto suscettibile di tutela giuridica nelle forme di cui agli artt. 1168 c.c. e 703 c.p.c.. Valgono anche qui, dunque, le regole generali dell’istruzione in senso stretto, elaborate dal Legislatore per il processo civile ordinario: ne consegue che all’accertamento della sussistenza degli accadimenti allegati dal ricorrente concorrono non solo gli elementi probatori offerti da chi agisce in giudizio, ma anche quelli offerti dalle parti resistenti ed entrambi saranno oggetto dell’attività di ricostruzione fattuale e valutazione giuridica da parte dell’organo giudicante di merito, attività che, se correttamente159 motivate in
158 Cfr. Cass.Civ., Sez.II, sentenza resa in data 22.10.1998, n.10477, in Giust. civ. Mass., 1998, p. 2149; Cass.Civ., Sez.II, sentenza resa in data 03.03.1994, n. 2111, in Giust. civ. Mass., 1994, p. 256.
159 Vale a dire che se, come nel caso che occupa, la motivazione che sorregge e giustifica l’attività logico-deduttiva di accertamento della sussistenza del fatto storico realizzata dal giudice di merito è priva di vizi logici, la stessa non sarà più censurabile in Cassazione. Così si è testualmente espressa la Suprema Corte nella sentenza in commento: “L'apprezzamento espresso in ordine all'esistenza di un titolo e alla qualificazione dell'interesse dell'attore, d'altro canto, costituendo oggetto di un'indagine riservata al giudice di merito, non è censurabile in sede di legittimità, essendo supportato da una motivazione congruente ed esaustiva, con la quale sono stati valorizzati elementi, quali la disponibilità delle chiavi di accesso e il lungo tempo per il quale è stato esercitato in modo pacifico il passaggio, poco compatibili con la tesi di una utilizzazione precaria ed a mero titolo di cortesia. La decisione impugnata, pertanto, si sottrae alle censure mosse dai ricorrenti, essendo sorretta da una motivazione priva di vizi logici, ed avendo fatto corretta applicazione dei principi di diritto che disciplinano la materia”.
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143
sentenza, non potranno più essere censurate da parte del Giudice di legittimità.
Questo è quanto accaduto nel caso di specie: avendo rilevato prima il Tribunale e poi la Corte territoriale siciliana che il ricorrente "usufruiva del passaggio regolarmente ed a partire dal 1989", e che le chiavi "erano appese dentro l'officina che si trova di fronte all'immobile per cui è causa", entrambi gli organi giudicanti di merito giungevano ad acclarare “in punto di fatto, che C.C. G. sin dalla data di acquisto dell'appartamento e del garage utilizzava per accedere in quest'ultimo sia le scale condominiali che il cancello che delimitava l'area di proprietà della P., delle cui chiavi aveva la disponibilità” per cui il ricorrente si trovava in un rapporto materiale con la res controversa tale da poter essere definito come “detenzione qualificata” e da consentire al C.C.G. l’utilizzo dello strumento ex artt. 1168 c.c. e 703 c.p.c. anche nei confronti dei due resistenti possessori del bene oggetto di causa.
5. In conclusione, la decisione in
commento ribadisce il costante insegnamento della Suprema Corte in virtù del quale “il
detentore qualificato del bene […] è legittimato a proporre l'azione di reintegra nel possesso anche nei confronti dello stesso possessore, dovendosi escludere per contro che la legittimazione attiva sia estesa a qualsiasi detentore”.
Il Giudice di legittimità, in altri termini, non ha fatto altro che avallare il ragionamento seguito dal Giudice di merito di primo e di secondo grado circa la integrazione degli elementi costitutivi della fattispecie astratta della “detenzione qualificata” da parte del fatto storico descritto dal ricorrente e risultato provato in corso di giudizio, pervenendo poi ad applicare ad una simile ricostruzione giuridico-fattuale, gli effetti ad essa ricollegati dall’ordinamento processuale civile e riconoscendo così, infine, la legittimazione attiva per l’esercizio dell’azione possessoria nei confronti del possessore di un bene anche a colui che quel medesimo bene detiene in ragione di un titolo non necessariamente tipico, purché sussista un rapporto materiale e diretto con la res caratterizzato dall’esistenza di un interesse proprio al mantenimento della relazione con il bene de quo.
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144
di
MIRIANA BOSCO
Massima La prova della sussistenza del credito può essere fornita dal
professionista che chieda il compenso per le sue prestazioni in sede di
richiesta di decreto ingiuntivo con la produzione della parcella e del
relativo parere dell’Ordine professionale competente, ma tale
documentazione non è sufficiente nel giudizio di opposizione, che si
svolge secondo le regole ordinarie del giudizio di cognizione.
L’avvocato prova il credito con la parcella: ok per il decreto
ingiuntivo, ma non per il giudizio ordinario
Sentenza Cassazione Civile,
Sentenza n. 2471/2013
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
145
LA SENTENZA PER ESTESO
Cassazione civile, sezione seconda, sentenza
del 1.2.2013, n. 2471
Svolgimento del processo
1. - Con ricorso notificato il 20 maggio 1991,
D. ottenne dal Presidente del Tribunale di
Salerno decreto ingiuntivo nei confronti di B.,
titolare di un'azienda avicola, per il pagamento
della somma di lire 5.760.000 per prestazioni
professionali di consulenza contabile relative
al periodo 1987-1989.
Il B. propose opposizione avverso detto
decreto, deducendo di non avere mai
intrattenuto rapporti con il D.D. ed assumendo
di essere stato assistito da tale Dott. F., cui
aveva consegnato due assegni a titolo di
compenso per il lavoro svolto.
Dedusse poi la carenza di prova circa
l'esistenza del rapporto professionale.
Il D., costituitosi in giudizio, sostenne che il
rapporto professionale era in realtà intercorso
con lo studio C.., di cui egli era titolare ed il F.
solo un collaboratore.
Il Tribunale di Salerno ridusse l'importo delle
competenze dovute al D.
2. - Il B. propose avverso tale sentenza
gravame, che fu accolto dalla Corte d'appello
di Salerno con sentenza depositata l'11 aprile
2005. Il giudice di secondo grado osservò che
il D. - il cui fascicolo di primo grado, peraltro,
non risultava nemmeno allegato alla
produzione - a fronte delle specifiche
contestazioni mosse dal B., non aveva fornito
la prova nè del conferimento dell'incarico, nè
dell'effettivo espletamento dello stesso, nè del
contenuto della contabilità, nè del compenso
convenuto.
Del tutto sterile ai fini probatori era poi,
secondo la Corte di merito, il contenuto
dell'interrogatorio formale reso dallo stesso D.,
che non aveva neanche specificato la forma
della presunta collaborazione del F.
Sottolineò quindi il secondo giudice che la
prova della sussistenza del credito può essere
fornita dal professionista che chieda il
compenso per le sue prestazioni in sede di
richiesta di decreto ingiuntivo con la
produzione della parcella e del relativo parere
dell'Ordine professionale competente, ma che
tale documentazione non è sufficiente nel
giudizio di opposizione, che si svolge secondo
le regole ordinarie del giudizio di cognizione.
3. - Per la cassazione di tale sentenza ricorre il
D. sulla base di due motivi. Resiste con
controricorso il B., che ha altresì depositato
memoria.
Motivi della decisione
1. - Con il primo motivo di ricorso si deduce
violazione degli artt. 115, 165 e 169 c.p.c., e
degli artt. 741 e 772 disp. att. c.p.c., per non
avere il giudice di appello ordinato la ricerca
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
146
del fascicolo di parte, risultato disperso
nell'ambito della cancelleria, e per non aver
disposto, nel contraddittorio delle parti, la
ricostruzione del fascicolo mancante nel quale
risultavano inseriti i documenti comprovanti il
rapporto professionale tra le parti stesse.
2. - La censura è inammissibile.
La sentenza non ha rilevato la mancanza del
fascicolo di parte, ma l'omessa allegazione del
fascicolo di primo grado alla produzione
depositata in appello, e costituisce questione
nuova, oltre che priva di riscontro, quella
relativa alla mancata allegazione del fascicolo
per essere stato lo stesso disperso nella
cancelleria e non per un comportamento
omissivo della parte.
3. - Con il secondo motivo si deduce carenza
di motivazione in ordine al fatto che il
rapporto professionale era intercorso
esclusivamente con lo studio C. di cui il
ricorrente, commercialista, era il socio
amministratore e il F., matematico, era il
collaboratore. Osserva il ricorrente che
dall'interrogatorio formale, mai contestato, e
dalla documentazione prodotta e poi
scomparsa era emerso che tra il B. ed il D.D.
erano intercorsi rapporti professionali. Tale
assunto era stato poi avvalorato
dall'accettazione del contraddittorio da parte
del B. sulla entità delle somme richieste.
4. - Il motivo è in parte inammissibile, in parte
infondato.
4.1. - E' inammissibile per difetto di
autosufficienza nella parte in cui censura
l'omesso esame di documenti prodotti in primo
grado, e non rinvenuti in atti, senza
specificarne il contenuto.
4.2. - E' infondato per la parte residua, avendo
la Corte di merito adeguatamente motivato il
proprio convincimento con l'affermazione che
l'opposto non aveva soddisfatto l'onere su di
lui gravante di provare il conferimento
dell'incarico, l'effettivo espletamento dello
stesso e la determinazione del compenso, e
con la considerazione che il contenuto
dell'interrogatorio formale dell'opposto sulla
asserita collaborazione con il F. era irrilevante
ai fini probatori.
5. - Conclusivamente, il ricorso deve essere
rigettato. In applicazione del criterio della
soccombenza, le spese del presente giudizio,
che vengono liquidate come da dispositivo,
devono essere poste a carico del ricorrente.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il
ricorrente al pagamento delle spese del
presente giudizio, che liquida in complessivi
Euro 2200,00, di cui Euro 2000,00 per
compensi, oltre alle spese generali ed accessori
di legge.
1 Così recita: gli atti e i documenti di
causa sono inseriti in sezioni separate del
fascicolo di parte. Gli atti sono costituiti
dagli originali o dalle copie notificate
della citazione, della comparsa di risposta
o d'intervento, delle memorie, delle
comparse conclusionali e delle sentenze.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
147
Sulla copertina del fascicolo debbono
essere iscritte le indicazioni richieste per il
fascicolo d'ufficio. Il cancelliere, dopo
aver controllato la regolarità anche fiscale
degli atti e dei documenti, sottoscrive
l'indice del fascicolo ogni volta che viene
inserito in esso un atto o documento.
2 Così recita: per ritirare il proprio
fascicolo a norma dell'articolo 169 del
Codice, la parte deve fare istanza con
ricorso al giudice istruttore. Il ricorso e il
decreto di autorizzazione sono inseriti dal
cancelliere nel fascicolo d'ufficio. In calce
al decreto il cancelliere fa scrivere la
dichiarazione di ritiro del fascicolo e
annota la restituzione di esso.
PROVA DEL CREDITO TRAMITE
PARCELLA.
ANNOTAZIONE ALLA SENTENZA
DELLA CORTE DI CASSAZIONE,
SEZIONE SECONDA, DEL 1°
FEBBRAIO 2013, N. 2471.
di MIRIANA BOSCO
1) IL CASO
Con ricorso notificato il 20 maggio 1991,
D.D.A. otteneva dal Presidente del
Tribunale di Salerno un decreto ingiuntivo
nei confronti di B.G., titolare di un'azienda
avicola, per il pagamento della somma di £
5.760.000 per prestazioni professionali di
consulenza contabile relative al periodo
1987-1989.
Il B.G. proponeva opposizione avverso
detto decreto, deducendo di non avere mai
intrattenuto rapporti con il D.D.A. ed
assumendo di essere stato assistito da tale
Dott. F., cui aveva consegnato due assegni
a titolo di compenso per il lavoro svolto.
Deduceva, inoltre, la carenza di prova
circa l'esistenza del rapporto professionale.
Il D.D.A., costituitosi in giudizio,
sosteneva che il rapporto professionale era,
in realtà, intercorso con lo studio C.E.M.,
di cui egli era titolare ed il Dott. F. un
collaboratore.
Il Tribunale di Salerno riduceva l'importo
delle competenze dovute al D.D.A..
Avverso la sentenza del Tribunale di
Salerno, il B.G. proponeva gravame,
accolto dalla Corte d'appello di Salerno
con sentenza depositata l'11 aprile 2005. Il
giudice di secondo grado osservava che il
D.D.A. - il cui fascicolo di primo grado,
peraltro, non risultava allegato alla
produzione - a fronte delle specifiche
contestazioni mosse dal B.G., non aveva
fornito la prova del conferimento
dell'incarico e dell'effettivo espletamento
dello stesso, né tantomeno del contenuto
della contabilità e del compenso
convenuto.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
148
Del tutto sterile, ai fini probatori, era,
secondo la Corte di merito, il contenuto
dell'interrogatorio formale reso dallo
stesso D.D.A., che non aveva neanche
specificato la forma della presunta
collaborazione del Dott. F..
Sottolineava, quindi, il secondo giudice
che la prova della sussistenza del credito
può essere fornita dal professionista che
chieda il compenso per le sue prestazioni
in sede di richiesta di decreto ingiuntivo
con la produzione della parcella e del
relativo parere dell'Ordine professionale
competente, ma che tale documentazione
non è sufficiente nel giudizio di
opposizione, che si svolge secondo le
regole ordinarie del giudizio di cognizione.
Il D.D.A. ricorreva per la cassazione di
tale sentenza, deducendo la violazione
degli artt. 115, 165 e 169 c.p.c., e degli
artt. 74 e 77 disp. att. c.p.c., per non avere
il giudice di appello ordinato la ricerca del
fascicolo di parte, risultato disperso
nell'ambito della cancelleria, e per non
aver disposto, nel contraddittorio delle
parti, la ricostruzione del fascicolo
mancante nel quale risultavano inseriti i
documenti comprovanti il rapporto
professionale tra le parti stesse. Deduceva,
inoltre, la carenza di motivazione in ordine
al fatto che il rapporto professionale era
intercorso esclusivamente con lo studio
C.E.M. di cui il ricorrente D.D.A.,
commercialista, era il socio amministratore
e il dott. F., matematico, era il
collaboratore. Osservava il ricorrente che
dall'interrogatorio formale, mai contestato,
e dalla documentazione prodotta e poi
scomparsa era emerso che tra il B.G. ed il
D.D.A. erano intercorsi rapporti
professionali. Tale assunto era stato, poi,
avvalorato dall'accettazione del
contraddittorio da parte del B.G. sulla
entità delle somme richieste.
Resisteva con controricorso il B.G., che
depositava memoria.
La Suprema Corte di Cassazione
dichiarava inammissibile la censura.
Ed invero, a giudizio della Suprema Corte,
la sentenza di II grado non aveva rilevato
la mancanza del fascicolo di parte, ma
l'omessa allegazione del fascicolo di primo
grado alla produzione depositata in appello
ed aveva evidenziato che costituisce
questione nuova, oltre che priva di
riscontro, quella relativa alla mancata
allegazione del fascicolo per essere stato lo
stesso disperso nella cancelleria e non per
un comportamento omissivo della parte.
A giudizio degli Ermellini, il secondo
motivo è in parte inammissibile, in parte
infondato. E' inammissibile per difetto di
autosufficienza nella parte in cui censura
l'omesso esame di documenti prodotti in
primo grado e non rinvenuti in atti, senza
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
149
specificarne il contenuto. E' infondato per
la parte residua, avendo la Corte di merito
adeguatamente motivato il proprio
convincimento con l'affermazione che
l'opposto non aveva soddisfatto l'onere su
di lui gravante di provare il conferimento
dell'incarico, l'effettivo espletamento dello
stesso e la determinazione del compenso e
con la considerazione che il contenuto
dell'interrogatorio formale dell'opposto
sulla asserita collaborazione con il dott. F.
era irrilevante ai fini probatori.
Pertanto, la Corte di Cassazione rigettava
il ricorso e condannava il ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio, che
liquidava in complessivi € 2.200,00, di cui
€ 2.000,00 per compensi, oltre alle spese
generali ed accessori di legge.
2) IL COMMENTO
Il procedimento monitorio è rivolto a far
ottenere - più velocemente rispetto alle
modalità tipiche della cognizione ordinaria
- al soggetto che ne fruisca un
provvedimento di condanna, con
successiva formazione del titolo esecutivo.
Lo svolgimento del procedimento di
ingiunzione – seppure con modalità più
celeri e semplificate - rappresenta
espressione dello stesso potere
giurisdizionale proprio dei provvedimenti
decisori ordinari. Fine precipuo è la celere
formazione della cosa giudicata, sempre
che l’inerzia dell’intimato permetta
l’ottenimento di un tale esito. Ed invero,
nel procedimento monitorio si verifica
un’inversione - a carico di detto soggetto -
dell’onere di instaurare il contraddittorio
per il giudizio a cognizione piena e
completa.
La ratio della particolare disciplina dei
diritti che possono essere azionati con il
procedimento monitorio risiede nella
sussistenza di due fondamentali
presupposti, rappresentati dalla forte
probabilità di esistenza del credito ed, al
contempo, dalla possibilità di un rapido
riscontro della fondatezza della domanda;
l’uno e l’altro ancorati al fatto che la prova
del diritto è documentale. Per quanto
concerne i crediti professionali, va rilevato
che l’art. 636 c.p.c. prevede la possibilità
di esperire la procedura monitoria per la
tutela dei crediti in questione, allegando
“la parcella delle spese e prestazioni,
munita della sottoscrizione del ricorrente e
corredata dal parere della competente
associazione professionale. Il parere non
occorre se l'ammontare delle spese e delle
prestazioni è determinato in base a tariffe
obbligatorie”.
Il prevalente indirizzo dottrinario,
propenso a ritenere – in forza della
previsione dell’art. 636, comma 2, c.p.c. –
che il giudice fosse, senz’altro, vincolato a
ritenere provate le spese e prestazioni
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
150
esposte nella parcella, quanto meno in sede
monitoria, è stato innovato dalle
precisazioni introdotte in merito dalla
Corte Costituzionale (C. Cost. 4 maggio
1984, n.137; C. Cost. 19 gennaio 1988,
n.34). Ed invero, la Corte Costituzionale
ha precisato che la competente
associazione professionale non deve
limitarsi a fornire un mero parere di
congruità, in relazione alle voci di tariffa
applicate, ma deve estendere la sua
indagine al se e al come le prestazioni
siano state effettuate dal professionista.
Con l’effetto che se tale indagine non
rileva dal parere espresso, il giudice può
ritenere non sufficientemente provata la
domanda ed invitare il ricorrente ad
integrare la prova, ex art. 640 c.p.c. 1. Se il
ricorrente non risponde all'invito o non
ritira il ricorso oppure se la domanda non è
accoglibile, il giudice la rigetta con decreto
motivato2. Tale decreto non pregiudica la
riproposizione della domanda, anche in via
ordinaria 3.
Bisogna sottolineare che, alla stregua del
puntuale disposto di cui all'art. 125 c.p.c.,
espressamente richiamato dall'art. 638
c.p.c., il ricorso per decreto ingiuntivo
deve contenere l'indicazione delle parti,
delle ragioni della domanda (causa
petendi) e dell'istanza (petitum) e di tutti
gli elementi probatori. Ed invero, con la
notificazione del ricorso monitorio
(unitamente al relativo decreto, art. 643
c.p.c.) si cristallizza la aeditio actionis a
tutti gli effetti sostanziali e processuali,
anche ai fini del giudizio di opposizione
(Cass., 28/4/1981, n.2588; Cass, 7/4/1987,
n. 3341; Cass., 17/8/1973, n. 2356; Cass.,
10/9/1990, n. 9311 e Cass., 13/6/1992, n.
7292 anticipano al momento del deposito
del ricorso monitorio taluni effetti ed
ormai Cass., Sezioni Unite, 17/6/2010, n.
14610 afferma che "l'inizio dell'azione
deve ritenersi coincidere con il momento
del deposito in cancelleria del ricorso per
decreto ingiuntivo, ai sensi dell'art. 638
c.p.c., così come chiarito da una pluralità
di pronunce di questa Corte, senza
contrasti sul punto, avendo il ricorso de
quo ad oggetto anche il giudizio di
cognizione che segue all'opposizione e
dovendosi ritenere proposta all'atto del
deposito dello stesso... (Cass. 22 maggio
2008 n. 13085, 27 dicembre 2004 n. 24021
e 18 marzo 2003 n. 3984, tra altre, tutte
conseguenti a S.U. 7 luglio 1993 n. 7448).
Ora, per quanto riguarda i crediti dei
professionisti, la sentenza della Corte di
Cassazione n.2471/2013 ha evidenziato
che la prova della sussistenza del credito
può essere fornita dal professionista che
chieda il compenso per le sue prestazioni
in sede di richiesta di decreto ingiuntivo
con la produzione della parcella e del
relativo parere dell'Ordine professionale
competente, ma che tale documentazione
non è sufficiente nel giudizio di
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
151
opposizione, che si svolge secondo le
regole ordinarie del giudizio di cognizione.
Ed invero, nel procedimento monitorio la
valutazione della prova documentale è
subordinata a talune regole particolari: per
un verso, al vincolo di alcune fattispecie di
prova legale, per altro verso, all’opposto
ampliamento del principio del libero
convincimento, in virtù del quale sono
utilizzabili, ai fini dell’emissione del
decreto ingiuntivo, documenti che non
avrebbero valore probatorio in un giudizio
ordinario di cognizione. Il che deriva dal
fatto che la forma speciale del
procedimento monitorio impedisce al
giudice, a causa dell’istituzionale assenza
del contraddittore, una previa e completa
valutazione di tutte le ragioni e le
eccezioni delle parti in causa.
Pertanto, ogniqualvolta la prova scritta
della fase monitoria degrada ad indizio nel
successivo giudizio di opposizione, si pone
a carico del professionista l’onere di dare
compiuta prova del conferimento e
dell’espletamento dell’incarico, se la
controparte contesti, seppure in modo
“sommario”, l’uno o l’altro.
Il professionista ha l’onere di costituirsi in
giudizio, depositando il fascicolo della
fase monitoria. La documentazione posta
alla base del ricorso per decreto ingiuntivo
è destinata – per effetto della opposizione
a decreto ingiuntivo e della trasformazione
in giudizio di cognizione ordinaria – ad
entrare nel fascicolo del creditore. La
documentazione prodotta nella fase
monitoria deve, dunque, essere
nuovamente prodotta a cura dell’opposto.
Ed invero, essa non è automaticamente
acquisita al fascicolo di ufficio della fase
di opposizione e se il creditore opposto
non deposita nuovamente il fascicolo della
fase monitoria, il Giudice di cognizione
non può tenerne conto, ai fini della
decisione 4.
In sede di opposizione a decreto ingiuntivo
per pagamento di prestazioni professionali,
incombe al professionista l'onere di
provare, oltre al conferimento
dell'incarico, anche l'effettività delle
prestazioni indicate in parcella, mentre
incombe all'opponente l'onere di provare i
versamenti effettuati in acconto
Il fatto che il creditore si limiti a chiedere
il rigetto della opposizione non restringe la
cognizione del giudice di questa fase al
mero controllo della legittimità o meno del
credito. Introdotta l’opposizione, il
controllo si estende automaticamente sulla
sussistenza della relativa pretesa.
In conclusione, “la parcella del
professionista corredata dal … competente
Ordine di appartenenza ha valore di prova
privilegiata e carattere vincolante per il
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
152
Giudice soltanto ai fini della ingiunzione e
non riveste tale valore probatorio nel
successivo giudizio di opposizione
(costituendo semplice dichiarazione
unilaterale del professionista). Ove vi sia
contestazione in ordine alla effettività e
alla consistenza delle prestazioni eseguite
incombe sul professionista l’onere
probatorio ex art. 2697 c.c. 5”.
1 Deve rilevarsi che non sempre la
giurisprudenza - anche di legittimità - ha
fatto corretta applicazione delle linee
interpretative tracciate dalla Corte
Costituzionale, in tal modo accentuando
nuovamente il carattere di “privilegio”
che la disposizione in parola sembra
rivestire, sul piano probatorio, in
considerazione della peculiare tipologia
del creditore che si avvale del
provvedimento. In tal senso sono state,
infatti, riprese - in qualche pronuncia più
recente - le affermazioni circa la
presunzione di veridicità della parcella del
professionista che avevano caratterizzato
l’indirizzo precedente, sulla base del
discutibile assunto che la mera iscrizione
all’albo del professionista medesimo
costituirebbe “una garanzia della sua
personalità”. Di conseguenza si è ribadito
- in contrasto con le menzionate
affermazioni della Corte Costituzionale -
che il parere del Consiglio dell’ordine o
della associazione di appartenenza – è
limitato alla verifica circa la
corrispondenza delle voci indicate in
parcella a quelle della tariffa, senza alcun
controllo in ordine al valore e
all’importanza della controversia.
2 Il giudice può rigettare la domanda per
mancanza di taluna delle condizioni
prescritte dall'art. 633 c.p.c. ovvero per
ragioni di rito (ad esempio, un ricorso
sottoscritto da un avvocato sfornito di
procura o privo di alcuno degli elementi di
cui all'art. 638 c.p.c. o presentato ad un
giudice incompetente ove l'incompetenza
sia rilevabile d'ufficio) o di merito (ad es.,
per la sussistenza di fatti impeditivi o
estintivi rilevabili, come la prescrizione,
d'ufficio). La pronuncia di rigetto per
motivi di rito ha carattere meramente
processuale
3 Il provvedimento è steso in calce al
ricorso e il cancelliere ne dà
comunicazione alla parte. È opinione
pacifica che esso non sia impugnabile, né
col regolamento di competenza, né per
cassazione ex art. 111 Cost., attesa la sua
inidoneità al giudicato.
4 Cass. civ. 18 aprile 2006, n. 8955.
5 Cass. civ. n. 24381/2010.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
153
Massima Per l’ammissibilità dell’appello, è ora necessario indicare
specificamente ed espressamente, senza aggiunte superflue o non
pertinenti, di modo che il giudice possa averne immediata contezza
senza essere costretto a defatiganti e dispersive ricerche, sia le precise
parti della motivazione della sentenza che il ricorrente chiede con il
supporto di adeguata e pertinente critica di eliminare, sia, ed in stretta
ed ordinata corrispondenza, permettendo una immediata intelligibilità
(nonché le eventuali valutazioni ex art. 436 bis c.p.c.), le parti
motivazionali, idoneamente argomentate, che il ricorrente chiede che
siano in sostituzione inserite, richieste adeguatamente corredate dalla
altrettanto chiara, ordinata e pertinente indicazione degli elementi
fondanti la denuncia di violazioni della legge e della loro rilevanza ai
fini della decisione impugnata.
Appello filtrato: a pena di inammissibilità, si deve proporre
un ragionato progetto alternativo di decisione
Sentenza Corte di Appello di Salerno,
Sentenza n. n. 139/2013
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
154
LA SENTENZA PER ESTESO
Corte di Appello di Salerno, sentenza
del 1.2.2013, n. 139
…omissis…
4. All’esito dell’udienza odierna, fissata per la
discussione, la Corte ha deciso la causa come
da dispositivo in atti.
5. Il gravame va scrutinato in primo luogo
sotto il profilo della sua ammissibilità,
ammissibilità peraltro messa in dubbio dalla
difesa della parte appellata.
6. Tale verifica va condotta alla luce della
novella1 intervenuta per effetto dell’art. 54 del
D.L. 83/2012 convertito (con modifiche) in L.
134/2012 e che ha condotto alla seguente
formulazione del primo comma dell’art. 434
c.p.c., valevole per i ricorsi depositati
dall’11.9.2012 in poi, tra i quali rientra quello
che occupa:
"Il ricorso deve contenere le indicazioni
prescritte dall'articolo 414.
L'appello deve essere motivato. La
motivazione dell'appello deve contenere, a
pena di inammissibilità:
1) l'indicazione delle parti del provvedimento
che si intende appellare e delle modifiche che
vengono richieste alla ricostruzione del fatto
compiuta dal giudice di primo grado;
2) l'indicazione delle circostanze da cui deriva
la violazione della legge e della loro rilevanza
ai fini della decisione impugnata".
7. La precedente formulazione dell’art. 434,
co. I, c.p.c. era invece la seguente: “il ricorso
deve contenere l’esposizione sommaria dei
fatti e i motivi specifici dell’impugnazione,
nonché le indicazioni prescritte dall’art. 414”.
8. Le interpretazioni emergenti dai primi
commenti sulla portata della novella si
collocano ad estremi opposti.
9. In un’ottica restrittiva se non finanche
“regressiva”, si potrebbe in primo luogo
sostenere che, non essendo più espressamente
richiesta la specificità dei motivi di
impugnazione, il gravame sarebbe ammissibile
ove il giudice, ad un esame (non importa se
faticoso e con ampi margini di incertezza)
complessivo dello stesso (cfr. Cass. Sez. Lav.,
Sentenza n. 15966 del 18/07/20072; Cass. Sez.
3, Sentenza n. 23870 del 08/11/20063), e
nonostante la mancanza di specifiche critiche
alle ragioni della decisione impugnata, sia
comunque in grado di risalire alle “parti del
provvedimento” appellate (eventualmente
identificabili, in senso ancora più restrittivo,
con riferimento al solo “dictum” contenuto nel
dispositivo”), alle violazioni di legge
denunciate ed alla conseguente riforma
richiesta.
Possibilità, questa, che potrebbe essere offerta
anche da una mera riproposizione delle tesi
motivatamente disattese dal primo giudice
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
155
(riproposizione, secondo la precedente
formulazione dell’art. 434 c.p.c. ritenuta fonte
di inammissibilità: cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza
n. 9244 del 18/04/2007, secondo cui non è
sufficiente che l'atto di appello consenta di
individuare le statuizioni concretamente
impugnate, ma è altresì necessario, pur quando
la sentenza di primo grado sia censurata nella
sua interezza, che le ragioni sulle quali si
fonda il gravame siano esposte con sufficiente
grado di specificità da correlare, peraltro, con
la motivazione della sentenza impugnata –
conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8771 del
13/04/2010).
10. Non lontano da tale interpretazione può
collocarsi quella secondo cui, pur non
ravvisandosi effetti regressivi, non
sussisterebbero nemmeno profili innovativi, e
la novella si limiterebbe a confermare i
risultati acquisiti dal diritto vivente circa
l’onere di specificazione dei motivi.
11. All’estremo opposto, si sostiene invece che
la novella abbia inteso profondamente incidere
sulla formulazione dell’appello, esigendo non
solo la proposizione di specifiche doglianze
(ritenute indispensabili, dalla stessa dottrina
ricordata, anche in teorica assenza di
previsione normativa “dedicata”, bensì già
solo “in base all’interesse ad impugnare”), ma
che le stesse si articolino nella indicazione
(necessariamente espressa e precisa delle parti
del provvedimento motivatamente contestatee
delle modifiche (corrispondentemente
motivazionali)che vengono richieste.
12. Si è variamente osservato, in tal senso,
anche in sede degli approfondimenti condotti
presso gli Uffici Giudiziari ex art. 47quater
O.G. ovvero di espressione di parere da parte
del C.S.M.:
- che il ricorso al termine motivazione
richiama più la sentenza che l’atto e
sembra spiegarsi con l’esigenza che l’appello
sia redatto in modo più organico e strutturato
proprio come una sentenza;
- che, dovendosi indicare esattamente al
giudice quali parti del provvedimento
impugnato si intendono sottoporre a riesame e,
per tali parti, quali modifiche si richiedono
rispetto a quanto formato oggetto della
ricostruzione del fatto compiuta dal primo
giudice, vanno indicate non solo quelle parti
che non vanno, ma anche come dovrebbero
andare4, senza riferirsi alle sole statuizioni del
dispositivo;
- che se poi si lamenta una violazione di legge
bisogna indicare le circostanze da cui essa
deriva e, non bastando una critica formale, la
rilevanza di tali circostanze ai fini della
decisione, sicchè, se ad esempio nel ricorso in
appello ci si limitasse a dedurre che tutta la
sentenza di primo grado è errata senza
specificare criticamente le parti della
motivazione contestate e le modifiche ad esse
richieste, il gravame dovrebbe ritenersi
inammissibile;
- che è in definitiva opportuno che, in un’ottica
di leale collaborazione delle parti alla pronta
definizione del giudizio, come previsto nel
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
156
codice di rito tedesco al § 520 comma terzo, la
parte, in relazione ai singoli passi della
sentenza impugnata non condivisi, indichi con
inequivocabile nettezza i motivi
dell’evidenziato dissenso, proponendo essa
stessa un ragionato progetto alternativo di
decisione fondato su precise censure rivolte
alla sentenza di primo grado.
13. Questo collegio ritiene che, tra le opposte
interpretazioni sopra ricordate,
le prime non appaiano convincenti, giacchè, se
il Legislatore avesse voluto meramente
confermare l’orientamento giurisprudenziale
formatosi in tema di specificità dei motivi di
appello, non vi sarebbe stata alcuna ragione di
procedere con decretazione d’urgenza alla
modifica normativa in esame, per di più
eliminando l’espresso riferimento proprio a
detta specificità, atteso che il predetto
orientamento era del tutto consolidato (cfr. tra
le più recenti, cfr. Cass., Sez. 3, Sentenza n.
27727 del 16/12/2005; conf. Cass., Sez. Lav.,
Sentenza n. 1707 del 23/01/2009Cass., SS.
UU, Sentenza n. 23299 del 09/11/20115;
Cass., Sez. 3, Sentenza n. 25218 del
29/11/20116).
14. Per contro, diverse ragioni inducono a
prendere maggiormente in considerazione
l’ultimo orientamento esposto, seppure con la
cautela imposta dalla mancanza allo stato di un
consolidato indirizzo giurisprudenziale e con
la comprensione dovuta in sede di prima
applicazione per l’assimilazione della nuova
disciplina processuale da parte del Foro.
15. In aggiunta alle argomentazioni già
riportate, e che si ritengono appropriate e
convincenti, si può osservare :
- che già sotto la precedente formulazione
dell’art. 434 c.p.c. si andavano affermando
interpretazioni tali da escludere l’ammissibilità
dell’appello laddove l'esposizione delle ragioni
di fatto e di diritto fondanti l'impugnazione
non si risolvesse in una critica adeguata e
specifica della decisione impugnata, per tale
intesa quella “che consenta al giudice del
gravame di percepire con certezza e chiarezza
il contenuto delle censure in riferimento ad
una o più statuizioni adottate dal primo
giudice” (cfr. Cass., Sez. Lav., Sentenza n.
25588 del 17/12/2010, in fattispecie nella
quale detto onere di specificazione era stato
ritenuto assolto dal mero dissenso avverso
conteggi elaborati dal consulente tecnico
d'ufficio attraverso l'allegazione di copiosi
conteggi di parte, trascritti in molteplici pagine
e materialmente spillati all'atto di appello,
elaborati dalle associazioni sindacali su
documentazione reperita successivamente alla
pubblicazione della sentenza di primo grado,
traducendosi la contestazione in una censura
"per relationem" che, oltre ad introdurre
inammissibili documenti nuovi nel giudizio di
appello, era inidonea a consentire al giudice
del gravame di percepire in alcun modo il
contenuto delle contestazioni, non valendo al
riguardo il rilievo, di mero buon senso ma
processualmente irrilevante, di poter desumere
dalla discordanza tra i dati numerici ivi
riportati e quelli elaborati dagli ausiliari del
primo giudice le intrinseche ragioni del
dissenso alle statuizioni adottate, restando
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
157
esclusa la possibilità di demandare al giudice
dell'appello un'operazione di comparazione
dalla quale evincere le pertinenti censure alla
consulenza tecnica d'ufficio);
- che, venendo alla nuova formulazione
dell’art. 434 c.p.c., come si evince anche dalle
relazioni che hanno accompagnato la novella,
introdotta con D.L. recante “misure urgenti per
la crescita del Paese”, la finalità della stessa è
quella di migliorare, ispirandosi in particolare
al modello tedesco7, l‘efficienza delle
impugnazioni a fronte della violazione
pressoché sistematica dei tempi di ragionevole
durata del processo, con conseguenti
indennizzi disciplinati dalla legge n. 89 del
2001, con incidenza diretta sulla finanza
pubblica e con configurazione, come osservato
da importanti organizzazioni nazionali e
internazionali, di un formidabile disincentivo
allo sviluppo degli investimenti nel nostro
Paese;
- che il chiaro il riferimento al § 520 della
ZPO tedesca8 identifica tale norma come un
importante parametro comparativo, oltre che
ineludibile elemento di valutazione in una
interpretazione necessariamente tendente
all’armonizzazione dei sistemi legislativi
comunitari (cfr., sul tema dell’armonizzazione,
anche Cass., Sez. Lav., Sentenza n. 15973 del
18/07/2007);
- che la suddetta norma obbliga l’appellante ad
indicare in primo luogo le parti della sentenza
delle quali chiede la riforma, nonché le
modifiche richieste, sicchè è stato osservato
che il lavoro assegnato al giudice dell’appello
appare alquanto simile a un preciso e mirato
intervento di “ritaglio” delle parti di sentenza
di cui si imponga l’emendamento, con
conseguente innesto – che appare quasi
automatico, giusta l’impostazione dell’atto di
appello – delle parti modificate, con
operazione di correzione quasi chirurgica del
testo della sentenza di primo grado;
- che la stessa enumerazione progressiva degli
elementi contenutistici della motivazione
dell’appello sembra suggerire un ordine
preciso degli stessi (in forte analogia ancora
una volta con la struttura del § 520 ZPO9,
nonché con l’ordinata enumerazione dei punti
contenutistici della sentenza ex art. 132 c.p.c.),
senza nemmeno potersi escludere una lettura
“in negativo” della norma che porti a ritenere
che il contenuto motivazionale indicato debba
essere il solo consentito oltre che il solo
richiesto, con preclusione quindi di
considerazioni che non siano chiaramente e
strettamente rapportate a parti della decisione
impugnata;
- che appaiono evidenti la facilitazione e lo
sveltimento del lavoro del giudice che ne
possono derivare, potendo il decidente
individuare con immediatezza e senza studi
defatiganti sia le richieste tendenti ad un
effetto demolitorio di precise parti della
motivazione della decisione impugnata, sia le
richieste, sorrette da specifica ed adeguata
motivazione critica, tendenti con stretta
corrispondenza anche espositiva ad un effetto
sostitutivo e, come si è appunto detto,
altrettanto “chirurgicamente” preciso di tali
parti con le parti indicate dall’appellante, il che
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
158
si armonizza anche con le funzionalità di
editing redazionale consentite sul piano
informatico dal processo civile telematico (non
a caso altra innovazione che allo stato riceve
forte impulso sempre nell’ottica di un recupero
dei tempi di giustizia);
- che la finalità di agevolazione e sveltimento
dell’attività decisoria del giudice di appello
vieppiù si coglie ponendo mente alla
contestualità della novella dell’art. 434 c.p.c
con l’introduzione dell’art. 436-bis c.p.c. e
delle norme da esso richiamate (artt. 348-bis e
348-ter c.p.c.), relative al c.d. “filtro” di
ammissibilità dell’appello (a sua volta mutuato
dal § 522 della ZPO) a seconda della
sussistenza o meno di una ragionevole
probabilità di accoglimento del gravame,
giacchè è evidente che in tanto tale ultima
valutazione potrà essere agevolmente e
sollecitamente condotta in quanto chiara,
pertinente e precisa appaia la traccia decisoria
proposta dall’appellante;
- che tale senso del “trapianto” del § 520 della
ZPO nel c.p.c. lo si trova confermato anche
nella motivazione dell’emendamento
approvato dalla Commissione Giustizia della
Camera dei Deputati il 23.7.2012, laddove, in
sostanza recependosi le indicazioni del CSM,
si afferma che la novella, traendo “spunto,
ovviamente nella cornice ordinamentale
italiana, dal § 520, comma 3, della ZPO
tedesca” fa sì che “il giudice di appello vedrà
agevolato il proprio compito di esame, e per
altro verso si vedrà fugato il rischio di utilizzo
arbitrario del filtro, impedito dalla traccia
specifica proposta dall’appellante e su cui
necessariamente dovrà tararsi la prognosi di
ragionevole probabilità di accoglimento”;
- che depone infine fortemente nel senso
dell’interpretazione in questione anche il
principio, affermato in motivazione da Cass. n.
13825/2008, secondo il quale la regola della
ragionevole durata del processo ex art. 111,
comma 2, Cost. costituisce un parametro per
valutare la compatibilità con il dettato
costituzionale delle singole norme processuali
o, quanto meno, per patrocinarne una
interpretazione costituzionalmente orientata,
essendo di tutta evidenza chel’economia di
tempi processuali perseguita dalla novella (in
questo affattoinsignificante bensì di notevole e
strategica rilevanza per invertire la tendenza
all’accumulo di arretrato a carico delle Corti di
Appello) può essere ottenuta solo esigendo il
rispetto da parte dell’appellante, in un’ottica di
leale collaborazione ed a pena di
inammissibilità del gravame, dei predetti oneri
formali, e non consentendo più che il giudice,
se non in limiti ragionevoli (da valutare più
elasticamente in sede di prima applicazione
della novella), sia costretto a disperdere tempo
prezioso ed energie, a discapito di altre
risposte di giustizia attese, nella ricerca di
elementi che la parte ben può e deve fornire in
maniera ordinata e puntuale.
16. Conforta fortemente l’orientamento del
Collegio la circostanza che le prime decisioni
confermano una siffatta lettura della novella in
esame. In particolare, giova richiamare il
recente pronunciamento della Corte di Appello
di Roma (C. App. Roma, S.L., 15.1.2013, n.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
159
7491/2012 R.G., Pres. est. A. Torrice10),
secondo cui:
- la nuova formulazione dell’art. 434 1°
comma c.p.c “impone precisi oneri di forma
dell’appello in quanto non si è limitata a
codificare i più rigorosiorientamenti della
S.C.(Cass., 24 novembre 2005, n. 2483411;
Cass. 28 luglio 2004, n. 14251, Cass., 24
novembre 2005, n. 24834n. 110; 28 luglio
2004, n. 14251) in punto di specificità dei
motivi di appello, imposti dal vecchio testo
dell’art. 434 c.p.c.”, ma, prevedendo che
l’appello deve essere, a pena di
inammissibilità, motivato, ciò significa “che
esso deve essere redatto in modo più organico
e strutturato rispetto al passato, quasi come
una sentenza: occorre infatti indicare
esattamente al giudice quali parti del
provvedimento impugnato si intendono
sottoporre a riesame e per tali parti quali
modifiche si richiedono rispetto a quanto
formato oggetto della ricostruzione del fatto
compiuta dal primo giudice”;
- di conseguenza “non solo non basterà
riferirsi alle sole statuizioni del dispositivo,
dovendo tenersi conto anche delle parti di
motivazione che non si condividono e su cui si
sono basate le decisioni del primo giudice, ma
occorrerà anche, per le singole statuizioni e per
le singole parti di motivazione oggetto di
doglianza, articolare le modifiche che il
giudice di appello deve apportare, con attenta e
precisa ricostruzione di tutte le conclusioni,
anche di quelle formulate in via subordinate”;
- pertanto “l’appello per superare il vaglio di
ammissibilità di cui all’art. 434 c.p.c. deve
indicare espressamente le parti del
provvedimento che vuole impugnare (profilo
volitivo); per parti vanno intesi non solo i capi
della decisione ma anche tutti i singoli
segmenti (o se si vuole, “sottocapi”) che la
compongono quando assumano un rilievo
autonomo (o di causalità) rispetto alla
decisione; deve suggerire le modifiche che
dovrebbero essere apportate al provvedimento
con riguardo alla ricostruzione del fatto
(profilo argomentativo); il rapporto di causa ad
effetto fra la violazione di legge che è
denunziata e l’esito della lite (profilo di
causalità)”;
- tale opzione interpretativa è l’unica a poter
garantire che nel giudizio di gravame sia
assicurata la garanzia costituzionale di cui
all’art. 111 Costituzione, nei segmenti
intimamente correlati del giusto processo e
della durata ragionevole, anche con riguardo
alla disposizione contenuta nell’art. 436 bis
c.p.c.”, sotto tale ultimo profilo evidenziandosi
che è “assai più probabile che il giudice di
appello riesca a pervenire in tempi ragionevoli
alla definizione del processo quanto più i
motivi si conformeranno in misura
convincente allo stilema dell’art. 434 c.p.c.” e
che “quanto più gli appelli saranno sviluppati
nel rigoroso rispetto dell’art. 434 c.p.c. tanto
meno discrezionale sarà la valutazione di cui
all’art. 436 bis c.p.c. e tanto più giusto sarà nel
concreto il processo di appello”.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
160
Nella fattispecie esaminata dalla Corte
capitolina, pertanto, è stata ritenuta
l’inammissibilità di gravame che, tra l’altro:
- pur contenendo l’indicazione delle singole
statuizioni non condivise, aveva “omesso di
indicare le modifiche proposte con riferimento
a ciascuna part della sentenza”;
- non si era estrinsecato “nella produzione di
prospetti contabili alternativi rispetto a quelli
allegati al ricorso di primo grado e posti a base
dell decisione impugnata” né “in una proposta
di modifica” della statuizione su capo rilevante
della decisione impugnata;
- aveva mancato di “individuare il testo di una
nuova pronuncia volta a modificare le
argomentazioni del giudice di prime cure” in
ordine ad ulteriore capo rilevante; - aveva in
via subordinata richiesto la rideterminazione di
somme senza indicare “in relazione alle
singole doglianze i corrispondenti valori
monetari delle diverse voci”;
- in definitiva, aveva impedito “direttamente al
giudice di comprendere per quale motivo la
sentenza dovrebbe essere riformata e in quali
precisi termini debba essere motivata”.
17. Per le esposte ragioni, ad avviso di questa
Corte la novella dell’art. 434 c.p.c. intervenuta
per effetto dell’art. 54 del D.L. 83/2012
convertito (con modifiche) in L. 134/2012
appare rettamente interpretabile nel senso che,
per l’ammissibilità dell’appello, è ora
necessario indicare specificamente ed
espressamente, senza aggiunte superflue o non
pertinenti, di modo che il giudice possa averne
immediata contezza senza essere costretto a
defatiganti e dispersive ricerche, sia le precise
parti della motivazione della sentenza che il
ricorrente chiede con il supporto di adeguata e
pertinente critica di eliminare, sia, ed in stretta
ed ordinata corrispondenza, permettendo una
immediata intelligibilità (nonché le eventuali
valutazioni ex art. 436 bis c.p.c.), le parti
motivazionali, idoneamente argomentate, che
il ricorrente chiede che siano in sostituzione
inserite, richieste adeguatamente corredate
dalla altrettanto chiara, ordinata e pertinente
indicazione degli elementi fondanti la
denuncia di violazioni della legge e della loro
rilevanza ai fini della decisione impugnata.
18. In virtù di quanto detto, risulta palese che
la mera reiterazione da parte dell’appellante di
una tesi difensiva che non tenga conto delle
ragioni della decisione impugnata risulta
inidonea a determinare sia l’effetto
demolitorio di tali ragioni, sia l’effetto
sostitutivo delle stesse con nuova motivazione
(motivazione per la quale è richiesto il
superamento critico del precedente assunto
decisorio).
19. In particolare, con riferimento al caso di
specie, giova ricordare sotto il primo profilo
che, per costante orientamento
giurisprudenziale, allorquando, in una
controversia previdenziale, il giudice di primo
grado abbia recepito e fatte proprie le
conclusioni e le argomentazioni del CTU
(come nella fattispecie), deve ritenersi che i
motivi di appello vadano correlati alla
esposizione, pur sommaria ma chiara, delle
censure mosse a tali argomentazioni e
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
161
conclusioni (cfr. Cass. 23-2-98 n. 192012), il
cui richiamo, in mancanza di specifiche
doglianze fatte dalla parte e sempreché il
giudice non si discosti dalla stessa CTU, ben
può esaurire l’obbligo di motivazione della
sentenza (cfr. Cass. 16-3-92 n. 3207, Cass. 24-
8-92 n. 9797, Cass. 8-11-93 n. 11024, Cass. III
civ. 6-4-98 n. 3551, Cass. I civ. 26-4-99 n.
4138; cfr. anche Cass., Sez. 1, Sentenza n.282
del 09/01/200913).
20. Sotto il secondo profilo, va del pari
richiamato l’altrettanto granitico orientamento
per il quale, ove il giudice di appello formi il
proprio convincimento in difformità degli
accertamenti del consulente tecnico di ufficio
di primo grado, è tenuto ad una critica
valutazione della relazione del primo
consulente, che ne dimostri l’erroneità
rendendo conto dei criteri logici della
decisione (cfr. Cass., Sez. Lav., Sentenza n.
2659 del 25/05/1978; Cass., Sez. Lav.,
Sentenza n. 1716 del 17/02/1987; Cass., Sez.
1, Sentenza n. 25569 del 17/12/201014).
21. Sicchè, nel caso che occupa, non può
ammissibilmente l’appellante richiedere la
riforma della gravata decisione in base alla
generica considerazione che “il parere del
consulente tecnico di ufficio, con il quale il
Giudice ha motivato la sua sentenza, nel
riconoscere il diritto alla prestazione, non
trova alcun riscontro nella realtà psico-fisica
dell’appellato”, con richiamo a “deduzioni
medico-legali del Sanitario dell’I.N.P.S.” a
loro volta essenzialmente riportanti il “verbale
di verifica su visita” del 13.12.2010, giacchè
le considerazioni ivi contenute,
cronologicamente precedenti gli accertamenti
peritali e di relativi rilievi conclusivi, non
possono logicamente né confutare criticamente
questi ultimi, né conseguentemente proporre,
in sostituzione della precedente, una nuova
motivazione che tale confutazione
necessariamente richiederebbe.
22. Per le suesposte – ed assorbenti –
considerazioni, l’appello deve essere quindi
dichiarato inammissibile.
23. Le spese del presente grado seguono la
soccombenza e sono liquidate ex D.M. n.
140/2012 come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte così provvede:
a) dichiara inammissibile l’appello;
b) condanna l’appellante al pagamento delle
spese processuali del presente grado, liquidate
in € 930,00.
Così deciso in Salerno, li 1.2.2013
Il Consigliere est. Il Presidente
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
162
Massima E’ inammissibile la domanda di appello laddove presenti doglianze
non condivisibili rispetto a risultanze processuali correttamente
valutate in primo grado.
Appello filtrato: se la domanda si fonda su doglianze non
condivisibili, allora è inammissibile
Sentenza Corte di Appello di Bologna,
Ordinanza del 21.01.2013
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
163
LA SENTENZA PER ESTESO
Corte di Appello di Bologna , sezione
terza, ordinanza del 21.1.2013
…omissis…
- che tali doglianze non appaiono condivisibili:
il teste Gabriella, addetta alla contabilità della
società appellante, ha, infatti, reso sul punto
dichiarazioni del tutto generiche affermando di
aver sentito parlare di tale asserito accordo da
non meglio specificati "addetti de La F. s.r.l."
il che, in assenza di un riscontro documentale
proveniente dalla società cedente, non può
certo di per sé solo valere a confermare
l'assunto difensivo della Valle dei T.;
- che parimenti l'appellante non può dolersi
della mancata ammissione del teste Donato,
dichiarato incapace a deporre con ordinanza in
data 14.10.2008, atteso che in sede di
precisazione delle conclusioni davanti al primo
Giudice non ha espressamente richiesto la
revoca della suddetta ordinanza né alcuna
difesa ha svolto sotto tale profilo delle sue
difese conclusive;
- che date tali risultanze correttamente il
Tribunale ha applicato l'art. 1248, 2° co., c.c.
ai sensi del quale la cessione non accettata
(come nel caso di specie) dal debitore ceduto,
ma allo stesso notificata, impedisce la
compensazione dei crediti sorti posteriormente
alla notificazione (è pacifico che i crediti di cui
La Valle dei T. pretende la compensazione si
riferiscono a fatture dalla stessa emesse nei
confronti della società La F. s.r.l.
successivamente all'avvenuta notifica delle
cessioni di credito prodotte da e. ai doc. da 1 a
9 allegati al ricorso per decreto ingiuntivo);
- che contrariamente a quanto ritenuto
dall'appellante la mancata produzione del
contratto di factoring (che si assume
originariamente stipulato tra e. e la
società La F.) non incide sulla legittimazione
di E. ad esigere i crediti di cui alle fatture in
oggetto, essendo le singole cessioni
puntualmente documentate in atti con scritture
sottoscritte dalla cedente società La Fonte e
non contestate (doc. 1-9 E.);
- che non essendo il creditore cedente parte
necessaria nel giudizio promosso dal
cessionario nei confronti del debitore ceduto
(Cass.n.3554/1971), il mancato accoglimento
della richiesta della Valle dei T. s.r.l. di
chiamata in causa del Fallimento della società
La F. s.r.l. non incide sulla validità
dell'impugnata sentenza non ricorrendo alcuna
delle ipotesi di cui all'art. 354 c.p.c.;
- che le esposte considerazioni portano a
ritenere che la proposta impugnazione non
abbia una ragionevole probabilità di essere
accolta;
P. Q. M.
Visto l'art. 348 bis c.p.c.
dichiara inammissibile l'appello proposto dalla
società Valle dei Trulli s.r.l.;
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
164
condanna la società appellante al rimborso, a
favore della società e.r. s.p.a., della spese del
grado che liquida in €.1.980 per compensi
professionali, oltre IVA e CPA come per
legge.
Bologna, 29 gennaio 2013
Il Presidente
dott. Giuseppe Colonna
Il Consigliere est.
Dott. Lucia Ferrigno
Depositata in Cancelleria il 29/01/2013
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
165
di
MARCO MECACCI
Massima L’appello non ha ragionevoli probabilità di accoglimento quando è
prima facie infondato, così palesemente infondato da non meritare che
siano destinate ad esso le energie del servizio- giustizia, che non sono
illimitate.
Appello filtrato: l’assenza di ragionevole probabilità equivale
alla manifesta infondatezza
Sentenza Corte di Appello di Roma,
Ordinanza del 25.01.2013
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
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LA SENTENZA PER ESTESO
LA CORTE D’APPELLO Dl ROMA
SEZIONE TERZA CIVILE
così composta:
dr. Gianni Buonomo consigliere
dr. Mauro Di Marzio consigliere relatore
dr. Maria Rosaria Rizzo consigliere
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
…OMISSIS…
Osserva quanto segue.
§ 1. — La novità dell’istituto che il collegio è
chiamato ad applicare giustifica un suo
preventivo inquadramento. Stabilisce l’art. 348
bis c.p.c. che: «Fuori dei casi in cui deve
essere dichiarata con sentenza
l’inammissibilità o l’improcedibilità
dell’appello, l’impugnazione è dichiarata
inammissibile dal giudice competente quando
non ha una ragionevole probabilità di essere
accolta».
Non ritiene il collegio sebbene una simile
opinione sia stata sostenuta da una Patte della
dottrina o trovi qualche aggancio nei lavori
preparatori — che il giudizio di ragionevole
probabilità di accoglimento si risolva in una
valutazione sommaria assimilabile a quella
identificata col fumus boni juris che è
condizione del rilascio dei provvedimenti
cautelari. La sommarietà della cognizione, nel
sistema del rito civile, difatti, si presenta, di
regola, sotto due distinti profili: a volte intesa
come cognizione superficiale, altre volte come
cognizione parziale.
La prima forma di cognizione sommaria si
riscontra in un’ampia gamma di procedimenti,
per l’appunto cautelari, e trova fondamento su
una valutazione meramente delibativa del
materiale probatorio allo stato degli atti
disponibile, salvo, di norma, il successivo
controllo dell’esattezza della decisione
sommaria mediante il giudizio di cognizione
ordinaria. La seconda si riscontra nel caso dei
procedimenti a contraddittorio eventuale e,
segnatamene, nel procedimento per
ingiunzione, nel quale il giudice conosce della
fondatezza della pretesa solo attraverso la
documentazione prodotta dal creditore istante.
Con riguardo al giudizio di appello,
naturalmente, non può certamente discorrersi
di cognizione sommaria perché parziale.
Quanto alla configurabilità di una cognizione
sommaria perché superficiale, occorre
rammentare che l’appello può essere proposto
in ragione della ricostruzione del fatto
erroneamente operata dal primo giudice
ovvero in dipendenza di violazioni di legge dal
medesimo commosse:
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
167
i) in quest’ultimo caso non ha senso discorrere
di cognizione sommaria perché superficiale,
dal momento che la cognizione in jure non è
suscettibile, pei sua natura, di evolversi in
ragione dello sviluppo del processo e degli
ulteriori approfondimenti che, all’interno di
esso, possono aver luogo; la cognizione in jure
è insomma in se stessa cognizione piena;
ii) ma, anche dal versante della ricostruzione
del fatto appare tutt’altro che agevole
immaginare una cognizione del giudice
d’appello meramente sommaria e, come tale,
suscettibile di ulteriore approfondimento nel
corso ulteriore del processo; il giudizio di
appello, infatti, nel suo assetto determinato in
particolare dall’ultima riforma, è pressoché
integralmente chiuso ad ogni novità di alcun
genero, sia sul piano delle allegazioni che delle
acquisizioni probatorie: esso, al di fuori di
ipotesi marginali, certamente non avute di
mira dal legislatore, si riassume cioè nel
riesame del materiale già acquisito in primo
grado ai fini della verifica di ben determinati
errori commessi dal primo giudice nella
ricostruzione del fatto; per altro verso, il
giudizio di appello, con riguardo alla
ricostruzione del fatto, non è compiuto nel
vuoto ovvero sulla base di acquisizioni
probatorie soltanto provvisorie, bensì, almeno
di regola, sulla base del materiale probatorio
già raccolto dinanzi al primo giudice; ed il
giudice d‘appello è tendenzialmente vincolato
agli accertamenti di fatto compiuti in primo
grado; neppure a tal riguardo, dunque, ha
senso discorrere di cognizione sommaria, e
tanto meno di fumus boni juris, giacché il
giudice fonda la propria decisione stilla
valutazione delle intere risultanze dcl giudizio
di primo grado, destinate perlopiù a rimanere
ferme in quello di secondo.
Insomma, la cognizione in jure non è
cognizione sommaria perché non può esserlo;
la cognizione della ricostruzione del fatto non
è di regola sommaria perché si fonda stilla
valutazione dell’intero materiale acquisito in
primo grado, riguardato attraverso la duplice
lente della sentenza impugnata e, quindi, dei
motivi di impugnazione.
L’aggettivo «sommario» è poi adoperato nel la
locuzione «Del procedimento sommario di
cognizione», che intitola il capo aperto
dall’art. 702 bis c.p.c. ma, in questo caso,
sembra doversi ritenere, con buona parte della
dottrina, che la cognizione non sia sommaria ,
ma piena, sebbene attuata attraverso un
procedimento semplificato ed informa le.
Posta tale premessa, sembra allora potersi dire
che l’appello non ha ragionevoli probabilità di
accoglimento quando è prima facie infondato,
così palesemente infondato da non meritare
che siano destinate ad esso le energie del
servizio- giustizia, che non sono illimitate:
questo, a parere del collegio, è il senso della
riforma, volta ad interdire l’accesso alle (ed
alle sole) impugnazioni dilatorie e pretestuose.
L’ordinanza di cui all’art. 348 bis c.p.c., per
questa via, si inserisce in un ampio intervento
legislativo volto a sanzionare l’abuso del
processo, abuso in cui si risolve l’esercizio del
diritto di interporre appello in un quadro di
plateale infondatezza.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
168
Appello privo di probabilità di accoglimento
non è quello che tale appare al giudice secondo
la sua soggettiva percezione, a seguito di una
sbrigativa lettura degli atti, ma è quello
oggettivamente tale, perché palesemente
infondato. Si può dire, quindi, che l’ordinanza
di cui all’art. 348 bis c.p.c, non ha un
contenuto concettualmente diverso dal nucleo
centrale della sentenza: essa manca invece di
tutto ciò che è superfluo a fronte di un appello
manifestamente privo di fondamento.
Ciò, del resto, è reso manifesto dalla
previsione del successivo art. 348 ter c.p.c.
concernente il ricorso per cassazione contro la
<<doppia conforme». Tale disposizione,
infatti, circoscrive l’ammissibilità del ricorso
per cassazione quando l’ordinanza di
inammissibilità dell’appello «è fondata sulle
stesse ragioni, inerenti alle questioni diritto,
poste a base della decisione impugnata»: il che
vuol dire che l’ordinanza dichiarativa della
ammissibilità non si allontana, sotto il profilo
contenutistico, dalla sentenza, tanto che la
motivazione dell’una può essere raffrontata
con l’altra al fine di verificare se il giudice
d’appello abbia deciso, in fatto, sulla falsariga
della decisione adottata dal primo giudice. Il
meccanismo della «doppia conforme» è
d’altronde previsto anche per il giudizio di
appello conclusosi come di norma con
sentenza: il che val quanto dire, a conferma di
quanto appena osservato, che tanto l’ordinanza
di inammissibilità ex art. 348 bis c.p.c. quanto
la sentenza d’appello, se fondate sulle
medesime ragioni in fatto che la sentenza di
primo grado, producono l’identico effetto di
precludere il ricorso per cassazione ai sensi del
n. 5 dell’art 360 c.p.c.. Anche questa
osservazione, allora, rende manifesto che
l’ordinanza e la sentenza si pongono da un
punto di vista contenutistico sullo stesso piano.
Si potrebbe dire — volendo paragonare un
filtro all’altro che l’ordinanza di cui all’art.
348 bis c.p.c. abbia un contenuto analogo a
quello dell’ordinanza di cui all’art. 375, n. 5,
c.p.c.: ordinanza cui è da credere nessuno
attribuirebbe natura di provvedimento a
cognizione sommaria, trattandosi di
provvedimento soltanto semplificato rispetto
alla sentenza.
…omissis…
La convenuta ha resistito.
Il tribunale di con sentenza …, ha accolto la
domanda osservando:
i) che ai sensi dell’articolo 651 c.p.p. la
sentenza penale irrevocabile di condanna
pronunciata in seguito a dibattimento nei
confronti della convenuta aveva efficacia di
giudicato, nell‘intrapreso giudizio di danno,
quanto al I ‘accertamento della sussistenza dcl
fatto, della sua illiceità penale e
all’affermazione che l’imputato lo aveva
commesso;
ii) che, essendo stata pronunciata in sede
penale sentenza di condanna generica, al
giudice civile non restava che quantificare il
danno;
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
169
iii) che tale danno doveva essere provato nel
quantum e che la prova si desumeva dalle
testimonianze raccolte, dalle quali era risultato
che la , nell’arco temporale compreso tra il / cd
il , era molto spaventata, tanto da volersi
sempre far accompagnare da qualcuno;
iv) che il danno in questione non poteva che
essere liquidato equitativamente ai sensi dell
‘articolo 1226 c.c., trattandosi di danno
intrinsecamente non suscettibile di essere
provato nel suo preciso ammontare, e che la
liquidazione poteva essere effettuata in €
1OOOO,OO, tenuto conto della gravità dlelle
frasi e delle condotte minacciose Poste in
essere in un significativo arco temporale.
§ 4. …ha proposto appello (con atto notificato
il – - — – — ) con quattro motivi con cui ha in
breve sostenuto:
…omissis…
b) che il tribunale avrebbe nuovamente violato
le già menzionate disposizioni poiché, «invece
di verificare la gravità effettiva del danno,
verificava la gravità effettiva delle frasi e delle
condotte minacciose poste in essere, da parte
della (presunta) responsabile, come le frasi e le
condotte, di epr sé, fossero probanti del danno
lamentato, mentre le stesse erano inidonee a
provare il danno lamentato»;
e) che il tribunale avrebbe ancora una volta
violato le già menzionate disposizioni poiché
avrebbe ri conosciuto il risarcimento del danno
pur in mancanza della prova di un transeunte
turbamento psicologico, sicché «la domanda
dalla stessa proposta, era infondata, e andava
rigettata, avendo “giurato” i testimoni dalla
stessa indicati, che la stessa — svolgesse
regolarmente il proprio lavoro, sia in
… che nel suo … ..,
nonché che svolgesse tutte le ulteriori attività
extralavorative, e che tali fatti non provando
che la stesso, fosse in tale “lungo periodo” in
evidente sia/o di turbamento, psicologico
(quindi non spaventata) che le impediva di
svolgere anche le ordinarie occupazioni»
inoltre, a quanto par di capire, i testi, secondo i
… non sarebbero stati
attendibili;
d) che la liquidazione della misura di €
10.000,00 sarebbe stata «meramente
apodittica». mentre la somma avrebbe dovuto
essere di «congrua equità», mentre gli E
10.000,00 riconosciuti «non sommo altro che
€ 1.100,00 mensili, per un pregiudizio dovuto
a minacce sporadiche e non dalla mattina alla
sera!!!».
§ 5, L’appello spiegato è manifestamente
infondato e va pertanto dichiarato
inammissibile.
Tale decisione si fonda sulle stesse ragioni,
inerenti alle questioni di fatto, poste a base
della decisione impugnata. Ed infatti:
i) del tutto correttamente il tribunale ha
ritenuto che la sentenza penale di condanna,
recante altresì la condanna generica al
risarcimento del danno (la liquidarsi in
separato giudizio, comportasse la fondatezza
della domanda spiegata sotto il profilo dell’an;
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
170
ii) del tutto correttamente il tribunale ha
ritenuto che la prova del quantum potesse
essere desunta dalle testimonianze raccolte,
riguardo alle quali non emerge del resto alcun
profilo di inattendibilità;
iii) del tutto correttamente il tribunale ha
ritenuto che attraverso le testimonianze fosse
stato dimostrato un permanente stato di
turbamento emotivo, descritto come spavento,
tale da alterare lo stato interiore della vittima,
producendo altresì una modificazione
peggiorativa delle sue abitudini di vita, poiché
costretta, in ragione della permanente
condizione di paura, a farsi accompagnare sia
nelle situazioni (li lavoro, che nella vita
personale;
iv) del tutto correttamente il tribunale ha
ritenuto che il danno non patrimoniale in
discorso potesse essere liquidato soltanto
equitativamente;
v) del tutto condivisibilmente il tribunale ha
ritenuto che il pregiudizio patito, tenuto conto
della reiterazione della condotta lesiva e della
sua gravità dovesse essere liquidato nella
misura di € 10.000,00.
§ 6. Le spese seguono la soccombenza.
PER QUESTI MOTIVI
visto l’articolo 348 bis c.p.c. dichiara
inammissibile l’appello proposto da …
nei confronti di … , condannando
l’appellante al rimborso, in favore
dell’appellata, delle spese sostenute per questo
grado dcl giudizio, liquidate in complessivi €
2400,00, di cui € 150,00 per esborsi ed il resto
per compenso.
Roma, 25.1.2013
Il presidente
Commento all’ordinanza della Corte
d’Appello di Roma, sez. III, 25.1.2013.
di Marco Mecacci[1]
La pronuncia in commento, costituisce una
delle prime applicazioni pratiche del disposto
dell’art. 348 bis c.p.c.[2], nel testo introdotto
dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83,
convertito con modificazioni dalla l. 7 agosto
2012, n. 134.
Con l’emissione di un’ordinanza, che invece di
essere succintamente motivata si estende per
alcune pagine in ragione della novità della
materia trattata, la Corte d’Appello fornisce
un’applicazione del contenuto del nuovo
disposto normativo, assai vicina ai principi del
processo a cognizione piena, cercando di
allontanare quale parametro di giudizio la
valutazione sommaria, che assimila
testualmente “a quella identificata con il
fumus boni juris che è condizione di rilascio
dei provvedimenti cautelari”.
Il tentativo di rendere il testo dell’articolo 348-
bis conforme ai principi del gravame a
cognizione piena storicamente propri del
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
171
giudizio d’appello, è sicuramente lodevole
nelle finalità, ma si traduce forse in
un’interpretazione fin troppo prudente e
timidamente “costituzionalizzata” della
riforma.
La Corte infatti, scartando la possibilità di
emettere un giudizio probabilistico collegato
alla “ragionevole probabilità” che
l’impugnazione sia accolta, finisce per
proporre, in concreto, uno schema decisionale
più riferibile a una sentenza che a
un’ordinanza.
Il ragionamento compiuto per giustificare la
scelta di un’esame non meramente sommario
dell’impugnazione, senz’altro coerente a
livello sistematico, non appare tuttavia
completamente conforme al dettato del
paradigma normativo da applicare.
Nella sua sintetica chiarezza, la Corte parte
dalla premessa, non scontata e forse
assiomatica, che anche lo scrutinio imposto
dall’art. 348-bis, debba necessariamente avere
per oggetto gli errores in judicando tipici del
decisum a cognizione piena.
Nel dettaglio, si afferma che l’oggetto
dell’appello possa riguardare, o l’error
derivante da un’omessa, errata o falsa
applicazione di legge, o quello conseguente ad
una “ricostruzione del fatto erroneamente
operata dal primo giudice”.
Posta la premessa, la conseguenza che il
giudicante dà per scontata, è che sia nella
prima che nella seconda fattispecie, la
cognizione debba essere necessariamente
piena per ragioni sistematiche connesse
all’indagine che il giudice di secondo grado è
chiamato a compiere.
Dev’essere piena in jure, perché la cognizione
che ha per oggetto norme di diritto “non è
suscettibile, per sua natura, di evolversi in
ragione dello sviluppo del processo e degli
ulteriori approfondimenti che, all’interno di
esso, possono aver luogo; la cognizione in jure
è insomma in se stessa cognizione piena”;
Dev’essere piena anche in facto, perché la
struttura processuale chiusa conferita al
giudizio d’appello dalle riforme succedutesi
nel tempo, rende difficilmente ipotizzabile una
cognizione “meramente sommaria, e come
tale, suscettibile di ulteriore approfondimento
nel corso ulteriore del processo”
Questa argomentazione, tuttavia, più che
dall’art. 348-bis, pare avere tratto origine dal
disposto del nuovo testo dell’art. 342[3], che
espressamente impone “a pena
d’inammissibilità dell’appello”, l’obbligo di
indicare in punto di fatto le parti del
provvedimento che si intende appellare, con le
modifiche richieste alla ricostruzione del fatto
compiuta dal giudice di primo grado, e in
punto di diritto, le circostanze da cui deriva la
violazione della legge e la loro rilevanza ai fini
della decisione impugnata.
Anche se la norma non è stata espressamente
richiamata dalla Corte, le argomentazioni
sull’obbligo di scrutinare espressamente il
contenuto dell’appello in jure ed in facto,
appaiono chiaramente riferite a tale
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
172
disposizione, perché non ne esistono altre, nel
codice, che a tale obbligo fanno riferimento
Se questa è la base normativa da cui la Corte
d’Appello ha tratto argomento per giustificare
un esame non sommario del gravame, non può
sfuggire il possibile iato tra norma e decisum,
conseguente a un’interpretazione assiomatica
del complesso normativo.
Il possibile iato, è imputabile al fatto che le
prescrizioni contenutistiche dell’art 342 sono
imposte “a pena d’inammissibilità”
dell’appello, senza che sia specificato se tale
inammissibilità debba essere pronunciata con
sentenza o con ordinanza.
Il ragionamento compiuto dalla Corte
d’Appello, dunque, può avere una sua
consequenzialità, soltanto ove si ritenga di
dover pronunciare l’inammissibilità con
sentenza, qualora il contenuto dell’atto
introduttivo difetti dei requisiti richiesti
dall’art. 342.
L’art. 348-bis, infatti, precisa espressamente
che il giudice pronuncia ordinanza, “fuori dei
casi in cui dev’essere dichiarata con sentenza
l’inammissibilità o l’improcedibilità
dell’appello”.
Se così è, tuttavia, l’argomentazione a
sostegno dell’obbligo di scrutinio
dell’inammissibilità “nel merito” appare
riduttiva rispetto al portato dell’art. 348-bis,
che impone un esame prognostico in ordine
alla futura possibilità di accoglimento delle
doglianze proposte proprio allo scopo di
differenziare il difetto dei requisiti di forma
contenuto dell’atto introduttivo per il quale
sarebbe prevista la pronunzia con sentenza,
dall’esame del merito.
Che questo sia il ragionamento, peraltro, è
chiaramente indicato nella parte successiva
dell’ordinanza, che testualmente recita: “…
appello privo di probabilità di accoglimento
non è quello che tale appare al giudice secondo
la sua soggettiva percezione, a seguito di una
sbrigativa lettura degli atti, ma è quello
oggettivamente tale, perché palesemente in
fondato. Si può dire, quindi, che l’ordinanza di
cui all’art, 348—bis c.p.c, non ha un contenuto
concettualmente diverso dal nucleo centrale
della sentenza: essa manca invece di tutto ciò
che è superfluo a fronte di un appello
manifestamente privo di fondamento”.
Appurato dunque che l’ordinanza, non ha un
contenuto “concettualmente diverso” dalla
sentenza, il risultato cui giunge la Corte nella
successiva esposizione dei motivi
d’inammissibilità si traduce – coerentemente
con l’impostazione a monte – in un esame
piuttosto esteso del fatto e in una succinta
motivazione che ricorda da vicino, più che il
testo di una sentenza ex art. 281- sexies,[4] la
pronuncia ex art. 74 del codice del processo
amministrativo (di seguito CPA)[5], a norma
del quale, il giudice decide con sentenza in
forma semplificata, nel caso in cui ravvisi la
manifesta fondatezza ovvero la manifesta
irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità
o infondatezza del ricorso.
L’art. 74 CPA, infatti, dispone che la
motivazione della sentenza può consistere in
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
173
un “sintetico riferimento” al punto di fatto o di
diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso,
ad un precedente conforme, mentre l’art. 348 –
ter[6], prevede “il rinvio agli elementi di fatto
e di diritto riportati in uno o più atti di causa e
il riferimento a precedenti conformi”.
L’evidente differnza contenutistica tra le
disposizioni, consiste nell’obbligo di indicare
il “punto decisivo” della controversia, imposto
dall’art. 74 CPA, e non dall’art. 348 – ter.
Nel rito amministrativo, è proprio il
riferimento al “punto decisivo” che si rivela
essenziale nel favorire la speditezza e
l’efficacia del processo decisionale.
L’art. 348 – ter, non prevedendo questa
essenziale imposizione contenutistica al
decisum appare frutto di una scelta di politica
legislativa, più diretta a sanzionare l’abuso del
processo tout court che a prevedere forme di
gestione efficace ed effettiva del
contenzioso[7].
Alla luce di quanto esposto, lo iato tra
l’interpretazione della Corte d’Appello di
Roma e il disposto letterale dell’art. 348 – bis,
appare evidente, e consegue all’assioma di
avere ritenuto, in contrasto con il tenore
letterale della norma, che l’oggetto
dell’ordinanza che dichiara l’inammissibilità
debba necessariamente essere coincidente al
contenuto della sentenza.
[1] Avvocato, Studio Legale Mecacci, Firenze.
Componente della Redazione della rivista La
Nuova Procedura Civile.
[2] Articolo 348 Bis Inammissibilità
dell’appello
Fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con
sentenza l’inammissibilità o l’improcedibilità
dell’appello, l’impugnazione è dichiarata
inammissibile dal giudice competente quando
non ha una ragionevole probabilità di essere
accolta.
Il primo comma non si applica quando:
a) l’appello è proposto relativamente a una
delle cause di cui all’articolo 70, primo
comma;
b) l’appello è proposto a norma dell’articolo
702 -quater.
Articolo inserito dall’art. 54, D.L.
22.06.2012, n. 83, così come modificato
dall’allegato alla legge di conversione, L.
07.08.2012, n. 134, con decorrenza dal
12.08.2012. In virtù dell’art. 54, D.L.
22.06.2012, n. 83 le disposizioni di cui al
presente articolo si applicano ai giudizi di
appello introdotti con ricorso depositato o con
citazione di cui sia stata richiesta la
notificazione dal trentesimo giorno successivo
al 12.08.2012.
[3] Articolo 342 Forma dell’appello
L’appello si propone con citazione contenente
le indicazioni prescritte dall’articolo 163.
L’appello deve essere motivato.
La motivazione dell’appello deve contenere, a
pena di inammissibilità:
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
174
1) l’indicazione delle parti del provvedimento
che si intende appellare e delle modifiche che
vengono richieste alla ricostruzione del fatto
compiuta dal giudice di primo grado;
2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva
la violazione della legge e della loro rilevanza
ai fini della decisione impugnata.
Tra il giorno della citazione e quello della
prima udienza di trattazione devono
intercorrere termini liberi non minori di quelli
previsti dall’articolo 163 bis.
Il comma 2 è stato così sostituito
dall’art. 54, D.L. 22.06.2012, n. 83, così come
modificato dall’allegato alla legge di
conversione, L. 07.08.2012, n. 134, con
decorrenza dal 12.08.2012 ed è entrato in
vigore l’11 settembre 2012.
[4] La possibilità per il giudice
dell’appello di pronunciare sentenza ex art-.
281 – sexies è stata espressamente prevista
anche dal novo testo degli art. 351 e 352
introdotto dall’art. 27 della legge n. 183/2011.
[5] Articolo 74 D.lgs 104/2010 –
Sentenze in forma semplificata
1. Nel caso in cui ravvisi la manifesta
fondatezza ovvero la manifesta irricevibilita’,
inammissibilita’, improcedibilita’ o
infondatezza del ricorso, il giudice decide con
sentenza in forma semplificata. La
motivazione della sentenza puo’ consistere in
un sintetico riferimento al punto di fatto o di
diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso,
ad un precedente conforme
[6] Articolo 348-ter Pronuncia
sull’inammissibilità dell’appello
All’udienza di cui all’articolo 350 il giudice,
prima di procedere alla trattazione, senti le
parti, dichiara inammissibile l’appello, a
norma dell’articolo 348 -bis , primo comma,
con ordinanza succintamente motivata, anche
mediante il rinvio agli elementi di fatto
riportati in uno o più atti di causa e il
riferimento a precedenti conformi. Il giudice
provvede sulle spese a norma dell’articolo 91.
L’ordinanza di inammissibilità è pronunciata
solo quando sia per l’impugnazione principale
che per quella incidentale di cui all’articolo
333 ricorrono i presupposti di cui al primo
comma dell’articolo 348 -bis . In mancanza, il
giudice procede alla trattazione di tutte le
impugnazioni comunque proposte contro la
sentenza.
Quando è pronunciata l’inammissibilità,
contro il provvedimento di primo grado può
essere proposto, a norma dell’articolo 360,
ricorso per cassazione [nei limiti dei motivi
specifici esposti con l'atto di appello]. In tal
caso il termine per il ricorso per cassazione
avverso il provvedimento di primo grado
decorre dalla comunicazione o notificazione,
se anteriore, dell’ordinanza che dichiara
l’inammissibilità. Si applica l’articolo 327, in
quanto compatibile.
Quando l’inammissibilità è fondata sulle stesse
ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a
base della decisione impugnata, il ricorso per
cassazione di cui al comma precedente può
essere proposto esclusivamente per i motivi di
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
175
cui ai numeri 1), 2), 3) e 4) del primo comma
dell’articolo 360.
La disposizione di cui al quarto comma si
applica, fuori dei casi di cui all’articolo 348 -
bis , secondo comma, lettera a) , anche al
ricorso per cassazione avverso la sentenza
d’appello che conferma la decisione di primo
grado.
__________
Articolo inserito dall’art. 54 D.L.
22.06.2012, n. 83, così come modificato
dall’allegato alla legge di conversione, L.
07.08.2012, n. 134, con decorrenza dal
12.08.2012. In virtù dell’art. 54, D.L.
22.06.2012, n. 83 le disposizioni di cui al
presente articolo si applicano ai giudizi di
appello introdotti con ricorso depositato o con
citazione di cui sia stata richiesta la
notificazione dal trentesimo giorno successivo
al 12.08.2012.
[7] Conferma questa impostazione,
l’ideazione del complesso meccanismo di
ricorso per cassazione “quasi per saltum”
disposto dall’art. 348 – ter, e la previsione di
una vera e propria sanzione pecuniaria
aggiuntiva del pagamento di un ulteriore
contributo unificato nell’ipotesi in cui l’
mpugnazione anche incidentale sia è respinta
integralmente o dichiarata inammissibile o
improcedibile, imposto dall’art. 1, comma 27
della l. 228/2012.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
176
Nella nuova disposizione, non v’è più traccia dei motivi specifici, ma si prevede che l’appello, da
proporsi come prima dell’intervento riformatore con ricorso contenente le indicazioni prescritte
dall’art. 414 c.p.c., deve essere, a pena di inammissibilità, motivato.
Il che significa che esso deve essere redatto in modo più organico e strutturato rispetto al passato,
quasi come una sentenza: occorre infatti indicare esattamente al giudice quali parti del provvedimento
impugnato si intendono sottoporre a riesame e per tali parti quali modifiche si richiedono rispetto a
quanto formato oggetto della ricostruzione del fatto compiuta dal primo giudice.
Con la conseguenza che non solo non basterà riferirsi alle sole statuizioni del dispositivo, dovendo
tenersi conto anche delle parti di motivazione che non si condividono e su cui si sono basate le decisioni del primo giudice, ma occorrerà anche, per le singole statuizioni e per le singole parti di
motivazione oggetto di doglianza, articolare le modifiche che il giudice di appello deve apportare, con
attenta e precisa ricostruzione di tutte le conclusioni, anche di quelle formulate in via subordinate.
L’appello per superare il vaglio di ammissibilità di cui all’art. 434 c.p.c. deve:
-indicare espressamente le parti del provvedimento che vuole impugnare (profilo volitivo); per parti
vanno intesi non solo i capi della decisione ma anche tutti i singoli segmenti (o se si vuole, “sottocapi”) che la compongono quando assumano un rilievo autonomo (o di causalità) rispetto alla
decisione;
-suggerire le modifiche che dovrebbero essere apportate al provvedimento con riguardo alla
ricostruzione del fatto (profilo argomentativi );
-indicare il rapporto di causa ad effetto fra la violazione di legge che è denunziata e l’esito della lite
(profilo di causalità).
N.d.R.: le note, presenti nel provvedimento di seguito riportato, sono state aggiunte dalla Redazione.
Appello filtrato: dagli specifici
motivi alla motivazione
Sentenza Corte di Appello di Roma,
Sentenza del 15.01.2013
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
177
LA SENTENZA PER ESTESO
Corte di Appello di Roma, sezione lavoro,
sentenza del 15.1.2013
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE DI APPELLO DI ROMA
sezione controversie lavoro, previdenza e
assistenza obbligatoria
la Corte composta dai Consiglieri
TORRICE dott. Amelia
Presidente rel.
ORRU’ dott. Tiziana
Consigliere
ZACCARDI dott. Glauco
Consigliere
…omissis…
SENTENZA
Oggetto: appello contro sentenza resa dal
Tribunale di Velletri n. 969/2012 in data
20.3.2012
Conclusioni: Per ciascuna parte come da
rispettivi scritti difensivi e come da verbale
dell’udienza di discussione.
fatto e motivi
Pronunziando sul ricorso proposto da… nei
confronti di…, ricorso volto alla condanna di
quest’ultima al pagamento della somma di €
12.853,69 , oltre rivalutazione monetaria ed
interessi legali a titolo di differenze retributive,
così ha statuito il Tribunale di Velletri, in
funzione di giudice del lavoro: ..disattesa ogni
diversa istanza, eccezione e
deduzione,definitivamente pronunciando,
condanna la … in persona del legale
rappresentante pro tempore al pagamento della
somma di € 12.853,69, oltre rivalutazione
monetaria sulla base degli indici I.S.T.A.T.
annuali ed interessi legali, calcolati sulla
somma anno per anno rivalutata,dalla
maturazione al saldo; condanna la convenuta
al rimborso delle spese di lite, da liquidarsi in
favore del procuratore antistatario del
ricorrente, che liquida in € 2.100,00 oltre iva e
cpa come per legge.
Con atto depositato il 24.9.2012 … ha
proposto appello avverso detta sentenza, per
chiedere che, in sua riforma, sia dichiari che
nulla è dovuto da essa appellante al …a titolo
di differenze retributive; in via subordinata ha
domandato che si ridetermini la somma dovuta
tenendo conto delle censure sopra evidenziate;
ha domandato che l’appellato sia condannato
alla refusione delle spese dei due gradi del
giudizio.
Si è costituito in giudizio…, il quale ha
contestato la fondatezza dell’appello e ne ha
domandato il rigetto.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
178
Alla udienza odierna la causa è stata discussa
e decisa con pubblica lettura del dispositivo
Il giudice di prime cure è pervenuto alla
statuizione impugnata sulla scorta delle
argomentazioni motivazionali che seguono:
- era pacifico che il livello attribuito dalla
società al …era quello che emergeva dalle
buste paga
- era infondata la prospettazione difensiva
della società secondo cui non spettava la
somma di € 2498,19 rivendicata a titolo di
differenze retributive sul rilievo che per il
periodo 1.4.2004-17.3.2006 il conteggio era
stato elaborato con riferimento al V livello e
non con riferimento al IV; e tanto perché
l’esame della tavola riassuntiva dei minimi
tabellari per i livelli II, III e IV evidenziava
che i conteggi erano stati correttamente
sviluppati con applicazione dei minimi tariffari
previsti in relazione ai diversi livelli nei quali
il …era stato inquadrato nel corso del rapporto
di lavoro (il giudice ha richiamato a fini
esemplificativi la retribuzione rivendicata per i
mesi di gennaio e febbraio 2005 per
evidenziare che era stato fatto corretto
riferimento ai minimi tabellari previsti per il
IV livello)
- le ore di lavoro indicate nei conteggi e,
segnatamente, quelle risultanti dai prospetti
paga di maggio 1992, dicembre 1993, aprile
1996, gennaio e settembre 1998, dicembre
2003, mensilità alle quali erano riferite le
contestazioni formulate dalla società, erano
conformi all’orario di lavoro osservato dal…,
nei termini quantitativi riferiti dai testi escussi
(il giudice di prime cure ha richiamato le
deposizioni rese dia testi …) che avevano
confermato quanto sul punto allegato dal
ricorrente;
- i conteggi esponevano per la più gran parte
orari di lavoro inferiori alle 173 ore mensili
mentre nel mese di ottobre 2003 il numero di
ore lavorate (184) risultava conforme al dato
esposto nella corrispondente busta paga;
- le voci esposte nei conteggi relativamente a
festività, straordinario, ferie e trasferte
risultavano corrisposte nelle buste paga ma
quantificate con riferimento a minimi tabellari
diversi da quelli relativo all’effettivo livello
nel quale il …era stato inquadrato nel corso
del rapporto di lavoro;
- quanto ai permessi cd riduzione di orario
di lavoro di cui all’art. 5 della parte generale
del CCNL di categoria, dalla prova
testimoniale era stata smentita la tesi difensiva
della società secondo cui i permessi annui
retribuiti di 15 minuti al giorno erano fruiti,
secondo prassi aziendale, all’inizio ovvero alla
fine della giornata di lavoro: i testi … avevano
avvalorato che l’orario di lavoro era pari ad 8
ore al giorno e non avevano confermato
l’esistenza dell’uso aziendale allegato dalla
società; le brevi pause di cui avevano parlato i
testi, cd pausa caffè, non erano sussumbili
entro la prospettata prassi aziendale , rimasta
senza alcun riscontro probatorio;spettavano
dunque le differenze correlate a detti permessi
L’atto di appello ( pgg II e III) riporta le
premesse in fatto che si leggono nella memoria
di costituzione nel giudizio di primo grado (
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
179
pgg II,III,IV ) ; lo svolgimento del processo di
primo grado è descritto nella pg. IV .
Nell’atto di appello sono riproposte le
contestazioni formulate nei confronti dei
conteggi allegati al ricorso di primo grado;
l’appellante riproponendo le eccezioni di
insussistenza del diritto dell’appellato a
percepire differenze retributive – Erroneità e
genericità dei conteggi allegati al ricorso di
primo grado deduce che la statuizione del
giudice di prime cure in ordine alla correttezza
di detti conteggi è destituita di fondamento, al
pari della statuizione con la quale il giudice di
prime cure ha affermato la correttezza dei
conteggi in relazione al numero di ore mensili
lavorate e al pari della statuizione con la quale
il giudice ha accertato il diritto al ricalcalo
delle voci retributive festività, straordinario,
ferie e trasferte ; l’appellante sostiene che il
giudice non avrebbe tenuto conto del fatto che
per gennaio e febbraio 2005 il minimo
retributivo indicato come parametro di
riferimento era di € 1.297,56 che era proprio
del V livello e non del quarto; che, se i
conteggi allegati al ricorso avessero tenuto
conto dell’orario contrattuale di 40 ore
settimanali avrebbero dovuto riportare sempre
come numero complessivo di ore lavorate 173
e non il numero variabile riportato nei
conteggi , numero corrispondente alle ore
indicate nelle buste paga, cifra, questa, anche
inferiore a 173; che le voci festività,
straordinario, ferie e trasferte erano state
computate con riguardo al V livello e non con
riguardo all’inquadramento effettivamente
spettante al ….
Nella prospettiva dell’appellante il giudice non
aveva considerato che il ricorrente non aveva
contestato quanto allegato nella memoria di
contestazione nel giudizio di primo grado e
che i testi escussi avevano confermato la
fruizione di 15 minuti di permesso all’inizio o
alla fine della giornata di lavoro e comunque
durante al giornata di lavoro.
L’art. 434 1° comma c.p.c, come sostituito
dall’art. 54, comma 1 lett. c-bis D.l. 22.6.2012
n. 83, convertito in legge 7.8.2012 n. 134[1]
dispone:
il ricorso deve contenere le indicazioni
prescritte dall’art. 414.L’appello deve essere
motivato.La motivazione dell’appello deve
contenere , a pena di inammissibilità :
1) l’indicazione delle parti del provvedimento
che si intende appellare[2] e delle modifiche
che vengono richieste alla ricostruzione del
fatto compiuta dal giudice di primo grado;
2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva
la violazione della legge e della loro rilevanza
ai fini della decisione impugnata.
La nuova disposizione, a parere di questa
Corte territoriale, impone precisi oneri di
forma dell’appello in quanto non si è limitata a
codificare i più rigorosi orientamenti del S.C.
(Cass., 24 novembre 2005, n. 24834n. 110; 28
luglio 2004, n. 14251, Cass., 24 novembre
2005, n. 24834n. 110; 28 luglio 2004, n.
14251,) in punto di specificità dei motivi di
appello, imposti dal vecchio testo dell’art. 434
c.p.c.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
180
Nella nuova disposizione, infatti, non v’è più
traccia dei motivi specifici, ma si prevede che
l’appello, da proporsi come prima
dell’intervento riformatore con ricorso
contenente le indicazioni prescritte dall’art.
414, deve essere, a pena di inammissibilità,
motivato.
Il che significa, a giudizio di questa Corte
territoriale, che esso deve essere redatto in
modo più organico e strutturato rispetto al
passato, quasi come una sentenza[3]: occorre
infatti indicare esattamente al giudice quali
parti del provvedimento impugnato si
intendono sottoporre a riesame e per tali parti
quali modifiche si richiedono rispetto a quanto
formato oggetto della ricostruzione del fatto
compiuta dal primo giudice.
Con la conseguenza che non solo non basterà
riferirsi alle sole statuizioni del dispositivo,
dovendo tenersi conto anche delle parti di
motivazione che non si condividono e su cui si
sono basate le decisioni del primo giudice, ma
occorrerà anche, per le singole statuizioni e per
le singole parti di motivazione oggetto di
doglianza, articolare le modifiche che il
giudice di appello deve apportare, con attenta e
precisa ricostruzione di tutte le conclusioni,
anche di quelle formulate in via subordinate.
In conclusione a giudizio di questa Corte
territoriale l’appello per superare il vaglio di
ammissibilità di cui all’art. 434 c.p.c. deve
indicare espressamente le parti del
provvedimento che vuole impugnare (profilo
volitivo); per parti vanno intesi non solo i capi
della decisione ma anche tutti i singoli
segmenti (o se si vuole, “sottocapi”) che la
compongono quando assumano un rilievo
autonomo (o di causalità) rispetto alla
decisione; deve suggerire le modifiche che
dovrebbero essere apportate al provvedimento
con riguardo alla ricostruzione del fatto
(profilo argomentativi ); il rapporto di causa ad
effetto fra la violazione di legge che è
denunziata e l’esito della lite (profilo di
causalità).
L’opzione interpretativa sopra esposta è
l’unica che, a parere di questa Corte
territoriale, garantisce che nel giudizio di
gravame sia assicurata la garanzia
costituzionale di cui all’art. 111 Costituzione,
nei segmenti intimamente correlati del giusto
processo e della durata ragionevole, anche con
riguardo alla disposizione contenuta nell’art.
436 bis c.p.c.
È, infatti, assai più probabile che il giudice di
appello riesca a pervenire in tempi ragionevoli
alla definizione del processo quanto più i
motivi si conformeranno in misura
convincente allo stilema dell’art. 434 c.p.c.
E’ evidente, inoltre, che quanto più gli appelli
saranno sviluppati nel rigoroso rispetto
dell’art. 434 c.p.c. tanto meno discrezionale
sarà la valutazione di cui all’art. 436 bis
c.p.c. e tanto più giusto sarà nel concreto il
processo di appello.
L’appello in esame, per essere stato depositato
il 24.9.2012 soggiace alla disciplina di cui
all’art. 434 c.p.c. nel testo vigente a fra data
dall’11.9.2012 .
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
181
Esso è costruito in maniera difforme rispetto
alla previsione contenuta nell’art. 434 c.p.c. in
quanto l’appellante, pur avendo indicato le
singole statuizioni che non condivide, ha
omesso di indicare le modifiche proposte con
riferimento a ciascuna parte della sentenza.
L’ indicazione delle singole modifiche
proposte era necessaria avuto riguardo alla
esaustività e completezza della decisione
impugnata, che si è confrontata in maniera
analitica con le singole voci o capi di
domanda, con i dettagliati conteggi allegati al
ricorso introduttivo del giudizio e con le
singole contestazioni formulate dalla parte
convenuta.
Dalla analiticità e specificità delle singole
statuizioni della sentenza impugnata, correlate
ai conteggi allegati al ricorso introduttivo del
giudizio conseguiva per l’appellante un dovere
di conformazione alle previsioni della nuova
disposizione rigoroso e puntuale; in particolare
l’assolvimento dei precetti contenuti nell’art.
434 c.p.c. avrebbe dovuto estrinsecarsi nella
produzione di prospetti contabili alternativi
rispetto a quelli allegati al ricorso di primo
grado e posti a base della decisione impugnata;
avrebbe dovuto estrinsecarsi in una proposta di
modifica della statuizione che ha escluso alle
cd pause caffè rilievo e significanza ai sensi
dell’art. 5 del CCNL applicato al rapporto
dedotto in giudizio; avrebbe dovuto
individuare il testo di una nuova pronuncia
volta a modificare le argomentazioni del
giudice di prime cure in ordine alla inesistenza
della prassi aziendale dedotta dalla società,
quanto al regime di fruizione dei permessi ex
art. 5 CCNL citato.
Tanto più che nelle conclusioni formulate
nell’atto di appello è domandata, in via
subordinata, la rideterminazione delle somme
spettanti all’appellato, rideterminazione alla
quale il giudice di appello non può e non deve
per comando di legge pervenire in quanto non
risultano indicate in relazione alle singole
doglianze i corrispondenti valori monetari
delle diverse voci retributive differenziali.
L’art. 434 c.p.c. nuovo testo conferma il
principio affermato dal S.C. per cui il difetto
che assiste l’impugnazione, impedendo
l’esame nel merito del gravame, va trattato con
la dichiarazione di inammissibilità e non di
nullità; con la conseguenza che la condotta
processuale dell’appellato non servirà in alcun
modo a “recuperare” l’appello in quanto il
vizio impedisce direttamente al giudice di
comprendere per quale motivo la sentenza
dovrebbe essere riformata e in quali precisi
termini debba essere motivata.
Avuto riguardo alla novità della questione le
spese sono compensate
P.Q.M.
Dichiara l’inammissibilità dell’appello.
Spese del grado compensate.
Roma, 15.1.2013
Il Presidente Estensore
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
182
[1] In dottrina sono state espresse critiche alla
riforma. In particolare, ci si è chiesti se sia
davvero possibile pretendere dal collegio
giudicante una capacità di selezionare, a colpo
d’occhio, gli appelli seri dagli altri: è realistico
auspicare e pretendere che alla prima udienza si
possa, da un giudice collegiale, in un mare di
gravami malamente fascicolati, con infallibile e
subitaneo colpo d’occhio, di cui è rara finora la
evidenza proprio in appello, secernere gli appelli
privi di serietà dagli altri? Così, CONSOLO, Lusso
o necessità nelle impugnazioni delle sentenze, in
Judicium.it., 2012. L’immediata ricorribilità della
sentenza di primo grado provocherà un ulteriore
appesantimento del carico di lavoro della Corte di
cassazione, già sovraccarica oltre misura; così,
CAPONI, La riforma dell’appello civile dopo la
svolta nelle commissioni parlamentari, in
Judicium.it, 2012; nella stessa direzione, anche
IMPAGNATIELLO, Il «filtro» di ammissibilità
dell’appello, in L’appello e il ricorso in cassazione
nella riforma del 2012, in Foro It., 2012, V. In
senso critico, pure FERRI, Filtro in appello: passa
lo svuotamento di fatto e si perpetua la tradizionale
ipocrisia italiana, in Guida al Diritto, 32, 2012, 10
ss. Per MONTELEONE, Il Processo civile in mano
al governo dei tecnici, in Judicium.it, 2012, la
riforma del filtro indurrà “ragionevolmente” i
giudici a comportarsi come hanno sempre fatto,
così in concreto non tenendo conto della novella;
tale ultimo assunto è smentito dal provvedimento
qui pubblicato.
[2] Si legge in COSTANTINO, Le riforme
dell’appello civile e l’introduzione del “filtro”, in
Treccani.it, 2012, 14, che l’indicazione delle parti
del provvedimento impugnate, non attiene alla
motivazione della sentenza, ma al suo oggetto.
[3] In questo senso, si era già espresso VIOLA, Il
nuovo appello filtrato, Pistoia, 2012, 23.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
183
Massima
L’articolo 1 della L. 7 ottobre 1969, n.742, il quale stabilisce che se il
decorso del termine ha inizio durante il periodo di sospensione,
l’inizio stesso è differito alla fine del periodo, va interpretato nel
senso che il giorno sedici settembre deve essere compreso nel novero
di quelli concessi dal termine, atteso che esso segna non già l’inizio di
quest’ultimo, bensì del suo decorso, in relazione al quale il dies a quo,
in base all’articolo 155, primo comma, c.p.c., non va computato.
Sospensione feriale dei termini: il
16 settembre va computato?
Sentenza Corte di Appello di Napoli,
Sentenza del 28.01.2013
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
184
LA SENTENZA PER ESTESO
Corte di Appello di Napoli, sezione terza
bis, sentenza del 28.1.2013
…omissis…
Va premesso che per i termini mensili o
annuali, fra i quali è compreso quello di
decadenza dall'impugnazione ex art. 327
c.p.c., si osserva, a norma degli artt. 155,
secondo comma, c.p.c. e 2963 (1), quarto
comma, c.c., il sistema della computazione
civile, non ex numero bensì ex nominatione
dierum, nel senso che il decorso del tempo si
ha, indipendentemente dall'effettivo numero
dei giorni compresi nel rispettivo periodo, allo
spirare del giorno corrispondente a quello del
mese iniziale; analogamente si deve procedere
quando il termine di decadenza interferisca
con il periodo di sospensione feriale dei
termini: in tal caso, infatti, al termine annuale
di decadenza dal gravame, di cui all'art. 327,
comma primo, c.p.c., devono aggiungersi
quarantasei giorni computati ex numeratione
dierum, ai sensi del combinato disposto
dell'art.155, comma primo, c.p.c. e 1, comma
primo, della L. n. 742 del 1969, non dovendosi
tenere conto dei giorni compresi tra il primo
agosto e il quindici settembre di ciascun anno
per effetto della sospensione dei termini
processuali nel periodo feriale (cfr. Cass.
9.7.2012 n.11491(2), Cass. 11.8.2004
n.15530(3), Cass. 3.6.2003 n. 8850(4)).
Inoltre, l'articolo 1 della L. 7 ottobre 1969,
n.742, il quale stabilisce che se il decorso del
termine ha inizio durante il periodo di
sospensione, l'inizio stesso è differito alla fine
del periodo, va interpretato nel senso che il
giorno sedici settembre deve essere compreso
nel novero di quelli concessi dal termine,
atteso che esso segna non già l'inizio di
quest'ultimo, bensì del suo decorso, in
relazione al quale il dies a quo, in base
all'articolo 155, primo comma, c.p.c., non va
computato (cfr. Cass. 16.1.2006 n. 6885, Cass.
29.3.2007 n.77576, Cass. 24.6.2011 n.13973,
Cass. 14.11.2012 n. 19874). Tale regola non
subisce deroga neppure quando il giorno sedici
sia festivo, in quanto la proroga di diritto al
primo giorno successivo, prevista dal terzo
comma dell'articolo 155 c.p.c., riguarda la
scadenza e non già l'inizio del decorso del
termine (cfr. Cass. 30.3.2005 n.66797).
Da tali principi deriva che il termine annuale
previsto dall'articolo 327 c.p.c., dalla data
della pubblicazione della sentenza (14
settembre 1006), sospeso fino al 15 settembre
2006 e dal 1 agosto al 15 settembre 2007, ha
iniziato il suo decorso dal 16 settembre 2006
(compreso) ed è scaduto mercoledì 31 ottobre
2007. Infatti, in mancanza della sospensione
feriale, il termine in questione sarebbe scaduto
il 14 settembre 2007; aggiunti quarantasette
giorni (uno per la sospensione del 15
settembre 2006 e quarantasei per la
sospensione del 2007), si arriva al termine di
scadenza del 31 ottobre 2007.
L'appello è perciò inammissibile.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
185
Le spese seguono la soccombenza (art. 91
c.p.c.) e si liquidano secondo i criteri dettati
dal D.M. 20 luglio 2012, n.140, tenendosi
conto che il procuratore della M. S.r.l., dopo la
Costituzione in giudizio, è comparso solo alla
prima udienza (del 28 febbraio 2008),
dichiarando di aderire all'astensione dalle
udienze proclamata dal competente ordine
professionale, e alla successiva udienza del 3
luglio 2008, fissata in prosieguo di prima
comparizione, senza svolgere,
successivamente, alcuna attività difensiva. Di
conseguenza, i compensi previsti dalla tabella
A allegata al predetto decreto ministeriale sono
conteggiati solo per la fase di studio e per
quella introduttiva.
P.Q.M.
La Corte di Appello di Napoli così provvede:
a) dichiara inammissibile l'appello;
b) condanna D.Z. e G.Z. in solido al
pagamento, in favore della M. S.r.l., delle
spese di appello, liquidate in Euro 1.030,00 (di
cui Euro 10,00 per spese ed Euro 1.020,00 per
compensi di avvocato).
1 Così recita: i termini di prescrizione contemplati
dal presente codice e dalle altre leggi si computano
secondo il calendario comune. Non si computa il
giorno nel corso del quale cade il momento iniziale
del termine e la prescrizione si verifica con lo
spirare dell'ultimo istante del giorno finale Se il
termine scade in giorno festivo, è prorogato di
diritto al giorno seguente non festivo. La
prescrizione a mesi si verifica nel mese di scadenza
e nel giorno di questo corrispondente al giorno del
mese iniziale. Se nel mese di scadenza manca tale
giorno, il termine si compie con l'ultimo giorno
dello stesso mese.
2 La massima così recita: per i termini mensili o
annuali, fra i quali è compreso quello di decadenza
dall'impugnazione ex art. 327 cod. proc. civ., si
osserva, a norma degli artt. 155, secondo comma,
cod. proc. civ. e 2963, quarto comma, cod. civ., il
sistema della computazione civile, non "ex numero"
bensì "ex nominatione dierum", nel senso che il
decorso del tempo si ha, indipendentemente
dall'effettivo numero dei giorni compresi nel
rispettivo periodo, allo spirare del giorno
corrispondente a quello del mese iniziale;
analogamente si deve procedere quando il termine
di decadenza interferisca con il periodo di
sospensione feriale dei termini: in tal caso, infatti,
al termine annuale di decadenza dal gravame, di
cui all'art.327, comma primo, cod. proc. civ.,
devono aggiungersi 46 giorni computati "ex
numeratione dierum", ai sensi del combinato
disposto dell'art.155, comma primo, stesso codice e
1, comma primo, della legge n.742 del 1969, non
dovendosi tenere conto dei giorni compresi tra il
primo agosto e il quindici settembre di ciascun
anno per effetto della sospensione dei termini
processuali nel periodo feriale.
3 La massima così recita: in tema di impugnazione,
al termine annuale di decadenza dal gravame, di
cui all'art. 327 c.p.c., comma primo, che va
calcolato "ex nominatione dierum", prescindendo
cioè dal numero dei giorni da cui è composto ogni
singolo mese o anno, ai sensi dell'art. 155 c.p.c.,
comma secondo, devono aggiungersi 46 giorni
computati "ex numeratione dierum", ai sensi del
combinato disposto dell'art. 155 c.p.c., comma
primo, e dell'art. 1, comma primo, della legge n.
742 del 1969, non dovendosi tenere conto dei
giorni compresi tra il primo agosto e il quindici
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
186
settembre di ciascun anno per effetto della
sospensione dei termini processuali nel periodo
feriale.
Inoltre,
4 La massima – estratta da Gius, 2003, 22, 2541 –
così recita: in tema di impugnazioni, al termine
annuale di decadenza dal gravame, di cui all'art.
327, comma primo, c.p.c., che va calcolato "ex
nominatione dierum", ai sensi dell'art. 155, comma
secondo, c.p.c., prescindendo dal numero dei
giorni da cui è composto ogni singolo mese od
anno, devono aggiungersi i 46 giorni di
sospensione dei termini processuali nel periodo
feriale (primo agosto - quindici settembre di
ciascun anno), calcolati "ex numeratione dierum",
nella misura di quarantasei giorni, ai sensi del
combinato disposto degli artt. 155, comma primo, e
1, comma primo, della legge n. 742 del 1969.
5 La massima così recita: in tema di sospensione
dei termini durante il periodo feriale, dal 1 agosto
al 15 settembre, l'art.1 della legge 7 ottobre 1969,
n.742 - il quale stabilisce che se il decorso del
termine ha inizio durante il periodo di sospensione,
l'inizio stesso è differito alla fine del periodo - va
interpretato nel senso che il giorno 16 settembre
deve essere compreso nel novero di quelli concessi
dal termine, atteso che esso segna non già l'inizio
di quest'ultimo, bensì del suo decorso, in relazione
al quale il " dies a quo ", in base all'art.155, primo
comma, cod. proc. civ., non va computato.
6 La massima così recita: in tema di sospensione
dei termini durante il periodo feriale dal 1° agosto
al 15 settembre, l'articolo 1 della legge 7 ottobre
1969 n.742 (il quale stabilisce che, se il decorso
del termine abbia inizio durante il periodo di
sospensione, l'inizio stesso è differito alla fine di
detto periodo), va inteso nel senso che il giorno 16
settembre deve essere compreso nel novero dei
giorni concessi dal termine, atteso che esso segna
non l'inizio del termine, ma l'inizio del suo decorso,
il quale non include il "dies a quo" in applicazione
del principio fissato dall'articolo 155, primo
comma, cod. proc. civ..
7 La massima così recita: in tema di sospensione
dei termini durante il periodo feriale dall'1 agosto
al 15 settembre, l'art. 1 della legge 7 ottobre 1969,
n. 742 (il quale stabilisce che, se il decorso del
termine abbia inizio durante il periodo di
sospensione, l'inizio stesso è differito alla fine di
detto periodo) va inteso nel senso che il giorno 16
settembre deve essere compreso nel novero dei
giorni concessi dal termine, atteso che esso segna
non già l'inizio di quest'ultimo bensì del suo
decorso, in relazione al quale il "dies a quo" non è,
in applicazione del principio fissato dall'art. 155
c.p.c., primo comma, da computarsi. Né tale regola
subisce deroga nel caso in cui il detto giorno 16
cada in giorno festivo (nel caso, domenica), in
quanto la proroga di diritto al primo giorno
successivo non festivo costituisce eccezione al
principio generale secondo cui i termini si
calcolano secondo il calendario comune non
computando il giorno iniziale ma quello finale, la
cui previsione peraltro nel caso non risulta da
norma alcuna, non soccorrendo al riguardo il terzo
comma del medesimo art. 155 c.p.c., che concerne
la scadenza, e non già l'inizio, del decorso del
termine.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
187
di
MARIELENA D’AMATO
Massima
Ai fini di valutare la tempestività o meno dell’attività del notificante
occorre che questi fornisca rigorosa prova in ordine all’aver
consegnato il plico agli Ufficiali Giudiziari nell’orario regolamentare
in cui gli uffici rimangono aperti al pubblico dal momento che la
scadenza del termine si verifica all’ora regolamentare di chiusura
dell’ufficio giudiziario al pubblico, anche se , dopo tale ora, questo sia
stato trovato aperto e l’atto sia stato accettato dal cancelliere.
L’atto è tempestivo quando viene accettato dopo l’orario
regolamentato?
Sentenza Tribunale di Piacenza,
Sentenza del 28.02.2013
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
188
LA SENTENZA PER ESTESO
Tribunale di Piacenza, sentenza del
28.2.2013
…omissis…
In data 14 dicembre 2011 l’ufficiale
giudiziario dava atto di non aver reperito
l’ingiunta per la notifica del ricorso e del
decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di
Piacenza che, pertanto, veniva notificato ai
sensi dell’art 140 c.p.c. (1) e veniva,
quindi, ritirato presso l’Ufficio postale,
dalla stessa parte opponente in data 24
dicembre 2011.
Successivamente, come attestato
dall’esame dell’originale dell’atto di
opposizione poi notificato alla s.p.a., la
difesa di parte opponente si recava per
eseguire tale adempimento presso l’Ufficio
degli Ufficiali Giudiziari di Piacenza ove
l’addetta, A. G. , procedeva ad apporre il
proprio timbro e la propria sigla con il
timbro 2 febbraio 2012 nella parte
sottostante il cronologico 1859 riportante
la distinta delle spese di notifica, mentre
nella parte iniziale dell’atto, a penna ,
l’Ufficiale Giudiziario vergava la seguente
dicitura “ pervenuto alle ore 12,00 oltre
l’orario previsto” apponendo sotto di essa
la scritta “urgente” con un timbro, ed altra
data, a penna, 3/2. Sempre dalla lettura del
testo in originale emerge che sia il timbro
dell’ufficiale giudiziario, sia la data “ 2
febbraio 2012” che la dicitura “urgente”,
apposta sempre con il timbro, venivano
redatti sopra la bianchettatura di una
sottostante scritta rimasta così coperta.
Da ultimo risulta sempre in atti che l’atto
di citazione in opposizione perveniva al
domicilio di parte opposta il giorno 3
febbraio 2012.
Ciò precisato, non pare, in primo luogo,
fondatamente dubitabile la circostanza
secondo la quale, avendo l’ingiunta
ricevuto notifica del decreto ingiuntivo in
data 24 dicembre 2011 il termine
perentorio di 40 giorni entro il quale
doveva attivarsi per proporre l’opposizione
scadesse il 2 febbraio 2012 e non già,
come inizialmente prospettato dalla sua
difesa, in data 5 febbraio 2012,
computando l’inizio della decorrenza di
esso dal 27 dicembre (termine per la
compiuta giacenza relativa all’avviso di
ricevimento ex art 140 c.p.c.).
Ed, invero, avendo l’interessata ritirato la
copia a lei destinata il 24 dicembre 2011,
non vi è dubbio che il termine di compiuta
giacenza per il perfezionamento della
notifica nei suoi confronti è stato interrotto
con detto ritiro e, pertanto, il termine di 40
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
189
giorni per proporre opposizione deve
essere computato a decorrere da tale data.
Secondo la costante giurisprudenza della
Corte di Legittimità nonché della Consulta
in tema di notifica, richiamata anche da
parte attrice occorre, quindi, ribadire il
principio secondo il quale “la notifica di
un atto processuale, almeno quando debba
compiersi entro un determinato termine, si
intende perfezionata dal lato dell’istante, al
momento dell’affidamento dell’atto
all’ufficiale giudiziario, posto che, come
affermato dalle sentenze della Corte
Costituzionale n 69 del 1994 e n 477 del
2002, il notificante deve rispondere
soltanto del compimento delle formalità
che non esulano dalla sua sfera di
controllo, secondo il principio della
scissione soggettiva del momento
perfezionativo del procedimento
notificatorio” (Cass. Civ. sez. Lav. 13
gennaio 2010, 359; Cass. sez. Lav., 2
febbraio 2007, 2261).
Una volta così richiamati i principi
generali enunciati dalla Corte di
Legittimità, delicato e diverso problema
sottoposto all’esame del Tribunale è quello
posto dalla peculiare fattispecie in esame,
relativa ad un atto pervenuto nella
disponibilità del soggetto addetto alla
notifica, Ufficiale giudiziario, il quale al
momento della sua ricezione, ha apposto
su di esso la propria sigla e il proprio
timbro, nella data del 2 febbraio 2012, cioè
nell’ultimo giorno utile per il notificante,
ma in un orario, le ore 12,00 come indicato
a penna nell’atto medesimo, successivo a
quello previsto dovendosi verificare se tale
dato abbia ai presenti fini una sua
rilevanza.
Sul punto, ritiene questo Giudice,
necessario richiamare la giurisprudenza
della Corte di Legittimità la quale , anche
in epoca recente ha, proprio con riguardo
ad una fattispecie peculiare e assimilabile
a quella in oggetto, formulato significative
statuizioni.
In particolare si è affermato che “ il
principio secondo il quale la notifica a
mezzo del servizio postale si perfeziona
con la consegna dell’atto all’Ufficiale
giudiziario pone a carico del notificante, a
fronte della puntuale contestazione ad
opera della controparte della tardività della
notifica, l’onere di provare l’avvenuto e
tempestivo avvio del procedimento
notificatorio, essendo a tal fine sufficiente
la dimostrazione dell’avvenuto deposito
del plico nel rispetto del termine di
apertura dell’ufficio al servizio, mentre è
irrilevante che la registrazione sul registro
dell’ufficiale giudiziario sia avvenuta
successivamente, trattandosi di dato
imputabile all’organizzazione interna
dell’Ufficio. In applicazione di tale
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
190
principio la Suprema Corte ha ritenuto
tempestiva la notifica del ricorso per
cassazione, il quale risultava depositato
l’ultimo giorno ma in orario in cui
l’organizzazione dell’ufficio non
consentiva la ricezione delle richieste
urgenti ai fini della loro evasione , ed era
quindi stato caricato sul registro
dell’ufficiale giudiziario solo il giorno
successivo” (Cass. sez. Unite, 1 giugno
2010, n. 13338).
Ed, ancora, si è ribadito che, ai fini di
valutare la tempestività o meno
dell’attività del notificante occorre che
questi fornisca rigorosa prova in ordine
all’aver consegnato il plico agli Ufficiali
Giudiziari nell’orario regolamentare in cui
gli uffici rimangono aperti al pubblico dal
momento che,”la scadenza del termine si
verifica all’ora regolamentare di chiusura
dell’ufficio giudiziario al pubblico, anche
se , dopo tale ora, questo sia stato trovato
aperto e l’atto sia stato accettato dal
cancelliere” (Consiglio di Stato sez.V, 2
novembre 2011, 5836; Cass. sez. I, 16
luglio 2005, 15103(2); Cass. sez. III, 24
agosto 1983, 5468; Cass. sez. Unite, 8
aprile 1976, n. 1226; Cass. sez. I, 15
gennaio 1973, 125; Cass. sez. I, 20 marzo
1972, 853). Da ultimo si è anche precisato
come, in caso di contestazione, la parte
interessata a provare la tempestività
dell’atto ben possa produrre una
certificazione integrativa che attesti che
esso è, in ipotesi, pervenuto presso
l’Ufficio competente entro l’orario
regolamentare per l’apertura al pubblico e
non già oltre ad esso rilevando tale dato ai
fini della fondamentale qualificazione
dell’attività del notificante come più o
meno tempestiva. Tornando, quindi, alla
fattispecie in esame occorre rilevare come
l’attestazione in precedenza esaminata,
riportata sull’originale dell’atto di
opposizione, non consenta di ritenere
provata, come prospettato dalla difesa di
parte attrice, nelle sue note conclusive, che
l’atto sia certamente pervenuto
all’Ufficiale Giudiziario che lo ha
ricevuto, entro l’orario regolamentare di
Ufficio e non, piuttosto, oltre ad esso a
seguito di discussioni e di contestazioni
insorte tra il difensoe e l’Ufficiale
giudiziario, come peraltro, riferito dalla
parte nelle note conclusive.
Ed, invero, non si può non osservare come
sull’originale l’Ufficiale giudiziario, come
non contestato, abbia espressamente
annotata la dicitura “ pervenuto alle ore
12,00 oltre l’orario previsto”.
Orbene, tale puntualizzazione,
diversamente da come prospettato da parte
attrice, che sul punto non ha ritenuto di
integrare eventualmente con una
certificazione dell’ufficiale Giudiziario il
significato dell’ attestazione medesima, in
ordine agli orari all’epoca praticati da
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
191
quell’Ufficio, ben può essere intesa,
secondo il suo significato letterale, nel
senso che l’atto di opposizione sia stato
consegnato per la notifica oltre l’orario
regolamentare e, pertanto, tardivamente,
(come affermato dalla giurisprudenza di
Legittimità), così come, in astratto,
potrebbe significare che esso è pervenuto
semplicemente oltre l’orario regolamentare
previsto solo per le notifiche urgenti ma,
comunque , entro l’orario regolamentare,
forse più ampio, previsto dall’Ufficio per
ricevere atti non urgenti e, pertanto, in
modo tempestivo.
Né, sul punto, si può ipotizzare, a
giustificazione del ritardo, che la
conoscenza di tali orari non sia possibile
ovvero, al contrario, che costituisca fatto
notorio, non appena si consideri come si
verta, pur sempre, nell’ambito di una
conoscenza di orari di uffici aperti al
pubblico con orari determinati a
prescindere dalla flessibilità e disponibilità
o meno a rimanere presente, del singolo
addetto.
All’esito delle valutazioni esposte si
impone, pertanto, in assenza di rigorosa
prova da parte del soggetto notificante, che
renda univoco il tenore della dicitura in
esame, in ordine alla tempestività della
notifica con riguardo alla vicenda del tutto
peculiare in oggetto, la declaratoria di
tardività dell’opposizione così come
eccepito dalla difesa di parte convenuta e
come, peraltro, rilevabile d’ufficio dal
Giudice, con conseguente dichiarazione di
esecutorietà del decreto ingiuntivo
opposto.
Avendo, da ultimo, l’opponente
prospettato che, nel caso di specie, sarebbe
comunque configurabile la fattispecie di
cui all’art 650 c.p.c. relativa all’ipotesi di
opposizione tardiva , rileva questo Giudice
come tale richiesta non possa trovare nella
presente sede esame , presupponendo una
situazione di fatto ed allegazioni di
elementi del tutto estranei al tema del
contendere oggetto del giudizio come
articolati nell’atto introduttivo.
In considerazione della peculiarità della
fattispecie in esame, sussistono,
comunque, gravi motivi per compensare
integralmente tra le parti le spese
processuale.
P . Q . M .
IL TRIBUNALE DI PIACENZA
definitivamente pronunciando così
provvede
DICHIARA
improcedibile l’opposizione proposta da C.
A. di B. R. M. T. impresa individuale nei
confronti della G. s.p.a. in persona del
legale rappresentante pro tempore e per
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
192
l’effetto dichiara esecutivo il decreto
ingiuntivo n 1692 emesso dal Tribunale
di Piacenza il giorno 14-15 novembre
2011 in favore della G. s.p.a. in persona
del legale rappresentante
DICHIARA
integralmente compensate tra le parti le
spese processuali
Così deciso in Piacenza,il giorno 28
febbraio 2013. Giudice dott.ssa G.
Schiaffino
1 In dottrina, si vedano CAPONI, Sulla
legittimazione dell'ufficiale giudiziario a notificare
il ricorso per cassazione a mezzo del servizio
postale, nota a C. 11140/2004, in Foro it., 2004, I;
VERDE, Profili del processo civile, Napoli, 1991.
2 La massima – estratta da Fallimento, 2006, 2,
218 – così recita: in tema di ricorso, art. 100 legge
fallimentare - R.D. n. 267/1942, per l'impugnazione
dei crediti ammessi, al fine di stabilirne la
tempestività, ove il deposito del ricorso sia
avvenuto l'ultimo giorno utile, occorre accertare
l'orario di apertura al pubblico della cancelleria
del giudice fallimentare, essendo irrilevante
l'eventuale protrazione del servizio dei funzionari
ad essa addetti per il disbrigo del lavoro interno.
Consegna dell’atto all’U.G. oltre l’orario di
ufficio: la notifica è tempestiva?
Annotazione sentenza del Tribunale di
Piacenza del 28.02.2013
di Marielena D’Amato
Sommario: 1. Premessa 2. Il caso 3. Quaestio
juris 4. Momento di perfezionamento della
notifica 5. Tempestività della notifica 6. Onere
della prova
1. Premessa
Quotidianamente gli avvocati si devono
districare fra diversi uffici per far fronte ai
numerosi incombenti. Il Tribunale di Piacenza,
con la sentenza in commento, ha richiamato
l’attenzione sull’obbligo di rispettare
rigorosamente gli orari di apertura al pubblico
dell’uffici degli Ufficiali Giudiziari, affinché
la notifica effettuata l’ultimo giorno utile non
risulti tardiva, ed ha specificato, altresì, che
spetta alla parte notificante l’onere di provarne
la tempestività in caso di contestazione.
2. Il caso
Il Tribunale di Piacenza emetteva decreto
ingiuntivo, che veniva notificato dall’Ufficiale
Giudiziario, in data 14 dicembre 2011, ai sensi
dell’art. 140 c.p.c.(1), stante l’irreperibilità
della parte ingiunta; quest’ultima, tuttavia, il
24 dicembre 2011 ritirava presso l’ufficio
postale l’atto giudiziario di cui era destinataria
così interrompendo il decorrere dei termini di
compiuta giacenza e perfezionando, in quel
momento, la notifica del decreto ingiuntivo nei
propri confronti.
Il difensore dell’ingiunta, determinato a
proporre opposizione avverso detto decreto
ingiuntivo ai sensi dell’art. 645 c.p.c., in data 2
febbraio 2012, ultimo giorno utile (2), si
recava presso gli uffici dell’Ufficiale
Giudiziario di Piacenza per consegnare la
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
193
propria citazione in opposizione affinché la
stessa fosse notificata alla controparte.
L’addetto accettava l’atto e vi apponeva il
timbro con la propria sigla e la data, sotto al
numero cronologico riportante la distinta delle
spese di notifica. Tuttavia, sulla parte iniziale
dell’atto, egli annotava testualmente:
“pervenuto alle ore 12.00 oltre l’orario
previsto” e al di sotto apponeva il timbro
“urgente” e la data “3/2”. Peraltro, il timbro
dell’U.G., della data e quello riportante la
dicitura “urgente” venivano apposti sopra una
bianchettatura che nascondeva una scritta
sottostante.
L’atto veniva regolarmente ricevuto il giorno
successivo dalla parte opposta, la quale,
costituitasi in giudizio, eccepiva la tardività
dell’opposizione, in quanto proposta oltre il
termine decadenziale di 40 giorni previsto dal
legislatore.
3. Quaestio juris
La questione preliminare ed assorbente
affrontata dal Tribunale di Piacenza attiene la
tempestività dell’avvio del processo
notificatorio dell’atto di citazione in
opposizione, atteso che lo stesso è stato
consegnato all’Ufficiale Giudiziario l’ultimo
giorno utile per il notificante, ma oltre l’orario
di apertura al pubblico dell’ufficio.
La mera disponibilità dell’impiegato ad
accettare l’atto oltre l’orario regolamentare
rende la notifica valida e tempestiva?
Nel caso di specie, il Giudice ha accolto
l’eccezione sollevata da parte opposta di
tardività dell’opposizione, dichiarandone
l’improcedibilità, in assenza di prova contraria
in ordine alla consegna dell’atto entro l’orario
previsto.
4. Momento di perfezionamento della
notifica
Detta decisione riposa su un consolidato
sostrato giurisprudenziale in ordine al
momento in cui si perfeziona la notifica; in
particolare, la disamina della questione ha
preso le mosse dal fondamentale “principio
della scissione soggettiva del momento
perfezionativo del procedimento notificatorio”
(3), il quale prevede che la notifica debba
considerarsi eseguita per il notificante sin dal
momento in cui l’atto da comunicare viene
consegnato all’Ufficiale Giudiziario, mentre
per il destinatario da quando, successivamente,
ne prende conoscenza legale. In dottrina, si è
parlato, più precisamente, di un’anticipazione
di taluni effetti, il cui consolidamento
definitivo resta comunque condizionato al
compimento integrale del procedimento di
notifica (4). In tal modo si attua una tutela più
efficace nei confronti del soggetto notificante,
finalizzata ad evitare che egli sopporti il
rischio di ritardi o di inefficienze nella
notifica, non a lui ascrivibili, ed incorra in
un’eventuale decadenza.
Resta fermo che gli altri effetti ricollegati al
perfezionamento della notifica si producono,
sia per il richiedente che per il destinatario, al
termine dell’intero processo notificatorio (5),
così come disciplinato dalle disposizioni
normative specifiche.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
194
Detta scissione degli effetti della notifica si
pone quale principio generale
dell’ordinamento giuridico e, in quanto tale, è
applicabile in via interpretativa a tutte le forme
di notificazione disciplinate dal codice di rito,
senza la necessità di ulteriori pronunce di
illegittimità costituzionale (6).
Tanto è stato ribadito più volte anche dalla
giurisprudenza di legittimità della Corte di
Cassazione (7), la quale ha sottolineato che il
notificante debba rispondere solo degli atti
ricompresi nella propria sfera di azione e di
controllo, tant’è che la notifica può dirsi
perfetta ab origine, anche qualora il primo
tentativo non abbia avuto esito positivo per
causa non imputabile all’istante e si sia reso
necessario un diverso procedimento (8).
5. Tempestività della notifica
Acclarato che la notifica si intenda
perfezionata per la parte istante con la
consegna dell’atto all’Ufficiale Giudiziario, va
precisato che debba essere premura della
stessa attivarsi prima della scadenza del
termine decadenziale, quindi, finanche
nell’ultimo giorno utile, ma pur sempre nel
rispetto degli orari di apertura al pubblico
degli uffici preposti, salvo incorrere
inesorabilmente nel compimento di un atto
tardivo.
Va da sé, infatti, che per ragioni di certezza
giuridica e di parità di trattamento, il deposito
di un atto effettuato, nel giorno di scadenza,
presso un ufficio giudiziario può dirsi
tempestivo solo se sia avvenuto nell’arco degli
orari regolamentari, mentre è del tutto
irrilevante che l’ufficio sia stato casualmente
trovato aperto e l’atto sia stato accettato oltre
detti orari. Diversamente, si rischierebbe di
estendere ad libitum la possibilità di consegna,
con l’illogica conseguenza di rendere
imprecisato ed assolutamente discrezionale
anche un eventuale termine perentorio fissato
dal legislatore a pena di decadenza, in quanto
tale termine sarebbe legato alla disponibilità
dell’impiegato ad accettare il plico nonostante
sia pervenuto fuori orario, piuttosto che
rifiutarlo.
Tale principio, la cui applicazione è stata
estesa dalla giurisprudenza al deposito e alla
notifica di qualsiasi atto giudiziario, trova il
proprio saldo riferimento normativo nell’art.
172, co. 6, c.p.p. il quale recita che “il termine
per fare dichiarazioni, depositare documenti o
compiere altri atti in un ufficio giudiziario si
considera scaduto nel momento in cui,
secondo i regolamenti, l'ufficio viene chiuso al
pubblico”. Appare opportuno effettuare un
distinguo fra l’orario di servizio dell’ufficio –
ossia di funzionamento interno, valido
esclusivamente per gli impiegati - e quello di
apertura al pubblico, valevole per tutti gli
utenti e rilevante al fine
di verificare la tempestività dell’attività
compiuta (9), la quale prescinde dalla chiusura
effettiva dell’ufficio (10).
Quanto detto è corroborato da costante e
consolidata giurisprudenza di legittimità (11);
tra tutte si cita la recente sentenza del
Consiglio di Stato, 2 novembre 2011, n. 5836,
la quale, in modo chiaro ed inequivocabile, ha
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
195
statuito che: “la scadenza del termine si
verifica all’ora regolamentare di chiusura
dell’ufficio giudiziario al pubblico, anche se,
dopo tale ora, questo sia stato trovato aperto e
l’atto sia stato accettato dal cancelliere”.
D’altronde, incombe sull’utente l’onere di
conoscere gli orari di apertura di tutti gli uffici
pubblici e di attenervisi scrupolosamente (12).
6. Onere della prova
Ciò posto, è pacifico che l’onere di dimostrare
la tempestività dell’avvio del procedimento
notificatorio gravi sulla parte notificante, la
quale, in caso di contestazione, deve provare,
tramite idonea documentazione, di aver
consegnato l’atto all’Ufficiale Giudiziario
prima che fosse maturato il termine di
decadenza (13). Segnatamente, non è
sufficiente che l’istante fornisca adeguata
prova relativamente al giorno di consegna
dell’atto, ma deve dimostrare, altresì, che essa
sia avvenuta nel rispetto degli orari di apertura
al pubblico dell’ufficio (14), in quanto la
scadenza del termine si verifica all’ora
regolamentare di chiusura.
La tempestiva consegna dell’atto per la
notifica può essere provata tramite l’esibizione
di apposita ricevuta rilasciata dall’Ufficiale
Giudiziario, oppure può essere desunta dal
timbro apposto sull’atto, riportante il numero
cronologico e la data (15); in caso di
contestazione della conformità dell’atto
all’originale o di quanto risulti da detto atto,
deve essere prodotta idonea documentazione
integrativa anche rilasciata dall’Ufficiale
Giudiziario.
Nel caso di specie, tale onere incombeva sulla
parte opponente. Dall’annotazione effettuata
dall’Ufficiale Giudiziario sull’atto -
“pervenuto alle ore 12,00 oltre l’orario
previsto” -, infatti, non era dato comprendere
se esso fosse stato consegnato entro l’orario
regolamentare o meno.
Infatti, atteso che gli uffici giudiziari
normalmente fissano un orario, meno ampio
rispetto a quello ordinario, per la ricezione
degli atti urgenti - ossia quelli da notificare in
tempi brevissimi -, sarebbe possibile ipotizzare
astrattamente che la dicitura apposta
dall’Ufficiale Giudiziario fosse ad indicare
l’avvenuta consegna del plico oltre l’orario
previsto per la notifica degli atti urgenti, ma
nell’arco dell’orario regolamentare; se così
fosse il processo notificatorio sarebbe stato
avviato tempestivamente. Allo stesso modo,
non era fuor di luogo ipotizzare che il plico
fosse pervenuto effettivamente oltre l’orario
ordinario e, pertanto, tardivamente.
Poiché, a fronte dell’eccezione di tardività
sollevata da parte opposta e della confusione
emergente dalla dicitura apposta sull’atto,
parte istante non ha fornito rigorosa prova
circa il tenore e il significato di detta
annotazione, il Tribunale di Piacenza, sulla
scia di pacifico orientamento
giurisprudenziale, ha dichiarato
l’improcedibilità dell’opposizione.
1 L’art. 140 c.p.c. è stato dichiarato
parzialmente illegittimo dalla Corte
Costituzionale con sentenza n. 3/2010 nella
parte in cui prevede che la notifica si
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
196
perfezioni per il destinatario con la spedizione
della raccomandata informativa, anziché con
il ricevimento della stessa o, comunque,
decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione.
2 Il dies a quo per il decorso dei 40 giorni
previsti dall’art. 641 c.p.c. per la proposizione
dell’opposizione coincideva, infatti, con il 24
dicembre, data in cui l’interessata prendeva
legale conoscenza dell’atto, ritirandone la
copia a lei destinata presso l’Ufficio Postale
ed interrompendo il termine di compiuta
giacenza utile al perfezionamento della
notifica eseguita ex art. 140 c.p.c..
3 Tale principio è stato sancito dalla Corte
Cost. 26 novembre 2002, n. 477, relativamente
alla notifica a mezzo posta, con cui ha
dichiarato la parziale incostituzionalità
dell’originario art. 149 c.p.c. (poi modificato
dalla l. 263/2005) letto in combinato disposto
con l’art. 4, co. 3 L. 890/1982, sulla scorta
della precedente pronuncia n. 69 del 1994, per
quanto in contrasto con gli artt. 3 (principio di
eguaglianza) e 24 (diritto di difesa) Cost..
4 V. BALENA, Elementi di diritto processuale
civile, p. 252.
5 Cass. Civ. S.U. n. 458/2005.
6 Corte Cost. 23 gennaio 2004, n. 28.
7 Cass. civ. Sez. I, 04/06/2012, n. 8945; Cass.
Civ. 13 gennaio 2010, n. 359; Cass. civ. 2
febbraio 2007, n. 2261.
8 Cass. 13 aprile 2004, n. 7018; Cass. 23
marzo 2005, n. 6316.
9 Cass. 16 luglio 2005, n. 15103; Cass. pen.,
sez. I, 26 marzo 1998, n. 7112.
10 Cass. pen., sez. V, 27 maggio 1993, n.
1217.
11 Cass. Sez. Unite 1 giugno 2010, n. 13338;
Cass. 16 luglio 2005 n. 15103; Cass. 2 maggio
2005, n. 9069.
12 Consiglio di Stato, sez. V, 26 marzo 2001,
n. 1725; Cass. civ. 14 dicembre 1998, n.
12533.
13 Cass. 28 luglio 2005, n. 15797.
14 Cass. sez. Unite 1 giugno 2010, n. 13338.
15 Cass. Lav. 1 settembre 2008, n. 22003.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
197
Massima
L’inammissibilità della domanda tardiva è rilevabile d’ufficio, atteso
che il regime di preclusioni introdotto nel rito civile ordinario deve
ritenersi inteso non solo nell’interesse di parte, ma anche
nell’interesse pubblico all’ordinato e celere andamento del processo,
con la conseguenza che la tardività delle domande, eccezioni,
allegazioni e richieste, deve essere rilevata d’ufficio dal giudice
indipendentemente dall’atteggiamento processuale della controparte
al riguardo e dall’eventuale accettazione del contraddittorio.
La domanda tardiva è inammissibile anche se è stato
accettato il contraddittorio
Sentenza Tribunale di Reggio Emilia,
Sentenza n. 618 del 3.4.2013
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
198
LA SENTENZA PER ESTESO
Tribunale di Reggio Emilia, sentenza n. 618
del 3.4.2013
…omissis…
DIRITTO
va innanzitutto evidenziato che solo in sede di
precisazione delle conclusioni (cfr. foglio
allegato a verbale d’udienza del 17/11/2011),
la difesa attorea ha chiesto la condanna, oltre
che della Casa di Cura, anche del dott. Caio,
mentre detta richiesta, invece, non è mai stata
formulata prima dello scadere delle preclusioni
assertive di cui all’articolo 183 comma 5
ratione temporis vigente.
Deriva, in tutta evidenza, la tardività di tale
domanda, e quindi la sua inammissibilità,
correttamente eccepita da controparte (cfr.
verbale d’udienza sempre del 17/11/2011, ove
si dichiara di ‘non accettare il contraddittorio’)
e comunque pacificamente rilevabile
d’ufficio160, atteso che il regime di preclusioni
160 Per approfondimenti si veda VIOLA, Le domande nuove inammissibili nel processo civile, Milano, 2012, 103, secondo cui problema decisamente discusso è quello dell’accettazione del contraddittorio. In linea di massima, la parte interessata dovrebbe rilevare l’inammissibilità della domanda, così inducendo il giudicante a non pronunciandosi nel merito di questa. Cosa succede, però, quando il convenuto non eccepisce l’inammissibilità, ma anzi – con il proprio silenzio/comportamento – sembra accettare il contraddittorio sui nova?
Può, in questo caso, il giudice non pronunciarsi nel merito della domanda, oppure deve rispondere ex art. 112 c.p.c.?
In pratica:
-la parte può accettare il contraddittorio su “temi” esorbitanti rispetto a quelli iniziali, così imponendo al giudice di rispondere nel merito (tesi positiva)?
-oppure la parte non può comunque accettare il contraddittorio su “temi” esorbitanti rispetto a quelli iniziali, così che il giudice dovrà pronunciare l’inammissibilità (tesi negativa)?
Accogliendo la tesi positiva, condivisa da parte della giurisprudenza minoritaria, ne deriverebbe che, in caso di mancata eccezione di inammissibilità, il giudice dovrebbe rispondere anche sulla domanda nuova, decodificando il silenzio della controparte interessata come accettazione del contradditorio.
Se si accetta il contraddittorio, allora si amplia di comune accordo la piattaforma processuale, ed il giudice deve tenerne conto .
A favore di tale tesi, emergono i dati che:
-la ratio sottesa al divieto di domande nuove è quella di assicurare il pieno contraddittorio che diversamente verrebbe stravolto, con la conseguenza che – in tutti i casi in cui tale contraddittorio è rispettato – allora dovrebbero essere ammissibili domande nuove; sotto questa angolazione prospettica, pertanto, se la controparte accetta il contraddittorio, allora le domande nuove sono ammissibili;
-il processo è essenzialmente su iniziativa di parte ed il giudice deve rispondere a quanto chiesto ex art. 112 c.p.c., con la conseguenza che è legittimo lasciare spazio alle parti di decidere, in comune tra l’altro, l’area della disputa, relegando al giudice un ruolo di “giudicante nella sola parte finale del processo”;
-l’art. 115 c.p.c. oggi (con la novella introdotta dalla legge 69/2009) impone la contestazione specifica come principio generale (l’art. 115 c.p.c. è collocato sistematicamente entro le “Disposizioni generali”), così che è la legge ad imporre di eccepire l’inammissibilità su iniziativa di parte, con la conseguenza che in caso di omissione si avrà un silenzio-significativo da intendere come rinuncia all’eccezione e, per l’effetto, accettazione del contraddittorio; dinnanzi a tale “omissione” il giudice non può restare indifferente perché “deve porre a fondamento della decisione” i fatti non specificatamente contestati; si dice “deve” e non già “può” ;
-diversamente opinando, si violerebbe il disposto dell’art. 99 c.p.c. (circa il principio della domanda) e quello dell’art. 112 c.p.c. (circa l’obbligo del giudice di rispondere alle domande processuali in modo simmetrico e consequenziale), nonché l’art. 115 c.p.c. (che impone al giudice il “dovere” di porre a fondamento della decisione anche la mancata contestazione).
Accogliendo la tesi negativa prevalente, anche con il silenzio della parte sull’eccezione di inammissibilità, il giudice sarebbe tenuto a sollevare la questione d’ufficio, con la conseguenza di non dover entrare nel merito della questione inammissibile, anche se è stato accettato il contraddittorio; tra l’altro, trattandosi di rilievo d’ufficio inerente una questione rilevante ai fini della decisione finale (sentenza), il giudice dovrà sottoporre – a pena di nullità della sentenza – la quaestio iuris al sindacato delle parti processuali, ex art. 101 comma 2 c.p.c.
In favore della tesi negativa, si rileva che:
-la ratio sottesa al divieto di domande nuove è soprattutto il buon andamento processuale , con la conseguenza che l’accettazione del contraddittorio espresso o tacito non può soddisfarla; più chiaramente:
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
199
introdotto nel rito civile ordinario deve
ritenersi inteso non solo nell’interesse di parte,
ma anche nell’interesse pubblico all’ordinato e
celere andamento del processo, con la
conseguenza che la tardività delle domande,
eccezioni, allegazioni e richieste, deve essere
rilevata d’ufficio dal giudice
indipendentemente dall’atteggiamento
processuale della controparte al riguardo e
dall’eventuale accettazione del
contraddittorio161 (Cass. n. 25598/2011162,
l’obiettivo della norma è assicurare il buon andamento che non può essere assicurato con il solo contraddittorio accettato;
-le parti non possono disporre in assoluto del thema decidendum, perché con il sistema preclusivo ex artt. 183-184 c.p.c. (per il rito ordinario) ed artt. 414-420 c.p.c. (per il rito del lavoro) sono assoggettati a ritmi “contingentati” ex lege, anche se accettano il contraddittorio dopo (è al di fuori delle loro facoltà);
-l’art. 115 c.p.c. non attiene alle eccezioni di inammissibilità, perché riguarda solo le contestazioni di “fatti” storici narrati nell’atto, mentre l’eccezione di inammissibilità è una contestazione diretta al petitum e non ai fatti storici; e, comunque, a tutto concedere, l’art. 115 c.p.c. impone sì la contestazione specifica, tale che l’omissione deve essere posta a fondamento della decisione, ma limitatamente ai diritti disponibili ed alle eccezioni in senso stretto rilevabili solo dalla parte, non anche alle questioni d’ufficio.
La giurisprudenza prevalente condivide la tesi negativa esposta.
161 Nello stesso senso, Cassazione civile, sentenza del 4.9.2012, n. 14803, in il ProcessoCivile.com, 201, 2012, secondo cui nel vigore del regime delle preclusioni di cui al nuovo testo degli artt. 183 e 184 c.p.c., introdotto dalla legge 26 novembre 1990, n. 353, la questione della novità della domanda risulta del tutto sottratta alla disponibilità delle parti, ed è, pertanto, pienamente ed esclusivamente ricondotta al rilievo officioso del giudice, essendo l’intera trattazione improntata al perseguimento delle esigenze di concentrazione e speditezza che non tollerano - in quanto espressione di un interesse pubblico - l’ampliamento successivo del thema decidendi, anche se su di esso si venga a registrare il consenso del convenuto. Il sistema delle preclusioni impedisce che, in sede di precisazione delle conclusioni, possa essere chiesto il risarcimento di un danno già verificatosi alla data della redazione dell’atto di citazione ovvero a quella dell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. e tuttavia non domandato (in esito all’interpretazione della domanda che compete al giudice del merito), ma non preclude la possibilità di richiedere il risarcimento di danni verificatisi successivamente.
162 La massima così recita: nel vigore del regime delle preclusioni di cui al nuovo testo degli artt. 183 e 184 c.p.c., introdotto dalla legge 26 novembre 1990, n. 353, la questione della novità della domanda risulta del tutto sottratta alla disponibilità delle parti, e pertanto pienamente ed esclusivamente ricondotta al rilievo officioso del giudice, essendo l'intera trattazione improntata al perseguimento delle esigenze
Cass. n. 16541/2011163, Cass. n.
10063/2011164, Cass. n.
14625/2010165,Cass.n.24442/2009,Cass.n.
20859/2009, Cass. n. 7270/2008, Cass. n.
11305/2007, Cass. n. 11298/2007, Cass. n.
6639/2007, Cass. n. 4901/2007, Cass. n.
26691/2006, Cass. n. 25242/2006, Cass. n.
24606/2006,Cass.n.20953/2006,Cass. n.
17152/2006, Cass. n. 19453/2005, Cass. n.
11318/2005, Cass. n. 23127/2004,
Cass.n.5539/2004, Cass. n. 16921/2003, Cass.
n. 378/2002, Cass. n. 4376/2000).
di concentrazione e speditezza che non tollerano - in quanto espressione di un interesse pubblico - l'ampliamento successivo del "thema decidendi", anche se su di esso si venga a registrare il consenso del convenuto.
163 La massima – estratta da CED Cassazione – così recita: in tema di esecuzione forzata, il principio per cui spetta al giudice dell'esecuzione verificare la sussistenza originaria e la permanenza del titolo esecutivo per tutto il corso del processo esecutivo deve essere coordinato, in sede di opposizione all'esecuzione, con i principi della domanda e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, di cui agli artt. 99 e 112 c.p.c. Ne consegue che, allorquando nel giudizio di opposizione si controverta della illegittimità del titolo esecutivo, costituisce domanda nuova - come tale inammissibile, secondo il regime preclusivo di cui alla legge 26 novembre 1990, n. 353, applicabile nella specie "ratione temporis" - la proposizione, nel corso del giudizio di primo grado o per la prima volta in appello, della richiesta di accertamento della carenza originaria del titolo per un motivo diverso da quello dedotto con l'atto introduttivo del giudizio di opposizione.
164 La massima – estratta da Foro It., 2012, 3, 1, 832 – così recita: spetta alla Corte dei conti la giurisdizione in ordine all'azione di responsabilità che il pubblico ministero presso la stessa corte abbia proposto nei confronti di un amministratore e di un membro del collegio sindacale di una società consortile per azioni costituita da enti pubblici, in relazione al danno da essi recato con atti di mala gestio agli enti pubblici consorziati.
165 La massima così recita: con riguardo a procedimento pendente alla data del 30 aprile 1995 - per il quale trovano applicazione le disposizioni di cui agli artt. 183, 184 e 345 cod. proc. civ., nel testo vigente anteriormente alla "novella" di cui alla legge 26 novembre 1990, n. 353 (art. 9 del d.l. 18 ottobre 1995, n. 432, convertito, con modificazioni, nella legge 20 dicembre 1995, n. 534) - il divieto di introdurre una domanda nuova nel corso del giudizio di primo grado risulta posto a tutela della parte destinataria della domanda; pertanto la violazione di tale divieto - che è rilevabile anche d'ufficio, non essendo riservata alle parti l'eccezione di novità della domanda - non è sanzionabile in presenza di un atteggiamento non oppositorio della parte medesima, consistente nell'accettazione esplicita del contraddittorio o in un comportamento concludente che ne implichi l'accettazione.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
200
Né può opinarsi che la domanda attorea possa
considerarsi automaticamente estesa al Caio in
quanto chiamato in causa da parte del
convenuto.
Infatti, l’automatica estensione al terzo della
domanda attorea, si ha allorquando il
convenuto chiami in causa il terzo al fine di
ottenere la propria liberazione e
l’individuazione del chiamato quale unico e
diretto responsabile, sicché la chiamata
assolve il compito di supplire al difetto di
citazione in giudizio da parte dell’attore del
soggetto indicato dal convenuto come
obbligato in sua vece (Cass. n. 20610/2011166,
Cass. n. 12317/2011167, Cass. n. 5057/2010168,
166 La massima così recita: nell'ipotesi in cui la parte convenuta in un giudizio di risarcimento dei danni, derivanti dalla realizzazione di una nuova costruzione, nel dedurre il difetto della propria legittimazione passiva, chiami in causa un terzo, con il quale non sussista alcun rapporto contrattuale, chiedendone, in caso di affermazione della propria responsabilità, la condanna a garantirla e manlevarla, l'atto di chiamata, al di là della formula adottata, va inteso come chiamata del terzo responsabile e non già come chiamata in garanzia impropria, dovendosi privilegiare l'effettiva volontà della chiamante in relazione alla finalità, in concreto perseguita, di attribuire al terzo la responsabilità della cattiva esecuzione delle opere e dei danni conseguentemente arrecati. In tal caso, si verifica l'estensione automatica della domanda al terzo chiamato, indicato dal convenuto come il vero legittimato, onde il giudice può direttamente emettere nei suoi confronti una pronuncia di condanna, anche se l'attore non ne abbia fatto richiesta, senza per questo incorrere nel vizio di extrapetizione.
167 La massima così recita: il principio dell'estensione automatica della domanda dell'attore al chiamato in causa da parte del convenuto trova applicazione allorquando la chiamata del terzo sia effettuata al fine di ottenere la liberazione dello stesso convenuto dalla pretesa dell'attore, in ragione del fatto che il terzo s'individui come unico obbligato nei confronti dell'attore ed in vece dello stesso convenuto, il che si verifica quando il convenuto evocato in causa estenda il contraddittorio nei confronti di un terzo assunto come l'effettivo titolare passivo della pretesa dedotta in giudizio dall'attore. Il suddetto principio, invece, non opera allorquando il chiamante faccia valere nei confronti del chiamato un rapporto diverso da quello dedotto dall'attore come "causa petendi" come avviene nell'ipotesi di chiamata di un terzo in garanzia, propria o impropria.
168 La massima così recita: nell'ipotesi in cui la parte convenuta in un giudizio di responsabilità civile chiami in causa un terzo in qualità di corresponsabile dell'evento dannoso, la domanda risarcitoria deve intendersi estesa al terzo anche in mancanza di un'espressa dichiarazione in tal senso dell'attore, in quanto la diversità e pluralità
Cass. n. 25559/2008, Cass.
n.17954/2008,Cass. n. 6883/2008, Cass. n.
13374/2007, Cass. n. 13165/2007, Cass. n.
13131/2006, Cass. n. 1522/2006, Cass. n.
254/2006, Cass. n. 1748/2005, Cass. n.
15563/2004, Cass. n. 3643/2004, Cass. n.
14060/2003, Cass. n. 7273/2003, Cass. n.
5164/2003, Cass. n. 4740/2003, Cass. n.
4145/2003, Cass. n. 1294/2003, Cass. n.
11371/2002, Cass. n. 11366/2002, Cass. n.
6771/2002, Cass. n. 6026/2001, Cass. n.
2471/2000), mentre nel caso di specie il
convenuto ha evocato in giudizio il terzo
semplicemente deducendo che la causa è “a
lui comune” (pag. 4 comparsa di risposta), e
quindi non al fine di ottenere la propria
liberazione e l’individuazione del chiamato
quale unico e diretto responsabile.
Resta confermata, quindi, l’inammissibilità
della domanda di condanna del terzo formulata
dall’attore per la prima volta in sede di
precisazione di conclusioni, trattandosi di
domanda tardiva e di domanda che non può
essere qualificata come automaticamente
estesa al terzo al momento della sua chiamata.
Discende che unico destinatario delle pretese
di pagamento dell’attore è il convenuto Casa
di Cura Villa Verde.
b) Venendo al merito di tale domanda, la causa
può essere decisa sulla base della CTU, svolta
con motivazione convincente e pienamente
delle condotte produttive dell'evento dannoso non dà luogo a diverse obbligazioni risarcitorie, con la conseguenza che la chiamata in causa del terzo non determina il mutamento dell'oggetto della domanda ma evidenzia esclusivamente una pluralità di autonome responsabilità riconducibili allo stesso titolo risarcitorio.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
201
condivisibile, neppure contestata dalle parti,
dalla quale il Giudicante non ha motivo di
discostarsi in quanto frutto di un iter logico
ineccepibile e privo di vizi, condotto in modo
accurato ed in continua aderenza ai documenti
agli atti ed allo stato di fatto analizzato.
Ha sul punto spiegato il CTU che, dopo
l’intervento chirurgico effettuato presso Villa
Verde, vi è stata una “carenza nella
tempestività della diagnosi e terapia della
mobilizzazione protesica, presente sin dal
1999 ma trattata solo nel non 2003” (pag. 15
perizia), atteso che l’attrice “attese fino a 2003
per procedere alla revisione chirurgica,
espianto ed impianto protesico, che già dal
1999 doveva ritenersi opportuna e non
concretamente evitabile” (pag. 14 perizia).
Ciò detto, occorre verificare se tale ritardo sia
addebitabile a parte convenuta; ed a tale
quesito, ritiene il Giudice debba darsi risposta
positiva.
Infatti, risulta per tabulas che l’attrice, dopo
l’operazione del 1997, è stata visitata a
pagamento presso Betadal dottor Caio almeno
per cinque controlli post operatori (cfr. pag. 8
e 13 perizia), ed almeno in uno di essi, il
18/9/2000, successivamente ai radiogrammi
del 24/5/99 ed 11/9/2000 che rendevano
necessaria ed inevitabile la nuova operazione,
poi effettuata solo nel 2003 (cfr. pag. 8 e 13
perizia).
Tanto premesso, era onere della Casa di Cura
provare di avere correttamente adempiuto alla
propria obbligazione tramite il tempestivo
suggerimento alla Marciani di sottoporsi al
nuovo intervento chirurgico.
Infatti, secondo la giurisprudenza da anni
consolidata, il rapporto che si instaura tra
paziente e casa di cura ha natura contrattuale, e
la responsabilità contrattuale della casa di cura
nei confronti del paziente può conseguire, ai
sensi dell’art. 1218 c.c., all’inadempimento
delle obbligazioni direttamente a suo carico,
nonché, in virtù dell’art. 1228 c.c.,
all’inadempimento della prestazione medico-
professionale svolta direttamente dal sanitario,
quale suo ausiliario necessario pur in assenza
di un rapporto di lavoro subordinato,
comunque sussistendo un collegamento tra la
prestazione da costui effettuata e la sua
organizzazione aziendale, non rilevando in
contrario al riguardo la circostanza che il
sanitario risulti essere anche ‘di fiducia’ dello
stesso paziente, o comunque dal medesimo
scelto (Cass. n. 24742/2008, Cass. n.
13953/2007, Cass. n. 23918/2006, Cass. n.
1698/2006, Cass. n. 571/2005, Cass. n.
13066/2004).
Detto della responsabilità contrattuale della
Casa di Cura anche per l’attività del medico,
l’applicazione del principio posto in termini
Delta da Cass. Sez. Un. n. 13533/2001 in tema
di responsabilità contrattuale alla
responsabilità medica, porta a ritenere che il
paziente deve provare l’esistenza del contratto
e l’aggravamento della situazione patologica,
restando a carico dell’ente ospedaliero la prova
che la prestazione professionale è stata
eseguita in modo diligente e che gli esiti
peggiorativi sono stati determinati da un
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
202
evento imprevisto e imprevedibile (Cass. Sez.
Un. n. 577-581/2008169; conforme la
successiva Cass. n. 10743/2009).
169 La massima – estratta da Altalex Massimario, 3, 2008 – così recita: anche allorché sia proposta domanda di condanna generica al risarcimento del danno, da liquidarsi in separato giudizio, il convenuto, che assuma che il proprio debito sia in tutto o in parte prescritto, ha l'onere di sollevare la relativa eccezione in tale giudizio nei termini di legge a pena di decadenza e non nel successivo giudizio di liquidazione del danno; il giudice di primo grado ha l'obbligo di decidere su tale eccezione, che integra una preliminare di merito, per cui l'eventuale sussistenza della prescrizione fa venir meno ogni interesse della parte all'accertamento dell'esistenza del diritto azionato.
Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre, non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione che produce il danno altrui o dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, ma dal momento in cui viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l'ordinaria oggettiva diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche.
L’onere della prova della provenienza del sangue utilizzato e dei controlli eseguiti grava non solo sul danneggiato, ma anche sulla struttura sanitaria che dispone per legge o per regola tecnica della documentazione sulla “tracciabilità” (c.d. principio della vicinanza alla prova).
Non può riconoscersi la responsabilità per omissione quando il comportamento omesso, ove anche fosse stato tenuto, non avrebbe comunque impedito l'evento prospettato: la responsabilità non sorge non perché non vi sia stato un comportamento antigiuridico (l'omissione di un comportamento dovuto è di per sé un comportamento antigiuridico), ma perchè quell'omissione non è causa del danno lamentato. Il giudice pertanto è tenuto ad accertare se l'evento sia ricollegabile all'omissione (causalità omissiva) nel senso che esso non si sarebbe verificato se (causalità ipotetica) l'agente avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli, con esclusione di fattori alternativi. L'accertamento del rapporto di causalità ipotetica passa attraverso l'enunciato "controfattuale" che pone al posto dell'omissione il comportamento alternativo dovuto, onde verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato. Si deve quindi ritenere che i principi generali che regolano la causalità di fatto sono anche in materia civile quelli delineati dagli artt. 40 e 41 c.p e dalla "regolarità causale", in assenza di altre norme nell'ordinamento in tema di nesso eziologico ed integrando essi principi di tipo logico e conformi a massime di esperienza.
Tali norme, però, vanno adeguate alla specificità della responsabilità civile, rispetto a quella penale, perché muta la regola probatoria: mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”, nel processo civile vige la regola della preponderanza dell’evidenza, o del “più probabile che non”.
Sul Ministero grava un obbligo di controllo e di vigilanza in materia di impiego di sangue umano per uso terapeutico (emotrasfusioni o preparazione di emoderivati) anche strumentale alle funzioni di programmazione e coordinamento in materia sanitaria, affinchè venga utilizzato sangue non infetto, con la conseguenza che, un’eventuale omissione, giustifica una piena responsabilità civile.
Ciò, nel caso di specie, non è avvenuto, atteso
che parte convenuta non ha provato, ed in
realtà nemmeno dedotto o quantomeno offerto
di provare, di avere diligentemente adempiuto
la propria obbligazione tramite la
segnalazione, quantomeno a partire dalla vista
del 18/9/2000, della necessità di un immediato
intervento chirurgico.
Consegue la sussistenza della dedotta
responsabilità medica per ritardo diagnostico e
l’inadempimento di parte convenuta alle
obbligazioni assunte nei confronti dell’attrice.
…omissis…
Pertanto, sulla base dei parametri liquidatori
cd. del Tribunale di Milano aggiornati
all’attualità - che qui si intendono applicare in
quanto condivisibili ed adeguati, e comunque
ritenuti dalla stessa Suprema Corte il metro
della corretta liquidazione del danno non
patrimoniale (in questi termini Cass. n.
12408/2011170, nella sostanza confermata e
ribadita dalle successive Cass. n. 14402/2011,
170 La massima – estratta da Altalex Massimario, 24, 2011 - così recita: in tema di scontro tra veicoli e di applicazione dell'art. 2054 c.c., l'accertamento in concreto della colpa di uno dei conducenti non comporta di per sè il superamento della presunzione di colpa concorrente dell'altro non può essere inteso nel senso che, anche quando questa prova non sìa in concreto possibile e sia positivamente accertata la responsabilità di uno dei conducenti per avere tenuto una condotta in sé del tutto idonea a cagionare l'evento, l'apporto causale colposo dell'altro conducente debba essere, comunque, in qualche misura riconosciuto.
Poiché l'equità va intesa anche come parità di trattameneo, la liquidazione del danno non patrimoniale alla persona da lesione dell'integrità psico-fisica presuppone l'adozione da parte di tutti i giudici di merito di parametri di valutazione uniformi che, in difetto di previsioni normative (come l'art. 139 del codice delle assicurazioni private, per le lesioni di lieve entità conseguenti alla sola circolazione dei veicoli a motore e dei natanti), vanno individuati in quelli tabellari elaborati presso il tribunale di Milano, da modularsi a seconda delle circostanze del caso concreto.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
203
Cass. n. 17789/2011, Cass. n.
2228/2012,Cass.n. 12464/2012, Cass. n.
19376/2012, Cass. n. 134/2013) - tenuto conto
di un’età di 73 anni al momento dell’errore
medico nel 1999, spetta a parte attrice un
complessivo risarcimento per danno non
patrimoniale, già comprensivo delle sofferenze
biologiche, morali ed esistenziali, di € 21.027
(ed in particolare, € 18.827 per danno
biologico permanente del 10%; sulla base
teorica di euro 110 giornaliere per ITT, somma
ricompresa tra quella minima di 91 e massima
di 136, € 2.200 per 60 giorni di ITP al 33%).
Su tale somma capitale, che integra
all’evidenza un debito di valore in quanto
posta risarcitoria, così come da domanda ed in
base ai principi Delta, vanno riconosciuti,
secondo la pacifica giurisprudenza,
rivalutazione ed interessi sulla somma stessa
via via rivalutata, dalla data del fatto, id est il
1999, al saldo. Tuttavia, essendo la somma
capitale già calcolata all’attualità ed in ragione
della difficoltà di procedere alla devalutazione,
in piena aderenza all’insegnamento dalla
Suprema Corte, gli interessi possono essere
calcolati sulla somma integralmente rivalutata,
ma da un momento intermedio tra il fatto e la
sentenza, id est il 1/1/2006.
c) Detto della condanna, nei termini di cui
supra, di parte convenuta, deve ora muoversi
all’esame delle posizioni dei terzi chiamati e
delle relative domande di manleva proposte
nei loro confronti.
Sul punto, va innanzitutto evidenziato che,
così come correttamente evidenziato dalla
difesa del Caio sin da pagina 6 della propria
comparsa di risposta, nessuna domanda di
manleva, garanzia o regresso, è stata proposta
dalla convenuta nei confronti del medico,
essendosi la difesa della Casa di Cura
singolarmente limitata a ritenere la causa “a
lui comune”, ma non avendo nei suoi
confronti spiegato alcuna domanda (cfr.
comparsa di risposta e citazione del terzo),
atteso che l’unica domanda di manleva
formulata è quella nei confronti delle
assicurazioni (cfr. nuovamente citazione del
terzo).
Pertanto, nonostante l’istruttoria abbia
comprovato la sua responsabilità medica per
ritardo diagnostico, nessuna statuizione di
condanna può essere effettuata nei confronti
del dottor Caio, atteso che, in ragione di
quanto sopra, l’attrice ha solo tardivamente
proposto domanda di condanna verso di lui, e
la convenuta non ha mai svolto nei suoi
confronti domanda di regresso.
d) Resta da esaminare le posizioni delle
assicurazioni, con riferimento alla domanda di
manleva proposta dalla Casa di Cura Villa
Verde.
In proposito, va innanzitutto evidenziato che la
difesa di parte convenuta, in sede di
precisazione delle conclusioni, si è riportata
solamente alla propria comparsa di risposta.
Ciò comporta che l’unica domanda di manleva
che deve essere analizzata è quella formulata,
per l’appunto in comparsa di risposta, nei
confronti della Alfa Assicurazioni, non
potendosi statuire sulle ulteriori domande
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
204
inizialmente proposte nei confronti delle
presunte coassicurazioni, in quanto formulate
nell’atto di citazione del terzo le cui
conclusioni non sono state richiamate in sede
di udienza di precisazione.
Quanto sopra, all’evidenza, consente di
ritenere assorbite le difese di merito svolte da
Gamma, Delta, Gamma, che hanno resistito in
rito e nel merito, per il dirimente rilievo che,
come detto, nessuna conclusione risulta verso
di loro proposta.
e) Ribadito che l’unica domanda di manleva
conclusivamente proposta è allora quella verso
Alfa, la domanda stessa è solo parzialmente
fondata.
In proposito, va innanzitutto disattesa
l’eccezione di prescrizione sollevata dalla Alfa
sin dalla comparsa di risposta e reiterata in
tutti i successivi atti, relativa alla pretesa
prescrizione del diritto risarcitorio azionato da
parte attrice, per il decorso di cinque anni
previsto in tema di responsabilità
extracontrattuale. Sul punto, basta osservare
che, diversamente da quanto opinato dalla
difesa della terza chiamata e così come invece
chiarito dalla giurisprudenza da anni pacifica
sul punto e più sopra citata, la responsabilità
medica rientra nell’alveo della responsabilità
contrattuale, e pertanto la prescrizione è
decennale e non già quinquennale.
L’eccezione di prescrizione, quindi, è
manifestamente infondata, riferendosi i fatti
per cui è processo al periodo 1997-1999 ed
essendo la causa stata promossa nel 2005.
Nel merito della domanda di garanzia, si
evidenzia che, sulla base della polizza prodotta
agli atti, Alfa assicura solo il 40% del danno, e
pertanto, in ragione dell’articolo 1911 c.c.,
essa è tenuta a rispondere nei confronti
dell’assicurato solo per tale quota, con
detrazione di una franchigia contrattuale pari
al 10% delle somme dovute e con un minimo
di lire 5 milioni (cfr. all. 2 fascicolo di parte
convenuta).
Discende che, solo in tali limiti è accoglibile la
domanda di garanzia formulata da parte
convenuta verso Alfa Assicurazioni, che dovrà
quindi essere condannata a rifondere a Casa di
Cura Beta il 40% di quanto pagato a Clelia
Marciani, in dipendenza della presente
sentenza, per somma capitale, interessi,
rivalutazione spese di lite, con una franchigia
pari al 10% e con un minimo di lire 5 milioni
di lire, pari ora ad € 2.582,29.
f) Circa le spese di lite, occorre distinguere tra
i vari rapporti processuali.
Nei rapporti tra attore e convenuta, non vi
sono motivi per derogare ai principi Delta
codificati dall’art. 91 c.p.c., e pertanto le
spese, liquidate come da dispositivo in assenza
di nota e con riferimento al D.M. n. 140/2012,
in ragione della previsione di retroattività
posta dal suo articolo 41 ed atteso che l’attività
degli avvocati si è esaurita dopo la
caducazione delle tariffe il 23/7/2012 (cfr.
Cass. Sez. Un. nn. 17405171-6/2012, Cass. n.
171 La massima - estratta da Altalex Massimario, 4, 2013 - così recita: in tema di spese processuali, agli effetti dell'art. 41 del D.M. 20 luglio 2012, n. 140, il quale ha dato attuazione all'art. 9,
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
205
18920/2012), sono poste a carico della
soccombente parte convenuta ed a favore della
vittoriosa parte attrice, tenendo a mente il
valore medio per ciascuna delle quattro fasi di
studio, di introduzione, istruttoria e decisoria,
con riferimento peraltro al decisum e non già
al disputatum.
Allo stesso modo, anche nei rapporti tra
convenuta e terza chiamata Alfa Assicurazioni,
non vi sono motivi per derogare ai principi
Delta codificati dall’art. 91 c.p.c., e pertanto le
spese sono poste a carico della soccombente
terza chiamata ed a favore della vittoriosa
parte convenuta, sempre tenendo a mente il
valore medio delle quattro fasi, con
riferimento al decisum e non già al disputatum.
Possono invece essere compensate le spese di
lite del dottor Caio, rinvenendosi i giusti
motivi di cui all’articolo 92 comma 2 c.p.c.
ratione temporis vigente, nel fatto che le
domande nei suoi confronti sono state rigettate
solo per motivi procedurali, mentre risulta
dalla CTU che …omissis…
rinvenendosi i giusti motivi di cui all’articolo
92 comma 2 c.p.c. ratione temporis vigente,
sia nel fatto che la domanda nei loro confronti
è stata rigettata per motivi procedurali; sia
co. 2, del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito in L. 24 marzo 2012, n. 27, i nuovi parametri, cui devono essere commisurati i compensi dei professionisti in luogo delle abrogate tariffe professionali, sono da applicare ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, ancorché tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta quando ancora erano in vigore le tariffe abrogate, evocando l'accezione omnicomprensiva di "compenso" la nozione di un corrispettivo unitario per l'opera complessivamente prestata.
altresì nel fatto che l’attività difensiva si è
svolta con un’unica comparsa di risposta,
redatta dallo stesso difensore che ha curato la
difesa di Alfa.
Le spese di CTU, già liquidate in corso di
causa, possono essere definitivamente poste a
carico di Alfa Assicurazioni, sostanzialmente e
conclusivamente soccombente nella presente
controversia.
Si dà atto che il presente fascicolo è per la
prima volta pervenuto a questo Giudice,
trasferito al Tribunale di Reggio Emilia il
11/4/2012, all’udienza del 21/3/2013, ed in
tale udienza è stato deciso con sentenza
contestuale ex art. 281 sexies c.p.c.
P.Q.M.
il Tribunale di Reggio Emilia in composizione
monocratica
definitivamente pronunciando, nel
contraddittorio tra le parti, ogni diversa istanza
disattesa
- dichiara inammissibile la domanda di
condanna formulata da Tizia verso Tiziano
Caio;
- condanna Casa di Cura Privata Beta a
pagare a Tizia € 21.027, oltre interessi
legali dal 1/7/2006 al saldo;
- condanna Alfa Assicurazioni a rifondere a
Casa di Cura Privata Beta il 40% di quanto
pagato a Tizia in dipendenza della
presente sentenza per somma capitale,
interessi, rivalutazione e spese di lite, con
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
206
una franchigia del 10% ed una misura
minima di tale franchigia in € 2.582,29;
- condanna Casa di Cura Privata Beta a
rifondere a Tizia le spese di lite del
presente giudizio, che liquida in € 550 per
rimborsi, € 2.500 per compensi, oltre IVA
e CPA come per legge;
- condanna Alfa Assicurazioni s.p.a. a
rifondere a Casa di Cura Privata Beta le
spese di lite del presente giudizio, che
liquida in € 50 per rimborsi, € 2.500 per
compensi, oltre IVA e CPA come per
legge;
- compensa le spese di lite di Caio Tiziano,
Gamma Assicurazioni s.p.a., Delta
Assicurazioni s.p.a. ed Gamma
Assicurazioni s.p.a.;
- pone le spese di CTU, già liquidate in
corso di causa, definitivamente a carico di
Alfa Assicurazioni s.p.a.
Reggio Emilia, 3/4/2013
Il Giudice
dott. Gianluigi MORLINI
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
207
.
Massima
I presupposti, legittimanti la notificazione a norma dell’art. 143 c.p.c.,
non sono solo il dato soggettivo dell’ignoranza, da parte del
richiedente o dell’ufficiale giudiziario, circa la residenza, la dimora o
il domicilio del destinatario dell’atto, né il mero possesso del
certificato anagrafico, dal quale risulti il destinatario stesso trasferito
per ignota destinazione, essendo anche richiesto che la condizione di
ignoranza non sia superabile attraverso le indagini possibili nel caso
concreto, da compiersi ad opera del mittente con l’ordinaria diligenza.
Il quesito pertanto non coglie nel segno laddove individua una
legittimazione alla notifica con il rito degli irreperibili acquisibile solo
per effetto dell’esperimento infruttuoso delle citate forme di notifica.
Notificazione agli irreperibili: bisogna andare a “chi l’ha visto?”
Sentenza Cassazione Civile,
Sentenza n. 3071/2013
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
208
LA SENTENZA PER ESTESO
Corte di Cassazione, sezione prima,
sentenza del 8.2.2013, n. 3071
Svolgimento del processo
…omissis…
7. Va in primo luogo riscontrata la regolarità
della notifica del ricorso per cassazione al Ga.
eseguita il 5 aprile 2012 presso la sua dimora
…omissis…ricevuta dalla sig.ra G. R. che si è
dichiarata addetta alla casa.
8. Con il primo motivo di ricorso si deduce
omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione circa un punto decisivo della
controversia in relazione agli artt. 101(1), 116,
210 c.p.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.). Secondo la
ricorrente la Corte di appello avrebbe reso una
motivazione contraddittoria in ordine al
proposto motivo di appello concernente la
nullità della notificazione del ricorso
introduttivo del giudizio di primo grado.
9. Il motivo è inammissibile. In primo luogo
perché sfornito della sintesi richiesta a pena di
inammissibilità dall'art. 366 bis c.p.c., nel testo
applicabile ratione temporis alla controversia,
al fine di individuare con chiarezza il fatto
controverso, in relazione al quale la
motivazione si assume omessa o
contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali
la dedotta insufficienza della motivazione la
renderebbe inidonea a giustificare la decisione.
Inoltre deve rilevarsi come la motivazione
venga contestata dalla ricorrente proprio con
riferimento alle ragioni che hanno portato la
Corte di appello ad affermare la regolarità
della notificazione ex art. 143 c.p.c. (2) sulla
base di una interpretazione di quest'ultima
norma che la ricorrente contesta. Anche sotto
questo profilo il motivo di ricorso appare
inammissibile, per erronea individuazione
della tipologia del vizio. Infatti il motivo di
ricorso per cassazione col quale si censura
come vizio di motivazione un errore in cui si
assume che sia incorso il giudice di merito
nell'interpretazione della norma di diritto
rilevante nella fattispecie attiene a un vizio che
deve essere denunciato ai sensi del numero 3
dell'art. 360 c.p.c.(cfr. Cass. Civ., sezione
terza, n. 7267 dell'11.05. 2012(3)).
10. Con il secondo motivo di ricorso si deduce
violazione e falsa applicazione degli artt. 116 e
143 c.p.c. e 2697 c.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.). La
ricorrente sottopone alla Corte i seguenti
quesiti di diritto relativamente alla violazione
dell'art. 143 c.p.c.: a) se l'art. 143 c.p.c. deve
essere interpretato nel senso che si possa
ricorrere alla notificazione ex art. 143 c.p.c.
solo dopo che la stessa sia stata effettuata ai
sensi dell'art. 139 c.p.c. e, ove ricorrano i
presupposti previsti dall'art. 140 dello stesso
codice, eventualmente nei modi stabiliti da
questa norma; b) se l'art. 143 c.p.c. deve essere
interpretato nel senso che il ricorso alla
notificazione ex art. 143 c.p.c. per le persone
irreperibili può considerarsi rituale e legittimo
soltanto se il notificante dimostri che,
nonostante l'impiego della normale diligenza e
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
209
le informazioni raccolte in rapporto al caso
concreto, non sia riuscito ad individuare il
luogo di nuova residenza del destinatario
dell'atto e nel senso che l'ufficiale giudiziario,
dopo aver svolto tutte le ricerche che la
situazione impone, deve darne atto nella sua
relazione, a pena di nullità. Per quanto
concerne la violazione degli artt. 2697 (4) c.c.,
116 c.p.c. in relazione all'art. 143 c.p.c, la
ricorrente formula il seguente quesito di
diritto: c) se allorché la notificazione non sia
avvenuta a mani del destinatario, ma ex art.
143 c.p.c., la prova della sussistenza dei
relativi presupposti in caso di contestazione
spetti al notificante. 11. Quanto al primo
quesito occorre richiamare la giurisprudenza di
questa Corte (recentemente, Cass. Civ. sezione
prima, n. 20971 del 27.11.2012(5)) secondo
cui i presupposti, legittimanti la notificazione a
norma dell'art. 143 c.p.c., non sono solo il dato
soggettivo dell'ignoranza, da parte del
richiedente o dell'ufficiale giudiziario, circa la
residenza, la dimora o il domicilio del
destinatario dell'atto, né il mero possesso del
certificato anagrafico, dal quale risulti il
destinatario stesso trasferito per ignota
destinazione, essendo anche richiesto che la
condizione di ignoranza non sia superabile
attraverso le indagini possibili nel caso
concreto, da compiersi ad opera del mittente
con l'ordinaria diligenza. Il quesito pertanto
non coglie nel segno laddove individua una
legittimazione alla notifica con il rito degli
irreperibili acquisibile solo per effetto
dell'esperimento infruttuoso delle citate forme
di notifica.
12. Il secondo quesito di diritto è coerente alla
giurisprudenza di legittimità citata nel
precedente s punto ma appare astratto in
riferimento al caso in esame. Sia perché la
ricorrente non fa riferimento alla circostanza
emergente dalla motivazione della sentenza di
primo grado secondo cui la difesa del Ga. esibì
al giudice la copia del ricorso notificato ex art.
143 c.p.c. e il giudice ritenne regolare tale
notifica. Sia perché nel suo atto di appello la
ricorrente non ha fornito alcuna indicazione
specifica, come ha sottolineato nella sua
motivazione la Corte di appello, in ordine alle
circostanze che avrebbero dovuto portare il
giudice di secondo grado a ritenere che il
notificante dell'atto introduttivo del giudizio
non avesse impiegato la normale diligenza al
fine di acquisire le informazioni utili, in
rapporto al caso concreto, per individuare il
suo luogo di nuova residenza.
13. Il terzo quesito è anch'esso coerente alla
giurisprudenza di legittimità e, nello stesso
tempo e per le stesse ragioni del precedente, si
presenta astratto rispetto alla specifica
controversia in esame, nella quale il giudizio è
stato introdotto con atto di citazione ritenuto
notificato regolarmente dal giudice di primo
grado ai sensi dell'art. 143 c.p.c. mentre la
contestazione, in merito alla sussistenza dei
presupposti per il ricorso alla notifica ex art.
143 c.p.c., è stata ritenuta dal giudice
dell'appello generica e sfornita delle
indicazioni necessarie per poter effettuare il
necessario controllo sul dedotto difetto di
diligenza nella ricerca del luogo di nuova
residenza della Ga. presso il quale sarebbe
stato possibile notificare utilmente l'atto
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
210
introduttivo del giudizio. Per altro verso la
Corte di appello ha messo in rilievo una serie
di circostanze che non le hanno consentito di
presumere la facilità di tali ricerche, al fine di
una eventuale integrazione, con dati di comune
esperienza, o di specifica emergenza implicita,
della genericità della contestazione della
appellante. Ne deriva che la pretesa inversione
dell'onere della prova non caratterizza la
decisione impugnata.
14. Con il terzo motivo di ricorso la ricorrente
deduce la violazione e falsa applicazione
dell'art. 6 della Convenzione Europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e degli artt.
21-22 del regolamento del Consiglio
dell'Unione Europea n. 2201/2003 in relazione
all'art. 354 c.p.c. (art. 360 n. 3 c.p.c). La
ricorrente sottopone alla Corte i seguenti
quesiti di diritto: a) se in mancanza di prove
certe che la contumacia sia dovuta al desiderio
di un soggetto di non comparire e non
difendersi, allo stesso debba essere garantita la
possibilità che un organo giurisdizionale
giudichi nuovamente; b) se l'uso della
procedura di notificazione a persone
irreperibili, senza che ne sussistessero le
effettive condizioni, comporta la violazione
della C.E.D.U. per l'impossibilità di godere di
un effettivo diritto di difesa. Il motivo è
infondato perché i principi affermati dalla
ricorrente come espressivi della Convenzione
E.D.U. e del regolamento Euro/unitario
(indefettibilità del controllo della regolare
formazione del contraddittorio e
conseguentemente della conoscenza della
editio actionis da parte del soggetto chiamato a
contraddire in giudizio) sono in realtà, ancor
prima, principi propri del nostro ordinamento
costituzionale e processuale civile, sicché la
ricorrente altro non fa attraverso i citati quesiti
che dare apoditticamente per scontato che
nella specie non si sarebbe dovuta pronunciare
la sua contumacia in primo grado perché non
sussistevano i presupposti per il ricorso alla
notificazione ex art. 143 c.p.c..
15. Per tutti questi motivi il ricorso va respinto
senza alcuna statuizione sulle spese del
giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
1 Per approfondimenti: BALENA, Istituzioni di
diritto processuale civile, I, I principi, Bari 2009;
CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale
civile, I, Padova, 2008; FAZZALARI, Istituzioni di
diritto processuale, Padova, 1992; FERRI,
Sull'effettività del contraddittorio, in Riv. Trim.
Dir. Proc. Civ., 1988, 780.
2 Per approfondimenti in dottrina: BALENA,
Notificazioni e Comunicazioni, in Digesto, XII,
Torino, 1995, 259;CAPONI, Sulla legittimazione
dell'ufficiale giudiziario a notificare il ricorso per
cassazione a mezzo del servizio postale, nota a
Cassazione civile 11140/2004, in Foro it., 2004, I;
PUNZI, La notificazione degli atti nel processo
civile, Milano, 1959; PUNZI, Notificazione (diritto
processuale civile), in Enc. Dir., XXVIII, Milano,
1978, 641; VERDE, Profili del processo civile,
Napoli, 1991; STAIANO, sub art. 143 c.p.c., in
VIOLA (a cura di), Codice di procedura civile,
Padova, 2013.
3 La massima così recita: è inammissibile, per
erronea individuazione della tipologia del vizio, il
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
211
motivo di ricorso per cassazione col quale si
censura come vizio di motivazione un errore in cui
si assume che sia incorso il giudice di merito
nell'interpretazione della norma di diritto rilevante
nella fattispecie, trattandosi di vizio che deve
essere denunciato ai sensi del numero 3 dell'art.
360 c.p.c.
4 Così recita: chi vuol far valere un diritto in
giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il
fondamento. Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti
ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o
estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si
fonda.
5 La massima così recita: i presupposti,
legittimanti la notificazione a norma dell'art. 143
c.p.c., non sono solo il dato soggettivo
dell'ignoranza, da parte del richiedente o
dell'ufficiale giudiziario, circa la residenza, la
dimora o il domicilio del destinatario dell'atto, né
il mero possesso del certificato anagrafico, dal
quale risulti il destinatario stesso trasferito per
ignota destinazione, essendo anche richiesto che la
condizione di ignoranza non sia superabile
attraverso le indagini possibili nel caso concreto,
da compiersi ad opera del mittente con l'ordinaria
diligenza. A tal fine, la relata di notificazione fa
fede, fino a querela di falso, circa le attestazioni
che riguardano l'attività svolta dall'ufficiale
giudiziario procedente e limitatamente ai soli
elementi positivi di essa, mentre non sono assistite
da pubblica fede le attestazioni negative, come
l'ignoranza circa la nuova residenza del
destinatario della notificazione
Notificazione agli irreperibili: annotazione alla sentenza 3071/2013 della Cassazione
Civile.
di Diana Salonia172
Sommario: 1. Il caso oggetto della sentenza
2. L'analisi delle questioni rilevanti: notifica
agli irreperibili 2.1. Validità della
notificazione
1. Il caso oggetto della sentenza
Nel caso in oggetto la sig.ra E. G. impugnava
la sentenza di primo grado, con la quale il
Tribunale di Roma aveva pronunciato la
cessazione degli effetti civili del matrimonio,
eccependo di non aver ricevuto alcuna notizia
del giudizio di divorzio, poichè l'atto
introduttivo era stato notificato ex art. 143
c.p.c. sulla base dell'esito negativo delle mere
ricerche anagrafiche. La Corte di Appello
adita, però, respingeva il gravame, sostenendo
la regolarità della notifica ex art. 143 c.p.c.
dell'atto introduttivo del giudizio di primo
grado.
Pertanto la sig.ra E. G. ricorreva alla Corte di
Cassazione affidandosi a tre motivi di
impugnazione.
In particolare, con il secondo motivo di ricorso
la ricorrente sottoponeva alla Corte i seguenti
quesiti di diritto relativamente alla violazione
dell'art. 143 c.p.c.: a) se l'art. 143 c.p.c. doveva
essere interpretato nel senso che si possa
ricorrere alla notificazione ex art. 143 c.p.c.
solo dopo che la stessa sia stata effettuata ai
sensi dell'art. 139 c.p.c. e, ove ricorrano i
172 Avvocato, Studio Legale Salonia, Siracusa. Redazione de La Nuova Procedura Civile.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
212
presupposti previsti dall'art. 140 dello stesso
codice, eventualmente nei modi stabiliti da
questa norma; b) se l'art. 143 c.p.c. doveva
essere interpretato nel senso che il ricorso alla
notificazione ex art. 143 c.p.c. per le persone
irreperibili possa considerarsi rituale e
legittimo soltanto se il notificante dimostri
che, nonostante l'impiego della normale
diligenza e le informazioni raccolte in rapporto
al caso concreto, non sia riuscito ad
individuare il luogo di nuova residenza del
destinatario dell'atto e nel senso che l'ufficiale
giudiziario, dopo aver svolto tutte le ricerche
che la situazione impone, debba darne atto
nella sua relazione, a pena di nullità. Per
quanto concerne la violazione degli artt. 2697
c.c., 116 c.p.c. in relazione all'art. 143 c.p.c, la
ricorrente formulava il seguente quesito di
diritto: c) se allorché la notificazione non fosse
avvenuta a mani del destinatario, ma ex art.
143 c.p.c., la prova della sussistenza dei
relativi presupposti in caso di contestazione
spettasse al notificante.
Investita dell’intera questione, la Cassazione
anzitutto richiamava il consolidato e
indiscutibile principio secondo cui i
presupposti legittimanti la notificazione a
norma dell'art. 143 c. p.c. non sono solo il dato
soggettivo dell'ignoranza, da parte del
richiedente o dell'ufficiale giudiziario, circa la
residenza, la dimora o il domicilio del
destinatario dell'atto, né il mero possesso del
certificato anagrafico, dal quale risulti il
destinatario stesso trasferito per ignota
destinazione, essendo anche richiesto che la
condizione di ignoranza non sia superabile
attraverso le indagini possibili nel caso
concreto, da compiersi ad opera del mittente
con l'ordinaria diligenza.
Tuttavia, riteneva che i quesiti posti dalla
ricorrente presentavano carattere di astrattezza
rispetto al caso concreto, dal momento che il
giudizio era stato introdotto con atto di
citazione ritenuto notificato regolarmente dal
Giudice di primo grado ai sensi dell'art. 143
c.p.c..
Invero, la Suprema Corte rilevava che la
ricorrente non aveva fatto riferimento alla
circostanza emergente dalla motivazione della
sentenza di primo grado secondo cui la difesa
del sig. Ga. aveva esibito al Giudice la copia
del ricorso notificato ex art. 143 c.p.c. e il
Giudice aveva ritenuto regolare tale notifica.
Inoltre, nel suo atto di appello la ricorrente non
aveva fornito alcuna indicazione specifica in
ordine alle circostanze che avrebbero dovuto
portare il Giudice di secondo grado a ritenere
che il notificante dell'atto introduttivo del
giudizio non avesse impiegato la normale
diligenza al fine di acquisire le informazioni
utili, in rapporto al caso concreto, per
individuare il suo luogo di nuova residenza.
Per altro verso la Corte di Appello aveva
messo in rilievo una serie di circostanze che
non le avevano consentito di presumere la
facilità di tali ricerche, al fine di una eventuale
integrazione, con dati di comune esperienza, o
di specifica emergenza implicita, della
genericità della contestazione della appellante.
Di conseguenza la pretesa inversione
dell'onere della prova non poteva
caratterizzare la decisione impugnata.
Il ricorso proposto veniva, dunque, respinto.173
173 Cass. Civ. n. 3071/13.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
213
2. L'analisi delle questioni rilevanti: notifica
agli irreperibili
A norma dell'art. 143 c.p.c. se non sono
conosciuti la residenza, la dimora e il
domicilio del destinatario e non vi è il
procuratore previsto nell'articolo 77 c.p.c.,
l'ufficiale giudiziario esegue la notificazione
mediante deposito di copia dell'atto nella casa
comunale dell' ultima residenza o, se questa è
ignota, in quella del luogo di nascita del
destinatario174 . Se non sono noti né il luogo
dell'ultima residenza né quello di nascita,
l'ufficiale giudiziario consegna una copia
dell'atto al pubblico ministero.
Tuttavia, mentre per il notificante la notifica si
perfeziona al momento dell’affidamento
dell’atto all’ufficiale giudiziario, per il
destinatario la notifica si ha per eseguita solo
dopo venti giorni dal compimento delle dette
formalità prescritte dalla legge.
Invero, lo sfasamento tra il momento di
perfezionamento della notifica e quello della
sua efficacia è un principio generale posto a
tutela del destinatario che trova applicazione in
tutto il settore delle notificazioni degli atti nel
processo civile.
Ebbene, si può allora affermare che i
presupposti che giustificano l’applicazione
dell’art. 143 c.p.c. sono essenzialmente due:
3) deve trattarsi di notificazione a
persona di cui si ignori la residenza, la
dimora e il domicilio;
4) non deve esserci un procuratore del
174 Il d. lgs. 196/03 (Testo Unico sulla privacy) ha soppresso, tra gli adempimenti necessari, quello di eseguire la notificazione mediante affissione di altra copia nell’albo dell’ufficio giudiziario davanti al quale si procede.
destinatario dell’atto, previsto dall’art.
77 c.p.c..
Ma quando si può escludere una “ignoranza
colpevole” del recapito del destinatario?
A tal proposito giurisprudenza e dottrina
affermano che la semplice ignoranza
“soggettiva” della parte o dell’ufficiale
giudiziario, intesa quale mancata conoscenza
della residenza, della dimora o del domicilio
del destinatario dell’atto, o, ancora, il possesso
del solo certificato anagrafico dal quale risulti
che il destinatario è trasferito per ignota
destinazione, non sono condizioni legittimanti
la notificazione ex art. 143 c.p.c., ma
l’ignoranza deve essere “oggettiva” e non
superabile attraverso le indagini possibili, nel
caso concreto, suggerite dalla ordinaria
diligenza, le quali debbono risultare dalla
stessa relazione dell’ufficiale notificatore.
Il che equivale a dire che l'ufficiale giudiziario
deve, preliminarmente, accedere
concretamente nel luogo di ultima residenza
nota, al fine - fra l'altro - di attingere, anche
nell'ipotesi di riscontrata assenza di addetti o
incaricati alla ricezione della notifica,
comunque eventuali notizie utili in ordine alla
residenza attuale del destinatario della
notificazione.175
Inoltre, deve essere provato che le indagini
compiute da chi ha domandato la notificazione
non sono fondate solo sulle risultanze
anagrafiche, ma sono state ampliate anche con
accertamenti e informazioni sul reale avvenuto
trasferimento di detto destinatario in luogo
sconosciuto, ovvero su quale sia questo, dopo
175 Cass. Civ. n. 18385/03.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
214
l'inutile tentativo dell'ufficiale giudiziario di
eseguire la notifica all'indirizzo indicato.176
Nel delineato concetto di normale diligenza,
oltre all'esperimento di rituali ricerche
anagrafiche, rientra anche il compimento di
indagini presso il portiere dello stabile di
originaria residenza e il tentativo di notifica
presso la madre del notificando.177
E’ doveroso, tuttavia, precisare che l’ordinaria
diligenza del notificante non può spingersi
fino al compimento di qualunque indagine
astrattamente idonea a tal fine: pertanto
quando il destinatario risulti aver
definitivamente abbandonato la residenza
anagrafica e non sia possibile conoscerne la
nuova, non può ritenersi che la "normale
diligenza" debba tradursi in una ulteriore
infinita ricerca in qualunque altra possibile
località.178 Altresì restano escluse dal concetto
di diligenza le indagini che richiedano spese
eccessive e attese di estenuante durata così
come la ricerca telefonica, previa
consultazione dell'apposito elenco, tra plurime
omonimie che dovessero, all'esito,
presentarsi.179
Ai fini della verifica del grado di diligenza
impiegato, occorre che l'ufficiale giudiziario
indichi nella relata le ricerche e le indagini
compiute per accertare la residenza del
destinatario, dando contezza dell' attività in
concreto svolta e delle informazioni raccolte in
176 Cass. Civ. n. 7964/08.
177 Cass. Civ. n. 6618/97.
178 Cass. Civ. n. 540/00.
179 Cass. Civ. n. 6618/97.
relazione al caso concreto.
La relata di notificazione fa fede fino a querela
di falso per le attestazioni che riguardano
l'attività svolta dall'ufficiale giudiziario
procedente, limitatamente ai soli elementi
positivi di essa, mentre non sono assistite da
pubblica fede le attestazioni negative, come
l'ignoranza circa la nuova residenza del
destinatario della notificazione.180
2.1. Validità della notificazione
La notificazione eseguita ai sensi dell'art. 143
c.p.c. in difetto delle condizioni che
legittimano l’applicazione della norma è nulla.
Altresì, è nulla la notificazione eseguita ex art.
143 c.p.c., qualora l'ufficiale giudiziario, dopo
aver dato atto nella relata di non aver potuto
notificare l'atto al destinatario, per essere
questo sconosciuto nel luogo di residenza
anagrafica, non fornisca alcuna indicazione in
ordine alle ricerche o indagini compiute per
accertare la nuova residenza o il domicilio del
detto destinatario.181
Occorre, a questo punto, sottolineare che le
ipotesi summenzionate concretano la nullità
ma non l’inesistenza giuridica della
notificazione.
Da ciò derivano importanti conseguenze quali,
ad esempio, l’ obbligo per il Giudice di
disporne il rinnovo, con la fissazione di
apposito termine perentorio, ai sensi dell’art.
291 c.p.c.182, oppure che la nullità della
180 Cass. Civ. n. 6462/07.
181 Cass. Civ. n. 3073/09; 5127/08.
182 Cass. Civ. n. 2909/08.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
215
notifica potrà essere sanata in caso di
costituzione della parte nel processo, in
applicazione del principio del conseguimento
dello scopo dell’atto183.
183 Cass. Civ. n. 8955/06.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
216
.
di
MIRIANA BOSCO
Massima
La consulenza tecnica d’ufficio, anche se non costituisce, in linea di
massima, mezzo di prova, ma strumento per la valutazione della prova
acquisita, tuttavia rappresenta una fonte oggettiva di prova quando si
risolve nell’accertamento di fatti rilevabili unicamente con l’ausilio di
specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche.
La c.t.u. non è mezzo di prova… ma può diventare fonte oggettiva di
prova
Sentenza Cassazione Civile,
Sentenza n. 2663/2013
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
217
LA SENTENZA PER ESTESO
Cassazione civile, sezione terza, sentenza del
5.2.2013, n. 2663
…omissis…
Ed infatti, in tale consulenza ha deviato in
concreto il CTU ispezionando il locus rei
(ovvero l’interno della veranda) alla ricerca di
una possibile causa delle infiltrazioni che
l’attrice nell’atto di citazione del 18/5/2001
aveva fatto consistere nei lavori di
ristrutturazione e trasformazione eseguiti dalla
V. nel proprio immobile, ricollegandosi così al
tenore della raccomandata del 7/9/2000 in cui
aveva prefigurato che le infiltrazioni erano
conseguenza dei lavori di frazionamento
dell’appartamento sovrastante (della V.). E
bensì vero che – pur nella costante condivisa
affermazione che la consulenza non possa
essere un mezzo sostitutivo dell’onus probandi
(ex plurimis Cass. 14/271994 n. 1467) – si
distingue, in giurisprudenza (Cass. Sez. Un.
4/11/1996 n. 9522), la figura del consulente
deducente e del consulente percipiente nel
senso che, nella prima ipotesi, la consulenza
presuppone l’avvenuto espletamento dei mezzi
di prova e ha per oggetto fatti già
completamente provati dalle parti, mentre
nella seconda, essa stessa potrà si costituire
fonte oggettiva di prova, ma anche qui è
sempre necessario che la parte abbia dedotto
quanto meno il fatto che pone a fondamento
della propria domanda di cui il giudice affida
l’accertamento ad un ausiliario in possesso di
cognizioni tecniche che egli non possiede. In
altri termini è in ogni caso ineludibile
l’individuazione del fatto costitutivo della
domanda (la c.d. causa petendi che, in
relazione ai fatti lesivi, si atteggia
propriamente come causa petendi passiva)
devoluto alla cognizione del giudice e che si
riflette, per derivazione, sia sui limiti intrinseci
del mandato conferito al CTU (oltrepassando i
quali si incorrerà nel vizio di extrapetizione
per interpolazione della causa petendi) e,
parallelamente, sull’estensione dell’indagine
del CTU che non può da essi decampare; tanto
più trattandosi di domande eterodeterminate
(come la domanda risarcitoria di cui si discute)
che postulano in apicibus – diversamente dalle
domande autodeterminate – l’identificazione
di un preciso fatto genetico della
responsabilità enunciato nell’atto di citazione.
Ne deriva che la consulenza in discorso,
avendo ecceduto i limiti intrinseci del mandato
risulta inficiata da nullità per la violazione del
principio del contraddicono e, come tale, priva
di efficacia probatoria. In quest’ordine di idee,
il Condominio obietta che la nullità in
questione si sarebbe sanata siccome
tardivamente eccepita ma il rilievo non coglie
nel segno giacchè risulta ex actis che il
procuratore della V. già nella prima udienza
utile a “seguire il deposito dell’elaborato
peritale, eccepì i nuovi fatti costitutivi scaturiti
dall’indagine tecnica ricusando su di essi il
contraddittorio (cfr. verbale del 19/12/2001);
ebbe a ribadire l’eccezione nella successiva
udienza del 27/2/2003 e infine la ripropose in
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
218
sede di precisazione delle conclusioni
all’udienza del 2/10/2003. Sotto altro profilo il
Condominio assume pure che gli elementi
comunque acquisiti dal CTU, anche al di fuori
del mandato, ben potevano valere – nella
forma di prove atipiche – a fondare anch’essi il
convincimento del primo giudice. Questo
orientamento (tra le altre, v. Cass. 19/2/1990 n.
1223) argomenta in tal senso dal difetto nel
nostro ordinamento di una norma di chiusura
che sancisca la tassatività dei mezzi di prova.
In questa linea di pensiero, il Collegio non
ignora la Cass. 25/3/2004 n. 5965 (che giunge
ad affermare che elementi di convincimento
possono trarsi dalle parti della consulenza che
abbia esorbitato i limiti del mandato), ma
ritiene di doversi discostare da tale pronuncia
che – come rileva autorevole dottrina – desta
perplessità. Non persuade, infatti, che una
consulenza inficiata da nullità, per aver
ecceduto i limiti del fatto costitutivo
(rappresentativo del limite intrinseco del
mandato), possa consentire l’ingresso nel
processo, nella sembianza di prove atipiche, di
elementi di cognizione sui fatti ulteriori
rispetto a quelli cristallizzati nella
formulazione della domanda ed acquisiti in
violazione del principio del contraddittorio.
Inoltre non può sfuggire che, a voler ritenere il
contrario, si avrebbe per le prove atipiche
l’applicazione della regola “vitiatur sed non
vitiat” di cui non è dato comprendere la rat io e
che non vale per le prove tipiche. In
conclusione, la Corte territoriale riteneva che
la nullità della CTU privandola di ogni
efficacia probatoria comportava che là
domanda, siccome aliunde non provata,
dovesse essere rigettata, restando assorbiti gli
altri motivi di gravame”.
Inoltre, la Corte territoriale condannava in
solido alle spese di secondo grado la R. ed il
Condominio, perchè riteneva una comunanza
di interessi tra loro, dato che il Condominio
aveva contrastato i motivi di appello
concernenti la posizione della stessa, la quale,
limitandosi a chiedere la conferma della
sentenza id primo grado, aveva inteso
acquisire la responsabilità e la condanna della
V., rinunciando ad affermare quelle del
Condominio.
3. – La R. propone ricorso per cassazione,
illustrato con memoria, deducendo: omissione
o, quanto meno, insufficienza della
motivazione su punto decisivo sollevato dalle
parti. Al riguardo, precisa: a) che i fatti su cui
la decisione si denuncia come omessa o
insufficiente sono quelli attinenti:
1.- alla pretesa elevazione, fatta dalla R. con la
citazione introduttiva, di lavori di
ristrutturazione e trasformazione o di
frazionamento dell’appartamento soprastante
di proprietà della V. a causa delle infiltrazioni
lamentate;
2.- alla considerazione che lavori di
realizzazione di veranda in ampliamento
dell’appartamento V. sull’annesso suo terrazzo
a livello rientravano comunque
concettualmente e logicamente nella categoria
di lavori di ristrutturazione e trasformazione o
di frazionamento di tale immobile;
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
219
3.- a) alla nessuna rilevanza che rivestono tutti
tali lavori ai fini dei limiti della domanda
proposta e del rispetto degli elementi a
fondamento della stessa; b) che la rilevanza di
tale omissione (o insufficienza) rispetto alla
decisione adottata nella sentenza impugnata è
data da ciò: se in base a più esauriente
motivazione quella pretesa rilevanza dei lavori
di ristrutturazione e trasformazione o di
frazionamento, o quella pretesa diversità tra il
genus “lavori di ristrutturazione e
trasformazione o di frazionamento” e la
categoria specifica dei lavori di realizzazione
della veranda sul terrazzo a livello in
ampliamento dell’appartamento di proprietà V.
o comunque quella pretesa modifica degli
elementi costitutivi della domanda si fossero
escluse, sarebbe venuta meno la premessa su
cui la sentenza impugnata ha fondato la sua
pronuncia di accoglimento del primo motivo
di appello della V., assorbiti gli altri, e
ravvisato la nullità della CTU per l’è fletto
respingendo la domanda della R..
4. – Il Condominio resiste cosi controricorso e
propone ricorso incidentale, premettendo di
avere interesse all’impugnativa della sentenza
resa dalla Corte di Appello di Napoli, in
quanto l’accoglimento della riconvenzionale
proposta dalla V. nel corso del giudizio di
merito. con la conseguente condanna del
condominio stesso alle spese di secondo grado
in solido con la R., trovava il suo fondamento
nella declaratoria di nullità della consulenza
che aveva dato atto che la causale del sinistro
era da rinvenirsi nella manomissione della
tubazione di scarico delle acque piovane al
fine d’incanalarvi le acque bianche e luride
della cucina della stessa V..
Deduce i seguenti motivi:
4.1. – Violazione e falsa applicazione dell’art.
112 c.p.c., artt. 2043 e 2051 c.c., in relazione
all’art. 360 c.p.c., n. 3, e chiede alla Corto se il
giudice di appello sia o meno incorso nella
violazione e falsa interpretazione della
domanda per aver individuato il fatto
costitutivo della stessa nella sola responsabilità
ex art. 2043 c.c., e non anche in quella ex art.
2051 c.c., con la conseguente violazione da
parte dell’ausiliare dei limiti del mandato,
nonostante l’avvenuto affidamento di una
consulenza percipiente, per accertare le causali
delle infiltrazioni in atto, senza che
l’appellante abbia mai dedotto il superamento
da parte del primo giudice dei cosiddetti limiti
intrinseci del mandato con conseguente
interpolazione della causa pelanti mediante
l’allegazione di fatti costitutivi della domanda
non dedotti dall’attore nell’atto introduttivo.
4.2. – Nullità della sentenza per extrapetizione
(artt. 112 e 360 c.p.c.) e chiede alla Corte se il
giudice di appello sia o meno incorso in
extrapetizione, avendo accolto il motivo di
gravame fondato sulla pretesa nullità della
consulenza, senza tenere conto che
l’appellante mai aveva dedotto il superamento
da parte del Tribunale dei cosiddetti limiti
intrinseci del mandato, con conseguente
interpolazione della causa petendi mediante
l’allegazione di fatti costitutivi della domanda
non dedotti dall’attore nell’atto introduttivo”.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
220
4.3. – Violazione e falsa applicazione degli
artt. 101, 115, 116, 162.
Corte se il giudice di appello:
4.3.a. – abbia violato e falsamente applicato le
norme che disciplinano l’ammissione e lo
svolgimento della consulenza tecnica nel corso
del processo civile, non avendo tenuto conto
che i limiti intrinseci del mandato erano
perfettamente coincidenti con il thema
decidendum:
4.3.b. – attesa la coincidenza tra domanda e
mandato, abbia fatto o meno corretta
applicazione del principio di diritto secondo
cui il giudice può trarre elementi di
convincimento anche dalla parte della
consulenza eccedente i limiti del mandato;
4.3.c. – abbia o meno violato i principi
generali del contraddittorio e della
rinnovazione degli atti nulli fissati dagli artt.
101 e 162 c.p.c., negando, dopo aver
dichiarato la nullità della svolta consulenza
tecnica di ufficio, la rinnovazione delle
operazioni peritali, nonostante questa fosse
stata richiesta da tutte le parti in causa inclusa
la stessa appellante.
4.4. – Vizio di motivazione su punti
controversi e decisivi del giudizio (art. 360
c.p.c., n. 5) e chiede alla Corte se il giudice di
appello sia o meno incorso in vizio di
motivazione su di un punto decisivo della
controversia. per aver affermato.
4.4.a. – il superamento dei limiti del mandalo a
lui conferito dal Tribunale, per aver
ispezionato “il loctis rei (ovvero l’interno della
veranda) alla ricerca di una possibile causa
delle infiltrazioni” nonostante l’ampiezza
dell’indagine demandatagli sia in merito alle
causali delle infiltrazioni che alla loro
imputabilità;
4.4.b. – pur dando atto della liceità della c.d.
consulenza percipiente che il consulente,
esperendo indagini in loco alla ricerca delle
effettive causali delle infiltrazioni, avrebbe
“decampato” dai limiti del mandato conferito
dal giudice.
4.5. – Violazione e falsa applicazione degli
artt. 1123, 1134 e 2697 c.c., artt. 101, 116 e
162 c.p.c., art. 191 c.p.c. e ss., con riferimento
all’art. 360, n. 3, e chiede alla Corte se il
giudice di appello abbia violato e falsamente
applicato.
4.5.a. – la norma dell’art. 1134 c.c.,
concedendo il chiesto rimborso, nonostante le
riparazioni abbiano riguardato la proprietà
esclusiva del condomino e siano state eseguite,
in diletto di una necessità immediata ed,
impellente, nel tentativo di ovviare alla cattiva
esecuzione di precedenti lavori di
ristrutturazione:
4.5.b. – le norme di cui all’art. 2697 c.c.,
avendo, di fatto, onerato il condominio di
fornire la prova liberatoria, ritenendo provati
in re ipsa i fatti costitutivi della domanda
proposta dalla condomina valendosi dell’art.
1134 c.c., negando, in violazione del principio
del contraddittorio e della rinnovazione degli
atti nulli, la chiesta rinnovazione della
consulenza tecnica che avrebbe consentito di
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
221
appurare la insussistenza dei requisiti richiesti
dal richiamato art. 1134 c.c..
4.6. – Vizio di motivazione su punti
controversi e decisivi del giudizio (art. 360
c.p.c., n. 5) e chiede alla Corte se il giudice di
appello sia o meno in corso in vizio di
motivazione su di un punto decisivo della
controversia, affermando, nonostante.
4.6.a. – fosse acquisita agli atti di causa prova
documentale dalla quale poteva inferirsi che le
riparazioni hanno riguardato l’immobile della
stessa signora V., che la riparazione per la
quale è stato chiesto il rimborso della spesa è
stata eseguita su di un bene condominiale:
4.6.b. – la corrispondenza in atti, invocata a
fondamento del convincimento espresso, fosse
di segno contrario, la ricorrenza del requisito
dell’urgenza della riparazione per la quale è
stato chiesto il rimborso”.
4.7. – Violazione e falsa applicazione dell’art.
97 c.p.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., n.
3, e chiede alla Corte “se il giudice di appello
ha violalo e falsamente applicato l’art. 97
c.p.c., ritenendo sussistere l’interesse comune
tra le parti appellale soccombenti, nonostante
entrambe abbiano resistito al gravame inerente
la validità della consulenza tecnica svolta in
prime cure nell’interesse esclusivo di ciascuna
di esse tonsurando un medesimo fatto (la
pretesa inerzia del condominio
nell’eliminazione delle causali delle
infiltrazioni, alfa quale sarebbe seguita
l’esecuzione dei lavori di cui è chiesto il
rimborso), che la V. ha, però, fatto valere
diversamente nei confronti dell’una e dell’altro
degli appellati, posto che lo ha invocato nei
confronti della signora R. come l’atto estintivo
della pretesa risarcitomi da quest’ultima
azionata in suo danno e nei confronti del
condominio come fatto costitutivo della
pretesa di rimborso delle spese”.
4.8. Resiste con rispettivi controricorsi la V. e
chiede dichiararsi inammissibile e, comunque,
rigettarsi le avverse impugnazioni.
Diversamente da quanto sostenuto dalla V., il
ricorso del condominio è tempestivo perchè
consegnalo per la notifica il 28 giugno 2007.
5. – I ricorsi vanno riuniti, essendo stati
proposti avverso la medesima sentenza (art.
335 c.p.c.).
5.1. – Vanno esaminati congiuntamente il
ricorso principale, nonchè il primo, il secondo
ed il quarto motivo del ricorso incidentale,
avendo tutti ad oggetto le questioni,
intimamente connesse, dell’interpretazione
della domanda dell’originaria attrice, del titolo
di responsabilità azionalo, del connesso onere
probatorio e dell’ambito dei poteri d’indagine
del C.T.U..
5.2. Tali censure si rivelano fondate, nei
termini di seguito precisali ed il loro
accoglimento assorbe ogni decisione in ordine
alle altre formulate dal Condominio.
Va premesso che il consulente d’ufficio ha
accertato, sulla base del mandato ricevuto dal
giudice di primo grado, che le infiltrazioni non
erano riconducigli alle opere di trasformazione
dell’appartamento della V., ma alla
manomissione delle tubazioni di scolo delle
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
222
acque piovane, al fine di convogliarvi le acque
bianche e luride della cucina della stessa V..
Sussistono i vizi motivazionali dedotti nel
ricorso principale e nel quarto motivo di quello
incidentale e si rivela fondata la censura del
condominio, riguardante la violazione dell’art.
112 c.p.c., e artt. 2043 e 2051 c.c.
(rispettivamente, secondo e primo motivo del
ricorso incidentale).
Effettivamente, la Corte territoriale ha errato
nel ritenere la nullità della consulenza tecnica
d’ufficio svolta in primo grado, per il
superamento dei limiti del mandato. Infatti, la
R. aveva convenuto in giudizio sia la V. che il
Condominio, fondando la sua pretesa tanto
sull’art. 2043 c.c., quanto sull’art. 2051 c.c., e
lo stesso giudice di primo grado, nel formulare
i quesiti al CTU lo aveva invitato ad accertare
quali fossero le cause del fenomeno ed a ehi
fossero imputabili le infiltrazioni.
Per gli stessi motivi, si rivela sussistente anche
il vizio motivazionale dedotto nel 4^ motivo
del ricorso proposto in via incidentale dal
Condominio e nel coincidente ricorso
principale della R.. Con tali doglianze, si
censurano. in effetti, le ragioni sulla base delle
quali l’indagine tecnica, secondo la Corte
territoriale, non avrebbe potuto estendersi
anche all’ispezione dell’intero immobile della
V. per accertare le effettive cause delle
infiltrazioni.
Va ribadito, al riguardo, che la consulenza
tecnica d’ufficio, anche se non costituisce, in
linea di massima, mezzo di prova, ma
strumento per la valutazione della prova
acquisita, tuttavia rappresenta una fonte
oggettiva di prova quando si risolve
nell’accertamento di fatti rilevabili unicamente
con l’ausilio di specifiche cognizioni o
strumentazioni tecniche (Cass. n. 6585/2001,
in motivazione: 15630/2000; 10916/2000: v.
anche Cass. n. 1020/2006 e n. 1149/2011).
In considerazione di quanto precede, min si
rivela pertinente, quindi, la questione
dell’interpretazione della domanda della R..
Oltre tutto, il giudice di primo grado aveva
comunque esteso i limiti del mandato
all’accertamento delle cause delle infiltrazioni
e la R. aveva pur sempre denunciato il vizio
motivazionale in cui è incorsa la Corte
territoriale. Invero, la formulazione dei quesiti
rientra nei poteri discrezionali del giudice del
merito, sicchè non costituisce violazione dei
diritti della difesa formulare quesiti diversi da
quelli ritenuti necessari da una delle parti,
sempre che i difensori siano stati posti in
condizione di presenziare alle operazioni e di
porre istanze e osservazioni ritenute necessaire
e pertinenti, circostanza, quest’ultima, non
controversa in questa sede (Cass. n. 62152001,
in motivazione).
6. – Conclusivamente, vanno accolli il ricorso
principale ed il primo, secondo e quarto
motivo di quello incidentale, assorbita ogni
altra censura; va cassata la sentenza impugnata
e la causa rinviata – per nuovo esame, alla luce
di quanto affermato ai precedente punto 5 e
per la determinazione in ordine alle spese,
incluse quelle relative al presente giudizio di
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
223
cassazione -alla medesima Corte territoriale in
diversa composizione.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi. Accoglie il ricorso
principale ed il primo, secondo e quarto
motivo di quello incidentale, assorbita ogni
altra censura; cassa la sentenza impugnata e
rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello
di Napoli in diversa composizione.
Annotazione a Corte di
Cassazione, sezione terza,
sentenza del 5.2.2013, n. 2663
di Miriana Bosco
Il caso
In data 8 giugno 2001, M.L.R. conveniva in
giudizio V.M.S. e il Condominio, lamentando
il verificarsi di infiltrazioni nel proprio
appartamento, a seguito di lavori di
ristrutturazione eseguiti da V.M.S. e
chiedendo il risarcimento dei danni a ciascuno
dei convenuti per quanto di rispettiva
competenza.
Nel costituirsi in giudizio, la V.M.S.: a)
proponeva domanda riconvenzionale nei
confronti del Condominio per l’importo di £
2.760.000 (circa € 1.425.00), spese al fine di
eliminare la rottura della pluviale; b) eccepiva
la propria carenza di legittimazione passiva,
deducendo che le lamentate infiltrazioni erano
ascrivibili ad altra causa (quale la condensa o
la rottura della pluviale); c) attesa la
contumacia del condominio, si faceva
autorizzare dal G.I. a notificare la propria
comparsa di costituzione e risposta a questo.
Il condominio, costituitosi successivamente a
tale notifica, deduceva la generica
infondatezza della domanda.
Il Tribunale: a) accoglieva la domanda
proposta dalla M.L.R.. contro la V.M.S. per le
infiltrazioni cagionate all’appartamento in
questione; b) rigettava tutte le altre domande;
c) condannava la V.M.S. al pagamento in
favore della M.L.R. dell’importo di €
1.350,00, oltre interessi dal fatto, nonché ad
eseguire i lavori per l’eliminazione della causa
delle infiltrazioni come elencati nella C.T.U.
richiesta dalla M.L.R..
Con la sentenza oggetto delle presenti
impugnazioni, depositata il 24 gennaio 2007,
la Corte di Appello di Napoli riformava la
sentenza di primo grado, affermando:
“mancando nel nostro ordinamento la
previsione tipologica della consulenza
esplorativa, essa non deve considerarsi
ammessa. Ed infatti, tale consulenza ha
deviato, in concreto, il C.T.U., ispezionando il
locus rei (ovvero l’interno della veranda) alla
ricerca di una possibile causa delle infiltrazioni
che l’attrice, nell’atto di citazione del
18/5/2001, aveva fatto consistere nei lavori di
ristrutturazione e di trasformazione eseguiti
dalla V.M.S. nel proprio immobile. E’ bensì
vero che – pur nella costante condivisa
affermazione che la consulenza non possa
essere un mezzo sostitutivo dell’onus probandi
(ex plurimis Cass. 14/271994 n. 1467) – si
distingue, in giurisprudenza (Cass. Sez. Un.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
224
4/11/1996 n. 9522), la figura del consulente
deducente e del consulente percipiente. Nella
prima ipotesi, la consulenza presuppone
l’avvenuto espletamento dei mezzi di prova e
ha per oggetto fatti già completamente provati
dalle parti, mentre nella seconda, essa stessa
potrà costituire fonte oggettiva di prova, ma è
sempre necessario che la parte abbia dedotto,
quanto meno, il fatto che pone a fondamento
della propria domanda di cui il giudice affida
l’accertamento ad un ausiliario in possesso di
cognizioni tecniche che egli non possiede. In
altri termini, è, in ogni caso, ineludibile
l’individuazione del fatto costitutivo della
domanda (la c.d. causa petendi che, in
relazione ai fatti lesivi, si atteggia
propriamente come causa petendi passiva)
devoluto alla cognizione del giudice e che si
riflette, per derivazione, sui limiti intrinseci
del mandato conferito al C.T.U. (oltrepassando
i quali si incorrerà nel vizio di extrapetizione
per interpolazione della causa petendi) e,
parallelamente, sull’estensione dell’indagine
del C.T.U. che non può da essi decampare;
tanto più trattandosi di domande
eterodeterminate (come la domanda
risarcitoria di cui si discute) che postulano in
apicibus – diversamente dalle domande
autodeterminate – l’identificazione di un
preciso fatto genetico della responsabilità
enunciato nell’atto di citazione. Ne deriva che
la consulenza in discorso, avendo ecceduto i
limiti intrinseci del mandato, risulta inficiata
da nullità per la violazione del principio del
contraddittorio e, come tale, priva di efficacia
probatoria”.
Il Condominio assumeva che gli elementi,
comunque, acquisiti dal C.T.U., anche al di
fuori del mandato, ben potevano valere – nella
forma di prove atipiche – a fondare anch’essi il
convincimento del primo giudice. Questo
orientamento (tra le altre, v. Cass. 19/2/1990 n.
1223) argomenta, in tal senso, dal difetto, nel
nostro ordinamento, di una norma di chiusura
che sancisca la tassatività dei mezzi di prova.
In questa linea di pensiero, il Collegio non
ignora la sentenza Cass. 25/3/2004 n. 5965
(che giunge ad affermare che elementi di
convincimento possono trarsi dalle parti della
consulenza che abbia esorbitato i limiti del
mandato), ma ritiene di doversi discostare da
tale pronuncia che – come rileva autorevole
dottrina – desta perplessità. Non persuade,
infatti, che una consulenza inficiata da nullità,
per aver ecceduto i limiti del fatto costitutivo
(rappresentativo del limite intrinseco del
mandato), possa consentire l’ingresso nel
processo, nella sembianza di prove atipiche, di
elementi di cognizione sui fatti ulteriori
rispetto a quelli cristallizzati nella
formulazione della domanda ed acquisiti in
violazione del principio del contraddittorio.
Inoltre, non può sfuggire che, a voler ritenere
il contrario, si avrebbe per le prove atipiche
l’applicazione della regola “vitiatur sed non
vitiat” di cui non è dato comprendere la ratio e
che non vale per le prove tipiche. In
conclusione, la Corte territoriale riteneva che
la nullità della C.T.U., privandola di ogni
efficacia probatoria comportava che la
domanda, poiché aliunde non provata, dovesse
essere rigettata, restando assorbiti gli altri
motivi di gravame”. Inoltre, la Corte
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
225
territoriale condannava in solido alle spese di
secondo grado la M.L.R. ed il Condominio,
perché riteneva una comunanza di interessi tra
loro, dato che il Condominio aveva contrastato
i motivi di appello concernenti la posizione
della stessa, la quale, limitandosi a chiedere la
conferma della sentenza di primo grado, aveva
inteso acquisire la responsabilità e la condanna
della V.M.S., rinunciando ad affermare quelle
del Condominio.
La M.L.R. proponeva ricorso per cassazione,
deducendo omissione o, quanto meno,
insufficienza della motivazione su un punto
decisivo sollevato dalle parti.
Il Condominio resisteva con controricorso e
proponeva ricorso incidentale, premettendo di
avere interesse all’impugnativa della sentenza
resa dalla Corte di Appello di Napoli, in
quanto l’accoglimento della riconvenzionale,
proposta dalla V.M.S. nel corso del giudizio di
merito con la conseguente condanna del
Condominio stesso alle spese di secondo grado
in solido con la M.L.R., trovava il suo
fondamento nella declaratoria di nullità della
consulenza. Quest’ultima aveva dato atto che
la causale del sinistro era da rinvenirsi nella
manomissione della tubazione di scarico delle
acque piovane al fine d’incanalarvi le acque
bianche e luride della cucina della stessa
V.M.S.
Il Condominio eccepiva:
A) la violazione e la falsa
applicazione degli artt. 112 c.p.c., 2043 e 2051
c.c. in relazione all’art. 360 n.3 c.p.c.;
B) la nullità della sentenza per
extrapetizione (art. 112 e 360 c.p.c.) e
chiedeva alla Suprema Corte se il giudice di
appello fosse o meno incorso in extrapetizione,
avendo accolto il motivo di gravame fondato
sulla pretesa nullità della consulenza, senza
tenere conto che l’appellante mai aveva
dedotto il superamento da parte del Tribunale
dei cosiddetti limiti intrinseci del mandato, con
conseguente interpolazione della causa petendi
mediante l’allegazione di fatti costitutivi della
domanda non dedotti dall’attore nell’atto
introduttivo.
C) la violazione e la falsa
applicazione degli artt. 101, 115, 116 e 162
c.p.c.
D) il vizio di motivazione su punti
controversi del giudizio
E) la violazione e la falsa
applicazione degli artt. 1123, 1134 e 2697 cc.
101, 116, 162, 191 ss. c.p.c. con riferimento
all’art. 360 n. 3 e chiedeva alla Suprema Corte
se il giudice di appello avesse violato e
falsamente applicato: a) la norma dell’art.
1134 c.c., concedendo il chiesto rimborso,
nonostante le riparazioni avessero riguardato
la proprietà esclusiva del condomino e fossero
state eseguite, in difetto di una necessità
immediata ed impellente, nel tentativo di
ovviare alla cattiva esecuzione di precedenti
lavori di ristrutturazione; b) le norme di cui
all’art. 2697 c.c., avendo, di fatto, onerato il
condominio di fornire la prova liberatoria,
ritenendo provati in re ipsa i fatti costitutivi
della domanda proposta dalla condomina
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
226
valendosi dell’art. 1134 c.c. negando, in
violazione del principio del contraddittorio e
della rinnovazione degli atti nulli, la chiesta
rinnovazione della consulenza tecnica che
avrebbe consentito di appurare la insussistenza
dei requisiti richiesti dal richiamato art. 1134
c.c..
F) il vizio di motivazione su punti
controversi e decisivi del giudizio, chiedendo
alla Suprema Corte se la Corte di Appello
fosse o meno incorsa in vizio di motivazione
su di un punto decisivo della controversa,
affermando che nonostante:
fosse acquisita agli atti di causa prova
documentale dalla quale poteva inferirsi che le
riparazioni hanno riguardato l’immobile della
signora V.M.S., che la riparazione per la quale
è stato chiesto il rimborso della spesa è stata
eseguita su di un bene condominiale;
la corrispondenza in atti, invocata a
fondamento del convincimento espresso, fosse
di segno contrario, la ricorrenza del requisito
dell’urgenza della riparazione per la quale è
stato richiesto il rimborso.
G) La violazione e la falsa
applicazione dell’art. 97 c.p.c. con riferimento
all’art. 360, n.3, c.p.c..
Resisteva, con rispettivi controricorsi, la
V.M.S. e chiedeva dichiararsi inammissibile e,
comunque, rigettarsi le avverse impugnazioni.
La Corte di Cassazione ritiene che i ricorsi
debbano essere riuniti, in quanto proposti
avverso la medesima sentenza (art. 335 c.p.c.).
Devono essere esaminati congiuntamente il
ricorso principale, nonché il primo, il secondo
ed il quarto motivo del ricorso incidentale,
avendo tutti ad oggetto le questioni,
intimamente connesse, dell’interpretazione
della domanda dell’originaria attrice, del titolo
di responsabilità azionato, del connesso onere
probatorio e dell’ambito dei poteri d’indagine
del C.T.U.. Tali censure si rivelano fondate ed
il loro accoglimento assorbe ogni decisione in
ordine alle altre formulate dal Condominio.
Reputa la S.C. che il consulente d’ufficio ha
accertato, sulla base del mandato ricevuto dal
giudice di primo grado, che le infiltrazioni non
erano riconducibili alle opere di
trasformazione dell’appartamento della
V.M.S., ma alla manomissione delle tubazioni
di scolo delle acque piovane, al fine di
convogliarvi le acque bianche e luride della
cucina della stessa V.M.S..
Sussistono i vizi motivazionali dedotti nel
ricorso principale e nel quarto motivo di quello
incidentale e si rivela fondata la censura del
condominio, riguardante la violazione degli
artt. 112 c.p.c. e 2043 e 2051 c.c.
(rispettivamente, secondo e primo motivo del
ricorso incidentale).
Secondo gli Ermellini, la Corte di Appello di
Napoli ha errato nel ritenere la nullità della
consulenza tecnica d’ufficio svolta in primo
grado, per il superamento dei limiti del
mandato. Infatti, la M.L.R. aveva convenuto in
giudizio sia la V.M.S. che il Condominio,
fondando la sua pretesa tanto sull’art. 2043
c.c., quanto sull’art. 2051 c.c. e lo stesso
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
227
giudice di primo grado, nel formulare i quesiti
al C.T.U. lo aveva invitato ad accertare quali
fossero le cause del fenomeno ed a chi fossero
imputabili le infiltrazioni. Per gli stessi motivi,
si rivela sussistente anche il vizio
motivazionale dedotto nel quarto motivo del
ricorso proposto in via incidentale dal
Condominio e nel coincidente ricorso
principale della M.L.R..
Con tali doglianze, si censurano, in effetti, le
ragioni sulla base delle quali l’indagine
tecnica, secondo la Corte territoriale, non
avrebbe potuto estendersi anche all’ispezione
dell’intero immobile della V.M.S. per
accertare le effettive cause delle infiltrazioni.
La Suprema Corte ha ribadito, al riguardo, che
la consulenza tecnica d’ufficio, anche se non
costituisce, in linea di massima, mezzo di
prova, ma strumento per la valutazione della
prova acquisita, tuttavia rappresenta una fonte
oggettiva di prova quando si risolve
nell’accertamento di fatti rilevabili unicamente
con l’ausilio di specifiche cognizioni o
strumentazioni tecniche (Cass. n. 6585/2001,
in motivazione: 15630/2000; 10916/2000: v.
anche Cass. n. 1020/2006 e n. 1149/2011). In
considerazione di quanto precede, si rivela
pertinente, quindi, la questione
dell’interpretazione della domanda della
M.L.R..
Oltre tutto, il giudice di primo grado aveva,
comunque, esteso i limiti del mandato
all’accertamento delle cause delle infiltrazioni
e la M.L.R. aveva pur sempre denunciato il
vizio motivazionale in cui è incorsa la Corte
territoriale. Invero, la formulazione dei quesiti
rientra nei poteri discrezionali del giudice del
merito, sicché non costituisce violazione dei
diritti della difesa formulare quesiti diversi da
quelli ritenuti necessari da una delle parti,
sempre che i difensori siano stati posti in
condizione di presenziare alle operazioni e di
porre istanze e osservazioni ritenute necessaire
e pertinenti, circostanza, quest’ultima, non
controversa in questa sede (Cass. n.
6215/2001, in motivazione).
In conclusione, la Corte di Cassazione ha
accolto il ricorso principale ed il primo,
secondo e quarto motivo di quello incidentale,
assorbita ogni altra censura; ha cassato la
sentenza impugnata e rinviato la causa per
nuovo esame e per la determinazione in ordine
alle spese, incluse quelle relative al giudizio di
cassazione alla medesima Corte d’Appello di
Napoli in diversa composizione.
Il commento
Questa annotazione ha la finalità di chiarire se
la consulenza tecnica di ufficio la si debba
considerare solo come strumento di
valutazione dei fatti già acquisiti ed accertati
all’interno del processo o se possa essere essa
stessa mezzo di acquisizione di prove
utilizzabili per la decisione.
Nel processo civile, il giudice è coadiuvato
nell’assolvimento delle sue funzioni da una
serie di soggetti, denominati, appunto, ausiliari
del giudice. Di essi fa menzione il Codice di
Procedura Civile agli art. 61 e seguenti, in cui
si delinea, in via generale, la figura ed il ruolo
del consulente tecnico d’ufficio, del cui
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
228
operato ci si avvale, per lo più, in fase
istruttoria.
La consulenza tecnica, per dottrina e
giurisprudenza unanimi, è un mezzo
istruttorioe non una prova vera e propria; quale
mezzo istruttorio, la consulenza tecnica è
sottratta alla disponibilità delle parti ed è
affidata al prudente apprezzamento del giudice
del merito [1], il quale se ne avvale quando è
indispensabile per verificare i fatti del
procedimento, nonché l’impiego di
conoscenze tecniche o scientifiche particolari
che vanno al di là della cultura media e delle
quali il Giudice non dispone [2].
La c.t.u. è, pertanto, uno strumento di
valutazione, sotto il profilo tecnico-scientifico,
di dati già acquisiti. Tuttavia, essa può
contenere elementi idonei a formare il
convincimento del giudice [3] e non può
essere impiegato per dispensare le parti
dall’onus probandi gravante su di esse.
Ciò nonostante, nell’autorizzare la C.T.U., il
giudice deve adeguarsi al suo limite
caratteristico, ovvero la sua funzionalità alla
risoluzione di questioni di fatto, presumenti
competenze di ordine tecnico e non giuridico:
ne consegue, quindi, che qualora il giudice
“erroneamente affidi al consulente lo
svolgimento di accertamenti e la formulazione
di valutazioni giuridiche o di merito
inammissibili, non può risolvere la
controversia in base ad un richiamo alle
conclusioni del consulente stesso, ma può
condividerle soltanto ove formuli una propria
autonoma motivazione basata sulla
valutazione degli elementi di prova
legittimamente acquisiti al processo e dia
sufficiente ragione del proprio convincimento,
tenendo conto delle contrarie deduzioni delle
parti che siano sufficientemente specifiche”
[4].
D’altra parte, come ritenuto dalla migliore
dottrina [5], il ricorso alla collaborazione di un
consulente tecnico implica, semplicemente, un
perfezionamento delle conoscenze del giudice,
il quale non si spoglia affatto dei propri poteri
decisori. Ed invero, “il giudice di merito non
può ritenersi vincolato dalle deduzioni tratte
dai c.t.u. in base agli accertamenti tecnici,
essendo suo precipuo compito trarre
autonomamente logiche conclusioni,
giuridiche e di merito, sulla base del materiale
probatorio acquisito” (cfr. Cassazione civile,
sez. I, 20 luglio 2001, n. 9922).
Come ritenuto dalla costante giurisprudenza di
legittimità, rientra nel potere discrezionale del
giudice eludere le conclusioni della consulenza
tecnica d’ufficio, senza l’obbligo di ordinare
un’ulteriore perizia, purché abbia elementi
istruttori e cognizioni proprie, rinforzati da
presunzioni e da nozioni di comune esperienza
sufficienti a dar conto della decisione adottata.
Tra l’altro, “detta decisione può essere
censurata in sede di legittimità solo ove la
soluzione scelta non risulti sufficientemente
motivata” [6]
Le valutazioni espresse dal consulente tecnico
d’ufficio, difatti, non possiedono efficacia
vincolante per il giudice, il quale può
legittimamente non osservarle tramite una
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
229
valutazione critica ancorata alle risultanze
processuali e congruamente e logicamente
motivata. In tal caso, il Giudice deve indicare
gli elementi di cui si è avvalso per ritenere
inesatti gli argomenti sui quali il consulente si
è basato, ovvero gli elementi probatori, i criteri
di valutazione e gli argomenti logico-giuridici
per addivenire alla decisione discordante con
l’opinione del c.t.u.[7].
Il Giudice può affidare al consulente tecnico
non solo l’incarico di valutare i fatti da lui
stesso accertati o dati per esistenti (consulente
deducente), ma anche quello di accertare i fatti
stessi (consulente percipiente). Nel primo caso
la consulenza presuppone l’avvenuto
espletamento dei mezzi di prova ed ha per
oggetto la valutazione dei fatti i cui elementi
sono già stati completamente provati dalle
parti. Nel secondo caso, la consulenza può
costituire essa stessa fonte oggettiva di prova,
purché la parte quanto meno deduca il fatto
che pone a fondamento del proprio diritto
l’accertamento implichi cognizioni tecniche
che il Giudice non possiede [8].
In nessun caso, tuttavia, la consulenza può
servire ad esonerare la parte dal fornire la
prova che le spetta di fornire in base ai principi
che regolano l’onere relativo [9]. Conviene
evidenziare che, nel caso di fatti il cui
accertamento richieda l’impiego di un sapere
tecnico qualificato, l’onere probatorio è
limitato alla allegazione, competendo, poi, al
giudice decidere se ricorrano o meno le
condizioni per autorizzare la consulenza [10].
Bisogna, ulteriormente, precisare che la
relazione deve essere trasmessa dal consulente
alle parti costituite nel termine stabilito dal
giudice con ordinanza resa all’udienza di cui
all’articolo 193 c.p.c.. Con la medesima
ordinanza, il giudice fissa il termine entro il
quale le parti devono trasmettere al consulente
le proprie osservazioni sulla relazione e il
termine, anteriore alla successiva udienza,
entro il quale il consulente deve depositare in
cancelleria la relazione, le osservazioni delle
parti e una sintetica valutazione sulle stesse
Si badi che la relazione di consulenza tecnica
d’ufficio non è suscettibile di querela di falso
ai sensi degli art. 221 ss. c.p.c., né in via
principale né in corso di causa, non essendo il
consulente tecnico d’ufficio, nel redigere tale
documento, autorizzato dalla legge ad
attribuirgli pubblica fede, con la conseguenza
che il documento, pur essendo atto pubblico,
non si configura come prova legale munita di
fede privilegiata e, quindi, non è vincolante
per il giudice e può essere contestata dalle
parti con qualsiasi mezzo di prova [11].
In conclusione, la consulenza tecnica non può
essere considerata un mezzo di prova, poiché
la sua funzione è, essenzialmente, non quella
di accertare la verità dei fatti affermati dalle
parti, ma quella di offrire al giudice l’ausilio di
cognizioni tecniche che questi, normalmente,
non possiede. Anche se essa non costituisce, in
linea di massima, un mezzo di prova, ma uno
strumento per la valutazione della prova
acquisita, tuttavia rappresenta una fonte
oggettiva di prova quando si risolve
nell’accertamento di fatti rilevabili unicamente
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
230
con l’ausilio di specifiche cognizioni o
strumentazioni tecniche
L’attività del consulente tecnico serve, in
definitiva, per integrare l’attività del giudice
come organo decisorio, sia in quanto può
offrire elementi per valutare le risultanze di
determinate prove, sia in quanto può offrire
elementi diretti di giudizio.
[1] Sul punto, Cassazione civile, sez. lav., 4
febbraio 1999, n. 996.
[2] Cfr. Taruffo, Lezioni sul processo civile,
Comoglio-Ferri-Taruffo, Il Mulino, Bologna,
2° edizione, 1995, pag. 679
[3] Cassazione civile, sez. lav., 10 luglio 1999,
n. 7319.
[4] Ibidem, Cassazione civile, sez. lav.
996/1999.
[5] Cfr. Taruffo, ibidem, pag. 680; Luiso,
Diritto processuale civile. Il processo di
cognizione, Giuffrè Editore, Milano, 3°
edizione, 2000, pag. 91.
[6] Cassazione civile, sez. II, 4 gennaio 2002,
n. 71.
[7] Cassazione civile, sez. I, 14 gennaio 1999,
n. 333. Si veda anche Cassazione civile, sez. I,
20 maggio 2005, n. 10668: “il giudice del
merito non è tenuto a giustificare diffusamente
le ragioni della propria adesione alle
conclusioni del consulente tecnico d’ufficio
ove manchino contrarie argomentazioni delle
parti o esse non siano specifiche, potendo, in
tal caso, limitarsi a riconoscere quelle
conclusioni come giustificate dalle indagini
svolte dall’esperto e dalle spiegazioni
contenute nella relativa relazione; non può,
invece, esimersi da una più puntuale
motivazione, allorquando le critiche mosse
alla consulenza siano specifiche e tali, se
fondate, da condurre ad una decisione diversa
da quella adottata
[8] Sul punto, si veda Cassazione civile, sez.
un., 4 novembre 1996, n. 9522; Cassazione
civile, sez. II, 14 gennaio 1999, n. 321;
Cassazione civile, sez. III, 10 marzo 2000, n.
2802.
[9] Per l’effetto, “la consulenza tecnica non
può essere ammessa dal giudice allorquando è
sollecitata da una delle parti al solo scopo di
colmare le carenze delle proprie istanze
istruttorie” (Cassazione civile, sez. III, 7
luglio 2005, n. 14306).
[10] Conseguentemente, vìola gli art. 61 e 116
CPC il giudice che non ammette la consulenza
tecnica per il solo fatto che non è stato
adempiuto l’onere probatorio, così come il
giudice che, ammessa ed espletata la
consulenza tecnica, rifiuta per la stessa
ragione di tenerne conto”: Cassazione civile,
sez. III, 22 giugno 2005, n. 13401.
[11] Tribunale Foggia, 9 novembre 1998
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
231
.
di
FEDERICA FEDERICI
Massima
La circostanza che la notificazione della sentenza sia stata effettuata con la mancanza di
alcune pagine può incidere sulla sua idoneità a far decorrere il termine c.d. breve di cui
all’art. 325 c.p.c. ai fini della proposizione del ricorso per cassazione, ove l’incompletezza
determini l’inidoneità della notificazione allo scopo di assicurare una conoscenza della
sentenza sufficiente a consentire l’esercizio del diritto di impugnazione. Ove, tuttavia, il
destinatario scelga di esercitare comunque il diritto di ricorrere in cassazione entro quel
termine, così mostrando che quella inidoneità non v’è stata, egli non è esentato dall’onere di
munirsi di una copia autentica completa delle pagine mancanti, al fine di ottemperare
all’onere di cui all’art. 369, secondo comma, n. 2 c.p.c. Cassazione civile.
Notificazione della sentenza senza
alcune pagine: che succede ai fini del decorso del termine breve per
l’impugnazione?
Sentenza Cassazione Civile,
Sentenza n. 2976/2013
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
232
LA SENTENZA PER ESTESO
Cassazione civile, sezione terza, sentenza del
7.2.2013, n. 2976
…omissis…
Vi si lamenta che la sentenza impugnata, che è
stata notificata il 26 marzo 2007, lo sarebbe
stata in copia con la mancanza di due pagine e
che ciò, da un lato sarebbe reso “inesistente o
quantomeno nulla la notificazione e, dall'altra,
perplesso e contraddittorio il provvedimento
impugnato”, perché non sarebbe stato
“possibile ...intendere integralmente la
motivazione data dal giudice alla propria
decisione” e ciò avrebbe impedito “al
ricorrente di esperire una congrua e logica
impugnazione della decisione e, quindi,
ostacola gravemente l'esercizio del diritto di
difesa”.
p.1.1.1. Ora, è effettivamente vero che la copia
della sentenza impugnata, notificata dal
resistente agli effetti del decorso del termine di
cui all'art. 325 c.p.c. e, quindi, depositata dal
ricorrente agli effetti dell'art. 369, secondo
comma, n. 2 c.p.c., risulta mancante di due
pagine, ma non si comprende come tale
circostanza possa avere integrato un vizio della
sentenza stessa, dato che si tratta di un evento
che riguarda solo la sua notificazione. Essa
avrebbe potuto assumere rilievo solo in quanto
idonea a determinare eventualmente la nullità
della notificazione della sentenza e, quindi, la
sua inidoneità a provocarne gli effetti, id est il
decorso del termine di cui all'art. 325 c.p.c. e
tale inidoneità sarebbe potuta venire in ipotesi
(cioè se effettivamente si fosse verificata una
nullità ed all'uopo si veda, al riguardo, Cass.
sez. un. n. 2081 del 1995 e da ultimo Cass. n.
10488 del 2012(1)) in rilievo se il ricorrente,
invece di attivarsi esercitando il diritto di
impugnazione entro quel termine, avesse
ritenuto di esercitarlo nel termine lungo.
Avendo optato nel primo senso il ricorrente ha
determinato la sanatoria della nullità agli
effetti della decorrenza del termine breve e,
quindi, ha accettato di esercitare il diritto di
impugnazione dovendo osservare tutte le sue
condizioni di rito come se la notificazione
fosse avvenuta ritualmente. Ne consegue che
egli aveva l'onere, per esercitare quel diritto, di
acquisire copia della sentenza integrale per
articolarne i motivi in modo corrispondente e
non può pretendere di non averlo potuto fare
in ragione della notifica incompleta.
Va detto anzi che a questo punto, avendo il
ricorrente depositato proprio la copia autentica
notificatagli, priva delle due pagine, si
potrebbe profilare una causa di
improcedibilità, dato che secondo Cass. sez.
un. n. 14110 del 2006 “Ai fini del rispetto
della condizione di procedibilità del ricorso
per cassazione, prevista dall'art. 369, secondo
comma, n. 2 c.p.c., è necessario il deposito, nel
termine perentorio di venti giorni dall'ultima
notificazione dell'atto, di una copia autentica
della sentenza impugnata, contenente tutte le
pagine che consentano di comprendere
l'oggetto della controversia e le ragioni poste a
fondamento della decisione, nonché di
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
233
valutare la fondatezza o meno dei motivi di
censura”. Poiché lo stesso ricorrente assume
che non avrebbe potuto esercitare il suo diritto
di difesa, perché la mancanza delle pagine
renderebbe incomprensibile la motivazione,
l'applicazione del riportato principio
giustificherebbe l'improcedibilità del ricorso.
Andrebbe, infatti, considerato che, al lume di
quanto affermato dalle Sezioni Unite, non
sembrerebbe condivisibile il principio di
diritto affermato da Cass. n. 2494 del 2004,
secondo cui “La procedibilità del ricorso per
Cassazione non è esclusa dal fatto che la copia
autentica della sentenza impugnata (che il
ricorrente è tenuto a depositare unitamente al
ricorso ex art. 369, comma secondo c.p.c.) sia
incompleta perché priva di alcune pagine della
parte motivazionale (nella specie, di due
facciate) tutte le volte in cui, come nella
specie, il ricorrente stesso si sia attenuto a
quanto disposto dal citato art. 369 del codice
di rito depositando copia autentica della
sentenza impugnata cosi come notificatagli
dalla controparte, e contenente l'attestazione di
conformità all'originale della sentenza della
Corte di Appello apposta dal cancelliere di
detta Corte (cui è da attribuirsi l'errore di
omesso controllo sulla esattezza della
certificazione da lui compiuta)”.
La motivazione di tale decisione si articolò in
questi termini, dopo aver dato atto che, con
ordinanza disposta in udienza la Corte, rilevato
che la copia della sentenza impugnata
depositata dal ricorrente Spadini, pure se
attestata conforme all'originale dal cancelliere
della Corte di appello di Ancona, mancava di
alcune pagine al cui contenuto le parti si erano
riferite negli scritti difensivi, onde ne era
impedita la piena comprensione, aveva
disposto l'acquisizione della copia autentica
integrale della sentenza impugnata mediante
apposita richiesta alla Corte di appello di
Ancona, nei seguenti termini: “Va,
innanzitutto, affermata la procedibilità del
ricorso per Cassazione proposto dallo Spadini,
anche se la copia autentica della sentenza
impugnata, depositata dal ricorrente
unitamente al ricorso a norma dell'art. 369,
secondo comma, n. 2 c.p.c., è incompleta
perché risulta priva di due delle pagine dei
motivi della decisione, come risulta dal
confronto tra la copia della sentenza depositata
dal ricorrente e quella qui inviata dalla Corte
di appello di Ancona a seguito della richiesta
della cancelleria della Cassazione in data 16
dicembre 2002 (mancano nella prima copia le
pag. 7 e 9 del fax inviato dalla Corte di
appello). Il ricorrente, invero, si è attenuto al
citato disposto dell'art. 369 c.p.c., depositando
la copia autentica della sentenza impugnata
che gli è stata notificata dalla controparte, e
cioè dalla società La Fondiaria Assicurazioni.
Ed infatti l'attestazione di conformità della
copia all'originale della sentenza della Corte di
appello è stata effettuata dal cancelliere di
detta Corte su richiesta del difensore della
menzionata società assicuratrice. Quindi, il
difensore dello S., depositando, insieme col
ricorso per Cassazione, la copia autentica della
sentenza impugnata con la relazione di
notificazione della stessa, effettuata dalla
controparte, ha osservato pienamente l'art.
369, secondo comma, n. 2, c.p.c, onde non è a
lui imputabile il fatto che la copia autentica
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
234
della sentenza (come tale certificata dal
cancelliere della Corte di appello) non sia tale,
perché mancante, rispetto all'originale della
sentenza stessa, di due pagine. Non può,
quindi, essere condiviso l'orientamento seguito
dalla Sez. 2^ di questa Corte, con la sentenza
16 maggio 2001 n, 6749, che, in fattispecie
identica a quella qui giudicata, ha dichiarato
improcedibile il ricorso per Cassazione, sulla
base dell'osservazione che l'art. 369 c.p.c. non
prevede eccezioni alla regola che il deposito di
copia autentica della sentenza impugnata deve
essere effettuato dalla parte ricorrente (anche
nel precedente caso mancava una pagina nella
copia autentica della sentenza impugnata,
notificata dalla controparte alla parte che
l'aveva depositata insieme con il ricorso per
Cassazione). Tale orientamento non tiene
conto del fatto che il ricorrente ha allegato al
ricorso la copia autentica della sentenza
impugnata, come richiesto dal citato art. 369, e
che la difformità della copia rispetto
all'originale (per incompletezza della prima
rispetto al secondo) è da attribuirsi all'errore
del cancelliere che ne ha certificato
l'autenticità. Se anche si volessero fare
ricadere sul ricorrente (che ha depositato la
copia autentica incompleta della sentenza
impugnata) le conseguenze del mancato
controllo sulla esattezza della certificazione
compiuta dal cancelliere, tale (opinabile)
considerazione non varrebbe nell'ipotesi
(verificatasi nel presente caso) in cui la copia
autentica della sentenza impugnata sia stata
rilasciata al difensore della controparte che
l'abbia notificata a colui che abbia poi
proposto ricorso per Cassazione, depositando
la copia notificatagli della sentenza impugnata,
come prescritto proprio dall'art. 369, secondo
comma, n. 2, c.p.c., disposizione che, pertanto,
nel caso qui considerato, non può ritenersi
sotto alcun aspetto violata dal ricorrente”.
Invero, le considerazioni svolte in tale
motivazione circa la responsabilità del
cancelliere, che rilasci copia priva di pagine
non considerano che l'attività di deposito della
sentenza in copia autentica è attività di cui è
onerato il ricorrente e la cui conformità a
diritto spetta a lui di controllare. Si tratta di
attività che prescinde dalla notificazione della
sentenza, la quale determina l'ulteriore onere
di depositare la relata della notifica, che è atto
distinto dalla copia notificata e ciò ancorché
sia redatta in calce e di seguito ad essa. Di
modo che il necessario controllo della
completezza della copia notificata non può
venir meno. Né il deposito di una copia priva
di pagine, essendo adempimento imposto a
pena di inammissibilità tollera l'esercizio del
potere giudiciale della Corte di cassazione di
invitare il giudice a quo a trasmettere la copia
integrale della sentenza. Nemmeno può
giustificarsi una soluzione come quella della
citata decisione con il fatto che dall'attività
diretta ad ottenere il rilascio di una copia
integrale il ricorrente potrebbe essere
pregiudicato nella possibilità di fruire
dell'intero termine breve per la notificazione:
s'è già detto che, se l'incompletezza è tale da
incidere sulla possibilità di impugnare tutto il
decisum della sentenza la notificazione è nulla
e non decorre il termine breve.
Dunque il ricorso dovrebbe essere dichiarato
improcedibile sulla base del seguente principio
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
235
di diritto: “La circostanza che la notificazione
della sentenza sia stata effettuata con la
mancanza di alcune pagine può incidere sulla
sua idoneità a far decorrere il termine c.d.
breve di cui all'art. 325 c.p.c. ai fini della
proposizione del ricorso per cassazione, ove
l'incompletezza determini l'inidoneità della
notificazione allo scopo di assicurare una
conoscenza della sentenza sufficiente a
consentire l'esercizio del diritto di
impugnazione. Ove, tuttavia, il destinatario
scelga di esercitare comunque il diritto di
ricorrere in cassazione entro quel termine, così
mostrando che quella inidoneità non v'è stata,
egli non è esentato dall'onere di munirsi di una
copia autentica completa delle pagine
mancanti, al fine di ottemperare all'onere di
cui all'art. 369, secondo comma, n. 2 c.p.c.”.
p.2. La ritenuta improcedibilità del ricorso a
questo punto esimerebbe dal riferire
analiticamente dei motivi ulteriori del ricorso,
i quali sarebbero tutti connotati
dall'inammissibilità per inosservanza dell'art.
366-bis c.p.c. e gradatamente da infondatezza.
Per completezza se ne da dimostrazione con
specifico riguardo al secondo, al terzo motivo
ed al quarto motivo.
p.2.1. Con il secondo motivo si denuncia
"violazione dell'art. 132 c.p.c. e dell'art. 118
delle disp.att.".
L'illustrazione si conclude con il seguente
quesito: “la motivazione che, come nella
fattispecie, si riferisca a fatti diversi e solo in
parte ai fatti del presente giudizio viola le
norme in rubrica e rende nulla la sentenza
impugnata?”. Il quesito prospetta un
interrogativo del tutto generico ed astratto, in
quanto non solo non fornisce alcuna
indicazione della parte di motivazione cui ci si
relaziona, ma nemmeno offre una pur minima
indicazione del riferirsi della motivazione a
"fatti diversi" e solo in parte ai fatti del
giudizio e sulle ragioni della violazione delle
norme di cui all'intestazione del motivo.
L'art. 366-bis c.p.c., infatti, quando esigeva
che il quesito di diritto dovesse concludere il
motivo imponeva che la sua formulazione non
si presentasse come la prospettazione di un
interrogativo giuridico del tutto sganciato dalla
vicenda oggetto del procedimento, bensì
evidenziasse la sua pertinenza ad essa. Invero,
se il quesito doveva concludere l'illustrazione
del motivo ed il motivo si risolve in una critica
alla decisione impugnata e, quindi, al modo in
cui la vicenda dedotta in giudizio è stata decisa
sul punto oggetto dell'impugnazione e criticato
dal motivo, appare evidente che il quesito, per
concludere l'illustrazione del motivo, doveva
necessariamente contenere un riferimento
riassuntivo ad esso e, quindi, al suo oggetto,
cioè al punto della decisione impugnata da cui
il motivo dissentiva, si che ne risultasse
evidenziato - ancorché succintamente - perché
l'interrogativo giuridico astratto era
giustificato in relazione alla controversia per
come decisa dalla sentenza impugnata. Un
quesito che non presenta questa contenuto è,
pertanto, un non quesito (si veda, in termini,
fra le tante, Cass. sez. un. n. 26020 del 2008
(2); nonché n. 6420 del 2008(3)).
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
236
È da avvertire che l'utilizzo del criterio del
raggiungimento dello scopo per valutare se la
formulazione del quesito sia idonea
all'assolvimento della sua funzione appare
perfettamente giustificato dalla soggezione di
tale formulazione, costituente requisito di
contenuto-forma del ricorso per cassazione,
alla disciplina delle nullità e, quindi, alla
regola dell'art. 156, secondo comma, c.p.c. (4),
per cui all'assolvimento del requisito non
poteva bastare la formulazione di un quesito
quale che esso fosse, eventualmente anche
privo di pertinenza con il motivo, ma
occorreva una formulazione idonea sul piano
funzionale, sul quale emergeva appunto il
carattere della conclusività. Da tanto l'esigenza
che il quesito rispettasse i criteri innanzi
indicati.
Per altro verso, la previsione della necessità
del quesito come contenuto del ricorso a pena
di inammissibilità escludeva che si potesse
utilizzare il criterio di cui al terzo comma
dell'art. 156 c.p.c., posto che quando il
legislatore qualifica una nullità di un certo atto
come determinativa della sua inammissibilità
deve ritenersi che abbia voluto escludere che il
giudice possa apprezzare l'idoneità dell'atto al
raggiungimento dello scopo sulla base di
contenuti desunti aliunde rispetto all'atto: il
che escludeva che il quesito potesse integrarsi
con elementi desunti dal residuo contenuto del
ricorso, atteso che l'inammissibilità era
parametrata al quesito come parte dell'atto
complesso rappresentante il ricorso, ivi
compresa l'illustrazione del motivo (si veda, in
termini, già Cass. (ord.) n. 16002 del 2007;
(ord.) n. 15628 del 2009, a proposito del
requisito di cui all'art. 366 n. 6 c.p.c.).
È, altresì, da avvertire, che l'intervenuta
abrogazione dell'art. 366-bis c.p.c. non può
determinare - in presenza di una
manifestazione di volontà del legislatore che
ha mantenuto ultrattiva la norma per i ricorsi
proposti dopo il 4 luglio 2009 contro
provvedimenti pubblicati prima ed ha escluso
la retroattività dell'abrogazione per i ricorsi
proposti antecedentemente e non ancora decisi
- l'adozione di un criterio interpretativo della
stessa norma distinto da quello che la Corte di
Cassazione, quale giudice della nomofilachia
anche applicata al processo di cassazione,
aveva ritenuto di adottare anche con numerosi
arresti delle Sezioni Unite.
L'adozione di un criterio di lettura dei quesiti
di diritto ai sensi dell'art. 366-bis c.p.c. dopo il
4 luglio 2009 in senso diverso da quanto si era
fatto dalla giurisprudenza della Corte
anteriormente si risolverebbe, infatti, in una
patente violazione dell'art. 12, primo comma,
delle preleggi, posto che si tratterebbe di
criterio contrario all'intenzione del legislatore,
il quale, quando abroga una norma, tanto più
processuale, e la lascia ultrattiva o comunque
non assegna effetti retroattivi all'abrogazione,
manifesta non solo una voluntas nel senso di
preservare l'efficacia della norma per la
fattispecie compiutesi anteriormente
all'abrogazione e di assicurarne l'efficacia
regolatrice rispetto a quelle per cui prevede
l'ultrattività, ma anche una implicita voluntas
che l'esegesi della norma abrogata continui a
dispiegarsi nel senso in cui antecedentemente
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
237
è stata compiuta. Per cui l'interprete e, quindi,
anche la Corte di Cassazione ai sensi dell'art.
65 dell'Ordinamento Giudiziario, debbono
conformarsi a tale doppia voluntas e ciò
ancorché, in ipotesi, l'eco dei lavori preparatori
della legge abrogativa riveli che l'abrogazione
possa essere stata motivata anche e proprio
dall'esegesi che della norma sia stata data.
Invero, anche l'adozione di un criterio
esegetico che tenga conto della ragione in
mente legislatoris dell'abrogazione impone di
considerare che l'esclusione dell'abrogazione
in via retroattiva ed anzi la previsione di una
certa ultrattività per determinate fattispecie
sempre in mente legislatoris significhino
voluntas di permanenza dell'esegesi
affermatasi, perché il contrario interesse non è
stato ritenuto degno di tutela.
Il secondo motivo è, dunque, inammissibile
perché si conclude con un quesito inidoneo al
rispetto dell'art. 366 bis c.p.c..
p.2.1. Se si passasse all'esame del motivo
leggendone l'illustrazione si dovrebbe,
peraltro, rilevare che vi si postula che con
quanto argomentato dalla pagina dieci alla
tredici della sentenza il Tribunale si sarebbe
riferito ad un'opposizione a pignoramento
presso terzi che nulla avrebbe a che fare con
l'opposizione a precetto, ma l'assunto non tiene
conto che nel testo con riguardo al quale il
ricorrente ha esercitato l'impugnazione
mancano la pagina otto e la dodici, sicché non
è dato comprendere come egli possa sostenere
quanto enuncia nel motivo senza che sia dato
sapere a che cosa si riferivano quelle pagine e
se per caso esse davano conto del
pignoramento.
Si aggiunga che il resistente, argomentando
dalle parti della sentenza non prodotte ha dato
conto a sua volta del perché il Tribunale abbia
evocato quel pignoramento.
…omissis…
p.6. Conclusivamente dev'essere dichiarata
l'improcedibilità del ricorso. Le spese del
giudizio di cassazione seguono la
soccombenza e si liquidano in applicazione
della tariffa di cui al d.m. n. 140 del 2012.
P.Q.M.
La Corte dichiara improcedibile il ricorso.
Condanna il ricorrente alla rifusione al
resistente delle spese del giudizio di
cassazione, liquidate in Euro
quattromiladuecento, di cui duecento per
esborsi, oltre accessori come per legge.
1 La massima così recita: al fine di escludere
il decorso del termine breve di impugnazione,
la nullità della notificazione della sentenza
(per essere stata questa consegnata in copia
priva della seconda pagina) può essere
affermata - in difetto di una espressa
comminatoria della nullità medesima - solo se
il destinatario deduca e dimostri che detta
incompletezza gli abbia precluso la compiuta
conoscenza dell'atto e quindi abbia inciso
negativamente sul pieno esercizio della facoltà
di impugnazione dello stesso.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
238
2 La massima così recita: il quesito di diritto
deve essere formulato, ai sensi dell'art. 366-
bis c.p.c., in termini tali da costituire una
sintesi logico-giuridica della questione, così
da consentire al giudice di legittimità di
enunciare una "regula iuris" suscettibile di
ricevere applicazione anche in casi ulteriori
rispetto a quello deciso dalla sentenza
impugnata. Ne consegue che è inammissibile il
motivo di ricorso sorretto da quesito la cui
formulazione, ponendosi in violazione di
quanto prescritto dal citato art. 366-bis, si
risolve sostanzialmente in una omessa
proposizione del quesito medesimo, per la sua
inidoneità a chiarire l'errore di diritto
imputato alla sentenza impugnata in
riferimento alla concreta fattispecie.
3 La massima così recita: a norma dell'art.
366 "bis" c.p.c., è inammissibile il motivo di
ricorso per cassazione il cui quesito di diritto
si risolva in un'enunciazione di carattere
generale e astratto, priva di qualunque
indicazione sul tipo della controversia e sulla
sua riconducibilità alla fattispecie in esame,
tale da non consentire alcuna risposta utile a
definire la causa nel senso voluto dal
ricorrente, non potendosi desumere il quesito
dal contenuto del motivo o integrare il primo
con il secondo, pena la sostanziale
abrogazione del suddetto articolo.
4 Per approfondimenti si veda MECACCI, sub
art. 156 c.p.c., in VIOLA (a cura di), Codice di
Procedura Civile (sistematico), Padova, 2013.
Si vedano anche AULETTA, Nullità e
inesistenza degli atti processuali civili,
Padova, 1999, 132; BALENA, Elementi di
diritto processuale civile, I, Bari, 2007, 236;
MANDRIOLI, Diritto processuale civile, I, 20ª
ed., Torino, 2009, par. 72; MONTESANO,
ARIETA, Diritto processuale civile, I, Torino,
1999, 372; ORIANI, Nullità degli atti
processuali, in Enc. Giur., XXI, Roma, 1990,
ANNOTAZIONEALLA
SENTENZA
di Federica Federici
Sommario: 1. Sintesi del caso 2. La
materia del contendere 3 Quaestio juris 4.
Nota esplicativa 5. Dottrina 6. Sentenze e
precedenti conformi e difformi
1. Sintesi del caso Trattasi di un ricorso
straordinario per Cassazione avverso una
sentenza con la quale il Tribunale primo
grado aveva rigettato l'opposizione
proposta dal ricorrente avverso un precetto
intimatogli, del quale esso ricorrente aveva
dedotto la nullità ai sensi dell'art. 480,
secondo comma, c.p.c., per l'omessa
indicazione della data di notificazione del
titolo, rappresentato da una sentenza
emessa interpartes dallo stesso Tribunale.
2. La materia del contendere Ricorso per
cassazione – Nullità notificazione sentenza
incompleta - Termini e diritto
impugnazione ricorso cassazione - Oneri
ricorrente se impugna incompleta 3.
Quaestio juris Diritto, termini e oneri di
impugnazione per Cassazione di sentenza
notificata incompleta:
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
239
a) formulazione quesito ex art. 366 bis
c.p.c.
b) la mancanza di n. pagine nella copia di
una notifica rende inesistente o
quantomeno nulla la notificazione e
perplesso e contraddittorio il
provvedimento impugnato? c) la notifica
di una sentenza incompleta e quindi non
conforme all'originale viola l'art. 137,
comma 2, c.p.c. e, allo stesso tempo, l’art.
132, comma 2, n. 4, l'art. 118 disp. att.
c.p.c. e l'art. 111, comma 2, Cost.? d)
violazione degli artt. 221 e 617 c.p.c.
nonché degli artt. 183 e 184 c.p.c. e)
violazione degli artt. 221, 156 e 480,
comma 2, c.p.c.
4. Nota esplicativa
Sul punto a) la Corte premette che l'art.
366bis c.p.c. (ora abrogato dalla l. n. 69
del 2009, ma rimasto ultrattivo per i ricorsi
proposti nel regime della sua vigenza) è da
ritenersi applicabile anche al ricorso
straordinario (peraltro già stato affermato
dalla Corte nell'ord. n. 20919 del 2008,
alla cui motivazione la stessa Corte fa
rinvio).
L'intervenuta abrogazione dell'art. 366-bis
c.p.c. non può determinare - in presenza di
una manifestazione di volontà del
legislatore che ha mantenuto ultrattiva la
norma per i ricorsi proposti dopo il 4
luglio 2009 contro provvedimenti
pubblicati prima ed ha escluso la
retroattività dell'abrogazione per i ricorsi
proposti antecedentemente e non ancora
decisi - l'adozione di un criterio
interpretativo della stessa norma distinto
da quello che la Corte di Cassazione, quale
giudice della nomofilachia anche applicata
al processo di cassazione, aveva ritenuto di
adottare anche con numerosi arresti delle
Sezioni Unite.
Tanto rilevato, la Corte quindi osserva che
il quesito formulato è del tutto inidoneo ad
assolvere al requisito di cui all'art. 366-bis
c.p.c., giacché si è concretato nella
prospettazione alla Corte dell'interrogativo
sul se siano state violate le norme indicate
nell'intestazione del motivo. Al riguardo,
viene in rilievo il principio di diritto
secondo cui “È inammissibile, ai sensi
dell'art. 366-bis cod. proc. civ., il ricorso
per cassazione in cui l'espressione quesito
giuridico sia seguita da una mera
elencazione di norme, asseritamente
violate, senza che - a conclusione o nel
corpo del mezzo impugnatorio - risulti
formulato il quesito in ordine al quale si
chiede alla Corte l'enunciazione del
correlativo principio di diritto”.
Sul punto b) la Corte viene interrogata in
merito alla possibile inesistenza o nullità
della notifica in quanto non sarebbe
“possibile [...] intendere integralmente la
motivazione data dal giudice alla propria
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
240
decisione” e ciò impedirebbe “al ricorrente
di esperire una congrua e logica
impugnazione della decisione ostacolando,
quindi, gravemente l'esercizio del diritto di
difesa”. La Corte, pur riconoscendo
effettivamente vero che la copia della
sentenza impugnata, notificata dal
resistente agli effetti del decorso del
termine di cui all'art. 325 c.p.c. e, quindi,
depositata dal ricorrente agli effetti dell'art.
369, secondo comma, n. 2 c.p.c., risulta
mancante di due pagine, dichiara di non
comprendere come tale circostanza possa
avere integrato un vizio della sentenza
stessa, dato che si tratta di un evento che
riguarda solo la sua notificazione. Essa
avrebbe potuto assumere rilievo solo in
quanto idonea a determinare
eventualmente la nullità della notificazione
della sentenza e, quindi, la sua inidoneità a
provocarne gli effetti, id est il decorso del
termine di cui all'art.325 c.p.c. Rileva la
Corte come il ricorrente abbia, invece,
determinato la sanatoria della nullità agli
effetti della decorrenza del termine breve
e, quindi, accettato di esercitare il diritto di
impugnazione dovendo osservare tutte le
sue condizioni di rito come se la
notificazione
fosse avvenuta ritualmente. Ne consegue
che egli aveva l'onere, per esercitare quel
diritto, di acquisire copia della sentenza
integrale per articolarne i motivi in modo
corrispondente e non può pretendere di
non averlo potuto fare in ragione della
notifica incompleta.
Invero, avendo il ricorrente depositato
proprio la copia autentica notificatagli,
priva delle due pagine, si potrebbe
profilare una causa di improcedibilità, dato
che secondo Cass. sez. un. n. 14110 del
2006 “Ai fini del rispetto della condizione
di procedibilità del ricorso per cassazione,
prevista dall'art. 369, secondo comma, n. 2
cod. proc. civ., è necessario il deposito, nel
termine perentorio di venti giorni
dall'ultima notificazione dell'atto, di una
copia autentica della sentenza impugnata,
contenente tutte le pagine che consentano
di comprendere l'oggetto della
controversia e le ragioni poste a
fondamento della decisione, nonché di
valutare la fondatezza o meno dei motivi
di censura”. Poiché lo stesso ricorrente
assume che non avrebbe potuto esercitare
il suo diritto di difesa, perché la mancanza
delle pagine renderebbe incomprensibile la
motivazione, l'applicazione del riportato
principio giustificherebbe l'improcedibilità
del ricorso.
Dunque il ricorso dovrebbe essere
dichiarato improcedibile sulla base del
seguente principio di diritto: “La
circostanza che la notificazione della
sentenza sia stata effettuata con la
mancanza di alcune pagine può incidere
sulla sua idoneità a far decorrere il termine
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
241
c.d. breve di cui all'art. 325 c.p.c. ai fini
della proposizione del ricorso per
cassazione, ove l'incompletezza determini
l'inidoneità della notificazione allo scopo
di assicurare una conoscenza della
sentenza sufficiente a consentire l'esercizio
del diritto di impugnazione. Ove, tuttavia,
il destinatario scelga di esercitare
comunque il diritto di ricorrere in
cassazione entro quel termine, così
mostrando che quella inidoneità non v'è
stata, egli non è esentato dall'onere di
munirsi di una copia autentica completa
delle pagine mancanti, al fine di
ottemperare all'onere di cui all'art. 369,
secondo comma, n. 2 c.p.c.”.
Nonostante la ritenuta improcedibilità del
ricorso la Corte - per completezza -
affronta analiticamente i motivi ulteriori
del ricorso, i quali sarebbero tutti connotati
dall'inammissibilità per inosservanza
dell'art. 366bis c.p.c. e gradatamente da
infondatezza.
Il quesito di cui al punto c) secondo la
Corte prospetta un interrogativo del tutto
generico ed astratto, in quanto non solo
non fornisce alcuna indicazione della parte
di motivazione cui ci si relaziona, e non
offre una minima indicazione del riferirsi
della motivazione a "fatti diversi" e solo in
parte ai fatti del giudizio e sulle ragioni
della violazione delle norme di cui
all'intestazione del motivo. L'art. 366bis
c.p.c., infatti, quando esigeva che il quesito
di diritto dovesse concludere il motivo,
imponeva che la sua formulazione non si
presentasse come la prospettazione di un
interrogativo giuridico del tutto sganciato
dalla vicenda oggetto del
procedimento, bensì evidenziasse la sua
pertinenza ad essa. Appare pertanto
evidente che il quesito, per concludere
l'illustrazione del motivo, doveva
necessariamente contenere un riferimento
riassuntivo ad esso e, quindi, al suo
oggetto, cioè al punto della decisione
impugnata da cui il motivo dissentiva, si
che ne risultasse evidenziato - ancorché
succintamente - perché l'interrogativo
giuridico astratto era giustificato in
relazione alla controversia per come decisa
dalla sentenza impugnata. Un quesito che
non presenta questa contenuto è, pertanto
considerato dalla Corte, un non-quesito e
quindi il motivo è stato ritenuto
inammissibile perché conclusosi con un
quesito inidoneo al rispetto dell'art. 366 bis
c.p.c.
Per ciò che riguarda il quesito di diritto di
cui al punto d) “nel punto in cui si afferma
che la querela di falso introduce
tardivamente un motivo di opposizione
diverso da quello prospettato nell'atto di
citazione, e quindi le si disconosce la vera
natura di strumento processuale diretto a
conseguire la inutilizzabilità di un atto o
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
242
documento pregiudizievole, la sentenza
impugnata viola le norme di cui agli art.
221 e 617 nonché degli art. 183 e 184
c.p.c.?”. Secondo la Corte il quesito è
astratto e il motivo viola l’art. 366 n. 6
c.p.c., atteso che si fonda sulla notifica del
precetto di cui non si fornisce l'indicazione
specifica. Peraltro viene ritenuto anche
infondato, perché il Tribunale di primo
grado aveva ritenuto che la querela
dovesse farsi come motivo di opposizione.
Il motivo si conclude con un ulteriore
quesito, anch’esso nuovamente astratto
rivolgendo alla sentenza impugnata una
critica che non tiene conto della struttura
del giudizio di opposizione agli atti e della
soggezione delle doglianze con esso
proponibili ad un termine decadenziale,
come ha invece correttamente ritenuto il
Tribunale di primo grado.
Per la violazione delle norme di cui al
punto e) la Corte ha ritenuto che si
trattasse di motivi tutti dipendenti dal
punto d). 5. Dottrina
In generale, la consegna al destinatario di
copia della sentenza incompleta per la
mancanza di alcune pagine dà luogo a
vizio della notificazione non qualificabile
come inesistenza e quindi improduttività
degli effetti (mancanza totale degli estremi
e dei requisiti essenziali), ma soltanto
come nullità. Il vizio della notificazione è
sanato per raggiungimento dello scopo
dell'atto se il destinatario ha comunque
proposto l'impugnazione. Tuttavia, va
precisato che tale nullità può essere
affermata solo se il destinatario deduca e
dimostri che detta incompletezza gli abbia
precluso la compiuta conoscenza dell'atto
e quindi abbia inciso negativamente sul
pieno esercizio della facoltà di
impugnativa della stesso (Cass. 25 luglio
2003, n. 11528; Cass. SS.UU. 23 febbraio
1995, n. 2081).
Si segnala che secondo parte della
giurisprudenza, in ipotesi di nullità della
notifica, l'impugnazione successivamente
proposta non comporterebbe il
raggiungimento dello scopo di quella
notifica ai fini del decorso del termine
breve di cui all'art. 326 c.p.c., atteso che
l'impugnazione successiva avrebbe
carattere autonomo rispetto alla
notificazione della sentenza, senza
presupporla necessariamente come
avvenuta in una data precisa (Cass. 11
settembre 1996, n. 8226). 6. Sentenze e
precedenti conformi e difformi
Sul quesito a) Cass. sez. un. n. 19811 del
2008; in precedenza, fra tante Cass. (ord.)
n. 19892 del 2007, secondo cui “È
inammissibile, per violazione dell'art. 366-
bis cod. proc. civ., introdotto dall'art. 6 del
d.lgs. n. 40 del 2006, il ricorso per
cassazione nel quale il quesito di diritto si
risolva in una generica istanza di decisione
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
243
sull'esistenza della violazione di legge
denunciata nel motivo”.
Sul punto b) cioè se effettivamente si fosse
verificata una nullità si veda, al riguardo,
Cass. SS.UU. n. 2081 del 1995 e da ultimo
Cass. n. 10488 del 2012 in rilievo se il
ricorrente, invece di attivarsi esercitando il
diritto di impugnazione entro quel termine,
avesse ritenuto di esercitarlo nel termine
lungo.
Sull’improcedibilità alla luce di quanto
affermato dalle Sezioni Unite, non
sembrerebbe condivisibile il principio di
diritto affermato da Cass. n. 2494 del
2004, secondo cui “La procedibilità del
ricorso per Cassazione non è esclusa dal
fatto che la copia autentica della sentenza
impugnata (che il ricorrente è tenuto a
depositare unitamente al ricorso ex art.
369, comma secondo cod. proc. civ.) sia
incompleta perché priva di alcune pagine
della parte motivazionale (nella specie, di
due facciate) tutte le volte in cui, come
nella specie, il ricorrente stesso si sia
attenuto a quanto disposto dal citato art.
369 del codice di rito depositando copia
autentica della sentenza impugnata cosi
come notificatagli dalla controparte, e
contenente l'attestazione di conformità
all'originale della sentenza della Corte di
Appello apposta dal cancelliere di detta
Corte (cui è da attribuirsi l'errore di
omesso controllo sulla esattezza della
certificazione da lui compiuta)”.
La Corte si discosta dall’orientamento
seguito dalla Sez. 2^ con sentenza 16
maggio 2001 n. 6749, che, in fattispecie
identica a quella qui analizzata, aveva
dichiarato improcedibile il ricorso per
Cassazione, sulla base dell'osservazione
che l'art. 369 c.p.c. non prevedeva
eccezioni alla regola che il deposito di
copia autentica della sentenza impugnata
dovesse essere effettuato dalla parte
ricorrente (anche nel precedente caso
mancava una pagina nella copia autentica
della sentenza impugnata, notificata dalla
controparte alla parte che l'aveva
depositata insieme con il ricorso per
Cassazione): “tale orientamento non tiene
conto del fatto che
il ricorrente ha allegato al ricorso la copia
autentica della sentenza impugnata, come
richiesto dal citato art. 369, e che la
difformità della copia rispetto all'originale
(per incompletezza della prima rispetto al
secondo) è da attribuirsi all'errore del
cancelliere che ne ha certificato
l'autenticità. Se anche si volessero fare
ricadere sul ricorrente (che ha depositato la
copia autentica incompleta della sentenza
impugnata) le conseguenze del mancato
controllo sulla esattezza della
certificazione compiuta dal cancelliere,
tale (opinabile) considerazione non
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
244
varrebbe nell'ipotesi (verificatasi nel
presente caso) in cui la copia autentica
della sentenza impugnata sia stata
rilasciata al difensore della controparte che
l'abbia notificata a colui che abbia poi
proposto ricorso per Cassazione,
depositando la copia notificatagli della
sentenza impugnata, come prescritto
proprio dall'art. 369, secondo comma, n. 2,
c.p.c., disposizione che, pertanto, nel caso
qui considerato, non può ritenersi sotto
alcun aspetto violata dal ricorrente”.
Sul punto c) si veda Cass. SS.UU., n.
26020 del 2008; nonché n. 6420 del 2008.
La consegna al destinatario della notifica
di copia incompleta dell'atto non
determina l'inesistenza ma la nullità della
notificazione, difettando il presupposto
dell'inesistenza giuridica, costituito dal
mancato perfezionamento della fattispecie
come delineata dall'ordinamento. (Nella
specie, era stata notificata copia di decreto
ingiuntivo mancante della parte finale
dell'atto contenente l'intimazione di
pagamento). Corte di Cassazione Civ. Sez.
1, Sentenza n. 26364 del 07/12/2011.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
245
di
GIULIO SPINA
Massima
La vittima di un sinistro stradale è incapace ex art. 246 c.p.c. a
deporre nel giudizio avente ad oggetto la domanda di
risarcimento del danno proposta da altra persona danneggiata
in conseguenza del medesimo sinistro, a nulla rilevando nè
che il testimone abbia dichiarato di rinunciare al risarcimento,
nè che il relativo credito si sia prescritto.
L’incapacità a testimoniare va
valutata ex ante
Sentenza Cassazione Civile,
Sentenza n. 3642/2013
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
246
LA SENTENZA PER ESTESO
Cassazione civile, sezione terza, sentenza del
14.2.2013, n. 3642
…omissis…
Motivi della decisione
1. Preliminare è l'esame del secondo motivo di
ricorso con cui si denunzia violazione dell'art.
246 ex art. 360 c.p.c. n. 3 e difetto di
motivazione sul punto.
Il ricorrente lamenta che senza adeguata
motivazione la Corte di merito ha rigettato la
eccezione di incapacità a testimoniare del teste
Al. ai sensi dell'art. 246 cod. proc. civ..
Il teste era invece incapace a testimoniate in
quanto danneggiato nel sinistro e, quindi,
titolare di un interesse che avrebbe potuto
legittimare la sua partecipazione al giudizio.
2. La doglianza è fondata.
In ordine alla natura dell'interesse che
determina la incapacità a testimoniare la
giurisprudenza di legittimità ha affermato che,
ai sensi dell'art. 246 cod. proc. civ.,
l'incapacità è determinata soltanto da un
interesse giuridico attuale e concreto, che
legittimerebbe, ex art. 100 cod. proc. civ., la
partecipazione del teste al giudizio, mentre la
sussistenza di un interesse di mero fatto,
idoneo ad influire sulla veridicità della
testimonianza, attiene unicamente alla
attendibilità del teste (Cass. 13 aprile 2005 n.
7677).
3. L'interesse che determina l'incapacità a
testimoniare, ai sensi dell'art. 246 cod. proc.
civ., è solo quello giuridico, personale,
concreto ed attuale, che comporta o una
legittimazione principale a proporre l'azione
ovvero una legittimazione secondaria ad
intervenire in un giudizio già proposto da altri
cointeressati. Tale interesse non si identifica
con l'interesse di mero fatto, che un testimone
può avere a che venga decisa in un certo modo
la controversia in cui esso sia stato chiamato a
deporre, pendente fra altre parti, ma identica a
quella vertente tra lui ed un altro soggetto ed
anche se quest'ultimo sia, a sua volta, parte del
giudizio in cui la deposizione deve essere resa.
Nè l'eventuale riunione delle cause connesse
(per identità di questioni) può far insorgere
l'incapacità delle rispettive parti a rendersi
reciproca testimonianza, potendo tale
situazione soltanto incidere sull'attendibilità
delle relative deposizioni(Cass. 12 maggio
2006 n. 11034 v).
4. In ordine alla rilevanza del "posterius"
rispetto alla concretezza ed attualità
dell'interesse si è affermato che l'interesse a
partecipare al giudizio previsto come causa
d'incapacità a testimoniare dall'art. 246 cod.
proc. civ. va valutato indipendentemente dalle
vicende che rappresentano un "posterius"
rispetto alla configurabilità di quell'interesse a
partecipare al giudizio che determina la
incapacità stessa, con la conseguenza che la
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
247
presenza di una fattispecie estintiva del diritto
azionabile, quale la prescrizione o la
transazione, non fa venir meno il
coinvolgimento nel processo e non fa,
pertanto, riacquistare la capacità a
testimoniare. (Nella occasione, la S.C. ha
precisato che non valeva ad escludere tale
incapacità la circostanza che fosse intervenuta
tra le parti del contratto una transazione con la
quale si estinguevano le pretese creditorie
derivanti dai pregressi rapporti) Cass. 23
ottobre 2002 n. 14963.
5. Ed ancora si è detto che la configurabilità in
capo ad un soggetto di quell'interesse concreto
e attuale che sia idoneo ad attribuirgli, in
relazione alla situazione giuridica che forma
oggetto del giudizio, la legittimazione a
chiedere nello stesso processo il
riconoscimento di un proprio diritto o a
contrastare quello da altri fatto valere e che lo
rende incapace a testimoniare, dev'essere
valutato indipendentemente dalle vicende che
rappresentano un "posterius" rispetto alla
configurabilità di quell'interesse;pertanto
l'eventuale opponibilità della prescrizione così
come non potrebbe impedire la partecipazione
al giudizio del titolare del diritto prescritto,
così non può rendere tale soggetto carente
dell'interesse previsto dall'art. 246 cod. proc.
civ. come causa di incapacità a testimoniare
(Cass. 1 giugno 1974 n. 1580). Cass. 22
gennaio 2002 n. 703.
6. Chi è privo della capacita di testimoniare
perchè titolare di un interesse che ne potrebbe
legittimare la partecipazione al giudizio nel
quale deve rendere la testimonianza, in
qualsiasi veste, non esclusa quella di
interventore adesivo, non riacquista tale
capacità per l'intervento di una fattispecie
estintiva del diritto quale la transazione o la
prescrizione, in quanto l'incapacità a
testimoniare deve essere valutata prescindendo
da vicende che costituiscono un "posterius"
rispetto alla configurabitità dell'interesse a
partecipare al giudizio che la determina, con la
conseguenza che la fattispecie estintiva non
può impedire la partecipazione al giudizio del
titolare del diritto che ne è colpito e non può
renderlo carente dell'interesse previsto dall'art.
246 cod. proc. civ. come causa di incapacità a
testimoniare. Cass. 21 luglio 2004 n. 13585.
7. Tale orientamento è stato confermato da
questa Corte anche in recenti sentenze.
Con la decisione n. 16499 del 28 luglio 2011 i
giudici di legittimità hanno ritenuto
l'incapacità a testimoniare di una parte
portatrice di un interesse diretto e immediato
tale da legittimare la sua partecipazione al
giudizio in qualità di parte, "senza che la
circostanza di essere stata già soddisfatta, nelle
sue pretese creditorie in conseguenza
dell'avvenuto versamento della somma in
contestazione potesse dirsi idonea a riattivare
una capacità a testimoniare che, per costante
giurisprudenza di questa corte regolatrice, va
valutata a prescindere da vicende che
costituiscano un posterius facti rispetto alla
predicabilità ex ante dell'interesse a
partecipare al giudizio".
8. Inoltre è stato affermato che la vittima di un
sinistro stradale è incapace ex art. 246 cod.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
248
proc. civ. a deporre nel giudizio avente ad
oggetto la domanda di risarcimento del danno
proposta da altra persona danneggiata in
conseguenza del medesimo sinistro, a nulla
rilevando nè che il testimone abbia dichiarato
di rinunciare al risarcimento, nè che il relativo
credito si sia prescritto ( Cass. 28 settembre
2012 n. 16541).
8. Questo Collegio, pur non ignorando qualche
decisione di segno contrario in ordine alla
rilevanza del "posterius", in particolare relativa
alla posizione del lavoratore che ha concluso
una conciliazione giudiziale (Cass. 9 maggio
2007 n. 10545), condivide la interpretazione
dell'art. 246 c.p.c. sulla valutazione ex ante
della incapacità a testimoniare e sulla
indifferenza delle vicende successive,
interpretazione in linea con la ratio della
norma evidenziata dalla giurisprudenza
costituzionale.
…omissis…
11. E' del tutto razionale la previsione che
impedisce a chi sia portatore di un interesse
che ne legittimerebbe la partecipazione al
giudizio di essere teste nel medesimo, potendo
questi giovarsi, in base alla disciplina
sostanziale, degli effetti della sentenza; Corte
Cost. ord. n. 143 2009.
12. La Corte di appello ha affermato che la
deposizione del teste Al. non era preclusa dalla
disposizione di cui all'art. 246 c.p.c., giacchè il
teste era stato integralmente risarcito dalla W.,
società assicuratrice del motociclo del B., e
non aveva pertanto un interesse concreto ed
attuale che potesse legittimare la
partecipazione al giudizio.
13. Si osserva che il teste A., quale trasportato
sul motoveicolo del B., ha subito danni in
occasione dell'incidente in oggetto ed è
pertanto portatore di un interesse concreto ed
attuale che legittimerebbe la sua
partecipazione ai giudizio.
La circostanza che egli afferma di essere stato
risarcito dalla W., società assicuratrice del
veicolo di proprietà del B. su cui era
trasportato, non fa venir meno la sua
legittimazione a partecipare al giudizio e la
conseguente incapacità a testimoniare, che
deve essere valutata ex ante proprio nel
rispetto della ratio dell'art. 249 c.p.c. che è
quella di evitare che chi potrebbe essere parte
di un giudizio contemporaneamente assuma
anche la veste di testimone.
14. Gli altri motivi di ricorso sono assorbiti.
La sentenza va cassata in relazione al motivo
accolto con rinvio ad altra Sezione della Corte
di Appello di Roma che provvederà anche alle
spese del giudizio di cassazione e si atterrà al
seguente principio: la vittima di un sinistro
stradale è titolare di un interesse giuridico,
personale, concreto ed attuale che legittima la
sua partecipare al giudizio avente ad oggetto la
domanda di risarcimento del danno proposta
da altra persona danneggiata in conseguenza
del medesimo sinistro e la circostanza che
abbia dichiarato di essere stata risarcita dalla
compagnia assicuratrice non fa venir meno la
sua incapacità a testimoniare ex art. 246 cod.
proc. civ..
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
249
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso;cassa e rinvia ad
altra Sezione della Corte di appello di Roma
che provvederà anche alle spese del giudizio di
cassazione.
Così deciso in Roma, il 7 novembre 2012.
Depositato in Cancelleria il 14 febbraio 2013
Annotazione alla sentenza della Corte di Cassazione civile, 14 febbraio 2013, n. 3642
di Giulio Spina 1. Il Caso
- In seguito a sinistro stradale, il conducente di uno dei due motocicli coinvolti decedeva. Gli eredi del defunto proponevano domanda di risarcimento dei danni. Il Tribunale adito rigettava la domanda (ritenendo che l’incidente fosse accaduto per colpa esclusiva del defunto, avendo egli effettuato una improvvisa ed azzardata manovra di inversione ad U, subito dopo una curva con scarsa visibilità, intercettando la traiettoria di marcia dell’altro motociclo, il cui conducente nulla aveva potuto fare per evitare l’incidente). La Corte di appello confermava la decisione di primo grado. 2. La questione sottoposta alla Suprema
Corte -
Ciò posto, assume rilievo osservare che la Corte di merito aveva ricostruito le modalità dell’incidente sulla base della deposizione dell’unico teste presente al fatto: il passeggero del motoveicolo investitore. I Giudici dell’appello, con riferimento a tale teste, avevano rigettato l’eccezione di incapacità a testimoniare proposta dagli eredi del defunto, ritenendo che detta deposizione non risultava preclusa dalla disposizione di cui all’art. 246 c.p.c., giacché il teste era stato integralmente risarcito
dalla Società assicurativa del motoveicolo investitore184. Innanzi alla Suprema Corte di Cassazione ricorrono gli eredi del defunto dolendosi, tra l’altro, che senza adeguata motivazione la Corte di merito aveva rigettato l’eccezione di incapacità a testimoniare del teste ai sensi dell’art. 246 c.p.c. dovendosi invero ritenere incapace a testimoniate in quanto danneggiato nel sinistro e, quindi, titolare di un interesse che avrebbe potuto legittimare la sua partecipazione al giudizio185. 3. Il principio di diritto dettato dalla
Cassazione -
I Giudici di legittimità considerano tale doglianza fondata e, cassando (con rinvio) la sentenza impugnata, dettano il principio di diritto che qui si riporta: La vittima di un sinistro stradale è titolare di
un interesse giuridico, personale, concreto ed
attuale che legittima la sua partecipare al
giudizio avente ad oggetto la domanda di
risarcimento del danno proposta da altra
persona danneggiata in conseguenza del
medesimo sinistro e la circostanza che abbia
dichiarato di essere stata risarcita dalla
compagnia assicuratrice non fa venir meno
la sua incapacità a testimoniare ex art. 246
cod. proc. civ. 4. Le argomentazioni della decisione
- 4.1. Premessa
- L’iter argomentativo seguito dalla Corte tocca, essenzialmente, tre aspetti: - la tematica generale dell’incapacità a
testimoniare di cui all’art. 246 c.p.c.;
184 L’art. 246 c.p.c. dispone che “non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio”.
185 Sulla testimonianza si veda, innanzitutto, Taruffo, Prova testimoniale, in enciclopedia del diritto, XXXVII, 1988, p. 279 e ss. Sull’istituto della testimonianza, analizzato alla luce degli orientamenti più rilevanti e recenti espressi da dottrina e giurisprudenza, si veda L. Viola, La testimonianza nel processo civile, Giuffré, 2012. Sul carattere giudiziale della prova per testimoni e testimonianza come dichiarazione su fatti si veda anche, di recente, R. Crevani, La prova testimoniale, in M. Taruffo (a cura di), La prova nel processo civile, Giuffré, 2012, 275 e 22.
La Nuova Procedura Civile – Anno 1 – Numero 2
250
- il tema della rilevanza, con riferimento all’incapacità a testimoniare, del c.d. posterius.
- lo specifico tema dell’applicazione dell’art. 246 c.p.c. alle controversie in materia di risarcimento dei danni da sinistro stradale. - 4.2. L’incapacità a testimoniare di cui
all’art. 246 c.p.c. -
Quanto al primo aspetto, i Giudici ricordano preliminarmente la distinzione elaborata dalla giurisprudenza di legittimità tra186: - interesse giuridico attuale e concreto:
interesse che legittima o legittimerebbe, a norma dell’ art. 100 del codice di rito187, la partecipazione del teste al giudizio (legittimazione principale a proporre l’azione ovvero legittimazione secondaria ad intervenire in un giudizio già proposto da altri cointeressati188), con la conseguenza che ne determina l’incapacità a testimoniare189; si tratta, quindi, di quella legittimazione, nello stesso processo, a190:
o chiedere il riconoscimento di un proprio diritto; ovvero
186 Si veda al riguardo Cass. n. 7677 del 2005.
187 L’art 100 c.p.c. dispone, con riferimento all’esercizio dell’azione, che per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse. Sulla rilevanza di tale “clausola generale” si veda N. Picardi, Manuale del processo civile, Giuffré, 2010, p. 159
188 Sul punto si veda Cass. n. 11034 del 2006.
189 Sulla nozione di interesse di parte concreto, personale ed attuale si veda Cass. n. 3864 del 1995 e, con riferimento all’interesse meramente ipotetico, Cass. n. 5232 del 2004.
190 Si veda sul punto Cass. 22 gennaio 2002 n. 703. In argomento si precisa unicamente che la giurisprudenza di legittimità ha identificato la titolarità dell’interesse che potrebbe legittimare la partecipazione del teste al giudizio nel quale deve rendere la testimonianza in qualsiasi veste, non escludendo dunque la rilevanza della legittimazione all’intervento adesivo che dunque, pure, determina, l’incapacità di testimoniare (così Cass. n. 13585 del 2004). In argomento si veda, tra gli altri, Luisio, il quale ricorda come, in via generale, siano incapaci a testimoniare i titolari di una situazione sostanziale, connessa con quella oggetto del processo, in modo tale da legittimare la loro partecipazione al processo sotto qualsiasi veste. F. P. Luisio, Diritto processuale civile, Volume II, Il processo di cognizione, Giuffré, 2011, p. 135 e ss.
o contrastare il riconoscimento di un diritto da altri fatto valere.
- interesse di mero fatto: interesse attiene unicamente all’attendibilità del teste, in quanto interesse che il teste può avere a che venga decisa in un certo modo la controversia in cui esso sia stato chiamato a deporre, idoneo dunque ad influire solo sulla veridicità della testimonianza, che quindi non assume rilevanza con riferimento all’incapacità a testimoniare191.
4.3. Il posterius
Il tema del posterius è connesso all’indagine in ordine alla rilevanza della concretezza e dell’attualità dell’interesse del teste a partecipare al giudizio (interesse – come detto – previsto come causa d’incapacità a testimoniare dall’art. 246 c.p.c.)192. Sul punto il prevalente orientamento interpretativo ha puntualizzato che detto interesse “va valutato indipendentemente dalle vicende che rappresentano un posterius rispetto alla configurabilità di quell’interesse a partecipare al giudizio”193. Pertanto, anche la presenza di una fattispecie estintiva del diritto azionabile, quale una transazione, non fa riacquistare la capacità a testimoniare194: la
191 Sul punto, con specifico riferimento alla valutazione della prova testimoniale, basti ricordare come di recente la giurisprudenza di legittimità abbia ribadito che la valutazione delle risultanze delle prove e il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti. Cass. n. 17257 del 2010, in Navigatore settimanale del diritto, Maggioli, n. 5/2012, da cui è tratta la massima sopra riportata.
192 In argomento si veda l’accezione di posterius quale fattispecie estintiva dell’interesse a partecipare al giudizio (Cass. n. 13585 del 2004) o fattispecie estintiva del diritto azionabile (Cass. n. 703 del 2002).
193 Così Cass. n. 14963 del 2002.
194 In senso conforme si veda Cass. n. 703 del 2002 nonché Cass. n. 13585 del 2004, che puntualizza che la fattispecie estintiva non può dunque impedire la partecipazione al giudizio del titolare del diritto che ne è colpito e non può renderlo quindi carente dell’interesse previsto dall’art. 246 c.p.c. come causa
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capacità a testimoniare, pertanto, non può essere riacquistata in conseguenza del verificarsi di fattispecie successive rispetto alla configurabitità dell’interesse a partecipare al giudizio195. Tale filone interpretativo appare confermato dalle più recenti pronunce di legittimità196. Secondo invece un diverso orientamento (minoritario), assumerebbe rilevanza il posterius facti, rispetto alla predicabilità ex ante dell’interesse a partecipare al giudizio, dell’avvenuta conciliazione giudiziale.197 Ciò considerato, la pronuncia in commento, richiamando anche la giurisprudenza costituzionale198, ricorda che la ratio dell’art. 249 c.p.c. è quella di evitare che chi potrebbe essere parte di un giudizio assuma, contemporaneamente, anche la veste di testimone e, pertanto, aderisce all’orientamento prevalente sopra richiamato. Viene dunque ribadita la tesi costituita dalla: - valutazione ex ante della incapacità a
testimoniare;
di incapacità a testimoniare; si veda inoltre Cass. n. 1580 del 1974 la quale, in particolare, ha affermato che nemmeno l’eventuale opponibilità della prescrizione, così come non potrebbe impedire la partecipazione al giudizio del titolare del diritto prescritto, non può rendere tale soggetto carente dell’interesse previsto dall'art. 246 cod. proc. civ. come causa di incapacità a testimoniare.
195 Sul limite soggettivo alla capacità di testimoniare previsto dall’art. 246 c.p.c. in commento, intesa come valutazione legislativa, a priori, dell’inattendibilità della dichiarazione proveniente da chi, interessato come parte virtuale o potenziale, non abbia la qualità di terzo, si veda N. Picardi, Manuale del processo civile, Giuffré, 2010, p. 322.
196 Si veda, in particolare, Cass. n. 16541 del 2012, proprio in tema di responsabilità civile da sinistro stradale, nonché Cass n. 16499 del 2011, la quale ha ritenuto la sussistenza dell’incapacità a testimoniare senza che la circostanza (in capo a chi avrebbe dovuto deporre) di essere stato già soddisfatto nelle proprie pretese creditorie in conseguenza dell’avvenuto versamento della somma in contestazione, potesse dirsi idonea a riattivare una capacità a testimoniare.
197 In senso conforme si veda Cass. n. 10545 del 2007, relativa alla posizione del lavoratore.
198 Si veda, in particolare, Corte Cost. ord. n. 143 del 2009 e Corte Cost. 75 del 1997.
- indifferenza delle vicende successive.
4.4. Risarcimento dei danni da sinistro stradale
Quanto all’applicazione di tali principi nei giudizi di risarcimento del danno da sinistro stradale, i Giudici ricordano la recente statuizione di legittimità secondo cui, in aderenza al richiamato orientamento, la vittima di un sinistro stradale risulta incapace ex art. 246 c.p.c. a deporre nel giudizio avente ad oggetto la domanda di risarcimento del danno proposta da altra persona danneggiata in conseguenza del medesimo sinistro, a nulla rilevando né che il testimone abbia dichiarato di rinunciare al risarcimento, né che il relativo credito si sia prescritto199.
4.5. Conclusioni Tutto ciò considerato, con riferimento al caso di specie, la Corte osserva che il teste in questione: - era passeggero di uno dei veicoli coinvolti
nel sinistro; - ha subito danni in occasione
dell’incidente; - è pertanto portatore di un interesse
concreto ed attuale che legittimerebbe la sua partecipazione ai giudizio;
- tuttavia afferma di essere stato risarcito dalla società assicuratrice del veicolo di proprietà su cui era trasportato.
Sulla base di tali premesse, tale ultima affermazione – argomentano i Giudici sulla base dei principi sopra esposti – “non fa venir meno la sua legittimazione a partecipare al giudizio e la conseguente incapacità a testimoniare”. In conclusione, dettando il principio di diritto di cui alla massima sopra riportata, la Suprema Corte cassa la decisione impugnata laddove la Corte di appello aveva affermato che la deposizione del teste non era preclusa dalla disposizione di cui all’art. 246 c.p.c. in quanto egli era stato integralmente risarcito e non aveva pertanto un interesse concreto ed attuale che potesse legittimare la partecipazione al giudizio.
199 Cass. n. 16541 del 2012. Si veda inoltre Cass. n. 21057 del 2009.
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