InArte febbraio 2010

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Poste italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - 70% CNS PZ idee arte eventi € 1,50 Rivista mensile a diffusione nazionale - anno VI - num. 02 - Febbraio 2010 Associazione di Ricerca Culturale e Artistica Alle sorgenti dell'arte etrusca Adolfo Wildt Abu Dhabi, un'altra Bilbao?

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Rivista mensile a diffusione nazionale

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Poste italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - 70% CNS PZ

idee arte eventi€ 1,50 Rivista mensile a diffusione nazionale - anno VI - num. 02 - Febbraio 2010

Associazione di Ricerca Culturale

e Artistica

Alle sorgenti dell'arte etrusca

Adolfo Wildt

Abu Dhabi, un'altra Bilbao?

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EditorialeUna mela è una mela?di Angelo Telesca ........................................................ pag. 4

CromieRocco Smaldone: immagini tra sogno e realtàdi Francesco Mastrorizzi e Clelia Cannata ................... pag. 12-13Messico: il Muralismo espressione di un popolodi Amelia Monaco ......................................................... pag. 14-15Maria Fuccillo: raccontarsi esplorandodi Giovanna Russillo ..................................................... pag. 16-17Il Medioevo e la Donna Sacradi Sonia Gammone ....................................................... pag. 18-19

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Redazione SommarioAssociazione di Ricerca Cultura-le e ArtisticaC.da Montocchino 10/b85100 - PotenzaTel e Fax 0971 449629

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Direttore responsabileMario Latronico

ImpaginazioneBasileus soc. coop. – www.basileus.it

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Concessionaria per la pubblicitàAssociazione A.R.C.A.C/da Montocchino, 10/b 85100 PotenzaTel e fax 0971-449629e-mail: [email protected] [email protected]

Autorizzazione Tribunale di PotenzaN° 337 del 5 ottobre 2005

Chiuso per la stampa: 10 febbraio 2010

In copertina:Carlo Franchi, Aggregazioni, olio su seta, cm. 80x60.

La redazione non è responsabile delle opinioniliberamente espresse dagli autori, né di quantoriportato negli inserti pubblicitari.

PersistenzeIl fascino segreto di Albano di Lucaniadi Franco Torraca ......................................................... pag. 5Alle sorgenti dell’arte etruscadi Gianmatteo Funicelli ................................................. pag. 6-7Antichi signori di Ruvo del Montedi Michele Scalici .......................................................... pag. 8-9Dimore signorili a Clarus Monsdi Giuseppe Nolé .......................................................... pag. 10-11

EventiGiorgione e la pittura venetadi Piero Viotto ............................................................... pag. 20-21

FormeLe maschere di marmo di Adolfo Wildtdi Fiorella Fiore ............................................................. pag. 22-23Un viaggio nella scultura dell'Italia del Suddi Gerardo Pecci ........................................................... pag. 24-25

MythosOrfeo ed Euridicedi Fabrizio Corselli ........................................................ pag. 28-29

Art Toura cura di Angela Delle Donne ....................................... pag. 30

ArchitettandoAbu Dhabi, un'altra Bilbao?di Mario Restaino.......................................................... pag. 26-27

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Una mela è una mela?

di Angelo Telesca

Cari lettori,alcuni anni fa è stato pubblicato un volume di Giandomenico Semeraro dal provocato-rio titolo Una mela è una mela? nel quale l’autore esprimeva una serie di consi-derazioni sul variegato mondo dell’arte contemporanea. A partire dal titolo di questo libro, pro-viamo anche noi a fare delle nostre considerazioni a riguardo.È evidente a tutti che una mela, in qualsiasi contesto la si collochi, è una mela.Eppure il contesto determina il signi-ficato: la mela letta nello spazio e nel tempo cambia il suo senso, ma la mela in se rimane una mela, quantomeno lin-guisticamente. L'interpretazione deve sempre tenerne conto. Applichiamo questi semplici concetti ad una serie di atteggiamenti comuni, soprattutto nell’ar-te: un universo nel quale gravitano artisti, critici ed esperti, riviste, siti e blog. Un vero e proprio mondo nel mondo. In questo sub-mondo è possibile notare come, purtroppo, le interpretazioni vadano spesso ben oltre il loro og-getto e come siano in pochi ad accorgersi di questi abusi interpretativi, che condizionano non poco l’affermarsi o meno di realtà artistiche. Una prassi che molte volte allontana la gente dall’arte e la rende “cosa per pochi”.Anche per questo speriamo, con il numero di In Arte Multiversi che avete tra le mani, di riuscire a comunicare l’arte a tutti coloro che sem-plicemente la amano e la vivono, al di là delle interpretazioni.

Buona lettura!!!

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Persistenze

Il fascino segreto diAlbano di Lucania

di Franco Torraca

Quando si percorre la S.S. Basentana, non si può non scorgerlo mentre sovrasta dalla sua naturale posizio-ne privilegiata, il territorio circostante e le sue valli, e sembra quasi voler fronteggiare le vicine Dolomiti Lucane, splendido scenario naturale della regione.Le sue origini si perdono nel tempo: non esistono documenti storici scritti che ne testimonino la nasci-ta. Anche nei vari testi che affrontano la storia lucana non ci sono notizie precise sul piccolo comune che viene menzionato poco e vagamente.La denominazione del paese, che si presta a diverse interpretazioni, sembra risalire al nome del suo fon-datore di origine greco-albanese, ma potrebbe anche derivare dalla radice indoeuropea alb cioè monte. Ad ogni modo, l’etimologia del nome stesso di Albano di Lucania, sembra confermare le sue antiche origini. Del periodo medievale abbiamo la Chiesa Parroc-chiale, che si trova nella parte più alta del paese, de-dicata dal Duecento al Seicento alla Madonna della Neve, ed ora dedicata a Maria SS. Assunta. Di stile romanico a ponente, sembra essere stata costruita su una preesistente chiesa paleocristiana; di fronte all’altare principale si trovava il portone d’ingresso, chiuso nel 1924. Ad oggi l’ingresso dei fedeli è sul-la fiancata destra con un portale in stile neoclassico sorretto da quattro colonne. L’imponente campanile è del XVIII secolo. L’interno è a tre navate che pog-giano su possenti pilastri, con volta lignea, a capria-

ta. Lo stile barocco caratterizza l’altare in marmo in-tarsiato con angeli alati del XVIII sec.; notevoli sono anche un organo in legno intagliato e decorato del 1700 e una croce processionale del ‘600.Di pregevole fattura sono anche i dipinti del XVI e del XVII sec., tra i quali una tela raffigurante la Ma-donna della Neve che con tutta probabilità appar-tiene alla scuola di Raffaello Sanzio, che racconta il miracolo della neve caduta ad agosto sul luogo dell’edificazione della Chiesa di S. Maria Maggiore all’Esquilino a Roma, e una Crocifissione del 1500 di scuola napoletana. Il paese è un intrico di vicoli e stradine, che spesso si aprono in piccole piazze. Nel centro storico si notano il Palazzo Ducale e splendidi portali in pietra viva, realizzati da maestri scalpellini locali, che caratterizzano soprattutto le abitazioni più antiche. Albano racchiude nel suo caratteristico bor-go storico un luogo speciale che apre una sorta di porta magica verso altri tempi. Si tratta del “Museo del giocattolo povero e del gioco di strada” frutto di un progetto, nato nel 2004 e curato dall’Associazio-ne A.R.C.A. Giò (Attività di Recupero Costruzione e Animazione di giochi e giocattoli della tradizione popolare), con l’intento di recuperare e valorizzare il patrimonio ludico tradizionale ed approfondire quel rapporto speciale che esiste tra gioco e storia dell’ar-te con particolare attenzione all’aspetto ludico delle arti figurative.

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per poi consolidare un tragitto artistico tra i più significativi della storia. Gli studi winckelmanniani, hanno però in passato negato all’arte etrusca una qualsiasi dignità artistica, mentre la critica gli additò il ruolo di manifestazione provinciale dell’arte greca. Solo nel XX secolo la civiltà venne analizzata sino al punto che le sporadiche ricerche sulla storia di questi uomini divennero ben presto una scienza erudita per l’archeologia europea. Verso il X secolo

Tra l’area del Lazio settentrionale e il Sud della Toscana, in un percorso iniziatico che prende piede tra la fine del Bronzo finale (XI-X a.C.) e la prima Età del Ferro (IX-VIII a.C.) si diffonde la plurisecolare civiltà dei principes, gli Etruschi. Questo ampio sviluppo evolutivo, sicuramente un patrimonio originario, si articola in un vasto linguaggio storico-artistico costituito da ambizioni del potere, angosce, intrighi, palazzi aristocratici e singolari riti funerari,

Chiusi, Museo archeologico, Sfinge etrusca, VI sec. a.C.

Chiusi, Museo archeologico, Cantaro gianiforme, IV sec. a.C.

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crestati, frutto delle abilità metallurgiche dei mastri bronzisti, ed oggetti di guerra che accompagnano il defunto, nella lastra in pietra, quasi a simboleggiare nell’eternità lo status del guerriero vincitore. Accanto a questi piccoli elementi gli artigiani etruschi superano le sorprendenti capacità tecniche nella realizzazione di elementi personali come oggettistica domestica

o carrelli cerimoniali in bronzo, su cui la timida scultura a tutto tondo si anima di scene

quotidiane o di enigmatiche allegorie. Una realtà in continua evoluzione, che vedrà in seguito risvolti e nuove forme espressive negli status symbol orientalizzanti (metà VIII-VII sec. a.C.), in cui l’autoaffermazione

delle classi aristocratiche affonderà i propri desideri nell’oro e l’argento.

a.C., mentre la Grecia mediterranea riporta nuove conquiste culturali, l’Etruria, priva di proprie radici, assimila fortemente i caratteri della grecità arcaica che si spinge, sul suolo italico, sino alle strette competenze di questa nuova società. In un vasto ed intricato quadro di reminiscenze preistoriche, tradizioni di gusto locale e nuovi slanci, la popolazione etrusca si arricchisce di un sostrato socio-culturale che non è il suo: è l’inizio di un mondo nuovo per un popolo nuovo. I primi atteggiamenti di adesione si ricercano proprio nelle produzioni artistiche locali. Una società dal mero carattere religioso, costituita da ovvie necessità sacrali e funerarie, ma sicuramente non priva di affermazioni sfarzose, attinge dai vicini greci pratiche ed usi comuni su cui poter elaborare i propri sentimenti artistici. Oltre le complicate ipotesi sull’origine della popolazione, dispute discordanti tra provenienza asiatica o per altri di origine autoctona, i primi segni di questa cultura vanno sotto il nome di “villanoviani”: il fortuito scoprimento dei sepolcreti nel centro di Villanova (Bologna), riporta alla storia del tempo (1853) un’ingente quantità di tombe a pozzo con ulteriori corredi funerari. I primi elementi intrinsechi dell’arte in esame sono le urne cinerarie, dove la prassi cerimoniale vi esigeva la conservazione dei resti del defunto (bambino e/o adulto) dopo la cremazione. Queste, denominate “urne biconiche” – formate da un vaso fittile chiuso sull’orlo da un coperchio che spesso era una ciotola rovesciata o un elmo bronzeo – si presentano come elementi non del tutto formati. L’ornato graffita che compare sulle pareti dei vasi, difatti, risulta l’unico modulo decorativo che ricorre in questa fase (IX-VIII sec. a.C.); in un ritmo ben costante di fasce concentriche campeggiano sulla ceramica elementi geometrici incisi alternati a nervose puntellature. Di eguale interesse risultano gli affascinanti elmi

Alle sorgentidell’arte etruscadi Gianmatteo Funicelli

Chiusi, Museo archeologico, Urna cineraria biconica, VIII sec. a.C.

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Persistenze

la testa leggermente inclinata di tre quarti e le gambe “iperflesse” verso il bacino. Il lato lungo il quale i corpi erano rivolti sembra essere caratterizzante del sesso degli individui: i maschi sul fianco destro, le femmine su quello sinistro. Il corre-do (composto da vasellame, armi e og-

getti d’uso personale in osso o metallo) era deposto lungo uno dei

lati lunghi, generalmente in corrispondenza della parte ver-

so la quale era girato il volto del defunto, e sul lato corto in prossimità dei piedi. I vasi

erano disposti secondo un pre-ciso criterio: quelli di maggiori dimensioni,

come le olle, con all’interno piccoli attingitoi, occupavano l’angolo della fossa più distante

dalla testa; gli oggetti più preziosi erano stipati in fondo, spesso uno sull’altro, sotto le gambe ripiegate del defunto. Le armi sembra fossero riposte e non indossate, ad eccezione del cin-

turone. La disposizione delle tombe sembra or-ganizzarsi intorno ad un nucleo principale di ricche sepolture, verosimilmente appartenute a personaggi

Il sito archeologico di Ruvo del Monte, a sud-ovest dal moder-no centro di Melfi, rappresen-ta un osservatorio privilegiato sulla società indigena dell’Ita-lia Meridionale tra VII e IV sec. a.C. La sua posizione rivela il valore strategico dell’area, po-sta al centro di vie naturali che mettevano in comunicazione Campania, Puglia e Basilicata. Il sito, segna-lato nel 1976 dal “Gruppo Archeologico Lucano”, è stato oggetto di indagini archeolo-giche da parte della Soprintendenza Archeologica della Basilicata negli anni ’77-’80, ’83 e ‘89. In quella occa-sione, fu rimessa in luce parte di una ne-cropoli che si estende sul pianoro orientale e sulle prime pendici della collina di S. Anto-nio, poco al di sopra il paese moderno. Le sepolture individuate sono del tipo a fossa ret-tangolare, scavate nel banco naturale. All’interno il defunto era disposto in posizione “rannicchiata” con

Antichi signoridi Ruvo del Monte

di Michele Scalici

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che rivestivano un importante ruolo sociale all’inter-no della comunità. Alcuni indizi, in particolare il rinve-nimento di porzioni di graticcio ligneo al di sotto dei resti osteologici degli individui, hanno fatto avanzare l’ipotesi che i defunti di elevato status sociale fosse-ro seppelliti entro grandi casse lignee. In alcuni casi la posizione di rinvenimento degli oggetti, soprattut-to delle kylikes (coppe utilizzate per bere il vino), fa supporre che queste fossero state originariamente appese alle pareti della cassa mediante chiodi o fu-nicelle. La singolarità dell’impianto è evidente ed è forte la suggestione che le pareti interne della cassa potessero essere state dipinte come le contempora-nee sepolture di Paestum. Due corredi, recentemente esposti al Museo “Dino Adamesteanu” di Potenza, illustrano bene l’immagi-ne dell’aristocrazia indigena nel periodo compreso tra il pieno ed il tardo arcaismo. Nel primo, il cor-redo della tomba 70, appartenuta ad una giovane deceduta attorno alla metà del VI sec. a.C., spicca-no una collana in grani d’ambra con grandi pendenti configurati a conchiglia, “fermatrecce”, fibule e altri monili; a sottolineare il rango della defunta concor-re la presenza di un bacino in bronzo di probabile fabbricazione etrusco-campana e di altri oggetti pro-

venienti dall’area greco-coloniale. Il secondo corre-do apparteneva ad un uomo adulto deceduto circa trent’anni dopo. Anche in questo caso, lo status del defunto è sottolineato dalla presenza di oggetti pre-giati importati dall’area greca ed etrusca: alla ricca serie di vasi si aggiungono spiedi in ferro e armi che connotano la persona come capo e guerriero. Il quadro che si ricava dall’analisi dei contesti fune-rari di Ruvo è quello di una società caratterizzata da una forte connotazione identitaria, ma anche piutto-sto aperta ai contatti con l’esterno. L’appartenenza di questa comunità all’ethnos nord-lucano è sottoli-neata dalla ricorrenza, come vaso rituale, della ne-storìs (detta anche “cantaroide”, forma ceramica con grandi anse sopraelevate rispetto all’orlo), che trova proprio a Ruvo una delle sue più significative atte-stazioni.

Fig. 1 – tomba 64, cimasa del candelabro etrusco, (Bottini 1990);Fig. 2 – tomba 64, in corso di scavo, (Bottini 1990);Fig. 3 – tomba 36, corredo, (foto N. Figliuolo, mostra Principi ed Eroi della Basilicata Antica).Immagini riprodotte su concessione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, Direzione regionale per i Beni Culturali e Paesag-gistici della Regione Basilicata - Soprintendenza per i beni arche-ologici della Basilicata. È vietata ogni ulteriore riproduzione con qualsiasi mezzo.

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signore delle valli", proprio in virtù della sua posizio-ne dalla quale domina le valli del Serrapotamo e del Sinni a sud. Gode di un clima salubre e asciutto e il paesaggio si mostra splendido e variegato, solcato da numerosi torrenti e diviso in diversi borghi rura-li. Visitando il centro storico si possono ammirare caratteristici scorci tra vicoli, abitazioni antiche con splendidi portali, balconi, finestre e soglie in pietra lavorata, nonché vecchie porte. È proprio la bellezza di alcuni edifici che colpisce l’attenzione; in partico-lare il Castello dei Principi Sanseverino, ex Mona-stero, il palazzo Vescovile e il palazzo di Giura. Il

grande complesso chiamato attualmente “Monastero” nel periodo feudale fungeva da Castello baronale, essendo stato fon-dato dai primi signori di Chiaromonte in età normanna. Ingrandito e abbellito dai San-severino nel XIV secolo, il maniero pro-teggeva dall’alto del Catarozzolo la Terra sottostante, raccolta in un’ampia e pode-rosa cerchia di mura, di cui sopravanzano alcuni bastioni con torri. Col declinare della fortuna dei Sanseverino, anche il Castello di Chiaromonte subì un notevole degrado: molte fonti lo descrivono come un palazzo-ne agricolo già nel XVII secolo. Nel 1660, in un apprezzo del Tavolario Gallarano conservato all’Archivio di Stato di Napoli, viene descritto “come un edificio di dimen-sioni notevoli ma in stato precario; vi sono diverse stanze senza tetto, pur se alcune di esse conservano ancora gli affreschi ed i controsoffitti in legno”. Per salvarlo dalla rovina, nel secolo successivo, la Camera Comitale decise di recuperarne la parte più solida, affidando i lavori ad alcuni artigiani del posto che avrebbero dovuto consolida-re e ristrutturare un quartino di tre camere e camerino, una grande sala e una loggia in-termedia tra detta sala e quartino. Il resto, formato da quattro case soprastanti, un so-prano, un mezzano, otto case sottostanti, finiva di crollare prima del 1850. Acquisito dalla Curia di Anglona e Tursi nel 1849, il Castello fu riadattato e trasformato in mo-nastero. La ricostruzione fu completata nel 1845. Dopo varie vicissitudini nel 1928 fu occupato dalle Suore Figlie dell’Oratorio, che vi istituirono un orfanotrofio, un asilo infantile e una scuola di lavoro. Minacciato

Dalla sommità del Monte Catarozzolo, sulle cui pen-dici è situato l’abitato di Chiaromonte, si gode la vista di uno stupendo scenario di monti e di valli e costellato da piccoli paesi ognuno di antichissime e mirabili origini. Tutto quanto è visibile dal monte in gran parte definisce quell’immenso feudo che dall’XI secolo è noto come la “Contea di Chiaromonte” creata dai Conti Normanni giunti nel Mezzogiorno al seguito di Roberto il Guiscardo. Chiaromonte è uno dei tanti gioielli paesaggistici inseriti nel cuore verde del Parco Nazionale del Pollino. Nel fiorente periodo feudale, Clarus Mons era anche definito "il

Dimore signorili aClarus Mons

di Giuseppe Nolé

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to sul lato est da un muro dell’antica linea fortificata che curvando a nord chiudeva il Castello all’altezza dell’adiacente Chiesa di San Tommaso Apostolo. Particolarmente belli al primo piano una serie di ar-chi, costituenti l’origine di un loggiato. La posizione stessa del castello, raccolto tra le abitazioni del cen-tro rendono il luogo molto suggestivo.

da un movimento franoso sul lato sud, fu rinforzato e consolidato nel 1930/31 ed è stato successivamente ristrutturato e abbellito. È formato da tre corpi: uno a sud a tre piani, con finestroni rinascimentali all’ul-timo piano; un corpo a due piani sul lato ovest; e un terzo, pure a due piani, sul lato nord. Il giardino interno è abbellito da un’artistica cisterna, è protet-

Chiaromonte. La torre.

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Un’influenza più recente è, poi, quella ricevuta dalle vanitates e dai paesaggi di ascendenza simbolista dell’artista cremonese Agostino Arrivabene.Dopo aver privilegiato per molti anni l’uso degli acri-lici e della tecnica mista, di recente si è dedicato sempre più alla pittura ad olio, su tela, su cartone e su tavola. Ha partecipato con le sue opere a diverse collettive, tra cui Vicolinarte a Possidente nel 2005, a tre edizioni dell’estemporanea di pittura Elena d’Epi-ro, organizzata a Lagopesole, al Premio Enogea 2009 a Ginestra e alla mostra di pittura organizzata nel 2007 dalla Camera di Commercio di Potenza. Una sua ricca personale, con circa cinquanta opere esposte, è stata allestita ad agosto del 2009 a Tolve. Nel settembre 2009 ha ottenuto il primo premio in occasione della competizione pittorica Vanitas: na-ture floreali, organizzata dallo studio d'arte Il Santo Graal di Potenza.

Rocco Smaldone è un giovane artista poliedrico, che ama esplorare diversi sentieri dell’arte, dedicandosi con pari impegno alla musica (nell’ambito dell’heavy metal) e alla pittura, ma non disdegnando neanche la fotografia.Nato nel 1980 a Potenza, dove risiede tutt’oggi, fin da bambino scopre un’innata passione per la pittura, che lo porta a sperimentare le più svariate tecniche e ad approfondire la conoscenza della natura non solo tramite l’osservazione diretta, ma anche attraverso lo studio dei maestri del Rinascimento, del Seicento italiano e olandese e dell’Ottocento.L’epoca che, tuttavia, più di ogni altra ha lasciato il segno nella pittura di Smaldone è certamente il No-vecento: chiari sono, infatti, i rimandi a De Chirico e a Dalì, a Magritte e a Ernst. E’ possibile individuare, inoltre, suggestioni accostabili a molto cinema del secolo scorso, a partire da quello espressionista.

Rocco Smaldone: immagini tra sogno e realtà

di Francesco Mastrorizzi e Clelia Cannata

Rocco Smaldone, La tempesta di neve.

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Nello stile di Smaldone si sposano perfettamente espressionismo tedesco, surrealismo e pittura me-tafisica.Le immagini, spesso dai toni foschi, sono dominate dalla prospettiva, la quale fa sì che l'osservatore si perda nei meandri di una visione illusoria e trascen-dentale della vita, senza, tuttavia, mai staccarsene del tutto. La sensazione, spesso, è quella di stare di fronte alla scenografia di un palcoscenico teatrale, sul quale la scena è rappresentata.Nell’opera Apollo e Dafne II proprio l'ottimo uso della prospettiva riporta volutamente al reale l'elemento mitico, "concretizzandolo", quasi ad evocare su tela l'insoluta diatriba amore-sofferenza. Sullo sfondo alcune rocce sembrano disegnare delle mani con-

giunte in preghiera, a suggellare il dolore provocato dalla passione. Anche ne Il lago dei ricordi l'artista spezza l'onirico con effetti che rimandano al reale: il perdersi nell'immaginario viene interrotto, infatti, dal-la presenza in primo piano dell'aquila, che, vorace, rapisce il ricordo e risveglia dall'idillio.Un semplice gesto prospettico – la visione obli-qua – per un risultato eccellente ne La tempesta. Lo spettatore si sente rapito dalle raffiche di vento che piegano le fronde, incuriosito dall'errare solingo del protagonista, colto di spalle, – escamotage che rende l'insieme ancora più oscuro. Eppure anche qui l'effetto onirico si perde, tramite l'impronta lasciata dall'uomo sulla neve: elemento che, ancora una vol-ta, strappa dal sogno e concretizza l'evento.

Sotto: Rocco Smaldone, Omaggio a Wiene. In alto: Rocco Smaldone, Natura viva metafisica, particolare.

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CromieMessico: il Muralismo

espressione di un popolo di Amelia Monaco

Dal 1910 al 1920: sono questi anni cruciali per il Messico il quale viene travolto da una grande rivo-luzione che, inevitabilmente, non poteva, come av-veniva anche in altri contesti, apportare un grande cambiamento sul piano sociale, economico e so-prattutto culturale. Agli inizi del ‘900, in Europa, era-no stati preannunciati grandi mutamenti dalla Belle Epoque, a cui seguirono purtroppo i disastri della Grande Guerra e la nascita delle dittature in diversi Stati Europei, dittature che, nel loro progetto tota-litarista, avvinghiarono a sé anche l’arte ridotta, in alcuni casi, a strumento per far leva e influenzare le masse. Di qui la nascita di svariate correnti capaci di esprimere e rendere proprio il linguaggio e lo stato d’animo della popolazione, l’innovazione come frutto della modernità, l’importanza della psicanalisi quale strumento per indagare l’inconscio. Anche in Messi-co, la rivoluzione aveva generato un nuovo concet-to di arte che sorpassava quello che per secoli ne era stato l’identificativo, cioè un’arte precolombiana espressione di Aztechi e Maya. Nel 1910, la rivolu-zione era stato il motore destinato a porre fine alla dittatura di Porfirio Díaz. Al contempo, il movimento aveva avuto un grande impatto sulle masse operaie e sugli agricoltori al punto tale che, con la Costi-tuzione Politica degli Stati Uniti Messicani, promul-gata nel 1917, furono per la prima volta al mondo riconosciute le garanzie sociali e i diritti ai lavorato-ri. Interessandosi non solo alla politica e all’econo-mia che, pure necessitavano di grandi riforme per risollevare le sorti del popolo messicano, il governo aveva riconosciuto all’arte il ruolo ideale per poter educare le masse al nuovo progetto a cui si avviava

il Messico. A questo scopo affidò a diversi giovani artisti i muri degli edifici pubblici affinchè potessero lanciare al popolo un nuovo messaggio. Si gettava-no così le basi del Muralismo messicano, definito da Luis Cardoza y Aragòn “l’unico contributo originale moderno che l’arte dell’America ha dato al mon-do”. Inaugurato dalla decorazione degli edifici della Secretaría de Educación Pública e dalla nomina di José Vasconcelos a suo titolare, il muralismo, ispi-randosi alla tecnica degli affreschi italiani, portava in scena una nuova interpretazione del Messico e del suo popolo. Lo scopo principale era quello di dar vita ad un nuovo concetto estetico che, abbandonando il principio della bellezza suprema come ideale clas-sico, si fondava sul recupero delle immagini degli indios, protagonisti di nuove scene destinate a get-tare le basi dell’identità messicana. Fautori di essa furono tre grandi personaggi, singolari ed eclettici nella loro personalita: David Alfaro Siqueiros, Diego Rivera, José Clemente Orozco, a cui non si può non accostare il nome di Frida Khalo. I loro temi, trattati in forme diverse poiché espressione spesso di un’in-terpretazione soggettiva di quanto stava avvenendo, guardavano principalmente alla storia del Messico, con particolare slancio nei confronti degli ideali della Rivoluzione e del Messico presente. Si trattava di una pittura critica nei confronti dalla situazione na-zionale, esprimeva al tempo stesso l’ideologia dei committenti divenendo contemporaneamente mez-zo di comunicazione e strumento didattico e peda-gogico per buona parte dei messicani che, analfa-beti, rappresentavano la stragrande maggioranza dell’universo di questo Stato.

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Un legame riscoperto in età adulta, dopo qualche comprensibile difficoltà di adattamento dovuta ad una giovinezza vissuta in una realtà diversa come quella della provincia piemontese. Gli scorci caratteristici della “sua” Barile ci appaiono luminosi, incorniciati dal verde dell’edera o da pergo-lati di glicini. Sono angoli abbandonati che sulla tela rinascono, si animano di vite comuni, a volte appena suggerite attraverso bucati stesi al sole ad asciuga-re, o finestre ravvivate da vasi di gerani. Altri soggetti cari all’artista sono nature morte, papa-veri, paesaggi della campagna del Vulture. Ha par-tecipato a diverse collettive di pittura a Melfi, Barile, Rionero, Laurenzana, Avellino.Tra i molti riconoscimenti ricevuti ricordiamo il pri-mo premio assegnatole nel ’98 durante la Sagra dell’Aglianico del Vulture per un’opera scelta in se-guito come etichetta per un vino Aglianico da espor-tazione, e la menzione fuori concorso per la sezione dedicata agli acquerelli ad una collettiva di pittura milanese.

Maria Fuccillo nasce a Barile nel 1957. A vent’anni, dopo un’infanzia e un’adolescenza trascorse in pro-vincia di Cuneo, dove conclude gli studi, fa ritorno al suo paese d’origine.Quello per la pittura è un amore sbocciato in età ma-tura, che coltiva con successo come autodidatta.Pur avendo sempre manifestato una spiccata crea-tività è solo in un momento di particolare sconforto che avverte l’impulso di raccontare e di raccontarsi esplorando nuove forme espressive. La sua prima opera, un paesaggio campestre, riscuote subito grande successo. Dopo aver partecipato alla sua prima collettiva di pittura viene notata da Gaetano Maranzino che la invita nel suo gruppo di artisti e la incoraggia ad ap-profondire la tecnica dell’acquerello. Consiglio che l’artista coglie, dedicandosi alla sua passione con ancor più tenacia.Nei suoi raffinati acquerelli c’è un mondo fatto di cose semplici, di luoghi familiari che raccontano del profondo legame con la sua terra d’origine.

Maria Fuccillo:raccontarsi esplorando

di Giovanna Russillo

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Cromie

Giotto. Nell’opera di Simone Martini Annunciazione la pittura ci presenta l’Arcangelo Gabriele in ginoc-chio davanti alla Beata Vergine mentre le porge una fronda d’ulivo annunciandole la volontà divina. I loro corpi sono privi di qualsiasi consistenza materiale. Maria è avvolta in un mantello blu con una bordatu-ra dorata. Il suo volto, reclinato sulla spalla destra, indica un sentimento misto tra il pudore e il distacco. Sarà Giotto a dare una svolta radicale alla pittura del tempo. Nella Chiesa di Ognissanti a Firenze si trova la Pala di Ognissanti: la Madonna è una figura soli-da, reale, e per la prima volta la sua espressione ci appare del tutto "umanizzata". A differenza della Ma-donna bizantina, solenne e severa, questa accenna quasi ad un sorriso nello schiudersi delle labbra che lascia intravedere i denti. Il suo aspetto, il suo volto, la sua espressione, sono di una dolcezza tipicamente umana, senza alcuna astrazione. Il mantello azzurro scuro che la ricopre scende dalla testa creando una linea verticale netta, ma poi si modella adagiando-si sulle gambe della Madonna: a Giotto basta una leggera scoloritura del colore del mantello per farci vedere pienamente il volume disegnato dalle ginoc-

Da sempre la donna è stata oggetto/soggetto pri-vilegiato nell’arte. Rappresentata come archetipo della dimensione umana, la figura femminile ha ri-coperto di volta in volta un significato diverso a se-conda del periodo storico nel quale viveva. Il modo di rappresentarla e il ruolo simbolico da essa svolto sono cambiati nel corso dei secoli, di pari passo con l’evoluzione delle tecniche artistiche e degli stili, con il variare del gusto estetico e, elemento non meno importante, con il diverso modo di concepire il ruolo della donna nella società. Nell'iconografia medieva-le la bellezza femminile era riservata alle immagini sacre. Era la figura di Maria ad essere protagoni-sta indiscussa in tutti i campi dell'arte. Le enormi in-fluenze derivanti dal Cristianesimo portarono ad una rappresentazione della donna solo considerandola nella sua sacralità. La concezione teocentrica tipica di questo periodo, investe ogni ambito della vita e conseguentemente l’arte ne diventa espressione. Le Madonne sono il soggetto sacro per eccellenza: si presentano composte, dolci ed eleganti, come nel caso di Simone Martini; oppure sono ricche di uma-nità e di tratti più “umanamente” reali, come quelle di

A lato: Giotto, Pala di Ognissanti, 1306-1310, tempera su tavola, Firenze, Galleria degli Uffizi.Sotto: Simone Martini, Annunciazione, 1333, tempera su tavola, Firenze, Galleria degli Uffizi.

Il Medioevoe la Donna Sacra

di Sonia Gammone

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chia. In ossequio alla tradizione, anche Giotto alla fine utilizza il fondo dorato e una sproporzione "ge-rarchica" tra la figura della Madonna e del Bambino rispetto alle altre figure. Ma sono solo concessioni che egli fa alla tradizione, senza nulla togliere alla sua grande capacità di controllare visivamente tutti i rapporti spaziali e visivi tra le figure.Queste che per Giotto saranno pure intuizioni pre-sto diventeranno metodo e regola con la scoperta e l’utilizzo della prospettiva. All’unisono con i poeti e i letterati del tempo, le donne sono angeli, sono creature sacre ed immateriali.

Una consuetudine questa, rimasta fino all'epoca ri-nascimentale, quando, secondo le nuove concezioni che riportavano l'uomo al centro dell'universo, anche la donna si riappropriava dei suoi connotati corpo-rali e la sua figura si sganciava da una dimensio-ne esclusivamente trascendentale nella quale era stata relegata dalla storia. Col Rinascimento tutto cambierà, la donna come soggetto sacro sarà sem-pre presente. Non più lontana e austera come nelle rappresentazioni medievali, ma reale e terrena nelle espressioni e nei gesti, perfezione dell’umanità che rappresenta.

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Eventi

struito il paesaggio è un pioppo, l’albero sacro ad Ercole le cui foglie venivano proprio usate per curare i morsi di serpente.In entrambe le tele Giorgione non racconta un epi-sodio ma esprime un’emozione di fronte alla natura. Questa attenzione al paesaggio è cosi predominan-te che nella Madonna del Duomo l’abito della Ver-gine non è dipinto nel tradizionale blu ma in verde per meglio intonarlo ai colori del paesaggio. Anche quando affronta scene a più personaggi che dovreb-bero dialogare tra di loro, l’artista irrigidisce la figu-ra umana, ne blocca la gestualità, mentre dà molto spazio al paesaggio come nel due tele Mosè alla prova del fuoco e Il giudizio di Salomone, presenti in mostra. Nel ritratto Giorgione coglie in profondità i tratti psi-cologici del personaggio, ma quasi astrae la figura dal contesto, perché la immerge nel buio da cui la fa emergere, illuminando solo il volto. Nelle Tre età dell’uomo, un adolescente al centro, visto di fronte mentre legge un foglio, un vecchio, visto di tre quarti, che guarda lo spettatore, un giovane colto di profi-lo, documentano l’abilità dell’artista, ma restano un enigma.Qualcuno vi ha visto una Lezione di musica, imma-ginando il cartiglio come una partitura. Forse, ricor-dando un opera non presente in mostra, il ritratto di una vecchia che tiene in mano un cartiglio con scritto “col tempo”, e guarda anche lei lo spettatore, si può comprendere meglio quest’opera, che illustra la bre-vità della vita dell’uomo quaggiù.Le Madonne del Giorgione non hanno la dolcezza di quelle del Bellini, ma la loro bellezza, un po’ statua-ria, viene valorizzata dal paesaggio. Il quadro pro-veniente dal Museo di Leningrado documenta que-sta poetica. La volumetria del gruppo Madonna con bambino in forma piramidale occupa la metà della superficie, tutto il resto, da ogni parte, è paesaggio, con una vegetazione minuziosamente elaborata.L’arte di Giorgione conserva una coerenza di impo-stazione, senza ripetersi; l’artista è vissuto troppo poco per sviluppare diversamente la sua creatività. La mostra di Castelfranco è una mostra importante, che resterà nella storia della critica; purtroppo man-cano alcuni capolavori, ma gli organizzatori hanno scelto più di confrontare il Maestro con i suoi contem-poranei che di presentare bene le opere attribuitegli. Scelta che nasce anche dal fatto che la critica fino ad ora non ha saputo accertare tutte le attribuzioni al patrimonio della pittura veneta di questo periodo.

A Castelfranco Veneto, nella sua città natale, una grande mostra celebra il quinto centenario dalla morte di Giorgione, il pittore che segna il passaggio da Bellini a Tiziano nella pittura veneta. Zorzi da Ca-stelfranco nasce nel 1477 o nel 1478 nella famiglia Barbarella, proprietaria di quella casa, che è uno dei due poli di queste celebrazioni, nel cui salone l’arti-sta dipinse il Fregio delle arti liberali e meccaniche. L’altro polo è la cappella funebre Costanzo nel Duo-mo, sul cui altare si trova la Madonna con Bambino e i santi Nicasio e Francesco, che l’artista dipinse poco più che ventenne.La mostra ha un grande interesse storico, perché non solo raccoglie intorno ai 18 dipinti di Giorgione, altre 126 opere di artisti tra cui alcune di Raffaello, Perugino, Sebastiano del Piombo, Cima da Cone-gliano, Durer, ma anche sculture, stampe e libri per ricostruire l’ambiente in cui si è sviluppata la breve esperienza dell’artista, interrotta dall’epidemia di peste del 1510. Una vita misteriosa, forse fu allievo di Giovanni Bellini, forse ebbe modo di incontrare Leonardo e Durer nei loro soggiorni a Venezia, fu in contatto con i circoli umanistici veneti, ma non si hanno documenti certi. Eppure ebbe fama tra i con-temporanei, e soprattutto con lui esplose quello stile della pittura veneta, così diverso dalla pittura fioren-tina ancorata al disegno, che bene descrive il Vasari: “dipingere solo con i colori stessi senz’altro studio di disegnare in carta”. Per comprendere Giorgione bisogna partire da La tempesta, un quadro che ha per soggetto non un fatto sociale, ma un avvenimento naturale, anche se sono presenti un uomo e una donna, collocati ai margini ed assorbiti nel paesaggio. Questi due personaggi, un giovane contadino e la donna che allatta, sono enigmatici, quasi come i personaggi del surrealismo di Magritte o dell’espressionismo di Munch. Chi cerca motivazioni specifiche li individua come Marte e Venere, oppure Adamo ed Eva, ma sono attribuzioni arbitrarie. In realtà l’attenzione è polariz-zata sul fulmine che irrompe al centro del quadro, at-torno al quale è costruito il paesaggio. Alcuni ruderi di edifici e colonne rimandano all’antichità classica. I curatori della mostra hanno affiancato a questo ca-polavoro una tela titolata Tramonto, che alcuni critici partendo dai minuscoli personaggi presenti, pensa-no rappresentare Filottete, il pretendente di Elena abbandonato da Ulisse nell’isola di Lemno perché morso ad un piede. Potrebbe anche darsi, perché l’esile albero, visto in controluce, attorno a cui è co-

Giorgionee la pittura veneta

di Piero Viotto

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Adolfo Wildt è uno dei testimoni di quell’arte visiona-ria, messa a servizio per affermare una concezione sofferta della realtà del mondo, che è cavallo tra re-alismo e simbolismo.Giovanissimo, passa per la bottega di Giuseppe Grandi, l’artista che più di chiunque altro aveva capito il messaggio di Medardo Rosso, e approda all’Accademia di Brera, da cui scappa dopo solo un anno, perché ambiente troppo rigido e poco incline ad esplorare la nuova espressività da cui il giovane era attratto, approfittandone però per studiare da vi-cino i capolavori di Fidia e Michelangelo.Nel 1894, un incontro importante con Franz Rose, un magnate tedesco che diventa il suo mecenate, gli permette di entrare a contatto con il simbolismo

tedesco, che nella sua opera si mescola al grafismo puro della Secessione Viennese.Ed è proprio quella linearità delicata che diventa su-bito la caratteristica maggiore della sua opera; egli incide i volti che scolpisce con una cura maniacale, che lo porta a scrivere nel 1921, nel suo scritto L’arte del marmo, che la scultura non deve avere nulla a che fare con il pittoricismo, ma deve delineare alla perfezione i tratti, i volumi, perché solo essa esprime la vera natura della materia: “La scultura non è per gli occhi, è per l’anima”.Questa cura gli fa creare dalla materia una perfe-zione tanto cristallina da far apparire le sue opere come avorio o ceramica, che nell’inseguimento del perfetto equilibrio tra i vuoti e i pieni lo porta a scava-

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Le maschere di marmodi Adolfo Wildtdi Fiorella Fiore

re gli occhi, le narici, la bocca, rendendo i suoi volti maschere perfette della forma, come in Prigioni del 1915.Non vi è solo la ricerca della pura forma, ma anche quella dell’anima: nel 1918 Wildt scolpisce l’imma-gine di una Vittoria, per salutare l’Italia uscita dalla Guerra. Ma l’immagine che ne dà la scultore è mol-to lontana da quella di una Nike trionfatrice: quella di Wildt è una creatura senza corpo, il cui volto di bronzo, nero, cupo, si apre in un grido che non pare di né di gloria, né di gioia; gli occhi si chiudono in un dolore che è espressione soprattutto di lutto per le giovani viste perse. Come dice lo stesso artista, egli rivendicava a sé il “diritto di contorcere, di alte-rare un organo, se questa alterazione darà al mio

lavoro un’espressione più forte. Io accresco un mu-scolo al di là del normale, quando voglio esprimere un sentimento che, nella gioia o nella sofferenza, è anch’esso al di là del normale. […] Scolpire significa immettere lo spirito nella materia”.La Vittoria è l’ultima opera che segna il passaggio dell’artista dall’espressionismo degli anni Dieci al classicismo degli anni Venti, in cui gli echi del pas-sato ellenista greco si mescolano alle immancabili influenze simboliste.È il caso di opere come Testa della Madre del 1922, o la Santa Lucia del 1927.Nominato accademico d’Italia, l’artista scompare nel 1931, proprio durante l’allestimento di una sua per-sonale alla Quadriennale di Roma.

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scarsa importanza. Tutto ciò è altrettanto vero per l’arte dell’età medioevale e per quella moderna, ma con un impegno sicuramente minore rispetto a quel-lo archeologico e artistico dell’età antica in ambito meridionale, anche se in questi ultimi anni vi è stato e vi è un rinnovato interesse verso questo settore di ricerca. Soprattutto per quanto riguarda la scultura in legno policromo di età Rinascimentale e fino al Roco-

La scultura, a differenza della sorella pittura, è sem-pre stata un pò penalizzata perché non sempre ha trovato fertile terreno di studi nell’ambito della ricer-ca storico-artistica dell’Italia meridionale. Se per l’età classica la presenza di Roma e della Magna Grecia hanno prodotto un considerevole numero di pubbli-cazioni scientifiche e divulgative anche di grande rilievo, è pur vero che ci sono “guide” turistiche di

Pulpito di Melchiorre da Montalbano, 1271, Teggiano, Cattedrale.

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capolavori del tutto inediti, che attendono di esse-re riconosciuti e pubblicati, spesso si tratta di opere che sono davanti ai nostri occhi eppure sembrano essere del tutto “invisibili” perché finora nessuno li ha studiati perché “nascosti” da un velo di indifferen-za e di noncuranza che ha tragicamente deturpato e anche distrutto importanti testimonianze del nostro cammino storico sulle strade della storia. Speriamo che ci sia una sana inversione di tendenza e che si incominci a conoscere e a valorizzare questo nostro patrimonio spirituale e materiale che ci appartiene e che dobbiamo far rivivere con impegno e amore per la cultura, per il sapere, come uniche vie di riscatto della nostra libertà di cittadini e persone.

cò, ma anche oltre. Tuttavia, tale produzione storio-grafica non è ancora del tutto accessibile al grande pubblico, perché rivolta ad un pubblico di specialisti, e finora vi è stata una mancanza di interesse verso questo settore anche perché contestualmente man-cava una stampa divulgativa di buona qualità, che fosse in grado di informare correttamente un pub-blico di lettori eterogeneo che ieri non esisteva, ma che oggi esiste e sembra essere esigente e attento. Cercare di colmare questo “buco” è doveroso. Farlo in modo semplice, ma filologicamente e storicamen-te corretto, è indispensabile. L’obiettivo è quello di fare una corretta informazione di tipo divulgativo, con il fine ultimo di far avvicinare le persone a un patrimonio sovente non conosciuto, “nascosto”, ma che è vivo, è dentro e accanto a noi: basta ricono-scerlo per amarlo, farlo nostro e rispettarlo.La scultura meridionale di età medioevale e moder-na, come tutta la produzione artistica in genere, è legata alla dinamica storiografica e dialettica presen-te nel rapporto tra “centri e periferie” non intesi in senso puramente meccanico, ma in senso dinamico e interdipendente. Si parte da Napoli, capitale del Regno meridionale Angioino, poi Aragonese e poi Spagnolo, Austriaco e Borbonico, per indagare ciò che è stato fatto di epoca in epoca nelle varie provin-ce e viceversa. Altrimenti si rischia di isolare l’opera d’arte, o le opere d’arte, senza quel necessario con-testo storico, geografico e umano che è necessario per capire la ricca polisemia della fenomenologia storico-artistica. Per esempio, autori come Giovan-ni da Nola presente in Basilicata e Campania in età Rinascimentale, o Francesco da Sicignano, attivo anch’egli tra la Basilicata e la Campania, o il tosca-no Tino di Camaino operante nell’Italia meridionale in età medioevale, a Teggiano in particolare, o Gia-como Colombo, solo per fare alcuni nomi, richiedono attenzione.Cronologicamente, i tempi della trattazione partono dall’epoca medioevale, per passare poi all’epoca an-gioina e aragonese e, infine, dal Viceregno spagnolo e al Regno borbonico, secondo una scansione sto-rico-artistica già collaudata e validamente espressa da Francesco Abbate, con la quale concordo. D’altra parte il racconto della scultura è un racconto visivo che richiede attenzione massima e massimo impe-gno, sia nella stesura materiale del testo che nella scelta degli argomenti da pubblicare, per meglio intro-durre il lettore verso questo affascinante mondo che riserva ancora oggi molte sorprese e che nasconde

Pulpito Guarna, 1181 circa, Salerno, Cattedrale.

Un viaggio nella sculturadell'Italia del Suddi Gerardo Pecci

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Architettando

progettazione internazionale, il Sheikh Zayed Natio-nal Museum, un museo dedicato alla storia e alle tradizioni arabe. Accanto ai tre centri culturali e al museo sorgeranno 19 padiglioni, attraversati da un canale navigabile lungo 1,5 chilometri, destinati ad ospitare una Bien-nale dell'Arte. Questi saranno progettati dall'arabo Khalid Alnajjar, dal russo Yuri Avvakumov, dallo sta-tunitense Greg Lynn, dal newyorkese Hani Rashid, dal britannico David Adjaye, dal cinese Pei-Zhu e dal coreano Seung H-Sang. Dopo l'impresa “storica” di Bilbao, ma in un ambiente molto diverso da quelli in cui ha finora lavorato, l'ar-chitetto americano Frank O. Gehry firmerà il nuovo Guggenheim che sarà, con la sua superficie di circa 30.000 metri quadrati, il più grande della omonima fondazione. Per la sua costruzione saranno neces-sari cinque anni di lavori, fino al 2012, ed oltre un miliardo di dollari. Il progetto di Gerhy, con i suoi coni alti fino ad 80 metri poggianti su massicci volumi parallelepipedi e giochi di tubi, ricorda molto un dipinto cubista. Quat-tro piani di gallerie sono disposti intorno ad una corte centrale. Ulteriori due piani di corridoi, dalla geome-tria circolare, si estendono oltre il nucleo principale della struttura. 12.000 dei 30.000 metri quadrati di superficie ospiteranno aree espositive.

Dopo New York, Venezia, Berlino, Las Vegas e Bil-bao la Fondazione R. Solomon Guggenheim avrà un nuovo contenitore per l'arte moderna ad Abu Dhabi, capitale federale degli Emirati Arabi, conosciuta so-prattutto per la sua ricchezza petrolifera e per il suo turismo di lusso. Il GAD, così si chiamerà il nuovo museo, sorgerà a Saadiyat Island, una suggestiva striscia di sabbia bianca lunga 27 chilometri e distante solo 500 metri dalla costa. L'isola, detta anche della “felicità”, è at-tualmente oggetto di un ambizioso intervento di ur-banizzazione che la trasformerà, nei prossimi anni, in un'area a forte vocazione turistico-culturale e re-sidenziale d'élite.Accanto al museo d'arte contemporanea si affacce-ranno sul mare del golfo persico altri tre centri cul-turali: il Classical Museum di Jean Nouvel, già ribat-tezzato il Louvre di Abu Dhabi, un disco volante tra giardini e fontane, il Museo Marino di Tadao Ando ed il Performing Arts Center dell'anglo-irachena Zaha Hadid, un edificio a forma di yacht proiettato verso il mare, il quale ospiterà cinque teatri con una capacità complessiva di 6300 spettatori. Quattro progetti tutti commissionati dalla Touri-sm Development & Investment Company la quale, sempre all'interno del distretto culturale di Saadiyat Island, intende realizzare, attraverso un concorso di

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senza veli, come quelli celebri di Modigliani esposti al Guggenheim di New York. Niente Klimt o Schiele, ma neppure Tiziano, il cui Cristo che porta la croce, recentemente in mostra nella sede gemella di Las Vegas, è stato ammirato da migliaia di visitatori. Una sorta di "censura preventiva" che colpisce quel-lo che si propone di diventare il nuovo polo artistico e culturale del mondo mediorientale.Negli auspici dell'attuale sovrano Khalifa bin Zayed Al-Nahyan, il nuovo edificio attirerà almeno tre milio-ni di turisti entro il 2015.Arte, sì, ma anche business: Abu Dhabi spera infat-ti di replicare il miracolo di Bilbao, che con l'arrivo del Guggenheim nel 1997, si è trasformata da ce-nerentola a nuova destinazione "calda" del grande turismo.Un'altra Bilbao?...il mondo dell'architettura attende curioso...

All'interno di questi troveranno posto anche un cen-tro per l'arte e la tecnologia, gallerie per esposizioni speciali, collezioni permanenti, un centro educativo di arte per bambini, archivi, una biblioteca, un cen-tro di ricerca ed un laboratorio di restauro. «Proget-tare un museo per Abu Dhabi - spiega Gehry - ha significato immaginare un edificio che non sarebbe mai stato possibile realizzare negli Stati Uniti o in Europa. È stato chiaro sin dall'inizio che si sarebbe trattato di una nuova invenzione».La collezione del nuovo museo sarà rappresentativa dell'arte contemporanea mondiale con una sezione riservata al Medio Oriente.Data la particolarità del luogo dove sorgerà, non sa-ranno esposte opere raffiguranti figure e temi reli-giosi o nudità, così da conciliare al meglio l'audacia dell'arte contemporanea con i valori più conservatori del mondo islamico. Niente quindi ritratti femminili

Abu Dhabi,un'altra Bilbao?di Mario Restaino

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L’indimenticabile frase "Che farò senza Euridice, dove andrò senza il mio bene?”, che caratteriz-za l’aria dell’opera musicale di Christoph Willibald Gluck, Orfeo ed Euridice, per l’appunto, introdurrà come ben si evince il mito relativo trattato in que-sto nuovo numero di Mythos. E non per caso, primo fra tutti, sarà proprio Nicolas Poussin, già visto nelle precedenti uscite con il mito di Narciso. Si è scelto questo artista, proprio perché il suo approccio clas-sico, formale, riesce magistralmente nel pieno con-tenimento di una tensione che va al di là dell’energia sottesa a ogni singolo paradigma mitico: il dramma dell’Amore e l’eternità del sentimento.L'opera di Poussin rivela la sua propensione verso un ideale classico inteso nelle sue componenti este-tico-formali e anche morali, tanto che il Paesaggio con Orfeo ed Euridice si inscrive all’interno di quel-le tavole a tema mitologico e biblico che procura-rono all’artista fama in tutta Europa (Orione cieco, I Pastori dell'Arcadia e Le quattro stagioni). Il tema prediletto è quindi la storia, innervata dalla dimensio-ne dei miti. La struttura in sé riprende similarmente quella del Narciso, ossia un paesaggio, luogo per eccellenza della Natura, ma dove tutto viene rigoro-samente ricondotto alla sensibilità del sapere artisti-

co. Il mito per eccellenza di questo amore impossi-bile definisce l’incapacità dell’uomo ad adattarsi alle leggi meccaniche della Natura e conferisce all’Amo-re stesso, in quanto principio primo, l’accezione non solo di ciò che fugge dalla ragione ma anche causa di sventura. La sorte tragica di Orfeo ed Euridice sta-tuisce l'arte come erede di questa forza superiore, come lo è la Natura. Di contro, la bellezza nasce dal-la sofferenza e da un passaggio al quale ogni indivi-duo è sottoposto, così anche chi imprime nella tela l’essenza di tanta forza drammatica. Ma è qui che Poussin infonde al mito, alla sua tragicità, un senso di tranquillità, l’innesto della coppia in un panorama sereno e luminoso, disposto intorno a una distesa d'acqua tranquilla. Anche in questo, l’artista france-se ricorre ai topoi della poesia bucolica, il “fiume” o il “lago calmo” che denota il senso di seraficità, il grup-po di bagnanti che conduce indisturbata la propria vita sulla sponda. La disgrazia che separa i due amanti del mito greco è altresì collocata in una cornice romana, e questo individuato dalla presenza di Castel Sant'Angelo, ri-cordando che quello del 1642, in cui fece ritorno alla capitale, fu il periodo più propizio per l’avvio alla for-mazione delle famose tavole a carattere mitologico-

Jean-Baptiste Camille Corot, Orfeo guida Euridice fuori dall'Ade, 1861, olio su tela, Houston, Museum of Fine Arts.

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Orfeo ed Euridice

di Fabrizio Corselli

biblico. Ma la poliedricità dell'artista ci ricorda in tal maniera quanto sia possibile rendere plausibile, “ve-rosimile”, un accostamento di singoli elementi presi in prestito da contesti diversi, suggerendo che la sto-ria ha in sé un significato di eternità, come l’amore, in ogni tempo e in ogni luogo; come del resto, ben ci ha insegnato Aristotele nella sua Poetica. Sulla scia del paesaggismo pittorico, di un’arte che viene influenzata dai viaggi dell’artista presso luoghi che divengono per lui nodali per la propria ispirazio-ne, non possiamo non citare Jean-Baptiste Camille Corot. La ricerca dell'attimo di eternità contenuto in un paesaggio diviene il suo tema principale, situazio-ne questa che lo avvicina alla tradizione di Poussin, alla tradizione omerica e a quella dei pastori arcadi-ci. Infatti, durante il suo secondo soggiorno italiano nel 1834, l’artista viene colpito soprattutto dall'aspet-to selvaggio di alcune regioni; le leggere foschie sul lago di Como o la stessa Volterra risvegliano in lui il gusto per gli orizzonti avvolti nella bruma. Da qui, il suo interesse per gli studi atmosferici, per il lavo-ro all'aria aperta e per le strade che fuggono verso l'orizzonte. Questo però non lo influenza soltanto nel-la tematica, laddove l’umidità dell’aria e la fioca lumi-nosità gli suggeriscono di conseguenza un alone di

poeticità, ma anche nel rigore dei suoi studi italiani, sul disegno delle linee paesaggistiche. Egli pertanto coniuga il tranquillo realismo dei paesaggi svizzeri, meta di molti soggiorni, alle atmosfere “selvatiche” dei luoghi italiani. E proprio nel suo Orfeo ed Euridi-ce è possibile scorgere tale intima unione, uno stato rarefatto della coscienza, l’offuscamento dell’intellet-to, di quella perennità che viene conservata da una cortina nebbiosa che estromette i due protagonisti dal contesto. Una pacifica dimensione quindi che ri-trova la propria eternità nella fissità, sinonimo di de-terminazione, dello stesso Orfeo che non accenna un pur minimo tentativo di torsione (come accade spesso in altri artisti che basano l’elemento dramma-tico sull’instabilità dell’azione scaturente la tragedia; per esempio nell’Eros e Psiche, la goccia che sta per cadere dalla lanterna, e che poi, nel completamento della futura visione da parte dell’osservatore, gene-rerà il dramma). Come nella tradizione arcadica, in cui il frutto si mostra e si concede al suo avvento-re, così la cornice in cui sono avvolti i due amanti corona quel senso di pace e serenità caratterizzanti perfino l’idillio amoroso. Seppur i loro sguardi non s’incrociano, Corot riesce a stabilire magistralmente il senso della promessa di perpetuo amore.

Nicolas Poussin, Paesaggio con Orfeo ed Euridice, 1650 circa, olio su tela, Parigi, Museo del Louvre.

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Tourarta cura di Angela Delle Donne

SivigliaMare Clausum Mare Liberum

Fino al Maggio 2010Archivo General de Indias, Siviglia - SpagnaInformazioni: www.mcu.es

La pirateria en la America Española è la mostra che fino a maggio 2010 sarà ospi-tata presso l’Archivio General de Indias in Siviglia. Si tratta di un percorso docu-mentario tratto dagli oltre ottanta milioni di pagine originali di documenti storici, un percorso che riguarda la pirateria nei mari oceanici durante il periodo della colonizza-zione spagnola dei territori americani. Le sezioni sono tante, tra cui: la pirateria nel nuovo mondo, le guerre franco-spagnole e la pirateria, i corsari inglesi, l’organizza-zione difensiva contro la pirateria, i corsari olandesi, il dominio spagnolo e la pirateria nel cinema e nella letteratura. La mostra prevede anche la visione di un video di quindici minuti nel quale è descritta la storia dell’edificio che ospita l’Archivio General. I documenti esposti raccontano tre secoli di storia dei traffici marittimi della Spagna e degli assalti subiti durante la navigazione. Ed insieme ai documenti trovano spazio piccoli plastici delle fortezze spagnole in America, ricostruzioni delle imbarcazioni francesi e spagnole, armature e piccoli cannoni da guerra, lungo le pareti ritratti dei comandanti e delle personalità impor-

Lucco e Matteo Ceriana, presenterà un percorso espositivo di 40 opere: accanto alle grandi pale d’altare si potranno con-templare le opere devozionali e quelle tavole con storie mitologiche, spesso es-eguite per cassoni nuziali, che hanno reso Cima da Conegliano il massimo interprete della cultura umanistica veneziana.

VenosaSan Valentino in arte

Fino al 5 marzo 2010“Galleria 25”, Venosa (PZ)Orari: tutte i giorni 17.00/ 21.00, domenica mattina 11.00/13.00Informazioni: tel. 0972.36198Mail: [email protected]

La “Galleria 25” di Venosa chiude con una collettiva di pittura il suo primo ciclo invernale di mostre, dopo aver ospitato nel corso degli ultimi mesi una serie di person-ali dedicate ad importanti rappresentanti del panorama contemporaneo nazionale, da Matteo Fiorentino a Giuliano Trom-bini, da Angelo Fornaciari a Francesco Giacomazzi, da Michele La Sala ad Alfio Sorbello, Carlo Massimo Franchi. Molti di questi artisti saranno anche i protago-nisti della mostra organizzata in occasione della festa di San Valentino a partire dal 13 febbraio. Ad essi verranno affiancati nomi del calibro di Romano Buratti, Athos Fac-cincani, Ernesto Treccani, Walter Piacesi e Romano Mussolini, al quale verrà dedicata una personale per tutto il mese di marzo.

tanti, cimeli delle conquiste ed una piccola sezione delle porcellane della compagnia delle Indie realizzati in Cina.

ConeglianoIl poeta del paesaggio

Fino al Maggio 2010Archivo General de Indias, SivigliaInformazioni: www.mcu.es

Grazie all’eccezionale sostegno delle mag-giori istituzioni museali del mondo per cen-to giorni sarà possibile ammirare i massimi capolavori di un grande del Rinascimento italiano: Cima da Conegliano. Prodotta e organizzata da Artematica, col patrocinio del Comune di Conegliano, della Provin-cia di Treviso e della Regione Veneto, l’esposizione su Giovanni Battista Cima è stata curata da Giovanni Carlo Federico Villa, coadiuvato da un comitato scienti-fico composto dai maggiori studiosi italiani e stranieri su Cima da Conegliano, quali Peter Humfrey, David Alan Brown, Mauro

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Picerno

www.comune.picerno.pz.it

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