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INDICE

Introduzione 03

A partire dall’esperienza dei figli: il lavoro con le genitorialità in Trentino

(dott. L. Malfer) 06

Laboratori – giovedì 17 ottobre 11

Cosa dicono i figli sull’interculturalità

(dott.ssa S. Vetturelli) 16

Laboratori – venerdì 18 ottobre 29

Genitorialità in ascolto

(dott.ssa V. Puviani) All. 1

Laboratori – sabato 19 ottobre 34

Elenco delle parole chiave 37

Il LAVORO con le GENITORIALITA’

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a partire SAPIENZA dei FIGLI

Trento, 17-18-19 ottobre 2013

Palazzo Istruzione, via Gilli 3, Trento

Aula Magna

dalle 9.00 alle 13.00

Introduzione

La Comunità Murialdo del Trentino Alto Adige, da più di un anno si è attivata con percorsi interni di innovazione e di formazione orientati dalla riflessione sulla genitorialità. Tale percorso, dal titolo “I care 4 parents”1, ha coinvolto:

- gli educatori dell’Ente, inizialmente attraverso dei questionari di approfondimento delle prassi attinenti il supporto genitoriale all’interno dei vari servizi educativi per poi continuare con un processo che intreccia ricerca e formazione;

- i servizi territoriali e i colleghi di altre realtà del privato sociale “aprendo” a loro spazi formativi gratuiti, pensati dentro al percorso di ricerca-formazione attivato attorno al tema delle genitorialità;

- l’Università di Padova – LABRIEF- con la formazione del 10 aprile 2013, a cura del

dott. Marco Ius, dal titolo Il lavoro con le genitorialità Co‐progettare per educare insieme nella comunità.

Il percorso formativo vissuto nell’ottobre del 2013 e patrocinato dalla Provincia Autonoma di Trento è il risultato di una proposta di partenariato tra la Comunità Murialdo del Trentino Alto Adige, l’Associazione Sì Minore Onlus, la Cooperativa sociale Progetto 92, la cooperativa Villaggio SoS di Trento e l’APSP CasaMia di Riva del Garda ed insieme all’Agenzia Provinciale per la Famiglia ha offerto un evento formativo finalizzato che ha sviluppato i temi della “genitorialità diffusa”, della “genitorialità in relazione alla fascia d’età dei figli”, dell’ “intercultura e mediazione sociale rispetto alla genitorialità” per promuovere le buone prassi in atto sul territorio trentino, spostando il focus dal “cosa possiamo fare con i figli” a “cosa ci chiedono i nostri figli”, e fornire così una diversa ed innovativa chiave di lettura. La particolarità di queste giornate di riflessione e di incontro è stato il punto di partenza: “dallo sguardo dei figli”. Sono loro i protagonisti del presente e del futuro che chiedono non solo di essere ascoltati, ma considerati e chiamati a progettare, a mettersi in rete, a sentirsi partecipi nella costruzione quotidiana dei propri sogni, del proprio futuro. Ogni giornata è stata introdotta dalla voce dei “nostri figli” come segno di ventata fresca e innovatrice: giovedì 17 ottobre interverrà Arianna Melchiorri presentando la sua esperienza presso l’associazione The Middle, venerdì 18 l’esperienza di “figlia interculturale” di Hajer Lahmadi e in chiusura sabato 19 l’amicizia di Silvia e Denise nata nell’accoglienza di quest’ultima presso la CasaFamiglia della Comunità Murialdo di Riva del Garda.

1 La sintesi del progetto è presentato nell’allegato n.1.

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Inoltre, le tre giornate, introdotte da tre temi centrali, sono state caratterizzate dal successivo approfondimento realizzato nei quattro laboratori quotidiani di “ricerca”, introdotti e condotti da facilitatori che hanno portato pratiche sperimentate nel loro quotidiano professionale. La partecipazione ai lavori di gruppo (di cui si riportano gli schemi e le riflessioni proposte dai conduttori) è stata numerosa (il numero totale dei partecipanti è stato di 113 iscritti) e molto attiva e si è concretizzata nella formulazione di “parole chiave” per stilare una nuova “grammatica essenziale” che sappia accompagnare l’educatore ed i vari protagonisti del lavoro di sostegno alla genitorialità ad attivare quotidianamente tutte le migliori risorse per costruire relazioni di ben-essere e di felicità.

Giovedì 17 ottobre

In ascolto della sapienza dei figli…

“Faccio parte di un’associazione giovanile che si occupa di crear gli spazi necessari perché ogni giovane possa trovare il luogo più idoneo per poter costruire il suo futuro. Il fare insieme le cose, il partecipare attivamente con proposte, idee e azioni, garantisce a noi giovani di sentirci vivi e protagonisti del cambiamento reale del nostro territorio. Non sempre è facile vedere i propri sogni realizzati, ma abbiamo apprezzato il valore di saperli condividere e accettare che ciascuno sia responsabile attivo di quel tanto che basta per essere comunità attiva”!

Dall’intervento di Arianna Melchiorri - l’associazione Middle

“A partire dall’esperienza dei figli: il lavoro con le genitorialità in Trentino

Sintesi dell’intervento dott. Luciano Malfer

- Educare: motore di sviluppo? Educare significa coltivare capitale umano. In questa sfida è in gioco il futuro dell’umanità.

- Complessità sociale - In una società liquida (Zygmunt Bauman) la genitorialità si trova a gestire la crisi nei rapporti sociali e nei modelli educativi

La società vive un momento di transizione e di trasformazioni: precariato, insicurezza, individualismo, egoismo, cultura dello spettacolo, consumismo pulsionale.

Influenza della globalizzazione economica; dell’immigrazione, delle nuove tecnologie, dei social network che condizionano il comportamento individuale e quindi l’azione educativa e la trasmissione di modelli.

L’erosione del sistema welfare: isolamento delle famiglie e dei singoli con aumento delle difficoltà ad esercitare la funzione genitoriale (supporto scolastico).

Affievolimento delle competenze educative dei genitori. Azione genitoriale, processi di crescita e tolleranza educativa. I “si” sono gratificanti soprattutto per gli adulti. I “no” creano invece problemi e tensioni, perché ogni no richiede un perché. Stiamo crescendo dei ragazzi incapaci di chieder loro qualcosa di importante o di difficile. Oggi non c’è l’abitudine a essere normalmente frustrati.

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Rapporto con i nuovi media: le nuove tecnologie trovano “impreparati” molti genitori.

Eccessiva ingerenza dei genitori nelle scelte dei figli. Siamo diventati dei genitori ingombranti, dei genitori eccessivamente tutelanti, dei genitori che semplificano a favore dei figli la complessità sociale esistente.

La genitorialità vive in un contesto sociale complesso; la complessità sociale caratterizza la nostra contemporaneità. Ciò richiede di ripensare le categorie attraverso cui riconoscere e leggere le configurazioni familiari e le diverse espressioni della genitorialità. Le odierne tipologie di famiglie aprono degli scenari che modificano radicalmente il concetto di famiglia nucleare naturale organizzata sul modello della tradizione. Vi sono quelle in cui la funzione educativa è svolta da entrambi i genitori (cogenitorialità) oppure da una rete parentale significativa (genitorialità parentale).

Attualmente v’è tutta una serie di discontinuità rispetto al passato. o assistiamo infatti alla non-coincidenza tra genitorialità e coniugalità: la funzione

genitoriale può essere esercitata in assenza della relazione coniugale (monogenitorialità); o alla non-sovrapponibilità tra nucleo familiare e famiglia: famiglie allargate, famiglie

ricostruite (plurigenitorialità, genitorialità per sempre); o alla non-omogeneità tra cultura familiare e cultura della comunità sociale

d’appartenenza (coppie miste); o alla non-consequenzialità tra genitorialità e universo affettivo (case famiglia, comunità

per minori); o allo slittamento della genitorialità biologica nel tempo (geronto-genitorialità); o alla non-coincidenza tra ruoli familiari e ruoli di genere: coppie omosessuali

(omogenitorialità); o alla non-coincidenza tra comunità reale e comunità virtuale: il ruolo dei social network e

delle nuove tecnologie (genitori@lità); o importanza della rete amicale significativa: genitorialità sociale. Il supporto alle

competenze genitoriali chiama in causa l’esperienza della genitorialità sociale: adulti che si accorgono di non farcela da soli chiedono aiuto e solidarietà agli altri. La genitorialità sociale consente a molte coppie di evitare isolamento, vivere la dimensione dell’impegno sociale e di imparare anche a dire i “no” che servono.

Piste di lavoro:

o Investire sui giovani: il protagonismo giovanile e l’autonomia. dare la possibilità alle famiglie di realizzare il proprio progetto di vita (politiche

familiari); le famiglie eccessivamente tutelanti rischiano di essere “invadenti” rispetto ai progetti di vita dei propri figli;

dare l’opportunità ai giovani di scoprire il proprio progetto di vita (politiche giovanili);

restituire ai giovani la loro soggettività e dignità di attori competenti e originali. Valorizzare le loro analisi, intuizioni ed ipotesi, spingendoli a divenire protagonisti non solo della loro crescita personale, ma anche nell’immaginare la collettività che sarà;

autonomia dei giovani: osare con i giovani, promuovere il coinvolgimento territoriale attraverso il piano giovani di zona (sono attualmente 14 i piani coinvolti con 18 progetti presentati di cui 11 di formazione al lavoro e 7 di

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esperienza lavorativa per un totale di 541 giovani coinvolti e una spesa di 161.943 euro nel 2013), il servizio civile in provincia di Trento (ESSERCI) e altre incentivare le esperienze che “lasciano il segno”. E’ proprio vero che i giovani vogliono l’autonomia?

un ulteriore sfida all’autonomia giovanile proviene anche dalla precarietà lavorativa del mondo d’oggi; i giovani che sperimentano presto l’attività lavorativa hanno maggiori facilità di entrare nel mercato del lavoro; c’è bisogno di sperimentare modelli anche innovativi di avvicinamento dei giovani nel mondo del lavoro anche durante il periodo dell’obbligo scolastico. Nel 2013 le politiche giovanili hanno attivato una serie di progetti ad hoc per avvicinare al mondo e della responsabilizzazione dei giovani al territorio d’appartenenza attraverso le seguenti azioni: giovani e lavoro, job trainer (alla scoperta dei propri talenti, preparando l’ingresso nel mondo del lavoro), summer jobs, joegn talenc, job trainer, il lavoro del futuro? Ce lo inventiamo noi, lavoro per il mio paese, work in progress, tirocini d’eccellenza, dare senso e significato al lavoro temporaneo, fare i conti con la crisi: giovani e bilancio familiare come risposta;

la programmazione di progetti in ambito lavorativo 2013 sono stati 12 con 569 partecipanti e una partecipazione della PAT di 113.873 euro;

per l’orientamento e/o formazione al lavoro /volontariato sono stati attivati 29 progetti a cui han partecipato 1313 giovani con un contributo PAT di 105.217 euro;

per l’inserimento al volontariato i progetti presentati sono stati 9 coinvolgendo 310 giovani e per un contributo PAT di 26.780 euro;

per la formazione e aiuto compiti i progetti presentati sono stati 4 con 87 partecipanti e un contributo PART di 8.340 euro;

giovani ed autonomia abitativa: specializzare la filiera abitativa innovando le modalità di pensare e di erogare il bene “casa”; le comunità cohousing combinano l’autonomia dell’abitazione privata con i vantaggi di servizi, risorse e spazi condivisi.

Distretti Famiglia: sono comunità educante ed inclusiva e genitorialità sociale; è un circuito economico in cui attori diversi per ambiti di attività e finalità operano con l’obiettivo di promuovere e valorizzare la famiglia e sostenere il BENESSERE di persone e famiglie. E’ un’alleanza locale per la famiglia con le seguenti finalità:

accrescere il benessere delle famiglie stimolando il protagonismo dei territori; coinvolgere le famiglie del territorio in tutte le fasi del processo supportandone la crescita in

forma organizzata (comitati, consulte, associazioni); orientare l’azione degli attori territoriali verso il target famiglia (residente ed ospite); sviluppare una cultura orientata al New Public Family Management; applicare gli standard famiglia adottati a livello provinciale e sperimentare nuovi standard

famiglia; attuare i piani famiglia di distretto monitorandone la realizzazione; accrescere l’attrattività locale sostenendone lo sviluppo economico tramite l’individualizzazione

di progetti strategici di distretto; sviluppare innovazioni sociali di processo, di prodotto e di servizio;

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no money.

Con i seguenti snodi:

Family mainstreaming come chiave di lettura di tutte le politiche di governo in chiave familiare e stimolare l’integrazione e la sinergia delle politiche;

Standard family per condividere un metodo di lavoro e auto-valutazione; Sussidiarietà orizzontale: coinvolgere le associazioni familiari nella definizione degli standard

e nella valutazione dell’azione messa in campo dagli attori del territorio; Adesione volontaria e piani di azione annuali.

Con le seguenti risposte a livello territoriale:

ad oggi in Trentino sono stati attivati 10 distretti per la famiglia in coerenza con quanto previsto dall’art. 15 della legge sul benessere familiare;

altri territori sono in fase di definizione delle partnership che andranno a comporre la fisionomia di nuovi distretti per la famiglia;

ogni distretto per la famiglia oltre che operare sugli standand famiglia, individua nuove piste di lavoro e soprattutto un progetto strategico;

sono stati coinvolti 14 musei, 48 comuni, 5 comunità di valle, 7 APT, 13 banche, 48 privati non profit, 14 pubblici esercizi, 21 alberghi e 30 privati for profit;

i distretti sono generatori di fiducia e di capitale relazionale costituito dall’insieme dei rapporti interpersonali, inter-istituzionali e di cooperazione fra imprese e territori;

l’incrocio dei saperi e delle competenze consente di mettere a sistema risorse inedite ed impensabili e stimola l’innovazione sociale;

l’innovazione sociale può manifestarsi nei processi, nei prodotti, nei servizi.

La Comunità educante.

Educazione: la definizione più comune di educazione ci rimanda al significato del verbo educere (=tirar fuori). Realizzare e rendere visibile ciò che è possibile, ciò che è implicito in ogni persona, fin da bambino: le sue potenzialità, il suo valore di persona, la sua dignità. Un’altra definizione collega la parola educazione al verbo “edere” ossia nutrire, allevare. In questa doppia radice etimologica, il condurre e l’allevare, sta il duplice fondamento dell’educazione come guida autorevole e cura affettuosa.

La funzione educativa viene primariamente svolta oggi da due grandi agenzie educative: la Famiglia e la Scuola. Scuola e Famiglia svolgono un ruolo primario verso i giovani che apprendono stili di vita e programmi ufficiali. Entrambe riscontrano oggi oggettive difficoltà nell’esercitare la loro funzione educativa. L’azione educativa non è però influenzata solo dal comportamento individuale di chi l’agisce. E’ anche e soprattutto espressione di un sistema culturale e sociale. Una società ha infatti, tra i suoi compiti, anche quello di trasmettere alle nuove generazioni valori e modelli culturali nei quali si identifica e si riconosce.

Serve un patto sociale per il sostegno delle nuove generazioni tra Famiglia, Scuola e Comunità. Educare è un atto di reciprocità. Educare è costruire insieme identità e futuro. Educazione come processo di ricerca collettiva.

Comunitas: comunicare, condividere, stare insieme. La comunità come un Noi aperto e inclusivo che riconosce il valore sociale dei giovani, la varietà delle storie, delle lingue, delle culture. E’

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possibile accentuare la funzione educativa della nostra società? Accanto a scuola e famiglia come potrebbe essere valorizzato il ruolo che potrebbe essere esercitato con maggior consapevolezza da una comunità che si qualifica come “educante”?

La comunità educante può confermare, integrare ed espandere i concetti e i valori familiari attraverso servizi di qualità, buone pratiche, buone relazioni e buon lavoro. Una comunità è educante quando tutti gli attori esercitano una quota di funzione educativa. E’ una comunità che consente tempi e luoghi ove processi (di confronto e dibattito) possono avere luogo. Una comunità educante è quella che educa i propri cittadini, ma che si fa anche educare e si fa cambiare dai propri cittadini. E’ una comunità in cui vi è una responsabilità diffusa. E’ una società di relazioni e non una società di azioni.

L’educazione nella comunità diviene un percorso in cui ci si co-educa. Educare non è solo formare. Chi educa è anche educato e il suo sapere si gioca nell’atto dell’educazione. Luoghi, spazi, mediazioni, relazioni che possono facilitare l’incontro, la relazione educativa, al gestione dei conflitti, la ricostruzione di legami sociali. Che nessi possiamo vedere tra i distretti famiglia e i processi educativi di comunità?

E’ possibile posizionare l’azione dei distretti famiglia in un contesto di comunità educante?

Gli standard Famiglia: la PAT - Agenzia per la famiglia, con Forum Famiglie e attori privilegiati definisce gli standard (funzione di normazione). I distretti famiglia territoriali implementano gli standard e propongono alla giunta ambiti nuovi nei confronti dei quali definire ulteriori standard famiglia (innovazione). L’Agenzia per la famiglia – Forum Famiglie supportano il processo nelle fasi metodologiche, di monitoraggio e di valutazione.

I soggetti coinvolti sono i musei, i comuni, i pubblici esercizi, gli alberghi, i servizi per crescere assieme, le associazioni sportive, le organizzazioni e gli sportelli informativi toccando e includendo molti aspetti e settori:

o la cultura di genere, i servizi per l’estate, la mobilità pubblica, le famiglie numerose, le piste ciclabili;

o la f@miglia e le nuove tecnologie: divario digitale (famiglia, scuola…) – eldery people, rischi della rete, potenzialità della rete, ICT e work life balance, family and e-tourism,

o i documenti di governance: libro bianco, la legge provinciale sul sistema integrato politiche strutturali per il benessere familiare e la natalità;

o festival della famiglia.

LABORATORI

1. “Figli e genitori nei nuovi media: come?” condotto da Monica Buiatti

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Schema degli argomenti trattati durante il laboratorio

Attività metodologia 1 Autopresentazione della

conduttrice e della tipologia di esperienza maturata presso l’Agenzia per la Famiglia, in collaborazione con il Tavolo di lavoro sui nuovi media

Frontale con supporto audiovisivo

2 Ice-breaking Attraverso un’attività in tema i partecipanti saranno guidati alla reciproca conoscenza e allo scambio di preconoscenze e aspettative

3 Il rapporto genitori-figli sul fronte dell’utilizzo delle tecnologie

I partecipanti confronteranno le loro conoscenze e aspettative con gli esiti di ricerche e studi europei, nazionali e locali

4 Il ruolo educativo degli adulti Role play. A partire da uno stimolo audiovisivo che presenta uno studio di caso con dilemma, i discenti saranno invitati a rivestire i panni degli attori coinvolti per trovare le possibili soluzioni al problema posto

5 Conclusioni Frontale. Riformulazione dei concetti portanti emersi e rilancio

Sintesi del lavoro di gruppo

Parole chiave:

1. Inconsapevolezza 2. Opportunità 3. Dipendenza / isolamento Temi emersi e commenti:

• Rispetto agli adulti: guidare e fornire linee valoriali e etiche oltre agli spazi e ai tempi (consapevolezza del ruolo). • Rispetto ai giovani: vanno accompagnati a riguardo delle tre parole che il gruppo ha individuato. Vivono un impoverimento significativo e bisogna far da ponte tra la realtà e la virtualità (non sostituirsi, ma integrarsi)

(referenti: Sabrina e Barbara)

2. “A partire dall’ascolto dei figli, l’esperienza dei Distretti Famiglia” condotto da Luisa

Masè Domande proposte per il laboratorio

1. Quali sono gli elementi che ritenete interessanti e riproducibili 2. L’esperienza vi suggerisce idee/progetti/azioni per lavorare su genitorialità-benessere-comunità? 3. Quali dovrebbero essere le metodologie/gli approcci da adottare nel lavoro sulle genitorialità dentro le comunità? Sintesi del lavoro di gruppo

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Parole chiave:

1. Ascolto dei genitori 2. Connubio inscindibile tra l’aspetto economico e socio-educativo 3. Rete Temi emersi e commenti:

• Obiettivo benessere, la persona a 360°. • L’informalità delle modalità di incontro e di comunicazione. • Lavoro di rete e pianificazione tra i diversi attori che fanno parte del Distretto Famiglia. • Lavorare con le famiglie con forte disagio, partendo dall’individualità arrivando all’integrazione nella comunità.

(referenti: Laura e Martina)

3. “Figli e genitori: come liberare l’autonomia?” condotto da Arianna Bazzanella e Flavia

Favero Schema degli argomenti trattati durante il laboratorio

- Presentazioni delle conduttrici, del laboratorio e dei partecipanti. - Brainstorming su “Autonomia” e “Transizione”. - L'autonomia dal punto di vista della ricerca sociologica: indicatori utili per definire i concetti

pluridimensionali di “autonomia” e di “transizione” mettendo in evidenza come i ruoli genitoriali siano in forte evoluzione all’interno di quello che Pietropolli Charmet definisce “cambio di paradigma familiare”.

- Confronto in gruppo - Esercitazione su casi. Ai partecipanti vengono proposte alcune situazioni critiche rispetto

all’autonomia nel rapporto genitori-figli in adolescenza per definire così una possibile linea educativa.

Sintesi del lavoro di gruppo

Parole chiave:

1. Libertà autogestita / relazioni /gruppo 2. La famiglia 3. Il figlio come bene pubblico Temi emersi e commenti:

• Percorso di crescita: infanzia, adolescenza, giovinezza. • Genitorialità più programmata e posticipata (più ansia) • Libertà autogestita dai giovani • Valori per i giovani: le relazioni, gruppo, famiglia. • Bisogni diversi per i genitori (controllo?), per i giovani (libertà, autonomia). • Nuove tecnologie: i genitori non sanno accettare di non avere controllo. Buon potenziale. • Mancano servizi, politiche. Ruolo della Comunità. Giudizio esterno. Responsabilità sociale. • Tanti adulti e modelli (credibilità dell’adulto). Fare con il giovane e non imporre

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• Percorso di autoconsapevolezza. Rielaborare i vissuti e dare un nome alle emozioni. • Lavoro in sottogruppi: come liberare l’autonomia? E’ il figlio che spesso aiuta il genitore a staccarsi. Ruolo del padre.

(referenti Anna e Monica)

4. “Essere figli, essere giovani e diventare protagonisti” condotto da Cristiano Conte

Schema degli argomenti trattati durante il laboratorio

Analisi del fabbisogno formativo

Una valutazione interna alla Comunità Murialdo, basata su elementi provenienti sia dagli educatori, sia dai territori entro i quali i servizi si trovano ad operare, ha messo in rilievo, da un lato, la necessità di andare oltre le modalità tipiche dei presidi educativi più formalizzati (centri diurni, aperti, ecc.) e, dall’altro, la necessità di puntare maggiormente all’attivazione e al coinvolgimento dei genitori.

A partire da queste valutazioni preliminari, la Comunità Murialdo ha attivato un percorso di ricerca-azione e formazione interno, volto a ripensare i propri servizi educativi promuovendo una prospettiva di lavoro di tipo ecologico, orientata ai processi e al concetto “comunità educante”, piuttosto che sulla mera erogazione di prestazioni.

Ipotesi formativa del Workshop

Mettere a fuoco assieme ai partecipanti alcune questioni significative inerenti la tematica del laboratorio;

individuare alcune criticità inerenti il rapporto tra tali questioni e l’operatività dei servizi;

definire alcune “bussole” praticabili nel lavoro educativo quotidiano (da un punto di vista operativo, gestionale, organizzativo) che possano orientare ad affrontare in modo efficace le criticità individuate.

Possibili questioni significative da cui partire

Elementi della complessità attuale:

disorientamento degli adulti (non più testimoni credibili del presente); futuro-promessa vs futuro-minaccia (cfr M. Benasayag e G. Schmit, “L’epoca delle passioni tristi”, Feltrinelli, Bologna, 2003);

il decisore pubblico compresso tra carenza di risorse e difficoltà nel costruire una vision strategica.

La prospettiva proposta dall’Europa: l’innovazione sociale. Le politiche pubbliche non nascono solo dall’ente pubblico, ma vengono co-costruite dentro ad alleanze a “geometria variabile” tra soggetti pubblici e privati.

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Tutto ciò implica la necessità da parte degli adulti significativi (decisori pubblici, educatori, genitori) di un ri-posizionamento: un abitare le frontiere oltre la “difesa di Fort Alamo”, con il coraggio delle domande, consapevoli delle proprie competenze e dell’inevitabile parzialità del proprio punto di vista. Saper “sconfinare” implica grande consapevolezza e desiderio di reciprocità con altri soggetti in viaggio, co-costruttori di beni comuni quali l’inclusività dei contesti e le possibilità di futuro per i propri figli.

La necessità e la fatica di ripensarsi, in questo tempo di grande incertezza, diventa un trait d’union cruciale con i percorsi dei ragazzi. Come possiamo pensare di educare al protagonismo - ovvero di sconfinare, osare, creare - se non riconosciamo a noi stessi la possibilità di andare “oltre” il già noto?

Da questo punto di vista, ritornano con forza le parole di don Milani “sortire da soli dai problemi è egoismo; sortirne assieme è politica”. L’educazione non può nascondersi dietro a una presunta (e inesistente) neutralità, rinunciando alla sua valenza politica, ovvero di promozione di un cambiamento possibile dentro ai contesti a partire da una rilettura critica degli stessi.

Promuovere un cambiamento possibile significa educare al desiderio (cfr C. Conte e Andrea Marchesi su “Animazione Sociale”, marzo 2013). Desiderare, oggi più che mai, è una competenza che si apprende dentro le relazioni significative capaci di riconoscere passioni, attitudini, interessi, intuizioni, istanze dei singoli. Il gruppo (di giovani, ma anche di genitori) assume una valenza pre-politica, di cura della polis, dentro a cui le persone possono riconoscersi riscoprire il loro desiderio di contare, ovvero di provare a realizzare uno scarto tra il presente e il possibile.

Le otto competenze chiave promosse dall’UE, in particolare quelle legate alle cosiddette competenze di cittadinanza (creatività; partecipazione e cittadinanza attiva; imparare a imparare; imprenditività personale) possono diventare un’utile bussola per orientare il nostro agire nella promozione di “sconfinamenti” all’interno dei contesti.

Modalità di gestione del laboratorio

Fase Modalità

Presentazione lavori Frontale

Individuazione questioni e domande significative (cosa “fa problema”) rispetto all’argomento del WS, a partire dalla propria esperienza quotidiana di lavoro

Metaplan e confronto in plenaria

Integrazione contenuti sulle tematiche individuate: messa a fuoco delle criticità del contesto

Frontale

Presentazione di un orientamento possibile: le otto competenze chiave

Frontale

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individuate dall’Unione Europea

Lavoro di gruppo:

Messa a fuoco delle principali criticità rispetto all’agire educativo nella relazione tra la quotidianità del lavoro e gli elementi di contesto;

Individuazione di possibili “bussole” nell’agire educativo in relazione alle otto competenze chiave EU

Lavoro in sottogruppi

Presentazione lavori di gruppo: ricerca di orientamenti condivisi

Plenaria

Conclusioni Plenaria

Sintesi del lavoro di gruppo

Parole chiave:

1. Liberare il desiderio 2. Ricerca comune 3. “Sconfinamenti”

Temi emersi e commenti:

• Fatica degli adulti ad essere testimoni credibili del presente. Ciò comporta la fatica di ripensarsi e quindi sviluppare un’attitudine alla ricerca comune. • Le politiche europee puntano alle nuove policies che riguardano l’innovazione sociale, la territorialità e gli “sconfinamenti” come capacità di andare oltre quello che già si sta facendo nei servizi. • Un uovo compito educativo è quello di liberare il desiderio, cioè non dare per scontato che i giovani desiderino ma il desiderare diventa una competenza da imparare e da suscitare (referenti Elena e Paola)

***

Venerdì 18 ottobre

In ascolto della sapienza dei figli…

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“Mi considero una figlia della terza generazione. I miei amici dicono che sono ‘più vecchia’ degli anni che dimostro… non so. Forse perché porto il velo, forse perché la storia che mi porto dentro mi fa diventare più seria di quello che sono, forse perché ho molte storie e ogni giorno le devo vivere: a scuola parlo in italiano, ma a casa l’arabo… e tutto ciò è una grande ricchezza che si può apprezzare solamente quando si riconoscere che ogni essere umano, nella sua diversità, porta qualcosa di unico nelle vite degli altri. Mi impegno a fondo per un’associazione culturale che rappresenta il mondo da cui provengo e mi vede spesso girare per l’Italia e di condividere la mia esperienza di figlia di terza generazione: su di noi pesano le due generazioni di immigrati che c’hanno preceduto e soprattutto la responsabilità di sapere che stiamo partecipando alla creazione di una società plurietnica e pluriculturale capace di rendere il mondo più ‘colorato’!”.

Dall’intervento di Hajer Lahmadi

“Cosa ci dicono i figli sull’interculturalità?”

Intervento dott.ssa Susanna Vetturelli

Il Lavoro Etnoclinico In tutta Europa, a scuola, per le strade e nei negozi, ma anche nei servizi sociali e sanitari

incontriamo bambini, famiglie e gruppi di uomini e donne provenienti da ogni continente. Questi nuovi conterranei parlano lingue differenti, hanno gesti, atteggiamenti, modi di fare ma anche pensieri, concezioni e logiche culturali a volte radicalmente “altre” rispetto a quelle a cui noi siamo abituati.

Lavorare oggi nelle professioni educative, cliniche e di cura ci porta sempre più all’interno di

situazioni caratterizzate dall’interazione culturale dove in gioco, tra operatori e utenti , ci sono visioni del mondo e parole delle lingue che veicolano concezioni della salute e della malattia, della nascita e della morte, della famiglia e delle modalità di gestione dei conflitti profondamente diverse. Di fronte a queste situazioni nasce e si sviluppa il lavoro dell’etnopsichiatria e della mediazione culturale ed etnoclinica che si è dedicato alla ricerca delle somiglianze e soprattutto alla ricchezza delle differenze.

Il lavoro con le realtà e le istituzioni che operano sul territorio ha messo in luce la duplice

necessità di tecniche specifiche nei differenti contesti in cui la mediazione si attua e di una teoria su cui fondare lo spazio di mediazione stesso.

Il lavoro etnoclinico è andato costruendosi e trasformandosi proprio in risposta a queste esigenze, individuando un nuovo modo di interagire fra gruppi e utilizzando insieme e contemporaneamente saperi moderni e saperi tradizionali.

Il Dispositivo di Mediazione Etnoclinica A tal fine è stato costruito e sperimentato un dispositivo operativo tale da permettere il

manifestarsi della dimensione etnica di modelli educativi ed iniziatici, di concezioni della malattia e dell’origine del male, di cura e di guarigione, di giustizia e di regolazione dei conflitti, di democrazia e di gestione del potere. Tali concezioni possono non coincidere con i modelli etnici occidentali, poiché si legano a trasgressioni, azioni, turbamenti, in un universo popolato da esseri visibili e invisibili, e contemporaneamente a legami, a rapporti comunitari e a responsabilità

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generazionali per noi desuete e rare o totalmente assenti dalle nostre forme di vita, basate principalmente su deleghe istituzionali.

Il dispositivo di mediazione etnoclinica si attua in seguito alla domanda di professionisti e delle equipes di operatori delle istituzioni che hanno in carico l’utente.

Le Consultazioni Etnocliniche La consultazione etnoclinica dura circa tre ore. Essa si fonda sulla collaborazione di tutti gli operatori che lavorano attorno all’utente o alla

famiglia. A seconda della domanda e del caso per cui si interviene le consultazioni propongono due

livelli intervento : - Incontri a carattere preventivo che riuniscono tutti gli operatori che hanno in carico

l’utente o la famiglia. Questi incontri hanno l’obiettivo di attivare una riflessione comune sulle difficoltà incontrate con l’utente di sensibilizzare l’equipe al lavoro etnoclinico con utenti appartenenti a culture altre e di trovare una strategia comune nella presa in carico.

- Consultazioni con gli operatori che hanno in carico l’utente o la famiglia in presenza di

questi ultimi. Questo incontro si effettua in seguito al primo. L’obiettivo è di attirare l’attenzione dell’utente e della famiglia sulla situazione problematica e sulle sue cause, che possono essere differenti a seconda della logica culturale da cui le si osserva. L’obiettivo è di dipanare la situazione facendo emergere la dimensione etnica dei diversi modelli culturali in compresenza.

Entrambi gli incontri sono organizzati in maniera da permettere, sia l’analisi, la valutazione e

la discussione intorno alle situazioni sottoposte, sia, ove possibile, la creazione di gruppi di lavoro capaci di proporre e sviluppare la presa in carico di persone e famiglie migranti.

Il/la Mediatore/trice linguistico-culturale ed etnoclinico/a La presenza attiva del mediatore linguistico-culturale ed etnoclinico, figura ponte tra le lingue

e le culture, rende il gruppo operativo un gruppo multiculturale che espande la capacità di comparazione e scambio fra i modelli esplicativi degli operatori e degli utenti, contribuendo ad esplorare più in profondità le logiche cui fanno riferimento le strategie d’intervento delle diverse culture.

Il mediatore appartiene al gruppo culturale e parla perfettamente la lingua dell’utente e della sua famiglia.

LO SPAZIO DI MEDIAZIONE CULTURALE

Attivare una mediazione vuol dire entrare sempre dentro una Triangol-Azione Il singolo paziente-utente -famiglia / l’operatore e il mediatore linguistico culturale.

Mlc

Famiglia Operatori

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L’azione del mediatore inizia sempre con una domanda, da parte di un individuo di solito un operatore che, non dimentichiamo fa parte di un gruppo quasi sempre un’istituzione. Domanda che sorge in seguito ad una difficoltà, a un malinteso o a un conflitto che esiste perché in gioco tra le parti ci sono domande differenti, non sempre esplicite. Queste domande differenti generano tensione tra le istituzioni e tra gli individui che lavorano nell’istituzione. A questo punto l’operatore si trova di fronte ad una difficoltà che gli impedisce di andare avanti con la presa in carico, una difficoltà che lo porta al limite della sua professionalità. E’ su questo terreno, lo spazio dell’incertezza che può cominciare il momento di una negoziazione diversa. È soltanto a partire da questo momento che gli operatori vivono che è possibile creare un tempo e uno spazio particolari che noi chiamiamo spazio di mediazione. Questo nuovo spazio permette un secondo tipo di relazione che stravolge le relazioni pre-esistenti e che ha un obiettivo completamente diverso: accettare di co-costruire con la famiglia e il mediatore lo spazio di mediazione.

Nello spazio di mediazione le cose vengono decostruite per essere poi ricostruite. Ciò è possibile perché il mediatore entra dentro tutto questo con una sua professionalità specifica, come un tecnico che possiede degli strumenti specifici ed in cui gli operatori utilizzano il mediatore come un tecnico.

Gli strumenti del Mediatore I° Strumento Cambiare l’ASCOLTO Il primo strumento del mediatore, è quello di affinare una capacità molto semplice, ed estremamente complessa nello stesso tempo. Ascoltare i discorsi e comprendere che all’interno dei discorsi a volte c’è un io che parla a volte c’è un gruppo che parla;

Esempio del dentista

Come operatori abbiamo bisogno dei discorsi di un certo gruppo culturale e il mediatore è il “professionista” di quel gruppo. Noi abbiamo bisogno di un mediatore perché il mediatore ci può dare il discorso del suo gruppo, ha il sapere e il saper fare del suo gruppo. Lavorando con i mediatori dobbiamo imparare ad ascoltare in un altro modo: a distinguere e riconoscere il discorso personale dal discorso di un gruppo. 2° strumento Evidenziare la differenza che esiste tra un gruppo e quell'altro. Un esempio semplice: ieri uno psichiatra a Bologna ci ha detto che qualcuno aveva delle allucinazioni e però anche una grande capacità empatica di mettersi in relazione con le persone, Abbiamo riguardato il discorso dentro il pensiero del suo gruppo culturale e abbiamo visto che nel discorso del suo gruppo la persona aveva un dono di visione.

Si comprende come questi due discorsi non dicono la stessa cosa perché in un caso se il paziente ha delle allucinazioni è “ammalato”, nell'altro è “qualcuno che dispone di un potere particolare”.

Durante le mediazioni è fondamentale guardare nei diversi discorsi separarli e vedere la semplicità che può uscirne

3° strumento: Ricostruire una storia nuova con l’operatore

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Se il mediatore è capace di mettere nello spazio di mediazione questi elementi differenti l'ultima suo compito sarà quello di aiutare gli operatori a ricostruire come le cose possono essere fatte con l’utente. In questo momento il mediatore è estremamente importante perché dispone di quella che chiamiamo un'abilità che gli permette di validare e di convalidare, cioè permette di valutare tutto ciò che l'operatore in quel momento sta dicendo, sta proponendo. Con un esempio, un operatore può dire per esempio: " allora se il matrimonio di questi i rom non è ben fatto, possiamo ricominciare da qui” e a quel punto il mediatore può aggiungere : " da noi non si ricomincia, si fanno queste e queste altre cose per riportare l’ordine nella famiglia ". Quindi il mediatore servirà agli operatori come “co-costruttore di risposte” Ciò farà sì che lo spazio di mediazione esista perché il mediatore diviene un profilo professionale che ascolta, separa, e co-costruisce risposte, SEMPRE indipendentemente dalle sue sensazioni personali.

CONCEPIMENTO GRAVIDANZA E PARTO IN ALTRE CULTURE

a. Da dove vengono i bambini ?

Durante alcuni colloqui avuti a Kolda con diverse donne bonoroBe2 sull’arrivo dei bambini, esse più di una volta mi hanno ripetuto :

“il bambino manda dei segni a sua madre, degli oggetti, o dei sogni.. sono messaggi per la madre, che lei deve

comprendere, poi lei resta incinta e il bambino arriva”.

Le donne insomma mi stavano dicendo che non solo il bambino pre-esiste al suo concepimento e alla sua nascita nel nostro mondo, ma che, inviando dei messaggi a sua madre, vi pre-esiste con un’intenzionalità.

Quest’affermazione mi metteva di fronte allora ad una prima grande questione: da dove vengono i bambini e come arrivano nel nostro mondo materiale?

A. H. Bâ scrive che l’esistenza di una persona comincia col concepimento, ma essa è preceduta da una preesistenza, che egli definisce in francese con il termine cosmica, dove essa risiede in un regno d’armonia chiamato in bambara Benke-so. Questa visione è diffusa nella maggior parte delle società dell’Africa Occidentale.

Le bonoroBe mi hanno spiegato allora che i bambini prima di nascere abitano il mondo invisibile, un mondo che è parallelo a quello degli umano ma invisibile ai loro occhi.

Il mondo invisibile resta invisibile ai nostri occhi. In alcuni momenti particolari del giorno o della notte però, questi luoghi diventano lo

spazio in cui gli universi e soprattutto gli esseri che li abitano possono incontrarsi, sovrapporsi.

2 Le bonoroBe sono le donne con cui ho svolto le mie ricerca a Kolda. bonoro, significa la cattiva donna, colei cioè che

non giunge a procreare, a mettere al mondo una discendenza vivente, quelle che noi in Europa chiamiamo donne

sterili. Le bonoroBe con cui io ho interagito erano tutte membri del gruppo dimba-túlon. L’accesso al gruppo e il rito a

cui si sono sottoposte hanno permesso loro di avere dei figli. A Kolda la maggior parte delle donne bonoroBe,

incontrate era di etnia peul.Per un approfondimento sulle donne e sul gruppo si rimanda alla lettura del capitolo VIII°

e IX°

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È da questo universo che i bambini vengono nel nostro mondo. E, come con grande pazienza mi ha fatto comprendere Noguay3, la nascita di un bambino è la prova che una parte di esistenza invisibile si è staccata da quel mondo per compiere una missione nel nostro.

Ma come giungono i bambini nel nostro mondo? E in altri termini come si “fabbrica un bambino umano”?

“In Africa la procreazione non è soltanto il frutto del desiderio di una coppia, né dell’unione

di due sessi, essa dipende anche dall’intervento di un “essere” altro”4. Sarà solo con l’intervento di quest’essere altro e invisibile, il quale penetra nel ventre della donna durante il rapporto sessuale, che il bambino sarà concepito.

Se il pensiero della necessità dell’intervento di un essere invisibile ai fini del concepimento è un pensiero generalizzabile alla maggior parte delle società dell’Africa dell’Ovest, ciò che si distingue a seconda dei vari gruppi è la natura dell’invisibile che giunge col bambino.

Così per i Mossi del Burkina Fasu si tratta dei kinkirse5, gli spiriti che abitano le foreste, per Serer del Nord del Senegal si tratta di un antenato che torna col bambino.

Tuttavia tutte le donne peul, mandinghe, diola e balanta con cui io ho lavorato riconoscono che in generale i bambini possono avere tre origini:

- tutti i bambini che vengono al mondo sono considerati degli stranieri, che giungono nel nostro mondo da un altrove, l’al di là, il “ doppio ” invisibile dei villaggi umani.

Ma questo piccolo straniero che irrompe nella vita degli umani può o essere il dono di una

potenza invisibile, e come abbiamo visto, un antenato che torna nel proprio gruppo. Nel primo caso il pensiero che sottende l’idea del dono è estremamente preciso. Il bambino è

stato domandato ad una potenza invisibile. In genere è la madre che, non arrivando a procreare si rivolge agli invisibili, (spesso si tratta di jinneeji della terra, ma in Casamance ed in Guinea sono anche gli esseri che abitano l’acqua) sollecitandoli affinché possa diventare madre6. Quando le potenze invisibili ascoltano le sue parole, il bambino viene concepito. Una volta nato il piccolo dovrà essere accolto in modo particolare, secondo i rituali previsti dal culto dell’invisibile che lo ha concesso. Egli infatti non è solo figlio dei suoi genitori, ma sarà anche legato agli invisibili che gli hanno permesso di venire al mondo.

Nel secondo caso invece il bambino è considerato come un antenato che torna tra i suoi. La prima preoccupazione della famiglia sarà quella di identificare di quale antenato si tratta, quale sia il nome con cui vuole tornare nel mondo visibile e soprattutto, quali siano le sue intenzioni (l’antenato può tornare per vegliare sulla famiglia, ma per rimetterla sul “ buon cammino”, ma anche per vendicarsi di un torto subito). A tale scopo, già durante la gravidanza i genitori e la famiglia avranno chiesto agli indovini di vedere con le divinazioni. Già prima della sua nascita del bambino tutte queste informazioni sulla natura del bambino sono conosciute dai genitori.

3 Questo pensiero è emerso dopo un lavoro di mediazione. Senza l’aiuto di Noguay per me sarebbe stato impossibile

giungere a formulare un pensiero del genere, troppo lontano e addirittura impensabile nel mio modello culturale. Per

un approfondimento rimando alla lettura della parte metodologica in cui descrivo il dispositivo di mediazione adottato

nelle interazioni con le donne incontrate a Kolda; 4

Marième Bâ, 2000, “La dépression du ventre”, in Tobie Nathan e coll., L’enfant ancêtre, Ed. La pensée sauvage, Paris,

pp. 273. 5 Per un approfondimento cfr. con Doris Bonnet, 1988, Corps biologique, corps social, Ed. de L’ORSTOM, Paris, pp. 21-

23. 6 In Alta Casamance le donne colpite dalla sterilità ricorrono a questo tipo di pratiche terapeutiche. Il gruppo di donne,

dimba-tùlon di cui parlerò nei prossimi capitoli ne sono un esempio. Esse regolano i disordini della fecondità

attraverso canti e preghiere rivolte al jinne che risiede in un grande tabayi (albero, il cui fusto e la cui chioma

ricordano un po’ il platano).

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Va specificato che questo processo di identificazione e di riconoscimento del bambino, è operato dai genitori per tutti i figli che vengono al mondo. Non dobbiamo dimenticare infatti che essi sono dei piccoli stranieri che nascendo, giungono nel nostro mondo con un’intenzionalità. Si tratterà allora di accoglierli e di apprendere a conoscerli, per poter poi costruire con loro delle relazioni armoniose7.

Con la nascita i bambini non si staccano completamente dal loro mondo originario e proprio questa loro partecipazione al mondo invisibile non li rende umani a pieno titolo. I bambini vengono al mondo dunque come degli esseri umani incompleti. Tutti i primi anni di vita del bambino saranno consacrati al suo processo di umanizzazione.

Il primo rito di umanizzazione e di identificazione dello straniero che entra nella vita degli umani, è la sua nominazione, sette giorni dopo la sua nascita. È “l’atto con cui si accoglie, si riconosce l’individuo, l’atto con cui si sancisce l’inizio della sua vita sociale. La scelta del nome verrà fatta dalla famiglia e dagli indovini”8.

Attraverso la divinazione l’indovino e la famiglia s-velano il “nucleo” della persona, la sua parte più intima e segreta.

Il nome della persona si configura allora come la matrice interpretativa dell’intera persona, ciò che permetterà nel corso della sua vita di leggere le tracce che disegnano il suo destino.

Questo primo riconoscimento circa l’origine, il nucleo fondante e la natura del bambino si costituirà come la base ed il presupposto a partire da cui gli apprendimenti, i riti, la trasmissione dei saperi e delle pratiche saranno impartite al bambino.

b. deBBo reedu, la donna ventre

Ma cosa accade quando le donne peul in Alta Casamance scoprono di essere incinte per la

prima volta? Tra i Peul il sapere non si trasmette mai con le spiegazioni. Gli apprendimenti sono legati

all’esperienza di un evento che si presenta nella vita degli uomini e delle donne. Gli apprendimenti insomma sono trasmessi a partire dagli eventi che avvengono e seguono il loro ritmo. Così alle ragazze non viene spiegato preventivamente con le parole cosa dovranno fare durante la gravidanza o come dovranno comportarsi durante il parto.

La giovane sposa che si rende conto di essere incinta per la prima volta ne parlerà con la

propria madre o come più spesso accade con la suocera, la madre del marito. Infatti è presso la famiglia di quest’ultimo che ella si è trasferita dopo il matrimonio e il versamento della dote.

Le anziane della famiglia immetteranno la giovane dentro un processo di trasmissione e di iniziazione ai saperi e alle pratiche che riguardano la gravidanza ed il parto .

Nel corso dei mesi le insegneranno i divieti alimentari per proteggere lei stessa e la creatura che porta in grembo, come il divieto di mangiare sale, peperoncino e fegato per non perdere troppo sangue al momento del parto.

Alcune donne mi hanno raccontato che veniva loro detto di non mangiare sostanze amare come le foglie di papaia, utilizzate nel trattamento del paludismo, le quali possono causare degli aborti.

Nella tradizione peul la genesi del feto nel ventre materno comporta tre fasi. La prima in cui si ritiene che il ventre contenga dell’acqua e un grumo di sangue che si sposta nel ventre, è questo che causa i malesseri come la nausea e il vomito alla donna. La seconda fase in cui grazie all’apporto dello sperma maschile il grumo di sangue, prende una forma che assomiglia a quella di

7

Cfr. Tobie Nathan, Lucien Hounkpatin, 1998, La guérison yoruba, Ed. Odile Jacob, Paris, pp. 131-136. 8

Ibidem,cit. p.14.

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un pesce. È il periodo in cui tutti intorno alla donna cominciano a chiedersi se ella sia incinta o meno. Alla donna viene detto di continuare a lavorare, il movimento faciliterà il parto.

Durante l’ultima fase il bambino prende la forma umana e si prepara ad entrare nel nostro mondo.

Come abbiamo visto per i Peul i mondi visibile ed invisibile sono costantemente in interazione. Sopra ho sottolineato che il bambino non è il frutto della semplice unione biologica tra un uomo e una donna, per il suo concepimento è necessario l’intervento di una entità invisibile che entra nel ventre della donna durante il rapporto sessuale e permette il concepimento del bambino.

Ciò ci permette di comprendere come durante la gravidanza la donna si trova al crocevia tra i mondi, essa attraversa dunque un periodo estremamente delicato che la espone col bambino che porta ai pericoli che provengono dai due mondi di cui partecipano, da una parte ad esempio alla gelosia e all’invidia delle altre donne o delle co-spose, ma contemporaneamente ai pericoli del mondo invisibile, come gli attacchi dei cattivi spiriti, dei jinneeji, degli stregoni antropofagi.

Così alla donna verrà insegnato a poco a poco a difendersi da questi pericoli, inizialmente attraverso alcuni divieti comportamentali.

Una delle prime cose che verrà raccomandata è di mantenere una discrezione intorno al suo stato. La gravidanza è qualcosa di cui non si deve parlare e che non si deve comunicare. Va nascosta per essere protetta, dalla gelosia delle co-spose, dal malocchio. Il gruppo delle donne anziane della famiglia sono le sole persone messe al corrente e saranno loro ad occuparsi di informare il marito. Diranno alla donna incinta di fingere di ignorare il suo stato fino a dire a coloro che la prendono in giro di non aver notato nulla.

Le diranno di non uscire e di non lavarsi durante alcune particolari ore del giorno, come l’alba, il primo pomeriggio e il crepuscolo, in modo da non incontrare l’hendu, il vento malevolo, che cavalcato dai jinneeji potrebbe infilarsi sotto gli abiti, entrare nel ventre e scambiare il bambino9. Una donna dimba mi spiega che queste sono le ore dei jinneeji, bisogna rispettarle ed evitare di camminare all’esterno sulle strade, in città o nei villaggi. Dovrà evitare di uscire tra le sette e le otto di sera e durante la giornata non deve addormentarsi nella savana, il luogo selvaggio per eccellenza, dimora dei jinneeji.

Si dirà alla futura madre di non guardare una persona o un animale fuori dal comune, storpio, zoppo o malforme, anche in questo caso infatti il bambino potrebbe nascere con delle malformazioni. Alcune donne peul e mandinghe che ho incontrato mi hanno detto che non si può sapere cosa ci sia dietro quegli esseri strani, a volte possono esserci dei jinneeji, i quali possono prendere la forma e le sembianze umane, ma una delle caratteristiche che essi mantengono è quella di avere delle anomalie, come essere zoppi e claudicanti o emettere dei versi, rifuggire il fumo e certi odori o profumi. I jinneeji infatti, come bene illustra Tobie Nathan, sono invisibili agli esseri umani nella loro forma originaria, gli umani non possono che vederne o avvertirne le loro manifestazioni nel mondo visibile10.

Tuttavia se per la donna incinta questi sono i divieti conosciuti, quelli che le donne della famiglia conoscono per esperienza, questa stessa esperienza ha insegnato loro che ci sono altre pratiche, che hanno a che fare con l’interazione tra i mondi cui la donna partecipa, che richiedono l’intervento di coloro che sono gli esperti sanno come gestire le relazioni con l’invisibile e tra gli esseri che lo abitano, che ne comprendono e identificano i segni e le intenzioni: gli indovini e i terapeuti tradizionali.

9 Parlerò più dettagliatamente dell’hendu nel capitolo relativo alla concezione della malattia e delle eziologie

tradizionali. 10

Per un approfondimento sui jinneeji rimando al bellissimo capitolo “ I djinns” in Tobie Nathan, 2001, Nous ne

sommes pas seuls au monde, Les Empêcheurs de Penser en Rond, Parigi, pp. 187-221

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Questi confezioneranno per la donne i lekki, rimedi con cui lavarsi, i pibol, il cordoncino di fibra in cotone in cui sono recitate le incantazioni, che la donna porterà ai reni per proteggersi dalle insidie che potrebbero attaccare alla sua vita o a quella del bambino.

c. Il parto e i suoi personaggi

In Alta Casamanca tra le donne diola, peul e mandinghe il parto è un affare di donne, qualcosa

che riguarda esclusivamente il mondo femminile, qualcosa da cui gli uomini sono esclusi. Gli uomini restano a margine di tutto quello che accade nello spazio in cui il parto ha luogo.

In città al giorno d’oggi le donne partoriscono quasi tutte alla maternità, nei villaggi della savana invece, è ancora nelle case, assistite dalle levatrici, tradizionali che le donne mettono al mondo i bambini.

In Alta Casamance le levatrici tradizionali, daynooBe o besninooBe sono anche le donne che, come si dice a Kolda “detengono il coltello”, sono cioè coloro che detengono il sapere sulle pratiche femminili relative alla fecondità: escissione, fecondità e parti, ma anche aborti e sterilità.

Si tratta in genere di donne dal grande potere, che come dicono i Peul hanno la njaaju hoore, la testa larga, che serve loro per contenere il sapere, il ganndal, di cui con gli anni e le iniziazioni saranno depositarie.

Esse sanno come intervenire sul corpo femminile, conoscono i segreti del ventre questo antro sacro in cui l’invisibile si incarna. Conoscono i cefi, le formule e le incantazioni rituali per preparare il ventre a ricevere, ma anche per chiuderlo, per proteggere la donna ed il bambino dai pericoli invisibili, conoscono e possono celebrare i riti legati al parto. Sono queste donne che possono tagliare il cordone e trattare le sostanze che il corpo della donna e del neonato sprigionano nel momento del parto. Esse giungono nelle case delle partorienti da sole o accompagnate da un’allieva che osservando e assistendo apprende l’arte della sua maestra..

In Africa Occidentale in generale ed anche nel Fuladu le donne interpretano il parto come un momento di distacco tra la madre ed il bambino. Una delle operazioni preliminari che le donne eseguono consiste nello sciogliere tutti i nodi che la partoriente porta indosso. Aiutata dalle donne della famiglia che l’assistono ella comincia a disfare il nodo del pareo, poi le collane, i bracciali, le protezioni che aveva attorno ai reni, questi infatti potrebbero rendere difficile il distacco complicando la nascita del bambino.

La donna si prepara al parto lavandosi con i lekki, i medicamenti vegetali che i guaritori o le guaritrici a cui si era rivolta le hanno preparato. Essi hanno lo scopo di proteggere la donna e il suo corpo dagli stregoni antropofagi e dall’hendu il vento malevolo, ma anche dalle sorti, che potrebbe colpirla.

Giunto il momento di partorire la levatrice invita il bambino a venire nel nostro mondo, dicendogli che questo è pronto ad accoglierlo. Le sue mani esperte toccano il ventre delle madri e sentono la posizione del bambino che si preparava a venire al mondo. Contemporaneamente incita anche le donne a spingere. Il bambino, questo essere sconosciuto che per nove mesi ha abitato, monopolizzato il corpo, i giorni e le notti della madre è nato. Le mani della levatrice lo posano a terra, legano e massaggiano con forza il cordone in modo da evacuare le eventuali impurità, poi lo tagliano.

Il bambino viene poi preso, viene scosso in modo che offra al mondo il suo primo grido, che costituisce una tappa importante nella sua evoluzione. Il neonato deve emetterlo per significare che è ben arrivato, che è vivo e che è un umano, dunque un “essere di parola e non più un “pesce”silenzioso”11.

11

Ibrahima Camara, 2002, Le cadre rituel de l’éducation au Mali, p. 57

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Nel frattempo una delle donne comincia a lavare il bambino dentro una calabasse, questo è un gesto fondamentale, tra i primi che rientrano in quel processo di umanizzazione che spesso ho citato sopra. Egli nasce viscido, sporco di sangue, tutte tracce che egli ha portato con sé dal mondo altro da cui viene. Lavarlo dunque è cominciare a trattarlo e a trattare anche le sostanze che possono metterlo in pericolo, separare o in altri termini riordinare i mondi. Separare l’umano dall’invisibile.

Ma lavarlo è anche preparare il suo corpo a ricevere ciò che i riti successivi immetteranno in lui.

Lo si insapona con un sapone locale aromatizzato. Lo si risciacqua e si termina ungendolo di burro di karitè.

Dopo essere stato lavato il bambino avvolto in un drappo di tessuto è messo accanto alla madre.

La placenta o minyraawo, è considerata un doppio, un gemello, che accompagna il bambino nel ventre della madre e che, con la nascita, da lui si separa.

Essa viene seppellita, subisce quindi lo stesso trattamento che si da ai morti, anche se però questa continuerà ad essere in rapporto con la persona nel corso della sua vita. Lo spazio preciso in cui la placenta viene sepolta, resta segreto, solo la donna che l’ha seppellita e la madre del neonato sanno dove questa si trova.

Le donne che hanno assistito al parto restano legate da una sorta di patto sociale che in Peul, si dice aada letteralmente il costume. Questo patto le impegna, così come vuole il costume, a riconoscersi intorno alla condivisione di un’esperienza: quello che è successo durante il parto, dove le sostanze sono state depositate, resterà tra queste donne. Nessuno altro al di fuori di loro ne sarà messo al corrente.

Una volta nato il bambino e tagliato il cordone la levatrice annuncia al capo famiglia l’arrivo del bambino e viene pagata. Per lei, era giunto il momento di allontanarsi dalla casa della partoriente.

Col parto il bambino si stacca fisicamente dal corpo della madre, ma resterà ancora nel suo mondo, quello femminile per tutti i primi anni di vita. Col parto il bambino dunque entra nel mondo degli umani, ma come abbiamo visto egli non lo è ancora completamente. Il parto insomma sembra essere il momento che sancisce, tra gli umani, l’avvio del processo di umanizzazione del bambino.

d. Il parto nella migrazione e la seconda generazione12

Come abbiamo visto per le donne del villaggio, il parto avviene in un gruppo femminile, in

un’atmosfera totalmente femminile. La donna che partorisce é una matrice all’interno di un’altra matrice quella del gruppo femminile.

Nella migrazione invece ciò che succede è che la donna partorisce in mondi e modi nuovi, in un mondo di uomini ad esempio o, spesso prima del parto, le viene fatta un’ecografia che può rivelarsi un grosso trauma per molte donne africane. Questo perché l’ecografia è un atto che vede l’invisibile, che entra nel corpo e s-copre qualcosa che invece dovrebbe essere nascosto. Vedendo l’invisibile rivela questo mondo interno. In molte tradizioni africane, in quella magrebina e anche quella giudaica, la gravidanza va protetta e per proteggerla si tiene nascosta, non si rivela, non si dice. Quello che succede, nei mondi tradizionali, è che l’identità sessuale è rivelata per divinazione o attraverso i sogni, che possono essere del gruppo attorno, di uno zio, di una zia, di un parente, ciò che può essere rivelato non é solo il sesso ma anche il nome. Quindi la visita medica e l’ecografia non mostrano solo ciò che è nascosto, ma hanno l’effetto sulla donna di non

12

Per un approfondimento cfr. con Salmi Hamid, Nascere e crescere in Maghreb, in, 2012, Il lavoro etnoclinico,

formazione disposotovo di mediazione e mutilazioni genitali femminili, a cura di Gabriel Maria Sala e Susanna

Vetturelli, QuiEdit, Verona, pp. 97-112.

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permettere la metabolizzazione, che la donna e il gruppo intorno a lei hanno rispetto alla nascita che sta per avvenire.

Un secondo aspetto che si rivela traumatico per le donne è quello di partorire senza la presenza delle loro madri, e se per caso partoriscono con l'anestesia epidurale o il cesareo, le donne si chiedono se sono passate dal mondo dei morti al mondo dei vivi. Tutto questo ci fa capire come il parto nella migrazione possa diventare un trauma e la migrazione un’intrusione culturale incontrollata, qualcosa cioè che irrompe nella cultura di una persona traumatizzandola. Seguendo ciò che avviene vi darò un altro esempio, come ben sappiamo, migrando in Europa, le donne dopo il parto tornano a casa con il loro bebè e ad attenderle c’è solo il marito, senza che attorno a loro ci sia il gruppo di donne, la matrice femminile. A casa il bambino guarda la sua mamma ma lei pensa a sua madre che è lontana: quindi è una mamma che ha il suo sguardo altrove, che non guarda il suo bambino! C’è chi dice che non esiste un bebè senza sua madre, ma in Africa si dice che non esiste un bebè senza il gruppo della madre.

I bambini che nascono qui, nascono così in un mondo povero di senso, infatti la madre da sola non può costituire un legame di senso diretto sia con le sue origini, sia con il nuovo mondo, questa incapacità rende insensato il mondo in cui cresce il bambino.

Sto dando una visione piuttosto pessimistica di queste situazioni esclusivamente per delineare la cornice dentro cui intervengono dei dispositivi di presa in carico specifici, che permettono di aiutare le donne, ma anche i bambini nella migrazione. Vi darò un primo esempio di cosa intendo per essere portata da un gruppo di donne e di conseguenza per ipotesi di dispositivo preventivo in gravidanza.

Uno dei compiti delle donne cabile è quello di preparare il burro, nel farlo scuotono un recipiente, il taxcact, (vedi foto n.1), appeso con una corda ad una trave della casa e accompagnano questo gesto ad un canto molto dolce, il ssendu. Questi gesti sono compiuti dalle donne mentre hanno i loro bimbi piccoli tra le gambe o poggiati al loro corpo. Il movimento del corpo delle madri ed il canto che lo accompagna sono contemporaneamente un dondolio e una ninna nanna per il bimbo, così mentre la donna scuote il latte cagliato affinché si amalgami e diventi burro, anche il bimbo, cullato, si addormenta e scuote i suoi opposti interni per costruire il suo “burro interiore” inteso come armoniosa pienezza interna. Le donne da noi dicono: “questo bambino non è stato ben sbattuto, per questo è pieno di contraddizioni”. E per questo è importante che le donne migranti riapprendano a cantare, si riapproprino di questi momenti di gruppo che nella migrazione rischiano di andare perduti.

Ma cosa succede invece ai bambini? Per rispondere a questo interrogativo mi servirò di un

altro breve esempio. Immaginiamo che in un villaggio africano arrivi un italiano, che si chiama Roberto o Susanna…se dorme nella capanna dove abita una donna incinta molto probabilmente al bambino verrà dato il nome dell’ospite. Questo ci fa capire che l’attribuzione del nome non viene mai lasciata a quella che possiamo chiamare la fantasia dei genitori, ma è sempre in relazione con ciò che accade alla madre e/o al gruppo durante la gravidanza o il parto. Questa è una profonda differenza con il nostro mondo. Estremamente importanti sono poi i nomi che allontanano il male. Come viene allontanato il male? Ad esempio dando al neonato dei nomi stranieri, cioè di un gruppo estraneo al nostro, perché come ben sapete ogni gruppo ha il suo “altro da sé” : se diamo al bambino il nome che portano gli “altri da noi”, egli non sarà attaccato dalla negatività che vuole colpire il nostro gruppo, poiché questa non lo riconoscerà.

Tornando al nostro bambino, giunge poi per lui il momento della circoncisione, ma anche questa, in Europa, corre il rischio di diventare un semplice evento chirurgico, l’asportazione del prepuzio che nulla ha più a che fare con l’evento rituale. Ancora una volta così questi bambini si trovano di fronte ad un vuoto di senso.

Apro una breve parentesi per evidenziare come ciò che ho detto della nascita fino alla circoncisione costituisce una precisa filosofia della costruzione della persona che procede per metamorfosi, cioè per trasformazioni successive che vanno di fase in fase.

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Le società africane costruiscono la persona attraverso una serie di iniziazioni che si susseguono, attraverso cioè una successione di passaggi da uno statuto all'altro della persona, -passaggi che queste società ritualizzano completamente.

Metamorfizzare una persona significa trasformarla: ogni passaggio infatti prevede specifiche

delle esperienze, come ad esempio degli spaventi, delle richieste prive di senso, delle sofferenze fisiche, delle marcature del corpo, che, socialmente ritualizzati, trasformano la persona e il suo statuto. Il modello di queste iniziazioni è quello della nascita, cioè riprodurre il momento della nascita, di nascita in nascita. Al contrario di ciò che avviene nel mondo occidentale, in cui si costruisce la persona con un’idea pedagogica, riempiendola cioè di saperi e contenuti sempre più specifici e in maniera continuativa, le iniziazioni sono caratterizzate dall’espressione “la prima volta”.

Questa visione suggerisce anche a noi operatori, durante i colloqui con i pazienti migranti, di

far ruotare le nostre domande attorno al concetto di “la prima volta che”. Infatti la prima volta che accade un evento, avviene anche la sua ritualizzazione e, sempre nella prima volta si può ritrovare sia la memoria del soggetto che la memoria del gruppo che gli stava attorno.

Quindi, ad esempio, di un bambino si può chiedere direttamente ai genitori “com’è stata la circoncisione?” perché questo riattiva immediatamente anche la memoria del gruppo che con lui l’ha vissuta. Questo ricordo fa tornare la persona ed il gruppo al momento ritualizzato, le persone ne parlano rievocando e rientrando in quella condizione. Non solo, trattandosi di rituali, se qualcosa non è stato svolto in maniera disordinata c’è sempre la possibilità di prescrivere dei gesti, degli atti per riportare l’ordine, per ritornare dentro quell’evento ed ri-ordinarlo. Per farlo si deve ricorrere ad un guaritore che ha i poteri e gli strumenti per poter correggere ciò che non ha funzionato. La causalità e l’eziologia che il guaritore dà rispetto a certi eventi ha sempre a che fare con la ritualità stessa.

Il guaritore ad esempio potrà dire che qualcosa è accaduto alla nascita o durante la circoncisione, che una stregoneria ha colpito la persona in un dato momento o che un invisibile si è infiltrato durante la cerimonia, con queste affermazioni tornerà non solo con la memoria al momento rituale, ma anche con lo scopo di riportare ordine laddove il disordine si era creato. Bisogna ricordare che tanto più una società perde i propri riti tanto più perde le eziologie che i guaritori possono dare rispetto ai rituali stessi.

Vi racconto tutto ciò per comprendere come i riti abbiano da una parte a che fare con una teoria precisa della costruzione della persona, dall’altra con la sua presa in carico terapeutica. La rievocazione dei rituali che fabbricano una persona è estremamente attiva nelle consultazioni terapeutiche tradizionali e può diventarlo anche nelle nostre.

Se infatti, durante una seduta si chiede ad una donna magrebina com’era la relazione con il suo bambino quando lui era un neonato, ella fornirà pochi elementi, ma se le viene chiesto cos’era successo alla nascita o durante l’iniziazione di suo figlio, vedrete come moltissimi elementi emergeranno e le associazioni nel racconto si moltiplicheranno.

Dentro questa logica, in etnoclinica, usiamo dare delle prescrizioni anche molto concrete come

dei pellegrinaggi, delle carità, la fabbricazione di amuleti, delle azioni concrete da compiere per tornare col paziente alla dimensione rituale. L’obiettivo è di creare con questi utentiuna nuova dinamica nella relazione.

Dopo questa lunga parentesi sulla costruzione della persona e su alcune tecniche delle consultazioni etnocliniche, vorrei tornare ai bambini e ragazzi migranti di seconda generazione che nascono in Europa.

Ciò che si dice è che questi ragazzi vivano una scissione, una spaccatura tra il mondo delle

origini e il mondo di qua.

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Questa scissione/spaccatura riguarda concretamente la ripartizione di domande all’interno della persona.

Tutto ciò che ha a che fare con la cultura d’origine è lasciato dentro casa, come anche ciò che ha a che fare con l’inconscio culturale. Quando durante l'infanzia il bambino lascia la casa ed esce verso il mondo esterno si adatta molto bene alla realtà esteriore: durante tutto il periodo di latenza, il bambino circola tra una cultura e l’altra, oltrepassa la soglia interno/esterno della casa senza problemi, e lui stesso è permeabile alle culture, anche se l’acquisizione della cultura di accoglienza è superficiale, razionale e più formale.

Ed è proprio intorno a questa capacità di circolare che si creano dei malintesi quando poi si ha a che fare con questi stessi bambini che diventano adolescenti.

Mi spiego, circolando tra interno ed esterno il bambino fa sue delle leggi e principi fondanti la costruzione della persona, come “non rubare” o “rispetta il divieto di incesto”, che però egli associa alla casa, alla sola sfera domestica senza metterle in rapporto con l’esterno. E fa sue anche quelle che per l'esterno, per la scuola, per gli insegnanti sono le leggi, come ad esempio “é vietato fumare... entrare..calpestare le aiuole ecc..”, ma che egli introietta solo come semplici regole di un esterno formale, a cui più o meno ci si può adattare.

Quando i giovani entrano in adolescenza in loro si produce un contrasto, una sorta di guerra

tra i principi del paese d’origine e le regole del paese di accoglienza. Occorre precisare che, se questi conflitti emergono, per qualsiasi ragione, durante l’infanzia

attraverso dei segnali dati dal bambino, come ad esempio dei cambiamenti sul rendimento scolastico o sul piano fisico attraverso improvvise somatizzazioni. E se come operatori abbiamo la possibilità di organizzare delle consultazioni con la famiglia in questa fase, sarebbe un vero guadagno sia in termini di tempo che di difficoltà, in quanto, durante l'infanzia l'inconscio del bambino è ancora a cielo aperto, al di fuori facilmente raggiungibile.

- Esempio bambino del Mali. Possiamo chiederci ora cosa accada concretamente ai bambini migranti di seconda

generazione ? Se essi avvertono che dall’esterno possa arrivare una minaccia alla cultura d’origine possono

mettersi in una posizione di insuccesso scolastico per proteggere il loro interno dall’irruzione di un esterno che vivono come troppo invadente. Una presa in carico terapeutica mirata ed efficace può ridargli in poco tempo una vita scolastica gratificante. Ciò che invece solitamente succede è che il bambino viene inviato da uno psicologo, viene preso in carico individualmente, ed anche il percorso psicologico contribuisce a rinforzare la minaccia cui il bambino si sente sottoposto. Non solo, per i figli dei migranti fare una terapia individuale è doppiamente spietato: nel senso che questa maniera di procedere oltre a mettere il bambino in uno statuto di accusato sia ai suoi occhi che a quelli della sua famiglia, lo costringe a prendere su di sé la propria storia di migrazione, quella dei genitori e tutto ciò che sta accadendo.

Quando invece questi bambini hanno solo bisogno, da una parte di sentirsi portati dal proprio gruppo, di riaffiliarsi al proprio gruppo di appartenenza, e dall’altra quello che all’interno delle consultazioni terapeutiche possa emergere ed essere posta la domanda “Di chi è? A chi appartiene questo bambino? Qual è la sua natura? Cosa ci rivela il suo nome?”.

Occorre davvero riflettere prima di prescrivere i colloqui individuali ai bambini migranti di

seconda generazione, le domande dietro ai sintomi che manifestano sono estremamente diverse da quelle dei bambini che non hanno un vissuto migratorio.

Se invece durante l’infanzia il bambino vive la spaccatura senza però dare segnali di disagio,

arriva all’adolescenza e qui entra nella fase che esige la fine del meccanismo di separazione, di scissione. In questa fase, che è un momento particolare della maturità affettiva e sessuale,

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l’adolescente ha bisogno di potersi affermare come “Io” e questo “Io” deve essere lo stesso dentro e anche fuori.

Con l’adolescenza egli chiede fortemente un processo di unificazione dell’Io. Ma questa richiesta di unificazione ha luogo nella migrazione, in quanto, come abbiamo visto,

nel paese d’origine il passaggio all’adolescenza avviene per iniziazione ma in Europa questo passaggio non è sostenuto da alcuna iniziazione.

Così ciò che spesso avviene nella migrazione ai ragazzi in questa fascia di età è che si diano a condotte a rischio auto-inizianti che sfuggono alla comprensione delle famiglie e degli operatori sociali. I giovani cercano così un modello di risposta nella propria cultura ad una domanda che nasce con la migrazione nel paese di accoglienza. Ma in Europa possono agire un’iniziazione solo in modo autonomo, cercando di metamorfizzarsi da soli.

Per condotte a rischio intendo ad esempio la creazione di bande, la violenza fatta in gruppo, l’utilizzo di sostanze stupefacenti per sentire un cambiamento interiore, la marcatura dei corpi per cambiarsi e modificarsi.

Anche se interviene la polizia, la ricerca per questi ragazzi è quella di passare ad un altro stadio, purtroppo però per alcuni di loro ad aspettarli c’è solo la prigione o peggio la morte per overdose.

Quando questi giovani finiscono in prigione, il muro della prigione è come se riuscisse a richiuderli, a ricompattarli, come se fossero fasciati un’altra volta. Alcuni di loro, durante il periodo in carcere, ritrovano la calma, ma occorre tener presente che questi giovani, la prigione l’avevano cercata, avevano fatto di tutto per essere presi! Dopo sei mesi-un anno escono, ma poco dopo non sopportano più d’essere fuori e tendono a tornare dentro, come se la prigione fosse l’unico focolare possibile.

Spesso questi giovani non sono capiti da nessuno, né dagli operatori sociali né dai giudici:

nessuno capisce cosa sta succedendo nelle teste e nei cuori di questi ragazzi! Non sono capiti dalle famiglie, che si chiedono solo “Ma cosa gli manca?!” ; non sono capiti

dagli assistenti sociali che si chiedono solo “come mai passano da un inserimento all’altro sempre destinati a fallire?”; non sono infine capiti neppure dagli insegnanti o dai giudici, che propongono loro solo delle “morali” che gli cadono addosso dall’alto senza peraltro toccarli.

Durante le sedute o i gruppi etnoclinici, insieme ricostruiamo chi sono, a quale gruppo appartengono, chi erano i loro antenati, cosa vuol dire il loro nome, si commuovono moltissimo ed alcuni di loro proseguono con colloqui individuali altri svaniscono nel nulla.

Bisogna essere consapevoli che questi giovani, non essendo mai stati ancorati sono degli esseri senza ancore, dei campioni di apparizione e di sparizione.

Tutto quello che ho configurato riguarda i giovani di seconda generazione, che, quando sono

presi in carico dalle istituzioni, è come se si trasformassero in fantasmi! Più i loro dossier si accumulano sulle scrivanie degli operatori sociali, più loro diventano presenze invisibili che aleggiano inafferrabili tra un’informazione e l’altra.

Attraverso il lavoro etnoclinico è possibile ridare loro non solo un’identità ed un’appartenenza ma anche la consistenza di una vita vissuta.

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LABORATORI

1. “Genitorialità interculturali e casi critici per un’analisi etnoclinica” condotto da Susanna

Vetturelli

Sintesi del lavoro di gruppo a partire dal documento All. 2

Parole chiave:

1. Lavoro di gruppo per trovare insieme 2. Conoscenza e ricerca delle diversità 3. Dialogo per capire e poi ricostruire

Temi emersi e commenti:

• Presentazione del metodo di lavoro dell’équipe etnoclinica • Figura del mediatore: importante per comprendere le diversità culturali e capire azioni o pensieri dell’altro; comprendere i modelli educativi delle diverse culture • Creare spazi di ascolto e di dialogo • Presentazione di un caso e ricerca di possibili motivazioni del comportamento del minore che in questo momento è scisso in due mondi • L’implicito culturale è molto forte (attenzione alla buona fede) • L’handicap dei figli è una diversità che può essere positiva e negativa a secondo del punto di vista • Non mettere i bambini nella condizione di dover scegliere due modelli di trasmissione di saperi

(referenti Luca e Paola)

2. “Vivere tra più culture: i ragazzi di seconda generazione G2” condotto da Elda Tugu Schema degli argomenti trattati durante il laboratorio

Presentazione dei 4 casi: 1. J. è una ragazza di seconda generazione di origine tunisina che frequenta la terza media.

Dopo le vacanze estive passate in Tunisia, decide di portare il velo, dopo essersi informata sul suo significato e sul perché di tale scelta personale senza nessuna influenza da parte dei suoi genitori. A scuola J. è derisa e presa in giro dai compagni e giudicata per questa scelta dal suo insegnante di italiano. J., turbata di questo fatto, racconta all’educatrice del centro di aggregazione che frequenta, questi episodi spiacevoli e ingiusti.

2. Ira è una ragazza di 14 anni di origine pakistana che una volta finita che una volta finita la terza media decide di proseguire con gli studi. Legata alle sue origini vive però le stesse problematiche dei suoi coetanei. Le piace studiare ed ottiene buoni risultati scolastici, ma ad un certo punto la sua famiglia decide di non mandarla più a scuola e di stare a casa a badare alla famiglia insieme alla mamma. Ira sembra contenta di questa decisione, accetta senza ribellarsi alla volontà della sua famiglia. Tagliata fuori dal mondo dei suoi coetanei vive dentro le mura domestiche, apparentemente senza nessun ripensamento.

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3. Emma è una bambina marocchina di 9 anni che frequenta la IV° elementare. A scuola presenta tante difficoltà sia a livello didattico che comportamentale. La sua situazione familiare si presenta difficile e complicata: i fratelli frequentano il giro della droga, la madre non parla italiano e il padre abbandona la famiglia e torna in Marocco dove riinizia una nuova vita con un’altra donna. Per alcuni mesi Emma non va a scuola ma insieme alla madre torna in Marocco alla ricerca del padre. La madre è distrutta dall’abbandono del marito che non vuole più sapere né di lei né dei suoi figli. Gli educatori e il servizio sociale sono a conoscenza dei fatti, in quanto la bambina frequenta un centro di aggregazione.

4. Beatrice è una ragazza di 16 anni di origine tunisina che frequenta un istituto professionale. E’ certificata e quindi seguita sia a scuola che a casa. Racconta spesso e volentieri all’educatore le sue vicende sentimentali, che vive di nascosto dai suoi genitori soprattutto dalla madre. La madre è iperprotettiva, diffidente, e sempre sulle difensive. Rigida e molto ansiosa, controlla di nascosto tutto ciò che fa la figlia. Beatrice deve sempre discutere e litigare con la madre per le uscite e l’orario di rientro pomeridiano. Quando ritarda, la madre la picchia appoggiata dal marito. Ad un certo punto Beatrice, senza dire niente a nessuno, neanche all’educatrice che la segue, decide di andare dai servizi sociali a denunciare i suoi genitori di essere allontanata. La madre accusa l’educatrice e l’assistente sociale di complotto, negando e minacciando i servizi.

Nota metodologica: per ogni caso proposto è stato chiesto di individuare, in riferimento alle figure coinvolte, le modalità operative di intervento dei seguenti interlocutori: educatore-minore, educatore-genitore, educatore-istituzioni (scuola, servizio sociale, comune), educatore-équipe e organizzazione di appartenenza, educatore-comunità territoriale.

Sintesi del lavoro di gruppo

Parole chiave:

1. Sensibilizzazione 2. Fiducia 3. Origine Temi emersi e commenti:

• Mediazione cultural richiede neutralità • Conoscere entrambe le culture (referenti Veronica e Alessandra)

3. “Diventare genitori nella migrazione” condotto da Flavia Favero Schema degli argomenti trattati durante il laboratorio "Se non entriamo in contatto diretto con le persone che vengono da altri paesi,

ma soprattutto non riflettiamo con molta attenzione intorno alle emozioni

che si attivano nei diversi momenti della vita dei singoli e delle famiglie,

non possiamo identificarci con le loro difficoltà e bisogni" Ida Finzi, “Donne e madri nella migrazione”, Ed. Unicopli

Obiettivo: proporre agli operatori elementi per meglio conoscere, comprendere e condividere il percorso esistenziale che trasforma uomini e donne in padri e madri nella migrazione.

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Metodologia: Attraverso la voce dei migranti, con l'ascolto di pagine di diario, canzoni, poesie e racconti autobiografici, verranno esplorate le risorse ed i rischi del diventare genitori in un nuovo paese. Le voci di padri e madri si alterneranno a quelle dei figli, nella ricostruzione di passaggi di vita emblematici. In particolare verranno focalizzati tre momenti di potenziale criticità: la nascita dei figli, l'entrata a scuola e l'adolescenza.

Si propone il metodo biografico, basato sul potenziale trasformativo delle storie di vita

Valorizzando le esperienze del gruppo, si individueranno delle indicazioni operative per il lavoro con le genitorialità interculturali.

"Ognuno di noi ha una storia del proprio vissuto, un racconto interiore, la cui continuità, il cui uso e' la nostra

vita. L'uomo ha bisogno di questo racconto interiore continuo, per conservare la sua identità, il suo se'" Oliver Sacks, “L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello”, Edizioni Adelphi. Sintesi del lavoro di gruppo

Parole chiave:

1. Curiosità 2. Comunicazione 3. Decentramento

(referenti Luciana e Andrea)

4. “Genitorialità interculturalità: nuovi progetti e servizi” condotto da Luca Agostinetto Sintesi del lavoro di gruppo

Parole chiave:

1. Genitorialità 360° 2. Adotta le lenti 3. Sperimentazione – il fare Temi emersi e commenti:

• Divisione in tre gruppi e creazione di una scheda progetto • Gr1: sostegno/confronto per mamme – cooperativ learning (attenzione all’autoregolazione) • Gr2: progetto all’interno del villaggio: valorizzazione della genitorialità (non solo sulla diversità) • Gr3: servizio di baby sitting in cambio di tempo a favore di altri genitori (una specie di banca del tempo)

(referenti Federica e Sandra)

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Sabato 19 ottobre

In ascolto della sapienza dei figli…

Intervengono Denise e Silvia, CasaFamiglia di Riva del Garda – Comunità Murialdo

Ciao Silvia,

eccoci qui! Lo avresti mai detto? Sono passati ormai nove anni da quando ci conosciamo, e chi

avrebbe mai pensato, allora, che ci saremmo trovate in questa situazione? Siamo qui, a raccontare le

nostra esperienza, sperando magari che le nostre parole muovano almeno un po’ chi ci ascolta,

sperando di riuscire a far passare un messaggio, sperando anche di rafforzarci un pochino, mostrandoci

per quello che siamo davanti ad altri.

Ricordo il primo giorno in cui ci siamo conosciute, e sorrido, perché allora eravamo ancora così

piccole, e così diverse. Ammetto di avere avuto un po’ di paura all’inizio, quando l’assistente sociale mi

ha detto che sarei dovuta andare a vivere in una famiglia lontana dalla mia, in un posto lontano dai

paesini di montagna dispersi a cui ero abituata. Avevo 10 anni, e non sapevo assolutamente nulla

dell’esistenza delle CaseFamiglia. Chi mai potevano essere queste persone che accoglievano estranei in

casa loro?! Cosa mai gli sarà saltato in mente, e soprattutto cosa ci avrei guadagnato io? La cosa che mi

spaventava di più era ciò che questa famigerata famiglia si sarebbe “aspettata” da me: avrebbero forse

preteso che io chiamassi i genitori mamma e papà? Avrei dovuto “dimenticare” la mia famiglia? Queste

erano le domande che mi frullavano in testa durante il viaggio verso Riva, a inizio settembre del 2004,

quando stavo venendo a conoscervi.

Devo ammettere che non appena sono scesa dalla macchina, tutti i dubbi e le perplessità che mi

avevano turbato fino a quel momento sono svanite in un attimo, mi sono sentita accolta e ben accetta, e

non “catalogata” come succedeva spesso nel mio paese d’origine, dove tutti conoscevano la mia storia e

tendevano sempre a trattarmi in modo diverso rispetto agli altri bambini. Ricordo benissimo quel

pomeriggio: mi avete fatto vedere tutta la casa, e in quella che sarebbe diventata la mai stanza avevate

già preparato le lettere del mio nome da appendere sulla porta. Poi abbiamo fatto merenda tutti assieme

e abbiamo giocato per il resto del tempo. Vedere così tanti bambini tutti sotto lo stesso tetto mi aveva

riempito di una gioia immensa! In effetti siamo sempre stati un bel numero, tra voi quattro figli-figli e

noi quasi-figli!

Di certo la nostra “convivenza forzata” (suona brutto, ma al momento è l’unico modo che mi

viene per descrivere questa cosa) non è sempre stata tutta rose e fiori, come per tutte le cose, nella vita.

Penso che, soprattutto all’inizio, ci siano state delle difficoltà a capire bene come rapportarci tra di noi:

un po’ perché io ho fatto sempre un po’ fatica a rapportarmi con le persone che ho intorno, un po’

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perché questo tipo di accoglienze vanno considerate anche dal punto di vista dei figli naturali, che si

ritrovano ad avere in casa queste persone un po’ “strane”. Ma in fondo succede così anche nelle

famiglie normali, no? È del tutto naturale andare più o meno d’accordo con un fratello o una sorella a

seconda del periodo, dell’umore e tutta un serie infinità di altri fattori!

E penso che il bello del nostro rapporto sia proprio questo: che nonostante tutto siamo riuscite

a costruire un legame che va oltre il legame di sangue, siamo riuscite a conoscerci a fidarci l’una

dell’altra, a rispettare i reciproci spazi e bisogni, siamo diventate sorelle. Durante i primi periodi che ho

passato a Riva mi riferivo a te, e agli altri in generale, come ai miei “fratelli” più per comodità, per non

dover spiegare sempre il perché non vivessi con la mia famiglia; ora quando dico che tu sei mia sorella,

lo dico perché lo penso davvero, lo dico perché viviamo assieme da tanto tempo, perché quando penso

a te mi dico che ti voglio bene, ma un bene diverso rispetto a quello che si prova nei confronti di

un’amica, forse più forte, forse semplicemente differente.

Mi ritengo molto fortunata per aver avuto l’opportunità di uscire dal mio contesto originario e

di vivere fuori famiglia. Tutto ciò mi ha permesso di conoscere meglio me stessa, e di avere a che fare

con alcune delle persone a cui tengo di più e che non potrò mia smettere di ringraziare per quello che

hanno fatto e continuano a fare per me, sotto svariati punti di vista. E tra queste persone ci sei anche

tu!

Grazie Silvia, perché so che potrò sempre contare su di te, perché mi sei sempre stata vicina,

perché mi hai permesso di entrare a far parte della tua vita, e insieme abbiamo costruito questo

rapporto meraviglioso!

Ti voglio bene, Denise

Ciao Denise, ricordo come fosse ieri il giorno in cui sei arrivata. Ricordo che ero in camera ad

ascoltare la musica cercando il modo di calmare l’agitazione; ho sempre provato grande agitazione ogni

volta che stava per arrivare qualcuno di nuovo, ma questa volta era diverso: ”Finalmente, dopo aver

passato dieci anni fra tanti fratelli, avrò una sorella, e pure più grande!”, pensavo. Ammetto che

l’agitazione oltre a farmi pensare questo mi portava a dubitare un po’ sul tuto arrivo perché ero sempre

stata abituata ad essere l’unica femminuccia in casa; per questo il giorno che sei arrivata e i giorni dopo

ero un po’ sulle mie e titubante. Sappi che però dentro ero la bambina più felice del mondo: finalmente

avevo qualcuno con cui giocare e con cui parlare e scherzare come si fa solo tra ragazzine.

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Ricordo mai mamma che mi spronava a inserirti nelle mie amicizie per farti sentire a tuo agio e

io che, ingenuamente, pensavo che fosse ingiusto. Ma col tempo questo “mio compito” mi faceva

sentire orgogliosa e in qualche modo, utile.

Mi scappa un sorriso ogni volta che ripenso a tutte quelle giornate passate a giocare con le

barbie, a farle salire sull’aeroplano, sul camper e a cacciare via i fratellini quando entravano a romperci.

Finalmente avevo trovato qualcuno che mi capiva. Il periodo delle medie lo ricordo come il più buio

nella nostra conoscenza e amicizia: a causa di discussioni e miei comportamenti sbagliati nei tuoi

confronti ci siamo un po’ allontanate, ognuno aveva le proprie amicizie, i propri obiettivi e soprattutto,

i propri segreti. Segreti troppo profondi e intimi che non era ancora giusto svelare all’altra, nessuna

delle due si sentiva pronta e credeva di non poter dare fiducia all’altra. Eravamo piccole, pensavamo

che solo un miro ben costruito potesse difenderci. Poi però col passare degli anni, con l’arrivo delle

superiori, ci siamo armate di martelli belli grossi e, un pezzo alla volta, abbiamo iniziato ad abbattere

quei muri che ci dividevano.

Partendo dai mattoni più alti, abbiamo iniziato a scherzare e uscire insieme, poi a raccontarci

delle nostre avventure, delle nostre amicizie e dei nostri sogni. Si organizzavano molte cose insieme,

non c’era un attimo di noia con te. I muri sono iniziati a cedere molto presto e a cadere velocemente,

ma rimanevano ancora quei mattoni alla base, quelle fondamenta a cui volevamo ed eravamo abituate a

rimanere legate saldamente.

Poi però è arrivato un periodo in cui sentivo che non riuscivo più a tenermi tutto dentro, tra

scuola e litigi adolescenziali in famiglia, non ne potevo davvero più. Così mi sono aperta per la prima

volta, fino in fondo, con te e da quel momento tutto è cambiato. Da quel momento ho capito che

davanti a me avevo una sorella da cui potevo e dovevo prendere esempio, una sorella con cui poter

condividere tutto, una sorella su cui poter contare sempre.

Adesso che sei in una città lontana per via dell’università, mi sento un po’ vuota; entro in

camera e vedo tutti i gironi quel letto vuoto con tutte le tue cose e intorno solo il silenzio. Adesso

riderai, ma qualche volta ancora mi capita di entrare e pensare di trovarti e poterti fare qualche bello

spavento o scherzetto.

Mi dispiace sempre non poterti vedere per lunghe settimane ma mi tranquillizza la certezza che

questa lontananza non ci porterà mai a una divisione. Anzi, le lontananze ci hanno sempre solo aiutato

a legare. L’esempio concreto è l’anno che hai passato in America: all’inizio pensavo di non potercela

fare, ma alla fine il tempo è volato e il cuore mi scoppiava in petto quando ti ho vista in aeroporto al

tuo ritorno. Finalmente potevo riabbracciare la mia sorellona… e da quel momento chi ci ha più

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fermate? Come quando eravamo piccole, con te non c’è mai un attimo di noi, ogni giorno è una nuova

scoperta e avventura. Dopo otto/nove anni passati assieme posso dire con certezza che: sono

orgogliosa e fiera di avere una sorella come te.

Ti voglio bene con tutta me stessa e sarò sempre pronta ad aiutarti a braccia aperte.

Silvia.

“Genitorialità in ascolto dei figli”

Intervento dott.ssa Vanna Puviani (All. 1)

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LABORATORI

1. “Quando la coppia ascolta i figli nasce la bellezza” condotta da Vanna Puviani Sintesi del lavoro di gruppo a partire dai contenuti dell’allegato 1

Parole chiave:

1. Empatia 2. Autoriconoscimento – incontrare se stessi 3. emozione Temi emersi e commenti:

Elaborare su di noi i difetti che vedo nelle relazioni con gli altri. Il disegno diventa un “terzo polo” in cui è possibile facilitare la relazione tra due persone. L’obiettivo è incontrarsi, “abbandonarsi a…”.

La mancanza fa capire il desiderio di… I momenti bui sono i più fertili in cui emergono i nostri desideri. Ascolto del bambino

sapiente. Diffidare da chi interpreta. Fare domande e non dare risposte! Il nostro lavoro dev’essere poetico, alla ricerca della bellezza.

(referenti Francesca e Alessandra)

2. “Ascoltare i figli attraverso il di-segno” condotto da Marzia Saglietti

Sintesi del lavoro di gruppo

Parole chiave

1. Di-segno analogico 2. Piedi 3. Polarità emotive

Temi emersi e commenti:

Codice analogico, codice digitale; spiegazione, differenze, prove pratiche per ri-conoscerli ricollegando cuore e mani;

Conoscere ed accettare l’ombra per vedere la luce: gioia/tristezza, fiducia/preoccupazione, paura/coraggio, rabbia/quiete;

Prove pratiche.

3. “Adulti genitori alla scoperta delle bellezze dei figli” condotto da Serena Olivieri

Schema degli argomenti trattati durante il laboratorio

Da dove nasce la sapienza? Ci vuole rispetto e curiosità della sapienza dei figli! Con i laboratori andiamo a visitare la bambina/il bambino che c’è in noi, attraverso delle esperienze e delle conversazioni simboliche. Obiettivo principale: anche se il genitore non “sente”… ci pensa il figlio (che è stato)

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La bellezza è la cura: se scopro la cura, se riesco a prendermi cura di me, riesco a scoprire le bellezze nei figli (ma anche nei ragazzi che accompagniamo quotidianamente) Oggi esploriamo questo input attraverso l’esperienza del disegno del fiume, un fiume che nasce, scorre e sfocia: 1. disegno del fiume che nasce, scorre e sfocia (su 3 fogli) 2. il fiume racconta: io ero, io sono, io sarò 3. scelta e disegno del simbolo, primo foglio: la cura che ho ricevuto 4. scelta e disegno del simbolo, secondo foglio: la cura che dono 5. scelta e disegno del simbolo, terzo foglio: la mia cura, per me 6. scrittura (divido il foglio in tre parti): - io, mi sono sentita curata quando … chi si è preso cura di me? - chi curo io? Qual è la cura che dono agli altri? - Qual è la cura per me? Che mi fa più felice? La mia coccola ritmica … 7. Rimandi del gruppo: com’è andata? Cosa avete scoperto di nuovo? Cosa avete ri-visto con occhi diversi? Quale sapienza ho scoperto del mio (esser) “bambino”? Cosa porto a casa? 8. Ripercorriamo il processo: ogni parte ha un senso e ogni fase racchiude un piccolo esercizio per aver cura di me o per essere ostetriche della cura (arte della maieutica): es. qual è la mia coccola preferita? Se la nomino, se me ne ricordo, se la scopro … è già una cura! Il fiume, metafora simbolica della nostra vita: ho carta bianca su cui disegnarlo. Ho la possibilità di contattare la cura dell’acqua, ricontattare il beneficio che dona. Posso scegliere: la scelta come potatura, perché rifiorisca meglio. La conversazione simbolica, che è un metodo giocoso di contattare le emozioni, mai diretto, e la scrittura autobiografica, che rappresenta un mezzo e un metodo per la valorizzazione di se stessi, per lo sviluppo delle capacità cognitive e delle diverse forme del pensiero, per la creazione di una sensibilità volta a leggere le testimonianze degli altri e ad ascoltarle per poi riscriverne la storia. 9. Ci salutiamo con unico, bello e speciale: guardando il vostro fiume, scegliete tre parole con cui descriverlo…; è unico perché…; è bello perchè…; è speciale perché. 10. IO, Serena, sono unica perché …, bella perché …, speciale perché … Variabili: - zoom su una parte, a scelta, del fiume, cerchiare un particolare e ingrandirlo. Cos’ha di unico, bello e speciale? - cerchiare da chi sono stato curato e con cosa. Ringraziare chi e per cosa. Sintesi del lavoro di gruppo

Parole chiave:

1. Foglio e colori 2. Simbolo 3. Autocura Temi emersi e commenti:

• Simbolo trattato: fiume • La bellezza del simbolo che rispecchia il momento in cui lo si esprime. • Simboli prepotenti: che anticipano il pensiero, la consapevolezza

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• Importanza della narrazione per andare più in profondità e prendere maggiore consapevolezza di ciò che il simbolo rappresenta per la persona

(referenti Anita e Chiara)

4. “Terra, acqua, aria e fuoco nell’ascolto dei figli” condotto da Flavia Favero Schema degli argomenti trattati durante il laboratorio

Il laboratorio vuole essere un viaggio creativo che parte dal caos e attraversa i simboli di terra, acqua, aria, fuoco come scoperta delle qualità, delle risorse, delle bellezze ancora non viste nei figli, nei genitori ed anche in noi stessi. Infatti, il laboratorio propone un lavoro su se stessi per diventare più sensibili e trasformativi nel rapporto con le diverse genitorialità. Attraverso il di-segno si potranno conoscere i propri simboli e scoprire altri, quelli di bambini e adulti, per trasformarli in racconti e quindi in saperi. Dal punto di vista metodologico, ogni simbolo verrà esplorato attraverso delle esercitazioni con i colori che punteranno a risvegliare le proprie parti creative. La creatività apre infatti a nuovi spazi di incontro e a nuovi stimoli per il dialogo La condivisione in gruppo costituirà una ulteriore possibilità di ricchezza nel confronto e nel riconoscimento reciproco Di-segnare, vedere, guardare, ascoltare, scoprire sono le parole chiave che guideranno il gruppo verso nuove consapevolezze, conoscenze, bellezze nel rapporto da persona a persona ed in particolare fra genitori e figli Sintesi del lavoro di gruppo

Parole chiave:

1. Trasformazione 2. Cura 3. Radicamento Temi emersi e commenti:

• Riavvicinarsi a se stessi • I simboli ci aiutano a capire e a capirci • Sono stato creatore di… • Importanza di prendersi cura di sé e degli altri • Ci vuole tempo per far entrare dentro di sé la bellezza

(referenti Veronica e Alessandra)

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Elenco delle “parole chiave” emerse dai 12 laboratori delle tre giornate

Verso una “grammatica” condivisa

nel LAVORO con le GENITORIALITA’ a partire SAPIENZA dei FIGLI

Inconsapevolezza

Opportunità

Dipendenza / isolamento

Ascolto dei genitori

Connubio inscindibile tra l’aspetto economico e socio-educativo

Rete

Libertà autogestita / relazioni /gruppo

La famiglia

Il figlio come bene pubblico

Liberare il desiderio

Ricerca comune

“Sconfinamenti”

***

Lavoro di gruppo per trovare insieme

Conoscenza e ricerca delle diversità

Dialogo per capire e poi ricostruire

Sensibilizzazione

Fiducia

Origine

Curiosità

Comunicazione

Decentramento

Genitorialità 360°

Adotta le lenti

Sperimentazione – il fare

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***

Empatia

Autoriconoscimento – incontrare se stessi

Emozione

Foglio e colori

Simbolo

Autocura

Trasformazione

Cura

Radicamento

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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Serbati S., Milani P (2013). Nuovi approcci per la tutela dei bambini. Roma: Carocci (uscita a

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Ius M., Milani P. (2011). Educazione, pentolini e resilienza. Pensieri e pratiche per co-educare

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I. Lizzola, Aver cura della vita, Città Aperta 2006

Malaguti E.; Educarsi alla resilienza; centro studi Erickson; 2005

39

Miller A. (1989) " Il bambino inascoltato", Boringhieri editore 1989

Miller A., Riprendersi la vita, Bollati Boringhieri, 2009

Mortari L., La ricerca per i bambini, Mondadori 2009

Oliverio Ferraris A., Prova con una storia, Rizzoli 2005

Pellai A., Un bambino è come un re. Come mamme e papà possono crescere bambini sicuri e prevenire gli abusi sessuali sui minori, Franco Angeli

Putton, A., Fortugno, M. Che cos’è la resilienza e come svilupparla. Carocci 2006

Short D. e Casula C. Consuelo; Speranza e resilienza, Franco Angeli 2009

Stern D., Il mondo interpersonale del bambino Bollati Boringhieri , Torino 1990

Varano M., Guarire con le fiabe, Meltemi 2004

Walsh F., La resilienza familiare,Raffaello Cortina 2008

Zulueta F. de, Dal dolore alla violenza, Cortina, Milano, 1999

Ringraziamenti

Karl A. Menninger scriveva: “Tutto ciò che si dà ai bambini, i bambini lo daranno alla società”.

I nostri calorosi ringraziamenti vanno a tutti coloro che hanno partecipato attivamente e che han

permesso che queste bellissime giornate si potessero realizzare: dai giovani/figli e figlie che han

partecipato portando la loro testimonianza alla PAT che ha messo a disposizione la struttura e ha

riconosciuto la qualità della proposta; dai relatori dell’Agenzia per la Famiglia ai conduttori dei 12

laboratori; dalle relatrici dal sapore interculturale e “colorato” ai tanti educatori che si sono seduti in

sapiente ascolto alla ricerca della bellezza della vita. Ed infine lo sguardo principale da cui tutto è partito

e a cui tutto ritorna è la difesa e la tutela di tutti quei minori che stanno lottando per avere una vita

dignitosa, bella e libera.

Grazie.

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Allegato 1 - Presentazione progetto “I care 4 parents!”

Il percorso/progetto “I care for parents!”, avviato nel mese di giugno 2012 su proposta dello staff dei responsabili della Comunità Murialdo del Trentino Alto Adige, viene curato e monitorato da un’équipe trasversale ai territori e aree/educative, chiamata Area Genitorialità. Il periodo di chiusura del percorso è previsto per il 2014.

Il lavoro con la genitorialità è inteso in tre dimensioni:

- informazione, sensibilizzazione, formazione alla genitorialità; - sostegno educativo, relazionale, psicologico, con particolare attenzione alla genitorialià in

disagio; - promozione della genitorialità diffusa nella comunità.

Obiettivi del progetto

- avviare un percorso autoriflessivo sulle proprie pratiche in relazione alla genitorialità, attraverso la sistematizzazione delle esperienze in atto;

- rinforzare le competenze degli operatori rispetto alla genitorialità attraverso nuove conoscenze ed approfondimenti, da collocare in una riflessione operativa;

- la strumentazione educativa (PEI) valutando come integrare la dimensione del sostegno alla genitorialità;

- condividere le sperimentazioni che verranno avviate.

Metodologia di lavoro

Si tratta di un percorso in cui la dimensione della formazione e della ricerca vanno ad intrecciarsi per favorire processi di approfondimento

Valutazione

Il processo di valutazione, intrinseco e trasversale al percorso si articola attraverso tre somministrazioni del questionario in tre fasi temporali progressive nel corso del 2013 – 2014, fornendo così una valutazione iniziale, di messo e finale, al fine di:

dare possibilità di autovalutazione ad ogni équipe: se e come si sono modificate le pratiche educative durante il percorso;

raccogliere il flusso del cambiamento: se e come è avvenuto;

dare possibilità di valutare il lavoro/operato dell’équipe genitorialità.

Domande del questionario somministrato

1) Che cosa significa per la nostra équipe lavorare con i genitori? 2) Quali sono le azioni attuate dalla nostra équipe per il lavoro con i genitori? 3) Quali sono i punti di forza e di debolezza delle nostre azioni? 4) Come la nostra équipe potrebbe promuovere una genitorialità più competente e diffusa?

Proponendo iniziative di informazione, sensibilizzazione, formazione?

Proponendo progetti di sostegno educativo o relazionale o psicologico?

Proponendo azioni per lo sviluppo di una genitorialità diffusa nelle comunità?

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Proponendo… 5) Quali potrebbero essere i possibili sviluppi progettuali rispetto alla genitorialità per la Comunità

Murialdo? 6) Da parte dei genitori ci sono richieste, proposte, esigenze? 7) In base alla riflessione odierna, quali bisogni formativi rispetto alla genitorialità emergono

dall’équipe? 8) Ad oggi, quanto tempo riusciamo a dedicare concretamente al lavoro con i genitori? 9) Ad oggi, quanto è prioritario per la nostra équipe lavorare con i genitori?

a. Proposte di informazione, sensibilizzazione, formazione b. Progetti di sostegno educativo o relazione o psicologico c. Azioni per lo sviluppo di una genitorialità diffusa nelle comunità d. Proponendo…

10) Come valutate il percorso proposto? a. Chiarezza di presentazione della proposta b. Metodologia utilizzata c. Suggerimenti, riflessioni, dubbi…