Ilia ed Alberto - Liber Liber · 2019-01-31 · brevità Ilia. «Buongiorno,» disse il marito....

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  • Angelo GattiIlia ed Alberto

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    QUESTO E-BOOK:

    TITOLO: Ilia ed AlbertoAUTORE: Gatti, AngeloTRADUTTORE: CURATORE: NOTE: CODICE ISBN E-BOOK: n. d.

    DIRITTI D'AUTORE: no

    LICENZA: questo testo è distribuito con la licenzaspecificata al seguente indirizzo Internet:http://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

    COPERTINA: n. d.

    TRATTO DA: Ilia ed Alberto: romanzo / Angelo Gatti.- 13. ed. - Milano : Mondadori, 1945. - 492 p. ; 20cm.

    CODICE ISBN FONTE: n. d

    1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 31 gennaio 2019

    INDICE DI AFFIDABILITÀ: 10: affidabilità bassa

    2

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    TRATTO DA: Ilia ed Alberto: romanzo / Angelo Gatti.- 13. ed. - Milano : Mondadori, 1945. - 492 p. ; 20cm.

    CODICE ISBN FONTE: n. d

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  • 1: affidabilità standard2: affidabilità buona3: affidabilità ottima

    SOGGETTO:FIC004000 FICTION / Classici

    DIGITALIZZAZIONE:Catia Righi, [email protected]

    REVISIONE:Paolo Alberti, [email protected]

    IMPAGINAZIONE:Catia Righi, [email protected]

    PUBBLICAZIONE:Catia Righi, [email protected]

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  • Indice generale

    Liber Liber......................................................................4PARTE PRIMALA CASA IN ORDINE................................................10

    CAPITOLO IUNA MATTINATA SERENA..................................11CAPITOLO IINUVOLETTE NEL SERENO.................................36CAPITOLO IIIUNA COLAZIONE RUMOROSA..........................53CAPITOLO IVLA CORTE DEI MIRACOLI...................................76CAPITOLO VI COLLOQUI E I SOGNI D’UNA NOTTE DI MEZ-ZO FEBBRAIO........................................................98CAPITOLO VILE OPERE E I GIORNI D’ILIA............................127CAPITOLO VIIAL LIMITE ESTREMO DELLA FELICITÀ........151

    PARTE SECONDAILIA LASCIA LA CASA...........................................171

    CAPITOLO IOGGI È CAMBIATO, MA DOMANI SARÀ COME IERI........................................................................172CAPITOLO IILA QUIETE PRIMA DELLA TEMPESTA...........196

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    Indice generale

    Liber Liber......................................................................4PARTE PRIMALA CASA IN ORDINE................................................10

    CAPITOLO IUNA MATTINATA SERENA..................................11CAPITOLO IINUVOLETTE NEL SERENO.................................36CAPITOLO IIIUNA COLAZIONE RUMOROSA..........................53CAPITOLO IVLA CORTE DEI MIRACOLI...................................76CAPITOLO VI COLLOQUI E I SOGNI D’UNA NOTTE DI MEZ-ZO FEBBRAIO........................................................98CAPITOLO VILE OPERE E I GIORNI D’ILIA............................127CAPITOLO VIIAL LIMITE ESTREMO DELLA FELICITÀ........151

    PARTE SECONDAILIA LASCIA LA CASA...........................................171

    CAPITOLO IOGGI È CAMBIATO, MA DOMANI SARÀ COME IERI........................................................................172CAPITOLO IILA QUIETE PRIMA DELLA TEMPESTA...........196

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  • CAPITOLO IIIUN’ALA S’ALLARGA.........................................222CAPITOLO IVL’ALA SI CHIUDE................................................244

    PARTE TERZALA MORTE E L’UOMO............................................268

    CAPITOLO IIL LIBRO DI GIOBBE..........................................269CAPITOLO IIPIGMALIONE.......................................................297CAPITOLO IIIDAL PROFONDO..................................................318CAPITOLO IVAL LIMITE ESTREMO DELLA DISPERAZIONE................................................................................356CAPITOLO VALLA RICERCA DELLA PERDUTA FELICITÀ 383

    PARTE QUARTASULLE TRACCE DI COLEI CHE EBBE NOME ILIA....................................................................................403

    CAPITOLO IILIA INNAMORATA E ILIA GELOSA................404CAPITOLO IITU CON ME, IO CON TE.....................................435CAPITOLO IIILA TELA INTERROTTA......................................470CAPITOLO IVIL DOLORE E IL TEMPO.....................................497CAPITOLO V

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    CAPITOLO IIIUN’ALA S’ALLARGA.........................................222CAPITOLO IVL’ALA SI CHIUDE................................................244

    PARTE TERZALA MORTE E L’UOMO............................................268

    CAPITOLO IIL LIBRO DI GIOBBE..........................................269CAPITOLO IIPIGMALIONE.......................................................297CAPITOLO IIIDAL PROFONDO..................................................318CAPITOLO IVAL LIMITE ESTREMO DELLA DISPERAZIONE................................................................................356CAPITOLO VALLA RICERCA DELLA PERDUTA FELICITÀ 383

    PARTE QUARTASULLE TRACCE DI COLEI CHE EBBE NOME ILIA....................................................................................403

    CAPITOLO IILIA INNAMORATA E ILIA GELOSA................404CAPITOLO IITU CON ME, IO CON TE.....................................435CAPITOLO IIILA TELA INTERROTTA......................................470CAPITOLO IVIL DOLORE E IL TEMPO.....................................497CAPITOLO V

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  • I METODI E LE AMICIZIE DEL CONTE DE MA-STRACCHIO..........................................................517CAPITOLO VILA GIUSTIZIA DEGLI UOMINI..........................540CAPITOLO VIIIL BENE E IL MALE.............................................559

    PARTE QUINTAIL CUORE IN PACE..................................................583

    CAPITOLO IILIA RITORNA......................................................584CAPITOLO IISÍ.............................................................................614

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    I METODI E LE AMICIZIE DEL CONTE DE MA-STRACCHIO..........................................................517CAPITOLO VILA GIUSTIZIA DEGLI UOMINI..........................540CAPITOLO VIIIL BENE E IL MALE.............................................559

    PARTE QUINTAIL CUORE IN PACE..................................................583

    CAPITOLO IILIA RITORNA......................................................584CAPITOLO IISÍ.............................................................................614

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  • ANGELO GATTI

    ILIA ED ALBERTO

    ROMANZO

    8

    ANGELO GATTI

    ILIA ED ALBERTO

    ROMANZO

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  • A CARLO, MIO FRATELLO,

    IN MEMORIA DI LEI

    9

    A CARLO, MIO FRATELLO,

    IN MEMORIA DI LEI

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  • PARTE PRIMA

    LA CASA IN ORDINE

    10

    PARTE PRIMA

    LA CASA IN ORDINE

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  • CAPITOLO I

    UNA MATTINATA SERENA

    Ci sono nelle grandi città, fuori delle piazze e dellevie principali, che a un dipresso s’assomigliano tutte, edove si urta e mescola la gente piú diversa, gruppi dicase, quasi borghi, tanto hanno popolo e carattere pro-prio; come i borghi, si raccolgono attorno ad una piazzao ad una chiesa. La vita, in essi, è intima e abbastanzacordiale, almeno per quanto consente l’indoledell’uomo, socievole piuttosto che affettuosa; gli abitan-ti d’un lato della strada conoscono quelli dell’altro, senon di nome, almeno d’abitudini, specialmente se sonobuffe o pettegole; e un matrimonio, o un funerale, di-ventano avvenimento comune e pretesto a discorsi ozio-si, che, dopo aver girato di casa in casa, svaniscono,vuote bolle di sapone, senza lasciar traccia. Quando lagente di questi borghi ritorna a sera dai negozi alla pro-pria dimora, si illude di ritrovare un asilo di pace: qual-che giardino tranquillo, inconsueto oramai nelle stradepopolose, e là ancora verdeggiante, colora l’illusione. Iportinai contano le ore della giornata dal passaggio deiservi o dei vecchi signori, che conducono a spasso ilcane; e, nella notte, la campana della chiesa, rintoccan-do su tutti, rammenta per qualche minuto ai parrocchia-

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    CAPITOLO I

    UNA MATTINATA SERENA

    Ci sono nelle grandi città, fuori delle piazze e dellevie principali, che a un dipresso s’assomigliano tutte, edove si urta e mescola la gente piú diversa, gruppi dicase, quasi borghi, tanto hanno popolo e carattere pro-prio; come i borghi, si raccolgono attorno ad una piazzao ad una chiesa. La vita, in essi, è intima e abbastanzacordiale, almeno per quanto consente l’indoledell’uomo, socievole piuttosto che affettuosa; gli abitan-ti d’un lato della strada conoscono quelli dell’altro, senon di nome, almeno d’abitudini, specialmente se sonobuffe o pettegole; e un matrimonio, o un funerale, di-ventano avvenimento comune e pretesto a discorsi ozio-si, che, dopo aver girato di casa in casa, svaniscono,vuote bolle di sapone, senza lasciar traccia. Quando lagente di questi borghi ritorna a sera dai negozi alla pro-pria dimora, si illude di ritrovare un asilo di pace: qual-che giardino tranquillo, inconsueto oramai nelle stradepopolose, e là ancora verdeggiante, colora l’illusione. Iportinai contano le ore della giornata dal passaggio deiservi o dei vecchi signori, che conducono a spasso ilcane; e, nella notte, la campana della chiesa, rintoccan-do su tutti, rammenta per qualche minuto ai parrocchia-

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  • ni la caducità del tempo: dal quale unico ricordo, ognu-no, secondo l’indole, deduce le conseguenze e le regolepiú differenti, come può, o gli piace.

    Nel borgo intorno alla piazza della stazione del Nord,a Milano, una casa s’alzava grande e severa, tra il livi-dore e il viscidume d’un’alba di febbraio, che pareva ab-bruttire piuttosto che rischiarare le cose. Era una casa diricchi borghesi, di tre piani soli, costruita solidamenteall’antica, con finestre ben spaziate e quelle comodeproporzioni, che fanno dire sospirando a chi passa:«beato chi ci sta»; l’adornava un giardinetto, con alcunipioppi e due o tre palme, che per un abile gioco di pro-spettiva pareva fondo e non era. Dietro al giardinetto sistendevano le tettoie basse della stazione; e il frastuononon mai interrotto dei treni, e il barbaglio non mai vela-to delle lampade, impedendo spesso agli inquilini di ad-dormentarsi, o risvegliandoli nel piú bello del sonno, lifacevano stizzosamente brontolare: «qui non è possibilestarci». Cosí chi possedeva si lagnava, e chi non avevadesiderava.

    Una stanza s’illuminò improvvisamente al secondopiano di quella casa, poi tornò buia. La luce lampeggiòdue o tre volte, come se qualcuno si divertisse a darla etoglierla: e, sprofondata in un letto basso, largo comeuna piazza d’armi, apparí, a un chiarore un po’ piú insi-stente, una piccola donna, che sorrideva al gioco. La te-sta gentile, tutta aureolata da copiosissimi capelli nerisbuffanti, spiccava fra i pizzi del capezzale e delle len-zuola, come un gioiello sul raso d’un cuscino. Si intrav-

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    ni la caducità del tempo: dal quale unico ricordo, ognu-no, secondo l’indole, deduce le conseguenze e le regolepiú differenti, come può, o gli piace.

    Nel borgo intorno alla piazza della stazione del Nord,a Milano, una casa s’alzava grande e severa, tra il livi-dore e il viscidume d’un’alba di febbraio, che pareva ab-bruttire piuttosto che rischiarare le cose. Era una casa diricchi borghesi, di tre piani soli, costruita solidamenteall’antica, con finestre ben spaziate e quelle comodeproporzioni, che fanno dire sospirando a chi passa:«beato chi ci sta»; l’adornava un giardinetto, con alcunipioppi e due o tre palme, che per un abile gioco di pro-spettiva pareva fondo e non era. Dietro al giardinetto sistendevano le tettoie basse della stazione; e il frastuononon mai interrotto dei treni, e il barbaglio non mai vela-to delle lampade, impedendo spesso agli inquilini di ad-dormentarsi, o risvegliandoli nel piú bello del sonno, lifacevano stizzosamente brontolare: «qui non è possibilestarci». Cosí chi possedeva si lagnava, e chi non avevadesiderava.

    Una stanza s’illuminò improvvisamente al secondopiano di quella casa, poi tornò buia. La luce lampeggiòdue o tre volte, come se qualcuno si divertisse a darla etoglierla: e, sprofondata in un letto basso, largo comeuna piazza d’armi, apparí, a un chiarore un po’ piú insi-stente, una piccola donna, che sorrideva al gioco. La te-sta gentile, tutta aureolata da copiosissimi capelli nerisbuffanti, spiccava fra i pizzi del capezzale e delle len-zuola, come un gioiello sul raso d’un cuscino. Si intrav-

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  • vedevano un visetto ovale, occhi, benché chiusi, larghi eben tagliati, guance pienotte e una bocca ben disegnata,con labbra arcuate, ma piuttosto sottili e ironiche: piúgiú il corpo scompariva, come negli angeli di certe pit-ture primitive. Due particolari risaltavano in quella te-sta: un nasetto all’insú, capriccioso e provocante, e queicapelli cosí copiosi, che, la luce battendoci su di sghem-bo, invece di neri si rivelavano, com’erano veramente,d’un colore quasi viola, con riflessi di rame. Erano lun-ghi, segno che la padrona non seguiva la moda del tem-po, in cui si portavano tagliati; e, piú che rinchiusi,adornati da una cuffietta di trine, segno che la padronaera però civettina la sua parte. Intorno al gran letto, glialtri mobili, altrettanto massicci, parevano far guardia,con l’aria feroce di orche intorno ad Angelica bella. Mala piccola signora aveva dovuto sentire la malinconia diquella roba cosí arcigna, e li aveva coperti di ninnolid’ogni specie. Sui tavolini, statuine e lampade variopin-te; sul cassettone e sulle poltrone, bambole, tutte gale efiocchetti; e dorato tutto quello che s’era potuto dorare:schienali di sedie, cornici di specchi e di quadri, perfinoil tabernacolo, in cui era chiusa una Vergine di marmo.Quant’oro avevan mai dovuto adoperare! In quella stan-za graziosa e bizzarra s’udí a un tratto un leggero rumo-re, come il trotterellare minuto d’un topolino sul pavi-mento. La signora s’alzava.

    Al rumore, nella stanza attigua s’accese un’altra luce.Ma questa non si spense; e, in un lettino da educanda,tra mobiletti tutti a fiorellini e a ghirlandette azzurre e

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    vedevano un visetto ovale, occhi, benché chiusi, larghi eben tagliati, guance pienotte e una bocca ben disegnata,con labbra arcuate, ma piuttosto sottili e ironiche: piúgiú il corpo scompariva, come negli angeli di certe pit-ture primitive. Due particolari risaltavano in quella te-sta: un nasetto all’insú, capriccioso e provocante, e queicapelli cosí copiosi, che, la luce battendoci su di sghem-bo, invece di neri si rivelavano, com’erano veramente,d’un colore quasi viola, con riflessi di rame. Erano lun-ghi, segno che la padrona non seguiva la moda del tem-po, in cui si portavano tagliati; e, piú che rinchiusi,adornati da una cuffietta di trine, segno che la padronaera però civettina la sua parte. Intorno al gran letto, glialtri mobili, altrettanto massicci, parevano far guardia,con l’aria feroce di orche intorno ad Angelica bella. Mala piccola signora aveva dovuto sentire la malinconia diquella roba cosí arcigna, e li aveva coperti di ninnolid’ogni specie. Sui tavolini, statuine e lampade variopin-te; sul cassettone e sulle poltrone, bambole, tutte gale efiocchetti; e dorato tutto quello che s’era potuto dorare:schienali di sedie, cornici di specchi e di quadri, perfinoil tabernacolo, in cui era chiusa una Vergine di marmo.Quant’oro avevan mai dovuto adoperare! In quella stan-za graziosa e bizzarra s’udí a un tratto un leggero rumo-re, come il trotterellare minuto d’un topolino sul pavi-mento. La signora s’alzava.

    Al rumore, nella stanza attigua s’accese un’altra luce.Ma questa non si spense; e, in un lettino da educanda,tra mobiletti tutti a fiorellini e a ghirlandette azzurre e

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  • rosa, si disegnò il corpo d’un robusto uomo: almeno perquel tanto di testa e di valida spalla che posavan di tra-verso sul guanciale, quasi buttate e affondate lí. Perchémai quell’uomo cosí robusto si fosse cacciato in quellettino e tra quei mobiletti, sarebbe difficile spiegare, senon con una di quelle ragioni del sentimento, che paionocosí naturali a chi le ha, e cosí strambe a chi le nota: aquell’uomo forse piaceva vivere fra i mobili e gli ogget-ti, ch’erano stati della moglie giovinetta. Il fatto è, chepareva proprio Ercole nel gineceo d’Onfale. I capelli,folti ma già un po’ grigi sulle tempie, avrebbero fattosupporre un’età piú avanzata della vera, se fronte larga eviso senza rughe non avessero rimesso le cose a posto.Il respiro pacato e l’immobilità attestavano la quietedell’animo e la salute del corpo; molto paziente, però, losconosciuto non doveva essere, poiché i suoi abiti eranosventagliati tutto intorno, come razzi di girandole dopola festa. Quasi per temperare quelle dimostrazioni di fu-ria, sul tavolino presso al capezzale stavano pochi libri,molto usati: evidentemente i prediletti. Il titolo di qual-cuno si poteva anche leggere: la Bibbia, la Divina Com-media, il Don Chisciotte, i drammi dello Shakespeare, iPensieri del Pascal, i Caratteri del Labruyère e i Promes-si Sposi: un bel miscuglio, come si vede.

    L’uomo domandò, tra il dormiveglia:«Ilia, ti alzi già?»«Sono le sette e mezzo, Alberto. Oggi ho molto da

    fare,» rispose lei dalla sua stanza.

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    rosa, si disegnò il corpo d’un robusto uomo: almeno perquel tanto di testa e di valida spalla che posavan di tra-verso sul guanciale, quasi buttate e affondate lí. Perchémai quell’uomo cosí robusto si fosse cacciato in quellettino e tra quei mobiletti, sarebbe difficile spiegare, senon con una di quelle ragioni del sentimento, che paionocosí naturali a chi le ha, e cosí strambe a chi le nota: aquell’uomo forse piaceva vivere fra i mobili e gli ogget-ti, ch’erano stati della moglie giovinetta. Il fatto è, chepareva proprio Ercole nel gineceo d’Onfale. I capelli,folti ma già un po’ grigi sulle tempie, avrebbero fattosupporre un’età piú avanzata della vera, se fronte larga eviso senza rughe non avessero rimesso le cose a posto.Il respiro pacato e l’immobilità attestavano la quietedell’animo e la salute del corpo; molto paziente, però, losconosciuto non doveva essere, poiché i suoi abiti eranosventagliati tutto intorno, come razzi di girandole dopola festa. Quasi per temperare quelle dimostrazioni di fu-ria, sul tavolino presso al capezzale stavano pochi libri,molto usati: evidentemente i prediletti. Il titolo di qual-cuno si poteva anche leggere: la Bibbia, la Divina Com-media, il Don Chisciotte, i drammi dello Shakespeare, iPensieri del Pascal, i Caratteri del Labruyère e i Promes-si Sposi: un bel miscuglio, come si vede.

    L’uomo domandò, tra il dormiveglia:«Ilia, ti alzi già?»«Sono le sette e mezzo, Alberto. Oggi ho molto da

    fare,» rispose lei dalla sua stanza.

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  • Aveva sempre molto da fare e Alberto non si turbò.Dopo un minuto, la donna comparve sull’uscio, tutta av-volta in una vestaglia a fiori. Era proprio quella ches’era intravista di là, nel labile chiarore: una bella per-soncina, discreta e graziosa, Emilia Garelli, detta perbrevità Ilia.

    «Buongiorno,» disse il marito. «Come stai?»«Non so,» rispose gravemente Ilia.«Allora, tutto bene.»Da dieci anni che erano sposi, Alberto chiedeva ogni

    mattina ad Ilia come stesse, e Ilia rispondeva posata-mente ad Alberto che non sapeva: bisognava lasciarletempo di provarsi. Andò infatti nella stanza da bagno, esubito si sentí l’acqua scrosciare nella vasca; poi furonodegli «ah!» e degli «oh!» sommessi, di piacere e di sgo-mento, e uno sciaguattío tumultuoso; poi un silenzioprofondo; e finalmente Ilia ricomparve con i capelli at-torcigliati sul capo, rorida e con un leggerissimo profu-mo di violetta, ma cosí tenue, che appena appenas’avvertiva.

    «Sto bene,» disse.«Dio sia lodato, Ilia!»«Oh.»«Del resto, son qui io.»«Oh.»«Dove son io niente disgrazie.»Anche questo era il solito discorso. Alberto, che ora-

    mai aveva quarantaquattro anni, essendo stato fortunato

    15

    Aveva sempre molto da fare e Alberto non si turbò.Dopo un minuto, la donna comparve sull’uscio, tutta av-volta in una vestaglia a fiori. Era proprio quella ches’era intravista di là, nel labile chiarore: una bella per-soncina, discreta e graziosa, Emilia Garelli, detta perbrevità Ilia.

    «Buongiorno,» disse il marito. «Come stai?»«Non so,» rispose gravemente Ilia.«Allora, tutto bene.»Da dieci anni che erano sposi, Alberto chiedeva ogni

    mattina ad Ilia come stesse, e Ilia rispondeva posata-mente ad Alberto che non sapeva: bisognava lasciarletempo di provarsi. Andò infatti nella stanza da bagno, esubito si sentí l’acqua scrosciare nella vasca; poi furonodegli «ah!» e degli «oh!» sommessi, di piacere e di sgo-mento, e uno sciaguattío tumultuoso; poi un silenzioprofondo; e finalmente Ilia ricomparve con i capelli at-torcigliati sul capo, rorida e con un leggerissimo profu-mo di violetta, ma cosí tenue, che appena appenas’avvertiva.

    «Sto bene,» disse.«Dio sia lodato, Ilia!»«Oh.»«Del resto, son qui io.»«Oh.»«Dove son io niente disgrazie.»Anche questo era il solito discorso. Alberto, che ora-

    mai aveva quarantaquattro anni, essendo stato fortunato

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  • per tutto quel tempo, credeva d’avere sempre diritto allafortuna.

    La casa intanto finiva di risvegliarsi: si sentivanoscarrucolare le persiane delle altre stanze, e, nella salagrande, friggere e soffiare la macchina da spolvero. Laporta d’entrata sul pianerottolo fu aperta; e l’anticamerarischiarata indicò chi fosse il padrone di quella casa.

    Era un’anticamera di soldato. Sulle pareti, di frontealla porta d’entrata, s’allargava a raggi, come un’inse-gna sulla porta d’una bottega, una panoplia di fucili e dimoschetti. Sotto alla panoplia, inchiodata a forza, spa-lancava la bocca dai denti di ferro una di quelle robustetagliole, che i montanari tendono nella neve, d’inverno,per acchiappare i lupi, e gli austriaci tendevano, in guer-ra, per cogliere i cristiani. Sulla tavola, sulle sedie e sualcune mensole erano disposte senz’ordine apparentebombe a mano e di aeroplano, scariche senza dubbio,che però mettevano, a chi le vedeva per la prima volta,quel brividino fra pelle e pelle dei pericoli dubbi. Dallealtre pareti, pendevano frustoni, elmi d’acciaio, pancieree guantoni a maglie di ferro, mazze ferrate, pugnali;dove potesse sedere, in quell’anticamera, un visitatore,non si riusciva a capire. Ma un’armatura del Cinquecen-to, messa in un angolo, con l’elmo, la panciera, i guantie la mazza ferrata antica, a deliberato paragone dellearmi nuove, rivelava nel soldato uno spirito speculativo;e un Sileno pompeiano, che alzava in una coppa un belmazzo di rose fresche, rare in quella stagione, attestava

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    per tutto quel tempo, credeva d’avere sempre diritto allafortuna.

    La casa intanto finiva di risvegliarsi: si sentivanoscarrucolare le persiane delle altre stanze, e, nella salagrande, friggere e soffiare la macchina da spolvero. Laporta d’entrata sul pianerottolo fu aperta; e l’anticamerarischiarata indicò chi fosse il padrone di quella casa.

    Era un’anticamera di soldato. Sulle pareti, di frontealla porta d’entrata, s’allargava a raggi, come un’inse-gna sulla porta d’una bottega, una panoplia di fucili e dimoschetti. Sotto alla panoplia, inchiodata a forza, spa-lancava la bocca dai denti di ferro una di quelle robustetagliole, che i montanari tendono nella neve, d’inverno,per acchiappare i lupi, e gli austriaci tendevano, in guer-ra, per cogliere i cristiani. Sulla tavola, sulle sedie e sualcune mensole erano disposte senz’ordine apparentebombe a mano e di aeroplano, scariche senza dubbio,che però mettevano, a chi le vedeva per la prima volta,quel brividino fra pelle e pelle dei pericoli dubbi. Dallealtre pareti, pendevano frustoni, elmi d’acciaio, pancieree guantoni a maglie di ferro, mazze ferrate, pugnali;dove potesse sedere, in quell’anticamera, un visitatore,non si riusciva a capire. Ma un’armatura del Cinquecen-to, messa in un angolo, con l’elmo, la panciera, i guantie la mazza ferrata antica, a deliberato paragone dellearmi nuove, rivelava nel soldato uno spirito speculativo;e un Sileno pompeiano, che alzava in una coppa un belmazzo di rose fresche, rare in quella stagione, attestava

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  • insieme l’amore del padrone all’arte e la partecipazionedella padrona al dominio del luogo.

    La qual padrona attraversò l’anticamera per recarsinella sala da pranzo, chiamando intanto i servi, perchédessero le novità della notte, e udissero gli ordini dellagiornata. Via via che procedeva, anche le altre stanze sirischiaravano: sembrava passasse mezzogiorno; finchéla signora arrivò alla sala da pranzo, e là si fermò. Sedu-ta su una seggiola bassa, che era stata sua da bambina,tutta seria e intenta, con due sperine di luce sulla puntadel naso e su una gota, pareva anche lei un generale, cheavesse convocato a consiglio gli aiutanti, prima dellabattaglia; ma un generale di Sassonia o di Capodimonte.

    Dalla vasta cucina, ricca di cazzeruole e cazzeruolettedi rame, allineate alle pareti in file lucide e ferme comequelle della falange macedone, era uscito intanto unuomo d’una certa età. Faccia vizza e scabra, in cui tuttoera prominente e aguzzo: fronte, naso, zigomi, mento,orecchie, gli occhi soli incavati e fondi: faccia di molticontadini, che sembra una palla in cui abbiano infisso aduna ad una le parti, come si infiggono i nasi e le orec-chie di carota nei pupazzi di neve. Un ciuffo di capelli,d’un grigio sporco, ritto sulla testa, indicava che l’uomodoveva essere pronto alla commozione, e anche rabbio-so; e un berrettone bianco, tutto inamidato, pendente giàa quell’ora da una parte, come la torre di Pisa, che eracuoco, ordinato, e, staremmo per dire, ambizioso. Unpiccolo cane lo seguiva, vecchiotto, ma di razza scelta ecerto molto amato e curato: la bestiola camminava a te-

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    insieme l’amore del padrone all’arte e la partecipazionedella padrona al dominio del luogo.

    La qual padrona attraversò l’anticamera per recarsinella sala da pranzo, chiamando intanto i servi, perchédessero le novità della notte, e udissero gli ordini dellagiornata. Via via che procedeva, anche le altre stanze sirischiaravano: sembrava passasse mezzogiorno; finchéla signora arrivò alla sala da pranzo, e là si fermò. Sedu-ta su una seggiola bassa, che era stata sua da bambina,tutta seria e intenta, con due sperine di luce sulla puntadel naso e su una gota, pareva anche lei un generale, cheavesse convocato a consiglio gli aiutanti, prima dellabattaglia; ma un generale di Sassonia o di Capodimonte.

    Dalla vasta cucina, ricca di cazzeruole e cazzeruolettedi rame, allineate alle pareti in file lucide e ferme comequelle della falange macedone, era uscito intanto unuomo d’una certa età. Faccia vizza e scabra, in cui tuttoera prominente e aguzzo: fronte, naso, zigomi, mento,orecchie, gli occhi soli incavati e fondi: faccia di molticontadini, che sembra una palla in cui abbiano infisso aduna ad una le parti, come si infiggono i nasi e le orec-chie di carota nei pupazzi di neve. Un ciuffo di capelli,d’un grigio sporco, ritto sulla testa, indicava che l’uomodoveva essere pronto alla commozione, e anche rabbio-so; e un berrettone bianco, tutto inamidato, pendente giàa quell’ora da una parte, come la torre di Pisa, che eracuoco, ordinato, e, staremmo per dire, ambizioso. Unpiccolo cane lo seguiva, vecchiotto, ma di razza scelta ecerto molto amato e curato: la bestiola camminava a te-

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  • sta e a coda alta, con tre gambe sole per risparmiar fati-ca, e, andando, faceva burbanzosamente squillare i bub-boli d’argento di un bellissimo collare.

    «Quattordici di febbraio, lunedí, San Valentino prete.Tempo brutto,» compitò l’uomo, leggendo un librettoche aveva in mano, ed era «Il doppio Pescatore di Chia-ravalle,» e si capí che il nuovo personaggio rappresenta-va, oltre che il cuoco, l’astronomo e il meteorologo del-la casa. Aveva un aspetto grave, benché non molto intel-ligente; ma gravità e mediocrità vanno spesso d’accor-do. «Drin, sei insopportabile,» aggiunse rivolto al cane,e scosse la testa; poi concluse con riprovazione:

    «Quella là dorme ancora.»«Dormirà lei,» rispose una vecchia atticciata e san-

    guigna, dal volto risentito e dai capelli bianchi, saltandofuori dalla propria stanza. Teneva in mano, come unoscudo, un cappellino abbozzato, cosí elegante, da faronore ad Angelina o a Fernanda, le modiste piú in vogadi Milano; e, nell’altra, brandiva, come una spada, unpennelluccio, tutto intriso di colla. Portava sul naso unpaio di occhiali, ma un altro le dondolava, appeso ad unelastico, sulla schiena; e dietro di lei, nella stanza, siprofilava un fantoccio di vimini, sopra cui ella modella-va quel bel cappellino. Il fantoccio, poi, campeggiavafra un telaio con disteso un bel ricamo, e un tavolinettoda vetraio, carico di stampe già mezzo incorniciate. Maqualche cosa, molto piú bella di quegli oggetti disparati,s’intravvedeva nella stanza. In dodici o quindici gabbiee gabbiette, stavano chiusi una quarantina di canarini,

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    sta e a coda alta, con tre gambe sole per risparmiar fati-ca, e, andando, faceva burbanzosamente squillare i bub-boli d’argento di un bellissimo collare.

    «Quattordici di febbraio, lunedí, San Valentino prete.Tempo brutto,» compitò l’uomo, leggendo un librettoche aveva in mano, ed era «Il doppio Pescatore di Chia-ravalle,» e si capí che il nuovo personaggio rappresenta-va, oltre che il cuoco, l’astronomo e il meteorologo del-la casa. Aveva un aspetto grave, benché non molto intel-ligente; ma gravità e mediocrità vanno spesso d’accor-do. «Drin, sei insopportabile,» aggiunse rivolto al cane,e scosse la testa; poi concluse con riprovazione:

    «Quella là dorme ancora.»«Dormirà lei,» rispose una vecchia atticciata e san-

    guigna, dal volto risentito e dai capelli bianchi, saltandofuori dalla propria stanza. Teneva in mano, come unoscudo, un cappellino abbozzato, cosí elegante, da faronore ad Angelina o a Fernanda, le modiste piú in vogadi Milano; e, nell’altra, brandiva, come una spada, unpennelluccio, tutto intriso di colla. Portava sul naso unpaio di occhiali, ma un altro le dondolava, appeso ad unelastico, sulla schiena; e dietro di lei, nella stanza, siprofilava un fantoccio di vimini, sopra cui ella modella-va quel bel cappellino. Il fantoccio, poi, campeggiavafra un telaio con disteso un bel ricamo, e un tavolinettoda vetraio, carico di stampe già mezzo incorniciate. Maqualche cosa, molto piú bella di quegli oggetti disparati,s’intravvedeva nella stanza. In dodici o quindici gabbiee gabbiette, stavano chiusi una quarantina di canarini,

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  • che, ingannati dal tepore dei termosifoni, saltellavano,svolazzavano, pigolavano, gorgheggiavano, becchetta-vano, e baruffavano, scambiando febbraio con aprile.Qualcuno solamente, piú pigro, stirava ancora le zampi-ne o dava un frullo con le ali, come chi getti via le co-perte. Di tanto in tanto una pallottola di piume giallerimbalzava di staggio in istaggio, simile ai ricci delle ca-stagne mature che si staccano dal ramo: ad un tratto, sifermava in bilico, una testina spuntava fuori, due occhiaguzzi guardavano furbescamente, una gola palpitava esi gonfiava, e un canto improvviso sgorgava, sottile elimpido. Mustafà, il canarino prediletto, saltellava suicapelli duri della vecchia, presi certo per un cespuglio:essa, per non farlo volar via, camminava tutta d’un pez-zo, come se portasse un’anfora.

    «Non ne voglio piú sapere d’uccelli,» disse a sua vol-ta la vecchia. «Stanotte Brighella ha quasi mangiato ipiedi ad Arlecchino. Queste bestie mi fan perdere la te-sta.»

    I canarini sono feroci: succhiano le uova, buttano ipiccoli fuori dal nido e si mangiano tra loro.

    «Tutte le mattine dice cosí,» commentò il cuoco; «etutte le mattine la testa ce l’ha.»

    «Tutte le mattine ce l’ho, e lei non ce l’ha mai,» ri-spose la donna.

    Il cuoco diventò rosso e volle ribattere; ma non trovòsubito le parole, e, dal dispetto, ingozzò due tre volte lasaliva. Gli succedeva sempre di non esser pronto a rim-beccare.

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    che, ingannati dal tepore dei termosifoni, saltellavano,svolazzavano, pigolavano, gorgheggiavano, becchetta-vano, e baruffavano, scambiando febbraio con aprile.Qualcuno solamente, piú pigro, stirava ancora le zampi-ne o dava un frullo con le ali, come chi getti via le co-perte. Di tanto in tanto una pallottola di piume giallerimbalzava di staggio in istaggio, simile ai ricci delle ca-stagne mature che si staccano dal ramo: ad un tratto, sifermava in bilico, una testina spuntava fuori, due occhiaguzzi guardavano furbescamente, una gola palpitava esi gonfiava, e un canto improvviso sgorgava, sottile elimpido. Mustafà, il canarino prediletto, saltellava suicapelli duri della vecchia, presi certo per un cespuglio:essa, per non farlo volar via, camminava tutta d’un pez-zo, come se portasse un’anfora.

    «Non ne voglio piú sapere d’uccelli,» disse a sua vol-ta la vecchia. «Stanotte Brighella ha quasi mangiato ipiedi ad Arlecchino. Queste bestie mi fan perdere la te-sta.»

    I canarini sono feroci: succhiano le uova, buttano ipiccoli fuori dal nido e si mangiano tra loro.

    «Tutte le mattine dice cosí,» commentò il cuoco; «etutte le mattine la testa ce l’ha.»

    «Tutte le mattine ce l’ho, e lei non ce l’ha mai,» ri-spose la donna.

    Il cuoco diventò rosso e volle ribattere; ma non trovòsubito le parole, e, dal dispetto, ingozzò due tre volte lasaliva. Gli succedeva sempre di non esser pronto a rim-beccare.

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  • «Non cominciamo, Placido e Placida,» interruppeIlia, rivolta a quelle due brave persone, che non si pote-vano soffrire, e che, essendo venute al mondo lo stessogiorno di San Placido, avevano, a grandissima noia loro,lo stesso nome: la donna era la cameriera che aveva vi-sta nascere Ilia. «Vi siete appena alzati, e litigate già. Li-tigherete in cucina; adesso c’è da preparare la colazione.Viene don Malachia.»

    Alberto, che aveva finito di vestirsi, entrò a quel pun-to, ed Ilia tirò un respiro.

    «Siedi un minuto,» disse; «aiutami. Sii buono.»«Sono buono e t’aiuto,» rispose Alberto, sedendo; e il

    consiglio di guerra stava per cominciare, quando Placi-do trovò la risposta all’ingiuria di cinque minuti prima.

    «Un briciolo della mia testa vale piú di tutta la sua,»disse, toccandosi gravemente col dito la cima del cranio.

    «Eh?» domandò Ilia, che aveva dimenticato la provo-cazione: poi ammoní severamente: «Basta, Placido.Dimmi piuttosto: nell’ultima colazione, che cosa aveva-mo preparato per don Malachia?»

    «Pastina in brodo, asparagi e costolettine di capretto.»«Che non ha mangiate,» commentò Placida.«Cosí dice lei,» ribatté Placido.«Basta. E oggi?»«Avrei pensato: antipasto. Una tazza di brodo ristret-

    to.»«È leggera,» disse Alberto.«C’è poi cappone lesso, con risotto e funghi.»«Tartufi,» corresse Placida.

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    «Non cominciamo, Placido e Placida,» interruppeIlia, rivolta a quelle due brave persone, che non si pote-vano soffrire, e che, essendo venute al mondo lo stessogiorno di San Placido, avevano, a grandissima noia loro,lo stesso nome: la donna era la cameriera che aveva vi-sta nascere Ilia. «Vi siete appena alzati, e litigate già. Li-tigherete in cucina; adesso c’è da preparare la colazione.Viene don Malachia.»

    Alberto, che aveva finito di vestirsi, entrò a quel pun-to, ed Ilia tirò un respiro.

    «Siedi un minuto,» disse; «aiutami. Sii buono.»«Sono buono e t’aiuto,» rispose Alberto, sedendo; e il

    consiglio di guerra stava per cominciare, quando Placi-do trovò la risposta all’ingiuria di cinque minuti prima.

    «Un briciolo della mia testa vale piú di tutta la sua,»disse, toccandosi gravemente col dito la cima del cranio.

    «Eh?» domandò Ilia, che aveva dimenticato la provo-cazione: poi ammoní severamente: «Basta, Placido.Dimmi piuttosto: nell’ultima colazione, che cosa aveva-mo preparato per don Malachia?»

    «Pastina in brodo, asparagi e costolettine di capretto.»«Che non ha mangiate,» commentò Placida.«Cosí dice lei,» ribatté Placido.«Basta. E oggi?»«Avrei pensato: antipasto. Una tazza di brodo ristret-

    to.»«È leggera,» disse Alberto.«C’è poi cappone lesso, con risotto e funghi.»«Tartufi,» corresse Placida.

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  • «Funghi,» ribatté Placido.«Basta, dico. Risotto semplice,» tagliò corto Ilia;

    «cosí sarete contenti tutt’e due. E dolci.»«Abbondanti,» consigliò Alberto. «Riepiloghiamo,

    dunque: antipasto, brodo ristretto, cappone con risotto,dolci. Con un bel pezzo di formaggio, mi pare che donRegazzoni sia servito.»

    «Quando s’invita gente,» rispose Ilia, dando alle pa-role tutta l’importanza che avevano, «bisogna mandarlavia contenta. Se no, è meglio non invitarla.»

    Ci fu un momento di silenzio, in cui si poté credere ilconsiglio di guerra terminato. Ma Placida fissava Placi-do, sorridendo provocantemente.

    «Il cuoco si è dimenticato il vino,» disse.«Dice lei, dimenticato. Don Regazzoni beve Grignoli-

    no.»«Vorrà dire Frascati.»«Grignolino.»«Frascati.»«Madre santa! Siete proprio noiosi. Mi fate venire la

    stizza,» interruppe Ilia, inquietandosi.La verità era, che don Regazzoni, l’ultima volta, ave-

    va bevuto mezza bottiglia di Grignolino e mezza di Fra-scati; e perciò fu stabilito che si sarebbe messo in tavolauna bottiglia dell’uno e una dell’altro. Mentre delibera-vano l’ultimo punto del caffè, Elvira, la cameriera gio-vane, venne a dire che la signorina Valentina Riccardi,cugina di Ilia, desiderava di salutare i padroni.

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    «Funghi,» ribatté Placido.«Basta, dico. Risotto semplice,» tagliò corto Ilia;

    «cosí sarete contenti tutt’e due. E dolci.»«Abbondanti,» consigliò Alberto. «Riepiloghiamo,

    dunque: antipasto, brodo ristretto, cappone con risotto,dolci. Con un bel pezzo di formaggio, mi pare che donRegazzoni sia servito.»

    «Quando s’invita gente,» rispose Ilia, dando alle pa-role tutta l’importanza che avevano, «bisogna mandarlavia contenta. Se no, è meglio non invitarla.»

    Ci fu un momento di silenzio, in cui si poté credere ilconsiglio di guerra terminato. Ma Placida fissava Placi-do, sorridendo provocantemente.

    «Il cuoco si è dimenticato il vino,» disse.«Dice lei, dimenticato. Don Regazzoni beve Grignoli-

    no.»«Vorrà dire Frascati.»«Grignolino.»«Frascati.»«Madre santa! Siete proprio noiosi. Mi fate venire la

    stizza,» interruppe Ilia, inquietandosi.La verità era, che don Regazzoni, l’ultima volta, ave-

    va bevuto mezza bottiglia di Grignolino e mezza di Fra-scati; e perciò fu stabilito che si sarebbe messo in tavolauna bottiglia dell’uno e una dell’altro. Mentre delibera-vano l’ultimo punto del caffè, Elvira, la cameriera gio-vane, venne a dire che la signorina Valentina Riccardi,cugina di Ilia, desiderava di salutare i padroni.

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  • «Come? Sono già le nove?» esclamò Ilia; e consultòun libriccino di memorie, in cui, con segni cabalistici,aveva notato gli impegni della giornata. Alberto sorrise.Diceva che quel libretto era per Ilia come la Bibbia; maIlia finse di non vedere il sorriso.

    Entrò una bella giovinetta, vestita a lutto. Era alta,snella, bruna, con due grandi occhi neri risoluti e unaruga diritta in mezzo alla fronte liscia: il corpo, gagliar-do e agile, era perfetto; il viso, pur bello, appariva menoperfetto del corpo. Si sarebbe detto che ai lineamenti, aduno ad uno impeccabili, mancasse qualche cosa: e, chiguardava bene, si accorgeva che mancavano, diremocosí, le ombre. Il viso aveva un’aria un po’ virile, senzaquel velo di pudica dolcezza, che stendono, specialmen-te sugli occhi e sulla bocca, le cure riposate della casa ei pensieri intimi, vagheggiati o sofferti in segreto. Ema-nava dalla giovinetta una impressione di forza, ma unpo’ dura, come se le membra, costrette a irrobustirsi;non avessero consentito naturalmente; e il viso rivelavaun po’ di quella costrizione e forse di quella fatica.Quando, con subitaneo atto, e quasi di sfida, scosse latesta, i bellissimi capelli neri, tagliati da paggio, le fece-ro raggera intorno al viso, che, rialzato orgogliosamente,fu ancor piú di prima di giovinetto e giovinetta.

    «I nostri auguri di pace per il tuo onomastico, Valenti-na,» disse Ilia, «giacché non puoi avere felicità.»

    «Grazie. Pace, felicità: parole. Venivo a salutarvi.Parto.»

    «Dove vai?»

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    «Come? Sono già le nove?» esclamò Ilia; e consultòun libriccino di memorie, in cui, con segni cabalistici,aveva notato gli impegni della giornata. Alberto sorrise.Diceva che quel libretto era per Ilia come la Bibbia; maIlia finse di non vedere il sorriso.

    Entrò una bella giovinetta, vestita a lutto. Era alta,snella, bruna, con due grandi occhi neri risoluti e unaruga diritta in mezzo alla fronte liscia: il corpo, gagliar-do e agile, era perfetto; il viso, pur bello, appariva menoperfetto del corpo. Si sarebbe detto che ai lineamenti, aduno ad uno impeccabili, mancasse qualche cosa: e, chiguardava bene, si accorgeva che mancavano, diremocosí, le ombre. Il viso aveva un’aria un po’ virile, senzaquel velo di pudica dolcezza, che stendono, specialmen-te sugli occhi e sulla bocca, le cure riposate della casa ei pensieri intimi, vagheggiati o sofferti in segreto. Ema-nava dalla giovinetta una impressione di forza, ma unpo’ dura, come se le membra, costrette a irrobustirsi;non avessero consentito naturalmente; e il viso rivelavaun po’ di quella costrizione e forse di quella fatica.Quando, con subitaneo atto, e quasi di sfida, scosse latesta, i bellissimi capelli neri, tagliati da paggio, le fece-ro raggera intorno al viso, che, rialzato orgogliosamente,fu ancor piú di prima di giovinetto e giovinetta.

    «I nostri auguri di pace per il tuo onomastico, Valenti-na,» disse Ilia, «giacché non puoi avere felicità.»

    «Grazie. Pace, felicità: parole. Venivo a salutarvi.Parto.»

    «Dove vai?»

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  • «A Taormina.»«E la mamma?»«Ha tante cose da fare per conto suo! Va, come al so-

    lito, ad Alassio. Mi lascia libera.»Parlava con fredda esasperazione, guardando diritto

    innanzi a sé: e le parole cadevano lente e dure dalla boc-ca cosí giovane.

    «Non hai visto don Paolo?» domandò Ilia, prenden-dole le mani. «Ti avrebbe potuto consigliare.»

    «Non vado piú in chiesa.»«Poveretta. Non sai rassegnarti.»Valentina rise ostentatamente.«È passato quel tempo.»«Che cosa conti di fare?»«Non so. Qualche cosa di diverso da prima.»«Puoi parlare cosí, tu, tanto buona?»Le due donne erano coi volti vicini: e le fattezze, si-

    mili per la comunione del sangue, parevano farsi dissi-mili per i diversi affetti.

    «Taci,» continuò Ilia: «se Stefano fosse qui, che cosadirebbe?»

    «Che ho ragione. Tu non l’hai visto morire. Non lohai sentito dire, lui che era stato cosí bello e forte: “do-mani non ci sarò piú.” Mi diceva: “non posso lasciarti.”Non voleva morire. Ma Dio è ingiusto e cattivo.»

    Placida si turò le orecchie, indignata, e Placido guar-dò attentamente il lunario.

    «La tua sventura è stata grande,» disse Ilia; «ed è laprima. Se avessi sofferto di piú; se avessi perduto ad

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    «A Taormina.»«E la mamma?»«Ha tante cose da fare per conto suo! Va, come al so-

    lito, ad Alassio. Mi lascia libera.»Parlava con fredda esasperazione, guardando diritto

    innanzi a sé: e le parole cadevano lente e dure dalla boc-ca cosí giovane.

    «Non hai visto don Paolo?» domandò Ilia, prenden-dole le mani. «Ti avrebbe potuto consigliare.»

    «Non vado piú in chiesa.»«Poveretta. Non sai rassegnarti.»Valentina rise ostentatamente.«È passato quel tempo.»«Che cosa conti di fare?»«Non so. Qualche cosa di diverso da prima.»«Puoi parlare cosí, tu, tanto buona?»Le due donne erano coi volti vicini: e le fattezze, si-

    mili per la comunione del sangue, parevano farsi dissi-mili per i diversi affetti.

    «Taci,» continuò Ilia: «se Stefano fosse qui, che cosadirebbe?»

    «Che ho ragione. Tu non l’hai visto morire. Non lohai sentito dire, lui che era stato cosí bello e forte: “do-mani non ci sarò piú.” Mi diceva: “non posso lasciarti.”Non voleva morire. Ma Dio è ingiusto e cattivo.»

    Placida si turò le orecchie, indignata, e Placido guar-dò attentamente il lunario.

    «La tua sventura è stata grande,» disse Ilia; «ed è laprima. Se avessi sofferto di piú; se avessi perduto ad

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  • uno ad uno i tuoi cari, come li hanno perduti tanti (comeme, ricordi?) ti rassegneresti. Dico parole che sembre-ranno crudeli: ma ci vogliono molte sventure per indurciall’accettazione. Una sola non basta.»

    «Si rassegni chi vuole. Io no. Nessuna ingiustizia eoffesa è stata piú grande della mia.»

    «La morte colpisce tutti egualmente; e non è néun’ingiustizia né un’offesa.»

    «Ognuno si rassegna al dolore degli altri, e Alberto èvivo. Perdonami,» soggiunse subito la giovinetta; ma ri-prese: «e, poi, no. Voglio dire ciò che penso. Vorrei ve-dere tutti disgraziati come me. Perché gli altri sono vivi,e Stefano è morto?»

    «Povera Valentina,» ripeté Ilia.«Non son venuta per lamentarmi. Inutile. È capitata a

    me; devo subirla.»Pure i ricordi, lo sfogo, la commiserazione l’avevano,

    commossa. Volse il viso per nascondere le lagrime, chele avevano gonfiato gli occhi.

    «A rivederci,» disse in fretta, con voce tremante. «Miricorderò di te, Ilia, di te, Alberto. Siete stati i compagnidel tempo che non ritornerà mai piú.»

    «Tornerà, Valentina; torna per tutti. Tu sei giovane, eDio è buono.»

    «Non tornerà; ma ti ringrazio delle tue parole. Seisempre pietosa, Ilia: la sventura ti stia lontano.»

    Uscí, asciugandosi le lagrime; e Placido, che avevaascoltato, un po’ crollando la testa per dissenso, e un po’consentendo per compassione, la seguí con occhio sem-

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    uno ad uno i tuoi cari, come li hanno perduti tanti (comeme, ricordi?) ti rassegneresti. Dico parole che sembre-ranno crudeli: ma ci vogliono molte sventure per indurciall’accettazione. Una sola non basta.»

    «Si rassegni chi vuole. Io no. Nessuna ingiustizia eoffesa è stata piú grande della mia.»

    «La morte colpisce tutti egualmente; e non è néun’ingiustizia né un’offesa.»

    «Ognuno si rassegna al dolore degli altri, e Alberto èvivo. Perdonami,» soggiunse subito la giovinetta; ma ri-prese: «e, poi, no. Voglio dire ciò che penso. Vorrei ve-dere tutti disgraziati come me. Perché gli altri sono vivi,e Stefano è morto?»

    «Povera Valentina,» ripeté Ilia.«Non son venuta per lamentarmi. Inutile. È capitata a

    me; devo subirla.»Pure i ricordi, lo sfogo, la commiserazione l’avevano,

    commossa. Volse il viso per nascondere le lagrime, chele avevano gonfiato gli occhi.

    «A rivederci,» disse in fretta, con voce tremante. «Miricorderò di te, Ilia, di te, Alberto. Siete stati i compagnidel tempo che non ritornerà mai piú.»

    «Tornerà, Valentina; torna per tutti. Tu sei giovane, eDio è buono.»

    «Non tornerà; ma ti ringrazio delle tue parole. Seisempre pietosa, Ilia: la sventura ti stia lontano.»

    Uscí, asciugandosi le lagrime; e Placido, che avevaascoltato, un po’ crollando la testa per dissenso, e un po’consentendo per compassione, la seguí con occhio sem-

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  • pre piú cogitabondo. Meno capiva, piú diventava pen-sieroso: e gli pareva impossibile che una giovine bellacome Valentina potesse piangere.

    «Povera signorina,» disse Placida; «ma che parole!Le ragazze d’oggi non hanno piú rispetto di Dio.»

    «Non essere severa,» rispose Ilia, ridiventata indul-gente, adesso che Valentina non c’era piú. «È orrendoperdere chi si ama.»

    «Bisogna farsi una ragione,» interruppe Alberto, chefino allora aveva ascoltato in silenzio. «Dobbiamo purmorire. E in guerra?»

    «Tutti i morti cominciano dai nostri.»«Eh, non troveremo altri argomenti, stamattina? Qua-

    si quasi, avrei dovuto morire anch’io, per far piacere aValentina.»

    «Alberto!» esclamò Ilia, buttando le braccia al collodel marito; e lo avvinse in una stretta cosí forte e dispe-rata, che l’uomo sentí le unghie della donna penetrarglinella carne. Ilia, nella passione, aveva nervi e muscolid’acciaio. «Se tu morissi, morirei anch’io.»

    «Ma,» rispose Alberto, sorridendo per mutar tono aquella manifestazione di amore e di terrore; «che cosac’è adesso? In fondo, è giusto che Valentina abbia parla-to di me. Sono piú vecchio, ne ho passate di tutti i colo-ri: toccherebbe a me...»

    Non poté finire, perché squillò ancora una scampanel-lata. «Un vero porto di mare,» diceva Alberto parlandodella sua casa; e diede un’occhiata ad Ilia, che gliela ri-

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    pre piú cogitabondo. Meno capiva, piú diventava pen-sieroso: e gli pareva impossibile che una giovine bellacome Valentina potesse piangere.

    «Povera signorina,» disse Placida; «ma che parole!Le ragazze d’oggi non hanno piú rispetto di Dio.»

    «Non essere severa,» rispose Ilia, ridiventata indul-gente, adesso che Valentina non c’era piú. «È orrendoperdere chi si ama.»

    «Bisogna farsi una ragione,» interruppe Alberto, chefino allora aveva ascoltato in silenzio. «Dobbiamo purmorire. E in guerra?»

    «Tutti i morti cominciano dai nostri.»«Eh, non troveremo altri argomenti, stamattina? Qua-

    si quasi, avrei dovuto morire anch’io, per far piacere aValentina.»

    «Alberto!» esclamò Ilia, buttando le braccia al collodel marito; e lo avvinse in una stretta cosí forte e dispe-rata, che l’uomo sentí le unghie della donna penetrarglinella carne. Ilia, nella passione, aveva nervi e muscolid’acciaio. «Se tu morissi, morirei anch’io.»

    «Ma,» rispose Alberto, sorridendo per mutar tono aquella manifestazione di amore e di terrore; «che cosac’è adesso? In fondo, è giusto che Valentina abbia parla-to di me. Sono piú vecchio, ne ho passate di tutti i colo-ri: toccherebbe a me...»

    Non poté finire, perché squillò ancora una scampanel-lata. «Un vero porto di mare,» diceva Alberto parlandodella sua casa; e diede un’occhiata ad Ilia, che gliela ri-

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  • cambiò come per dire: «vedi, se ci sono molte cose dafare!»

    «Il maresciallo Casasco,» annunziò Elvira.«Allora, sono le dieci in punto,» osservò Alberto.«Non farti sentire!» mormorò Ilia, andando incontro

    all’ospite, per chiedergli lietamente: «Come sta? E isuoi? Si trova bene nella sua bella villa?»

    Il maresciallo diede con pacatezza le spiegazioni: tuttistavano bene, e lui benissimo: non aveva mai il piú pic-colo male, mangiava con appetito e dormiva come unragazzo. Alberto lo aveva conosciuto sempre cosí sano esereno, anche nei giorni del pericolo piú grave e immi-nente: come se in lui il corpo facesse da muro all’animo.Circa la villa, che gl’italiani gli avevano regalata, erasempre stato il suo sogno di finire la vita in campagna:questo è il sogno dei piú infaticati e avventurosi condot-tieri di popoli e di soldati, da quell’antico Pirro, che loconfidava cosí candidamente a Cinea; ma, prima, devo-no aver messo sottosopra la terra. Il maresciallo, che erariuscito nel doppio intento d’affaticare tutti per acquietarse stesso, era pago.

    «Non si fidi di tutto questo georgicume,» disse peròad Ilia alla fine del discorso. «Molti miei compagni col-tivano l’orto, come me; ma, se ci fosse un’altra guerra,lascerebbero subito l’aratro per la spada. E lei, Alberto,a che punto è del lavoro?»

    Alberto scriveva la storia della ritirata dell’esercitoitaliano dall’Isonzo al Piave. In quei tristi e grandi gior-ni, era stato a fianco del maresciallo, e il vecchio con-

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    cambiò come per dire: «vedi, se ci sono molte cose dafare!»

    «Il maresciallo Casasco,» annunziò Elvira.«Allora, sono le dieci in punto,» osservò Alberto.«Non farti sentire!» mormorò Ilia, andando incontro

    all’ospite, per chiedergli lietamente: «Come sta? E isuoi? Si trova bene nella sua bella villa?»

    Il maresciallo diede con pacatezza le spiegazioni: tuttistavano bene, e lui benissimo: non aveva mai il piú pic-colo male, mangiava con appetito e dormiva come unragazzo. Alberto lo aveva conosciuto sempre cosí sano esereno, anche nei giorni del pericolo piú grave e immi-nente: come se in lui il corpo facesse da muro all’animo.Circa la villa, che gl’italiani gli avevano regalata, erasempre stato il suo sogno di finire la vita in campagna:questo è il sogno dei piú infaticati e avventurosi condot-tieri di popoli e di soldati, da quell’antico Pirro, che loconfidava cosí candidamente a Cinea; ma, prima, devo-no aver messo sottosopra la terra. Il maresciallo, che erariuscito nel doppio intento d’affaticare tutti per acquietarse stesso, era pago.

    «Non si fidi di tutto questo georgicume,» disse peròad Ilia alla fine del discorso. «Molti miei compagni col-tivano l’orto, come me; ma, se ci fosse un’altra guerra,lascerebbero subito l’aratro per la spada. E lei, Alberto,a che punto è del lavoro?»

    Alberto scriveva la storia della ritirata dell’esercitoitaliano dall’Isonzo al Piave. In quei tristi e grandi gior-ni, era stato a fianco del maresciallo, e il vecchio con-

    26

  • dottiero aspettava dal racconto una giustizia, che a luipareva non fosse stata ancora resa. Ora, nell’ascoltare leparole appassionate con cui il narratore faceva riviverel’epopea, il condottiero s’esaltava; e la sua bizzarraespressione di grandezza e d’incompiutezza, di potenzae d’impaccio si mostrava piena. Pareva una di quelle gi-gantesche statue che Michelangelo, nel furore dell’ispi-razione, ha cominciato a scalpellare nel marmo, e poi haabbandonate: lo spirito le anima già, ma le forme sonoancora imperfette, e, qua e là, sasso. Il cranio a bozze, lafronte prominente, le mascelle larghe, le sopraccigliafolte, gli occhi fondi e acuti, i denti lunghi e solidi, chenel riso o nell’ira saltavan fuori forti e taglienti, eranopiuttosto sgrossati che finiti. Ma da quelle membra e daquei lineamenti, appunto per la loro incompiutezza, sisprigionava un vigore, una freschezza, una sicurezza,che sembravano anche maggiori di quello che forse nonerano.

    «La nostra,» disse, quando Alberto ebbe finito, «èstata la piú grande ritirata che la storia militare rammen-ti; e non si capí se le parole fossero soltanto di rimpian-to, o se, nel rimpianto, entrasse un poco l’alterezza diaverla condotta cosí sapientemente.

    «Come è bello!» soggiunse Ilia, che aveva tanto pau-ra della guerra. «Chi sa perché la guerra, che fa tantomale, è ricordata con orgoglio e quasi con nostalgia?»

    I due uomini, presi alla sprovvista; diedero le risposteconfacenti alla loro indole: quasi sempre erano d’accor-do sui fatti, e discordi nelle conclusioni.

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    dottiero aspettava dal racconto una giustizia, che a luipareva non fosse stata ancora resa. Ora, nell’ascoltare leparole appassionate con cui il narratore faceva riviverel’epopea, il condottiero s’esaltava; e la sua bizzarraespressione di grandezza e d’incompiutezza, di potenzae d’impaccio si mostrava piena. Pareva una di quelle gi-gantesche statue che Michelangelo, nel furore dell’ispi-razione, ha cominciato a scalpellare nel marmo, e poi haabbandonate: lo spirito le anima già, ma le forme sonoancora imperfette, e, qua e là, sasso. Il cranio a bozze, lafronte prominente, le mascelle larghe, le sopraccigliafolte, gli occhi fondi e acuti, i denti lunghi e solidi, chenel riso o nell’ira saltavan fuori forti e taglienti, eranopiuttosto sgrossati che finiti. Ma da quelle membra e daquei lineamenti, appunto per la loro incompiutezza, sisprigionava un vigore, una freschezza, una sicurezza,che sembravano anche maggiori di quello che forse nonerano.

    «La nostra,» disse, quando Alberto ebbe finito, «èstata la piú grande ritirata che la storia militare rammen-ti; e non si capí se le parole fossero soltanto di rimpian-to, o se, nel rimpianto, entrasse un poco l’alterezza diaverla condotta cosí sapientemente.

    «Come è bello!» soggiunse Ilia, che aveva tanto pau-ra della guerra. «Chi sa perché la guerra, che fa tantomale, è ricordata con orgoglio e quasi con nostalgia?»

    I due uomini, presi alla sprovvista; diedero le risposteconfacenti alla loro indole: quasi sempre erano d’accor-do sui fatti, e discordi nelle conclusioni.

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  • «Mah,» disse Alberto; «forse perché la morte, chespesso aspetta chi combatte, illumina come il sole tuttele strade che conducono a lei.»

    «E forse perché l’uomo ha tanto piú pace e sodisfa-zione,» aggiunse il maresciallo, «quanto piú il suo dove-re è duro e pericoloso.»

    «Insomma,» concluse sorridendo Ilia, «far la guerra èspaventevole, e averla fatta è grande.»

    «Per tutti,» rispose il maresciallo; «non soltanto perchi l’ha vinta: segno che ha proprio una grandezza in sé.Lei, però,» continuò rivolto ad Alberto, «dica la verità ebolli i colpevoli. Ma che diavolo!» esclamò, alzandosiimprovvisamente, e facendo un rapido giro sulla gambadestra, come un ballerino, mentre rotava un braccio qua-si a falciare un invisibile nemico: i denti forti e grossiusciron fuori dalle labbra, come per mordere. Erano isuoi gesti abituali nello sdegno; ma, guardando Ilia, ri-mase un istante con la gamba e il braccio per aria, risie-dette, e terminò con voce piú calma: «ma che diavolo!Ammiro e venero il Vangelo; ma non ho mai potuto ca-pire bene il perdono e la gioia di Gesú verso il peccato-re, anche se torna all’ovile. L’apologo del figliuol prodi-go mi persuade poco. Dov’è la giustizia?»

    «Ha ragione,» confermò Alberto, proclive anche lui aveder chiaro e semplice.

    «Mi scusino,» disse Ilia; «ma perché ci cercano den-tro la giustizia? Io non ne cerco nessuna. Anzi, devo dirla verità? A me anche il figliuol prodigo importa fino aun certo segno. Non è lui il protagonista dell’apologo.»

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    «Mah,» disse Alberto; «forse perché la morte, chespesso aspetta chi combatte, illumina come il sole tuttele strade che conducono a lei.»

    «E forse perché l’uomo ha tanto piú pace e sodisfa-zione,» aggiunse il maresciallo, «quanto piú il suo dove-re è duro e pericoloso.»

    «Insomma,» concluse sorridendo Ilia, «far la guerra èspaventevole, e averla fatta è grande.»

    «Per tutti,» rispose il maresciallo; «non soltanto perchi l’ha vinta: segno che ha proprio una grandezza in sé.Lei, però,» continuò rivolto ad Alberto, «dica la verità ebolli i colpevoli. Ma che diavolo!» esclamò, alzandosiimprovvisamente, e facendo un rapido giro sulla gambadestra, come un ballerino, mentre rotava un braccio qua-si a falciare un invisibile nemico: i denti forti e grossiusciron fuori dalle labbra, come per mordere. Erano isuoi gesti abituali nello sdegno; ma, guardando Ilia, ri-mase un istante con la gamba e il braccio per aria, risie-dette, e terminò con voce piú calma: «ma che diavolo!Ammiro e venero il Vangelo; ma non ho mai potuto ca-pire bene il perdono e la gioia di Gesú verso il peccato-re, anche se torna all’ovile. L’apologo del figliuol prodi-go mi persuade poco. Dov’è la giustizia?»

    «Ha ragione,» confermò Alberto, proclive anche lui aveder chiaro e semplice.

    «Mi scusino,» disse Ilia; «ma perché ci cercano den-tro la giustizia? Io non ne cerco nessuna. Anzi, devo dirla verità? A me anche il figliuol prodigo importa fino aun certo segno. Non è lui il protagonista dell’apologo.»

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  • «E chi è?» domandò il maresciallo.«Mi scusino,» ripeté Ilia arrossendo; «ma a me pare

    che Gesú sia il protagonista, e che l’apologo sia del pa-dre pietoso, piú che del figliuol prodigo. Che esempio digiustizia dovrebbe dar Gesú? È un padre che aveva per-duto il figlio; ora che il figlio è tornato, il padre piangedi gioia, soltanto per sé. Che cosa gli importa degli altri?Sbaglierò; ma direi perfino, che non si tratta di premio ocastigo, bensí dell’amore e della bontà infinita di Dio.Vedano,» riepilogò Ilia, tirando un respirone e ridendo:«quando io non capisco con la ragione qualche cosa delVangelo, la ripenso con l’amore e la bontà; me la cavocome posso, eppure mi sembra che tutto diventi logico echiaro.»

    «Questa spiegazione,» disse il maresciallo (che conIlia andava quasi sempre d’accordo, oltre che nei fatti,nelle conclusioni, perché Ilia gli metteva innanzi le di-verse e contrarie con l’aria di lasciargli la scelta, e ilgran vecchio, contento, sceglieva allora liberamentequelle della piccola donna): «questa spiegazione nonl’avevo mai pensata. Dev’essere vera, perché è bella;ma io non ho tanto amore e tanta magnanimità. Lei,però, signora Ilia, stimoli suo marito a lavorare. Bisognache faccia presto: sono vecchio, ed ho poco tempo daaspettare.»

    «Lei crede,» domandò Ilia con simulata indifferenza,ma con una gran gioia interiore, «che Alberto potrà scri-vere il libro?»

    «Era con me,» rispose imperturbato il maresciallo.

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    «E chi è?» domandò il maresciallo.«Mi scusino,» ripeté Ilia arrossendo; «ma a me pare

    che Gesú sia il protagonista, e che l’apologo sia del pa-dre pietoso, piú che del figliuol prodigo. Che esempio digiustizia dovrebbe dar Gesú? È un padre che aveva per-duto il figlio; ora che il figlio è tornato, il padre piangedi gioia, soltanto per sé. Che cosa gli importa degli altri?Sbaglierò; ma direi perfino, che non si tratta di premio ocastigo, bensí dell’amore e della bontà infinita di Dio.Vedano,» riepilogò Ilia, tirando un respirone e ridendo:«quando io non capisco con la ragione qualche cosa delVangelo, la ripenso con l’amore e la bontà; me la cavocome posso, eppure mi sembra che tutto diventi logico echiaro.»

    «Questa spiegazione,» disse il maresciallo (che conIlia andava quasi sempre d’accordo, oltre che nei fatti,nelle conclusioni, perché Ilia gli metteva innanzi le di-verse e contrarie con l’aria di lasciargli la scelta, e ilgran vecchio, contento, sceglieva allora liberamentequelle della piccola donna): «questa spiegazione nonl’avevo mai pensata. Dev’essere vera, perché è bella;ma io non ho tanto amore e tanta magnanimità. Lei,però, signora Ilia, stimoli suo marito a lavorare. Bisognache faccia presto: sono vecchio, ed ho poco tempo daaspettare.»

    «Lei crede,» domandò Ilia con simulata indifferenza,ma con una gran gioia interiore, «che Alberto potrà scri-vere il libro?»

    «Era con me,» rispose imperturbato il maresciallo.

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  • «Non diranno che ha scritto per gli amici e per sé?»«Ma che diavolo!» esclamò il maresciallo, e di nuovo

    scattò con quel tal gesto aggressivo, e di nuovo si ricac-ciò a sedere nella poltrona. «Tutti i soldati hanno scrittoper gli amici e per sé, da Cesare in poi. E per chi vuoleche scrivano?»

    «Alberto,» disse allora con gravità Ilia, che avevacondotto il maresciallo dove desiderava. Ella aveva no-tato come, ogni volta che il marito aveva raccontato lar-gamente ciò che doveva scrivere, stava poi parecchigiorni senza scrivere piú; né aveva mai tanti dubbi sullabontà del libro, quanto dopo essersi commosso ed esal-tato della sua bellezza: «Alberto, non ho aperto bocca.Ma adesso che il maresciallo ha parlato, ti posso direche la penso come lui. Devi finire presto.»

    E Ilia vide con la fantasia passare gli anni, con Alber-to vicino, intento all’opera: e, dalla contentezza, sorrise.

    «Lavorerò,» disse il marito, che si era divertito unmondo a veder la moglie tessere la sua tela.

    «Con giustizia,» ripeté il maresciallo, il quale eviden-temente dava a quella parola un significato che gli eracaro.

    «Naturalmente.»«Con bontà,» disse Ilia.«Naturalmente.»«Insomma,» sentenziò il maresciallo, «in maniera

    da...»In quel momento l’orologio della stanza suonò le un-

    dici, e il maresciallo balzò in piedi, troncando il discor-

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    «Non diranno che ha scritto per gli amici e per sé?»«Ma che diavolo!» esclamò il maresciallo, e di nuovo

    scattò con quel tal gesto aggressivo, e di nuovo si ricac-ciò a sedere nella poltrona. «Tutti i soldati hanno scrittoper gli amici e per sé, da Cesare in poi. E per chi vuoleche scrivano?»

    «Alberto,» disse allora con gravità Ilia, che avevacondotto il maresciallo dove desiderava. Ella aveva no-tato come, ogni volta che il marito aveva raccontato lar-gamente ciò che doveva scrivere, stava poi parecchigiorni senza scrivere piú; né aveva mai tanti dubbi sullabontà del libro, quanto dopo essersi commosso ed esal-tato della sua bellezza: «Alberto, non ho aperto bocca.Ma adesso che il maresciallo ha parlato, ti posso direche la penso come lui. Devi finire presto.»

    E Ilia vide con la fantasia passare gli anni, con Alber-to vicino, intento all’opera: e, dalla contentezza, sorrise.

    «Lavorerò,» disse il marito, che si era divertito unmondo a veder la moglie tessere la sua tela.

    «Con giustizia,» ripeté il maresciallo, il quale eviden-temente dava a quella parola un significato che gli eracaro.

    «Naturalmente.»«Con bontà,» disse Ilia.«Naturalmente.»«Insomma,» sentenziò il maresciallo, «in maniera

    da...»In quel momento l’orologio della stanza suonò le un-

    dici, e il maresciallo balzò in piedi, troncando il discor-

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  • so: Alberto non seppe mai piú in che maniera dovevascrivere la storia. Il Casasco aveva stabilito di rimanereun’ora in casa d’Ilia, l’ora era passata, e, allo scoccaredell’ultimo minuto, egli se ne andava. Salutò in fretta gliamici, già tutto preso dal pensiero di ciò che stava perfare: anche a lui, come a Napoleone, s’era chiuso uncassetto nel cervello e se n’era aperto un altro. Riattra-versò col suo passo pesante l’anticamera; ad ogni scali-no, le immagini di Ilia e di Alberto si affievolirono; fin-ché, giunto sul portone, il vecchio condottiero non si ri-cordò quasi nemmeno piú dei due. La stanza, senza dilui, parve improvvisamente vuota. Dovunque stava,quell’uomo riempiva il luogo.

    «Vieni qui,» disse Alberto alla moglie, abbracciando-la. «Sei piccola, ma grande. Hai la carità del pellicano el’avvedutezza del serpente. Meriti cento baci.»

    «Alberto,» rispose lei, e il suo visuccio diventò seriocome quello di una bambina savia, che pensa a ciò chedice: «sappi che, quando una moglie loda il marito,come io lodo sempre te, fa un bellissimo effetto: la gen-te non ci è avvezza. Però ricordati di ricambiarmi. Nes-suno è piú forte di un marito e di una moglie concordi;ma bisogna che vadano davvero d’accordo. Perché...»

    «Questo Drin è un bel...» gridò dal fondo del corrido-io Placida, interrompendo la spiegazione d’Ilia, che sa-rebbe stata certamente acuta; e aggiunse una parolagrossa.

    La vecchia, per vedere da lontano, aveva rialzato gliocchiali sulla fronte, sicché splendeva e luccicava

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    so: Alberto non seppe mai piú in che maniera dovevascrivere la storia. Il Casasco aveva stabilito di rimanereun’ora in casa d’Ilia, l’ora era passata, e, allo scoccaredell’ultimo minuto, egli se ne andava. Salutò in fretta gliamici, già tutto preso dal pensiero di ciò che stava perfare: anche a lui, come a Napoleone, s’era chiuso uncassetto nel cervello e se n’era aperto un altro. Riattra-versò col suo passo pesante l’anticamera; ad ogni scali-no, le immagini di Ilia e di Alberto si affievolirono; fin-ché, giunto sul portone, il vecchio condottiero non si ri-cordò quasi nemmeno piú dei due. La stanza, senza dilui, parve improvvisamente vuota. Dovunque stava,quell’uomo riempiva il luogo.

    «Vieni qui,» disse Alberto alla moglie, abbracciando-la. «Sei piccola, ma grande. Hai la carità del pellicano el’avvedutezza del serpente. Meriti cento baci.»

    «Alberto,» rispose lei, e il suo visuccio diventò seriocome quello di una bambina savia, che pensa a ciò chedice: «sappi che, quando una moglie loda il marito,come io lodo sempre te, fa un bellissimo effetto: la gen-te non ci è avvezza. Però ricordati di ricambiarmi. Nes-suno è piú forte di un marito e di una moglie concordi;ma bisogna che vadano davvero d’accordo. Perché...»

    «Questo Drin è un bel...» gridò dal fondo del corrido-io Placida, interrompendo la spiegazione d’Ilia, che sa-rebbe stata certamente acuta; e aggiunse una parolagrossa.

    La vecchia, per vedere da lontano, aveva rialzato gliocchiali sulla fronte, sicché splendeva e luccicava

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  • dall’alto; e camminava fremente, con le forbici da vetra-io in mano, simile al castigo che insegue la colpa; di-nanzi, correndo su tre gambe a codino basso, scappavazitto zitto il cane Drin. Ilia mormorò: «povero Drin,qui»; e la bestia, trovato il rifugio, si rivoltò contro lavecchia, e ronchiò.

    Personaggio importante nella casa, questo cane Drin;perché aveva visto scomparire ad uno ad uno i genitori ei parenti d’Ilia ed era stato testimonio di molti avveni-menti che, senza di lui, non si sarebbero piú rammentati.Ma, in realtà, era una bestia stramba e prepotente. Lagratitudine non sapeva nemmeno dove stesse di casa, edera certo tócco nel cervello, perché spesso, nel bel mez-zo d’una dimostrazione di tenerezza, improvvisamentevoltava la schiena e, bofonchiando e trottando di traver-so, se ne tornava pari pari alla cuccia. Sopra tutto, erageloso come Otello e ammazzava tutti i canarini che po-teva trovare fuori della gabbia, perché partecipavanocon lui all’affetto dei padroni; e, impostore raffinato,perché dopo il delitto se ne veniva senza far rumore anascondersi sotto una sedia, come se nulla fosse stato.Quando poi del disgraziato uccello si trovava appena unpo’ di peluria gialla sul pavimento, Drin guardava lagente con gli occhi tondi e innocenti, come per dire chenon ne sapeva nulla; e una pennina gialla gli pendevaancora dalle labbra. E se qualcuno persisteva ad accu-sarlo, si rizzava sulle gambe, ringhiando: cosí, primacon l’inganno, poi con la violenza, cercava di saldare lepartite, come fanno gli uomini.

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    dall’alto; e camminava fremente, con le forbici da vetra-io in mano, simile al castigo che insegue la colpa; di-nanzi, correndo su tre gambe a codino basso, scappavazitto zitto il cane Drin. Ilia mormorò: «povero Drin,qui»; e la bestia, trovato il rifugio, si rivoltò contro lavecchia, e ronchiò.

    Personaggio importante nella casa, questo cane Drin;perché aveva visto scomparire ad uno ad uno i genitori ei parenti d’Ilia ed era stato testimonio di molti avveni-menti che, senza di lui, non si sarebbero piú rammentati.Ma, in realtà, era una bestia stramba e prepotente. Lagratitudine non sapeva nemmeno dove stesse di casa, edera certo tócco nel cervello, perché spesso, nel bel mez-zo d’una dimostrazione di tenerezza, improvvisamentevoltava la schiena e, bofonchiando e trottando di traver-so, se ne tornava pari pari alla cuccia. Sopra tutto, erageloso come Otello e ammazzava tutti i canarini che po-teva trovare fuori della gabbia, perché partecipavanocon lui all’affetto dei padroni; e, impostore raffinato,perché dopo il delitto se ne veniva senza far rumore anascondersi sotto una sedia, come se nulla fosse stato.Quando poi del disgraziato uccello si trovava appena unpo’ di peluria gialla sul pavimento, Drin guardava lagente con gli occhi tondi e innocenti, come per dire chenon ne sapeva nulla; e una pennina gialla gli pendevaancora dalle labbra. E se qualcuno persisteva ad accu-sarlo, si rizzava sulle gambe, ringhiando: cosí, primacon l’inganno, poi con la violenza, cercava di saldare lepartite, come fanno gli uomini.

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  • «Lei, precettore,» gridò la vecchia, la quale, non po-tendo prendersela con la padrona, scagliò a Placidol’ingiuria piú sanguinosa per lui: «lei, precettore, richia-mi il suo sudicio allievo. A momenti mangiava Musta-fà.»

    Placido, ritto dinanzi ai fornelli, stava guardando in-tentamente le pentole che cominciavano a bollire, e ag-grottava le ciglia come se pensasse a qualche cosa, ben-ché non pensasse a nulla, quando la voce lo distolse dal-le sue faccende. Accettò il combattimento, perché perlui la giornata era una continua battaglia; soltanto, men-tre s’avviava, disse con voce dolorosa alla padrona:

    «Chi provoca? Domando e dico: chi provoca? Io, oquella lí? Tenga chiusa la porta, e il cane non mangerànessuno,» soggiunse, rivolto a Placida.

    «Terrò chiusa la porta per la sua bella faccia?»Al nuovo oltraggio, il cuoco gorgogliò dentro, ma di

    nuovo non trovò parole; ancora una volta i capelli gli sirizzarono sulla testa dal dispetto. Intanto Drin, che capi-va quando si parlava di lui e prevedeva ciò che stava peraccadergli, diventato inquieto, un po’ guaiva, cercandod’impietosire Ilia, un po’ ronchiava, tentando d’impauri-re i due nemici. Alberto s’era ristretto ad Ilia; Placida ePlacido si ravvicinavano, perché litigare a faccia a fac-cia dà piú gusto; e il crocchio turbolento della mattinastava per riformarsi, quando Elvira, che molte volte,come il fato, causava o risolveva gli avvenimenti senzasaperlo, portò la posta. Ilia disse, tirando un gran respi-ro:

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    «Lei, precettore,» gridò la vecchia, la quale, non po-tendo prendersela con la padrona, scagliò a Placidol’ingiuria piú sanguinosa per lui: «lei, precettore, richia-mi il suo sudicio allievo. A momenti mangiava Musta-fà.»

    Placido, ritto dinanzi ai fornelli, stava guardando in-tentamente le pentole che cominciavano a bollire, e ag-grottava le ciglia come se pensasse a qualche cosa, ben-ché non pensasse a nulla, quando la voce lo distolse dal-le sue faccende. Accettò il combattimento, perché perlui la giornata era una continua battaglia; soltanto, men-tre s’avviava, disse con voce dolorosa alla padrona:

    «Chi provoca? Domando e dico: chi provoca? Io, oquella lí? Tenga chiusa la porta, e il cane non mangerànessuno,» soggiunse, rivolto a Placida.

    «Terrò chiusa la porta per la sua bella faccia?»Al nuovo oltraggio, il cuoco gorgogliò dentro, ma di

    nuovo non trovò parole; ancora una volta i capelli gli sirizzarono sulla testa dal dispetto. Intanto Drin, che capi-va quando si parlava di lui e prevedeva ciò che stava peraccadergli, diventato inquieto, un po’ guaiva, cercandod’impietosire Ilia, un po’ ronchiava, tentando d’impauri-re i due nemici. Alberto s’era ristretto ad Ilia; Placida ePlacido si ravvicinavano, perché litigare a faccia a fac-cia dà piú gusto; e il crocchio turbolento della mattinastava per riformarsi, quando Elvira, che molte volte,come il fato, causava o risolveva gli avvenimenti senzasaperlo, portò la posta. Ilia disse, tirando un gran respi-ro:

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  • «Ecco la posta. Basta con le chiacchiere.»Diede, senza parere, un’occhiata al mucchietto delle

    lettere e ne scelse una, che consegnò al marito.«Questa è del Miramonti. Ah, questa, sbrigatela tu.»«O Dio,» rispose Alberto rabbuiandosi, e presa la let-

    tera si avviò alla biblioteca, seguito da Drin.«La mia bella faccia,» rispose in quel punto a Placida

    il cuoco, che aveva trovato la risposta, «è una rosa inconfronto al cavolfiore che è la sua;» ma la vecchia sta-va già andandosene, e Placido, per rabbia, si picchiò lazucca.

    Cosí era finita la riunione di quel giorno; e, comespesso accade alla gente che si vuol bene, ma nella con-suetudine quotidiana sfrega soltanto gli spigoli del ca-rattere, tutti erano malcontenti. Drin, che s’era accortod’aver vinto, nel passare dinanzi a Placida fece propriouno scambietto di beffa; la vecchia guardò con amarez-za la padrona come la chiamasse per l’ultima volta testi-mone dell’affronto. Anche Placido uscí brontolando;perché, se i rimproveri al cane voleva farli soltanto lui,giudicava però che la padrona fosse troppo indulgente.Ilia aspettò che tutti andassero via, per tornare alle suestanze; e, considerando quel suo esercito con aria tra ar-guta e rassegnata, parve dire: «bisogna prenderli comesono».

    Alberto, rimasto solo nella biblioteca, guardò le gros-se teste del Giove di Otricoli e della Giunone Ludovisia,che, dall’alto degli scaffali, parevano consacrare la mae-stà del luogo e la santità degli studi, e, tra esse, la buffa

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    «Ecco la posta. Basta con le chiacchiere.»Diede, senza parere, un’occhiata al mucchietto delle

    lettere e ne scelse una, che consegnò al marito.«Questa è del Miramonti. Ah, questa, sbrigatela tu.»«O Dio,» rispose Alberto rabbuiandosi, e presa la let-

    tera si avviò alla biblioteca, seguito da Drin.«La mia bella faccia,» rispose in quel punto a Placida

    il cuoco, che aveva trovato la risposta, «è una rosa inconfronto al cavolfiore che è la sua;» ma la vecchia sta-va già andandosene, e Placido, per rabbia, si picchiò lazucca.

    Cosí era finita la riunione di quel giorno; e, comespesso accade alla gente che si vuol bene, ma nella con-suetudine quotidiana sfrega soltanto gli spigoli del ca-rattere, tutti erano malcontenti. Drin, che s’era accortod’aver vinto, nel passare dinanzi a Placida fece propriouno scambietto di beffa; la vecchia guardò con amarez-za la padrona come la chiamasse per l’ultima volta testi-mone dell’affronto. Anche Placido uscí brontolando;perché, se i rimproveri al cane voleva farli soltanto lui,giudicava però che la padrona fosse troppo indulgente.Ilia aspettò che tutti andassero via, per tornare alle suestanze; e, considerando quel suo esercito con aria tra ar-guta e rassegnata, parve dire: «bisogna prenderli comesono».

    Alberto, rimasto solo nella biblioteca, guardò le gros-se teste del Giove di Otricoli e della Giunone Ludovisia,che, dall’alto degli scaffali, parevano consacrare la mae-stà del luogo e la santità degli studi, e, tra esse, la buffa

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  • statuetta di un Don Chisciotte, tutto ossa e pelle: caval-cando un Ronzinante dalle gambe di fil di ferro, l’eroeimbracciava, con molta petulanza una lancia, fatta conuna bacchetta di giunco. Diede un’altra occhiata ad unosgargiantissimo pappagallo di porcellana, col becco spa-lancato e le penne inverosimilmente rosse e verdi, chespuntava fra i libri dignitosi, come un bamberottolosfrontato fra le gambe di persone serie. Prese infine lalettera che Ilia gli aveva data, l’aprí svogliatamente, lalesse, fissò Drin, che gli s’era accoccolato ai piedi e giàpisolava, rilesse qua e là il foglio, e terminò con un ge-sto di noia.

    «Non verrà,» disse forte.«Chi non verrà?» domandò una grossa voce. Sulla

    porta comparve il professore Oscar Popp.

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    statuetta di un Don Chisciotte, tutto ossa e pelle: caval-cando un Ronzinante dalle gambe di fil di ferro, l’eroeimbracciava, con molta petulanza una lancia, fatta conuna bacchetta di giunco. Diede un’altra occhiata ad unosgargiantissimo pappagallo di porcellana, col becco spa-lancato e le penne inverosimilmente rosse e verdi, chespuntava fra i libri dignitosi, come un bamberottolosfrontato fra le gambe di persone serie. Prese infine lalettera che Ilia gli aveva data, l’aprí svogliatamente, lalesse, fissò Drin, che gli s’era accoccolato ai piedi e giàpisolava, rilesse qua e là il foglio, e terminò con un ge-sto di noia.

    «Non verrà,» disse forte.«Chi non verrà?» domandò una grossa voce. Sulla

    porta comparve il professore Oscar Popp.

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  • CAPITOLO II

    NUVOLETTE NEL SERENO

    La basilica di San Pietro a Roma attesta la potenza ela gloria di Dio. I giganteschi costruttori, alzando queipiloni e quelle colonne, murando quelle pareti, voltandoquelle cupole e quella cupola, aprendo quelle porte, po-sando nei nicchioni quelle statue, adoperando cosí dovi-ziosamente spazio e luce, hanno esaltato il Creatoredell’universo. All’enorme l’enorme. Ma, attorno alla ba-silica, il Signore si mostra nella serenità e nella pietà:non è uno dei miracoli del genio religioso il dare egualemaestà e bellezza all’immenso e al piccolissimo, all’ine-sorabile e al misericordioso? Di fianco alla gran chiesa,un piccolo cimitero, quasi un giardino, mostra da uncancelletto di ferro le sue poche tombe fiorite.All’ombra delle ciclopiche muraglie, il breve recinto ri-posa tranquillo, come un figliuoletto sotto la protezionedella madre: e un cartello dice: «Teutones in pace». Unarigogliosa vegetazione di cipressi, di pini, di palme e,lungo i muri della casa rossigna, di rose e d’edere, sboc-cia dalla terra grassa, ammantando di colori e d’ombresuntuose le pietre delle tombe e le povere croci di ferro.Un Cristo, crocifisso e scheletrito, si leva tra quel rigo-glio, a rammentare ed espiare i peccati degli uomini. Ma

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    CAPITOLO II

    NUVOLETTE NEL SERENO

    La basilica di San Pietro a Roma attesta la potenza ela gloria di Dio. I giganteschi costruttori, alzando queipiloni e quelle colonne, murando quelle pareti, voltandoquelle cupole e quella cupola, aprendo quelle porte, po-sando nei nicchioni quelle statue, adoperando cosí dovi-ziosamente spazio e luce, hanno esaltato il Creatoredell’universo. All’enorme l’enorme. Ma, attorno alla ba-silica, il Signore si mostra nella serenità e nella pietà:non è uno dei miracoli del genio religioso il dare egualemaestà e bellezza all’immenso e al piccolissimo, all’ine-sorabile e al misericordioso? Di fianco alla gran chiesa,un piccolo cimitero, quasi un giardino, mostra da uncancelletto di ferro le sue poche tombe fiorite.All’ombra delle ciclopiche muraglie, il breve recinto ri-posa tranquillo, come un figliuoletto sotto la protezionedella madre: e un cartello dice: «Teutones in pace». Unarigogliosa vegetazione di cipressi, di pini, di palme e,lungo i muri della casa rossigna, di rose e d’edere, sboc-cia dalla terra grassa, ammantando di colori e d’ombresuntuose le pietre delle tombe e le povere croci di ferro.Un Cristo, crocifisso e scheletrito, si leva tra quel rigo-glio, a rammentare ed espiare i peccati degli uomini. Ma

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  • dai rami degli alberi, dal groviglio degli arbusti, un po-polo innumerevole d’uccelli, nelle trepide mattine e neiplacidi tramonti, canta a voce spiegata, riempiendo ilgiardino di voli e di gorgheggi; e, nei meriggi immobili,le lucertole guizzano frusciando fra tomba e tomba. Lavita trionfa della morte. Là, dove da secoli dormono ipellegrini tedeschi, fermati a Roma come all’ultimo por-to, Ilia e Alberto avevano trovato, un giorno, un grossosignore, con un testone tutto rosso, che Ilia aveva subitobattezzato Oloferne Malopelo. Questo signore, che ave-va gli occhi velati di pianto e non si vergognava di mo-strarli, aveva mormorato: «Come è bello! sembra unasinfonia del Mozart;» e quando Alberto, attratto dal di-scorrere affettuoso e arguto, gli aveva detto il proprionome, aveva risposto:

    «Ach, cosí? Conosco benissimo. E io sono collega.Dottore di scienze storiche Oscar Popp, della città diStolp in Pomerania. Germano; vengo dalle rive del cali-ginoso Baltico; occhi fieri, cilestri, pelo rosso, corpogrande; ed entro in battaglia cantando versi con tono danoi detto bardito. Cosí ci dipinge il vostro e nostro Taci-to;» e aveva riso largamente. Ach, ach.

    Anche Alberto aveva sentito parlare di lui. Trent’anniprima il dottor Popp, che allora ne aveva venticinque,era disceso dall’università di Berlino in Italia, per scri-vere una storia di Roma, la quale doveva non distrugge-re, perché nulla di ciò che i maestri tedeschi hanno fattodev’essere distrutto, ma compiere la storia dell’illustreMommsen. Quella aveva minacciato d’essere, diceva il

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    dai rami degli alberi, dal groviglio degli arbusti, un po-polo innumerevole d’uccelli, nelle trepide mattine e neiplacidi tramonti, canta a voce spiegata, riempiendo ilgiardino di voli e di gorgheggi; e, nei meriggi immobili,le lucertole guizzano frusciando fra tomba e tomba. Lavita trionfa della morte. Là, dove da secoli dormono ipellegrini tedeschi, fermati a Roma come all’ultimo por-to, Ilia e Alberto avevano trovato, un giorno, un grossosignore, con un testone tutto rosso, che Ilia aveva subitobattezzato Oloferne Malopelo. Questo signore, che ave-va gli occhi velati di pianto e non si vergognava di mo-strarli, aveva mormorato: «Come è bello! sembra unasinfonia del Mozart;» e quando Alberto, attratto dal di-scorrere affettuoso e arguto, gli aveva detto il proprionome, aveva risposto:

    «Ach, cosí? Conosco benissimo. E io sono collega.Dottore di scienze storiche Oscar Popp, della città diStolp in Pomerania. Germano; vengo dalle rive del cali-ginoso Baltico; occhi fieri, cilestri, pelo rosso, corpogrande; ed entro in battaglia cantando versi con tono danoi detto bardi