In cerca di vita su altri pianeti -...

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In cerca di vita su altri pianeti La presenza di organismi viventi è un fenomeno osservato solo sulla Terra, ma un innovativo telescopio spaziale potrebbe un giorno individuare forme di vita su pianeti lontani di J. Roger P. Angel e Neville J. Woolf L a possibilità che l'uomo non sia solo nell'universo esercita da se- coli un fascino irresistibile. Già nel Seicento Galileo scrutava il cielo notturno con il suo telescopio, ricono- scendo che vi erano montagne sulla Lu- na e che gli altri pianeti erano sferici, come la Terra. Circa 60 anni dopo, altri osservatori notarono le calotte polari di Marte e le variazioni di colore della su- perficie del pianeta, che scambiarono per cicli stagionali della vegetazione (oggi si sa che sono il risultato di tempe- ste di polvere). Nella seconda parte di questo secolo, apparecchi fotografici a bordo di sonde senza equipaggio hanno ottenuto immagini di Marte che mostra- no il letto di fiumi scomparsi da lunghis- simo tempo, facendo sperare che antica- mente il pianeta rosso abbia ospitato or- ganismi viventi. Ma i campioni di suolo marziano raccolti negli anni settanta dai lander delle sonde Viking erano privi di qualsiasi indizio materiale che facesse pensare alla presenza di forme di vita. Di fatto, le attuali condizioni degli altri pianeti del sistema solare sembrano es- sere generalmente incompatibili con la vita come la si osserva sulla Terra. Ma le possibilità di ricerca di forme di vita extraterrestri si sono ampliate: ora possiamo rivolgere la nostra atten- zione anche a pianeti esterni al sistema solare. Dopo anni di tentativi, gli astro- nomi hanno finalmente trovato prove dell'esistenza di pianeti che orbitano intorno a tre stelle lontane di tipo sola- re. Sui pianeti di queste e di altre stelle potrebbero essersi evoluti organismi vi- venti. L'individuazione di forme di vita extraterrestri potrebbe apparire una fa- tica degna di Ercole, ma in realtà entro il prossimo decennio saremo in grado di costruire gli strumenti necessari per localizzare pianeti con esseri viventi si- mili a quelli terrestri più primitivi. Il telescopio più grande e potente og- gi collocato nello spazio, lo Hubble Space Telescope, riesce a malapena a distinguere le montagne di Marte. Per ottenere immagini abbastanza nitide da mostrare strutture geologiche di pianeti di altre stelle, sarebbe necessaria una schiera di telescopi spaziali grande quanto gli Stati Uniti. Oltre a ciò, come ha fatto notare Carl Sagan della Cornell University, solo immagini della Terra ad altissima risoluzione rivelano la pre- senza di forme di vita. Immagini detta- gliate potrebbero essere ottenute da sonde senza equipaggio inviate in altri sistemi solari, ma le enormi distan- ze rendono evidentemente impraticabi- le questo approccio: un veicolo spazia- le impiegherebbe migliaia di anni per raggiungere un altro sistema solare e trasmettere immagini utili. Le tecniche fotografiche, tuttavia, non sono il modo migliore per affronta- re lo studio di pianeti lontani; gli astro- nomi si affidano piuttosto a tecniche spettroscopiche per raccogliere infor- mazioni. Grazie alla spettroscopia, la radiazione proveniente da un corpo ce- Ct Ct E CO O E Gli autori propongono un sistema di telescopi con base nello spazio in grado di cer- care pianeti abitati. Questo strumento, un interferometro, potrebbe essere monta- to presso la proposta stazione spaziale internazionale (visibile in basso a sinistra). Successivamente un propulsore elettrico porterebbe lo strumento, della lunghez- za di 50-75 metri, in orbita solare, più o meno alla distanza di Giove. Questa mis- sione è il fulcro dei progetti della NASA per lo studio di sistemi planetari vicini. 28 LE SCIENZE n. 335, luglio 1996

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In cerca di vitasu altri pianeti

La presenza di organismi viventi è un fenomenoosservato solo sulla Terra, ma un innovativo

telescopio spaziale potrebbe un giornoindividuare forme di vita su pianeti lontani

di J. Roger P. Angel e Neville J. Woolf

L

a possibilità che l'uomo non siasolo nell'universo esercita da se-coli un fascino irresistibile. Già

nel Seicento Galileo scrutava il cielonotturno con il suo telescopio, ricono-scendo che vi erano montagne sulla Lu-na e che gli altri pianeti erano sferici,come la Terra. Circa 60 anni dopo, altriosservatori notarono le calotte polari diMarte e le variazioni di colore della su-perficie del pianeta, che scambiaronoper cicli stagionali della vegetazione(oggi si sa che sono il risultato di tempe-ste di polvere). Nella seconda parte diquesto secolo, apparecchi fotografici abordo di sonde senza equipaggio hannoottenuto immagini di Marte che mostra-no il letto di fiumi scomparsi da lunghis-simo tempo, facendo sperare che antica-mente il pianeta rosso abbia ospitato or-ganismi viventi. Ma i campioni di suolomarziano raccolti negli anni settanta dailander delle sonde Viking erano privi diqualsiasi indizio materiale che facessepensare alla presenza di forme di vita.Di fatto, le attuali condizioni degli altripianeti del sistema solare sembrano es-sere generalmente incompatibili con lavita come la si osserva sulla Terra.

Ma le possibilità di ricerca di formedi vita extraterrestri si sono ampliate:ora possiamo rivolgere la nostra atten-zione anche a pianeti esterni al sistemasolare. Dopo anni di tentativi, gli astro-nomi hanno finalmente trovato provedell'esistenza di pianeti che orbitanointorno a tre stelle lontane di tipo sola-

re. Sui pianeti di queste e di altre stellepotrebbero essersi evoluti organismi vi-venti. L'individuazione di forme di vitaextraterrestri potrebbe apparire una fa-tica degna di Ercole, ma in realtà entroil prossimo decennio saremo in gradodi costruire gli strumenti necessari perlocalizzare pianeti con esseri viventi si-mili a quelli terrestri più primitivi.

Il telescopio più grande e potente og-gi collocato nello spazio, lo HubbleSpace Telescope, riesce a malapena adistinguere le montagne di Marte. Perottenere immagini abbastanza nitide damostrare strutture geologiche di pianetidi altre stelle, sarebbe necessaria unaschiera di telescopi spaziali grandequanto gli Stati Uniti. Oltre a ciò, comeha fatto notare Carl Sagan della CornellUniversity, solo immagini della Terraad altissima risoluzione rivelano la pre-senza di forme di vita. Immagini detta-gliate potrebbero essere ottenute dasonde senza equipaggio inviate in altrisistemi solari, ma le enormi distan-ze rendono evidentemente impraticabi-le questo approccio: un veicolo spazia-le impiegherebbe migliaia di anni perraggiungere un altro sistema solare etrasmettere immagini utili.

Le tecniche fotografiche, tuttavia,non sono il modo migliore per affronta-re lo studio di pianeti lontani; gli astro-nomi si affidano piuttosto a tecnichespettroscopiche per raccogliere infor-mazioni. Grazie alla spettroscopia, laradiazione proveniente da un corpo ce-

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ECO

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E

Gli autori propongono un sistema di telescopi con base nello spazio in grado di cer-care pianeti abitati. Questo strumento, un interferometro, potrebbe essere monta-to presso la proposta stazione spaziale internazionale (visibile in basso a sinistra).Successivamente un propulsore elettrico porterebbe lo strumento, della lunghez-za di 50-75 metri, in orbita solare, più o meno alla distanza di Giove. Questa mis-sione è il fulcro dei progetti della NASA per lo studio di sistemi planetari vicini.

28 LE SCIENZE n. 335, luglio 1996

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SISTEMA SOLARE INTERNO

MERCURIO VENERE•

TERRA MARTE

• ALMENO 0,5 VOLTELA MASSA DI GIOVE

ALMENO 6,5 VOLTELA MASSA DI GIOVE

SISTEMA DI 51 PEGASI

SISTEMA DI 70 VIRGINIS

SISTEMA DI 47 URSAE MAJORIS

ALMENO 2,3 VOLTELA MASSA DI GIOVE

150

300

Pianeti in orbita intorno a stelle simili al SoleC ino a tempi molto recenti, gli astronomi non avevano alcu-

na prova diretta dell'esistenza di pianeti in orbita intorno astelle che assomigliano al Sole. Poi, nell'ottobre 1995, MichelMayor e Didier Queloz dell'Osservatorio di Ginevra annuncia-rono la scoperta di un pianeta di grande massa presso la stel-la di tipo solare 51 Pegasi (si veda «Le Scienze» n. 331, mar-zo 1996, p. 23). Geoffrey W. Marcy e R. Paul Butler della SanFrancisco State University e dell'Università della California aBerkeley confermarono rapidamente l'annuncio e, dopo appe-na tre mesi, riferirono l'individuazione di altri due corpi in orbi-ta intorno a stelle dello stesso tipo, dimostrando così che laprima scoperta non era un caso isolato.

Nessuno, in realtà, ha visto questi mondi lontani: tutti e tresono stati identificati indirettamente, misurandone l'influenzagravitazionale sul moto delle rispettive stelle. Quando un ogget-to orbita intorno a una stella, la sua attrazione di gravità provo-ca piccole oscillazioni dell'astro, le quali a loro volta induconouno spostamento Doppler periodico nello spettro stellare osser-vato dalla Terra. La periodicità dello spostamento indica dimen-sioni e forma dell'orbita del pianeta e la sua entità permette didedurre la minima massa possibile di quest'ultimo. Con la tecni-ca Doppler, però, non è possibile ricavare alcun altro dettaglio(come, per esempio, temperatura e composizione dell'oggetto).

Anche disponendo di queste informazioni limitate, si vedechiaramente che i nuovi pianeti sono totalmente diversi daquelli finora noti. Quello di 51 Pegasi è il più strano del grup-po: ha una massa pari almeno a metà di quella di Giove, e tut-tavia orbita a soli sette milioni di chilometri dalla stella, ossia ameno di un ottavo della distanza di Mercurio dal Sole. In que-sta posizione, la superficie del pianeta sarebbe arroventata fi-no a una temperatura teorica di 1300 gradi Celsius; il periodoorbitale è di appena 4,2 giorni.

Uno dei pianeti scoperti da Marcy e Butler, orbitante intornoa 47 Ursae Majoris, ha caratteristiche un po' meno estreme.La sua orbita circolare, percorsa in circa tre anni, giace a 300

milioni di chilometri dalla stella (una distanza corrispondente auna posizione intermedia fra Marte e Giove) e la sua massa è,come minimo, 2,3 volte quella di Giove; un pianeta simile nonapparirebbe fuori posto nel sistema solare.

Il terzo dei nuovi corpi, anch'esso identificato da Marcy eButler, è associato alla stella 70 Virginis. Questo «pianeta» èalquanto differente dagli altri due; è il più massiccio del grup-po, avendo almeno 6,5 volte la massa di Giove, e la sua orbi-ta della durata di 117 giorni è fortemente ellittica. Marcy ha af-fermato che esso giace nella «zona abitabile con continuità»,ossia nell'intervallo di distanze nel quale la temperatura di unpianeta potrebbe essere compatibile con l'esistenza di acquaallo stato liquido. Nonostante questa affermazione ottimistica,il pianeta gigante ha con tutta probabilità un'atmosfera densae soffocante che non sembra offrire buone prospettive per l'e-sistenza di forme di vita. In effetti, considerando la grandemassa e l'orbita ellittica di questo corpo, molti scienziati so-stengono che il compagno di 70 Virginis dovrebbe essereclassificato non come un pianeta, ma come una nana bruna,ossia un oggetto gassoso che si forma con gli stessi meccani-smi di una stella, ma non possiede abbastanza massa per da-re inizio alle reazioni di fusione termonucleare.

C'è un motivo per cui gli astronomi hanno trovato finora so-lo corpi massicci in orbite di periodo abbastanza breve:

sono i più facili da riconoscere usando la tecnica Doppler. Perindividuare un pianeta in un'orbita più lunga, simile a quelladi Giove, occorrerebbe almeno un decennio di osservazioniDoppler di alta precisione. Un possibile metodo per ampliarela ricerca è quello di considerare l'effetto di lente gravitaziona-le, un processo nel quale la luce proveniente da un oggettolontano viene intensificata dalla gravità di un oggetto interpo-sto. Se la stella che funge da lente possiede pianeti, essi po-trebbero causare ulteriori aumenti di luminosità di breve dura-ta. È possibile tenere sotto controllo molte stelle simultanea-

MILIONI DI CHILOMETRI

mente, cosicché questo metodo potrebbe fornire dati su ungran numero di pianeti; purtroppo non lo si può utilizzare perindividuare pianeti di stelle vicine.

Un'altra possibilità consiste nel cercare direttamente la radia-zione riflessa da grandi pianeti in orbita intorno ad altre stelle.Normalmente l'atmosfera terrestre perturberebbe questo se-gnale al punto da rendere impossibile la discriminazione frastella e pianeta, ma l'impiego di ottiche adattative - che permet-tono di cancellare la distorsione atmosferica - offre una soluzio-ne a questo problema. In teoria, il sistema di ottiche adattative

ideato da J. Roger P. Angel e perfezionato da David Sandler eSteve Stahl della Thermotrex Corporation di San Diego potreb-be fornire un'immagine di un grande pianeta posto alla distanzaorbitale di Giove in una singola notte di osservazione.

I pianeti scoperti di recente rappresentano solo la punta del-l'iceberg. Il prosieguo delle osservazioni, l'analisi dei dati e l'im-piego di tecnologie innovative, come un interferometro con ba-se nello spazio, dovrebbero consentire entro breve tempo moltealtre scoperte, dandoci un quadro più chiaro della varietà dimondi che potrebbero esistere nell'universo. (Corey S. Powell)

leste può essere analizzata alla ricercadi «marcatori» che aiutino a ricostruirecaratteristiche quali temperatura, pres-sione atmosferica e composizione chi-mica dell'oggetto.

I «segni di vita» più facili da rico-noscere spettroscopicamente sarebberosegnali radio utilizzati da eventuali ci-viltà extraterrestri per comunicazioniinterstellari. Queste trasmissioni sareb-bero totalmente dissimili da un feno-meno naturale, e sono un buon esempiodel tipo di anomalie che dovremmocercare per localizzare organismi extra-terrestri intelligenti. Finora le campa-gne di rilevamento ad alta sensibilità disistemi stellari lontani non hanno per-messo di individuare alcun segnale, equesto indica che gli extraterrestri dedi-ti a comunicazioni interstellari certa-mente non sono molto comuni.

Ma un pianeta potrebbe ospitare esse-ri viventi che non comunicano, almenonon con mezzi tecnologici: quindi dob-biamo trovare un modo per individua-re con certezza anche organismi moltosemplici. Per incrementare la nostra ca-pacità di localizzare pianeti lontani e de-terminare se siano abitati, abbiamo pro-posto un successore potente e innova-tivo del telescopio della sonda Galileo

che, a quanto riteniamo, ci permetterà diindividuare forme di vita extraterrestri.

Gli organismi terrestri più semplicihanno alterato le condizioni del nostropianeta in modi riconoscibili a un osser-vatore lontano. La documentazione fos-sile indica che entro un miliardo di annidalla formazione della Terra, non appenafu cessato il massiccio bombardamentodi asteroidi, organismi primitivi comebatteri e alghe si diffusero in gran partedel globo. Questi hanno rappresentato latotalità delle forme di vita terrestri neisuccessivi due miliardi di anni; per ana-logia, se c'è vita su altri pianeti, potrebbebenissimo trovarsi in questa forma.

Le umili alghe azzurre terrestri non

costruiscono trasmettitori radio,ma sono ingegneri chimici senza pari.Via via che si moltiplicavano sul globoterrestre, le alghe cominciarono a intro-durre grandi quantità di ossigeno nel-l'atmosfera. La produzione di ossigenoè un processo fondamentale degli esseriviventi basati sul carbonio: gli organi-smi più semplici assumono acqua, azo-to e anidride carbonica come sostanzenutritive e liberano ossigeno come pro-dotto di scarto. L'ossigeno è un gaschimicamente reattivo: senza il conti-

nuo rifornimento da parte delle alghe e,più avanti nel corso dell'evoluzione,delle piante, la sua concentrazione nel-l'atmosfera si ridurrebbe. Perciò la pre-senza di grandi quantità di ossigenonell'atmosfera di un pianeta è il primoindicatore della possibile esistenza diforme di vita basate sul carbonio.

L'ossigeno imprime un «marchio»inconfondibile sulla radiazione emessada un pianeta. Una parte della luce so-lare che raggiunge la superficie terre-stre viene riflessa nello spazio attraver-so I ' atmosfera. L'ossigeno atmosfericoassorbe parzialmente questa radiazione,cosicché un astronomo extraterrestreche osservasse il nostro pianeta conmetodi spettroscopici per studiare la lu-ce solare riflessa potrebbe individuarela «firma» caratteristica dell'ossigeno.

Nel 1980 Toby C. Owen, allora allaState University of New York a StonyBrook, ha proposto che un indizio dellapresenza di forme di vita su un pianetasia rappresentato dal segnale dell'ossi-geno nella luce rossa visibile riflessadalla superficie. Nel 1993 Sagan ha rife-rito che la sonda Galileo aveva registra-to il caratteristico spettro dell'ossigenonelle lunghezze d'onda rosse della lucevisibile proveniente dalla Terra. In effet-

ti, questa prova dell'esistenza di vita sulnostro pianeta è riconoscibile dallo spa-zio almeno da 500 milioni di anni.

Naturalmente, potrebbe esistere unafonte non biologica di ossigeno su unpianeta disabitato, e quindi è necessarioprendere sempre in considerazione que-sta possibilità. Oltre a ciò, si può pensa-re all'esistenza di forme di vita extrater-restri il cui chimismo non produca ossi-geno. Vi sono tuttavia ottime ragioni perritenere che eventuali forme di vita pre-senti su altri pianeti debbano avere unchimismo simile a quello terrestre. Ilcarbonio è particolarmente adatto al ruo-lo di «mattone» della vita: è molto ab-bondante nell'universo e nessun altroelemento noto può formare la miriade di

sane per la vita come la conosciamo.

I1 nostro pianeta è un ambiente evi-

dentemente favorevole alla vita: l'ac-qua è un solvente ideale e un'abbondan-te fonte di idrogeno per le reazioni bio-chimiche. I pianeti simili alla Terra perdimensioni e distanza dalla loro stellasono quelli su cui è più probabile che sisiano sviluppate forme di vita basate sulcarbonio in altri sistemi planetari, so-prattutto perché su questi mondi potreb-

be esistere acqua allo stato liquido. Ladistanza di un pianeta dalla sua stella nedetermina la temperatura, e in particola-re stabilisce se sia troppo caldo o troppofreddo per avere acqua allo stato liquido.

Non è difficile calcolare la «zona abi-tabile con continuità», ossia l'intervallodi distanze da una stella entro il quale lecondizioni sono adatte allo sviluppo e almantenimento della vita come esiste sul-la Terra. Per una stella grande e calda,25 volte più luminosa del Sole, un ipote-tico pianeta simile alla Terra si trovereb-be a una distanza paragonabile a quelladi Giove dal Sole; viceversa, se la stella

La «firma» infrarossa della vita è rico-solo sulla Terra: sebbene Ve-

nere, la Terra e Marte abbiano un'at-mosfera ricca di anidride carbonica(CO 2), solo la Terra possiede abbondan-te acqua (H20) e ozono (03), una formadi ossigeno normalmente presente nellastratosfera. L'acqua è un ingredientefondamentale per sostenere forme di vi-ta basate sul carbonio; l'ossigeno è unsegno della loro presenza. La radiazioneinfrarossa emessa da pianeti in sistemilontani potrebbe così rivelare l'eventua-le esistenza di mondi simili alla Terra.

( III

CO2

VENERE

TERRA

CO2

MARTE

8 10 14 20

ILUNGHEZZA 'D'ONDA (MICROMETRI)OIIMETR0

FONTE: R. Nane!, Goddard Space Flight Center

=.

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PIANETA

STELLACANCELLATA

nFORMA D'ONDA INVERTITA

Cancellando la luce di una stella si permetterebbe agli astronomi di vedere pianeti de-boli, solitamente coperti dalla luminosità stellare. Due telescopi puntati su una stellapossono annullare gran parte della sua luminosità: uno dei telescopi «inverte» la for-ma d'onda della luce trasformando i picchi in ventri e viceversa (a destra). Quando laluce invertita viene combinata con quella raccolta dal secondo telescopio (a sinistra),le onde interferiscono distruttivamente e l'immagine della stella svanisce (al centro).

STELLA BERSAGLIO

oCO

ASSE DI ROTAZIONE

CO

ooo

è piccola e fredda, 10 volte meno lumi-nosa del Sole, il pianeta orbiterebbe piùo meno alla distanza di Mercurio.

Una distanza appropriata, però, nonsignifica molto se l'attrazione gravita-zionale del pianeta non basta a conser-vare oceani e atmosfera. Se la distanzadalla stella fosse l'unico fattore da con-siderare, anche la Luna avrebbe acquaallo stato liquido. Ma la gravità dipendedalle dimensioni e dalla densità di uncorpo: dato che la Luna è più piccola emeno densa della Terra, la sua attrazio-ne gravitazionale è molto più debole.L'acqua e i gas atmosferici che potreb-bero formarsi su un simile oggetto sfug-girebbero e si perderebbero nello spazio.

Viceversa, un pianeta molto grande,con un'attrazione gravitazionale assaiintensa, può catturare gas dallo spaziocircostante; gli scienziati ritengono cheGiove si sia sviluppato proprio in que-sto modo, accumulando gradualmenteun enorme «guscio» esterno di idroge-no ed elio. Sembra improbabile cheforme di vita simili a quelle che cono-sciamo possano esistere su un pianetagassoso gigante come Giove.

Anche se siamo in grado di specificarein modo piuttosto preciso come dovreb-be essere un pianeta in grado di ospitareesseri viventi, in realtà il solo compito ditrovare un oggetto qualsivoglia in orbita

intorno a una stella lontana è davveroformidabile. Attualmente i metodi mi-gliori per scoprire questi corpi prevedo-no l'osservazione non dei pianeti stessi,ma delle loro stelle. Si devono individua-re lievissime variazioni dell'orbita o del-l'emissione luminosa di una stella che sipossano spiegare solo con la presenza dipianeti. Purtroppo l'osservazione indiret-ta di un pianeta ci dice ben poco sullesue caratteristiche: in effetti, le tecnicheindirette possono rivelare solo massa eposizione di un corpo celeste; stabilire sesia abitabile è fuori discussione.

Chiaramente, occorre una tecnica di-versa, in grado di rivelare caratteri-

stiche specifiche quali le sostanze chimi-che esistenti su un pianeta. Come si èdetto, la radiazione visibile provenienteda un pianeta può confermare la presen-za di molecole - in particolare ossigeno -capaci di sostenere organismi viventi.Ma distinguere i deboli segnali dell'os-sigeno nella luce riflessa da un piccolopianeta facente parte di un sistema sola-re anche relativamente vicino al Sole sa-rebbe straordinariamente difficile.

La luminosità della stella di un pia-neta lontano, infatti, supererebbe quelladel pianeta di un fattore 10 10 : andare acaccia di pianeti può essere quindi dif-ficile quanto cercare di distinguere una

lucciola vicina a un proiettore lumino-so, entrambi posti a migliaia di chilo-metri di distanza. Anche se riuscissimoa individuare la luce riflessa da un pia-neta, eventuali righe dell'ossigeno nelsuo spettro visibile sarebbero deboli enotevolmente difficili da rivelare.

Di fronte a questo problema, nel 1986proponemmo, con Andrew Y. S. Cheng,ora all'Università di Hong Kong, chel'osservazione a lunghezze d'onda piùgrandi di quelle visibili - specificamentenel medio infrarosso - sarebbe stata unmetodo migliore per individuare pianetie cercare forme di vita extraterrestri.Questo tipo di radiazione - che rappre-senta il calore irradiato dal pianeta - hauna lunghezza d'onda da 10 a 20 voltemaggiore di quella della luce visibile. Aqueste lunghezze d'onda, un pianeta e-metterebbe circa 40 volte più fotoni diquanto faccia a lunghezze d'onda piùbrevi, e la stella vicina sarebbe «solo»10 milioni di volte più luminosa del pia-neta: un rapporto 1000 volte più favore-vole di quello offerto dalla luce rossa.

Oltre a ciò, tre composti che dovreb-bero apparire insieme su un pianeta abi-tato - l'ozono, l'anidride carbonica el'acqua - sono facilmente riconoscibilidall'esame dello spettro infrarosso. An-cora una volta, il sistema solare fornisceun precedente che fa ben sperare in que-sta tecnica: lo studio dell'emissione in-frarossa dei pianeti più vicini al Sole ri-vela che, sebbene anche Marte e Venerepossiedano anidride carbonica nell'at-mosfera, solo la Terra mostra la «firma»della presenza di vita sotto forma di ac-qua e ozono in abbondanza.

Che tipo di telescopio occorrerebbeper localizzare pianeti simili alla Terraed evidenziarne le emissioni infrarosse?Alcuni degli attuali strumenti con base aterra possono rivelare l'intensa radiazio-ne infrarossa prodotta dalle stelle; tutta-via il calore emesso dall'atmosfera terre-stre e dal telescopio stesso cancellerebbeogni traccia di un pianeta. Persino l'An-tartide non è fredda a sufficienza perconsentirci di individuare un segnale co-sì debole: il telescopio dovrebbe essereraffreddato ad almeno 50 kelvin. Unproblema più grave è che la radiazioneche attraversa l'atmosfera terrestre è«marcata» proprio dai segnali di ozono,anidride carbonica e acqua che vorrem-mo identificare su un altro pianeta. Unasoluzione ovvia è quindi quella di collo-care il telescopio nello spazio.

Anche in questo caso, per distinguerela radiazione di un pianeta da quella del-la sua stella, un telescopio tradizionaledovrebbe essere molto più grande diqualsiasi strumento costruito fino a oggi.Dato che non si può focalizzare la lucein un punto di dimensioni inferiori allasua lunghezza d'onda, la radiazione pro-veniente da un punto lontano del cielo

può, al meglio, essere focalizzata in unamacchiolina indistinta circondata da undebole alone; anche uno specchio per-fetto non permette di ottenere un'imma-gine telescopica puntiforme. Se l'aloneche circonda la stella si estende oltrel'orbita del pianeta, allora diventa im-possibile riconoscere l'immagine assaipiù debole di quest'ultimo. Se lo spec-chio del telescopio - e di conseguenzaanche l'immagine risultante - è moltogrande, in linea di principio si può otte-nere un'immagine della stella nitida apiacimento, ma per raggiungere nellapratica una simile risoluzione lo stru-mento dovrebbe avere dimensioni tali darendere improponibile il progetto.

Siamo in grado di prevedere le presta-zioni dei telescopi e quindi di conoscerein anticipo la qualità delle immagini cheè possibile attendersi. Per esempio, perrilevare lo spettro infrarosso di un piane-ta simile alla Terra in orbita intorno auna stella a 30 anni luce di distanza, oc-correrebbe un telescopio spaziale di qua-si 60 metri di diametro. Con la tecnolo-gia attuale, il costo di un simile strumen-to sarebbe paragonabile al debito pubbli-co statunitense; e anche astronomi pienidi entusiasmo come noi considererebbe-ro ai limiti dell'impossibile un telescopiodi queste dimensioni.

per mettere a punto un telescopiodi dimensioni più ragionevoli che

consenta di localizzare pianeti piccolie potenzialmente abitabili, è necessarioqualche trucco nella progettazione dellostrumento. Uno stratagemma utile venneproposto 23 anni fa da Ronald N. Bra-cewell della Stanford University, il qua-le dimostrò come si potrebbero adattaredue piccoli telescopi per cercare pianetigrandi e relativamente freddi simili aGiove. Lo strumento da lui immaginatoconsisteva in due telescopi di un metroseparati da una distanza di 20 metri. Dasolo, ciascun telescopio avrebbe fornitoimmagini confuse, che non avrebberomai permesso di distinguere un corpopiccolo e poco luminoso come un piane-ta; combinando opportunamente i duestrumenti, però, l'osservazione di mondilontani diventava possibile.

Bracewell propose di puntare i tele-scopi sulla medesima stella e di invertirele onde luminose raccolte da uno dei te-lescopi, trasformando i picchi delle on-de in ventri e viceversa; la luce così in-vertita doveva poi essere combinata conquella raccolta dal secondo telescopio.Dato che la prima immagine era l'inver-so della seconda, quando le due vengo-no combinate in modo da sovrapporsiesattamente, la luce della stella, compre-so l'alone circostante, viene completa-mente cancellata. (Per il principio diconservazione dell'energia, la luce ov-viamente non sparisce; viene solo avvia-

Un interferometro rotante potrebbe ri-velare l'esistenza di un pianeta in orbitaintorno a una stella lontana. I quattro te-lescopi disposti come mostrato qui sopraprodurrebbero un'immagine compositadel cielo, parzialmente oscurata da nu-merose bande; la stella da «cancellare»dovrebbe essere nascosta da una banda.Mentre lo strumento ruota intorno allalinea che unisce il suo centro con la stel-la, anche le bande scure ruotano. Unpianeta vicino alla stella entrerebbe inuna banda e ne uscirebbe (a-c) ripetu-tamente. Si potrebbe allora analizzarel'intermittenza del segnale per determi-nare la distanza del pianeta dalla stella.

tu in una parte separata del telescopio.)L'interferometro ideato da Bracewell

può «oscurare» una stella solo se la lineadi vista verso quest'ultima è perpendico-lare alla linea che unisce il centro deidue telescopi. In una simile disposizioneentrambi gli strumenti ricevono la stessaconfigurazione di onde luminose dallastella. Se lo strumento viene spostato inmodo da coprire diverse regioni di cielo,le stelle sembrano apparire e sparire aintermittenza via via che assumono operdono il giusto allineamento.

Quando una stella è allineata con l'in-terferometro, però, un pianeta anche re-lativamente vicino a essa non risulta alli-neato. I due telescopi registrano il segna-le del pianeta in istanti leggermente di-versi, cosicché le onde luminose emesseda quest'ultimo non si elidono. Se l'in-terferometro riceve un segnale dopo chel'immagine della stella è stata cancellata,allora nei pressi dell'astro esiste un'altrafonte di radiazione infrarossa: potrebbetrattarsi appunto di un pianeta. Si puòanalizzare il segnale facendo ruotare l'in-terferometro intorno alla congiungente lostrumento con la stella. L'immaginecambia di intensità con la rotazione deldispositivo; un eventuale pianeta dovreb-be presentare uno schema di variazioniben riconoscibile (si veda l'illustrazionein questa pagina).

Dopo aver elaborato il progetto diquesto interferometro, Bracewell si re-se conto che la principale difficoltà nel-l'individuare un pianeta simile a Giovenon sarebbe stata l'intensità della luceemessa dalla vicina stella, ma la cosid-

detta luce zodiacale, che non è altro cheradiazione infrarossa irradiata dalleparticelle di polvere del sistema solare.Il debole segnale di un pianeta lontanosarebbe quasi impercettibile sullo sfon-do di questa radiazione. Per avere an-che una minima speranza di scoprire unpianeta sarebbe necessario mediare dati

Eoooo

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Questa immagine di pianeti lontani, creata inbase a segnali simulati di un interferometro,mostra ciò che gli astronomi potrebbero ragio-nevolmente attendersi di vedere per mezzo diun telescopio con base nello spazio. Questoesempio rappresenta un sistema planetario lon-tano circa 30 anni luce, con quattro pianeti al-l'incirca equivalenti alla Terra per luminosità.(Ogni pianeta compare due volte, una per cia-scun lato della stella.) Gli autori ritengono cheuno strumento dotato di questa sensibilità po-trebbe facilmente esaminare il pianeta scopertodi recente in orbita intorno a 47 Ursae Majoris.

raccolti almeno nell'arco di un mese, inmodo tale da compensare l'effetto dellosfondo luminoso.

Oltre a ciò, quando abbiamo tentatodi adattare il progetto di Bracewell alcompito di individuare pianeti più pic-coli di Giove e situati in orbite più vici-ne alla loro stella, ci siamo trovati difronte a un nuovo problema. Nessun in-terferometro può cancellare la luce stel-lare in maniera perfetta: l'area oscurataè piuttosto piccola e una frazione dellaluce stellare filtra sempre ai margini,costituendo un ostacolo significativo al-la ricerca di pianeti piccoli ed estre-mamente deboli come la Terra.

Per superare queste restrizionidiversi ricercatori - tra i quali gliautori - hanno tentato di escogitarestrategie alternative. Nel 1990 unodi noi (Angel) fece osservare chela disposizione di quattro specchiin una figura a losanga avrebbepermesso di cancellare meglio laluce della stella. Tuttavia, per an-nullare il bagliore di fondo dellaluce zodiacale ciascun telescopioavrebbe dovuto avere un diametrodi otto metri. Alain Léger e colla-boratori dell'Università di Parigifurono i primi a suggerire una so-luzione pratica a questo inconve-niente proponendo di collocare lostrumento in orbita intorno al Sole,più o meno alla distanza di Giove,ossia in una posizione in cui i tele-scopi verrebbero naturalmente raf-freddati a una temperatura appro-priata per minimizzare il disturbodella luce zodiacale. Grazie alla ri-duzione del bagliore di fondo, l'in-terferometro orbitante potrebbe es-sere relativamente piccolo: si po-trebbe costruire uno strumento sen-sibile con quattro telescopi di nonpiù di un metro di diametro. Unsimile strumento avrebbe però uninconveniente significativo: essen-do così efficiente nel cancellare laluce della stella, l'interferometro ri-schierebbe a volte di nascondere an-che un pianeta molto vicino a essa.

Le cose rimasero a questo punto finoal 1995, quando la National Aeronau-tics and Space Administration sollecitòla comunità scientifica affinché propo-nesse linee guida per l'esplorazione dialtri sistemi planetari. La NASA inca-

ricò tre gruppi di studiare metodi perindividuare pianeti di altre stelle. Lanostra équipe comprendeva Bracewell,Léger e il suo collega Jean-Marie Ma-notti dell'Osservatorio di Parigi, non-ché una ventina di altri scienziati e in-gegneri. In particolare, noi due all'Uni-versità dell'Arizona abbiamo studiatole potenzialità di un approccio del tuttonuovo. Abbiamo progettato un interfe-rometro con due coppie di specchi di-sposti in linea retta: ciascuna coppia èin grado di oscurare l'immagine del-la stella, ma la cosa significativa è che

può anche cancellare la luce stellareche filtra dal margine dell'immagineoscurata dall'altra coppia di specchi.

Dato che questo tipo di interferome-tro è così efficace nel cancellare la lucestellare, la sua lunghezza può essere

considerevole, da 50 a 75 metri circa.La dimensione dello strumento offre unvantaggio importante: con questa confi-gurazione i segnali provenienti dai pia-neti risultano complessi e caratteristici.Con un'analisi appropriata possiamoutilizzare i dati forniti dall'interferome-tro per ricostruire l'immagine di un si-stema planetario lontano (si veda l'illu-strazione in questa pagina). Nelle no-stre intenzioni, lo strumento orbitantedovrebbe osservare ogni giorno unastella diversa, ma potrebbe tornare a unsistema interessante per eseguire inda-

gini più approfondite.Se fosse puntato sul sistema sola-

re da una stella vicina, questo inter-ferometro sarebbe in grado di indi-viduare Venere, la Terra, Marte,Giove e Saturno, e l'analisi dei da-ti permetterebbe di determinare lacomposizione dell'atmosfera di cia-scun pianeta. Dal sistema solare, lostrumento potrebbe facilmente stu-diare il pianeta scoperto di recentepresso 47 Ursae Majoris. Cosa an-cor più importante, esso potrebbe

12 identificare pianeti simili alla Ter-▪ ra che altrimenti rischierebbero di

`{n,,,' sfuggirci, nonché valutare se su di8 essi siano presenti anidride carboni-.g ca, acqua e ozono.• La costruzione di un simile stru-'"' mento sarebbe un'impresa estrema-9 mente impegnativa, tale da richiede->5 re forse una collaborazione interna-

zionale, e molti aspetti del progettodevono ancora essere definiti neidettagli. Stimiamo che il costo del-l'interferometro sarebbe inferiore adue miliardi di dollari, pari a circa il10 per cento del budget della NASAper la ricerca spaziale nel prossimodecennio. La scoperta di forme divita su un altro pianeta rappresente-rebbe verosimilmente il coronamen-to dell'esplorazione dello spazio:come ha detto l'amministratore del-la NASA Daniel S. Goldin, «cam-bierebbe ogni cosa; nessun risultatoo pensiero umano resterebbe immu-tato dopo una simile scoperta».

È notevole che la tecnologia capacedi consentire una simile scoperta sia giàdisponibile. Fra non molto dovremmopoter rispondere alla domanda vecchiadi secoli: «La vita sulla Terra è un casounico nell'universo?»

J. ROGER P. ANGEL e NEVILLEJ. WOOLF collaborano da 15 anni nel-la ricerca di metodi per costruire tele-scopi più perfezionati; entrambi lavo-rano allo Steward Observatory dell'U-niversità dell'Arizona.

ANGEL J. R. P., CHENG A. Y. S. e WOOLF N. J., A Space Telescope fot' Infrared Spec-troscopy of Earthlike Planets in «Nature», 322, pp. 341-343, 24 luglio 1986.

ANGEL J. ROGER P., Use of a 16 Meter Telescope to Detect Earthlike Planets inThe Next Generation Space Telescope, a cura di P. Bely e C. J. Burrows, SpaceTelescope Science Institute, Baltimora, 1990.

La vita nell'universo, numero speciale di «Le Scienze» n. 316, dicembre 1994.

34 LE SCIENZE n. 335, luglio 1996