Imp cioran corretto 17 settembre

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Emil Cioran Sulla Francia LIBRI PICCOLI VOLAND•33

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Emil CioranSulla Francia

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Emil CioranSulla Franciacura e traduzione di Giovanni Rotiroti

Voland

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Titolo originale: De la France© Editions de l’HERNE, 2009Published by arrangement with Agence litteraire Pierre Astier & AssociésALL RIGHTS RESERVED

© dell’edizione italianaVoland Srl Roma 2014

Tutti i diritti riservati

Prima edizione: settembre 2014

ISBN 978-88-6243-164-4

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LA CONVERSIONE DI CIORAN SULLA VIA DELLA FRANCIA AL TRAMONTO

di Giovanni Rotiroti

Siamo un popolo troppo buono, troppo onesto,troppo per bene. Io posso solamente amare una Ro-mania in delirio. Tutti coloro che non amano così tanto il popoloromeno quanto lo amo io – poiché non hanno acuore il suo futuro – sostengono che la qualità es-senziale e il grande merito del romeno sia l’uma-nità. Non voglio dire che essa sia un difetto, mami è impossibile scoprirvi altra cosa che non siauna virtù mediocre, che non possa essere un cul-mine se non per uomini privi di personalità. Inun mondo in cui solo l’eccesso del cuore e dell’in-telligenza, la frenesia e il calcolo equivoco, i fortiistinti e l’ipocrisia possono favorire l’elevazione,a cosa ci servirebbe una così grande bontà collet-tiva? Che cos’è l’umanità? Dare all’uomo ciò che ap-partiene all’uomo. Alla mia sete di conflitti, nelmondo delle apparenze, non riesco a trovare unaparola contraria più detestabile se non questaumanità. Se potessi augurare alla Romania di vi-vere in pace e al fresco, sarei contento anch’io

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della nostra umanità e mi assocerei con un elogioaccomodante e piatto. Ma è meglio una rovinacon brio piuttosto che un benessere insignifi-cante. Chi non vive in modo apocalittico il destinodella Romania non capisce niente di ciò che dob-biamo diventare. Ognuno di noi dovrebbe lace-rarsi le carni sull’imperativo del nostro divenire.Quando si dirà che l’ardore e non l’umanità è laqualità essenziale e privilegiata della Romania, in-crocerò le braccia e aspetterò di scivolare automa-ticamente con essa verso la gloria. Che vengano lapassione, il fuoco, lo slancio e persino il terrore...La Francia è opera dell’entusiasmo molto più chedel razionalismo o del classicismo. D’altronde, lapassione cieca per la logica le è servita di più della lo-gica stessa.1

Questo brano di Emil Cioran si trova nel suo libro del1936 La Trasfigurazione della Romania, ripubblicato nel1941 sempre a Bucarest.

Nello spazio di pochi anni, una volta che si sarà de-finitivamente stabilito a Parigi il pensatore di Răşinaricambierà radicalmente idea a proposito della Francia.Nel 1941 – tempo in cui Cioran redige a matita i suoipensieri sparsi in queste pagine intitolate Despre Franţa– le armate tedesche, che hanno sfilato prima sugli

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Champs-Élysées per poi risalire il boulevard Saint-Mi-chel, hanno già occupato la città che lo ospita.

Cioran era arrivato a Parigi ufficialmente in borsadi studio nel 1937 per approfondire i suoi studi filoso-fici su Bergson, e nel 1941 aveva già alle spalle una ra-pidissima “carriera diplomatica finita”2 nello spazio dipochi mesi, cioè da marzo a giugno di quello stessoanno presso la Legazione romena di Vichy.

Il suo soggiorno francese di studio e di “missione fi-losofica”, come scrive ad Alphonse Dupront, era statointerrotto a cavallo tra il 1940 e il 1941 a causa di untempestivo rientro in patria. A tutta velocità, Cioran,dalle rive della Senna era approdato alle sponde delDanubio, e aveva pronunciato alla radio di Bucarest il27 novembre 1940 queste “esaltazioni di uno scettico”per onorare la memoria del “Capitano”, Corneliu ZeleaCodreanu, il leader storico e leggendario del Movi-mento Legionario, che era stato ucciso dal regime dire Carlo II di Romania nel 1938:

Dinanzi al Capitano, nessuno restava indiffe-rente. Il paese era stato attraversato da un nuovobrivido. Una regione umana assillata dall’essen-ziale. La sofferenza diventa il criterio della dignitàe la morte quello della chiamata. In pochi anni laRomania ha conosciuto una tragica pulsazione, e

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la sua intensità ci consola della vigliaccheria permille anni di non storia. La fede di un uomo hadato vita ad un mondo che lascia dietro sé la tra-gedia antica e Shakespeare. E questo, nei Balcani!Sul piano assoluto, se avessi dovuto scegliere tra laRomania e il Capitano, non avrei indugiato un at-timo.Dopo la sua morte tutti ci siamo sentiti più soli masulla nostra solitudine s’innalza la solitudine dellaRomania. Nessuna penna intinta nell’inchiostro della scia-gura potrebbe descrivere il nostro destino sven-turato.Tuttavia, dobbiamo essere vigliacchi e consolarci.Ad eccezione di Gesù, nessun morto è stato piùpresente tra i vivi. Qualcuno ha mai pensato qual-che volta di dimenticarlo? “Da qui in avanti ilpaese sarà guidato da un morto”, mi diceva unamico sulle sponde della Senna.Questo morto ha diffuso un profumo di eternitàsulla nostra pochezza umana, e ha riportato il cielosopra la Romania.3

Al di là delle sue personali convinzioni ideologiche,questa dimostrazione pubblica di fedeltà alla memoriadel “Capitano” – al quale Cioran aveva regalato una

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copia della Trasfigurazione della Romania – consentiràal filosofo di Transilvania di sfuggire alla chiamata allearmi sul fronte russo e di beneficiare ufficialmente diuna missione diplomatica in Francia, diventando così,agli occhi dell’amico scrittore Mihail Sebastian – su cuipesava la “colpa” in Romania, sotto il regime militaree legionario di quel periodo, di essere ebreo – “unuomo interessante, estremamente intelligente, senzapregiudizi e con una doppia dose di cinismo e di viltà,riunite in modo divertente”.4

Ma a Parigi, il sentimento di Cioran – che tra il 1933e il 1934 aveva visto sfilare, rapito da traboccanti emo-zioni, le marce trionfali naziste a Berlino e a Monaco5 –è completamente mutato. Cioran riprende in mano LaTrasfigurazione della Romania, da poco ripubblicata nelsuo paese d’origine, dopo il suo exploit radiofonico, ecomincia a riscriverla cambiandone il segno e mutan-done radicalmente i toni. Lo stile di Schimbarea la faţăa României è abbandonato. Il “fanatico” Cioran, ani-mato dal fuoco, dallo slancio frenetico, dallo spirito dicrociata e persino dal terrore, si trasforma, in queste in-solite pagine sulla Francia scritte tutte di getto, in un“esteta dei tramonti della cultura” che getta “unosguardo tempestoso e trasognato sulle acque mortedello spirito”. Despre Franţa segna appunto questo rivo-luzionario cambio di passo, e mutamento di “veduta”,nella scrittura e nello stile compositivo di Cioran.

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Considerandolo giustamente “il libro cerniera diCioran” tra l’opera romena e quella futura scritta di-rettamente in francese, Alain Paruit – che non solo hatradotto in francese per L’Herne Despre Franţa, ma haanche rivisto e corretto l’impostazione e l’organizza-zione generale del testo romeno di Cioran, che non eraaffatto destinato alla pubblicazione – definisce conquesta singolare aggettivazione il volumetto: “stranolibro”, “libro inatteso”, “kafkiano, questo libro”.6

“Strano” questo “libro” perché, pur continuando aadottare le categorie abissali intorno alla “metafisicadella vita” dei popoli con cui Cioran ha scritto La Tra-sfigurazione della Romania – a partire dal Tramonto del-l’Occidente di Oswald Spengler e dai volumi filosoficidi morfologia culturale di Lucian Blaga – in senso et-nopsicologico, il pensatore di Sibiu, in qualità di testi-mone oculare e di cronista dello spirito, assiste impo-tente alla reale decadenza della Francia, trasformando,nel finale di queste pagine rapsodiche e frammenta-rie, il momento del più terribile inabissamento e tra-collo storico dei francesi in un’incredibile e appassio-nante dichiarazione d’amore rivolta alla Francia, laquale viene quasi completamente personificata.

“Libro inatteso” forse perché – conoscendo i repor-tage fanatici e gli articoli politici deliranti che Cioraninviava entusiasta da una Germania in via di progres-siva nazificazione tra il 1933 e il 1935 – in questi fogli

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sparsi di Despre Franţa si avverte una “ri-conversione”scettica di tipo soggettivo – tutt’altro che esaltata comein Schimbarea la faţă a României o amara in conformitàal tono impiegato dai moralisti francesi – in cui laFrancia, oggetto iniziale di un’indagine fenomenolo-gica – dove viene descritto minuziosamente da Cioranil progressivo decadimento di una grande civiltà –muta il proprio statuto “ontologico” e diventa imper-cettibilmente oggetto-causa del desiderio del soggettoscrivente, assumendo cadenze luttuose e melanconi-che, a partire dal suo inesorabile vuoto e dalla sua man-canza a essere.

Il trionfalismo nazionalistico ed esasperato di Schim-barea la faţă a României si è ormai spento in Cioran. Il li-rismo contraddittorio dell’esule ne ha preso definitiva-mente il posto con questo libro. Cioran abbraccia ormaile “vedute” poetiche di Fondane e di Bacovia, fatte dinoia profonda (urât) e di cafard intrinsecamente mol-davi, e dipinge un quadro della Francia dai colori cre-puscolari in cui predominano la caducità, la melanco-nia, il desiderio nostalgico di tutta una civiltà in de-clino e in preda alla disgregazione.7

Rispetto alla Trasfigurazione della Romania, Sulla Fran-cia testimonia, dal punto di vista soggettivo, non solola particolare solitudine di Cioran a Parigi dove si sente“esiliato” dal luogo natio, ma attesta soprattutto quellaprofonda nostalgia tipica di chi è fondamentalmente

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“sradicato”. Questa peculiare nostalgia in romeno sidice dor. Essa non esprime solo una tensione deside-rante, o un’aspirazione, verso la lontananza – come laparola Sehnsucht intende esprimere nella lingua tede-sca – ma significa “oltrepassare la lontananza nelluogo in cui ci si sente ovunque troppo lontani”.8 La no-stalgia cioraniana è un dor, è un sentirsi eternamentelontani da casa. È un desiderio di ritorno verso il fi-nito, verso l’immediato, verso la conquista di quelloche si aveva prima di essere soli. È un appello terrestree materno, una diserzione del lontano. È come sel’anima dello scrittore in esilio a Parigi non si sentissepiù consustanziale al mondo, e allora sogna tutto ciòche ha perduto.9

Ed è forse anche questo l’aspetto “kafkiano” dellibro, come suggerisce Paruit, citando – non integral-mente – il brano che segue di Cioran:

Noialtri, incatenati ai nostri destini approssimativi,lo proviamo nell’attimo della nostra prima rifles-sione, nasciamo con esso e lo sviluppiamo col pas-sare del tempo, ne subiamo le esperienze e le alie-nazioni – come certi poveri ebrei non ingannati datentazioni messianiche. Tutti i paesi falliti hannoqualcosa dell’equivoco del destino giudaico; sonoerosi dall’ossessione dell’implacabile incompiu-

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tezza. Come se non fossimo nati nel nostro ele-mento, la “patria” è un simbolo di interminabilidubbi, un punto interrogativo che non trova al-cuna risposta – né etnica né sentimentale e nean-che geografica.

Il dor viene accostato qui da Cioran alla tragica equi-vocità del destino giudaico di matrice fondaniana. In-fatti, nel Cioran della Trasfigurazione della Romania, ilparticolare interesse del “messianismo ebraico” per iproblemi sociali, per l’idea di “giustizia sociale”, eranole qualità “reali” che assicuravano la superiorità degliebrei nei confronti dei romeni. A proposito del mes-sianismo degli ebrei in senso politico, Cioran dichia-rava che essi sono “il più intelligente, il più talentuoso”dei popoli. Il problema era un altro. In linea con gli ste-reotipi antisemiti del tempo diffusi negli ambienti delnazionalismo reazionario e conservatore, Cioran af-fermava che gli ebrei si erano opposti in Romania atutti i tentativi di consolidamento nazionale e poli-tico.10 Infatti, come si legge in una lettera di Cioranspedita a Marin Mincu nel 1988, il pensatore di Sibiuprenderà una definitiva distanza dal suo libro del 1936;e Despre Franţa rappresenta proprio il luogo e il mo-mento in cui si manifesta in presa diretta questo irre-versibile stacco soggettivo operato nel 1941:

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Ciò che mi rincresce è che [La Trasfigurazione dellaRomania] contiene troppe affermazioni inutil-mente ciniche, insolenze gratuite, idiozie che ave-vano libero corso all’epoca. Io ne rinnego com-pletamente una grandissima parte che riflette ipregiudizi di allora, ritengo come inammissibilialcune considerazioni sugli ebrei. Le farò unaconfessione: il capitolo Un popolo di solitari conte-nuto nella Tentazione di esistere è una risposta adalcune pagine della Trasfigurazione. Ho sempreammirato gli ebrei ma allo stesso tempo li invi-diavo per avere un destino, cioè nel senso posi-tivo, mentre il fatto di nascere è sinonimo di falli-mento.11

Ma in questo volume Sulla Francia è presente anche unaltro aspetto degno di rilievo. Nel 1941, Cioran è ormaipronto per fare il grande “salto” – “salto storico” chenel suo appassionato e scandaloso libro del 1936 avevadesiderato non per sé, ma per la “sua” odiata e insiemeamata Romania – nella lingua francese. Tutto il valoredi Despre Franţa sta nell’après-coup storico e testuale.Con questo libro di Cioran, il cui destino era quellokafkiano della distruzione, emergerà un “nuovo” sog-

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getto che trasformerà il delirio e il “non senso” diSchimbarea la faţă a României in “senso”, e il caos na-zionalista in nuovo ordine universale-singolare. Daquesto punto di vista Despre Franţa, frutto della con-tingenza storica – nel momento in cui Cioran si tro-vava a Parigi durante il periodo dell’Occupazione na-zista – avrà lo statuto di evento, e questo evento appa-rirà allora come retroattivamente necessario.

Cioran, identificandosi ormai nella Francia (“Capi-sco bene la Francia attraverso tutto ciò che c’è di mar-cio in me”), cerca di indicare inconsciamente a sé stessoun luogo ove possa trovare un possibile spazio diespressione nella lingua francese, prima di maturare ildefinitivo strappo dalla lingua romena e da tutte le sueprecedenti convinzioni ideologiche. Ecco il brano:

La Francia attende un Paul Valéry patetico e ci-nico, un artista assoluto del vuoto e della lucidità.Lui, che di tutti i francesi di questo secolo si èmeno ingannato – simbolo, attraverso la sua per-fezione, dell’inaridirsi di una civiltà – non è lamassima espressione della decadenza, poiché glimanca una vaga sfumatura profetica e il fiero co-raggio nell’irreparabile.

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Questa “vaga sfumatura profetica e il fiero coraggionell’irreparabile” Cioran li troverà nel silenzio auro-rale e nell’incanto crepuscolare della lingua francese,in modo tale che il “vuoto” e la “lucidità” permette-ranno lo schiudersi di una “nuova” parola che con-senta il transito tra il vivente e il mortale, non soffo-cata nella sua pietrificazione immobile e desertificatadel cafard, ma contenendo in sé stessa la possibilità didissolvere l’oggetto nostalgico della “patria” e dellamadrelingua nel suo dileguare erratico e sognante.

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NOTA ALLA TRADUZIONE

Per la traduzione del testo di Cioran si è seguita la ver-sione francese di Alain Paruit (De la France, Paris,L’Herne, 2009), il quale ha rivisto e corretto l’imposta-zione e l’assetto generale del manoscritto di Cioran.Sebbene le frasi di Cioran, in questo libro, comincinogià a recare la determinante impronta della linguad’adozione, esse non di meno conservano la presenzaancora viva delle parole romene. Per questo motivo, siè compulsato sistematicamente l’originale romeno (De-spre Franţa, a cura di Constantin Zaharia, Bucarest,Humanitas, 2011) per essere più vicini alla volontà del-l’autore e all’intenzione dell’opera.

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SULLA FRANCIA

“Collection d’exagérations maladives”12

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Non credo che avrei a cuore i francesi se non si fosserotanto annoiati nel corso della loro storia. Ma la loroprofonda noia è priva d’infinito. È la noia profonda dellachiarezza. È la fatica delle cose comprese.

Mentre per i tedeschi le banalità sono consideratecome l’onorabile sostanza della conversazione, i fran-cesi preferiscono una menzogna detta bene a una ve-rità formulata male.

Tutto un popolo malato di cafard13. Ecco la parolapiù frequente tanto nel bel mondo quanto nelle classiinferiori. Il cafard è la noia psicologica o viscerale; èl’istante invaso da un vuoto improvviso, senza ragione– mentre l’ennui14 è il prolungamento nello spirituale diun vuoto immanente dell’essere. Al confronto, Lange-weile15 è solo un’assenza d’occupazione.

Il XVIII è il secolo più francese. È il salotto divenutouniverso, è il secolo dell’intelligenza merlettata, dellafinezza pura, dell’artificiale piacevole e bello. È ancheil secolo che si è annoiato di più, che ha avuto troppotempo, che ha lavorato solo per far passare il tempo.

Quanto sarei stato bene al fresco dell’ombra dell’in-telligenza ironica di Madame du Deffand, forse la per-sona16 più chiaroveggente di quel secolo! “Je ne trouveen moi que le néant et il est aussi mauvais de trouver lenéant en soi qu’il serait heureux d’être resté dans lenéant.”17 Rispetto a lei, il suo amico Voltaire che diceva“je suis né tué”18, è19 un buffone saccente e laborioso.

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Il nulla in un salotto, quale definizione per il prestigio!Chateaubriand – questo francese, britannico come

tutti i bretoni – fa l’effetto di una tromba ronfante difronte alle effusioni in sordina dell’implacabile Dama.La Francia ha avuto il privilegio di donne intelligenti,che hanno introdotto la civetteria nello spirito e il fa-scino superficiale e delizioso nelle astrazioni.

Un motto di spirito vale quanto una rivelazione.Essa è profonda ma non può esprimersi, l’altro è su-perficiale ma esprime tutto. Non è forse più interes-sante realizzarsi in superficie che disarmarsi attra-verso la profondità? Dove c’è più cultura: in un sospiromistico o in una “battuta”? In quest’ultima, certa-mente, sebbene solo una risposta alternativa potrebbecorrispondervi.

* * *

Cosa ha amato, la Francia? Gli stili, i piaceri dell’intelli-genza, i salotti, la ragione, le piccole perfezioni. L’espres-sione precede la Natura. Siamo di fronte a una culturadella forma che ricopre le forze elementari e che, sopraogni impulso passionale, stende la vernice20 elaboratadella raffinatezza.

La vita – quando non è sofferenza – è gioco.24

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Dobbiamo essere riconoscenti alla Francia per averlocoltivato con maestria e ispirazione. Da lei ho appresoa non prendermi sul serio se non al buio e, in pubblico,a prendermi gioco di tutto. La sua scuola è quella di unanoncuranza21 saltellante e profumata. La stupidità vedeovunque obiettivi; l’intelligenza, pretesti. La sua grandearte è la distinzione e la grazia della superficialità. Met-tere talento nelle cose da niente – cioè nell’esistenza enegli insegnamenti del mondo – è un’iniziazione aidubbi francesi.

La conclusione del XVIII secolo, non ancora conta-minata dall’idea del progresso: l’universo è una farsadello spirito.

* * *

Si può credere a ciò che si vuole, si possono edificaredivinità davanti a cui prosternarsi o fare sacrifici. Essevengono dall’esterno, sono degli assoluti esteriori. Lavera divinità dell’uomo è un criterio che ha nel sanguee attraverso il quale giudica le cose. Da quale punto divista giudicare la natura umana, secondo quale impe-rativo22 psicologico si possono scegliere i valori, eccol’assoluto effettivo rispetto al quale colui che professala fede è pallido23 e insipido.

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La divinità della Francia: il Gusto. Il buon gusto.Secondo cui il mondo – per esistere – deve piacere;

essere ben fatto; consolidarsi esteticamente; avere deilimiti; essere un incanto dell’afferrabile; una dolce fio-ritura della finitudine.

Un popolo di buon gusto non può amare il sublime,che è solo la predilezione per il cattivo gusto portato almonumentale. La Francia considera tutto ciò che ol-trepassa la forma come una patologia del gusto. La suaintelligenza non ammette neppure il tragico, la cui es-senza rifiuta di essere esplicita, come il sublime. Non èun caso che la Germania – das Land den Geschmacklo-sigkeit24 – li abbia coltivati entrambi come categorie ailimiti della cultura e dell’anima.

* * *

Il gusto si colloca agli antipodi del senso metafisico, è lacategoria del visibile. Incapace di orientarsi nel grovi-glio delle essenze, mantenute dalla barbarie della pro-fondità, si diletta nell’ondulazione immediata delle ap-parenze. Ciò che non affascina l’occhio è un non-valore:questa sembra essere la sua legge. E cos’è l’occhio? L’or-gano della superficialità eterna – la ricerca della pro-porzione, la paura della mancanza di proporzione defi-

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nisce la sua smania per i contorni visibili. L’architettura,adornata a partire dall’immanenza; la pittura d’internie il paesaggio, senza la suggestione delle lontananze in-tatte (Claude Lorrain – un Ruysdael salottiero25, vergo-gnoso di sognare); la musica della grazia accessibile edel ritmo misurato, – altrettante espressioni della pro-porzione, della negazione dell’infinito. Il gusto è bel-lezza soppesata, elevata a raffinatezza categoriale. I pe-ricoli e le violenze fulminee del bello appaiono al gustocome delle mostruosità; l’infinito – una caduta. Se Dantefosse stato francese, avrebbe descritto solo il Purgato-rio. Dove avrebbe trovato in sé la forza per l’Inferno e ilParadiso, e abbastanza audacia per gli estremi sospiri?

* * *

Il peccato e il merito della Francia consistono nella suasocievolezza. Le persone sembrano fatte solo per in-contrarsi e scambiarsi parole. Il bisogno di conversa-zione proviene essenzialmente dal carattere acosmicodi questa cultura. Né il monologo né la meditazione ladefiniscono. I francesi sono nati per parlare e si sonoformati per discutere. Lasciati da soli, sbadigliano. Maquando sbadigliano in società? Ecco il dramma delXVIII secolo.

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I moralisti giudicano male l’uomo nei suoi rapporticon i propri simili; essi non si sono elevati alla condi-zione dell’uomo in quanto tale. Per questa ragione, nonpossono andare al di là dell’amarezza e dell’asprezza deitoni – e neppure al di là dell’aneddoto. Essi deploranol’orgoglio, la vanità, la meschinità, ma non soffronoper la solitudine interiore della creatura. Cosa direbbeLa Rochefoucauld in mezzo alla natura? Penserebbecertamente all’ipocrisia dell’uomo, ma non sarebbe ingrado di concepire quanta sincerità si nasconda nelbrivido dell’isolamento che lo percorre in questi mo-menti di solitudine metafisica. Pascal è un’eccezione.Ma fino a lui – fino al più serio dei francesi – l’oscilla-zione tra il monastero e il salotto è evidente. È unuomo di mondo costretto, dalla malattia, a non esserepiù francese se non per il suo modo di formulare lecose. Per quel po’ di salute che gli resta non si distin-gue dagli altri moralisti. Toglietegli Port-Royal: di luinon rimane che un causeur26.

Se ancora oggi continuiamo a leggere i moralisti ro-mani della decadenza, è perché hanno approfonditol’idea di destino e l’hanno accostata alle peregrinazionidell’uomo nella natura. Nei moralisti francesi – e pressotutti i francesi – non ritroviamo quest’idea. Essi nonhanno creato una cultura tragica. La ragione – ma piùancora il suo culto – ha placato l’agitazione tempestosadel nostro foro interiore e, essendo irresistibile e nociva

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alla nostra tranquillità, ci obbliga a pensare al destino ealla sua mancanza di pietà per la nostra piccolezza. LaFrancia è priva del lato irrazionale, del possibile fatale.Non è stato un paese infelice. La Grecia – di cui abbiamoinvidiato l’armonia e la serenità – ha subìto27 il tormentodell’ignoto. La lingua francese non sopporta Eschilo. Ètroppo potente. Quanto a Shakespeare, egli suona do-cile e gentile, anche se dopo aver letto Racine, Amleto oMacbeth sembrano appiccare il fuoco al verso francese.Come se la lingua fosse incendiata dal tumulto e dallapassione delle parole. L’infinito non ha posto nel pae-saggio francese. Le massime, i paradossi, le note e i ten-tativi, sì. La Grecia era più complessa.

La Francia è una cultura acosmica, non senza terra maal di sopra di essa. I suoi valori hanno radici, ma si arti-colano da soli28, il loro punto di partenza, le loro radicinon contano. Solo la cultura greca ha già illustrato que-sto fenomeno di distacco dalla natura – non allonta-nandosi da essa, ma raggiungendo una rotondità ar-moniosa dello spirito. Le culture acosmiche sono cul-ture astratte. Private del contatto con le origini, mancaloro anche lo spirito metafisico, cioè l’erratico doman-dare soggiacente alla vita. L’intelligenza, la filosofia, l’artefrancese appartengono al mondo del Comprensibile.

E quando lo presentono, non lo esprimono, contra-riamente alla poesia inglese e alla musica tedesca. LaFrancia? Il rifiuto del Mistero.

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La Francia assomiglia di più all’antica Grecia. Mamentre i greci creavano un’alleanza con il gioco del-l’intelligenza e il soffio metafisico, i francesi non sonoandati così lontano, non sono stati capaci – loro cheamano il paradosso nella conversazione – di viverneuno in quanto situazione.

Due popoli: i più intelligenti sotto il sole.

L’affermazione di Valéry secondo cui l’uomo è un ani-male nato per la conversazione è evidente in Francia,e incomprensibile altrove. Le definizioni hanno limitigeografici più rigorosi rispetto ai costumi.

* * *

I paesi – purtroppo – esistono. Ognuno cristallizza unasomma di errori chiamati valori, che coltiva, mette in-sieme, e ai quali dà corso e validità. La loro totalità co-stituisce l’individualità di ciascuno di essi e il suo im-plicito orgoglio. Ma anche la loro tirannia. Poiché in-consciamente schiacciano l’individuo. Pertanto, piùegli è dotato, più si sottrae alla loro pressione. Ma sic-come dimentica – per il fatto che vive – le deficienzedella sua identità personale lo assimilano alla nazione

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d’appartenenza. Ecco spiegato il motivo per cui per-sino i santi hanno un carattere nazionale. I santi spa-gnoli assomigliano a quelli francesi o italiani solo perla santità, e non per gli accidenti che svelano la loroparticolare biografia interiore. E conservano un ac-cento identificabile che ci permette di attribuire loroun’origine.

Cosa facciamo quando parliamo della Francia? De-scriviamo la maniera in cui si sono commessi fecondierrori su un certo luogo della terra. Essere dalla loroparte oppure opporsi significa adeguarsi a questi er-rori29 o prendere una strada ben diversa.

* * *

Due volte – nella sua storia –la Francia ha raggiunto lagrandezza: all’epoca della costruzione delle cattedralie al tempo di Napoleone. Vale a dire in due momentiestranei al suo specifico genio. Le cattedrali e Napo-leone – tutto quello che possiamo immaginare dimeno francese! Tuttavia, il popolo ha vibrato: nel Me-dioevo ha trasportato i lastroni di pietra, ed è cadutoai piedi delle Piramidi o sulla Beresina.

I francesi hanno creato lo stile gotico – d’essenza ger-manica – e, sul piano militare, hanno seguito l’ultimo

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rappresentante del Rinascimento italiano. Si sono cosìsuperati due volte; hanno superato la loro perfezioneraggiunta attraverso il contatto con due ispirazioni dinatura straniera. Nella creazione gotica ha ribollito ilsangue dei franchi, l’elemento germanico; nelle cam-pagne napoleoniche, il genio mediterraneo delle spe-dizioni.

All’infuori di questi momenti, la Francia si è accon-tentata di sé stessa. Niente lingue straniere, né impor-tazioni di cultura, né curiosità alcuna per le cose delmondo. Questo è il difetto glorioso di una cultura per-fetta – che trova, nella sua legge, l’unica forma di vita.

È un paese contento del proprio spazio, dalla perso-nalità geografica ben definita, riuscita persino sulpiano fisico. Niente di spietato nella sua natura, e nes-sun grande pericolo nel sangue. Ha imposto una formaagli elementi germanici della sua struttura, ha tron-cato il loro slancio e li ha ridotti all’orizzontalità. Eccoperché il gotico francese è più delicato, più umano epiù accessibile di quello tedesco che attacca le altezzecome un ultimatum verticale rivolto a Dio. In una certamisura, le cattedrali francesi sono compatibili con ilbuon gusto. Non abusano dell’architettura; non lacompromettono con la ricerca dell’infinito. Siamo inun popolo dell’immanenza, che ha creato il genere ini-mitabile dei dettagli sottili e rivelatori dell’esistenza nelmondo: l’ornamento. Così, niente è più francese di una

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tappezzeria, un mobile, un merletto. Oppure, sul pianoarchitettonico: un manoir30 o un hôtel (nell’antico sensodella parola, di dimora privata). Un soffio di minuettopercorre, docile e liscio, una civiltà felice.

La Francia ha potuto essere originale solo in questiprodotti di natura intima. Quando si sono logorati, haesaurito gran parte delle sue possibilità. La decadenzanon è altro che l’incapacità di creare ancora, nella cer-chia di valori che la definiscono.

Durante il XVIII secolo, la Francia dettava legge31 inEuropa. Da allora in poi non ha fatto altro che eserci-tare la sua influenza. Il simbolismo, l’impressionismo,il liberalismo ecc., sono i suoi ultimi contatti vitali conil mondo, prima di affondare in un’assenza fatale.

* * *

Una civiltà felice. Come non esserlo, visto che non si èlasciata tentare dalle partenze? Se non ci fosse statoNapoleone a spingere i francesi per il mondo, essi sa-rebbero rimasti la provincia ideale dell’Europa. Ha do-vuto sbarcare dalla sua isola per scuoterli un po’. Ha sa-puto dare un contenuto imperialista alla loro vanità,chiamata anche gloria. Forse è per questo che tutte lesue spedizioni sono indissociabili dalla letteratura. I

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francesi si sono battuti per avere qualcosa da raccon-tare. Senza nessun bisogno della grande avventura,essi cercavano solo di essere grandi agli occhi di Parigi.Non fanno una malattia del viaggio. Ma del focolare,del salotto o della proprietà. Soprattutto di quest’ul-tima.

Joachim du Bellay che langue a Roma per “la dou-ceur angevine”32, che si sente lontano dal suo villaggioe dai suoi conterranei nella Città Eterna, che esempiosignificativo! Oppure Baudelaire, terrorizzato dal ti-more della noia e dell’influenza dei poeti inglesi, checanta le partenze, ma è incapace di fuggire dal Quar-tiere Latino! In gioventù, la nostalgia di Parigi l’avevaportato a interrompere il suo viaggio in India.

I francesi hanno sacrificato il mondo alla Francia.Cosa farebbero all’estero? – Del resto, tanti stranierinon hanno sacrificato il proprio paese a Parigi? Eccoforse la spiegazione indiretta dell’indifferenza e delprovincialismo francese. Questa provincia è l’unica adaver costituito un tempo il contenuto spirituale delcontinente. La Francia – come l’antica Grecia – è statauna provincia universale. Inoltre, sono gli unici duepaesi che hanno utilizzato il concetto di barbaro, comecaratterizzazione negativa dello straniero – espri-mendo, in fondo, nient’altro che il rifiuto di una civiltàben definita ad aprirsi al nuovo. Uno dei vizi della Fran-cia è stata la sterilità della perfezione – la quale non si

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manifesta mai così chiaramente come nella scrittura.La cura per la corretta formulazione, il non storpiare laparola e la sua melodia, il concatenare armoniosa-mente le idee, sono ossessioni francesi. Nessuna cul-tura si è preoccupata di più della questione dello stilee, in nessun’altra, si è scritto con tanta bellezza e per-fezione. Non c’è alcun francese che scriva irrimedia-bilmente male. Tutti scrivono bene, tutti vedono laforma prima dell’idea. Lo stile è l’espressione direttadella cultura. I pensieri di Pascal si trovano in ogni pre-dica e in qualsiasi libro di chiesa. Ma il suo modo diformularli è unico; la sua genialità è indissociabile dalui. Giacché lo stile è l’architettura dello spirito. Unpensatore è grande nella misura in cui accorda bene lesue idee; un poeta, le sue parole. La Francia ha lachiave di questo accordo. È per questo che ha prodottouna moltitudine di talenti. In Germania, per espri-mersi impeccabilmente bisogna essere un genio. Enon basta!

Chi non conosce la formula può avere tutte le intui-zioni possibili, ma rimane ai margini della cultura. Lostile è la maestria della parola. E questa maestria ètutto. Nel mondo dello spirito, le verità espresse in ma-niera piatta non persistono, mentre gli errori e i para-dossi accompagnati dal fascino e dal dubbio si inse-diano nella quasi-eternità dei valori – sappiamo chequesti ultimi sono soltanto parole alle quali aderiamo

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con un sentimento di rispetto vago o preciso, a se-conda delle circostanze e del nostro umore.

Non dobbiamo avere per la cultura il facile e rever-sibile entusiasmo degli ignoranti. Essa gode di tutti ivantaggi dell’irrealtà. Quando non è fonte d’incanto,si sfilaccia e fluttua. I suoi valori sono essenzialmentefiocchi astratti a cui appendere le nostre povere esal-tazioni. La cultura è una commedia che prendiamo sulserio. Per cui non dobbiamo esagerarne i meriti. Ciòche è la supera, e solo raramente si rivela alla nostrainquietudine, situata molto più in alto.

Intelligenti, cattolici, avari – tre modi per non per-dersi, tre forme di certezza. I francesi non conosconole esagerazioni contro l’io, la pregiudizievole genero-sità sul piano spirituale e finanziario. Il gusto e la cul-tura sono serviti loro per concepire delle limitazioni.Il timore di perdersi per un qualsiasi eccesso li ha in-cistati in una rigidità affettiva. C’è forse un popolomeno sentimentale? Il cuore del francese si inteneri-sce solo davanti ai complimenti garbati. La sua vanitàè immensa; lusingarla può persino renderlo senti-mentale…

In genere, è capace d’intimità, ma non di solitudine.Un francese solo è una contraddizione in termini. Ilsentimentalismo implica un dispendio lirico del-l’anima in isolamento, la vibrazione senza disciplina esenza un orientamento razionale. Amare senza la ver-

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gogna d’amare; adorare senza ironia; appassionarsisenza distanza…

Ma disprezza la dimensione folclorica dell’anima.Ancora di più. Egli è superiore all’anima, quando nonne è al di fuori…

Noi, che veniamo da altri paesi, perdiamo facil-mente la coscienza geografica e viviamo in una speciedi esilio continuo, né dolce, né amaro. Amiamo la na-tura, e non il paesaggio umanizzato dal focolare, daiparenti, dagli amici. Non abbiamo una nostra dimorase non per rimpianto e nostalgia. I francesi, sin dallanascita, sono rimasti nel loro luogo natio, hanno avutouna patria fisica e interiore che hanno amato senza ri-serve, e non l’hanno mai umiliata, comparandola conaltre; non sono stati sradicati a casa loro, non hannovissuto il tumulto di una passione nostalgica insazia-bile. È forse l’unico popolo in Europa che non conoscala nostalgia – questa forma d’infinita incompiutezzasentimentale. Privo di musica folclorica, che troviamosolo al sud (Paesi Baschi, Provenza, attraverso l’in-fluenza spagnola e italiana), non è stato tormentato daquesta impossibilità di stabilirsi che sconvolge gli slavi,i germanici, i balcanici e che si esprime nelle molte-plici forme del Sehnsucht.33

Popolo afflitto dalla fortuna, dotato di chiarezza, ca-pace di noia, ma non di tristezza, che ama, nelle sueforme di fede, l’approssimazione e che, oltre tutto, ha

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una storia normale, senza vuoti, senza fallimenti né as-senze – si è sviluppato secolo dopo secolo, ha valoriz-zato ciò in cui credeva, ha diffuso i propri ideali ed èstato presente nell’epoca moderna come nessun altro.Con la sua decadenza, paga ancora questa presenza;espia il vissuto significativo, la realizzazione sfolgo-rante, il mondo dei valori che ha creato. Se fosse ri-masto a braccia conserte, la sua vitalità non sarebbestata compromessa. Per le grandi nazioni, il tramontoè una nobile condanna.

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Ogni popolo ha i suoi problemi, ai quali si aggrappafino a esaurirli; in seguito, se ne libera, ne cerca altri –e, quando non ne trova più, si colloca all’interno delproprio vuoto. È naturale che questi problemi sianodelle illusioni; la questione è di stabilire se sono di qua-lità oppure no. I popoli di secondo ordine coltivano il-lusioni di cattiva qualità. Esse non possono essere con-siderate oggetto di riflessione, ma solo di disprezzo eamarezza.

Nel campo della filosofia, la Francia si è limitata a uncircolo di domande e di risposte in cui ritornano sem-pre gli stessi motivi: raison, expérience, progrès34, ma

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quasi mai le regioni equivoche della metafisica perso-nale o di una teologia soggettiva. Cartesio non è statodisturbato da Pascal. Il suo trionfo ha assicurato al pen-siero francese il conforto dell’aridità intellettuale, l’hacondannato alla banalità, alla mancanza di rischio, l’haallontanato dalla fertilità dei concetti vicini all’assurdo,che smuovono le categorie dal loro pallido sbigotti-mento. In fondo, non esiste una filosofia francese,come quella indiana, greca o tedesca. Poiché un pen-siero ha vitalità solo se apre la discussione – fino allaredenzione o alla disperazione – sulle funzioni del pos-sibile, cioè sulla realtà dinamica. Si è dovuto attendereBergson – alla fine della filosofia francese – per scoprireil Divenire che Eckhart aveva perfettamente compreso,all’inizio della filosofia tedesca.

Ma per chi voglia comprendere i limiti della Francia– perché descrivere un paese significa definirne i li-miti, non precisarne il contenuto – l’esempio della suamusica è tra i più indicativi. Dato che in tal modo lei sitradisce: le emanazioni sonore fanno sgorgare incon-trollabili affetti, ciò che vi è di più sovraccarico, piùlontano e più profondo nell’uomo.

La musica è un’arte seria – e può essere solo seria.Non conosce l’ironia; l’equivalente sonoro del motto dispirito non esiste. Nessuna virtù specificatamentefrancese è compatibile con la sua dignità. Questo è ilmotivo per cui i francesi non hanno creato granché in

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questo campo. Molto più, tuttavia, rispetto agli inglesi,assolutamente sterili nell’arte musicale, anche se laamano più intensamente dei francesi.

La musica richiede una sorta di pietà astratta, chepossiedono i tedeschi, un’ingenuità ispirata e vasta,che incontriamo nella musica italiana del XVII secolo –ma solo la musica italiana, d’altronde, essendo l’operauna farsa sinistra, un borbottio appassionato privod’ampiezza e profondità.

Il sublime è la categoria banale della musica; lo slan-cio tragico o il tema della calma vastità, le forme delsuo respiro. Rameau, Couperin o Debussy, quest’ul-timo all’apparenza così diverso dai primi, sono tal-mente francesi per la loro delicatezza e il loro rifiutodel tumulto. Un merletto che si sfilaccia sembra esserela loro trama sonora. Debussy è uno slavo da salotto,un parigino orientale. Solamente Berlioz ha un certorespiro. Ma chi non è colpito dalla sua falsa immensità?Chi non è irritato dalla sua forza dimostrativa, dallasua corsa verso la vastità e la tensione? È un infinito ri-cercato… Quanto a César Franck, è un compatriota diRuysbroeck – l’ammirabile – e porta nel sangue l’ere-dità di una mistica poco francese…

La Francia è il paese della perfezione angusta. Nonpuò elevarsi alle categorie sovraculturali: al sublime,al tragico, all’immensità estetica. Ecco perché non hadato e non avrebbe mai potuto dare uno Shakespeare,

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un Bach o un Michelangelo. Rispetto a questi ultimi,lo stesso Pascal è un maestro dei dettagli, un sottilerammendatore del frammento.

Le riflessioni dei moralisti francesi sull’uomo – as-solute nella loro impeccabile rifinitura35 – sono co-munque modeste, se comparate alla visione dell’uomodi un Beethoven o un Dostoevskij. La Francia non offregrandi prospettive; vi insegna la forma; vi dà la for-mula, ma non il respiro. Coloro che conoscono soltantolei sono colpiti da una grave sterilità, e il suo contattoesclusivo è veramente pericoloso. Si deve ricorrere a leisolo per correggere le estremità del nostro cuore e delnostro pensiero, come una scuola del limite, del buonsenso e del buon gusto, come un breviario che ci guidaed evita di farci cadere nel ridicolo dei grandi senti-menti e delle grandi attitudini. La sua misura deve gua-rirci dalle erranze patetiche e fatali. In questo modo, lasua azione sterilizzante diventa salutare.

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L’uomo medio è più realizzato in Francia che ovunquealtrove. Il suo livello supera quello dell’inglese, del te-desco o dell’italiano. La mediocrità ha raggiunto untale stile che è difficile trovare nell’individuo comune,

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nell’uomo della strada, esempi di stupidità caratteriz-zata. Chiunque sa presentarsi bene, chiunque sa qual-cosa. Per questo la Francia è grande per dei nonnulla.Può darsi che, alla fine, la civiltà non sia altro che laraffinatezza del banale, la cesellatura delle cose minutee la cura nel conservare un briciolo di intelligenza nel-l’accidentale quotidiano. Vale a dire: rendere l’idiozianaturale, possibile da sopportare, avvolgendola nellagrazia e conferendole il lustro della finezza. Non c’èdubbio che tra i francesi si trova il minor numero diduri, irrimediabili, eterni imbecilli. Persino la linguasembra opporsi. Nei bistrot, si lanciano repliche da sa-lotto. La nazione non consente né la profondità nél’idiozia che altrove mostrano milioni di persone qua-lunque e alcuni geni incommensurabili. La Franciaperde il proprio equilibrio se esce dalla mediocrità.

Bisogna esserle riconoscenti di aver coltivato fino alvizio l’orrore della banalità. Quando il più raffinatonordico, nel pronunciare un truismo e nel ripeterlo,non si sente impedito da alcuna regola del saper vi-vere, quando nessun germanico conosce la vergognadell’evidenza, lo spazio francofono ci offre, al contra-rio, la freschezza e l’indicibile leggerezza della vivacitàdi paradossi facili o significativi. Il difetto e la forza delNord derivano dal fatto che non conosce il peso dellanoia nella conversazione. Se i tedeschi non hanno il ro-manzo, se la loro prosa è illeggibile, non è solo perché

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la musica e la metafisica sono per loro degli adeguatimezzi di espressione, ma perché non sono capaci diparlare, di sostenere le variazioni a livello della discus-sione. Il romanzo è una creazione dei francesi e deirussi: due popoli che parlano e sanno parlare. I dialo-ghi soporiferi del romanzo tedesco, l’incapacità na-zionale di andare oltre i monologhi, spiegano l’inevi-tabile carenza della prosa. Per chi ama l’aroma della pa-rola immediata, la Germania provoca un infinito sba-diglio. La poesia, la musica e la filosofia sono atti del-l’individuo solitario. I tedeschi stanno o da soli o tuttiinsieme. Mai in dialogo – mentre la Francia è il paesedel dialogo e rifiuta le ispirazioni scialbe o sublimi deisuoi vicini insulari o d’oltre-Reno.

Niente è meno tedesco del XVIII secolo – e niente èpiù francese di questo secolo. Tutto in esso è decora-tivo, dall’abbellimento esteriore ai fronzoli dello spirito.L’intelligenza diventa l’ornamento esclusivo dell’uomo.La pigrizia elegante e il cicaleccio sottile definiscono lasua nobile superficialità. Il francese ha dimenticatol’idea del peccato: è la grande scusa del secolo. Così, ilsuo libertinaggio non può essere condannato: nessunpiacere deve essere guastato dal senso di colpa – pro-dotto da un panico plebeo o da un vizio solitario, pocoapprezzati in un mondo infinitamente socievole.

Fragonard è il simbolo della liberazione sensuale edi tutte le indiscrezioni dei sensi. Nessuno, nella storia

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della pittura, emana altrettanto profumo, una tale setedelicata di voluttà, di vizio innocente e inutile. Tutto ilsegreto della felicità non risiede forse nella sensazione?Ciò che è certo, è che il Rinascimento e il XVIII secolo,le epoche moderne che l’hanno coltivata con maggioreintensità, sono anche quelle più lontane dalla Croci-fissione. La chiave che dà l’accesso ai dolci segreti ter-reni si trova fuori dal cristianesimo. – L’intelligenza ei sensi possono trovare una buona intesa e anche aiu-tarsi a vicenda. Ma quando interviene l’anima, con lesue inquietudini oscure, la pace è definitivamente tur-bata. L’uomo rivela allora la propria essenza sotterra-nea o celeste – e il piacere, fiore dell’immanenza, ap-passisce. Essere superficiali con stile36 è più difficile cheessere profondi. Nel primo caso, occorre molta cul-tura; nel secondo, un semplice squilibrio delle facoltà.La cultura è sfumatura; la profondità, intensità. Senzauna dose d’artificio, lo spirito umano si spezza sotto ilpeso della sincerità, questa forma di barbarie.

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Quando una civiltà inizia la propria decadenza?Quando gli individui cominciano a prendere coscienza;quando non vogliono essere più vittime degli ideali,

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delle forme di fede, della collettività. Una volta che l’in-dividuo si è risvegliato, la nazione perde la propria so-stanza, e quando tutti si destano, essa si decompone.Niente è più pericoloso della volontà di non essere in-gannati. La lucidità collettiva è un segno di affatica-mento. Il dramma dell’uomo lucido diventa il drammadi una nazione. Ogni cittadino diventa una piccola ec-cezione, e queste eccezioni accumulate costituiscono ildeficit storico della nazione.

Per molti secoli, la Francia non ha fatto altro che cre-dere e, quando dubitava lo faceva all’interno delle pro-prie credenze. Ha creduto via via nel Classicismo, neiLumi, nella Rivoluzione, nell’Impero, nella Repub-blica. Ha avuto gli ideali dell’aristocrazia, della Chiesa,della borghesia, del proletariato; e ha sofferto perognuno di essi. I suoi sforzi, trasformati in formule,sono stati proposti all’Europa e al mondo, che li hannoimitati, perfezionati e compromessi. È la Francia adaver vissuto in primo luogo il loro processo di crescitae dissoluzione, e con la maggior intensità; ha creatodegli ideali e li ha consumati; li ha sperimentati finoalla fine, sino al disgusto. In ogni caso, una nazionenon può essere generatrice all’infinito di fede, di ideo-logie, di forme statali e di vita interiore. Essa finisceper traballare. Le fonti dello spirito si seccano, e si ri-sveglia davanti al suo desertico vuoto, con le bracciaincrociate, atterrita dall’avvenire.

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Se mi mettessi nei panni di un francese di questi ul-timi decenni, a cosa potrei aderire?

Alla democrazia? Ma, alla fine di un secolo in cui siè abusato della parola “peuple”37, dopo la mistica dellalibertà e dopo il suo logoramento, dopo aver verificatol’utilità o l’inutilità dei principi della Rivoluzione, qualenuovo contenuto potrei ancora attribuirle? Nel mo-mento in cui le sue idee sono state compromesse, unpopolo, che ha fatto una grande Rivoluzione che ha at-tecchito ovunque, perde anche il suo primato ideolo-gico. Un secolo dedicato a preparare la Rivoluzione eun altro a diffonderla hanno reso presente la Franciasul piano dottrinario e politico. Ma gli ideali del 1789 sisono arrugginiti; del loro prestigio resta solo una de-sueta magniloquenza. La più grande rivoluzione mo-derna finisce come una paccottiglia dello spirito. Cosaè stata? Una combinazione di razionalismo e di miti:una mitologia razionalista. Più precisamente: l’incon-tro di Cartesio con l’uomo della strada.

La democrazia non dà alcun brivido e, in quantoaspirazione, è scialba e anacronistica.

Potrebbe ancora servire alla patria? Alla patria? LaFrancia è stata patria sin dal Medioevo, quando le altrenazioni non avevano neppure preso coscienza di sé

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stesse. È stata amata, glorificata, ha valorizzato tutti gliideali di cui era capace. Nessun momento della sua sto-ria ispira rammarico. Ogni epoca ha visto la massimarealizzazione delle proprie possibilità; non un soffiodi vuoto, non un’assenza grave. Ovunque, uomini allivello richiesto. In nome di cosa la Francia potrebbeancora arrivare agli uomini? Cosa potrebbe ancoraproporre all’umanità e a sé stessa?

I francesi non si possono più permettere una mortequalsiasi. Lo scetticismo cerebrale è divenuto organico.L’assenza di futuro è la sostanza del presente. L’eroenon è più concepibile – perché nessuno è più inconsa-pevole né profondo.

Una nazione è creatrice finché la vita non è il suounico valore, finché i suoi valori sono i suoi criteri. Cre-dere nella finzione della libertà e morire per essa; par-tecipare a una crociata per la gloria; considerare che ilprestigio del proprio paese sia necessario all’umanità;sostituirsi a essa attraverso le proprie convinzioni, eccoi valori.

Tenere più alla propria pelle che a un’idea; pensarecon lo stomaco; esitare tra l’onore38 e la voluttà; cre-dere che vivere valga più di ogni altra cosa, ecco la vita.Ma i francesi amano solo lei, vivono solo per lei. Datanto tempo non possono più morire. L’hanno fattotroppo spesso in passato. Quali forme di fede possonoancora inventare? La mancanza di vitalità ha mostrato

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loro la vita. E la Decadenza non è che il culto esclusivodella vita.

Vivere è un semplice mezzo per fare. Durante la de-cadenza diventa uno scopo. Vivere in tal modo, ecco ilsegreto della rovina.

Il processo attraverso cui un popolo si esaurisce è trai più naturali. Se non si esaurisce, è segno di malattia,d’inefficacia, di eterna deficienza. Solo i popoli che nonhanno vissuto non decadono – e gli ebrei.

Ma la Francia ha vissuto un’efficacia raramente in-contrata nel corso della storia. Ha troppo vissuto. Tut-tavia, mentre nelle epoche di grandezza lo faceva innome dei valori – che erano la sua vita – oggi i valorisono nulla e la mancanza di vita è tutto.

Un popolo stanco si allontana dalle proprie crea-zioni. Non vibra più nel mondo dello spirito se non perl’intelligenza, poiché i giacimenti psicologici da cuiprovengono le forme di fede si sono esauriti.

Cosa farei se fossi francese? Mi riposerei nel cini-smo.

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Capisco bene la Francia attraverso tutto ciò che c’è dimarcio in me. E la Germania, la Russia, i Balcani, at-

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traverso la freschezza ereditata da un popolo tellu-rico.

Decadenza significa lucidità collettiva: espirazionedell’anima. Non avere più anima. È il caso della Fran-cia. Ma come l’ha perduta?

Nella misura in cui un popolo crea, depone nelle sueoggettivazioni una parte di sé. Con ogni opera muoreun sentimento, con ogni gesto un’emozione, con ognislancio, una possibilità. La cultura assorbe le riserve disensazioni, è una tomba del cuore, un’economia dienergia sul conto del sangue. Ogni prova del geniofrancese – una chiesa, una massima, una battaglia –racchiude in sé un plus di presente e un minus d’avve-nire. L’attualizzazione di un popolo – la traduzione insegni dei suoi segreti dinamici – rivela una vitalità e an-nuncia una fine. La creazione conduce alla morte,salva le forme oggettive dello spirito e uccide le forzevitali dell’anima. Sotto la cultura giace il cadavere del-l’uomo. Tanto è il vuoto dei francesi di oggi. E questotanto è molto.

La loro anemia affettiva non è di natura temporale,non è una crisi di crescita e neppure un accidente sto-rico, ma la conclusione di un processo plurisecolare, ilcoronamento finale di un destino. Non solo nonhanno più sentimenti, ma se ne vergognano addirit-tura. Niente offende un francese più dell’anima. Unpopolo che si mummifica nel dubbio. Un alessandri-

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nismo senza l’ampiezza di quello greco-romano. Unafine evidente, senza frastuono né dramma. Il drammaattiene più al ricercatore, giacché per lui la Francia puòessere soltanto il campo di verifica di qualche tema difilosofia della cultura.

Pensiamo agli slavi, ai russi – popoli di albe future –la cui anima è ispirata dalle muse. La terra gorgoglia nelloro sangue; la sensibilità cresce in essi come le piante.I loro riflessi sono intatti; i loro istinti, steppe di possi-bili germogli. Poco importa come li si prenda, ovun-que soltanto futuro, questo futuro che può essere vi-cino o formare il contenuto dei secoli venturi.

Nei francesi, gli istinti sono colpiti, erosi, la base del-l’anima, spezzata. Un tempo furono vigorosi – dallecrociate a Napoleone – i secoli francesi dell’universo.Ma i tempi che verranno saranno quelli di un vasto de-serto; il tempo francese sarà esso stesso un dispiega-mento del vuoto. Fino all’irreparabile estinzione. LaFrancia è colpita dal cafard39 dell’agonia.

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Le grandi nazioni non fanno naufragio accidental-mente, ma in virtù di una necessità inscritta nel loronucleo. Nessun intervento umano né calcolo razionale

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possono arrestare lo scivolamento lungo il pendio del-l’estinzione.

Qualsiasi cosa si faccia in Francia, qualsiasi misurasi prenda, nessuno potrà obbligare i francesi a fare deifigli. Quando un popolo ama la vita, rinuncia implici-tamente alla sua continuazione. Tra la voluttà e la fa-miglia, l’abisso è totale. La raffinatezza sessuale è lamorte di una nazione. Il massimo sfruttamento di unpiacere istantaneo; il suo prolungamento al di là dei li-miti della natura; il conflitto tra le esigenze dei sensi ei metodi dell’intelligenza sono le espressioni di unostile decadente, che si definisce attraverso la sciagu-rata capacità dell’individuo a manovrare i propri ri-flessi. Il corrispettivo biologico della lucidità, della vo-lontà di non essere più dupe40, ha delle conseguenzecatastrofiche. I bambini potranno solo diventare per-sone che credono in qualcosa, che aderiscono, chesono abbastanza incoscienti per sentirsi parte di unanazione, che sentono gioiosamente il bisogno di in-gannarsi attraverso la partecipazione e le passioni.

Un popolo senza miti è sulla via dello spopolamento.Il deserto delle campagne francesi41 è il segno inquie-tante della mancanza di una mitologia quotidiana. Unanazione non può vivere senza idoli, e l’individuo è in-capace di agire senza l’ossessione dei feticci.

Fin quando la Francia riusciva a trasformare i con-cetti in miti, la sua viva sostanza non era compromessa.

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La forza di dare un contenuto sentimentale alle idee, diproiettare nell’anima la logica42 e di riversare la vita-lità nelle finzioni – tale è il senso di questa trasforma-zione e il segreto di una cultura fiorente. Generare mitie aderirvi, lottare, soffrire e morire per essi, ecco ciòche rivela la fecondità di un popolo. Le “idee” dellaFrancia sono state idee vitali, per il cui valore si è lot-tato anima e corpo. Se ancora mantiene un ruolo de-cisivo nella storia spirituale dell’Europa è perché haanimato tantissime idee, tirandole fuori dal nullaastratto della pura neutralità. Credere significa ani-mare.

Ma i francesi non possono né credere né animare.E non vogliono più credere, nel timore di essere ridi-coli. La decadenza è il contrario43 di un’epoca di gran-dezza: è la ri-trasformazione dei miti in concetti.

A un intero popolo davanti a vuote categorie – men-tre abbozza a mano libera una vaga aspirazione, di-retta verso il proprio vuoto spirituale – non resta altroche l’intelligenza non innestata sul cuore. Dunque ste-rile. E l’ironia, non sostenuta dall’orgoglio, non ha piùsenso se non come auto-ironia.

Nella sua forma estrema, questo processo è tipicodegli intellettuali. Niente, tuttavia, è più falso che cre-dere che solo essi ne siano stati toccati. Tutto il popololo è stato, a vari livelli. La crisi è strutturale e mortale.

Chi ha attraversato i villaggi francesi, un tempo si-52

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curamente animati da respiro e passione, difficilmentetrattiene una stretta al cuore davanti a una monotoniae un silenzio resi ancor più gravi e irrimediabili dal-l’esclusiva presenza di qualche vecchio, le cui rugheneppure consolano, poiché non offrono alcun ricordodi un altro passato. In tutte le provincie francesi, la to-tale mancanza di vita, di ritmo, di bambini, di futuro,uccide. È la morte assoluta, vegliata dal fascino ance-strale di chiese isolate, i cui campanili rassegnati, conuna vaga e vetusta civetteria, sembrano invitarvi adandar via, a non restare, malinconici, sulla soglia dellaloro definitiva assenza.

Né l’erranza dei miei passi, né l’amok44 esplosivo sisono mai fatti sentire così vivamente come nelle mieperegrinazioni lungo le strade della Francia. Sembravache fuggissi dall’odore della morte, dall’odore di chiusodi una staticità definitiva. Ma sapevo molto bene chequi, dove vagabondavo da anni, avevano vissuto, persecoli, le uniche persone felici. Tuttavia, la gloria ha unprezzo. La Francia “eterna”, prima di perdersi, diven-terà un paese come gli altri.

Sotto Napoleone, aveva ancora dei giovani. I suoimarescialli erano dei ragazzini. Egli stesso, a trent’anni,era sazio di gloria. Ma aveva tra le mani un paese an-cora capace di follia.

Se, per miracolo, un Napoleone fosse apparso inmezzo a tanti vecchi, cosa avrebbe mai potuto fare? Si

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sarebbe occupato probabilmente di filantropia, di pen-sioni, di archivi.

Quanto è stata grande, la Francia!La Rivoluzione del 1789 ha fatto il suo tempo, e la

borghesia pure. Abbiamo tutti il diritto di credere chenel suo incanto aurorale sia stata generosa, prodiga,accogliente. Ma chi l’ha conosciuta nel suo periodo didecomposizione, con il suo spirito avaro, litigioso emeschino, ha capito che un tale supporto sociale nonpoteva che condurre a una rapida rovina. La Rivolu-zione ha concentrato tutti i vizi del popolo francese.Dell’individualismo e del culto della libertà per iquali, un tempo, aveva versato il suo sangue, ha con-servato, nella sua forma crepuscolare, solo il denaroe il piacere. La sua fine segna il momento più medio-cre della storia di Francia. Essa ha solo una riserva so-ciale: il proletariato. E una sola formula: il comuni-smo. La sua tradizione giacobina non può arrivare adaltre soluzioni.

Ma lo stesso proletariato è infettato dalla mancanzadi missione, dall’ombra storica del paese. Del fremitorivoltoso delle masse moderne, ha conservato solo lerivendicazioni materiali, facendo rimbombare i suoibisogni e il suo odio. La Francia non ha più un destinorivoluzionario, perché non ha più idee da difendere45.Se anche facesse qualche rivoluzione, non potrebbeavere alcun significato particolare.

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Le forme spirituali del passato non vengono più insuo soccorso. Il cattolicesimo è così penoso, così pol-veroso, che rinnovarsi attraverso di esso equivarrebbea una legalizzazione della morte. Cosa potrebbe far-sene un popolo dagli istinti atrofizzati di liturgie so-porifere, di prediche intervallate da citazioni in latinoche sembrano più irreali di un sogno fatto nelle pro-fondità di una piramide? L’esaurimento spirituale con-duce alla mummificazione di una cultura. Tutta la suaallegria non impedirà alla Francia di diventare unamummia spirituale, come gli oracoli non l’hanno im-pedito ai Greci, né gli dèi ai Romani. Le Parche sonopiù spietate con i popoli che con gli individui.

* * *

Con una cultura così caratterizzata, la Francia non puòrivolgersi a soluzioni esterne. Le trasfusioni di sangueprolungano solo l’agonia. Considerato il suo grandiosopassato, sarebbe indegno ricorrere a tali viltà. Non puòessere alla propria altezza se non accettando una finecon stile, amministrando con maestria la propria cul-tura al tramonto, spegnendosi con intelligenza e per-sino con fasto – non senza corrompere la freschezzadei propri vicini o del mondo con le sue infiltrazioni

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decadenti e le sue insinuazioni pericolose. Può ancoraintervenire concretamente, solo in maniera negativa,nel cammino delle altre nazioni come focolaio di unanobile epidemia. L’Europa non ha forse bisogno, dopotanto fanatismo, di un’ondata di dubbi? E non cistiamo preparando tutti a un male del secolo il cui con-tributo sarebbe tra i più allettanti? Se la Francia ha an-cora un senso, è quello di evidenziare lo scetticismo dicui è capace, di darci la chiave delle nostre incertezzeo di distruggere le nostre certezze. A voler aggiustarequalcosa, si esporrebbe solo all’ironia e alla pietà. Leforze di un nuovo credo si sono da tempo spente in lei.Non ha fallito niente nel proprio passato. Ma se rifiu-tasse il suo destino alessandrino, mancherebbe la suafine. E sarebbe un peccato.

La Francia attende un Paul Valéry patetico e cinico,un artista assoluto del vuoto e della lucidità. Lui, chedi tutti i francesi di questo secolo si è meno ingannato– simbolo, attraverso la sua perfezione, dell’inaridirsidi una civiltà – non è la massima espressione della de-cadenza, poiché gli manca una vaga sfumatura profe-tica e il fiero coraggio nell’irreparabile. Sul versantedella raffinatezza, i francesi possono ancora essere fe-condi. La rinuncia al contenuto è il segreto di Valéry edell’avvenire francese. Il culto assoluto dei pretesti, so-stenuto da un dinamismo senza illusioni, ecco la viache si apre alle sue possibilità alessandrine. Se la Fran-

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cia non diventerà il paese delle pericolose sottigliezze,non abbiamo più niente da imparare da lei. Chi tro-verà la formula del suo sfinimento?

L’Europa ha ancora sufficiente vitalità per soppor-tare proficuamente un soffio di incertezze delicate evelenose. Il sangue germanico e slavo lo richiede, neha persino bisogno. Lo scetticismo conferisce nobiltàalla virilità e distinzione alla forza. L’avvenire spiri-tuale del continente sarà composto da un miscuglio diuniversalismo e scetticismo. L’impero dissolve le ideo-logie. Al loro posto appariranno dubbi infinitamenteraffinati. Le carenze della Francia orneranno le ener-gie dei popoli più freschi, e faciliteranno così il loroprocesso di disgregazione. La Francia servirà comun-que da modello alle grandi nazioni moderne; mostreràloro dove vanno e dove finiranno, tempererà i loro en-tusiasmi46. Giacché la Francia prefigura il destino deglialtri paesi. È arrivata più rapidamente alla fine, perchési è spesa molto, e da molto tempo ormai. Quando i te-deschi sono entrati a Parigi, prevedevano – poiché co-noscono la storia – come sarebbero andate le cose, leg-gevano il loro futuro nella rassegnazione e nella stan-chezza della Città.

I popoli iniziano in epopea e finiscono in elegia.Germania, Inghilterra e Russia sono i paesi delle di-

suguaglianze geniali. La loro assenza di forma inte-riore determina la loro evoluzione tra culmini e abissi,

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tra eccesso e serenità. Solo la Francia si è regolarmentesviluppata dalla nascita alla morte. È il paese più rea-lizzato, che ha dato tutto quello che poteva dare, chenon ha mai perso un’occasione, che ha avuto un Me-dioevo, un Rinascimento, una Rivoluzione e un Im-pero. E una decadenza. È il paese che ha fatto il pro-prio dovere. È il paese della realizzazione.

Slavi e germanici accettano la fatalità: la loro sortenon ha conosciuto un corso normale, mentre è statodato alla Francia d’avere un destino misurato. Si è svi-luppata come ordine parallelo alla natura. L’uomo hacontinuamente controllato il suo contenuto storico. Ilfrancese stesso si definisce come essere umano, e noncome individuo. La Francia, un paese di esseri umani enon di individui.

* * *

Nei periodi in cui una nazione è al suo apice, fanno au-tomaticamente la loro comparsa alcuni uomini chepropongono47 di continuo direttive, speranze e riforme.La loro insistenza e la passione con cui sono seguitidalle masse testimoniano la forza vitale di questa na-zione. Il bisogno di rigenerazione attraverso la verità el’errore è proprio dei periodi fiorenti. Uno svitato come

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Rousseau rappresenta un culmine di effervescenza.Chi dà peso ancora alle sue opinioni? Il loro tumultoci interessa, tuttavia, in ragione dell’eco che hanno su-scitato e del suo significato. Un’apparizione di questaportata è inconcepibile oggi. Il popolo non si aspettaniente. Chi gli potrebbe proporre qualcosa, e che cosa?I popoli vivono veramente solo nella misura in cuisono ingozzati di ideali, nella misura in cui non pos-sono più respirare sotto il peso di troppe convinzioni.La decadenza è la vacanza degli ideali, il momento incui si installa il disgusto di tutto; è un’intolleranza al-l’avvenire – e, in quanto tale, un sentimento deficitariodel tempo, con la sua inevitabile conseguenza: la man-canza di profeti e, implicitamente, di eroi.

La vitalità di un popolo si manifesta attraverso coloroche possono morire per valori che superano la sfera ri-stretta degli interessi individuali. L’eroe muore di suaspontanea volontà. Ma questo consenso finale è possibilesolo perché è spinto inconsciamente dalla forza di vitadel suo popolo. Quest’ultimo sacrifica i suoi membri pereccesso di forza. Un popolo muore di troppa vita attra-verso i suoi eroi. Quando non ne produce più – non ade-rendo più al tipo di umanità che essi rappresentano –l’inaridimento sigilla incurabilmente il suo avvenire conuno stigma negativo. Agli antipodi dell’eroismo si troval’amore della vita in quanto tale. Ecco perché le deca-denze non hanno respiro epico. In epoca greco-romana,

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l’epicureismo o lo stoicismo hanno annunciato la rovinadefinitiva del mondo omerico che aveva vissuto nellapoesia del fatto, mentre la fine della civiltà antica si com-piaceva nella prosa dell’intelligenza. La conclusione delprocesso francese non è qualcosa di diverso: è una prosadell’intelligenza. Le nazioni costruiscono il loro cam-mino attraverso errori sublimi e lo concludono in arideverità.

Gli eroi omerici vivevano e morivano; gli snob d’Oc-cidente disquisivano sul piacere e sul dolore.

Da francesi di crociata, sono diventati francesi di cu-cina o di bistrot: il bien-être48 e la noia.

È naturale che un popolo che muore non voglia mo-rire. La vecchiaia storica, come quella individuale, è unculto della vita attraverso la mancanza di vita. È la rag-grinzita caricatura del divenire…

La ricerca insistente della felicità, la sete dopo la pa-gliacciata del paradiso, la volontà di soffocare il cuoreamaro del tempo, l’interiorità degli istanti, sono leprove di un profondo affaticamento. Nel desiderio disfinirsi nell’immediato, c’è la rinuncia dell’infinito.Niente è più penoso che vedere una nazione che hafatto abuso – a giusto titolo– dell’attributo “grand” –grande nation, grande armée, la grandeur de la France49–degradarsi in un gregge umano che si affanna dietro lafelicità. Era realmente grande quando non la cercava.Nessuna guerra, nessuna rivoluzione, nessun monu-

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mento e nessun atto eccezionale si sono mai realizzatisenza la passione avventurosa per i flagelli dell’avver-sità e senza questa influenza della fortuna e della sfor-tuna che corona gli atti di gloria. “Le Français moyen”,“le petit-bourgeois”50: tipi vergognosi che circolano nor-malmente, che sono fioriti sulle rovine della grandezzae delle imprese del passato. Quale ironia della vita: ilsacrificio degli eroi è seguito dalle delizie della medio-crità, come se gli ideali schizzassero dalla gloria delsangue solo per essere calpestati dai dubbi.

* * *

Un popolo può essere considerato come colpito quandoi problemi penetrano nei suoi istinti, i dubbi nei suoisensi, le incertezze nei suoi riflessi. Il suo corpo accusagli interventi dello spirito. La decadenza biologica è uneccesso di razionalità negli automatismi. Le funzioninon rispondono in tempo e non svolgono il loro com-pito. La vita è piena solo nell’incoscienza. Un’anticacultura erode le proprie fondamenta, rallenta le rea-zioni spontanee e corrompe il sangue, calmandolo ecoltivandolo.

La scomparsa dell’irrazionale nel sangue è il peri-colo delle civilizzazioni nella loro epoca matura, come

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le invasioni dei barbari agli albori della civiltà. Unagoccia di coscienza nella sua circolazione – e la veduta51

del mondo cambia. Gli ideali crollano e, con essi, il simbolo della vita

che li ha sorretti. Una cultura muore a tutti i livelli e,più grave, anche nelle sue vene52. La raffinatezza si at-tacca alla loro sostanza53.

Cos’è la Decadenza, cos’è la Francia? Sangue razio-nale. Ciò la colloca in una situazione di contrasto ri-spetto ai “primitivi”, che non devono essere intesi solonelle arti, ma in tutti i piani dello spirito. La Francia ètutto quello che c’è di meno primitivo, cioè di fresco,di immediato, d’assoluto. Lo stadio aurorale di una ci-viltà è caratterizzato dalla relazione ingenua con glioggetti e i valori. Tutto ciò che entra nel campo dellapercezione o del ragionamento conserva un segno del-l’incondizionato, come un brivido virginale dello spi-rito aperto al mondo. Un “primitivo” crea senza sa-perlo, senza ossessione tecnica o riflessione estetica, apartire dall’istinto che lo pone nella vita delle cose. Èl’uomo che vive nell’estasi dell’oggetto. Per questo la suavisione è così poco problematica e così poco contami-nata dai dubbi e dalla coscienza.

Nello stadio crepuscolare di una civiltà, il dubbio so-stituisce l’estasi, e i riflessi non servono più come ri-sposta immediata alla presenza degli oggetti. Ci tro-viamo agli antipodi delle epoche primitive. L’artista di-

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venta un sapiente della percezione – per disgusto dellosguardo – e l’uomo una creatura parallela a sé stesso.Un tempo, respirava nei miti e in Dio: ora, nelle consi-derazioni fatte su di loro.

La corruzione dell’istinto è una vittoria catastroficadello spirito, e la cultura, nella sua totalità, non fa cheporre interrogativi alla biologia. Essi aumentano pro-porzionalmente alla raffinatezza dello spirito. La sto-ria delle civiltà coincide con le crisi biologiche, cheonorano la “vita” diminuendola.

I francesi si sono logorati per eccesso d’essere. Nonsi amano più, perché sentono troppo ciò che sono stati.Il patriottismo emana dall’eccesso vitale dei riflessi;l’amore del paese è quanto c’è di meno spirituale, èl’espressione sentimentale di una solidarietà animale.Niente ferisce l’intelligenza più del patriottismo. Lospirito, raffinandosi, soffoca gli avi nel sangue e can-cella dalla memoria il richiamo della zolla di terra bat-tezzata, dalle illusioni fanatiche, patria.

Come potrebbe la ragione, ritornata alla sua voca-zione essenziale – l’universale e il vuoto – spingere an-cora l’individuo disgustato di essere cittadino versol’idiozia delle chiacchiere della Città? La perdita degliistinti della Francia è il sigillo di un grandioso disastroinscritto nel destino dello spirito.

Come lo stoicismo, al tramonto della civiltà greco-romana, ha diffuso l’idea del “cittadino del mondo”,

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poiché nessun ideale “locale” accontentava più l’indi-viduo soddisfatto di una geografia immediata e senti-mentale, allo stesso modo, la nostra epoca – disponi-bile a causa della decadenza della più riuscita tra le cul-ture – aspirerà alla Città universale, in cui l’uomo,sprovvisto di un contenuto diretto, ne cercherà unopiù lontano, che appartiene a tutti gli uomini, inaffer-rabile e vasto.

Quando si sfilacciano i legami che univano i similinell’idiozia riposante della comunità, questi tendonole proprie antenne gli uni verso gli altri, come altret-tante nostalgie verso altrettanti vuoti. L’uomo mo-derno trova solo nell’Impero un rifugio che corri-sponde al suo bisogno di spazio. È come l’appello auna solidarietà esteriore la cui ampiezza lo opprime-rebbe e, al tempo stesso, lo libererebbe. Di cosa puònutrirlo una patria? Quando porta con sé così tantidubbi qualunque angolo di mondo può diventare unadimora. La coscienza, affrancata dagli appelli oscuridel sangue, si strappa dall’impaludamento dei sospirinatii, nella tradizione delle manie ancestrali. Nel per-correre con il pensiero o con le sensazioni alcune ci-viltà, trasformerete l’universo in culle intercambiabilie riscatterete le eredità materne o le impressioni d’in-fanzia con i benefici incerti del distacco. Il camminodella storia soffoca la voce della terra. Il suo avanza-mento ha polverizzato le mura della Città e distrug-

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gerà quelle della coscienza. Essere a casa ovunque,ecco la legge che una civiltà troppo matura impone al-l’uomo e che trasforma il suo seme in frutto marcio.In fondo, cos’è la civiltà? Un inutile guardiano dellaluce.

* * *

La sfortuna della Francia è che il suo tramonto è dive-nuto evidente in un’epoca in cui ognuno conosce lastoria. Il XIX secolo ci ha lasciato in eredità una pro-spettiva sulle civiltà, sulle loro convinzioni e la loro fi-losofia. Siamo tutti, a diversi gradi, vittime dell’infor-mazione, e non abbastanza ingenui per giudicarne lavitalità e i valori. L’alessandrinismo, uno stile di cul-tura costruito sul senso della storia, ci obbliga a dellesintesi che sfruttiamo con fantasia e sapiente irre-sponsabilità. Esteti dell’universo storico, consideriamole credenze degli altri come pretesti, e le loro deca-denze come spettacoli. Del declino della Francia si puòparlare solo in termini estetici; noi non lo avvertiamonegativamente e neppure i Francesi lo provano. Glisviluppi storici universali hanno il valore di vedute. Eil Divenire stesso, cos’è se non una funzione tragico-mica delle nostre fascinazioni?

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La Francia è una brillante occasione per verificarele esperienze negative. Ci autorizza al disincanto e algioco, al paradosso e all’irresponsabilità. Il suo destinoci rafforza negli scacchi, ma non possiamo rovesciarei nostri fallimenti sui suoi – un’alleanza di estenuantisforzi per il gusto di futuri esteti.

Essere alessandrino, cioè lirico e freddo; parteciparecon tutto il cuore, ma con obiettività; debordare spet-tacolarmente. Impossibile altrimenti sentire il passatoe il presente.

Un paese che non vive più nel possibile, cosa può ispi-rare se non una tenerezza ironica?

La malattia del presente? Le mie ferite si toccano conle ferite della Francia. Che incontro fatale!

* * *

Una decadenza di cui percepiamo tutto il senso divienefeconda per noi, non per coloro che la subiscono. An-cora una volta ci arricchiamo alle spalle della Francia.Siamo i vampiri intellettuali dei suoi tormenti.

Nella sua mancanza di miti, piantiamo la tenda dellenostre imprese intellettuali, nel suo vuoto, ci eserci-tiamo nell’avventura. Che fastidio, le sue eventuali spe-ranze! Un paese che serve solo come luogo di partenza

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per il volo verso le altezze e le irrealtà dello spirito, unpaese senza alcun punto d’appoggio, ma dal cui oriz-zonte possiamo ancora definirci come davanti a uncielo pallido, consapevoli che ne maschera un altro az-zurro. Giacché, per quanto benevoli possiamo essere,la si può scusare soltanto per il suo passato. Quandol’Europa sarà avvolta dalle ombre, la Francia rappre-senterà la sua tomba più viva.

***

Lo sradicamento dai valori e il nichilismo istintivo co-stringono l’individuo al culto della sensazione. Quandonon si crede più a niente, i sensi diventano religione. Elo stomaco finalità. Il fenomeno della decadenza è inse-parabile dalla gastronomia. Un romano, un certo GavioApicio, che percorreva le coste dell’Africa alla ricercadelle più belle aragoste e che, non trovandole di suogusto in alcun luogo, non riusciva a stabilirsi da nes-suna parte, è il simbolo dei deliri culinari che si in-staurano in mancanza di fedi. Da quando la Francia harinnegato la sua vocazione, l’atto del mangiare si è ele-vato al rango di rito. Ciò che è rivelatore, non è il fattodi mangiare, ma di meditare, di speculare, di intratte-nersi per ore e ore su questo argomento. La coscienza di

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questa necessità, la sostituzione del bisogno con la cul-tura – come nell’amore – è il segno dell’affievolirsi del-l’istinto e dell’attaccamento ai valori. Ognuno di noi hapotuto fare quest’esperienza: quando nella vita si at-traversa una crisi scatenata dal dubbio, quando tuttoci disgusta, il pranzo diventa una festa. Gli alimenti so-stituiscono le idee. I francesi sanno di mangiare da piùdi un secolo. Dall’ultimo contadino all’intellettuale piùraffinato, l’ora del pasto è la liturgia quotidiana delvuoto spirituale. La trasformazione di un bisogno im-mediato in fenomeno di civiltà è un avanzamento pe-ricoloso e un grave sintomo. La pancia è stata la tombadell’Impero romano, ineluttabilmente lo sarà ancheper l’Intelligenza francese.

* * *

L’alessandrinismo è il periodo dei rinnegamenti sa-pienti; il rifiuto come stile di cultura. L’uomo erra connobiltà tra gli ideali; il pensatore fa serpeggiare consottigliezza la sua mente tra le idee. Né l’uno né l’altrofanno sosta da qualche parte. Non hanno patria, né fo-colare. Poiché la decadenza è l’assenza del tetto spiri-tuale, cioè la negazione della dimora attraverso lo spi-rito. Dove piantare il corpo e fissare l’ispirazione? L’im-

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maginazione erudita vi spinge in tutte le direzioni;nessun orizzonte dello spirito arresta la curiosità per lecose nuove… invecchiate. È l’avventura senza spe-ranza, la disperazione nostalgica.

Ci sono dei paesi che sono fecondi e vasti solo nelladecadenza. È il caso dell’antica Roma, troppo conte-nuta ai suoi albori, conquistatrice durante il suo cre-puscolo. L’invasione delle religioni orientali, la molti-tudine dei nuovi idoli che cavalcavano le superstizioniautoctone, lo scetticismo e l’immoralità che alleggeri-vano i costumi delle province, portarono a compi-mento il suo tramonto.

La fine della Francia non si misura. È troppo natu-rale, troppo evidente e troppo poco densa; è la conclu-sione logica del suo divenire; così logica che non stu-pisce. Lo straordinario non è una categoria francese.Un’agonia priva di grandezza. Come se avesse finito ilsuo vuoto…

La Francia non è al riparo di Niente; è allo scopertodi fronte al futuro. In essa tutto ciò che non è amarezzaè segno di volgarità.

La felicità francese ha perso il proprio ritmo vivacee generoso, essa è gioia senza contenuto, fuga dallepreoccupazioni e dalle responsabilità. Il vuoto dellaFrancia – testimoniato dalla ricerca del divertimentoa ogni costo – diventa agli occhi dello spettatore unaspetto54 molto triste. Il bisogno di ridere – il terrore

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davanti alla fronte corrugata – prende l’aspetto gros-solano di una nazione decaduta sul mercato. In altrisecoli, gioiva nel non prendere la vita sul serio, per ec-cesso di gravità; ora, è assillata dal vuoto, tormentatada cuori svuotati. Il contenuto sentimentale della tri-stezza le instilla paura: il suo riso è aspro, uno spasmodi sangue acre. Il suo declino, evidente da quasi un se-colo, non ha spinto nessuno dei suoi figli a protestaredisperatamente. Si direbbe che tutti non aspettasseroaltro che farsi dimenticare55, impercettibilmente, nel-l’opulenza… Il disgusto del sensazionale in un popoloche fu per molti secoli il sangue di un continente e lagloria dell’universo, la racchiude irrimediabilmente inun futuro anonimato.

* * *

Se i francesi non si fossero disgustati di loro stessi, me-riterebbero il disprezzo. È la prima volta nella loro sto-ria che conoscono questo sentimento. Ma esso non hané la forza necessaria né il brivido torturante. Noialtri,incatenati ai nostri destini approssimativi, lo proviamonell’attimo della nostra prima riflessione, nasciamo conesso e lo sviluppiamo col passare del tempo, ne su-biamo le esperienze e le alienazioni – come certi poveri

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ebrei non ingannati da tentazioni messianiche. Tutti ipaesi falliti hanno qualcosa dell’equivoco del destinogiudaico; sono erosi dall’ossessione dell’implacabile in-compiutezza. Come se non fossimo nati nel nostro ele-mento, la “patria” è un simbolo di interminabili dubbi,un punto interrogativo che non trova nessuna risposta– né etnica né sentimentale e neanche geografica.

La Francia è qui; ha trovato il suo posto nel mondoa tutti i livelli. Ha perso solo l’avvenire. Come ha po-tuto evitare la vecchiaia? I suoi vetusti prestigi la ele-veranno forse alla nobiltà del rinnegamento? Il secolodei Lumi avrà lasciato sufficienti riserve d’intelligenzaper coltivare superbe negazioni? Un tramonto che nonsi capisce perde la sua poesia nel ridicolo.

Progetti e speranze, nel momento dell’imbalsama-zione, rasenterebbero la volgarità e getterebbero un’om-bra triste sulla sua antica gloria. Le civiltà mature chenon hanno compreso56 la gloria dell’estinzione susci-tano la pietà delle nazioni inferiori. Sulle sponde dellaSenna, sogno una grandezza crepuscolare che impor-rebbe le sue assenze a un continente incerto. La Franciasaprà essere presente attraverso… ciò che non c’è più?

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Il mio destino è di avvolgermi con i resti delle civiltà.Come mostrare la mia forza se non resistendo in mezzoal loro putridume? Il proporzionato rapporto tra barba-rie e nevrastenia mantiene in equilibrio questa for-mula. Esteta dei tramonti delle culture, getto unosguardo tempestoso e trasognato sulle acque mortedello spirito…

Nell’onda così calma della Senna57 vedo riflettersi lamia mancanza d’avvenire insieme a quella della Città,e lascio al fiume indifferente58 la mia stanchezza tre-mante.

Venuto da lande primitive, dal sotto-mondo dellaValacchia, con il pessimismo della giovinezza, in unaciviltà troppo matura, quale fonte di brividi davanti atanto contrasto! Senza alcun passato in un passato im-menso; con il terrore originario nello sfinimento fi-nale; con il tumulto, e una vaga nostalgia in un paesedisgustato dell’anima. Dall’ovile al salotto, dal pastore59

ad Alcibiade! Che salto oltre la storia, e che fierezza pe-ricolosa! I tuoi antenati si trascinavano nella pena, edecco che, per te, il disprezzo sembra essere un’azione,e l’ironia, senza il profumo di una tristezza astratta,un’impresa volgare.

Non poter vivere se non nel paese dove chiunquepuò essere toccato dall’intelligenza! Un universo com-posto da agorà e salotti, un incrocio di Ellade e Parigi,ecco lo spazio assoluto dell’esercizio della mente.

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L’avvenire60 umano si dispiega tra questi due poli: ilpastoralismo e il paradosso. La cultura è una sommad’inutilità: il culto della sfumatura, la delicata compli-cità con l’errore, il gioco sottile e fatale con l’astrazione,la noia profonda, il fascino della dissoluzione. Il restoè agricoltura.

* * *

Le decadenze sono: tranquille, galoppanti o verticali.Quella francese sembra trovarsi nel mezzo. Tre

modi di andare a fondo, che si differenziano per il lororitmo. L’annegamento di una civiltà… rivela la vitacome un gioco d’impudica fatalità e di spietato rigore.In fondo, cos’è una civiltà? Un’organizzazione dell’as-surdità della vita, un ordine provvisorio nell’incom-prensibile. Appena i suoi valori si esauriscono e nonspingono più l’individuo verso la fede e verso l’azione,la vita rivela il suo non-senso.

Colui che vive ai margini di tutte le forme di cultura,che non cade vittima di nessuna, si condanna da sé,poiché intravede il niente dell’essere nella loro traspa-renza.

La successione delle civiltà è la serie di resistenzeche l’uomo ha opposto all’orrore della pura esistenza.

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* * *

Un popolo ha vitalità finché accumula forze pericoloseper sé e per gli altri. Ma quando lo squilibrio e la rivoltacominciano a neutralizzarsi, quando ogni istante delpresente non è più l’occasione di una crisi feconda peril futuro, la sua tensione non oltrepassa la soglia deltempo. Esso cade sotto il dominio del tempo. E gli eventilo schiacciano. Il fenomeno della decadenza rivela lo sci-volamento verso la dipendenza del tempo. Nessun po-tere sotterraneo sorge per imporre una nuova configu-razione alla storia. Il divenire significa allora inerziadella dissoluzione, impossibilità della sorpresa.

Un paese che non è più un minaccia per sé stesso –in cui nessuno più si stupisce – sogna la sua perma-nenza nei simboli negativi della durata: la culla e latomba.

Il tempo gira allora invano attorno alla propria dis-soluzione… Non può più pompare il futuro. Nelmondo, tutto appassisce: desideri, pensieri, cieli e ci-viltà. Una sola cosa resta in fiore: l’assurdo, l’atempo-rale assurdo.

Dal punto di vista della vitalità, essere avanti è dan-noso, poiché facendo un passo – anche più d’uno – aldi là delle evidenze della vita, ci si libera del peso fe-condo dei valori.

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Un paese avanzato non patisce alcuna complicitàcon un ideale qualsiasi. Raccoglie in sé tutto ciò chepotrebbe costituire una negazione del gotico, cioèdello slancio, della trascendenza, dell’altezza. La suaenergia non tende verso l’alto, si piega. La Francia èNotre-Dame riflessa nella Senna – una cattedrale cherifiuta il cielo.

Un individuo, una civiltà avanzano al di fuori dellavita. Ogni progresso implica un’equivalente rovina. Sulpiano storico, la progressione assoluta significa la finedi una missione; per l’individuo, l’impossibilità di vi-vere.

Cosa apprendere dalle civiltà che hanno fermentatotroppo, se non morire? La Francia mi offrirà forse lalezione di una onorevole agonia?

Un intero paese che non crede più a niente, che spet-tacolo esaltante e insieme degradante! Sentire i fran-cesi, dall’ultimo dei cittadini al più lucido, dire col di-stacco dell’evidenza: “La France n’existe plus”, “Nous som-mes finis”, “Nous n’avons plus d’avenir”, “Nous sommes unpays en décadence”61, che lezione tonificante, quandonon si è più amanti delle illusioni! Mi sono spesso ab-bandonato con voluttà all’essenza dell’amarezza dellaFrancia, mi sono deliziato della sua mancanza di spe-ranza, ho lasciato rotolare i miei brividi disincantatilungo i suoi pendii. Dopo che per molti secoli è stata ilcuore spirituale dell’Europa, la naturale accettazione

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della periferia l’abbellisce ora di una vaga seduzione ne-gativa. Per chi cerca i declivi, lei è lo spazio consolatore,la fonte torbida dove si disseta la febbre inestinguibile.Con quanta impazienza ho atteso questo esito, tantoproficuo per l’ispirazione malinconica! L’alessandrini-smo è la dissolutezza erudita come sistema, il respiroteorico all’imbrunire, un gemito di concetti – e il mo-mento unico in cui l’anima può accordare le proprieombre allo sviluppo oggettivo della cultura.

Se il crollo della Francia non ha destato troppo scal-pore, è accaduto per i suoi precedenti e per la naturadella sua storia.

Mai ha amato il ritmo violento né l’eccesso disu-mano; non conosce l’equivalente del dramma elisa-bettiano o del romanticismo tedesco. Estranea ai sim-boli potenti della disperazione o ai doni impetuosi del-l’esclamazione – dove trovare una Santa Teresa traqueste donne dal sorriso intelligente? – la Franciaporta a buon fine la sua caduta, secondo il ritmo spe-cifico della sua evoluzione. Siccome non ha consumatola sua vitalità in sobbalzi esasperati, la sua vecchiaianon può più dar luogo ad aspre tensioni. La dolcezza diMontaigne62 la veglia durante il suo crepuscolo, cosìcome la vegliò ai suoi inizi. La Francia si prepara a unafine decente. Ci sono momenti in cui la speranza cor-risponde a una mancanza di nobiltà, e la ricerca dellafelicità a un inconveniente.

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La Francia è certamente un organismo. Ma nel suosviluppo ha toccato un così alto grado di perfezioneche trova meglio i suoi simboli nelle figure geometri-che che negli accidenti del divenire biologico. I suoi va-lori si legano secondo il modello degli schemi e la pu-rezza delle astrazioni. Ci si chiede come può perire ciòche condivide l’apparenza della stabilità? E come delleforme destinate a rimanere immutabili, a causa dellaloro vuota rotondità, possano logorarsi?

La decadenza della Francia non rassomiglia alladecomposizione di una geometria? Sarebbe forsequesto il caso, se si trattasse di un male formale? Ma sitratta di un male dell’anima la cui rovina si riflette nelmondo dei valori, delle forme, della cultura propria-mente detta. Come sistema di civiltà in sé, la Franciapotrebbe perpetuarsi in maniera indefinita; ma co-loro che lo portano, coloro che l’hanno prodotto, nonlo sopportano più, non lo producono più. I valori diun paese possono durare, ma l’anima – la loro radice– non dura più. L’uomo, in effetti, si è inaridito. Enella misura in cui marcisce, le sue creazioni entranonella storia dello spirito, che non è altro che unaforma consolatoria dell’archeologia, vera e propria fi-nalità degli sforzi umani.

Non conoscendo rotture né pause – al contrariodella Spagna dopo la caduta dell’impero o della Ger-mania dopo la pace di Vestfalia – si è sviluppata se-

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condo le leggi della crescita normale. Il suo divenire ènaturale. È per questo che non ha formulato la teoriadel divenire, e che il mondo l’ha creduta statica. Il di-namismo – trattenuto in un culto astratto – implicarotture e irrealizzazioni intime, l’incapacità di evolverenormalmente. I paesi senza compimento naturalesono quelli che hanno bisogno della parata teorica deldivenire. L’irrazionalismo tedesco o il pensiero apoca-littico russo – religioso o nichilista, poco importa –sono sorti dalla sete di compimento di due grandi po-poli cui la storia non ha sorriso – disponevano di uneccesso di vitalità che non poteva esprimersi in realiz-zazioni e valori oggettivi. Essi apportavano un surplusdi vita, che non si accordava alla loro realtà politica mi-nore: costretti alla virtualità da cui nasce, d’altronde,il dinamismo, mentre la Francia, durante la sua su-premazia, era attualità. Vista dall’esterno, la sua evo-luzione conosce un minimo di disaccordi, di assenze edi pause. A cosa le sarebbe servita una teoria del dive-nire? Lei sa cos’è. Un paese sicuro del proprio futuro,signore del suo tempo, non ha bisogno di dinamismo;lo vive – a meno di non infonderlo nella sua deca-denza, per un rifiuto del ridicolo che compromette-rebbe così la sua notoria lucidità…

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La Francia può ancora fare una rivoluzione. Ma senzagrandezza, senza originalità e senza scalpore: pren-dendo in prestito i miti dagli altri – come i comunistifrancesi, i soli a possedere una vena rivoluzionaria –raffazzonando discorsi con vecchie frasi, con pezzeanarchiche e con la disperazione della piccola borghe-sia che ha perso la testa. Bisognerà, prima che abbiacompletamente esaurito le sue possibilità di rigenera-zione sociale, che la zizzania – la populace63– trionfi,faccia la propria comparsa. La vita esiste solo in ban-lieue64. Una Francia proletaria è ormai l’unica possibile.Solo che la sua classe operaia non ha né risorse di eroi-smo né slanci sovversivi. La carriera rivoluzionariadella Francia è virtualmente conclusa. Lei può solo lot-tare per il suo stomaco. L’eroismo, che implica unostrano miscuglio di sangue e di inutilità, non può piùessere il suo ossigeno. Mai un popolo con gli istinti as-sopiti ha proposto all’umanità il benché minimo ideale,e neppure briciole di fede. Un’intelligenza sveglia, mapriva di vitalità, diventa lo strumento artificiale dei pic-coli fatti quotidiani, della caduta in una mediocrità senzarimedio.

Una nazione raggiunge la grandezza solo se guardaal di là delle sue frontiere, odiando i propri vicini e vo-

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lendo soggiogarli. Essere una grande potenza significanon ammettere valori paralleli, non sopportare vita ac-canto a sé, imporsi come senso imperativo e intolle-rante. Le grandi potenze soffrono della malattia delleseparazioni, languiscono virilmente per lo spazio. I cit-tadini disprezzano le comodità minori del focolare do-mestico; i contadini guardano al di là dell’orizzontedell’aratro. Un tempo, dai villaggi francesi scaturivanoenergie debordanti, forze avide di gloria.

…Oggi, l’aratro è noioso, le fattorie intorpidite, il la-voro senza fascino. Questo stesso tipo di stanchezzadovette prendere anche i legionari romani, quando ilmonumentale furore delle spedizioni si fu placato.L’agricoltura non può rimpiazzare la gloria. Quandoun popolo l’ha assaporata lungamente, una volta fi-nita, niente può sostituirla. È il caso della Francia, ilcui solo contenuto è la sua antica gloria, che non scaldapiù nessuno. Nella decadenza, un popolo si separa dasé stesso. La creazione si limita allora, per lui, a ordirela sua assenza con un vago sforzo, a conservare la pro-pria sterilità, allo stesso modo in cui il fallimento del-l’individuo si riduce a coprire, con un velo d’intelli-genza, il putridume del suo midollo spirituale. L’animache velocemente innalzava, in un allegro, i suoi sensigenerosi finisce in un andante stizzito, ritmo prede-stinato per tutte le forme di intorpidimento, storico oindividuale.

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L’alessandrinismo può essere considerato come unaforma di cultura riuscita quando rappresenta una pie-nezza della decrescita. Ci sono disgregazioni feconde e di-sgregazioni sterili. Una grande civiltà che si provincia-lizza diminuisce il suo volume spirituale; ma quandostende gli elementi della propria dissoluzione, quandouniversalizza il proprio insuccesso, il crepuscolo con-serva i simboli dello spirito e salva le sue parvenze di no-biltà. Un certo patetismo della vecchiaia si addice a unacultura in declino; essa può persino costituire, per laqualità particolare dei suoi pendii, una grande epoca.Allora, l’individuo che ne fa parte può essere fiero delpresente; ha il diritto di disprezzare il passato e il fu-turo. Anzi, è obbligato a farlo. Mettendo a tacere le an-tiche glorie e guardando dall’alto verso il possibile, siallunga sulla culla estetica della raffinatezza, e non hapiù paura del tempo. Ma chi non porta un Alcibiadenel sangue non ha niente da fare nelle epoche troppomature. Se è giovane, è maldestro; se vecchio, ago-nizzante. Incapace di stare alle regole del gioco – giac-ché lo spirito è gioco – si risveglia privato delle suepossibilità!

Avere coscienza del momento storico della deca-denza non è una gran cosa; ma è estremamente diffi-

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cile trarne le conseguenze, accettare la verità che ci è im-posta dall’evidenza. Poche persone si rendono contoin maniera lucida dello stile complesso della deca-denza, pochi hanno coscienza del fenomeno che laforza del divenire li costringe a vivere.

Un’epoca alessandrina è un’epoca di sintesi. In essasi inframmezzano tutte le forme della cultura, perchémanca di originalità produttiva e dispone solo di undestino che riassume bilanci e contabilità spirituali.Andare a fondo con questo immenso materiale, chesorte invidiabile! Ma quanti sono in grado di apprez-zare questo eccesso della decrescita? Per vivere vibra-tamente il vuoto traboccante della sera spirituale, oc-corre non solo educare il nostro senso storico, maanche prendere le distanze dal mondo, coltivare unacerta sensibilità neroniana senza follia, una predispo-sizione per i grandi spettacoli, per le emozioni rare epericolose, per le ispirazioni audaci. Colui che nonama l’attrazione equivoca dei crocevia, che cosa puòcercare in questi tempi in cui scricchiolano le articola-zioni di una civiltà e, in altri luoghi, lievitano formenuove – se non il caos?

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Paese nel mezzo, tra il Nord e il Sud, la Francia è unMediterraneo con un supplemento di bruma. In questaterra dove sono nate le cattedrali e Pascal, il blu èscuro, e per quanto possa eccellere in chiarezza, non èmeno striata dalle suggestioni dell’oscurità. La Fran-cia, nella sua totalità, è più profonda di quanto sembri.Tra tutti i grandi paesi, nessuno dà l’impressione – aprima vista – di tanta superficialità. Questo perché hacoltivato le apparenze. Ma le ha coltivate in profondità;le ha ben curate; le ha dissodate. Non ha il senso deimondi sotterranei e non è inseguita dalle essenze, maè il paese del fenomeno in sé. Un paesaggio di Monet –che esaurisce la poesia del visibile – la soddisfa. L’im-pressionismo è l’apparizione più naturale dell’artefrancese, in qualche modo è la conclusione del geniofrancese. Se le apparenze sono tutto, la Francia ha ra-gione. Non si può dire molto su di esse. La Francia hacapito persino le apparenze delle tenebre. La proba-bile infondatezza della metafisica potrebbe salvarla perl’eternità. Una cultura di misteri fuggitivi, ma senzamistero. E senza genio selvaggio.

Qui sta una delle sue carenze costitutive, e la spie-gazione della vistosa calma della sua decadenza. Laburrasca dei sensi – che gli inglesi vivono ma che oc-

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cultano per dare libero corso talvolta alla sua furia –ecco cosa manca alla Francia. Quanto sembra pallidaaccanto all’Inghilterra! Non ha neanche un equiva-lente – seppur minore – di Shakespeare.

Anche se, a partire dal suo fenomeno evolutivo, unaciviltà reca un germe di morte e si dirige verso la suafine fatale, un tumulto interiore suggerisce un fremitodi vita che copre l’inevitabile decomposizione. Ma laFrancia – sotto tutti gli aspetti del suo spirito – si è sfor-zata di soffocare il ribollire primario dell’uomo. Losforzo di stilizzazione ha ucciso il genio selvaggio el’originalità passionale, che si addicono così bene siaai poeti inglesi che al fondo anglosassone. In essa nonvi è nulla del sogno infinito delle grandi civiltà, nédella paura dei limiti dell’immanenza, che fondanol’appello65 dell’ispirazione liberata . Una nazione apoe-tica. Non è forse significativo che Baudelaire e Mal-larmé – il primo, grande poeta, il secondo, grande ar-tista – si siano nutriti della sostanza poetica dell’In-ghilterra, che siano anglicizzanti nell’intimità del-l’anima e non solo per formazione intellettuale? LaFrancia non ha abbastanza apertura sul caos, suldramma dell’imperfezione e sulle gestazioni cosmiche.Una cultura acosmica è una cultura senza grandi poeti.Cosa potrebbe opporre al preromanticismo inglese?

Gli stati vaghi – le irrealizzazioni monumentali –come poterli tradurre in una lingua lineare? Come tra-

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durli visto che non li conosce? Le sfumature della lin-gua tedesca per esprimere le variazioni della tristezzale sono estranee. La pleiade dei poeti del romanticismotedesco ha eccelso nella gamma del vago, di quel vagoche avviluppa il mondo. La poesia si esercita solo nelleindeterminatezze metafisiche, nel vuoto che si apre traanima e cielo. Un Novalis è incompatibile con lo stiledella cultura francese, con lo stile della perfezione fe-nomenica.

La Francia ha opposto l’eleganza all’infinito. Da qui,tutti i meriti e tutte le carenze del suo genio.

Lo spirito diventa indagatore nel momento in cuiniente gli sembra più assurdo dell’Evidenza. Ma cos’èla sua eleganza se non un culto mantenuto dalle evi-denze? La densità dell’oscurità nei fondamenti abissalidi una civiltà sostiene il suo dinamismo, mentre laquantità di luce la condanna alla sterilità. È la con-danna dell’equilibrio immobile, la soppressione delritmo e della dialettica. Il razionalismo come forma divita è la negazione della vita. Vivere effettivamente èuna crisi continua dell’ordine. Lo stesso progresso –che può essere solo concepito come un tempo pieno –è una rovina costante della dimensione formale del-l’esistenza.

La Francia rappresenta un tipo di cultura antidioni-siaca. L’estasi e l’ebbrezza dello spirito, la comunionenella confusione feconda e il torbido sorriso dell’anima

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che rendono il mondo mistico, non si accordano conl’inclinazione alle dissociazioni, in cui lei eccelleva. Ilculto del contorno – il disegno, sul piano dello spirito –ne fa una cultura non geniale. Poiché tutto ciò che simantiene nei limiti della forma, all’interno della puraapparenza, rimane esterno al genio. Una paese conlaghi di pensiero, ma senza suggestione oceanica…Viene talvolta da credere che il secolo dei Lumi si siafissato in una spietata perfezione, come una protestacontro l’infinito. Il sole, i mari e i continenti dei sensierano troppo volgari per penetrare nelle astrazionisenza l’orizzonte dei salotti. Nessun’altra civiltà ha pas-sato a un vaglio più stretto l’universo, mai l’occhio èstato più adattato a organo di delimitazione, e il suoquadro a simbolo della perfezione.

In Spagna, un Van Gogh sarebbe stato un’appari-zione naturale; in Francia, l’olandese ha qualcosa diapocalittico. Il brivido orgiastico non entra nelle pos-sibilità dello spirito francese, che è definito in opposi-zione ai fondamenti abissali dell’uomo e agli oracolidell’anima. Ma troppa decenza risveglia una sensa-zione di sterilità e di incistamento. Il nostro bisognodi immenso tenta di trovare su altre sponde il respirodell’orgia: la Francia – con troppe cupole e troppepoche torri – è insufficiente per le nostre ricercheverso l’alto come verso il basso. Le culture acosmichediventano anemiche nella mediocrità delle evidenze.

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Sapreste, guardando morire un popolo, rafforzarele vostre convinzioni infiacchite, ergervi con il furoredel male interiore contro la tentazione del contagio?La veduta delle grandi dissoluzioni ci intossica e ci in-durisce. Il veleno abbatte la nostra fiera costituzione,ma la volontà di non perire provoca la reazione. Rifiu-tare di spegnersi benché ci si sia compiaciuti di proce-dere dritti sulla via dell’estinzione. Farsi un destino diprotesta contro la sorte, combattere contro la fatalità,ecco la conclusione vittoriosa degli spettacoli storici.Sebbene io capisca infinitamente meglio i Romanidella fine, rammolliti dal vizio, dalla mancanza di fedee dal lusso, rispetto a quelli della grandezza, aspri, sanie fiduciosi nei loro idoli, conservo da qualche parte ilrispetto per gli altari dell’illusione e per i templi nonscossi dall’ironia. Quando Catone il Vecchio diceva chedue aruspici non potevano guardarsi onestamente infaccia senza scoppiare a ridere, io ci credo, senza rim-piangere le vitali superstizioni. Una volta che i nostrisimboli sono stati annullati dalla lucidità, la vita si tra-sforma in un amaro vagabondaggio tra templi abban-donati. Come vivere ancora con le sole rovine deglidèi? L’esortazione a esistere mi spinge a sognare altriinganni; e non sono trascinato nelle decadenze senzaprovare il bisogno di avvistamenti menzogneri. La pul-sazione della linfa richiede l’occupazione di un terri-torio vacante; slanci da conquistatore si agitano nei ci-

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miteri. Il Barbaro si è risvegliato. È la sola risposta –quella della vitalità – ai dubbi della conoscenza.

Quando l’istinto ha l’ultima parola, il pericolo di ro-tolare dal pendio della sparizione diminuisce. Coloroche appartengono a una cultura decadente non cel’hanno più, e dunque la salvezza non è più possibile.La protesta dei riflessi contro la tentazione del tra-monto implica un fondo segreto di salute e di forza,che non potevano essere soffocate dai riflessi crepu-scolari.

E poi, c’è nell’individuo un’avidità d’essere che di-sarma gli appelli del nulla, un appetito miracolosoper l’esistenza, che schiaccia la complicità dilettantesotto la nobiltà equivoca dei crepuscoli. Per quantopossa piacervi lo smembramento di una civiltà, fin-ché le vostre articolazioni resistono, rimarrete estetidalle risorse primarie, non essendo abbastanza ma-turi – salvo nel pensiero – per morire, né sufficiente-mente marci per andare a fondo, ma solo abbastanzafieri per non farvi disonorare da adescamenti esal-tanti. Finché non avrete deposto le armi, finché unavasta visione non vi avrà completamente roso le mi-dolla, voi disporrete ancora della forza necessaria peraffrontare ogni spettacolo. Una specie di furore mo-ribondo giace negli esteti della decadenza. Ma loropreferiscono la vista della morte alla morte stessa. Laquestione è: fino a dove saranno trascinati66 nel gioco

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fatale, fino a che punto potranno resistere alla sua at-trazione morbosa67?

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Tutta una civiltà collocata al di fuori del possibile. Eccoil senso di una doppia discordanza: individuale e sto-rica. Uno stesso affanno nei battiti del cuore e nel-l’universo dei valori. L’anima non dà più il ritmo e nondona più il suo contenuto a questo universo. Un paesesenz’anima smette di essere un pericolo per i suoi vi-cini.

Il mondo slavo si eleva con fare minaccioso in Eu-ropa a causa del suo eccesso d’anima. La Russia ne hatroppa. la Francia, troppo poca. Esse si contrappon-gono nella maniera più significativa; vicendevolmentesi reclamano, come le luci dell’alba si rivolgono alle lucidell’imbrunire. I romanzi di Dostoevskij ci rivelano ladesolazione profetica del cuore dell’uomo; i suoi perso-naggi sono degli eroi. Les Fleurs du mal – la desolazionepriva d’avvenire; l’individuo soffre senza avere alcunapossibilità di agire in una dimensione del tempo. La mi-seria psicologica dello slavo è fertile, aperta alle oppor-tunità; gli individui hanno un destino – soprattuttoquando si decompongono; e si decompongono per un

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eccesso di vita. Il finale dostoevskiano è annunciatoredi mondi venturi; quello baudelairiano è la fine di unacultura, è il vuoto dell’anima e dei valori. La Francianon ha più l’energia che costituisce l’esistenza deglieroi. I russi possono essere negativisti, poiché credonoalle negazioni, che non sono per loro un semplice spet-tacolo. È l’intensità, e non l’orientamento, a decidere laqualità delle convinzioni. Esse creano una persistenzanello spirito, anche quando lo combattono. Una fede èsempre un pericolo, poiché è un segno di vita, mentreil dubbio dell’intelligenza tocca solo altre intelligenze.

Il massimo che un francese potrebbe ancora realiz-zare, sarebbe un’esistenza pascaliana senza grandi in-quietudini. La sua unica forma di avvenire è un Pascalvuoto – mentre i russi, collocati all’altra estremità geo-grafica e spirituale, hanno dietro di loro la tradizioneinteriore delle sette, delle possibilità assolute d’erroree d’aderenza. Essi traboccano di universo. Manca lorosolo la forma per realizzarsi nell’ordine oggettivo dellacultura. Ai francesi non restano che le forme. I tedeschisi pongono più o meno nel mezzo, tra un mondo inde-bolito e un altro che sta per fondersi68; hanno ancoraun’anima, ma teoricamente rivolgono lo sguardo senzadisdegno al livello del divenire francese, perché sonosufficientemente lontani dal loro inizio da fare, senzarischio, astrazione delle domande pericolose che poneloro la storia. Insufficientemente maturi dal punto di

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vista culturale, i russi hanno il diritto di guardare laFrancia dall’alto. Non si pongono gli stessi problemi,poiché respirano nel possibile.

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Essendosi eccessivamente inoltrato in mezzo a valoritroppo diversi, il rischio che può correre l’individuoche fluttua al di sopra delle culture è il falso io, la per-dita della misura e del gusto, la sua estensione nelle di-mensioni inautentiche. Le limitazioni della Franciasono un antidoto contro il falso io, una barriera di clas-sicismo eretta contro le tendenze alla disponibilità e alvago. Poiché conserva un’eredità classica perfino nelsuo anticlassicismo. Le sue stesse confusioni hannoqualcosa di Racine. Il verso grave e oscuro di Valéryproviene formalmente dall’autore della Fedra; l’inin-telligibile rispetta le apparenze della chiarezza e le pro-fondità sorridono nello stile. Esiste forse una misticameno orgiastica ed estasi meglio definite di quellefrancesi? E tanti santi classici, con tanti Francesco diSales e tanti equilibrati slanci?

Quando abbracciamo troppo, falsifichiamo il mondo,ma soprattutto noi stessi. Non abbiamo più i mezzi perritrovarci. Ma la Francia è una scuola di amplessi limi-

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tati, una lezione contro l’io illimitato. Chi non è passatoda questo rischia di invecchiare come un apprendistadelle virtualità. Un’anima vasta racchiusa nelle formefrancesi, che tipo di umanità feconda!

Impariamo almeno questo, ai crocevia della storia:cerchiamo di adeguare i nostri difetti a modelli di va-lore, approfittiamo della rovina degli altri e, raffor-zando la nostra materia vischiosa nello spirito, pro-viamo a evitare l’erta impervia delle elegie. Dalla Fran-cia non possiamo trarre alcun contenuto; ma lei costi-tuisce un universo di modelli che l’anima può assu-mere per non perdere il proprio contegno e la sua si-curezza. La mancanza di vita di un paese ci premuniràdai pericoli della vita. Dal turbinio dei puri slanci, lasalvezza – sul piano della cultura – può venire solo dal-l’espressione. Il futuro farà nascere una cultura di orgeformali? L’Europa troverà una formula per conciliarela profonda depravazione dello slavo o la teorica sfre-natezza del germanico e la calligrafia intellettuale dellaFrancia? Per quanto la riguarda, la Francia non daràpiù sostanza allo spirito. Gli slavi e i germanici darannoforse vitalità alle sue forme? Poiché non riesco a im-maginare un paese più carente di midollo della Fran-cia. Nessuna santa illusione – giacché ogni illusione èsanta – sonnecchia ormai più nelle sue ossa. Solo ilvuoto e la sua veglia regnano ancora sullo spazio dellecredenze in declino.

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Ciò che ci vuole per la nostra palpitazione vitale èun correttivo categoriale. Il pathos scatenato, senzavincoli normativi, porta alla disarticolazione dellospirito, a un gotico sfrenato che, con il proprio slan-cio, annulla lo stile. Una barbarie nelle categorie, ecco lasola possibilità di coniugare proficuamente la vitacon lo spirito. Altrimenti, l’irrazionale abbassa la cul-tura al livello dei troppo terrestri Balcani, come ancheil regno dei modelli astratti conduce all’ossificazionedella Francia. Il paradosso dei tempi venturi saràforse definito da estasi improntate69 al culto dellageometria, dall’abbandono simultaneo alla passionee al pensiero?

Sogno una cultura di oracoli in logica, di lucidePizie… e di un uomo che controllerebbe i propri riflessiper accrescere la vita, e non per inaridirla.

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Chi ha portato a termine le dissoluzioni può ancora ri-trovarsi, mentre colui che è rimasto tra di esse è per-duto. Se avete vissuto una decomposizione, e se neavete la forza, avete la possibilità di rifarvi; vibrazioninascoste vi riportano verso l’orizzonte vitale del futuro.Ma non dovete giudicare il vostro coraggio a partire

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dalla condivisione delle putrefazioni oggettive. Le vo-stre, le avete godute fino a soddisfarvi; le altre, non legusterete meno. La terapeutica minore della tempe-ranza guida al fallimento; quella della temerarietà, alcrollo o alla rinascita. Siete stati forse cadaveri tra i ca-daveri del mondo? Allora meritate una primavera sottoaltri cieli. Con la storia bisogna lottare; con il passatoè necessario accanirsi come con il presente. Chi cercaun’epoca per timidezza o erudizione è placido o vi-gliacco. Considerate tutta la storia universale come ilcampo di sviluppo del vostro ardimento. E se nonavete slancio guerriero, trasformatelo in sogno, affin-ché il pretesto dell’irrealtà giustifichi l’assopimento deivostri istinti.

* * *

Il fenomeno della decadenza è la conclusione defini-tiva della maturazione storica. Una civiltà più maturanon rappresenta un avanzamento nei valori, ma nellavita. Poiché non abbiamo alcun diritto di apprezzarnel’esito come se fosse un culmine. Ciò che è erudizionerispetto al vigore dello spirito o vecchiaia di fronte allosprigionarsi della forza, corrisponde alla decadenza ri-guardante lo sviluppo ascensionale della vitalità. La

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sclerosi è la punizione che la vita merita per i suoi ec-cessi. La Francia paga secoli di tumulto con l’immobi-lità. È una degradazione di cui essere fiera e alla qualepuò dare stile attraverso il cinismo. La nazione chemaggiormente ha portato avanti l’idea del progressosi trova a esserne esclusa. Non si tratta qui di una bellaespiazione e di una sanzione piena di senso? Il con-cetto di progresso – sul piano storico, un rifiuto dellamorte – che è sorto dal più dinamico e superficiale ot-timismo, pecca per la mancanza di un fondamentometafisico. Credere a un eterno e incurabile avanza-mento significa bendarsi gli occhi per non vedere l’es-senziale. La deficienza metafisica dell’uomo modernonon può più significativamente rivelarsi se non in que-sto concetto. E siccome la Francia l’ha introdotto, è laprima a pagarne le conseguenze. La sua decadenza as-sume così il valore di un atto di giustizia. La storia lapunisce per avergli voluto conferire più di quanto po-tesse ricevere, e una dignità non all’altezza. Le gene-rosità sono delle gravi colpe teoriche. Tuttavia, senzadi esse, una civiltà non giustifica il proprio camminosotto il sole. Esse rivelano il potere di illusione – di vita– che giace in un popolo. Più sono grandi, più il risve-glio sarà schiacciante. È un seme di donchisciottismoa segnare le potenzialità interiori di una nazione. Laciviltà che crea è il frutto di questo seme. Quando si èesaurita, l’uomo si siede al margine del proprio de-

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stino, con tutti i valori generati dalla linfa degli in-ganni fruttuosi, coltivando il proprio abbattimentonella contrizione e nel disincanto.

La Francia non è punita ironicamente solo per la suafede superstiziosa nel progresso, ma per tutte le grandie nobili formule sotto le quali ha nascosto la propriacaducità. “La civilisation française”, “La France dans lemonde”70 non hanno forse espresso, sotto l’apparenzaconcisa della loro magniloquenza, l’idea che il tipo diciviltà francese sia unico? E l’aggiunta dell’aggettivo“nazionale” a tutti i valori ha avuto forse altro signifi-cato se non quello di individuare una forma di culturaconsiderata come un simbolo universale? Ma, più ditutto, “La France éternelle”71 non ha forse fissato in dueparole lo sforzo ingannevole per sfuggire alla solu-zione finale, ovvero quella del tempo? Nessuna ecce-denza di prestigio verbale ha potuto fermare né co-prire lo svolgimento fino al suo termine. Che nessunfrancese abbia intravisto “La France mortelle”72 è sicu-ramente un allontanarsi, per paura, dal vero. Ma il suocontemporaneo straniero non può più permettersi lafalsa speranza, dal momento che, per lui, il senso del-l’irreparabile della storia è una gloria che abbellisce ne-gativamente l’anima.

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Un paese è grande non tanto per l’innalzamento dellivello d’orgoglio dei propri cittadini, ma per l’entu-siasmo che ispira agli stranieri, per la febbre che tra-sforma in satelliti dinamici coloro che sono nati sottoaltri cieli. C’è mai stato forse un paese al mondo cheabbia avuto così tanti patrioti provenienti da un altrosangue e da altre tradizioni? Non siamo stati noi tutti,nelle crisi, negli accessi o nei respiri di lunga durata,dei patrioti francesi? Non abbiamo forse amato laFrancia con più ardore dei suoi figli? Non ci siamo in-nalzati e umiliati con una passione facilmente com-prensibile e tuttavia inspiegabile? Venuti in così tantida altri luoghi, non l’abbiamo forse abbracciata comel’unico sogno terreno del nostro desiderio nostalgico?Per noi che arriviamo da ogni sorta di paese, da paesisfortunati, l’incontro con un’umanità realizzata ciconquistava offrendoci l’immagine di una dimoraideale. Noi tutti che abbiamo sprecato giorni e annisulle sue strade, noi abbiamo versato le innocenzedella nostra anima in una tenerezza che non rim-piangiamo, anche se, così facendo, abbiamo perso lenostre possibilità di essere fecondi sul suolo natio,lontani dallo spazio e più ancora dalla nostra nostal-gie73. Le abbiamo forse dato un giorno la parte mi-gliore delle nostre convinzioni, o ci siamo forse deli-ziati nelle delusioni come nelle nostre esperte occu-pazioni? Quale altro paese avrà raccolto omaggi e ri-

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fiuti più lusinghieri? Noi l’abbiamo tanto viziata che,d’ora in poi, né lei né noi troveremo altra occasione diincontro lirico.

Ci accontenteremo di altri spazi, ma senza slanci néinchini. Qualcosa della Francia è passata in noi, qual-cosa che ha ucciso in noi l’innocenza dell’anima. Dovetrovare gli stimoli per altri ingenui concepimenti? Ilseme dell’infanzia che fa nascere il tempo ha inariditoil suo vigore in un paese privato delle sementi del suoavvenire per un troppo pieno di passato. Il nostro er-rare verso qualcos’altro è troppo spesso soffocato dallamaligna influenza di una nazione sul punto di esau-rire il proprio senso. Noi portiamo sulle spalle e nelpensiero i riflessi della sua fine. Forse per questo le no-stre idee hanno qualcosa della monotonia del polso edelle sicure agonie. Ovunque volgiamo i nostri passi,che siano sentieri o altipiani, la Francia non morirà dasola, ma noi espieremo insieme a lei il gusto insolitodella caducità. E per ogni speranza che vorremmomantenere, il peso di quest’eredità ci rigetterà, senzascampo, dal cuore dell’avvenire verso i suoi confini.1941 [a matita]

Manoscritto depositato alla Bibliothèque littéraire Jacques Doucet nel Fondo Cioran.

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NOTE

1 Emil Cioran, Schimbarea la faţă a României, Bucarest, EdituraVremea, 1936, p. 88.

2 Come si legge in una lettera di Cioran ad Alphonse Dupront,datata 11 giugno 1941, in Cahier Cioran, a cura di Laurence Tacoue Vincent Piednoir, Paris, L’Herne, 2009, p. 460.

3 Emil Cioran, Profilul interior al Căpitanului. Exaltările unuisceptic, Conferenza radiofonica, 27 novembre 1940 in “GlasulStrămoșesc”, Sibiu, n. 10, 15 dicembre 1940.

4 L’annotazione nel Diario di Sebastian è datata 2 gennaio del1941. Mihail Sebastian, Jurnalul II. Jurnalul indirect. 1926-1945, acura di Teșu Solomovici, Bucarest, Editura Teșu, 2012, p. 678.

5 Cfr. Emil Cioran, Lettere al culmine della disperazione (1930-1934), a cura di Giovanni Rotiroti, traduzione di Marisa Salzillo,postfazione di Antonio Di Gennaro, Milano-Udine, Mimesis,2013.

6 Cfr. Alain Paruit, La Métamorphose, in E.M. Cioran, De laFrance, Paris, L’Herne, 2009, pp. 7-8.

7 Cioran, a partire da Despre Franţa, sarà molto attento nella suaopera futura alle sfumature linguistiche che intercorrono tra lanoia e la melanconia. Il termine romeno urât verrà talvolta auto-tradotto in francese da Cioran con il baudelairiano spleen e in altresituazioni con la parola cafard. Cafard viene dall’arabo kafir o dauna radice caf-, dal latino cavus. “Nostro padre il cafard”: scrive neiCahiers (E.M. Cioran, Quaderni 1957-1972, a cura di Simone Boué,Milano, Adelphi, 2001, p. 404). Il significato letterale è ‘blatta’, ‘sca-rafaggio’, ‘insetto nero’ da cui anche il senso di essere un “devotoipocrita”. Avoir le cafard significa invece essere giù di morale, de-presso, di umore nero, avere delle idee nere nella testa. Ennui,come indica anche la parola italiana noia, proverrebbe dal latino

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tardo inodiare, cioè in odio (est mihi), ed è il termine che Cioran im-piegherà per tradurre il romeno plictis o plictiseală. In romeno ură,urât, a urâ derivano dal latino horrire (horrere, horrescere), quindi sitratta in romeno di una noia più legata alla paura, alla solitudine,alla banalità della vita, alla mancanza di occupazione. Cfr. Gio-vanni Rotiroti, Il demone della lucidità. Il “caso Cioran” tra psicana-lisi e filosofia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005, pp. 121-130.

8 E.M. Cioran, Les secrets de l’âme roumaine. Le “dor” ou la nos-talgie, in Exercices négatifs, a cura di Ingrid Astier, Paris, Gallimard,2005, p. 120.

9 Dor è un sostantivo neutro che in romeno ha diversi signifi-cati che riguardano essenzialmente la mancanza. Si può provaredel dor per l’amato o l’amata, per gli amici, dor per la famiglia, dorper il luogo natio. Si tratta di un potente desiderio, che si giocasul registro nostalgico, come quello di vedere o rivedere qualcunoo qualcosa con un sentimento d’amore, oppure di ritornare aun’occupazione piacevole. È fondamentalmente uno stato del-l’anima per cui chi lo prova tende, desidera ardentemente, aspiraa qualcosa provando anche dolore. L’etimologia fa provenire laparola dor dal latino dolus e ha anche una forte connotazione ero-tica. Da dor deriva il verbo a dori che significa ‘desiderare’.10 Cfr. Marta Petreu, Cioran sau un trecut deocheat, Bucarest, Po-

lirom, 2011, pp. 190-212.11 Emil Cioran, Il Nulla. Lettere a Marin Mincu (1987-1989), a cura

e traduzione di Giovanni Rotiroti, postfazione di Mircea Ţuglea(traduzione di Irma Carannante), appendice di Antonio Di Gen-naro, Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2014, pp. 53-55.12 In francese nel testo originale romeno, ‘Collezioni di esage-

razioni morbose’.13 In francese nel testo originale romeno: ‘malinconia’, ‘tri-

stezza’, ‘depressione’. Si veda anche la nota 7, relativa al cafard nel-l’Introduzione.

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14 In francese nel testo originale romeno: ‘noia’, ‘vaga malin-conia’, ma anche ‘nostalgia’.15 In tedesco nel testo, ‘noia’.16 Nel testo originale romeno ‘l’essere’.17 In francese nel testo di Cioran, citazione tratta da una lettera

della Marchesa du Deffand al conte Horace Walpole: ‘In me trovosolo il nulla, ed è così brutto trovare in sé il nulla, che sarebbe statauna gioia esserci rimasti.’18 In francese nel testo originale romeno, ‘sono nato ucciso’.19 Nel testo originale romeno ‘sembra’.20 Nel testo originale romeno ‘doratura’.21 Nel testo originale romeno ‘mancanza di serietà’.22 Nel testo originale romeno ‘incondizionato’. Con questa pa-

rola, Cioran sembra indicare ‘la facoltà dell’incondizionato’ a par-tire dalla Critica della ragion pura di Kant. Alain Paruit giusta-mente lo interpreta anche nei termini stabiliti dalla Critica dellaragion pratica, riferendosi all’imperativo categorico kantiano, cioèal dovere che, in modo incondizionato, ordina a prescindere daqualsiasi fine o scopo.23 Nel testo originale romeno ‘assente’.24 In tedesco nel testo, ‘il paese del cattivo gusto’.25 In corsivo nel testo originale romeno.26 In francese nel testo originale romeno, ‘chiacchierone’.27 Nel testo originale romeno ‘ha conosciuto’.28 In corsivo nel testo originale romeno.29 Nel testo originale romeno ‘adeguarsi alla causa di questi er-

rori’.30 In francese nel testo originale romeno, ‘maniero, piccolo ca-

stello di campagna’.31 In corsivo nel testo originale romeno.32 In francese nel testo originale romeno: ‘dolcezza angevina’,

cioè d’Angers, dell’Anjou.

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33 In tedesco nel testo: ‘nostalgia’, ‘desiderio’, ‘passione nostal-gica’.34 In francese nel testo, ‘ragione, esperienza, progresso’.35 Nel testo originale romeno ‘finitudine’.36 In corsivo nel testo originale romeno.37 In francese nel testo romeno, ‘popolo’.38 Nel testo originale romeno ‘orrore’.39 In francese nel testo romeno: ‘malinconia’, ‘tristezza’, ‘de-

pressione’. Si veda anche la nota 7, relativa al cafard nell’Introdu-zione.40 In francese nel testo originale romeno, ‘ingannato’.41 Nel testo originale romeno ‘Il deserto dei villaggi nelle cam-

pagne francesi’.42 Nel testo originale romeno ‘di proiettare l’anima nella logica’.43 Nel testo originale romeno ‘processo inverso’. 44 L’amok, patologia studiata in ambito etno-psichiatrico, è una

furia omicida che trae origine da un’offesa ricevuta e vissuta comeinaccettabile. Il soggetto, dopo aver fatto strage prima dei fami-liari e poi degli estranei, corre come un ossesso per le strade e trai campi e, infine, crolla a terra privo di forze. 45 Nel testo originale romeno ‘per cui lottare’.46 Nel testo originale romeno ‘servirà da monito per i loro en-

tusiasmi’.47 Nel testo originale romeno non in corsivo.48 In francese nel testo originale romeno, ‘il benessere’.49 In francese nel testo originale romeno: ‘grande’ – ‘grande

nazione, grande esercito, la grandezza della Francia’.50 In francese nel testo: ‘il francese medio’, ‘il piccolo-borghese’.51 Alain Paruit traduce giustamente priveliștea lumii con le pay-

sage du monde (‘il paesaggio del mondo’) cogliendo il riferimentoimplicito di Cioran al libro di poesie di Benjamin Fondane Fun-doianu, intitolato Priveliști, tradotto in francese con Paysages. In

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Italia, il volume fondaniano è stato tradotto con il titolo Vedute,più vicino al significato originale del romeno. Inoltre, Cioranaveva letto La Conscience malheureuse (La Coscienza infelice) diFondane, pubblicato in Francia nel 1936, per cui ha messo in cor-sivo coscienza immediatamente prima di “veduta”, indicandonecosì allusivamente la provenienza.52 Nel testo originale romeno in corsivo.53 Nel testo originale romeno ‘La raffinatezza colpisce la loro

sostanza’.54 Nel testo originale romeno ‘una veduta’. Cfr. la nota 51.55 Nel testo originale romeno ‘non aspettassero altro che sci-

volare fino in fondo’.56 Nel testo originale romeno ‘scoperto’.57 Nel testo originale romeno ‘Nella calma priva di onde della

Senna’.58 Nel testo originale romeno ‘e lascio al fiume vuoto e indiffe-

rente’.59 Cioran si riferisce qui all’anonimo pastore (cioban) protago-

nista del canto popolare romeno intitolato Mioriţa. L’intreccio è ilseguente: un’agnella avverte il proprio pastore che i suoi due com-pagni lo vogliono uccidere per rubargli le greggi. Invece di di-fendersi, il pastore sembra accettare il destino come inevitabile edetta all’agnella veggente le sue ultime volontà, di essere cioè sep-pellito vicino al suo gregge con gli oggetti caratteristici del suo la-voro. La prega soprattutto di tacere dell’assassinio e di dire invecea tutti, e in particolare alla madre che lo cercherà, di aver sposatola regina del mondo (sublimazione e trasfigurazione lirica dellamorte) all’interno di un quadro liturgico e cosmico. L’idea cen-trale del testamento del pastore è che l’uomo non scompare defi-nitivamente, ma si fonde unendosi eternamente con la natura at-traverso i differenti gradi di metamorfosi degli stessi elementi na-turali in una dimensione cosmica pacificata. Cioran, nel suo libro

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La Trasfigurazione della Romania prenderà polemicamente le di-stanze dalla vulgata esegetica della Mioriţa – soprattutto dall’im-postazione metafisica che ne aveva dato il grande filosofo e poetatransilvano Lucian Blaga, il quale aveva dedicato uno studio alproblema identitario della romenità, intitolato appunto Lo spaziomioritico (1936), che rappresenta l’orizzonte specifico nel quale sisarebbe formata l’anima del popolo romeno – affermando nel1936 che la Mioriţa costituisce ancora una ferita aperta dell’animaromena e rappresenta una maledizione poetica e nazionale, so-prattutto a causa dell’atteggiamento passivo e fatalistico del pa-store che si abbandona alla morte.60 Nel testo originale romeno ‘Il divenire’.61 In francese nel testo originale romeno: ‘Non c’è più la Fran-

cia’, ‘Siamo finiti’, ‘Non abbiamo più futuro’, ‘Siamo un paese indecadenza’.62 Nel testo originale romeno ‘dolcezza misurata di Montaigne’.63 In francese nel testo originale romeno: ‘la plebaglia’, ‘il po-

polaccio’.64 In francese nel testo originale romeno, ‘periferia’.65 Nel testo originale romeno ‘costituiscono la spinta’.66 Nel testo originale romeno ‘incatenati al gioco fatale’.67 Nel testo originale romeno ‘incurabile’.68 Nell’edizione francese Alain Paruit non riesce a leggere la pa-

rola e dichiara, tra parentesi quadre: “Parola illeggibile nel ma-noscritto.” Nell’edizione di Constantin Zaharia è invece riportatala lezione îngemănândă.69 Anche in questo caso il traduttore francese Alain Paruit non

riesce a leggere la parola e dichiara, tra parentesi quadre: “Parolaindecifrabile nel manoscritto.” Nell’edizione di Zaharia è inveceriportata la lezione extaze-n tip.70 In francese nel testo originale romeno: ‘la civiltà francese’,

‘La Francia nel mondo’.

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71 In francese nel testo originale romeno, ‘La Francia eterna’.72 In francese nel testo originale romeno, ‘La Francia mortale’.73 In francese nel testo originale romeno, ‘nostalgia’.

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INDICE

La conversione di Cioran sulla via della Francia al tramonto di Giovanni Rotiroti PAG. 7

Nota alla traduzione PAG. 19

Sulla Francia PAG. 21

Note del curatore PAG. 101

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In redazioneKatia Colantoni

GraficaProgetto: Alberto LecaldanoFont: Voland, Luciano Perondi, 2010

StampaGrafiche del Liri via Napoli, 85 03036 Isola del Liri (FR)

Finito di stampare: settembre 2014

Edizioni Voland00185 Roma, via Napoleone III 12tel. 06 4461946www.voland.ite-mail: [email protected]