INFLUENZE DELLE SCOPERTE SULLE …prima volta come capitolo del libro “Models in paleobiology”...

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CORSO DI LAUREA TRIENNALE IN SCIENZE NATURALI (F66) INFLUENZE DELLE SCOPERTE SULLE OSCILLAZIONI CLIMATICHE DEL QUATERNARIO SULLA TEORIA DEGLI EQUILIBRI PUNTEGGIATI RELATORE : PROF. MARCO FERRAGUTI RELATORE ESTERNO: Dott. EMANUELE SERRELLI CORRELATORE: PROF. MAURO CREMASCHI Elaborato finale di SILVIA MORLOTTI Matr. 756685 ANNO ACCADEMICO 2011-2012

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CORSO DI LAUREA TRIENNALE IN SCIENZE NATURALI (F66)

INFLUENZE DELLE SCOPERTE SULLE OSCILLAZIONI

CLIMATICHE DEL QUATERNARIO SULLA TEORIA DEGLI

EQUILIBRI PUNTEGGIATI

RELATORE : PROF. MARCO FERRAGUTI

RELATORE ESTERNO: Dott. EMANUELE SERRELLI

CORRELATORE: PROF. MAURO CREMASCHI

Elaborato finale di

SILVIA MORLOTTI

Matr. 756685

ANNO ACCADEMICO 2011-2012

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“La relazione tra l’organismo e l’ambiente fa parte della terra di mezzo tra due

discipline.”

Stephen Jay Gould

“Le tensioni a volte consentono di costruire ponti e nuove cognizioni sono spesso concentrate lungo la

linea di frattura tra discipline”

Niles Eldredge

“Il problema è come si possano coniugare queste due contrastanti modalità percettive, da un lato la

visione sensibile dell’amante della natura, dall’altro i modelli astratti proposti dal geologo sulla genesi e

la trasformazione del territorio stesso.”

Richard Fortey

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INDICE

INTRODUZIONE……………………………………………………………………...……2

1. Quello che Darwin sapeva a proposito dei cambiamenti climatici…………….…………6

2. La teoria degli Equilibri Punteggiati………………………………………………..……11

1.1. L’impronta diabolica della teoria………………………………………...…….11

1.2. Il gradualismo filetico………………………………………………………….12

1.3. Le specie biologiche e gli equilibri punteggiati………………………………..12

3. Breve storia delle conoscenze sul cambiamento climatico fino all’inizio degli anni

Settanta…………………………………………………………………………...…………17

4. Riferimenti espliciti al cambiamento climatico all’interno del saggio sugli Equilibri

Punteggiati……………………………………………………………………………..……26

5. Le colonne portanti della teoria e il loro rapporto con il cambiamento

ambientale…….......................................................................................................................28

5.1. La speciazione allopatrica:……………………………………………………..28

- 5.1.1. Da Mendel alla Sintesi Moderna…………………………………….28

- 5.1.2. Attenzione al cambiamento ambientale nella teoria della speciazione

allopatrica…………………………………………………………...………32

5.2. La discontinuità

- 5.2.1. La teoria dell’evoluzione Quantica di Simpson…………..………….35

6. Contestualizzazione della teoria…………………………………………….……………39

6.1. Una nuova concezione del cambiamento ambientale…………….……………40

6.2. Jurgen Haffer: la teoria dei rifugi…………………………………….………..44

6.3. I modelli intergenealogici di Norman Newell…………………………………46

6.4. La figura di John Imbrie……………………………………………...………..49

7. Teorie successive…………………………………………………………………………50

8.1. La gerarchia ecologica di Eldredge……………………………………………50

8.2. Le teorie di Elizabeth Vrba………………………………………………….…55

CONCLUSIONE……………………………………………………………………………57

BIBLIOGRAFIA……………………………………………………………………………61

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INTRODUZIONE

In questa tesi ho indagato le possibili influenze sulla teoria degli Equilibri Punteggiati (23) delle

scoperte sulle oscillazioni climatiche del Quaternario, ottenute sia dagli studi geomorfologici (2, 80)

e astronomici (1,10,71) dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, sia dalle scoperte

derivanti dai carotaggi oceanici (117), antartici (95) e groenlandesi (50,13) degli anni Sessanta.

Ogni teoria scientifica subisce inevitabilmente delle influenze riconducibili al contesto

scientifico e culturale nel quale è stata formulata (78). Indagare queste influenze può rivelare

elementi interessanti di connessione tra varie discipline ed aiutare a comprendere meglio sia le

radici di una teoria sia le sue più ampie implicazioni nel contesto scientifico generale.

A proposito di questo possiamo ritrovare un esempio illustre nella teoria dell’evoluzione per

selezione naturale elaborata da Charles Darwin nel 1859 (17). Darwin elaborò la sua teoria in un

preciso contesto storico e scientifico. Ho ritenuto importante, in primo luogo, andare a capire quali

fossero le conoscenze di Darwin a proposito del cambiamento ambientale e climatico e quale fosse

il ruolo di quest’ultimo all’interno della sua concezione di processo evolutivo.

“Gli equilibri punteggiati: un’alternativa al gradualismo filetico” è un saggio, pubblicato per la

prima volta come capitolo del libro “Models in paleobiology” (23), scritto da due giovani

paleontologi: Niles Eldredge e Stephen Jay Gould. L’anno è il 1972.

La visibilità e l’autorevolezza dei suoi autori hanno fatto sì che le idee e i concetti esposti, anche

se in qualche misura già affrontati in passato, avessero una risonanza eccezionale.

Gould ed Eldredge affermavano la natura discontinua del processo evolutivo. La lenta e graduale

trasformazione degli esseri viventi, sostenuta da Darwin in poi, non trovava riscontro, se non in

rarissimi casi, nella documentazione fossile. Secondo Eldredge e Gould, il processo evolutivo

sarebbe stato caratterizzato da lunghissimi periodi di stasi e da rapidi e improvvisi episodi di

cambiamento. Dall’articolo di Gould ed Eldredge emergeva una visione della storia passata dal

ritmo non uniforme, caratterizzato da improvvisi cambiamenti strutturali. La formazione di nuove

specie non era il risultato di un lungo e graduale processo inarrestabile - stately unfolding o

imponente dispiegamento - ma rappresentava un episodio fortuito e contingente nella storia della

vita.

Proprio questo schema irregolare, caratterizzato da picchi di cambiamento non uniformemente

distribuiti lungo la storia della vita, è indice di un nuovo modo di intendere il processo evolutivo.

Ho cercato di ricondurre l’approccio puntuazionista di Eldredge e Gould a una mutata

concezione del cambiamento ambientale e dei suoi rapporti con l’evoluzione biologica.

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Negli anni Sessanta si consolidano, infatti, le teorie tettoniche (110, 111, 112) e climatiche (13,

50, 95, 117) che rendono la nostra concezione dell’ambiente fisico, in cui gli organismi si

trasformano, irregolarmente dinamica.

La teoria degli equilibri punteggiati si colloca temporalmente nel decennio successivo, quando la

teoria della tettonica a placche era ormai consolidata e l’oscillazione climatica del Quaternario

documentata, almeno in parte, in modo preciso e quantitativo grazie ai carotaggi oceanici e di

calotta glaciale.

In questa tesi approfondirò solo le influenze legate alle scoperte sui cambiamenti climatici.

Per inquadrare la mia ricerca ho voluto, in primo luogo, andare a capire quali fossero le conoscenze

di Darwin a proposito del cambiamento ambientale e climatico e quale fosse il suo ruolo all’interno

della concezione di processo evolutivo.

Dopo un’estesa analisi del saggio originale sugli Equilibri Punteggiati ho inserito una breve

ricostruzione delle conoscenze sulle oscillazioni climatiche del Quaternario fino all’inizio degli anni

Settanta, che serve a tracciare una griglia in cui inserire le teorie evolutive che ho chiamato in

causa. Ogni teoria evolutiva è stata formulata in un preciso momento storico, durante il quale

esisteva una certa concezione dei cambiamenti climatici connessi con le ere glaciali.

Successivamente ho analizzato i riferimenti espliciti a proposito del cambiamento climatico,

contenuti nel saggio originale sugli Equilibri Punteggiati. Essi si rifanno ad alcune pubblicazioni di

Gould (39, 40), citate ed esposte nel saggio, a proposito di alcune specie di gasteropodi polmonati

pleistocenici, le Poecilozonites delle Bermuda. Questi studi, condotti alla fine degli anni Sessanta,

testimoniano l’interesse, da parte di Gould, verso l’influenza che le oscillazioni climatiche

pleistoceniche potevano avere sulla modificazione dei caratteri nelle specie.

A questo punto ho voluto scomporre la teoria degli equilibri punteggiati evidenziandone i due

pilastri portanti:

- La teoria della speciazione allopatrica (68, 70)

- La discontinuità di ritmo dell’evoluzione (89)

Queste due teorie non sono state formulate da Gould ed Eldredge, ma sono state da loro messe in

relazione, formando un quadro teorico più completo. La teoria della speciazione allopatrica è stata

formulata la prima volta nel 1942, da Ernst Mayr (68), e poi ampliata nel 1963 (70). Il primo ad

elaborare, invece, una teoria evolutiva discontinua nel ritmo fu George Gaylord Simpson, nel 1944

(89).

Ho trovato perciò interessante andare ad analizzare i classici della Sintesi Moderna contenenti le

prime formulazioni di queste due teorie, cercandovi riferimenti al cambiamento climatico, per

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cercare di capire quanto Mayr e Simpson sapessero a proposito delle oscillazioni climatiche e quale

ruolo vi attribuissero nel processo evolutivo da loro teorizzato.

Dopodiché ho considerato fondamentale capire quale fosse il contesto in cui il saggio del 1972 fu

pubblicato: quanto si parlava di cambiamento climatico nelle riviste scientifiche più generaliste? I

biologi e naturalisti erano interessati alle scoperte sul cambiamento climatico? Consideravano il

cambiamento ambientale importante a proposito della distribuzione degli organismi e nel processo

evolutivo?

La contestualizzazione ha riguardato l’analisi della concezione che si aveva in quel periodo

dell’ambiente quale entità dinamica, tramite grafici che mostrano il numero di pubblicazioni in

ambito geologico, a proposito della Tettonica a Placche e della variazione climatica, e in modo più

specifico sui cambiamenti climatici del Quaternario, lungo gran parte del Novecento.

Ma anche prima del 1972 si trovano alcuni articoli che correlano la presenza delle ere glaciali a

fenomeni di speciazione. È del 1969 la teoria di Jurgen Haffer (46) secondo cui la radiazione

adattativa della fauna ornitologica delle foreste amazzoniche sarebbe stata causata dalla

frammentazione dell’habitat provocata dalle oscillazioni climatiche del Quaternario, che avrebbero

provocato l’alternata espansione e frammentazione della copertura forestale. Al di là della veridicità

o meno di questa teoria, detta “Teoria dei rifugi”, il lavoro di Haffer è solo un esempio tra i tanti che

dimostra l’interesse di alcuni biologi e naturalisti verso le ricerche in campo paleoclimatico di

quegli anni.

Mentore di alcuni dei più importanti paleontologi del Novecento tra cui Stephen Jay Gould e

Niles Eldredge, Norman Newell è il primo ad attirare l’attenzione sui modelli intergenealogici di

estinzione e speciazione come premessa logica a una visione della storia evolutiva episodica e

discontinua e non uniforme e graduale (74, 75, 76, 77).

La figura di John Imbrie, importante paleoclimatologo del Novecento, getta un ponte storico-

personale tra la figura di Stephen Jay Gould e il mondo delle ricerche paleoclimatologiche, con una

serie di spunti di riflessione interessanti sul suo lavoro.

Nell’ultima parte ho fatto riferimento ad alcuni scritti successivi di Niles Eldredge (26, 25, 27,

28) sulla relazione che lega il mondo biotico al mondo fisico, tramite una teoria di tipo gerarchico, e

ho accennato alle teorie di Elisabeth Vrba (100, 101, 102, 103), le quali esplicitarono direttamente

l’importanza fondamentale dei cambiamenti climatici in molti casi di radiazione, dai mammiferi

africani (43), all’origine di Homo sapiens (103). Queste teorie furono sviluppate negli anni ’80,

quando ormai le ricerche paleoclimatiche avevano preso il largo, grazie alle tecnologie ed ai metodi

geochimici di datazione e ricostruzione delle passate condizioni climatiche, e rappresentano una

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sintesi coerente di tutti gli argomenti che ho chiamato in causa: la teoria degli equilibri punteggiati,

la speciazione allopatrica e le oscillazioni climatiche del Quaternario.

Il clima controlla l’ambiente entro cui le specie nascono, muoiono e si trasformano. Da esso

dipendono un numero impressionante di variabili ambientali: dallo sviluppo della vegetazione, basti

pensare alla distribuzione dei piani altitudinali, all’estensione dei ghiacciai e ai fenomeni ad esso

correlati, fino ai processi di erosione e accumulo delle strutture geologiche, il gradiente di umidità e

temperatura che controlla il bilancio idrico, la forma dei fiumi, la formazione di laghi, il livello

delle linee di costa (ecc.), solo per fare alcuni esempi.

Il paesaggio viene modellato dal clima che quindi regola abitabilità e accessibilità degli habitat.

Mentre dagli anni ‘80 in poi si può dire che la paleoclimatologia e l’evoluzionismo abbiano

cominciato a parlarsi direttamente, il processo di avvicinamento è stato invece molto complesso.

Entrambe le discipline hanno fornito una visione della storia della terra, della vita e dell’interazione

tra le due, decisamente complessa, discontinua e contingente. L’oggetto di questa tesi è l’idea che la

teoria degli Equilibri Punteggiati possa essere considerata una tappa fondamentale di questo

processo di avvicinamento.

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1. Quello che Darwin sapeva a proposito del cambiamento climatico

Il rapporto tra organismo e ambiente, di cui il clima costituisce una variabile fondamentale, è

sempre stato alla radice dello studio dell’evoluzione. Tutti gli organismi viventi, infatti, sono adatti

all’ambiente in cui vivono e presentano caratteristiche peculiari che permettono loro di sopravvivere

in certi ambienti. Questo è il punto di partenza di ogni teoria evolutiva.

Risulta però più complesso andare a individuare il ruolo assegnato all’ambiente e alle sue

trasformazioni all’interno del processo evolutivo. In particolare ho trovato utile distinguere tra

quelle caratteristiche dell’ambiente fisico definibili statiche, come ad esempio le differenze tra un

habitat e l’altro a seconda della latitudine e della quota, che si riflette in differenze di distribuzione

degli organismi, e quelle definibili dinamiche, come le trasformazioni dell’ambiente stesso dovute

principalmente a fenomeni geologici, nello specifico le variazioni geografiche e gli effetti del

cambiamento climatico.

Considero importante, prima di andare a cercare le connessioni tra la teoria degli equilibri

punteggiati e le scoperte sul cambiamento climatico, tornare alle origini della teoria dell’evoluzione

per analizzare il legame tra questa e la concezione che Darwin aveva del rapporto tra organismo e

ambiente.

Come ogni altra teoria scientifica, la teoria di Darwin è stata formulata in un preciso momento

storico durante il quale vi era una certa concezione dei cambiamenti climatici connessa con le ere

glaciali. In questo capitolo ho cercato di ricostruire, facendo riferimento all’opera principale di

Darwin, l’Origine delle specie (17), cosa sapesse Darwin a proposito di ere glaciali e cambiamento

climatico e come inserisse questi elementi nel suo quadro di modificazione dei viventi.

Innanzitutto risulta chiaro come Darwin conoscesse e condividesse le teorie a proposito di

passate ere glaciali. Nel capitolo 11, La distribuzione geografica, infatti, approfondisce

l’argomento del ruolo del cambiamento climatico sulla distribuzione degli esseri viventi.

“In Europa abbiamo prove chiarissime dell’esistenza di un periodo freddo, che ha interessato il

paese dalle coste inglesi agli Urali, spingendosi fino a sud del Pirenei.”

(17, p. 340)

“Io ritengo che il mondo sia passato di recente attraverso uno di questi grandi cicli [climatici]”

(17, p. 346).

In particolare Darwin fa riferimento alle teorie di James Croll (10) (vedi Cap 3) perché esse

implicano che i periodi glaciali, in un emisfero, provochino un riscaldamento di quello opposto.

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Secondo Darwin questo sarebbe uno scenario illuminante per la distribuzione geografica delle

specie.

Infatti nella sesta edizione dell’Origine, Darwin riassume in modo succinto ma preciso le teorie

di Croll e Lyell sul cambiamento climatico.

“Il sig. Croll, in una serie di ammirevoli memorie, ha cercato di dimostrare che lo stato glaciale

del clima è il risultato di varie cause fisiche, conseguenti ad un aumento dell’eccentricità

dell’orbita terrestre. Tutte queste cause tendono allo stesso risultato; ma la più potente di tutte

sembra essere l’influenza dell’eccentricità sulle correnti oceaniche. Secondo il sig. Croll ,i periodi

di freddo ricorrono regolarmente ogni 10.000 o 15.000 anni; questi periodi sono talora molto

rigidi, a causa di situazioni contingenti, la più importante delle quali, come ha dimostrato sir C.

Lyell, è la disposizione relativa della terra e dell’acqua.” (17, pp. 348 nota 16).

Darwin ha una concezione del mondo fisico soggetta a continui cambiamenti climatici e

geografici. Questa concezione deriva soprattutto dalla sua formazione di geologo, dalle esperienze

accumulate durante il suo viaggio intorno al mondo e dalle sue letture delle opere di Charles Lyell

(67). All’interno dell’Origine delle Specie il suo interesse verso le caratteristiche dinamiche

dell’ambiente fisico è focalizzato soprattutto a proposito della migrazione:

“I mutamenti del clima devono aver avuto una forte influenza sulla migrazione: quando il clima

era diverso, una data regione, attualmente invalicabile, poteva essere un’ampia via di transito per

le migrazioni.” (pp. 330)

“Là dove ora si estende il mare, in un’epoca passata, la terra può aver collegato insieme isole e

persino continenti, consentendo in tal modo alle specie terrestri di passare da un punto all’altro.

Non vi è geologo che metta in dubbio il fatto che, da quando esistono organismi viventi, si sono

avute grandi variazioni di livello.” (pp. 330)

Darwin si impegna molto ostinatamente a trattare l’argomento della migrazione, dedicandovi due

lunghi capitoli, perché la presenza di popolazioni di organismi della stessa specie, o di specie molto

simili, viventi in località separate e senza la possibilità di migrare dall’una all’altra, rappresenta una

delle possibili critiche alla sua teoria in quanto porterebbe a concludere che le stesse specie sono

state create indipendentemente in luoghi distinti. Invece il fatto che l’ambiente fisico possa aver

subito dei mutamenti ingenti durante la storia della Terra permette a Darwin di superare questa

difficoltà

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Scrive infatti: “anche noi avremmo potuto essere dello stesso parere se Agassiz ed altri non

avessero messo molto bene in rilievo l’influenza dell’era glaciale che, come vedremo subito, ci dà

una spiegazione semplice di questi fatti. Disponiamo di prove tratte da una serie di fatti di ordine

sia organico che inorganico, le quali ci dimostrano che, in un’epoca geologicamente molto recente,

l’Europa Centrale e l’America Settentrionale subirono gli effetti di un clima artico” (p. 336).

Come prove geomorfologiche della “incontrovertibile esistenza di una passata era glaciale”

Darwin cita i fianchi scavati e le superfici lisciviate delle montagne scozzesi e gallesi, le morene

dell’Italia Settentrionale, i massi erratici e i ghiacciai costieri statunitensi.

Gli organismi viventi quindi, sia piante che animali, migrerebbero seguendo le fasce climatiche a

loro più favorevoli. Le specie artiche si sarebbero diffuse nelle pianure dei continenti durante i

periodi più freddi e, con il ritorno del caldo, si sarebbero trovate isolate sulle vette più alte, anche a

migliaia di chilometri di distanza.

In questo modo Darwin risolve il problema delle caratteristiche nella distribuzione degli

organismi, che difficilmente avrebbero potuto essere spiegati in un contesto di ambiente fisico

immutabile e statico.

Ma il cambiamento climatico avrebbe un qualche tipo di ruolo nel processo di speciazione?

Parlando ancora dei gruppi di organismi rimasti isolati a certe altitudini grazie al riscaldamento

del clima, Darwin aggiunge: “Esse saranno state esposte a condizioni climatiche alquanto diverse.

Per questo i loro rapporti reciproci saranno stati alterati, entro certi limiti, e quindi le specie

saranno probabilmente andate incontro a modificazioni.” (p.338)

Si fa riferimento, quindi, a diverse condizioni fisiche in grado di modificare prima di tutto i

rapporti reciproci tra organismi, che a loro volta produrrebbero modificazioni nei caratteri delle

specie.

Nel quarto capitolo, intitolato La selezione naturale, uno dei nuclei fondamentali

dell’esposizione del suo pensiero, dopo aver definito l’oggetto del capitolo come “conservazione

delle variazioni favorevoli ed eliminazione delle variazioni nocive” (p.100), Darwin prende ad

esempio teorico, per meglio esporre l’argomento, “il caso di un paese che subisca un mutamento

fisico, di clima, per esempio.”

Darwin analizza le conseguenze di questo mutamento climatico, secondo la sua concezione. Il

mutamento fisico è visto, innanzi tutto, come causa di un mutamento nelle proporzioni numeriche

che, nel caso in cui non fosse possibile l’immigrazione di altre forme di vita, provocherebbe delle

“lacune nell’economia della natura”. In questo caso ogni lieve modificazione tenderebbe a

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conservarsi, lasciando più libertà di azione alla selezione naturale. Quindi, in questo caso, il

mutamento fisico, è visto come catalizzatore o aiutante della selezione naturale.

Ma poche righe più in basso precisa: “Non credo che sia veramente necessario un grande

cambiamento di ordine fisico, come un mutamento del clima, né che una non comune situazione di

isolamento, che ostacoli l’immigrazione, sia veramente necessaria per produrre nuovi posti

disponibili che la selezione naturale possa riempire modificando e migliorando qualche abitante

suscettibile alla variazione”, infatti, fa notare Darwin, gli organismi non sono mai perfettamente

adattati al loro ambiente, ma hanno sempre uno spazio di miglioramento in cui la selezione può

agire.

Per Darwin, la competizione è soprattutto biotica, non è indispensabile alcun cambiamento

ambientale per far sì che i caratteri delle specie si modifichino.

Esiste l’ambiente ed esiste l’organismo: gli organismi competono tra di loro e quelli più adatti

all’ambiente sopravvivono e si riproducono. L’ambiente, e i suoi cambiamenti, possono entrare

saltuariamente in scena, ma rimangono sullo sfondo.

“Se, per esempio, un certo numero di specie, che si trovano in stretta competizione tra loro,

migrano in massa in una nuova terra che, da allora in poi, rimane isolata, le modificazioni di

queste specie saranno probabilmente scarse perché né la migrazione né l’isolamento possono da

soli fare qualcosa. Questi principi servono solo a creare nuovi rapporti reciproci fra gli organismi

e, in minor misura, fra gli organismi e le condizioni ambientali circostanti.” (p.327, sottolineature

mie).

In questo breve passaggio troviamo due concetti fondamentali:

Il fatto che una specie isolata vada incontro a scarse modificazioni, perché ha meno

occasioni di competizione biotica.

L’ulteriore conferma della superiorità della competizione biotica sul rapporto organismo-

ambiente per quanto riguarda la modificazione delle specie.

Introduco qui un altro concetto fondamentale per il mio ragionamento che riguarda il

gradualismo delle modificazioni. Il gradualismo darwiniano è una caratteristica dell’impostazione

più matura della teoria dell’evoluzione. Secondo alcune ipotesi derivate dallo studio dei suoi

Taccuini (82) è emerso come Darwin, tra il 1836 ed il 1844, avesse una visione saltazionista del

processo evolutivo: “Non [c’è] un cambiamento graduale, se una specie si trasforma invero in

un'altra deve essere per saltum” (16).

Il suo successivo e radicale gradualismo affonda invece le sue radici, sicuramente almeno in

parte, nell’influenza che l’attualismo in campo geologico ha esercitato sul suo pensiero, in

contrapposizione al catastrofismo. L’attualismo ha infatti anche un significato di uniformità di

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ritmo, un ritmo lento e costante in contrasto con le catastrofi delle teorie geologiche rivali della

prima metà del IXX secolo (20, 24, 27). Nella biografia di Desmond & Moore (20) si legge: “Per

Darwin, che lo guardava attraverso gli occhi di Lyell, il mondo era un’accumulazione di

cambiamenti minuti, il tutto in modo naturale, graduale e lento”.

La lettura delle opere di Lyell e le esperienze vissute sul Beagle, come il terremoto cileno del

1835 e le sue osservazioni a proposito della cordigliera Andina, che Darwin immagina come il

prodotto di ripetuti sollevamenti e inabissamenti della crosta terrestre, disegnano nella mente del

giovane naturalista “l’invincibile potenza dinamica della natura, moltiplicata per un tempo quasi

inimmaginabile: ecco il paesaggio di sfondo dell’evoluzione, il modello di gradualità uniforme che

poi Darwin estenderà al mondo vivente.” (82)

Nel capitolo 10 dell’Origine, Successione degli organismi viventi, Darwin affronta l’idea

dell’immutabilità delle specie contro la concezione di una loro lenta e graduale modificazione. Le

specie si modificano lentamente e gradualmente:

“Il processo di modificazione e quindi la comparsa delle forme affini devono essere lenti e

graduali. Una specie dà luogo inizialmente a due o tre varietà, che col tempo si trasformano in

specie le quali, a loro volta, producono con altrettanta lentezza altre specie, e via di seguito – in un

modo che ricorda la suddivisione dei rami del tronco di un grosso albero – finché il gruppo diventa

grande.” (p.302)

Le varie specie, però, non avrebbero un ritmo di modificazione uniforme, ma esso potrà variare

tra una specie e l’altra, “le specie appartenenti a diversi generi o a diverse classi non sono mutate

con la stessa velocità né allo stesso modo” (p. 299), a causa del fatto che “la variabilità della

singola specie è assolutamente indipendente da quella delle altre”(p. 300).

Riassumendo:

- Darwin aveva una conoscenza piuttosto avanzata nel campo dei cambiamenti climatici, in

particolar modo dal 1872 in poi.

- Darwin applica la sua visione di una terra dinamica dal punto di vista geologico a proposito

della migrazione degli organismi

- Il cambiamento ambientale non ha un ruolo importante nel processo di speciazione.

- Il ritmo dell’evoluzione, nella sua formulazione matura, è lento e graduale, ma può variare

tra una specie e l’altra.

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2. La teoria degli Equilibri Punteggiati

Il saggio del 1972, Punctuated equilibria an alternative to phyletic gradualism (23), scritto da

Stephen Jay Gould (New York, 1941 – New York, 2002) e Niles Eldredge (Brooklyn, 1943), è un

lavoro squisitamente teorico, paragonabile alla costruzione di un puzzle, a cui non è stato aggiunto

alcun nuovo dato. Non fu pubblicato su una rivista scientifica, ma come capitolo di un libro di

Thomas J. M. Schopf, intitolato Models in Paleobiology.

Esso può essere definito come un saggio critico che si compone di molti elementi, nessuno dei

quali totalmente originale. Originalità e genialità risiedono nell’accostamento dei vari elementi che,

collegati tra loro, diedero vita ad un modello alternativo del processo evolutivo.

Le citazioni presenti in questo capitolo si riferiscono tutte all’edizione italiana del saggio

originale.

2.1. L’impronta diabolica della teoria

Le prime pagine del saggio ospitano una riflessione epistemologica, ispirata alle teorie di

Thomas Kuhn (63) e Paul Feyerabend (33).

Il metodo induttivo non è applicabile, nella realtà del processo conoscitivo. Ogni teoria non

emerge da una fredda e paziente ricerca di dati, ma è anzi la stessa teoria, cui in quel momento

consciamente o inconsciamente ci riferiamo, ad influenzare la nostra percezione dei fenomeni e la

selezione dei dati da raccogliere ed analizzare.

“Le aspettative generate da una teoria colorano la nostra percezione ad un tale grado che i

nuovi concetti raramente emergono da evidenze raccolte sotto l’influenza di una vecchia visione del

mondo. Le nuove visioni devono esercitare la loro influenza prima che i fatti possano essere visti in

una differente prospettiva”.(p. 221)

Anche se non ce ne rendiamo conto, le nostre osservazioni sono sempre a favore o contro una

particolare teoria. Nel caso in cui la teoria in uso sia inadeguata, essa non sarà mai confutata dai dati

raccolti alla luce di questa teoria, ma dovrà essere soppiantata da un’altra teoria, nel caso in cui

quest’ultima riesca a fornire un’interpretazione più adeguata dei dati. Non ha importanza quale sia

l’origine della nuova teoria.

La vecchia e inadeguata prospettiva che influenza le osservazioni dei paleontologi a proposito

dell’evoluzione, è l’idea di gradualismo filetico. Una nuova teoria, elaborata in un contesto altro

rispetto a quello della paleontologia, e più adeguata, secondo gli autori, ad interpretare la storia

evolutiva, sarebbe quella che vede come processo prevalente quello della speciazione allopatrica.

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2.2. Il gradualismo filetico

I due autori identificano i principi essenziali del gradualismo filetico (109) in questo modo:

Le nuove specie sorgono in seguito alla trasformazione di una popolazione antenata nelle

sue discendenti modificate

Questa trasformazione è lenta e regolare

La trasformazione coinvolge grandi numeri: di solito l’intera popolazione antenata

La trasformazione ha luogo in tutto l’ambito di distribuzione geografica della popolazione

antenata, o almeno in gran parte di esso.

Questa concezione affonda le sue radici nel pensiero Darwiniano. Secondo Darwin, infatti, le

specie possono originarsi in due modi: per evoluzione filetica (trasformazione di un’intera

popolazione) o per speciazione (in seguito alla divisione di una linea di discendenza). Nei punti in

cui discusse la speciazione, però, Darwin continuò a ragionare attraverso i principi della

trasformazione, considerando questa visione come un processo lento e graduale che produceva una

lenta divergenza tra le forme.

Se così fosse la documentazione paleontologica dovrebbe restituirci numerose serie ininterrotte

di forme che sfumano gradatamente le une nelle altre, trasformazioni graduali di ogni carattere, e

sviluppo lento e impercettibile di nuove strutture.

Ma la documentazione fossile sembrava raccontare una storia completamente differente. Darwin

spiegò l’incongruenza appellandosi all’imperfezione di tale documentazione e, come lui, la maggior

parte degli studiosi successivi.

2.3. Le specie biologiche e gli equilibri punteggiati

Il paragrafo centrale del saggio si apre con l’esposizione della difficoltà di conciliazione tra i

concetti di specie biologica (70) e gradualismo filetico. Ovvero: qual è la natura della specie

paleontologica?

I biologi hanno affermato che la specie biologica, come popolazione di individui tra loro

effettivamente o potenzialmente interfecondi, isolata riproduttivamente dagli altri gruppi, è

un’entità naturale reale. Ma la definizione, dovuta all’ornitologo Ernst Mayr, si regge solo

nell’accezione adimensionale: cioè le specie sono divise in qualunque momento temporale, come in

un’istantanea, ma con il trascorrere del tempo i confini tra le forme viventi devono diventare

indistinti. Come si può dividere una discendenza continua in una serie di segmenti ben definiti?

Questo non è un problema reale, ma un dibattito sulle modalità di ordinamento delle

informazioni, secondo gli autori, piuttosto sterile. Ciò che interessa davvero sono le implicazioni del

concetto di specie biologica riguardo al funzionamento dei processi evolutivi. La teoria della

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speciazione allopatrica, soprattutto, potrebbe modificare la nostra visione dell’origine delle unità

tassonomiche.

Segue una esposizione del concetto di speciazione allopatrica (70).

“Il concetto fondamentale consiste nel dire che le nuove specie possono sorgere soltanto quando

una piccola popolazione locale rimane isolata al margine dell’ambito di distribuzione geografica

della sua specie genitrice. Popolazioni isolate di questo genere sono denominate isolati periferici.

Un isolato periferico si trasforma in una nuova specie se si sviluppano dei meccanismi di

isolamento capaci di impedire la riapertura del flusso genico, nel caso in cui la nuova forma

incontri ancora la sua forma genitrice, in qualche momento futuro. Una conseguenza della teoria

allopatrica è che le nuove specie fossili non si originano nel luogo in cui vivevano i propri antenati.

È estremamente improbabile che si possa ricostruire la graduale divisione di una linea di

discendenza seguendo semplicemente le vicende di una determinata specie attraverso i vari stadi di

una colonna locale.”(p. 234).

La maggior parte della divergenza morfologica si produrrebbe nelle prime fasi del processo di

differenziazione, quando la popolazione è piccola e quindi ancora in grado di modificarsi in

relazione alle condizioni locali.

“Quindi nel record fossile non dobbiamo aspettarci di trovare divergenze graduali tra due

specie imparentate tra loro. La maggior parte dei cambiamenti evolutivi morfologici accadono in

un breve periodo di tempo relativamente alla durata di vita totale di una specie. Dopo che la specie

discendente si è stabilizzata, potranno esserci solo piccoli cambiamenti evolutivi, a meno che le due

specie tornino in simpatria per la prima volta. Queste semplici conseguenze della teoria allopatrica

possono essere combinate in un pattern atteso del record fossile.” (p. 236).

Troviamo poche forme di transizione perché solo in circostanze eccezionali possiamo essere in

grado di identificare l’area approssimativa in cui la nuova specie ha avuto origine.

Il fattore fondamentale è l’adattamento degli isolati ad una serie eterogenea di microambienti

contrapposto ad un modello generale di stasi che persiste con il passare del tempo.

Quindi i principi della speciazione allopatrica, secondo Gould ed Eldredge, sono:

Le nuove specie sorgono in seguito ad una divisione delle linee di discendenza

Le nuove specie si sviluppano velocemente

A dare origine alla nuova specie è una piccola sottopopolazione della forma antenata

La nuova specie si origina in una piccolissima parte dell’areale della specie ancestrale; in

un’area isolata alla periferia dell’areale.

Di conseguenza in ogni sezione locale che comprenda la specie ancestrale, il record fossile

sull’origine della specie discendente consisterebbe in una discontinuità morfologica ben definita tra

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le due forme. Perciò molte discontinuità nel record fossile sono reali; esprimono il modo in cui

l’evoluzione agisce, e non i frammenti di un record fossile imperfetto.

La speciazione allopatrica, quindi, è molto più adatta del gradualismo filetico, ad interpretare i

dati empirici che sono i resti fossili. Questo perché una concezione graduale del cambiamento

evolutivo non è in grado di comprendere come la speciazione sia innanzi tutto un processo

ecologico e geografico. La concezione del gradualismo filetico “non emerge dai laboratori in cui si

studia Drosophila, ma rappresenta un’ipotetica estrapolazione dei meccanismi evolutivi osservati

dai genetisti” (p. 238). Inoltre sono pochissimi gli esempi paleontologici “classici” che potrebbero

avvalorare una visione gradualista dell’evoluzione. La situazione, nella maggior parte dei casi in cui

si postula il gradualismo, è quella di linee tratteggiate che connettono i campioni noti. La maggior

parte delle analisi che si sforzano di illustrare il gradualismo filetico ricorrendo direttamente alla

documentazione fossile, sono interpretazioni basate su un’idea preconcetta. Infatti i tre “cavalli di

battaglia” della letteratura inglese (l’evoluzione del cavallo, il caso dell’echinoide del Cretaceo

Micrastrer e l’ostrica del Giurassico Gryphacea) sono anch’essi meglio interpretabili ponendosi dal

punto di vista della speciazione allopatrica.

A questo punto Gould ed Eldredge presentano rispettivamente due casi di studio specifici. Gould

(39, 40) ha analizzato l’evoluzione di Poecilozonites bermudensis zonatus Verril, un gasteropode

polmonato, durante gli ultimi 300.000 anni del Pleoistocene delle Bermuda. Gli esemplari furono

raccolti da una sequenza alternata di sedimenti eolici e terra rossa. Come si osserva nella fig.1, i

nomi e le descrizioni delle

formazioni, sono correlate con

i periodi glaciali ed

interglaciali. Distinti modelli

di strisce colorate

differenziano una popolazione

orientale ed una occidentale di

P. bermudensis zonatus. Il

confine tra i due gruppi è

netto. Gould (40) ha discusso

le oscillazioni parallele di

parecchi tratti morfologici in

entrambi i gruppi, che

consistono in modificazioni

adattative quali risposte alle

Fig. 1 (Tabella da Edredge, Gould, 1972)

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variazioni climatiche controllate dalle glaciazioni. Entrambi i gruppi mostrano una stabilità per altri

tratti che li distinguono dai loro parenti più stretti. Non esiste nessuna testimonianza che dimostri

una divergenza graduale fra i due gruppi di P. B. zonatus orientale e occidentale.

Gould ricostruisce poi un albero filogenetico che ipotizza la formazione di quattro popolazioni

pedomorfiche a partire da P. b. zonatus, fornendo anche una spiegazione adattativa di questo

processo. Ciò che più importa sottolineare di questo lavoro è:

- L’attenzione prestata ai dati geografici

- Una presenza stratigrafica discontinua

- L’attenzione prestata alla morfologia

In breve la sola attenzione prestata ai dati morfologici fornirebbe varie possibilità di alberi

filogenetici graduali, ma un’interpretazione più completa considera complessivamente dati

morfologici, stratigrafici e geografici e da questa deriva una visione punteggiata della filogenesi.

Eldredge invece (24) presenta la storia filogenetica del trilobite Phacops rana Green del

Devoniano medio dell’America Settentrionale che fornisce un altro esempio dell’effetto dei

processi allopatrici qui ipotizzato. Fra i campioni di P. rana la maggiore quantità di variazione è

presentata dalle caratteristiche della morfologia oculare. Le lenti sono disposte sulla superficie

visiva dell’occhio secondo colonne verticali dorso-ventrali: il numero di queste colonne è la

caratteristica più importante di variazione considerata da Eldredge.

Il numero primitivo delle colonne dorso-ventrali, per tutti i tipi di Phacops rana dell’America

settentrionale, è 18. Sembra che la forma a 17 colonne, cioè Phacops rana rana, sia sorta a partire

da una popolazione a 18 colonne situata nella periferia nord-orientale dell’ambito cazenoviano di

distribuzione geografica di Phacops rana, e si sia poi diffusa, sostituendo le popolazioni a 18

colonne che con ogni probabilità si estinsero nel corso di un prosciugamento generale dei mari

dell’interno del continente. Quindi la riduzione delle colonne dorso-ventrali ebbe luogo in maniera

allopatrica, alla periferia dell’ambito di distribuzione noto di Phacops rana e si diffuse in seguito ad

un concomitante ed ingente cambiamento ambientale.

Anche qui l’attenzione ai dettagli della geografia, consente un’interpretazione più letterale dei

resti fossili e, in entrambi i casi, si tratta di eventi evolutivi rapidi che punteggiano una storia di

stasi.

Gould ed Eldredge stimano che le testimonianze fossili della maggior parte dei Metazoi provino

le conseguenze di questa teoria in maniera più netta di quanto non siano in grado di provare quelle

che derivano dal gradualismo filetico.

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A questo punto i due autori estendono questa immagine per vedere quale sia lo stato della

macroevoluzione alla luce della loro proposta. Per il gradualismo filetico la storia della vita

apparirebbe come un dispiegamento lento e solenne in cui la maggior parte dei cambiamenti ha

luogo in maniera lenta ed uniforme, così come la divisione delle linee di discendenza.

L’estrapolazione dell’immagine alternativa dei due autori, invece, implica che “la storia di una

linea di discendenza comprenda lunghi periodi di stabilità morfologica punteggiati qua e là da

rapidi eventi di speciazione in sottopopolazioni isolate” (p. 254). Questa immagine prende il nome

di teoria degli Equilibri Punteggiati.

“Per una specie o più in generale per una comunità, la norma è la stabilità. La speciazione è un

evento raro e difficile che punteggia un sistema caratterizzato da un equilibrio omeostatico.” (p.

260, sottolineature mie).

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3. Breve storia delle conoscenze paleoclimatiche fino all’inizio degli anni Settanta

All’interno della teoria degli Equilibri Punteggiati il rapporto che lega gli organismi con il loro

ambiente risulta fondamentale. Per i due autori la speciazione è “innanzitutto un processo ecologico

e geografico” (23) e la teoria da loro proposta rende ragione di questo rapporto in modo più

completo di quanto avesse fatto, fino ad allora, la teoria del gradualismo filetico.

Per il percorso che andrò a tracciare dovrò porre l’attenzione sulle caratteristiche dinamiche di

un ambiente in continua ed irregolare variazione e disegnare i collegamenti tra il riconoscimento di

tali caratteristiche ed i principi del processo evolutivo indicati dai vari scienziati nel corso del

tempo.

Perciò ho trovato utile ricostruire le principali tappe della paleoclimatologia, dal 1840, anno di

pubblicazione dello Studio sui ghiacciai di Luis Agassiz (2) fino all’inizio degli anni Settanta,

quando Eldredge e Gould diedero alle stampe il loro saggio sugli equilibri punteggiati.

Per far questo ho cercato di ricostruire la sequenza delle scoperte facendo riferimento alle

pubblicazioni più importanti ed ai rapporti di ricerca, con particolare attenzione all’anno di

pubblicazione.

Nella storia delle ricerche sull’instabilità climatica del Quaternario si individuano tre importanti

filoni di ricerca:

L’analisi dei proxy data (dati indiretti) geomorfologici e pedologici

La ricerca delle cause fisiche e astronomiche dell’instabilità climatica

La raccolta dati attraverso carotaggi di sedimenti oceanici e di calotta glaciale

I primi due filoni di ricerca si sviluppano quasi contemporaneamente, ma il primato appartiene

alla ricerca geomorfologica, infatti la prima formalizzazione della teoria glaciale è del 1840 e si fa

corrispondere con la pubblicazione di Luis Agassiz Studio sui ghiacciai (2). In quest’opera l’autore

si dedica allo studio della dinamica e geomorfologia glaciale e traccia uno scenario suggestivo: egli

immagina la Svizzera, luogo di raccolta dei suoi dati, in un passato relativamente recente, ricoperta

da uno spesso e continuo strato di ghiaccio tale da occupare l’intera vallata svizzera nord-

occidentale, fino ai pendii meridionali del Jura. C’era dunque stato un tempo, relativamente vicino

sulla scala dei tempi geologici, in cui la temperatura media globale era stata minore di quella

attuale, tanto da permettere la formazione di ghiacciai così estesi anche a basse latitudini.

Agassiz non fu il primo studioso ad ipotizzare la presenza di una passata era glaciale, ma fu il

primo a formalizzarne l’ipotesi. Già l’ingegnere svizzero Ignaz Venetz, sette anni prima, aveva

pubblicato Mémoire sur les Variations de la température dans les Alpes de la Suisse (99), dove

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ipotizzava una copertura glaciale totale dell’Europa, da qualche parte nel tempo geologico. Inoltre

in numerose pubblicazioni precedenti al 1840, tra cui Principles of Geology di Charles Lyell, si fa

menzione di tracce geologiche o fossilifere di improvvisi cambiamenti climatici (67).

Era dunque chiaro che le ere glaciali avevano modificato l’ambiente, soprattutto dal punto di

vista morfologico, e che questo fenomeno si era verificato più volte. Nonostante questo non si

conosceva il numero né l’entità delle glaciazioni che si erano susseguite. Il primo schema di

suddivisione delle fasi glaciali fu proposto da Albrecht Penck e Eduard Bruckner, studiosi tedeschi,

che, studiando le morene delle valli alpine, collegate ai terrazzi fluvioglaciali, pubblicarono “Le

Alpi nell’antica età glaciale” nel 1909 (80). Questo libro consisteva in uno studio geomorfologico

sulle evidenze delle glaciazioni.

Individuarono una teoria glaciale quadripartita: quattro glaciazioni denominate in base ad

altrettanti tributari del Danubio, dove avevano individuato le rispettive cerchie moreniche:

GUNZ

MINDEL

RISS

WURM

Separate da altrettanti interglaciali

Gunz- Mindel

Mindel-Riss

Riss-Wurm

Attuale

Per quanto riguarda la datazione delle varie formazioni Penck e Bruckner usavano metodi

relativi. Ad esempio attraverso lo studio dei paleosuoli (suolo la cui formazione possa essere

riferita ad un ciclo pedogenetico nel passato, sia esso attualmente concluso o meno) (9). Più spesso

è lo strato di suolo, che loro attribuiscono esclusivamente all’interglaciale, più la pedogenesi ha

avuto tempo per agire. A questa categoria di suoli (Vetosuoli) appartiene il Ferretto, argilloso e

Fig. 2 (Testo originale: Lyell, 1830)

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ricco di ferro, che presenta notevoli spessori nell’arco Alpino. Penck e Bruckner attribuivano la sua

origine al Mindel-Riss, interglaciale particolarmente lungo, e usavano questo riferimento per la

datazione delle altre formazioni.

Ma un altro campo di ricerca si andava sviluppando parallelamente a quello geomorfologico:

l’astronomia applicata alle variazioni climatiche.

Parallelamente allo studio degli effetti dei cambiamenti climatici, infatti, si voleva indagare

anche le cause di questo fenomeno. Nel 1842 (quindi solo due anni dopo la pubblicazione di

Agassiz) Joseph Adhemar (1) fu il primo a collegare il verificarsi dell’era glaciale con effetti

astronomici che comportano variazioni dell’irradiazione solare e, precisamente quei cambiamenti

periodici del moto della Terra intorno al Sole previsti dalla teoria gravitazionale Newtoniana.

Ma il vero teorico dell’origine astronomica dell’era glaciale fu lo scozzese James Croll. Egli è

stato spesso considerato un “precursore di Milankovich” dalle idee inesatte, una sorta di curiosità

storica. Al contrario le sue intuizioni sul legame tra fattori astronomici e geologici e su quello tra

cosmologia e clima, influenzarono profondamente la scienza dell’epoca, in particolare Charles

Lyell, che, seppure in polemica con Croll sulle cause geografiche ed astronomiche del cambiamento

climatico, tenne conto delle teorie di quest’ultimo a partire dalla decima edizione del suo Principles

of Geology.

Darwin, che conosceva bene l’opera di Lyell, nella sesta edizione dell’Origine delle specie (17),

dedica un paragrafo alla teoria di Croll.

Come fa notare il Saturday Review, “Ogni studioso onesto ammetterà come gli scritti di Croll

abbiano avuto una radicale influenza sulla discussione cosmologica. In un certo modo la sua

influenza può essere paragonata a quella che ha avuto Darwin per la biologia evoluzionistica.”

(86)

Nella visione di Croll la storia della terra era stata caratterizzata da molteplici ere glaciali e in

funzione del nostro discorso sono importanti due lettere, degli anni ’80 del IXX secolo, che Croll

scrisse ad Alfred Russel Wallace e a Charles Darwin.

A Wallace scrisse:

“It is, I think, now beyond question that the Glacial epoch consisted of a succession of cold and

warm periods, which must be accounted for in any theory of geological climate” (11).

E a Darwin:

“It is strange that many geologists are so reluctant to admit Interglacial periods, which so much

upset the [received] theories of climate.” (11)

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Nel 1875 pubblicò un libro dal titolo: “Clima e tempo nelle loro relazioni geologiche. Una teoria

del cambiamento climatico della terra attraverso i secoli” (10). Croll affermava che:

“Le vere cause del cambiamento climatico devono essere cercate nella relazione della

nostra terra con il sole” (quindi nei suoi parametri orbitali)

I fenomeni geologici e astronomici sono fisicamente correlati da una catena causale

Il cambiamento dei parametri orbitali terrestri (precessione degli equinozi, eccentricità

dell’orbita ed obliquità dell’asse terrestre), combinati con gli effetti di feedback, sarebbero

stati “sufficienti a causare ogni cambiamento climatico estremo documentato dalle evidenze

geologiche” (10).

Croll calcola come l’eccentricità cambi con un periodo di 100.000 anni, e l’angolo di apertura

del cono di precessione con 40.000 anni. Questi effetti combinati darebbero origine a irradiazioni

molto diverse nei due emisferi a intervalli intorno ai 22.000 anni.

La teoria di Croll venne abbandonata in quanto i suoi calcoli non sembravano accordarsi con le

evidenze di un’era glaciale conclusasi 10.000 anni fa e perché le variazioni dell’irradiazione solare

causate dalla variazione dei parametri orbitali non sembravano sufficienti ad innescare un

cambiamento di temperatura tale da provocare un’era glaciale.

Secondo Milankovich l’inadeguatezza della teoria di Croll consisteva nel poco peso dato alla

variazione dell’obliquità dell’asse nei calcoli dell’irradiazione (59).

All’inizio del XX secolo era quindi stato assodato, grazie ad evidenze geologiche, che la storia

della terra comprendesse una storia di mutamento climatico consistente, la cui origine poteva essere

astronomica oppure legata alla dinamica della crosta terrestre.

Compito degli studiosi del Novecento fu quello di individuare metodi indiretti per ricavare

informazioni sulla temperatura e sulla composizione chimica dell’atmosfera, degli oceani e della

crosta terreste.

Nel 1920 il matematico serbo Milutin Milankovich (1879-1958) riprese la teoria di Croll, ma con

alcune fondamentali modifiche:

Propose di attribuire le ere glaciali a periodi con estati relativamente fredde, anziché, come

aveva fatto Croll, ad inverni molto freddi. Infatti se la stagione estiva è breve il ghiaccio

formato in inverno non si scioglie del tutto e il bilancio di massa dei ghiacciai risulta

positivo.

L’aumento della copertura di ghiaccio avrebbe causato una maggior riflessione della

radiazione solare, con un conseguente ulteriore raffreddamento della superficie

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Incluse nei calcoli anche la variazione dell’obliquità dell’asse, oltre alla precessione degli

equinozi e all’eccentricità dell’orbita (71).

I suoi dati furono incrociati con quelli del geologo tedesco Wladimir Koppen (62), sulla storia

dei ghiacciai alpini, ottenendo un accordo notevole tra i periodi glaciali e il verificarsi delle estati

fredde. Milankovitch calcolò il Calendario equivalente di latitudine a 65°N per gli ultimi 600.000

anni (fig. 3).

La linea è un’isoterma che indica la temperatura a 65°N da 600.000 anni fa fino al 1800. La

curva indica la temperatura che in un determinato periodo c’era a 65°N indicando la temperatura

attuale ad una certa latitudine. Ad esempio se la curva scende a 70° gradi vuol dire che in quel

periodo la temperatura a 65°N era come quella che noi oggi abbiamo a 70°, quindi più fredda.

La temperatura considerata è la media del semestre estivo. I calcoli di Milankovitch non si

accordavano, però, con la teoria della glaciazione quadripartita sostenuta da Penck e Bruchner.

Come si vede dal grafico, secondo Milankovich si possono contare almeno undici picchi glaciali

negli ultimi 600.000 anni e non quattro. La disputa pareva inconciliabile, serviva un altro tipo di

dato indiretto, che indicasse con dei parametri precisi ciò che era effettivamente successo sulla

superficie terrestre e non fosse stato falsato o reso incompleto da perturbazioni ambientali.

Il metodo di raccolta dati che rivoluzionò la paleoclimatologia del Novecento fu quello

dell’analisi isotopica delle carote estratte dai fondali marini e dalle calotte glaciali.

La misura della concentrazione degli isotopi dell’ossigeno, applicata al ghiaccio ricavato dai

carotaggi, come indicatore delle passate oscillazioni climatiche era stato proposto da Willi

Fig. 3 (Milankovitch, 1920)

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Dansgaard nel 1954 (12). Nello stesso anno Cesare Emiliani, fondatore della paleoceanografia,

aveva trovato una correlazione tra la quantità relativa di isotopi dell’ossigeno nel carbonato di

calcio dei gusci dei foraminiferi e la temperatura dell’acqua marina superficiale al momento della

loro morte e notò la possibilità di utilizzarlo come metodo di determinazione per gli studi

paleoclimatologici basati sul materiale ricavato dai sedimenti di mare profondo (studiati fin dal

secolo precedente per fini pratici di navigazione) (30). Entrambi presero spunto da un libro,

pubblicato solo due anni prima da Harold Urey intitolato The Planets: Their Origin and

Development, (96) uno dei primi lavori pionieristici riguardanti la composizione del sistema solare

che conteneva alcuni spunti sull’uso degli isotopi dell’ossigeno e del deuterio (da lui isolato nel

1934) come sistemi di ricostruzione paleoclimatica.

I primi carotaggi moderni furono le perforazioni oceaniche attuate dalla nave Globar Challenger

all’interno del Deep See Drilling Project a partire dal 1968 che, però, si concentrarono sullo studio

della stratigrafia e litologia dei sedimenti oceanici profondi in parecchi siti dell’Oceano Pacifico,

come si legge nel primo rapporto del DSDP (117):

“Objectives: They were to study the stratigraphy and lithology of deeper sediments of Sigsbee

Abyssal Plain near the Sigsbee Scarp. This hole was drilled mainly to obtain operational practice

in deep drilling and coring.”

Non si fa cenno a obiettivi di ricostruzione paleoclimatica.

Il primo importante studio paleoclimatico su una carota oceanica sarà quello attuato nel 1973 da

Nicholas John Shackleton sulla carota V28-238, che stabilì su questi dati la Marine Isotopic Stages

(scala di suddivisione temporale tra glaciali ed interglaciali tutt’ora in uso, che andò a soppiantare

l’ormai superata nomenclatura quadripartita di Penck e Bruchner) (87) (fig.4).

Fig. 4 (Shackleton, 1973)

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Per quanto riguarda i carotaggi delle calotte glaciali, esse furono attuate in Groenlandia e sul

continente Antartico. Le ricostruzioni paleoclimatiche non erano, inizialmente, il primo obiettivo

neanche di queste perforazioni. Ad esempio nel rapporto sulla perforazione di Byrd Station, il primo

carotaggio sul continente antartico, dell’estate boreale tra il 1967-68, si può leggere chiaramente

l’obiettivo della perforazione (95):

“…to obtain a hole completely penetrating the ice sheet for measuring the temperature profile,

the flow within the sheet and the ice flow relative to the underlying bed and to provide a continuous,

undisturbed core for investigating the physical, structural and geochemical properties of the ice.”

Si andavano ad indagare quindi soprattutto le proprietà fisiche e strutturali del ghiaccio.

La prima perforazione glaciale i cui dati vennero utilizzati per una ricostruzione paleoclimatica è

quella Groenlandese di Camp Century. Il carotaggio venne attuato nell’estate boreale del 1966,

quando una trivella alta 26 m e pesante 1100 kg, espressione della potenza tecnologica degli Stati

Uniti, iniziò una perforazione al margine del continente Groenlandese, appunto nella stazione

americana di Camp Century (50). Il progetto, diretto dalla CRREL (Cold Regions Research

Engineering Laboratories) aveva come obiettivo l’estrazione di una carota di ghiaccio profonda

1390 metri che rese possibile, tra le altre analisi, ricostruire un profilo di temperatura fino a circa

110.000 anni fa, quindi per il Pleistocene superiore e tutto l’Olocene.

Nell’ottobre del 1969, su Science, venivano pubblicati i primi risultati dell’analisi geochimica

della carota groenlandese (13). L’analisi di questa carota di ghiaccio era stata infatti affidata al

geochimico danese Willi Dansgaard, lo stesso che, già dagli anni Cinquanta, lavorava al metodo

basato sul rapporto tra gli isotopi dell’ossigeno, 18

O e 16

O. Dai laboratori dell’università di

Copenaghen uscivano, quindi, 100.000 anni di cambiamenti climatici, e i risultati si accordavano

con buona precisione a quelli ottenuti grazie ad altre fonti, come le serie polliniche o i campioni di

sedimento di mare profondo.

Usando questo metodo Dansgaard estrae dalla carota di Camp Century informazioni

preziosissime sull’andamento del clima, in particolare per quanto riguarda gli ultimi 15.000 anni

(tutto l’Olocene e il Tardiglaciale).

“La concentrazione di 18

O nelle precipitazioni, soprattutto alle alte latitudini, è determinata

soprattutto dalla temperatura di formazione. L’abbassamento della temperatura di formazione

provoca un abbassamento del contenuto di 18

O nella neve e nella pioggia. Quindi un alto rapporto

O 18

indica un clima più caldo.”

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Dansgaard inizialmente si

concentra sugli ultimi 15.000

anni. È chiarissimo il passaggio

da Tardiglaciale a Olocene di

10.000 anni fa. Vi è un contrasto

molto forte tra le oscillazioni che

avvengono nell’Olocene e quelle

Pleistoceniche: le prime sono

numerose ma di limitata ampiezza

(da -28 per mille a -30 per mille)

mentre le seconde hanno

un’ampiezza molto più estesa (da

-44 per mille a -34 circa).

Dansgaard analizza in dettaglio la curva, sottolineando i periodi di

minime e massime temperature che erano già state messe in evidenza

da altre fonti, al fine di dimostrare l’affidabilità del metodo. Per

quanto riguarda il Tardiglaciale riconosce i picchi di Alleroed e

Boelling. Successivamente sposta la sua attenzione sulla carota intera

e traccia un grafico di temperatura che arriva fino a 110.000 anni fa.

Individua numerosi periodi caldi distribuiti tra i 15.000 anni fa e i

73.000, intervallati da periodi decisamente glaciali. Da 73.000 anni fa

fino al limite della carota la temperatura si stabilisce a livelli

Olocenici: ecco individuato l’interglaciale Eemiano.

Questo grafico metteva in evidenza per la prima volta le brusche

oscillazioni che il clima ha subito nell’ultima era glaciale e nel

successivo interglaciale (l’Olocene) con una precisione nella datazione

e una risoluzione di particolari che non era mai stata raggiunta. Era

solo l’inizio di un campo di indagine fertile e affascinante che porterà

gli scienziati a ricostruire, con questo metodo, il clima fino a circa un

Fig. 5 (Dansgaard, 1969)

Fig. 6 (Dansgaard, 1969)

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milione di anni fa.

Per dare una visione d’insieme ho costruito un grafico con il numero di pubblicazioni, per ogni

anno, trovate sul motore di ricerca delle riviste Science (114) e Nature (115) con parole chiave

“Climatic Oscillation Quaternary”. Ho evidenziato, con le rispettive frecce

I due articoli di Dansgaard ed Emiliani che proposero per la prima volta l’utilizzo del

metodo basato sugli isotopi 16

O-18

O (12, 30).

L’articolo di Dansgaard riguardante le analisi di Camp Century del 1969 (13)

Si può notare come, dalla metà degli anni ’50, il numero di pubblicazioni su questo tema aumenti

progressivamente.

Ma mi fermo qui: all’inizio degli anni Settanta.

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4. Riferimenti espliciti al cambiamento climatico nel saggio originale sugli Equilibri

Punteggiati

All’interno dell’articolo sugli equilibri punteggiati (23) si fa riferimento esplicitamente al

cambiamento climatico nell’esposizione di un precedente studio di Gould su Poecilozonites

bermudensis zonatus, un gasteropode polmonato.

Questo studio fu pubblicato in due articoli (39, 40), nel 1969 sul Bulletin of the Museum of

Comparative Zoology in forma estesa e su Science, in forma più breve, nel 1970 in un articolo dal

titolo Coincidence of Climatic and Faunal Fluctuations in Pleistocene Bermuda.

Questo è uno studio fondamentale per verificare la relazione tra la teoria degli equilibri

punteggiati e il cambiamento climatico, infatti Gould scrive: “La relazione tra l’organismo e

l’ambiente fa parte della terra di mezzo tra due discipline. Gli evoluzionisti indagano l’ambiente

per quanto riguarda le forze selettive che portano all’adattamento, mentre i paleoclimatologi, che

mancano di dati diretti, sperano di ricostruire i cambiamenti climatici attraverso le sue tracce

organiche. […] Le glaciazioni del Pleistocene, in ogni caso, rappresentano un esperimento

naturale per testare l’ipotesi di una precisa influenza del clima sulle forme e la diversità

organica.” (40, trad mia)

Per Gould quindi, le glaciazioni del Pleistocene rappresentano un esperimento ideale per

verificare l’influenza del clima sull’evoluzione, in quanto sono costituite da cicli ripetuti, che

permettono di verificare l’ipotesi grazie alla ripetizione del fenomeno.

“Perché l’esperimento abbia successo dovrà verificarsi una corrispondenza di cicli climatici e

di variazione faunistica per un certo numero di fluttuazioni ripetute.”(40)

Gould cita alcuni studi di questo tipo che avrebbero già dato esito positivo tra cui il fenomeno

della taglia dei mammiferi

(64, 65), la direzione di

avvolgimento nei

foraminiferi (31) e un suo

stesso studio, sempre

riguardante le

Poecilozonites delle

Bermuda (39).

Le chiocciole di terra in

questione si ritrovano in

entrambe le litologie che

Fig. 7 (Gould, 1970)

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caratterizzano i depositi pleistocenici delle Bermuda: suolo alterato e carbonato eolico, che

riflettono i cicli interglaciale-glaciale.

Gould si è concentrato sugli ultimi due cicli glaciali e, attraverso numerosi campionamenti, ha

calcolato l’abbondanza percentuale di tutte le specie di questi gasteropodi in tutte le località.

Nel grafico (fig. 7) si osservano alcuni dei fenomeni che hanno mostrato una correlazione

significativa con il cambiamento climatico.

A) Abbondanza percentuale di Gastrocopta rupicola

B) Abbondanza percentuale di Thysanophora hypolepta

C) Taglia degli adulti di Charichium bermudense

D) La larghezza dell’ombelico in Thysanophora hypolepta

E) Lo spessore del callo parietale di P. bermudensis zonatus delle Bermuda occidentali

F) Spessore del callo parietale di P. bermudensis zonatus delle Bermuda orientali

“Come il clima del Pleistocene alle Bermuda ha oscillato durante gli ultimi due cicli glaciali, si

sono verificate delle corrispondenti variazioni nella forma e nella varietà delle chiocciole terrestri

come eventi indipendenti”, queste variazioni sono state influenzate soprattutto dalla disponibilità di

carbonato di calcio per la costruzione delle conchiglie.

Quindi, solo due anni prima della pubblicazione della teoria degli equilibri punteggiati, Gould

era interessato all’influenza che le oscillazioni climatiche pleistoceniche potevano avere sulla

modificazione dei caratteri nelle specie.

Questo avvalora la mia ipotesi, secondo la quale le scoperte sui cambiamenti climatici avrebbero

avuto un ruolo nella formulazione della teoria.

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5. Le colonne portanti della teoria

Oltre ai riferimenti espliciti a proposito delle oscillazioni climatiche del Quaternario all’interno

del saggio sugli equilibri punteggiati, ho considerato significativo andare a scomporre la teoria in

questione per individuarne le colonne portanti, ovvero le teorie preesistenti su cui si basa la sua

struttura logica, e trovare eventuali legami tra queste ultime e le scoperte sui cambiamenti climatici.

Questo al fine di rendere più solido il collegamento tra la teoria degli equilibri punteggiati e le

scoperte sulle oscillazioni climatiche del Quaternario.

La teoria degli equilibri punteggiati si basa su due concetti portanti, che ne reggono la struttura:

La teoria della speciazione allopatrica (68, 70)

La discontinuità nel ritmo del processo evolutivo (89)

Queste due teorie sono state pubblicate la prima volta negli anni Quaranta all’interno del

contesto scientifico-culturale della Sintesi Moderna.

5.1. La teoria della speciazione allopatrica

Eldredge e Gould scelgono di contrapporre la teoria della speciazione allopatrica a quella del

gradualismo filetico. Senza la struttura logica di questo modello di speciazione la teoria degli

Equilibri Punteggiati non avrebbe potuto essere formulata.

Ma per comprendere il contesto in cui la teoria della speciazione allopatrica venne alla luce devo

prima tracciare brevemente la storia della Sintesi Moderna e poi procedere analizzando il rapporto

tra speciazione allopatrica e cambiamento ambientale.

5.1.1. Da Mendel alla Sintesi Moderna

La prima parte del XX secolo fu un periodo esplosivo per la biologia evoluzionistica.

La riscoperta del lavoro di Mendel, proprio nell’anno 1900, inaugurò un secolo di scoperte

formidabili sull’ereditarietà. Risultò subito difficile, però, ai biologi e naturalisti dell’epoca,

conciliare le scoperte in campo genetico con il principio darwiniano di selezione naturale.

I primi genetisti mendeliani, come Hugo de Vries (104) e William Bateson (4), arrivarono a

stravolgere l’idea di selezione naturale, abbracciando, invece, una concezione saltazionista

dell’evoluzione secondo cui una nuova specie si originerebbe grazie ad una importante mutazione

genetica che, in un sol balzo, porterebbe alla nascita di una nuova specie. Questa concezione

saltazionista dominò la biologia evoluzionistica fino al 1915 e provocò una spaccatura tra la

tradizione dei naturalisti darwiniani, i biometristi, e la nascente genetica, spostata su posizioni

mutazioniste.

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Dal 1910, però, dagli esperimenti di un gruppo di genetisti guidati da T. H. Morgan, della

Columbia University emergeva come la maggior parte delle mutazioni fosse abbastanza piccola da

permettere un cambiamento graduale nelle popolazioni. Morgan stesso rimase, però, fermo su

posizioni mutazioniste. Se le popolazioni presentavano autonomamente e frequentemente la

comparsa di caratteri diversi da quelli dei propri antenati, non poteva bastare questo a modificare le

specie?

Tra il 1915 e il 1934 R. A. Fisher (34), Sewall Wright (113) e J. B. S. Haldane (48) fondarono la

genetica delle popolazioni, dimostrando come i geni che presentavano anche solo un piccolo

vantaggio selettivo potevano entrare a far parte del pool genetico delle popolazioni. Spiegavano

così, in termini di una nuova scienza, il concetto di adattamento. L’evoluzione era quindi definita

come un cambiamento delle frequenze geniche in una popolazione, un cambiamento portato avanti

attraverso la graduale selezione naturale di piccole mutazioni casuali. Questi lavori, però, ebbero un

impatto relativamente limitato finchè non vennero elaborati da Dobzhansky, che rese comprensibili

i modelli matematici anche agli altri biologi, rendendo chiari i concetti di specie e di speciazione

che derivavano dalla genetica.

Fisher, Wright e Haldane erano più interessati a definire come una popolazione si adatta al

cambiamento ambientale, quindi alla dimensione verticale, temporale dell’evoluzione, mentre i

naturalisti erano più interessati alla dimensione orizzontale, cioè a come nuove specie emergono da

quelle parentali.

La sintesi Fisheriana aveva quindi conciliato la concezione darwiniana e quella genetica a

proposito dell’adattamento. Ma l’evoluzione ha a che fare con due processi in una certa misura

distinti:

1- l’adattamento di una data popolazione attraverso il tempo (anagenesi)

2- l’origine e la moltiplicazione delle specie (cladogenesi).

I naturalisti europei, già dai primi anni trenta, attraverso il loro lavoro di tassonomia e di

ricostruzione della storia naturale, avevano elaborato delle teorie per spiegare la biodiversità

esistente, che contenevano già i concetti di isolamento geografico e barriera riproduttiva. Ma

risultava impossibile avere una piena comprensione del processo di speciazione senza prestare

attenzione alle novità proposte dalla genetica, che nel frattempo aveva superato i modelli

saltazionisti della prima ora, ma era totalmente all’oscuro delle teorie sulla speciazione elaborate dai

naturalisti europei.

Quindi, a dispetto del grande sviluppo sia della genetica che della tassonomia, aleggiava tra le

due discipline una profonda atmosfera di incomprensione.

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La conciliazione di questi due mondi rappresentava la sfida affrontata da una seconda sintesi: la

cosiddetta Sintesi Moderna. “Sintesi” è, in realtà, un’espressione piuttosto ingannevole. Scrive

Mayr nel 1999 (68):

“At the time, in fact, we had no idea that we were creating a synthesis!”

Si può parlare più propriamente di un periodo, tra il 1937 e il 1950, particolarmente fecondo per

la biologia evoluzionistica, che riuscì in qualche modo a conciliarne le due anime.

Le più importanti pubblicazioni di quel periodo, detto della Sintesi Moderna, furono.

Genetics and the origin of species (Dobzhansky, 1937)

Systematics and the origin of species (Ernst Mayr, 1942)

Evolution: the modern synthesis (Huxley, 1942)

The tempo and the mode in evolution (George Gaylord Simpson, 1944)

Variation and evolution in plants (G. L. Stebbins, 1950)

La prima opera a cui voglio far riferimento per ricostruire il ruolo dell’ambiente ed in particolare

dei cambiamenti climatici all’interno dei classici della Sintesi Moderna è Evolution: The Modern

Synthesis, di Julian Huxley (57). Fu questa opera a introdurre il termine “Sintesi Moderna”, infatti

questa raccoglie la maggior parte delle idee sui processi evolutivi della prima metà del secolo.

Risulta evidente la notevole attenzione riservata all’ambiente. Dall’indice dell’opera risulta chiaro

come sia dato lo stesso peso sia agli aspetti genetici che a quelli ecologici del processo evolutivo,

entrambi sotto l’egida del concetto di selezione naturale, difeso strenuamente da Huxley. Secondo

le sua sintesi, un carattere è sempre un prodotto congiunto di una particolare composizione genetica

e di una particolare serie di circostanze ambientali.

Parlando di divergenza ecologica, Huxley sottolinea come lo studio della diversità sistematica sia

basato soprattutto sulla divergenza ecologica adattativa. Descrive due tipi di isolamento: geografico

ed ecologico; e all’interno della seconda categoria distingue anche quello ecoclimatico. La diversità

delle condizioni climatiche è, infatti, un importante elemento di divergenza che, associato a barriere

geografiche, può accelerare il processo di divergenza tra due sottospecie, che potranno così

raggiungere il rango di “buone specie”.

Huxley considera anche il cambiamento climatico nel tempo. Egli usa l’espressione

“geographical changes” nel senso ampio del termine, intendendo sia trasformazioni topografiche

che climatiche.

“Tanto quanto un cambiamento geografico potrebbe isolare dei gruppi e quindi permettere loro

di divergere, così, dopo un certo grado di divergenza, altri cambiamenti geografici potrebbero

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permettere ai gruppi differenziati di tornare in contatto. Questo fenomeno sembra aver avuto una

larga influenza sulle forme di vita esistenti, come potremmo aspettarci dal rapido cambiamento

climatico e del livello del mare che si sono verificati dall’inizio del Pleistocene, ed ancora di più

quelli che hanno preso piede dalla fine dell’ultima glaciazione, circa 20,000 anni fa.” (p 243).

Seguono numerosi esempi dopo di che precisa: “La spiegazione di tutti questi casi appare chiara.

Nell’ultima era glaciale i ghiacciai alpini isolarono molte specie in gruppi occidentali o

meridionali e orientali o nord-orientali. Il tipo esatto di separazione potrebbe essere differente per

ogni specie. Questo permette la divergenza eco-geografica attraverso l’adattamento ad un clima

mite come severo, oceanico oppure continentale. La divergenza procede così tanto che quando il

ghiaccio si ritira e le due forme sono nuovamente in grado di espandere il proprio areale e di

incontrarsi, esse non si incrociano più tra loro.” (p. 246, trad mia).

Per quanto riguarda il ritmo dell’evoluzione Huxley scrive, nella prefazione: “In primo luogo

l’evoluzione, così come viene rivelata dalle tendenze fossili è un processo essenzialmente continuo.

Le unità costruttive dell’evoluzione, sotto forma di mutazioni, sono quanta discreti di cambiamento.

Ma in primo luogo la maggioranza di esse (e la grandissima maggioranza di quelle che

sopravvivono fino ad essere incorporate nella costituzione genetica delle cose viventi) è di piccola

estensione; secondo, l’effetto di una data mutazione sarà differente secondo la combinazione dei

geni modificatori presenti; e, terzo, il suo effetto può essere mascherato o cambiato dalla

modificazione ambientale. Il risultato netto sarà che, a tutti i fini pratici, la maggior parte del

cambiamento evolutivo sarà graduale, così da essere riconosciuto dallo spostamento progressivo di

un valore medio da generazione a generazione.” Quindi i vari effetti genetici e ambientali sulle

mutazioni, che sono discrete, rendono il ritmo del cambiamento graduale e continuo.

Quindi, agli albori della Sintesi, nel 1942, i caratteri genetici e ambientali dell’evoluzione erano

entrambi considerati importanti.

Infatti la prima pubblicazione, in ordine cronologico, fu quella di un genetista nato naturalista:

Theodosius Dobzhansky. In Genetics and the origin of species (21), egli riuscì a persuadere i suoi

colleghi che entrambe le discipline potevano accettare il fatto che la speciazione si compone sia di

variazione genetica che di selezione naturale. Dobzhansky dava molto rilievo all’indipendenza tra la

selezione naturale e qualsiasi insieme di formulazioni precise dei principi dell’ereditarietà: i geni si

replicano e si trasferiscono nell’ambito dei singoli organismi, la selezione naturale, d’altro canto, ha

luogo nel contesto di intere popolazioni della stessa specie. Il processo ereditario vero e proprio

apparterrebbe quindi alla “genetica fisiologica” mentre il contesto della selezione naturale sarebbe

la “genetica della popolazione”. Ma si parla sempre e comunque di “genetica”. L’opera a questa

complementare fu pubblicata cinque anni dopo da Ernst Mayr (68) e, come si legge nella

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prefazione, questa aveva l’obiettivo di completare l’immagine dell’evoluzione grazie anche alle

teorie tassonomiche sviluppate dai naturalisti. Il titolo, infatti, parlava chiaro: Systematics and the

origin of species, from the view point of a zoologist. In questa opera Mayr esponeva per la prima

volta la teoria della speciazione allopatrica.

5.1.2. Attenzione al cambiamento ambientale nell’elaborazione della teoria della

speciazione allopatrica

La teoria della speciazione allopatrica, anche se non sotto questo nome, venne esposta per la

prima volta in Systematics and the origin of species. Questo modello di speciazione tende a

privilegiare la geografia e le condizioni ecologiche come fattori evolutivi (68).

“Una nuova specie si sviluppa all’interno di una popolazione isolata geograficamente dalla sua

specie parentale. Questa acquisisce, durante questo periodo di isolamento, caratteri che causano o

garantiscono l’isolamento riproduttivo quando le barriere esterne vengono meno.” (68, p. 155, trad

mia).

L’opera di Mayr non è una strenua difesa del concetto di selezione naturale nel processo di

speciazione. Nel suo ragionamento il processo cruciale della speciazione non è la selezione, che è

sempre presente in evoluzione, anche quando non si verifica alcun processo di speciazione, ma

l’isolamento.

Una popolazione, infatti, non è selezionata “allo scopo di” diventare una nuova specie, piuttosto

l’acquisizione di meccanismi di isolamento riproduttivo, è solitamente un prodotto secondario della

ristrutturazione genetica graduale di una popolazione isolata.

Il ruolo cruciale affidato all’isolamento è molto interessante per il ragionamento che sto

conducendo. L’ambiente acquisisce un ruolo fondamentale di interazione con l’organismo nel

processo di speciazione. Scrive infatti Mayr:

“La variazione dei caratteri tassonomici e lo sviluppo della divergenza e della discontinuità tra

le categorie sistematiche, sono influenzate da un grande numero di fattori. La maggior parte dei

fattori di cui dobbiamo discutere sono ambientali e dovremmo perciò parlare di un’“ecologia della

speciazione” (p. 216, sottolineatura mia)

Questi caratteri ambientali sono definiti da Mayr caratteri esterni mentre quelli fisiologici,

sempre presenti, sono chiamati fattori interni.

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I fattori ambientali sono analizzati soprattutto dal punto di vista statico, come differenze tra un

ambiente e l’altro e negli organismi che li abitano, ma anche dal punto di vista dinamico dei

cambiamenti ambientali.

In particolare a proposito di cambiamenti climatici scrive:

“Eventi climatici come il deterioramento del clima durante le glaciazioni pleistoceniche, il ritiro

delle acque dalla piattaforma continentale tropicale durante il culmine della glaciazione, oppure la

comparsa di vaste aree continentali grazie al ritiro dei ghiacci durante il periodo post-

Pleistocenico, hanno tutti contribuito ad ingenti spostamenti delle popolazioni. Questi periodi di

espansione degli areali hanno avuto soprattutto due tipi di effetto. Prima di tutto portarono ad

un’espansione dell’areale ristretto di specie isolate, un processo spesso accompagnato dal

passaggio di barriere geografiche minori, e dallo stabilirsi delle condizioni per l’inizio del

processo di diversificazione, che è l’inizio di tutti gli eventi di speciazione. Secondariamente

produssero una sovrapposizione di areali tra alcune popolazioni strettamente imparentate e altre

specie allopatriche. In altre parole, questi eventi climatici, completano il processo di speciazione.

L’espansione degli areali è quindi di vitale importanza, sia in relazione all’inizio che al

completamento del processo di speciazione.” (p. 240)

Animal species and Evolution, del 1963, è una delle opere più importanti della biologia evolutiva

del Novecento, in quanto vi compare per la prima volta la definizione biologica di specie. È anche

l’opera in cui è stato approfondito ed ampliato il concetto di speciazione allopatrica.

Quando Mayr espone i diversi tipi di barriere che possono portare all’isolamento, inserisce

nell’elenco anche le masse ghiacciate pleistoceniche dei continenti settentrionali, definendole come

le barriere più potenti che abbia conosciuto la storia recente della terra. Cita poi alcuni studi (83, 19,

79, 64) su varie analisi di speciazione nel Pleistocene, sottolineando come si tratti di un nascente ed

estremamente interessante campo di indagine:

Autore, Data Titolo

Rand, 1948 Glaciation, An Isolating

Factor in Speciation

Mayr cita questo studio a

supporto del ruolo da lui

attribuito alle glaciazioni

come importanti meccanismi

di isolamento. Rand cita

numerose coppie di specie

che si suddivisero in una

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popolazione orientale ed una

occidentale durante una delle

fasi glaciali del Pleistocene.

Deevey, 1949 Biogeography of the

Pleistocene

Imponente lavoro che

ricostruisce la biogeografia del

Pleistocene in Europa e Nord

America.

Peabody, Savage, 1958 Evolution of a coast range

corridor in California and its

effect on the origin and

dispersal of living amphibians

and reptiles.

Descrive la funzione avuta da

un evento di regressione

oceanica plio-pleistocenica e

da varie strutture fisiografiche

nella speciazione di vari anfibi

e rettili californiani.

Kurten, 1959 Rate of evolution in fossil

mammals

Disquisizione sul ritmo

dell’evoluzione nei mammiferi.

Dimostrazione dell’origine di

Ursus speleus da Ursus arctos

durante la glaciazione di

Mindel.

Tabella 1

La teoria della speciazione allopatrica è la prima teoria a considerare fondante il rapporto

organismo-ambiente, sia a livello teorico che a livello pratico, attribuendo all’ambiente, soprattutto

nelle sue caratteristiche dinamiche, un ruolo importante nel processo di speciazione.

Come scrive Telmo Pievani nell’introduzione all’edizione italiana del libro “L’equilibrio

punteggiato”, la teoria della speciazione allopatrica introdusse un elemento nuovo, un evento

geografico in alcun modo connesso con il valore adattativo delle specie e con le pressioni selettive

in atto; “L’ecologia dell’evoluzione si allargò a un contesto molto più ampio di fattori ambientali,

naturali, climatici, geografici e geologici. In particolare, le alterazioni e le oscillazioni climatiche

diventarono decisive per spiegare molti eventi cruciali della storia naturale: un indizio che Gould ed

Eldredge non si sarebbero lasciati sfuggire nei primi anni della loro carriera di ricercatori.” (42).

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5.2. La discontinuità ed il cambiamento ambientale

Il nucleo fondamentale della teoria degli equilibri punteggiati è la discontinuità nel ritmo

dell’evoluzione. Il processo evolutivo sarebbe caratterizzato da eventi rapidi ed improvvisi di

cambiamento in una generale e diffusa situazione di stasi.

Questo modello è però radicalmente diverso da quello saltazionista, precedentemente proposto

da altri come Otto Schindewolf (92) e Richard Goldshmidt (38). Il primo sosteneva che gli schemi

di discontinuità osservabili nel mondo naturale richiedessero una spiegazione altra rispetto a quella

della selezione darwiniana, mentre Goldshmidt sosteneva la presenza di improvvise mutazioni su

larga scala che avrebbero formato nuovi gruppi evolutivi primari: i “mostri di belle speranze”.

La differenza fondante è che, nel caso degli equilibri punteggiati, il ritmo accelerato è dato

dall’innesco ecologico e non genetico come per i saltazionisti.

5.2.1. L’evoluzione Quantica

George Gaylord Simpson, nel 1944, aveva già presentato una visione nella quale il ritmo

dell’evoluzione non è uniforme, in quanto i fossili rispecchiano, in modo veritiero, una realtà

discontinua. Simpson fu il primo a sospettare che le discontinuità presenti nella documentazione

fossile potessero essere reali , il ritmo dell’evoluzione poteva cambiare. L’opera in questione è

intitolata The Tempo and the Mode of Evolution (88).

Simpson, quale paleontologo dei vertebrati, stabilì come i modelli della storia evolutiva che

emergevano dalle osservazioni sul record fossile, avessero un valore informativo reale a proposito

della natura dell'evoluzione. Questi modelli suggerivano come l'evoluzione, a volte, possa

procedere ad un ritmo accelerato, con nuovi gruppi di organismi che apparivano improvvisamente

nel record fossile. Scrive Eldredge (26) : "Il concetto di Evoluzione Quantica fu il primo contributo

serio di un paleontologo ad una teoria evolutiva moderna".

Nella prefazione alla prima edizione dell'opera, Simpson sottolinea il valore della paleontologia

come unica disciplina in grado di verificare se i principi elaborati nei laboratori di genetica

potessero essere validi anche in una visione più ampia, che comprendeva una quarta dimensione

nella rappresentazione del processo evolutivo: il tempo.

In particolare i paleontologi hanno quotidianamente a che fare con il ritmo dell'evoluzione,

sottoposta alle condizioni naturali, e lo misurano e interpretano nelle sue accelerazioni e

decelerazioni. L'incipit dell'opera infatti recita: "HOW FAST, as a matter of fact, do animals evolve

in nature?".

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Gli ultimi due capitoli sono quelli fondamentali per capire il ruolo del cambiamento climatico

nel pensiero dell’autore: il capitolo VI, Organism and enviroment, e il capitolo VII, Modes of

evolution.

Nel primo, Simpson espone la sua visione piuttosto complessa del rapporto organismo-ambiente.

In questa analisi l'organismo e l'ambiente hanno uguale peso nel processo evolutivo e, soprattutto,

l'ambiente è considerato sia nelle sue caratteristiche statiche sia, parimenti, nelle sue caratteristiche

dinamiche.

Il concetto di adattamento sarebbe definito come la correlazione tra determinate caratteristiche

genetiche e l'ambiente. L'adattabilità, di conseguenza, sarebbe la capacità di modificare il genotipo

in relazione ai cambiamenti ambientali. Per definire l'adattamento in tutta la sua complessità ed a

tutti i livelli, Simpson attua tre distinzioni: l'adattamento dell'individuo e quello del gruppo,

l'adattamento fenotipico e quello genotipico e quello in condizioni statiche e dinamiche.

Proseguendo nel ragionamento, Simpson distingue tra una relazione potenziale reciproca tra

organismo e ambiente (prospective functions), ed una relazione realizzata. L'ambiente determina

quali relazioni potenziali potranno essere realizzate e l'eredità degli organismi determina quali

relazioni potenziali dell'ambiente potranno avere luogo, in un interscambio dinamico (fig.8).

Le caratteristiche dell’organismo e dell’ambiente che noi osserviamo in natura sono quelle

realizzate e nascono dalla sovrapposizione delle caratteristiche potenziali sia dell’organismo che

dell’ambiente.

In particolare: "I vari ambienti in cui l'organismo si imbatte e gli sconvolgimenti nelle condizioni

ambientali, cambiano le caratteristiche realizzate degli organismi nei confronti dell'ambiente e

inducono anche un cambiamento delle loro caratteristiche potenziali." (p. 184)

Il concetto di caratteristiche potenziali dell'organismo nei confronti dell'ambiente, suggerisce

l'importanza

fondamentale, altrove

esplicitata, data da

Simpson al concetto

di preadattamento.

Il concetto di

ambiente espresso da

Simpson non include,

però, le sole

condizioni fisiche, ma

anche la quantità di Fig. 8 (Simpson 1944, modificata)

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risorse, il numero di competitori e nemici, tutte le forme di vita aventi rapporti con l’organismo,

altri membri del gruppo, e anche l’organismo stesso, considerato come un elemento della propria

realtà.

L’ambiente è divisibile in un infinito numero di classi, grazie all’uso di un elevato numero di

criteri di divisione. Per lo studio dell’ambiente in relazione all’organismo, Simpson elabora il

concetto di zona adattativa, cioè un complesso di condizioni ambientali che determinano il tipo di

adattamento di un dato gruppo di organismi. L’aspetto interessante è che anche le zone adattative

evolvono, così come gli organismi:

“Le zone adattative, non solo gli animali che le occupano, evolvono. Lo fanno dal punto di vista

fisico, come nell’erosione delle montagne o l’espandersi del deserto in periodi climatici aridi, sia

perché gli animali sono parte dei condizionamenti ambientali, e questi animali evolvono.” (p.190)

Il corso della storia adattativa può essere rappresentato come una serie di “zone ecologiche”

mobili attraverso cui gli organismi vivono e si riproducono, muovendosi e cambiando a loro volta.

Nel capitolo successivo, The mode of evolution, viene elaborato un concetto di modello evolutivo

composto da una combinazione complessa di tre elementi: speciazione, evoluzione filetica e

modello quantico.

Il processo tipico di speciazione è la differenziazione locale di due o più gruppi all’interno di una

popolazione più ampia, in questo caso la direzione dell’evoluzione non è affatto lineare. Questo

processo implicherebbe il cambiamento nelle proporzioni degli alleli e non la presenza necessaria di

mutazioni. Le popolazioni coinvolte sono solitamente di piccola estensione, ma nella visione di

Simpson l’isolamento non è affatto necessario, nonostante si parli di popolazioni divise

approssimativamente in sottopopolazioni.

L’evoluzione filetica, invece, disegna un cambiamento direzionale dei caratteri medi di una

intera popolazione, a volte in risposta ad un cambiamento ambientale. Questo processo continua

ininterrottamente, in ogni popolazione, indipendentemente dal loro tipo o grandezza e l’equilibrio

organismo-ambiente viene sempre mantenuto stabile grazie a piccole e graduali modificazioni.

Nell’evoluzione quantica questo equilibrio viene periodicamente spezzato e, nella migliore delle

ipotesi, se ne forma un altro, pena l’estinzione del gruppo. Il termine evoluzione quantica, infatti, è

applicato ad un cambiamento relativamente rapido di una popolazione biologica da una situazione

instabile ad un nuovo equilibrio, ben distinto da quello della popolazione ancestrale. Questo

processo caratterizzerebbe le classi sistematiche più ampie tra cui famiglie e ordini e si

distinguerebbe nettamente dagli altri due processi. L’evoluzione quantica può verificarsi solo se

sono presenti due requisiti:

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38

1- deve rendersi disponibile una nuova zona adattativa (a causa di un cambiamento ambientale

oppure per la scomparsa di un gruppo di organismi che lascia un vuoto nell’ecosistema) e

2- la popolazione che si appresta ad occuparla deve essere in qualche modo preadattata a quelle

condizioni. In ogni caso le popolazioni coinvolte devono essere piccole ed interamente

isolate.

Lungo l’opera, Simpson fa più volte cenno ai cambiamenti ambientali ed in particolare alle

oscillazioni climatiche Pleistoceniche (es. p 30 e 63). Nella sua concezione l’ambiente interagisce

con l’organismo tanto quanto l’organismo interagisce con l’ambiente ed entrambi vanno incontro a

cambiamenti ingenti e non regolari.

A mio parere, è questo rapporto molto stretto organismo-ambiente, a determinare una visione

discontinua del ritmo dell’evoluzione.

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39

6. Contestualizzazione della teoria sugli Equilibri Punteggiati

Dopo aver indagato se le radici della teoria degli equilibri punteggiati avessero qualche legame

con le scoperte sul cambiamento climatico, mi dedicherò alla contestualizzazione della teoria nel

periodo in cui essa fu elaborata, cioè all’inizio degli anni Settanta, cercando di ricostruire le

relazioni tra questa pubblicazione e una nuova concezione dell’ambiente fisico che era emersa con

forza nel ventennio precedente.

I modelli elaborati nella prima metà del Novecento hanno reso la concezione dell’ambiente

sempre più dinamica: sia grazie ai modelli tettonici elaborati negli anni Sessanta (110, 111, 112), sia

grazie alle scoperte sull’oscillazione climatica (cap. 3). Non solo la terra cambia e si trasforma, ma

può farlo anche in tempi molto più brevi di quanto si era immaginato fino a quel momento.

“Oggi il concetto di cambiamento nella storia geologica è universalmente accettato.

L’evoluzione organica, la trasformazione degli elementi chimici, i cambiamenti continui nella

geografia, nell’atmosfera, nel clima, e in altri aspetti dell’ambiente fisico e biologico, sono dati per

certi.” (77)

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40

6.1. Una nuova concezione dell’ambiente

Nel grafico seguente ho raccolto, tramite il motore di ricerca Microsoft Academic Search, le

pubblicazioni, dagli anni Sessanta in poi, che riguardano le variazioni climatiche e la teoria della

Tettonica a Zolle (110), i due campi di indagine che hanno reso più dinamica la nostra concezione

dell’ambiente fisico.

La storia delle scoperte sui cambiamenti climatici è stata discussa nel terzo capitolo.

La teoria moderna della Tettonica a Placche data la sua nascita nel 1963, con le pubblicazioni di

Tuzo Wilson (110, 111, 112), come sintesi globale dei contributi fino ad allora apportati dalla

ricerca geologica, in particolare dagli studi di Alfred Wegener (108) ed Harry Hammond Hess (52).

I rapporti tra le teorie tettoniche e la biologia evoluzionistica sono molteplici ed interessanti ma non

costituiscono l’oggetto di questa tesi.

Come si può osservare dal grafico, l’articolo sugli Equilibri Punteggiati (23) si colloca una

decina di anni dopo la formulazione della moderna teoria della Tettonica a Zolle, mentre per quanto

riguarda le ricerche paleoclimatiche esse erano entrate nel vivo da pochi anni, grazie ai primi

carotaggi che iniziavano a fornire dati precisi ed accurati che in alcuni casi confermarono e in altri

smentirono le teorie astronomiche e quelle ricavate dalla geomorfologia.

Per entrare più nello specifico, visti gli scopi di questa tesi, che vogliono indagare soprattutto le

influenze sulla teoria degli Equilibri Punteggiati delle scoperte sulle oscillazioni climatiche del

Quaternario, ho voluto inquadrare in modo più preciso il contesto in cui venne pubblicato l’articolo.

0

500

1000

1500

2000

2500

3000

1960 1970 1980 1990 2000 2010

pu

bb

licaz

ion

i

Ambiente dinamico

"Climatic variation" "Plate tectonics"

Gould, Eldredge, 1972

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41

Ho costruito questo grafico inserendo, nel motore di ricerca digitale delle riviste Science e

Nature (114, 115), le parole chiave “Climatic oscillation Quaternary”.

Ho considerato solo le riviste maggiormente diffuse e generaliste, in quanto indice migliore di

quali scoperte hanno potuto più facilmente varcare i confini della propria disciplina ed influenzare

altri campi d’indagine, come cercherò di dimostrare in questo caso.

Il motore di ricerca utilizzato (114, 115) mi ha permesso di considerare un arco temporale che si

estende per tutto il XX secolo. Si osserva una crescita del numero di pubblicazioni sull’argomento a

partire dalla fine degli anni Cinquanta.

L’articolo di Gould ed Eldredge (23) si colloca una quindicina di anni dopo il primo picco di

pubblicazioni (del 1958) dopo il quale la frequenza di articoli sull’instabilità climatica del

Quaternario è andata aumentando progressivamente, in particolar modo su Science.

Risulta ancora più interessante andare a vedere in quanti casi le ricerche evolutive hanno fatto

riferimento ai cambiamenti climatici e in particolare alle ere glaciali.

Con lo stesso metodo ho costruito un terzo grafico che rappresenta il numero degli articoli in cui

compaiono contemporaneamente le parole chiave -Ice age- e –Speciation-.

0

5

10

15

20

25

30

35

1900 1920 1940 1960 1980 2000

pu

bb

licaz

ion

i

Oscillazioni climatiche del Quaternario

nature science

Gould, Eldredge, 1972

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Questi sono articoli in cui la presenza delle ere glaciali viene collegata a fenomeni di

speciazione, soprattutto di forme animali. In questi casi la paleoclimatologia è entrata in contatto

con la biologia evoluzionistica.

Per la mia analisi sono importanti soprattutto i lavori pubblicati dal 1955 al 1971, che possono

dare un’idea della concezione generale che uno scienziato evoluzionista dell’epoca, non specialista

nel campo della Paleoclimatologia, poteva avere dei rapporti tra questa ed il suo campo di indagine.

In questo intervallo temporale vorrei sottolineare in particolare i seguenti articoli, comparsi su

Science.

Autore, Data Titolo

Dillon, 1956 Wisconsin Climate and Life

Zones in North America

È l’articolo più citato a

proposito delle conseguenze

delle oscillazioni climatiche

sul biota Nord Americano.

Ericson, Ewing, Wollin,

1963

Pliocene-Pleistocene Boundary

in Deep-Sea Sediments

Riguarda uno studio a

proposito della comparsa

improvvisa di alcuni

bioindicatori nel periodo a

cavallo tra il Pliocene ed il

0

2

4

6

8

10

12

1900 1920 1940 1960 1980 2000

pu

bb

licaz

ion

i

Ere glaciali e speciazione

nature science

Gould, Eldredge 1972

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43

Pleistocene.

Darlington, 1964 Biogeography of Half the

World

Raccoglie le conferenze di un

simposio tenuto dalla Division

of Zoology and Entomology of

the Tenth Pacific Science

Congress, tenuto ad Honolulu

nel 1961, a proposito della

distribuzione delle specie nel

Pacifico, con una certa

attenzione ai “corridoi glaciali”

che durante il Pleistocene

connettevano l’Alaska e la

Siberia orientale.

Vuilleumier, 1969 Speciation in Tropical

Environments

Dove vengono confrontati il

ritmo di speciazione e di

estinzione ai tropici rispetto a

quelli nelle altre fasce

latitudinali. Questo viene poi

correlato a modelli di stabilità

e instabilità ambientale.

Haffer, 1969 Speciation in Amazonian forest

birds

Riconduce la biodiversità

dell’avifauna amazzonica alle

oscillazioni climatiche del

Quaternario: la teoria dei

rifugi.

Gould, 1969

Coincidence of Climatic and

Faunal Fluctuations in

Pleistocene Bermuda

Correlazione tra le oscillazioni

climatiche del Pleistocene e la

fluttuazione di qualche

carattere morfologico di alcune

specie di gasteropodi

pleistocenici.

Vuilleumier, 1971 Pleistocene Changes in the

Fauna and Flora of South

Ricostruisce il ruolo delle

oscillazioni climatiche

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44

America nell’evoluzione di varie

popolazioni animali Sud

Americane

Tabella 2

Come esempio di studio precedente all’articolo sugli equilibri punteggiati, considero

significativo l’articolo del 1969 di Jurgen Haffer in cui la biodiversità della fauna ornitologica della

foresta Amazzonica viene ricondotta alle recenti oscillazioni climatiche del Quaternario.

5.2. Jurgen Haffer: la teoria dei rifugi

Nel giugno del 1969, pochi mesi dopo la pubblicazione dei risultati di Dansgaard sul carotaggio

di Camp Century, sulla stessa rivista (Science) viene pubblicato un articolo di Jurgen Haffer,

ornitologo e geologo tedesco (46).

In questo articolo Haffer propone una spiegazione storica dell’immensa varietà della fauna

ornitologica della foresta Amazzonica. Durante i numerosi periodi secchi glaciali del Pleistocene e

post-pleistocenici, la foresta Amazzonica fu frammentata in numerose foreste di estensione minore,

isolate le une dalle altre da tratti di vegetazione erbacea. Queste foreste avrebbero rappresentato

delle “aree rifugio” per numerose popolazioni di animali, che si sarebbero poi differenziate durante

il periodo di isolamento. Successivamente, durante i periodi interglaciali più umidi, la foresta

avrebbe ripreso piede permettendo alle popolazioni di espandere nuovamente il proprio areale.

Questa oscillazione nell’estensione delle foreste, causata dalle oscillazioni climatiche del

Quaternario, si sarebbe ripetuta parecchie volte e avrebbe portato a una rapida differenziazione della

fauna, in un tempo geologico relativamente recente.

Il primo paragrafo dell’articolo titola “Le fluttuazioni climatiche durante il Quaternario”.

L’attuale continuità della foresta Amazzonica sarebbe solo uno stadio della storia vegetazionale del

Sud America. A

supporto di questa

tesi Haffer presenta

numerosi studi

palinologici,

geomorfologici e

zoologici e

vegetazionali

pubblicati tra gli

Fig. 9 (Haffer, 1969)

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45

anni 50 e 60. (3, 5, 6, 7, 35, 36, 37, 44, 45, 53, 85, 97).

La maggior parte dell’articolo tratta di una ipotetica ricostruzione delle zone che avrebbero

potuto ospitare i rifugi, in base a criteri climatici: Haffer assume che, durante le fasi secche, le

precipitazioni nelle zone di attuale piovosità massima siano rimaste in concentrazione sufficiente da

permettere la crescita continua di foreste anche nel passato.

Una volta che le specie, arrivata una nuova fase umida, fossero rientrate in contatto, Haffer

descrive tre scenari: 1- Sovrapposizione geografica, nel caso in cui il processo di speciazione fosse

stato completato in modo da permettere la compatibilità ecologica, le nuove specie sopravvivono in

condizioni di simpatria. 2- Esclusione geografica, nel caso in cui le specie risultino

riproduttivamente isolate ma non compatibili dal punto di vista ecologico. La competizione

ecologica porterebbe alla mutua esclusione. 3- Ibridizzazione, quando le specie non avessero ancora

raggiunto l’isolamento riproduttivo completo.

Il processo di speciazione di questi uccelli tropicali potrebbe essere quindi completato in meno di

20.000, 30.000 anni.

La teoria dei rifugi, in questo specifico caso, si è rivelata priva di fondamento (61) perché gli

studi molecolari sull’avifauna amazzonica hanno dimostrato che le varie specie hanno un’età

genetica troppo antica per trovare una collocazione coerente nella sua ipotesi; inoltre, i tassi di

speciazione non sembrano aumentare durante le glaciazioni. L’ultima era glaciale potrebbe però

aver contribuito a portare a compimento il processo in popolazioni fra le quali fosse già in atto la

divergenza – oppure, in altre popolazioni, avrebbe potuto innescare una divergenza che in seguito

avrebbe portato alla speciazione.

Questo articolo, insieme ad altri degli anni Sessanta (14, 49, 60, 68, 70, 72, 73, 94), pubblicato

su una delle riviste più importanti del mondo scientifico, indica la presenza di un forte interesse, da

parte di alcuni studiosi dell’evoluzione, verso le nuove scoperte nel campo dell’instabilità climatica

del Quaternario.

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46

5.3. I modelli intergenealogici di Norman Newell

Norman Newell, geologo e paleontologo, fu una figura importante sia per il suo contributo

scientifico sia come mentore di molti importanti paleontologi tra cui proprio Stephen Jay Gould e

Niles Eldredge. Scrisse Gould nel 1989 (41): “Io sono stato studente di Norman Newell e tutto ciò

che ho fatto nella mia carriera deve essere visto come una sua eredità”.

Una parte importante del suo lavoro riguardò le estinzioni di massa e Newell fu uno dei pionieri

in questo campo (75, 76). Fu, infatti, il primo a proporre l’analisi dei modelli intergenealogici

riconducibili a cause fisiche. Nel 1967 pubblicò un articolo intitolato Rivoluzioni nella storia della

vita (77) che riporta, a cappello, una

citazione di George Gaylord

Simpson “La storia degli organismi

corre parallelamente con la storia

fisica della terra, e con essa

interagisce continuamente. È molto

importante che la paleontologia

cerchi di determinare, quando

possibile, la sequenza dei fenomeni

strettamente geologici” (92).

L’obiettivo che Newell si

propone in questo saggio è di

dimostrare come la storia della vita

sia decisamente più episodica che

uniforme, così come la nostra scala

geologica che, basandosi sul record

fossile, riesce a dividere in modo

netto un periodo dall’altro. Secondo

l’autore la moderna paleontologia

dovrebbe incorporare sia aspetti del vecchio catastrofismo che dell’attualismo.

Il record stratigrafico evidenzia come i processi fisici e biologici abbiano fluttuato molto, in

passato, variando sia in ampiezza che nel ritmo, a volte superando anche i limiti che noi abbiamo

avuto modo di osservare lungo la nostra storia. Newell pensa che le evidenze portino alla

conclusione che molti episodi significativi della storia geologica possano essere avvenuti in periodi

di tempo molto limitati e che alcuni di questi implicassero condizioni ambientali per cui non

abbiamo alcun termine di paragone.

Fig. 10 (Newell, 1967)

Page 49: INFLUENZE DELLE SCOPERTE SULLE …prima volta come capitolo del libro “Models in paleobiology” (23), scritto da due giovani paleontologi: Niles Eldredge e Stephen Jay Gould. L’anno

47

“È utile tener

presente il fatto che

molti processi

geologici, oggi,

presentano un forte

carattere di

discontinuità nel loro

procedere. Non c’è

nessuna ragione a

priori per concludere

che il ritmo che noi

oggi osserviamo

possa essere

rappresentativo di tutta la storia della terra.”

I gap fisici nel record fossile, secondo Newell, risultano da cambiamenti geografici o climatici così

ingenti da alterare grandemente le caratteristiche delle comunità organiche sia mediante il

cambiamento ambientale che attraverso la migrazione.

A proposito delle estinzioni di massa vengono analizzati i grafici di estinzione durante la storia

della terra dei diversi

gruppi tassonomici, divisi

in vertebrati e invertebrati.

Ad esempio gli

invertebrati marini

presentano

un’accelerazione del tasso

di estinzione alla fine del

Cambriano, nel tardo

Ordoviciano, nel tardo

Devoniano, Triassico e

Cretaceo. I vertebrati

invece presentano picchi di

estinzione alla fine del

Devoniano, Permiano,

Triassico e Cretaceo. C’è

Fig. 11 (Newell, 1967)

Fig. 12 (Newell, 1967)

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48

anche un interessante parallelismo tra le percentuali di estinzione di alcune famiglie di ammonoidi e

di rettili.

Newell osserva “un’intrigante coincidenza nei picchi di estinzione di gruppi non imparentati tra

loro”. Questo è il classico esempio di modello intergenealogico, cioè un fenomeno che coinvolge

vari gruppi animali indipendentemente dalla loro linea genealogica.

Sembra inoltre esserci una tendenza all’oscillazione tra periodi di estinzione globale, alla fine dei

periodi della scala geologica, ed episodi di radiazione all’inizio dei periodi geologici seguenti.

Grazie alla liberazione delle nicchie ecologiche dopo un diffuso fenomeno di estinzione, altri

organismi possono diffondersi e radiare.

Ma quale fenomeno potrebbe essere in grado di coinvolgere i più diversi gruppi di animali?

Newell, per il principio di semplicità dell’ipotesi, cerca una causa, o un insieme di esse, che possano

essere applicate a tutti i più grandi episodi di estinzione di massa.

I rapporti tra organismo e ambiente sono estremamente complessi, per questo è difficile

formulare un’ipotesi precisa, ma una possibile causa di un estinzione di massa può essere

ricondotta, molto probabilmente, alla semplice perdita dell’habitat.

La perturbazione ambientale con il conseguente aumento della pressione selettiva è, per Newell,

imputabile soprattutto a:

MIGRAZIONE (e conseguente competizione tra organismi nativi ed immigrati)

IMPORTANTI CAMBIAMENTI CLIMATICI che modificano i modelli di temperatura e la

distribuzione delle precipitazioni.

Alla fine dell’era Pleistocenica si è osservata la scomparsa di numerosi mammiferi di grossa

taglia. Tuttavia Newell considera i cambiamenti climatici troppo graduali per provocare

delle vere e proprie estinzioni di massa.

GRANDI E RELATIVAMENTE RAPIDI CAMBIAMENTI GEOGRAFICI nella

distribuzione di continenti e mari.

Newell fu il primo ad introdurre ipotesi intergenealogiche per spiegare la storia della vita. Gli

sconvolgimenti ambientali, sia geografici che climatici, hanno avuto una grande influenza sugli

episodi di estinzione e conseguente speciazione che hanno caratterizzato la storia della terra e che

noi usiamo come confine tra un periodo e l’altro nella nostra scala geologica.

Queste teorie hanno avuto sicuramente un’influenza sulla formazione scientifica di Gould ed

Eldredge.

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49

Il legame indissolubile organismo-ambiente e un’idea del cambiamento ambientale, improvviso

e discontinuo, erano ormai nell’aria, anche alla Columbia University, due uffici più in là rispetto a

quello in cui Gould ed Eldredge lavoravano alla loro teoria.

5.4. La figura di John Imbrie

Può essere interessante, per individuare i legami tra il lavoro di Gould ed Eldredge e la

paleoclimatologia, anche il fatto che John Imbrie, uno dei più famosi paleoclimatologi del

Novecento, fosse uno dei relatori della tesi di dottorato di Stephen Jay Gould (42).

Imbrie iniziò la sua carriera scientifica come biologo evoluzionista studiando i brachiopodi

devoniani del bacino del Michigan. Nonostante la velocità di sedimentazione lenta e continua, in

questo sito non si rilevava alcun cambiamento evolutivo lento e graduale. Al contrario, le 30 specie

analizzate presentavano un prevalente pattern di stasi. Deluso da questi risultati (il suo obiettivo era

infatti opposto: trovare elementi che permettessero di ricostruire un modello di cambiamento

graduale) pubblicò i suoi risultati in una monografia tassonomica oggi introvabile (ne parla Gould

(42) senza nemmeno citarla).

“Lasciò quindi la sua professione per qualcosa di più produttivo” (42) e nel 1976 pubblicò, con

Shackleton, uno degli articoli più importanti della storia della paleoclimatologia (51) che, grazie ai

dati ricavati dai carotaggi oceanici nell’emisfero sud che si spingevano fino a 450.000 anni fa,

verificò la teoria di Milutil Milankovich secondo cui i cambiamenti climatici a livello globale erano

imputabili a cambiamenti dei parametri orbitali.

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50

7. Teorie successive

Credo che l’analisi di alcune teorie e articoli successivi possa gettare ulteriore luce sulle

correlazioni che legano la teoria degli equilibri punteggiati alle scoperte sulle oscillazioni climatiche

del Quaternario.

A partire dagli anni Ottanta possiamo dire che la biologia evoluzionistica e la paleoclimatologia

abbiano cominciato a parlarsi direttamente.

Sono stati pubblicati parecchi studi che correlano studi di morfologia fossile ai cicli di

Milankovich, in particolare per quanto riguarda il tardo Pleistocene (8, 55, 56, 54, 22).

8.1. La gerarchia ecologica di Eldredge

Considero molto significativo che a partire dagli anni Ottanta Eldredge, coautore della teoria

degli Equilibri Punteggiati, abbia elaborato una struttura teorica a proposito dell’evoluzione, che

concentra molto l’attenzione sull’ambiente abiotico ed in particolare sull’aspetto dinamico

dell’ambiente fisico.

Eldredge, con questa teoria (27, 28), è alla ricerca di pattern concatenati di evoluzione biologica

e storia della Terra. Per trovarli si concentra sugli ecosistemi, “quei miscugli dinamici di specie che

formano i sistemi, piccoli e grandi, ove avviene il trasferimento biologico di materia ed energia”

(27, p. 201).

A differenza del paradigma ultradarwinista, che riconosce come principale e fondante attività

dell’organismo quella riproduttiva (18, 109), Eldredge indentifica gli organismi primariamente

come macchine per trasferire materia ed energia. La riproduzione stessa dipende, in ultima analisi

da tale trasferimento.

A detta di Eldredge (27), la biologia evolutiva si è stranamente disinteressata della natura dei

legami che intercorrono tra evoluzione e mondo fisico. Gli ultradarwinisti vanno a scrutare

all’interno, vedono come forza trainante la competizione tra geni od organismi. Nella loro

prospettiva, il cambiamento ambientale segnala semplicemente uno slittamento delle condizioni al

contorno. I paleobiologi sono sempre più convinti, invece, che i cambiamenti evolutivi coinvolgano

spesso simultaneamente molte linee di discendenza della regione (effetto intergenealogico). Per

questo, il regno ecologico, ed in particolare la sua componente abiotica, deve essere legato più

esplicitamente al processo evolutivo.

Esistono modelli ecologici e biogeografici conosciuti e studiati da tempo, come, ad esempio, la

diversa numerosità di habitat tra gli ambienti dei tropici e quelli delle regioni polari. Poiché

fenomeni come questo manifestano chiaramente elementi studiabili da entrambe le discipline

(l’ecologia e la biologia evolutiva), tali pattern e le relative spiegazioni sono un indizio del possibile

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51

aspetto di una teoria che colleghi storia evolutiva e processo ecologico. “Perturbazioni di questi

pattern, in particolare nei sistemi ecologici, sembrano essere il cuore della maggior parte dei

cambiamenti evolutivi” (27, p. 207).

Il caso più semplice ed evidente è quello delle estinzioni di massa.

Tuttavia i biologi, secondo Eldredge, avrebbero ignorato persino i più lampanti esempi della

connessione con il mondo ecologico fino alla fine degli anni Sessanta, quando i paleontologi

andarono a riscoprire i complessi modelli intergenealogici riconducibili a cause fisiche, a partire

dagli studi di Norman Newell (77). “Allo stato attuale i paleobiologi sostengono, invece, che nulla

di sostanziale avviene nell’evoluzione fino a quando eventi fisici non distruggono ecosistemi, a

livello locale, regionale, oppure planetario. A quel punto vengono innescate le estinzioni e

l’orologio evolutivo viene azzerato.” (27, p. 208).

Secondo Eldredge quando gli ambienti si trasformano, ad esempio durante una glaciazione, le

specie si spostano, effettuando, di norma, l’inseguimento dell’habitat. Se l’ambiente cambia troppo

bruscamente, oppure il nuovo habitat idoneo non viene individuato, sopraggiunge l’estinzione.

Bisogna però considerare anche che le specie non si spostano tutte con la stessa rapidità né tutte

troveranno un terreno idoneo, per cui “la composizione di specie vegetali, animali fungine e

microbiche, cambia al variare del clima.” (27, p. 214).

Per dimostrare come il cambiamento evolutivo sia legato profondamente a cause ecologiche, è

fondamentale sottolineare anche come il cambiamento agisca, sulla maggior parte delle specie di

una regione, più o meno simultaneamente. Infatti “L’evoluzione va a braccetto con la degradazione

e la ricostruzione degli ecosistemi e l’origine di nuove specie dipende per lo più dall’estinzione di

quelle vecchie.” (27, p. 216).

Come ho cercato di dimostrare in questa tesi, vi è un profondo legame tra la teoria degli equilibri

punteggiati e una visione dell’evoluzione che considera l’ambiente ed i suoi cambiamenti come

parte integrante del processo evolutivo, infatti Eldredge scrive:

“Nei 540 milioni di anni di storia della vita complessa, assistiamo in continuazione a una

stabilità degli ecosistemi che si può dire monotona. Una monotonia interrotta occasionalmente, ma

fatalmente (nel lungo periodo) da puntuazioni di squilibri ambientali generalizzati nell’ecosistema,

seguiti da estinzioni e alla fine da speciazioni.” (27, p. 218, sottolineatura mia)

Eldredge fa anche riferimento alle teorie di Elizabeth Vrba. Spesso, infatti, può succedere che un

forte cambiamento ambientale come l’arrivo di un era glaciale, provochi una frammentazione degli

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52

habitat. Eldredge dichiara di condividere in pieno la prospettiva di Vrba secondo cui la

frammentazione degli habitat, se può determinare l’estinzione, può favorire anche la speciazione.

“La frammentazione dell’habitat, in particolare se improvvisa, la frammentazione con origini

fisiche, è proprio quello che serve per causare la frammentazione riproduttiva, cioè la speciazione;

e con altre parole ancora, l’evoluzione” (27, p. 221).

Questo modello generale è la chiave per comprendere la connessione tra il mondo biotico e

quello fisico della materia in movimento di cui la vita fa parte.

Pertanto l’efficace concetto di Dobzhansky della gerarchia evolutiva, o genealogica, non riesce a

stabilire un ponte con il mondo fisico.

La gerarchia genealogica rappresenta una realtà del vivente considerata a livelli, in cui ogni

livello è composto da entità che continuano a produrne altre:

Fig. 13

Questa continua produzione di altre entità all’interno della stessa categoria tiene in vita i livelli

superiori attraverso il flusso dell’informazione genetica.

L’elemento aggiuntivo elaborato da Eldredge è la gerarchia ecologica. Serviva infatti una

struttura teorica che andasse a spiegare i fenomeni intergenealogici, cioè quelli che riguardano nello

stesso tempo ed allo stesso modo più linee di discendenza che condividono uno spazio.

Nel caso della gerarchia ecologica, o economica, l’interesse primario non è la riproduzione, ma

le attività di acquisizione di energia da parte dell’organismo. La pura e semplice esigenza di vivere

e sopravvivere, ad esempio mangiando e sfuggendo ai predatori, attiva la catena di interazioni che

genera gli ecosistemi strutturati. Il gruppo di organismi che interagisce dal punto di vista ecologico

•Che producono altri geni Geni

•Che producono altri organismi Organismi

•Che producono altri demi Demi

•Che producono altre specie Specie

Taxa monofiletici

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è detto avatar (“gruppo economicamente interattivo che svolge un ruolo concertato nel flusso

dinamico di materia ed energia in un ecosistema locale” (27, p. 224)). Come livello, l’avatar

corrisponderebbe al deme, ma non sempre i due concetti sono sovrapponibili in quanto la

popolazione riproduttiva non coincide sempre, anzi quasi mai, con l’effettiva popolazione che

scambia materia ed energia con l’ambiente.

“Se il flusso dell’informazione genetica e l’incessante attività riproduttiva dei demi e degli

organismi componenti sono ciò che mantiene in vita una specie, sono invece le interazioni fisiche

ed economiche tra gli avatar di microrganismi, funghi, piante ed animali a far funzionare un

ecosistema.” (27, p. 226)

E poi aggiunge: “Non meno vitali per la dinamica interna degli ecosistemi sono gli impatti

squisitamente fisici del clima e, naturalmente, le fonti fisiche ultime di energia.”(27, p. 226)

Esistono quindi due sistemi gerarchici di entità biologiche, separate e distinte dalla loro

funzione:

L’attività principale a monte della gerarchia genealogica è la riproduzione, quella della gerarchia

ecologica è il ricavo dell’energia e l’espletamento di altri compiti essenziali.

Fig. 14

GERARCHIA ECOLOGICA

ECOSISTEMI REGIONALI

ECOSISTEMI LOCALI

AVATAR

ORGANISMI

GERARCHIA GENEALOGICA

TAXA MONOFILETICI

SPECIE

DEMI

ORGANISMI

GENI

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Per capire in che modo il mondo dell’evoluzione si connetta al mondo della realtà fisica, bisogna

trovare il collegamento tra queste due gerarchie.

Per Eldredge, la connessione principale tra i due sistemi gerarchici è la selezione naturale, che

agisce al livello degli organismi (unico livello incluso in entrambe le gerarchie). Infatti l’evoluzione

è, in prevalenza, il destino dell’informazione genetica in un contesto “economico”: il

comportamento riproduttivo dei demi produce nuovi organismi che hanno caratteri anatomici,

fisiologici e comportamentali differenti. In ambito economico alcuni di questi organismi avranno

più successo. È qui che le due gerarchie si incontrano: le caratteristiche genetiche fanno la

differenza in ambito economico e ciò che succede nel mondo economico influisce sul patrimonio

genetico che viene trasmesso alla progenie.

Spostandoci più in alto sulla scala, al livello “ecosistemi locali-specie”, Eldredge rileva una

simmetria tra gradi di effetti sulla parte ecologica e i loro effetti sulla parte genealogica, e viceversa.

Questo è il modello dello sloshing bucket, secondo cui è come se le connessioni tra gerarchie

ecologiche ed evolutive corrispondessero al movimento dell’acqua in un secchio che viene

percosso, se poniamo le due gerarchia ognuna ad un lato del secchio, più in alto arriva l’acqua sulle

pendici di una gerarchia, più è probabile che sia superiore l’effetto risultante sull’altra gerarchia e

viceversa.

“Più forte è il trauma, più devastante è la distruzione dell’ecosistema. Più devastante è la

distruzione, più in alto nella scala tassonomica è la rimozioni dei pacchetti di informazione

genetica. Più alto è il livello della rimozione, più differente è l’informazione genetica superstite per

ridare forma alla diversità della vita una volta rimosso il vettore dell’estinzione. Inoltre, maggiore

è la disparità dell’informazione genetica da quello che un tempo aveva plasmato gli ecosistemi

sulla Terra, più saranno differenti le nuove componenti e quindi i nuovi ecosistemi. Questo è il

modello dello sloshing bucket delle interazioni tra due gerarchie. Così io credo, in sintesi, si evolva

la vita.” (27, p. 233)

A questo punto Eldredge arriva al nocciolo della questione:

“Che cosa muove l’evoluzione? Per quanto riguarda me, per certi versi un tipico paleobiologo

dell’inizio del XXI secolo, la vita rimane stabile finchè non interviene un fattore che smuove le cose,

che “rimescola l’acqua nel secchio”. Quel qualcosa ha di solito natura fisica: meteore che

impattano contro la terra, o grandi volumi di materiali piroclastici eruttati dai vulcani, o ancora gli

effetti più sottili ma non meno devastanti del cambiamento climatico su scala mondiale.” (27, p.

234)

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Sono i cambiamenti del paesaggio e le sue conseguenze sulla distribuzione delle sostanze

nutritive, della piovosità e della temperatura, che controllano gli eventi di evoluzione della vita.

L’esempio più ampio possibile, a livello globale, è quello dei cambiamenti tettonici regionali che

modificano i pattern di circolazione oceanica, con profondi effetti sull’atmosfera e quindi sul clima

mondiale.

Considerando solo la gerarchia genealogica, si perde la possibilità di spiegare tantissimi modelli

di evoluzione che caratterizzano la storia della vita.

“Il mondo fisico non è un mero fondale dell’evoluzione della vita. Esso muta in modo regolare,

comprensibile. Sono cambiamenti che hanno profondi effetti sull’evoluzione della vita: effetti

evolutivi regolari e simili a leggi. Inoltre essi richiedono – anzi esigono- l’attenta considerazione

razionale e l’incorporazione esplicita nella teoria evoluzionistica.” (27, p. 240).

8.2. Elisabeth Vrba e l’”Impulso di avvicendamento”

Elisabeth Vrba, tra i maggiori esperti mondiali di evoluzione dei mammiferi, studia le influenze

dei cambiamenti climatici sull’evoluzione a partire dai primi anni Ottanta (101).

Le sue teorie, in modo particolare quella dell’”impulso di avvicendamento”, formano un quadro

coerente degli elementi che ho chiamato in causa in questa tesi:

• Le oscillazioni climatiche del Quaternario

• La speciazione allopatrica

• La teoria degli equilibri punteggiati

“Una questione fondamentale rimane irrisolta: come il mondo fisico sia in relazione con

l’evoluzione. Il cambiamento dell’ambiente fisico rappresenta un impulso necessario per la

speciazione e l’estinzione? […] Come la speciazione è legata ai cicli climatici di Milankovich?

Quale tipo di connessioni causali esistono tra le migrazioni su lunga distanza, il cambiamento

climatico e la speciazione?” (103)

Elisabeth Vrba si occupa soprattutto di antilopi africane (43) e ritiene che il cambiamento

climatico globale di 2,8 milioni di anni fa, periodo che precede di poco l’inizio dell’era Quaternaria

con la sua instabilità climatica (l’inizio del Quaternario si colloca infatti a 2,5 milioni di anni fa), sia

alla base del drammatico avvicendamento nei bioti africani. La sua “ipotesi dell’impulso di

avvicendamento” si basa su un’osservazione chiave: la distruzione degli habitat. Questo ha due

conseguenze:

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Un’alterazione rapida e profonda dell’habitat fa sì che le specie si spostino oppure

si estinguano

Lo stesso evento può provocare la comparsa di nuove specie, per inseguimento

dell’habitat o per speciazione

La distruzione degli habitat, infatti, porta spesso a separare le popolazioni e a provocare quindi

una frammentazione delle specie. Questa frammentazione favorirebbe, accanto all’inseguimento

degli habitat, anche un’accelerazione delle estinzioni e del numero di speciazioni riuscite, quello

che Vrba definisce <<turnover pulse>>, impulso di avvicendamento (100).

Infatti, nel caso in cui le modificazioni ambientali siano moderate, prevale il fenomeno

dell’inseguimento dell’habitat (98), che provoca la migrazione, ma non l’estinzione né la

speciazione, mentre nel caso in cui la perturbazione ecologica sia così rapida ed improvvisa da non

permettere lo spostamento, molte specie si estingueranno, mentre altre si adatteranno a nuove

nicchie ecologiche e si diversificheranno in modo esplosivo.

Elizabeth Vrba applica questa teoria anche alla storia dell’origine di Homo sapiens (102),

individuando due impulsi di avvicendamento a 5 e a 2,5 milioni di anni fa, in corrispondenza di

sconvolgimenti climatici.

Scrive Elisabeth Vrba nel 1995, in un volume intitolato Paleoclimate and Evolution (103),

“Concludo che, nella maggior parte dei casi, l’allopatria e il conseguente riadattamento delle

popolazioni, non passano solo attraverso la competizione biotica, ma sono, in ultima analisi, le

conseguenze di un cambiamento dell’ambiente fisico. Queste affermazioni sono avvalorate dalle

recenti evidenze del fatto che oscillazioni climatiche astronomiche hanno avuto effetti importanti,

regolari e frequenti sugli habitat delle specie”.

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CONCLUSIONE

L’influenza delle scoperte sulle oscillazioni climatiche del Quaternario ottenuta dai primi

carotaggi oceanici, antartici e groenlandesi, della seconda metà degli anni Sessanta, sull’origine

della teoria degli equilibri punteggiati non è stata diretta (29), ma dalla ricerca dei punti di contatto

tra le due discipline è emersa una storia molto più complessa, che vede i due campi di ricerca

intrecciarsi, fin dai tempi di Darwin. Questo intreccio si inserisce nel tema più ampio del rapporto

tra evoluzione biologica e ambiente.

Ho analizzato come Darwin possedesse già una concezione fortemente dinamica dell’ambiente

geologico e fosse ben informato sulle teorie glaciali del suo tempo. La sua visione geologica della

terra in termini attualistici ha in qualche modo influenzato la sua concezione gradualistica della

trasformazione degli esseri viventi. Per Darwin dunque, l’ambiente è dinamico ma cambia in modo

lento e graduale e allo stesso modo si comportano le specie: le loro trasformazioni lungo una stessa

linea filetica sono uniformi. L’importanza da lui attribuita alla competizione biotica mette, però,

decisamente in ombra il rapporto organismo-ambiente, per cui le trasformazioni dell’ambiente

fisico possono accelerare l’azione della selezione naturale, ma non hanno un ruolo fondamentale nel

processo di speciazione.

La teoria degli equilibri punteggiati non contiene concetti del tutto originali, ma è stata

pubblicata in un periodo in cui i principi chiamati in causa potevano essere finalmente recepiti, in

quanto la nuova idea di ambiente dinamico e caratterizzato da un ritmo di cambiamento irregolare si

conciliava con una concezione di cambiamento evolutivo discontinuo, caratterizzato da lunghi

periodi di stasi e brevi picchi di cambiamento.

Lo studio di Gould sulle Poecilozonites delle Bermuda, indica come lo scienziato fosse incline a

considerare gli effetti del cambiamento climatico sull’oscillazione dei caratteri di questi organismi.

Ho trovato gli elementi che collegano le colonne portanti della teoria, riconducibili alla

speciazione allopatrica e all’evoluzione quantica di Simpson, con gli studi sui cambiamenti

climatici e le ere glaciali. La teoria della speciazione allopatrica infatti, basata sull’importanza

dell’isolamento riproduttivo, inserisce un elemento nuovo, un evento geografico in alcun modo

connesso con il valore adattativo delle specie e con le pressioni selettive in atto. L’importanza

attribuita da Mayr all’isolamento fa sì che le barriere geografiche, costituite da elementi del

paesaggio (bracci di mare, fiumi, catene montuose, ghiacciai ecc.), determinino quando e quali

popolazioni si modificheranno e raggiungeranno l’isolamento riproduttivo formando una nuova

specie. In quest’ottica è naturale come i cambiamenti di questi elementi geografici risultino

determinanti per il processo evolutivo.

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La teoria dell’evoluzione quantica di Simpson è la prima teoria a portare avanti un modello di

evoluzione dal ritmo non uniforme e questa si collega con un complicata interazione organismo-

ambiente che rende possibile la comparsa di nuovi caratteri nelle specie. Nella visione di Simpson

l’ambiente e l’organismo hanno pari dignità di ruolo nel processo evolutivo.

La contestualizzazione della teoria degli equilibri punteggiati è risultata essenziale per riuscire a

tracciare un ponte tra quest’ultima e le scoperte sul cambiamento climatico (fig. 13).

L’articolo di Gould ed Eldredge si colloca:

Tre anni dopo la pubblicazione delle analisi di Camp Century (1969), primo carotaggio di

calotta glaciale a restituirci una serie di temperature precisa e datata fino al 100.000 anni fa.

Nove anni dopo la formulazione della teoria moderna della Tettonica a placche (1963)

Cinque anni dopo la formulazione dei modelli intergenealogici di Newell (1967)

Nel decennio successivo ad una serie importante di pubblicazioni che riguardano la

connessione tra ere glaciali e speciazione.

Le teorie pubblicate negli anni Sessanta, che riguardano il rapporto ere glaciali-speciazione,

fanno da premessa ad una concezione della cladogenesi a diretto contatto con l’ambiente fisico.

La teoria degli Equilibri Punteggiati è paragonabile alla costruzione di un puzzle, i cui pezzi

sono stati ordinati in un quadro coerente ed innovativo. Proprio l’integrazione di questi concetti

rivela il quadro che ho cercato di ricostruire in questa tesi. Da una parte si ritrovano le scoperte

geologiche degli anni Sessanta, che ci restituiscono una concezione dell’ambiente fisico in perenne

ed irregolare cambiamento; dall’altra una nuova attenzione verso il rapporto ambiente-organismo

come caratteristica fondamentale del processo evolutivo, derivante dalle teorie di Mayr e Simpson,

dai modelli intergenealogici di Newell e da quella serie di studi riguardanti il rapporto ere glaciali-

speciazione (fig. 14).

Infine le teorie degli anni Ottanta di Elizabeth Vrba conciliano gli elementi chiamati in causa: la

speciazione allopatrica, gli equilibri punteggiati e i cambiamenti climatici del Quaternario.

Sono illuminanti le teorie successive di Eldredge che riguardano l’importanza fondamentale

dell’ambiente fisico. La teoria dello sloshing bucket e quella della gerarchia ecologica

rappresentano un punto di arrivo nel percorso sulla considerazione del rapporto organismo-

ambiente fisico che, in quest’ottica, sarebbe iniziata proprio negli anni Sessanta e di cui la teoria

degli Equilibri Punteggiati rappresenta una tappa fondamentale.

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Fig. 13

Fig. 13

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Fig. 14

In questa tesi ho analizzato solo alcune delle relazioni che legano il modello degli equilibri

punteggiati con le scoperte sulle oscillazioni climatiche del Quaternario.

Rimangono soprattutto da approfondire in futuro:

Un’analisi approfondita della letteratura epistemologica a proposito dei legami tra

cambiamenti dell’ambiente fisico ed evoluzione

Una ricerca più approfondita della conoscenze paleoclimatiche di Eldredge e Gould

I legami tra cambiamento ambientale e speciazione allopatrica

Una contestualizzazione storico-scientifica più ampia della teoria

RAPPORTO ORGANISMO

AMBIENTE

•Speciazione allopatrica

•Evoluzione Quantica

•Modelli intergenealogici

• Teorie speciazione-ere glaciali

AMBIENTE IRREGOLARMENTE

DINAMICO

•Scoperte sul cambiamento

climatico

•Teorie tettoniche

Equilibri Punteggiati

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RINGRAZIAMENTI

Ringrazio tantissimo i miei relatori: Prof. Marco Ferraguti, Dott. Emanuele Serrelli e Prof.

Mauro Cremaschi, per la disponibilità e la passione con cui mi hanno aiutato a dare forma alle mie

idee.

Ringrazio anche Valter Maggi per le utili indicazioni riguardo la storia dei carotaggi antartici.

Voglio ringraziare ancora, ed in particolare, Marco Ferraguti per aver colto le mie inclinazioni e

aver permesso la realizzazione di questa tesi “un po’ strana” , oltre che per la sua disponibilità

infinita a discutere sui miei dubbi e perplessità. Ho imparato più cose grazie ai suoi “consigli da

zio” che da tanti libri e conferenze!