In analisi. Diario di una ribellione

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Si tratta di un diario psicoanalitico, che risente di una impostazione lacaniana. L’autrice esprime un rapporto conflittuale nei riguardi di questa chiave di lettura dell’individuo, perché, mentre scandaglia con la ragione, non può non avvertire un istintivo desiderio di ricerca leopardiana del sentimento, prerogativa di ciascun essere umano, specie femminile. Il diario racconta la vita di una tal Giulia che, piuttosto che farsi pubblicare un diario come Zeno Cosini dal suo psicoanalista, decide di trovare un editore che lo pubblichi. Sottesa è la ricerca di un’idea di libertà dai vincoli del passato e la proiezione in un futuro di benessere in cui l’unico farmaco è l’amore, che come un balsamo ristora l’anima di Giulia. Si avverte pungente l’idea di un riscatto e di una ricerca mai spenta del senso della vita, da ricercarsi nelle radici della storia dell’uomo.

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A Tu per Tu

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Giovanna Albi

In analisi

Diario di una ribellione

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A mio fi glio

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Prima Edizione: 2014

ISBN 9788898037346

© 2014 Edizioni Psiconline - Francavilla al MarePsiconline® Srl66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/ATel. 085 817699 - Fax 085 9432764Sito web: www.edizioni-psiconline.ite-mail: [email protected]

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Finito di stampare nel mese di Febbraio 2014 in Italia da Grafi che del Liri srl - Terracina (LT) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl)

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Indice

Introduzione

5 dicembre6 dicembre7 dicembre8 dicembre9 dicembre10 dicembre11 dicembre12 dicembre16 dicembre18 dicembre19 dicembre21 dicembre22 dicembre23 dicembre24 dicembre26 dicembre

5 gennaio15 gennaio17 gennaio19 gennaio22 gennaio

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Un compleanno ancora da festeggiare

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Introduzione

Vi presento il diario di un una donna qualunque con un’e-sistenza ordinaria, dietro e sotto la quale si agita un’antica inquietudine interpretata sul lettino di uno psicoanalista la-caniano. Alla fi ne dell’analisi la donna non può dirsi guarita, ma alle complicazioni della sua psiche si aggiungono le for-zature di un linguaggio che, pur nel chiarire, non può racchiu-dere il senso della sua esistenza. Lo stesso Freud ha parlato del mondo femminile come di un’enigma che non si lascia interpretare e la rigidezza formale e strutturale del pensie-ro lacaniano non consente di esprimere l’esuberanza di una dimensione sempre nuova, quella di una donna che avverte dentro di sé un’anima in perenne movimento, che paragona con contenuta invidia alla misuratezza del marito dentro una struttura consistente e aderente al ruolo che si è scelto.

La donna, al contrario, avverte il peso del suo passato con il quale struttura un rapporto melanconico e subisce l’ina-deguatezza della lingua a tradurre la consistenza del dolore che le è sembrato di aver vissuto negli anni lontani della sua infanzia, i cui meccanismi perdurano nella sua psiche. Intra-vede una via d’uscita nel matrimonio, nel parto e nel trasferi-mento in una terra che le è cara, l’Umbria.

Qui la vita le appare più sopportabile e comprende che la sua soluzione consiste nell’accettazione della vita stessa che non si lascia imbrigliare entro categorie razionali; non

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rinnega il percorso analitico, ma l’età più matura le consen-te di capire che l’analisi è solo un’interpretazione della vita, ma la vera partita la si gioca non sul lettino di un freddo e distaccato analista, ma a contatto con il magma incandescen-te della sua umanità che si rifl ette e si integra con il mondo esterno, popolato di fi gure femminile che l’accompagnano nel viaggio di crescita personale. Nel corso di tale esperienza accetta lo scarto tra signifi cante e signifi cato come la cifra comune della condizione umana e sposta l’attenzione dalla parola analitica alla verità del cuore che giace sotto tutte le stratifi cazioni della coscienza e che le si rileva in una sor-ta di agnizione personale in cui riconosce la sua dimensione più autentica. Si tratta del viaggio doloroso di un’anima alla ricerca di se stessa che non si trova se non nell’accettazione della precarietà della condizione umana, che la sospinge a rinnegare il dogma per sentire la spinta che porta verso la cognizione del dolore e della gioia di un qualunque essere umano, ma su tutto trionfa l’amore come l’unico farmaco che promana dalla stessa anima del mondo.

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5 Dicembre

Mentre scrive più per gli altri che per sé riconosce il suo limite più vistoso: la sfi ducia, la negazione della sua perso-na che gli altri le riconoscono, il subliminale che la incatena mentre le parole lo trascendono.

Rimane sospesa a contemplare la difesa della sua incomu-nicabilità e aspetta che la parola non giocata arrivi a liberarla. È disumano trovare la parola del padre che non c’è, che non c’è mai stato. Cambi i connotati al tempo... e speri che non si accorga del trucco mentre il silenzio concentrato dell’altro ti ridà l’illusione di uno scambio di prigionieri tanto volentero-so quanto insano.

Guardi allora la rifl essione dell’altro, ti vesti di lui per ac-corgerti poi della non coincidenza delle taglie, dello sguar-do, delle rughe, del portamento: riconosce allora un uomo, il suo uomo, e non l’uccide il matrimonio piccolo borghese nel quale ha nidifi cato, ma il non voler morire per esso. Intanto un po’ di tempo è passato e si ritrova a fare i conti con i ladri della sua autenticità, mentre dispiegherebbe ben più volentie-ri la sua volontà di esule che non vuole naufragare.

La vita non è quella che noi viviamo, ma quella che rac-contiamo, e allora anche per Giulia è tempo di menzogna ar-tisticamente costruita: lei ha sempre creduto che la verità e la volontà, unite al sacro valore dell’amore e dell’amicizia, le avrebbero dato la vita. Ancora trattiene l’emozione del primo

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incontro col medico della parola, mentre sognava la ricerca di un raffi nato equilibrio, mentre incauta si andava a segnare della malattia più grave: usare l’intelletto a danno del cuore, arrovellarsi nella forma più scaltrita e soffocare il sentimento più spontaneo. Ditecelo, medici della parola, e ditecelo una volta per tutte che il vostro è un imbroglio elegante, che il tempo è vuoto e volete riempircelo dei vostri dogmi e delle vostre partizioni, che non si guarisce usando gli stessi stru-menti che ci hanno fatto cadere in malattia. Che nel dinami-smo della natura c’è più verità di quanto ce ne sia sui lettini che piangono il sangue delle colpe non nostre, ma che porta-no i segni delle parole che non volevamo pronunciare, ma che voi, genitori, parenti, maestri e professori ci avete ispirato per poi ritrattare al momento del bisogno. Giulia stava per scrive-re “sogno”, ma questa volta non ha paura: non si lascerà più imbrogliare, non chiederà all’esperto la relazione speculare? Inversa? Tra sogno e bisogno, perché vuole vivere tra sogno e bisogno, senza indagini, senza passato, senza complessi, nel sogno-bisogno di una vita senza defi nizioni, senza eguali, senza modelli, nella libertà di ritrovare quel corpo atletico e non proprio di donna fatale che è suo, tutto suo, permeato da un pensiero che le è innato, precedente alle seduzioni di cui hanno abusato, ignari dei danni che le avrebbero provocato.

Mentre scrive, chiude gli occhi e vede se ha vuotato il sac-co, se veramente è lei a pronunciare queste parole di sfi da, se riesce davvero a mettere su carta la parola originaria e libera che non è del padre che non ha mai avuto, che verrà fi sica-mente a trovarla tra breve, mentre lei vorrebbe volare libera senza ritorno nella prigione del non-essere dove l’hanno co-stretta, negandole un’identità che era già data. Perché non ci lasciate liberi di essere e di incontrare il nostro amore quando

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esso affi ora nell’anima? Perché non ci lasciate raccontare le nostre menzogne che gli altri hanno a disposizione? Perché ci fermate quando dovremmo agire? Perché ci oscurate il de-siderio? Di qui riparte la ricerca, sempre la stessa, quella che mena alla via del desiderio da ritrovare perché ha perso la strada inciampata dalla menzogna. Il desiderio di una donna sta nel suo grembo fi n dalla nascita, le sue mucose si aprono e si chiudono pronte ed esercitate ad accogliere; da anni ac-cogliamo ciò che non è nostro e con palpito sempre rinnovato ci sentiamo maestre nel fare dell’uomo quell’abile artigiano della vita che egli è, e poi ci ritroviamo a interrogarci sulla nostra sessualità come se fosse il congegno più elaborato e artifi cioso che ci sia, perché da bambine ci hanno ostacola-to il percorso e da adulte ci sembra di non poter essere ciò che con molta naturalezza già siamo. Cosa è più femmina, più calda, più accogliente della nostra stessa natura, cosa più sublime del nostro stesso respiro? L’energia di una donna è l’energia stessa, cui gli uomini attingono per ridarla in una forma apparentemente più bella, ma semplicemente più fun-zionante.

Giulia, un caso clinico semplice, dicono gli esperti, una donna affascinante e atipica, energica e fattiva, con una sacca di complesso materno facile da smascherare con le parole. Ora si ferma a rifl ettere, le è così diffi cile questa operazione quando l’ingorgo non lascia scorrere il tempo, quando l’acca-nimento di un indagine mal riposta ferma il pensiero sul già fatto, pensato. Ora si sente più libera ma con la sensazione di sempre: quella di non ritrovarsi nel sintomo che l’ha stret-ta ad una depressione di anni, in una sorta di segregazione forzata; sa che qualcosa ha rotto un equilibrio, ma un quid inconsistente e pur capace di stroncare la carriera dell’alun-

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na prodigio e della donna organizzata e razionale. Mio Dio, chi ci garantirà la verità e chi ci libererà dalla menzogna? I nostri stessi ricordi sono così cangianti e fuorvianti, il nostro vissuto così simile ad una condizione di non vita in cui tutto è fermo nell’apparente movimento.

L’elaborazione del passato è una delle invenzioni più disgustose dell’uomo: mentre tu elabori, l’altro, l’amico, il marito, l’amante, ti guarda e ti coglie nell’insipienza di una cieca e illusoria volontà; tu gli chiedi tempo per te mentre ne sottrai proprio a te stesso. Esattamente da questa emergenza di liberarsi nasce la necessità dello scacco, si cade entro una prigione proprio per il desiderio di essere liberi, si cerca una soluzione mentre la stessa vita lo è. La vita non è divisibile: essa fl uisce, con essa il nostro corpo, l’intelletto, il cuore... meno male che non possiamo tenere sotto controllo i nostri organi interni; se noi sapessimo a che ora e con quali moda-lità il fegato secerne, lo terremmo sotto controllo per saperne qualcosa di più. Il cervello è la nostra parte più alta, il nostro cielo, dicevano gli antichi, e lì si concentrano tutte le nostre attenzioni. Ora lei sposta la sua attenzione e gli occhi chiusi non osservano le stratifi cazioni della sua coscienza perché un generale sano torpore si diffonde con il respiro. Da qui bisogna allora ripartire: i suoi sensi sono attivi all’unisono e la coscienza indivisa coglie la gioia di esserci anche oggi, per come può... e non è poco. Riconosce il suo intelletto e l’en-nesima creazione, che questa volta non cestinerà, nonostante l’intermittente qualità, perché scrive più per promessa che per sfi da. Sottoposte al peso del dovere, le anime femminili poco producono e molto si dolgono del loro destino; quando si promette e si lavora per questo il tempo scorre più leggero e l’anima sembra meno pesante; si dimentica il problema, si

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nega tranquillamente la sua esistenza, si dubita che sia qual-che volta esistito, si attende con meno ansia il tramonto, la mano scorre veloce sulla tastiera e l’aria della camera è an-cora così tersa. Già, le sigarette! Non ha fumato oggi pome-riggio, non ha curato il vizio che vincola la pulsione o l’ha appagato in altra forma.

Quanta noia la sopravanza con questa lingua che pone al di fuori del tempo per il quale ben altre parole sorgono spon-tanee, mentre vorrebbe ingurgitare una dose di fi ori di Bach, di quella stella di Betlemme che cancella i traumi dalla nasci-ta a oggi. L’esito dell’operazione è certo e questa volta non di natura sapientemente psichica: non si tratta di rovesciare con la forza del dolorante intelletto le due facce del guanto che non tornano mai; è una forma di affi damento che si compie con la scrittura di una vita che non ha mai capito.

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6 Dicembre

La sua vita... che qui si consuma mentre aspetta con ansia il nuovo incontro, semplicemente quello del pomeriggio, con una amica che potrà ridarle un’immagine più vera di quel-la cianciata sui libri che legge in atteggiamento sempre così malamente recettivo. Si compie la rinuncia alle illusioni pul-sionali: le pulsioni sono il grande mito dell’uomo o di certi uomini che studiano la vita perché non hanno ancora il corag-gio di viverla. Mentre il tempo ci si sottrae non capiamo mai abbastanza con quanta arroganza lo stiamo trattenendo, men-tre i lobi frontali ci premono perché non vogliono il gioco che noi imponiamo. Il gioco e il giogo... è vera questa assonanza; giochiamo e ci aggioghiamo, ci sottomettiamo alle legge di chi non ci conosce per pensare dove non siamo, mentre siamo esattamente lì dove non pensiamo, perché non abbiamo mai pensato di esserci. Lo sguardo distratto cade su quelle scarpe da corsa che per anni non ha calzato inseguendo modelli non suoi : “quella che non sei... non sei... quella che non sei non sarai”. Ha ancora bisogno di pensieri adolescenti, si guarda allo specchio e osserva la ruga dell’intelletto, quell’intaglio in mezzo alla fronte con cui ha sedotto gli uomini imbarazza-ti e attratti da quel mistero pensoso e pensante che ha lasciato segni ben più evidenti nell’anima ribelle. Non vuole essere sottoposta; ha combattuto per la sua libertà e, provvisoria-mente tramontati gli ideali politici di cui si è nutrita la giovi-

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nezza, sa che sta parlando solo della sua libertà, quella vera, personale che da qualche parte le hanno rubato. Quando ci addentriamo in un’analisi solo un po’ più profonda, il dolo-re si compie; se rifl ettessimo su queste parole non sarebbero nemmeno più nostre: la vivisezione del pensiero non è pen-siero, come non è parola la sua partizione. Maledetti gli studi classici e l’esegesi del testo, corriamo sul testo, sul nostro e sull’altrui! Così ci salviamo la pelle e il discorrere è correre, mentre scegliamo col cuore Platone e come carcerati ci po-niamo al piede la palla di Aristotele. Aristotele Giulia l’ha sempre odiato, ha sbadigliato impunemente nell’osservare la bocca dell’insegnante idiota che vomitava le sue categorie e poi, quando con la testa pesante sul divano aristotelicamente elucubrava, fi n troppo le è sfuggita la ribellione dell’anima. Per anni ha letto e pensato, è intervenuta criticamente sulla lettura del testo x e y, ha esercitato il pensiero e non ha mai capito abbastanza quanto tormento infl iggeva alla sua parte più viscerale. È tutto solo questione di prospettiva: quanto è più nobile e vera questa postura eretta che la tiene inchiodata alla sedia dinanzi alla testiera e quante sono queste cose da dire! «Bisogna parlare di cose e non di persone»: ritornano come un’ossessione le parole del padre, di quello reale e non costruito inseguendo il mito dell’intelletto; suo padre l’ha odiato e le ragioni traboccano, ma in questo, solo in questo, egli è sensato. Giulia non l’ha mai colto a parlare di persone, ma solo di cose, cose delle persone, certo, ma di cose... la tolleranza (che egli non ha) la sapienza, il dovere, l’ideale, il tempo, la fi losofi a... Questo è assolutamente giusto perché vero: senza assegnamento sulle persone conosci e rubi le loro cose, la ragione allora non è di Kant, lo specchio non è di Lacan, il cogito non è di Cartesio... ma tutto favorisce l’attac-

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camento a te, solo a te, in cui tutto questo si fonda e si fonde.Hai ragione tu, sempre e solo tu, non ti sottoponi al pen-

siero dell’altro, ma produci il tuo pensiero e questa volta non potrai dubitare, e non perché l’hai messo su carta, ma per-ché hai avvertito davvero le parole volare, non solo nel senso che arriveranno da qualcuno diverso da te, ma perché le hai sentite circolare dentro di te, correre lungo la tua corteccia celebrale, dalle mani lungo la schiena e sai che diventeranno amore e solo amore. Tutto si fa per amore, amore di sé, amo-re dell’altro e oggi io mi sto prendendo cura di me, perché quando l’uomo, oggi la donna, non riesce ad amare non può non cadere in malattia. Ora posso cestinare lo straniamento, mi posso rivelare, anche se so che soffrirò, sì, lo sento, da qualche parte io soffrirò.

Come è leggero parlare in terza persona, parli di te, ma non sei, e tu sei identifi cata con le tue mani; o mio Dio, forse tu davvero esisti, quando consenti questa essenziale identifi -cazione con le mie mani, che bello! Non sento il mio pensie-ro, non sento la pressione del lobo frontale sinistro, sempre pronto a contenere i miei? Contenuti viscerali. L’ultimo ag-gettivo mi spezza la lingua: sul contenente c’è intesa, anima, essere, categorie a priori... biologico etc., difetta sempre l’o-pera dell’uomo. Anzitutto sta in una catena, ne è fi glio e arte-fi ce, razionalmente ci siamo: è solo questione di buon gusto...

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7 Dicembre

Ho sempre creduto che la vita ha un senso, da piccola lo credevo nelle azioni del quotidiano e la sera verifi cavo la qualità del mio prodotto ripassandolo nella mente; questo gusto per la perlustrazione non mi procura più l’antico pia-cere; dovrei essere più sbrigativa e dedicare a questa opera-zione non più tempo di quello impiegato per l’igiene orale. Bisogna tenere ben chiara la distinzione: sbaglio spesso nel pensiero, ora sto dubitando di me, dei miei affetti... sarà la stanchezza, ma la mia anima è qui: non mi appartiene, mi è semplicemente attaccata da sempre. Gli accidenti non posso-no comprometterne la plasticità, ella aderisce alla realtà, ma non vi si attacca.

Oggi ha aderito in modo meraviglioso: ha parlato mera-vigliosamente bene e non ha pensato nulla di forzatamente razionale; la mia anima adora la frequentazione delle donne, si rispecchia perfettamente in esse, desidera che nulla di este-riore si sovrapponga nella comunicazione. Se io sono esatta-mente la donna che mi sta di fronte, se nulla del suo corpo conquista la mia invidia, io sono tutta nel mio interiore ori-ginario e il momento di ora riassorbe tutta la mia coscienza e con lei il mio intelletto.

Schizzano dal mio cervello i pensieri e mi vedo rifl es-sa nella dilatazione di un sorriso spontaneo; i miei neuroni sembrano rarefarsi... forse stasera faremo l’amore e in un ab-

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braccio prolungato l’assenza di parole verrà a riassorbire le esperienze di una vita che non è esattamente la somma degli eventi vissuti, ma della capacità di tacerli. La stanchezza è complice della coppia: si avverte la pesantezza dei corpi e la leggerezza dei rispettivi cieli. E tutto sempre questione di prospettiva e di buon gusto: non abbiamo inventato nulla e, laddove pensavamo di inventare, dobbiamo ripercorrere a ri-troso la via e, come l’oca di fronte allo sbaglio, ripetiamo le mosse e, se l’abilità non ci soccorre, fi niamo col morire per una causa che solo per caso ci è appartenuta. Attraversiamo la vita cercandone un senso e qui sta il problema: nella ricer-ca stessa ci perdiamo; se teniamo di mira l’inizio e a questo ci adeguiamo senza soccombere, con meno dolore all’inizio torneremo. Natura e cultura: un antico dilemma con un im-perdonabile errore di impostazione. Per certezze acquisite rendiamo onore alla cultura e la ringraziamo per la nobile occupazione di trasformare l’animale in uomo e, quando l’uomo non ci soddisfa, dentro la cultura ne cerchiamo una qualche logica spiegazione. Non a caso lo sforzo è disuma-no e l’appagamento minimo e allora abbiamo colto solo una parte di verità.

Forse è solo ingratitudine quella della giovane donna (complice è lo straniamento quando il terreno scotta): oggi la sua vita affettiva, relazionale, lavorativa e bla bla corre sui binari dello stato per Freud, Lacan, Klein e quant’altri. Sì, ma l’atto di fede con cui ha superato le sue stesse parole non c’è scienza che possa ospitarlo. Tutti viviamo per fede e vedo uo-mini parlare di sé in straordinaria incoscienza; il porsi dinan-zi agli occhi lo psichico già ti complica e lo sforzo della fede si centuplica. Il metafi sico si abbassa allo psichico a patto che questo sia armonia degli opposti riassorbiti nella dialettica...

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che sforzo per un povero uomo. Allora affi diamoci almeno per questa sera: inequivocabile il silenzio della stanza di sot-to... mio marito riposa, perché la sua giornata come sempre viene a coincidere con le sue azioni; mi chiedo: se facessi altrettanto, cadrebbe forse un progetto esistenziale?

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8 Dicembre

...Seduta sul divano, le braccia abbandonate, la testa con pensieri diversi; sta arrivando il Natale e non con la solita angoscia alza la cornetta e arriva da sua madre. I suoi vecchi staranno ancora dormendo, non hanno mai mutato il loro ab-bandono notturno, e lei camminava nella camera accanto e sentiva da qualche parte che loro centravano qualcosa.

Qualcosa, qualcuno... qualche... quanto può essere ine-spressiva una lingua quando non sai valicare il signifi cato originario. Tante le parole, le strette di mano, i sorrisi imbe-cilli, gli abbracci del conforto, ma in quel signifi cante, quello e solo quello, il pensiero si contorce nel lamento dell’ipocon-driaco.

La madre la rimanda a questo giorno ancora da vivere con la nuda praticità della donna semplice come lei, sua madre e sua nonna. Ricorda le sue rughe, tutte irregolari, ognuna il segno di un percorso compiuto, eppure ha ancora qualcosa da dire; trattiene un’emozione, le legge le ultime sue rifl essione e la fi ducia di lei la trascende tutta intera. Ora la madre non ricorda nulla del suo passato, la memoria è breve, brevissima, piange per la sua fragilità, sente l’indifferenza che la riporta alla nascita, ma c’è ancora c’è, esiste e tra breve verrà a tro-varla.

Ad una certa età i rapporti si rovesciano e la vecchiaia vista dalla giovinezza avanzata appiattisce le distanze: chiun-

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que è lì, in quella stanchezza indifferenziata, e la vita ti passa dinanzi agli occhi con quella lentezza che hai visto anche in tua nonna, malata terminale di cancro. Allora avresti fat-to di tutto per accellerarle il passo, le reazioni, per risentirla sfogare l’isteria congenita nella razza. Oggi a quarant’anni apprezza la lentezza,vuole aderire all’oggetto, l’incedere len-to favorisce una particolare levità della persona; l’ha amata troppo e ha saldato tutto il debito; a sua volta sposa, ha avver-tito la spinta inequivocabile della procreazione, ha riassunto il posto che le spettava, dal quale l’assenza del padre l’aveva scacciata. Ha pagato tutto e si sente leggera. Il dito in bocca e il fare interrogativo e un po’ idiota: le stesse domande e stesse risposte... bene cambiamo l’impostazione

La domanda d’analisi era sbagliata, il terapeuta l’aveva riposizionata; ma quando tutto stancamente si esaurisce... a proposito, ho scoperto che non ho mai avuto un esaurimento nervoso, che meraviglia! Le cellule cerebrali non si esauri-scono mai, caso mai cambiano di posizione e si legano come tu non vorresti e allora sciogliamo e rileghiamo. La vita è una rapsodia... e spero che nessuno si accorga che sto cambiando le carte in tavola: ora gioco io e glielo dico che non gli ho mai creduto. Chi mi avrebbe sedotta? Mia madre e mia zia, po-vere donne! Un po’ di archeologia ora non darà certo fastidio alla mia attuale creativa posizione nel mondo: Roma, agosto 1968, la televisione manda in onda Mennea, il mito delle sue scarpe da corsa appena acquistate dietro un’insistenza spro-porzionata al costo e alle risorse economiche della benestante famiglia nata e cresciuta in provincia. Mennea ha vinto e chi ne avrebbe dubitato... gli occhi sono lucidi per la commozio-ne e la zia le rimbocca le coperte per la notte come sua madre non ha mai fatto, nemmeno nei momenti più diffi cili. L’in-

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sonnia arriva inaspettata e con essa un’inquietudine nuova e sproporzionata all’età della bambina. L’onirico a occhi aperti lavorerà per lei e si piazzerà in quella scomoda posizione da cui sarebbe stato snidato con il lavoro di anni. Contrae i lobi e si sforza di non pensare, ma il misfatto è già compiuto e deve pagare per questo? Sì, deve ancora pagare oggi dopo il tanto navigare in avanti e indietro con una traiettoria non sempre lineare: ha appena discusso con il marito e non ha tutte le colpe, ma l’inquietudine non è di oggi, è storica, le inciampa il quotidiano. Non sempre ci sa fare con i suoi sintomi: li deride quando li avverte inoffensivi e li teme quando per sua volontà risultano amplifi cati. Che barba questi giochi infan-tili e come cozzano con lo spirito libero e intraprendente con cui ha salutato la nuova giornata disposta a riappacifi carsi.

Ieri leggevo in classe il celebre passo di Omero “Nessuno mi fa male! Gli alunni sghignazzavano per l’inavvedutezza del gigante e io li guardavo inebetita con inconfessata invidia e nessuno di loro capiva e credo non capirà ( nessun esperto vi è fi nora arrivato) che nel testo dell’enciclopedica sapienza, nell’apparente derisione dell’idiota, si insegna una verità do-lorosa “nessuno ci fa male, ma il male c’è e opera dentro di noi, mentre dormiamo o sogniamo ad occhi aperti”. L’idiota dell’Odissea è autolesionista esattamente come un uomo. Il sintomo è nell’inconscio, ma è l’io ad attivarlo, lui è il vero sintomo, il sintomo è il mio dharma.

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9 Dicembre

Solito tran tran... mi alzo alle sette, verifi co ancora la scel-ta legata ad un incontro casuale sulle scale scalcinate di una vecchia scuola di periferia. Era stata da poco abbandonata da un ingegnere su cui aveva concentrato tutte le sue attenzioni amorose. Disfatta da una notte insonne, i capelli scarmigliati e gli abiti discinti... intravede l’uomo della sua vita. Sempli-ce, poco manieroso, essenziale nel portamento, il sorriso ado-lescenziale e lo sguardo limpido. Sì, credo che proprio quella trasparenza degli occhi mi abbia fatto capire l’altra faccia di una verità troppo ricercata: la vita può essere semplice e la gioia è dentro di noi... dobbiamo avere il coraggio di pren-derla in mano. A tredici anni di distanza lo stesso sorriso, la stessa dedizione, la stessa essenziale manualità dell’ope-ra... poche le parole e sempre sussurrate all’orecchio come da rubare. Tante le ragioni che mi tengono legata, che dico, avvinghiata a lui; ne ho maledettamente bisogno, è il legame con la Terra e non quella dimensionata che mi ha generata nei lontani anni sessanta (fa bene prendere distanza dall’even-to), ma la Terra a cui voglio forsennatamente ritornare non nell’altra ma esattamente in questa vita. Il punto di vista... è tutto questione di punti di vista e non voglio ricorrere alle acrobazie fi losofi che... se fai scorrere il dito lungo il foglio, credi di vedere un dito, ma poi... sarà cosi? Parlo di un altro punto di vista, uno vero reale, incarnato in una persona che

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conosco poco, ma delle cui qualità è piena la mia intuizione femminile. Siede accanto, è tutto così casuale... un pomerig-gio più rigido del solito... ci sarà forse la neve? Due parole, uno scambio di rifl essioni, un salto a casa mia e la giornata è tutta diversa. Il bambino si sta chiedendo da giorni cosa mai stia capitando alla sua mamma, anche oggi così poco attenta.

“Semplifi cati fanciulla!” e non è la prima persona che lo dice.

La semplicità è logicamente complessa... ed è la meno a portata di mano. Pensa come un Dio ma parla come un uomo... il nemico Aristotele è tornato ad ammansire la bestia che c’è. Il fi losofo ha sempre ragione: nella semplicità c’è tutta la qualità della sintesi.

Ora diciassette: il tè... dimenticavo le regole dell’ospitali-tà... ho sempre vergogna a servire qualcosa a tavola; mi sarà mancato il modello? Al diavolo tutti i manuali, la famiglia ideale, il padre bonario e saggio, la madre amorosa e il fi glio disciplinato! Abbassiamo gli occhi... cercavamo la verità, sì o no? La verità sta sotto, il tè è il tè e il modello... il modello: che geni questi cinesi!

Ho accompagnato la mia amica alla stazione: ho avuto la netta impressione che alla fi ne si sia annoiata, o forse era imbarazzata sentendosi coinvolta. Credo che stia per nevi-care; tornando a casa pensavo alla forza del biologico, del contenente... la fi losofi a è fi losofi a ma il freddo è freddo. Due caldarroste e un goccio di vino... un tempo mi sembrava tut-to così semplice: sveglia alle sette, un saluto ai genitori (a prescindere dell’accaduto) una corsa a scuola sottocasa, at-tenzione, concentrazione, distrazione, brevi innamoramenti... e tutto il giorno così: sopportavi e vivevi tutto in apparente incoscienza. O mio tempo torna... il tempo ritrovato è più

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apprezzabile di quello perso, ma la ricerca mi ti allontana; la naturalezza non c’è più, vedo quel che non c’è e non so quel che c’è. Torniamo al visibile: viso concentrato ma ru-ghe distese, sorriso allargato e cuore in subbuglio; troppi progetti ma il passato è risibile... è ricordare qualcosa che non è mai accaduto. Guardo il bicchiere d’acqua accanto alla mia mano... è il passato e in esso mi sto perdendo. Mi perdo nella mia struttura mentale: io parlo, scrivo, ragiono, amo, sento la mia materia psichica consumarsi e mi chiedo come essa lavori. I confl itti antichi sono stati verbalizzati: quando l’immaginario diventa simbolico... beh, allora! Allora perché non ridi? Analisi terminabile e interminabile: sarà questo il problema? “Bell’amore bell’amore fatti cantare...” sulle note di De Gregori il tempo passa e non mi fa male, è un viaggio all’indietro: gli anni dell’adolescenza indolore, mi guardavo allo specchio... tutto così facile e no, non può durare così. Dov’era il male? Non lo sentivo dentro, ma fuori e solo fuori, la vita in famiglia era semplicemente disastrosa, le liti dei genitori, il fratello aggressivo e un po’ schizzato, la sorella dolce e disponibile mi stringeva le trecce nei fi occhi. Le notti a giocare con l’amore, i primi brividi del desiderio inconfes-sato, le scritte sui muri e le note di Guccini, su tutto vinceva l’impegno tenace e il mito del primato. Non volevo perdere e non lo voglio: ho sempre voluto vincere senza soffrire. L’as-salto del dolore, la paura dell’intelletto... la grande scoperta: io leggo e sono il mio libro, piango... il mio pianto, rido... il mio riso... e la verità, dov’è la verità? Il sogno dell’amore da consumare, ma il treno, il treno è perso: una vita a rincorrer-lo, a riprenderlo e non in quella fermata in cui ti era schizzato via tra le beghe di una famiglia. E la qualità sta lì nell’essere da sempre dove l’hai lasciata sempre identica a se stessa. In-

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dividuo... io, io qui e ora non ti divido, ti voglio tutto, tutto intero qui accanto, vero e intangibile come sempre.

Squilli prolungati al telefono, la totale disattenzione di sempre, la marea dei pensieri. La voce di Paola: io e Paola abbiamo punti di straordinaria somiglianza, fi tte di inquietu-dine in equilibrio, in caso di dubbio il dogma... interventismo a ogni costo, ma sarà poi così, per il momento stringiamoci.

L’intimo ci sta attaccato, ma non sembra appartenerci, cambiamo partner, gioco, fantasia, ma io voglio la parte inva-riabile del ricordo... è quella che abbraccio. E stanotte come starà? “Bell’amore bell’amore non mi lasciare...”

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10 Dicembre

Finalmente a casa e la giornata è stata particolarmente dura... che fatica. Nel raccogliermi giro la chiave e abbozzo il pensiero più semplice. Come mi stanca questa mediazione tra i miei funambolismi e la trasparenza di mio marito, ma lui mi tiene legata e mi traghetta e non mi lascia affogare. Ma-ledizione! Il mio sguardo sul testo di intelligenza emotiva... cerco la distrazione del sorriso di Luca... mi salvo e ricado; la curiosità è voyerismo mancato... meglio così. La testa gira... le sinapsi si legano e si slegano: l’emozione... che bella illu-sione... eppure sento una gioia dentro, non è che sto diven-tando felice? Sarà la stanchezza, ma tutto è così ovattato e le asperità si riassorbono: intelletto, volontà e coscienza unite nella vacuità del pensiero.

La tavola apparecchiata, la cucina in ordine, le note di Battiato....

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