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Foresti Danilo Il volo degli uccelli Lavoro interdisciplinare Biologia, Fisica e Chimica Liceo Cantonale di Locarno 2006 – 2007 Docenti: C. Beretta – Steiner, C. Ferrari

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Foresti Danilo

Il volo degli uccelli

Lavoro interdisciplinare Biologia, Fisica e Chimica

Liceo Cantonale di Locarno 2006 – 2007

Docenti: C. Beretta – Steiner, C. Ferrari

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Indice

Indice................................................................................................................................................3 Prefazione.........................................................................................................................................5 1.) Introduzione................................................................................................................................7 2.) Come si comporta un fluido?......................................................................................................9

2.1) Che cos’è un fluido? .............................................................................................................9 2.2) Il teorema di Bernoulli .........................................................................................................9 2.3) L’equazione di continuità ...................................................................................................12 2.4) Comportamento di un fluido in una strettoia .....................................................................12 2.5) Forze agenti su un’ala: portanza, resistenza, forza peso e spinta .....................................14

2.5.1) Resistenza di attrito: ....................................................................................................14 2.5.2) Resistenza di scia (o forma):........................................................................................14 2.5.3) Resistenza indotta: .......................................................................................................15

2.6) Angolo d’attacco.................................................................................................................18 3.) Il volo........................................................................................................................................21

3.1) Premesse .............................................................................................................................21 3.2) I vari tipi di volo .................................................................................................................22

3.2.1) Il volo planato ..............................................................................................................23 3.2.2) Il volo a vela ................................................................................................................23 3.2.3) Il volo battente .............................................................................................................25 3.2.4) Il volo ronzato..............................................................................................................25

4.) Uno sguardo al passato .............................................................................................................27 4.1) Introduzione ........................................................................................................................27 4.2) I volatori primitivi...............................................................................................................28

4.2.1) Meganeura Monyi Brögn.............................................................................................28 4.2.2) Gli pterosauri ...............................................................................................................29 4.2.3) Archaeopteryx..............................................................................................................32

5.) L’evoluzione del volo negli uccelli ..........................................................................................33 5.1) Dai dinosauri agli archaeorniti..........................................................................................33 5.2) Dagli archeorniti ai giorni nostri .......................................................................................35 5.3) Approfondimento: Dalle squame alle piume ......................................................................36

6.) Penne e piume...........................................................................................................................39 6.1) Le penne: struttura e suddivisione......................................................................................39 6.2) Le piume .............................................................................................................................42

7.) Nati per volare: i rapaci ............................................................................................................43 Ringraziamenti ...............................................................................................................................45 Bibliografia ....................................................................................................................................47

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Prefazione Con questo lavoro di maturità intendo presentare al lettore il volo degli uccelli in tutte le sue parti. Partendo dalle leggi fisiche che governano i fenomeni di aerodinamica, vedremo più in dettaglio cosa esattamente permette agli aerei come agli uccelli di librarsi in volo, pur essendo più pesanti dell’aria. Saranno presi in considerazione vari tipi di volo animale e i principali adattamenti evolutivi sviluppati nel tempo dagli uccelli, affinché il lettore possa farsi un’immagine completa a riguardo. Spero che l’argomento possa risvegliare nel lettore la stessa curiosità che mi ha portato alla scelta di questo lavoro di maturità. Buona lettura.

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1.) Introduzione Volare. Fin dai tempi più antichi l’uomo ha rincorso questo suo sogno, affascinato dai volteggi degli uccelli nel cielo. Ne sono testimonianza gli innumerevoli studi di Leonardo da Vinci, dei fratelli Wright e Otto Lilienthal, solo per citarne alcuni tra i più noti. Le prime esperienze aeree si ebbero a bordo di palloni aerostatici ad aria calda, si passò poi agli alianti e ai deltaplani per poi finire con l’aereo a reazione, il più veloce mezzo mai inventato. Malgrado tutte queste innovazioni tecnologiche l’uomo non ha mai smesso di sognare, e ancora oggi si ritrova a guardare malinconicamente le aquile che volano tra le più alte creste e le rondini che volano lontano nel cielo.

“poi con un battito d'ali si levò in volo e, tremando per chi lo seguiva, come un uccello che per la prima volta porta in alto fuori del nido i suoi piccoli,

l'esorta a imitarlo, l'addestra a quell'arte rischiosa, spiegando le sue ali e volgendosi a guardare quelle del figlio…”

Ovidio, Metamorfosi, Libro Ottavo (Mito di Dedalo e Icaro)

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2.) Come si comporta un fluido?

2.1) Che cos’è un fluido? Prima di studiare il comportamento di un fluido diamone la definizione e alcune sue proprietà elementari. Un fluido è una sostanza che gode di caratteristiche fisiche proprie che ci permette di distinguerlo da quelle che definiamo solide. Ogni fluido prende la forma del recipiente in cui è contenuto; ciò è dovuto al fatto che non può sopportare una forza tangenziale (di taglio) sulla sua superficie, di conseguenza essi non dispongono di forma propria, ma possono modificarla fino a raggiungere la migliore “sistemazione”. A livello molecolare si può vedere benissimo come i fluidi siano diversi dai solidi, in quanto la disposizione atomica di quest’ultimi è regolata da un rigido e ordinato reticolo cristallino; né nell’acqua allo stato liquido né in nessun altro fluido è riscontrabile una struttura simile. In ogni sostanza definita come fluido infatti, gli atomi (o le molecole, a dipendenza del caso) non seguono un ordine e si dispongono in modo casuale. Qualitativamente nella categoria dei fluidi rientrano i liquidi e i gas. Il metodo più utilizzato per distinguere i fluidi è il calcolo della densità (ρ), il quale corrisponde a dividere la massa m di una quantità di fluido per il volume V occupato dallo stesso:

mV

ρ =

Altra proprietà dei fluidi è la pressione (p), una misura della forza per unità di superficie:

FpA

=

dove F è l’intensità della forza perpendicolare esercitata e A l’area soggetta a questa forza.

2.2) Il teorema di Bernoulli L’equazione di Bernoulli mette in relazione l’energia cinetica di un fluido via la sua velocità, l’altezza al quale si trova e la pressione; e fu enunciata dal matematico Daniel Bernoulli (Groninga, 1700 – Basilea, 1782). L’equazione è una riformulazione di uno studio di Eulero, e si applica a fluidi in regime laminare (e quindi non turbolento) non comprimibili, cioè con ρ costante. Malgrado questo teorema sia stato concepito per fluidi non comprimibili come l’acqua, esso è applicabile qualitativamente anche all’aria. Visto che l’energia si conserva e non viene né creata né distrutta, partiremo dalla premessa che la variazione di energia cinetica corrisponda alla somma dei lavori compiuti sul sistema. Definiamo le seguenti forme di energia: energia cinetica ed energia potenziale.

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2cinE m= v

y

potE mg=

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dove m è la massa, g è l’intensità del campo gravitazionale (g = 9.81 N/kg), v è la velocità e y equivale all’altezza rispetto ad uno zero fissato. Il teorema dell’energia cinetica afferma che

cinE WΔ =

dove nei casi considerati sotto il lavoro compiuto sul sistema corrisponde al lavoro fatto dalle forze di pressione aggiunto a quello fatto dalla forza di gravità, se il sistema varia in altezza:

cin

fpeso fpressioneE W WΔ = + dove Wfpeso equivalente al lavoro compiuto dalla forza peso e Wfpressione al lavoro compiuto da quelle di pressione.

Visto che siamo in una situazione in cui il fluido non fluisce spontaneamente (ricordiamo che compiamo un lavoro sul sistema), possiamo associare al lavoro svolto dalla forza di gravità un’energia potenziale nel modo seguente

potfpesoW E= −Δ

Possiamo quindi riscrivere la variazione di energia cinetica come:

cin potfpressioneE E WΔ = −Δ +

da cui

cin pot

fpressioneW E= Δ + ΔE

Ogni differenza di energia si riferisce alla differenza tra la situazione finale (2) e quella iniziale (1), possiamo quindi riscrivere l’equazione

( )2 22 1 2

1 12 2fpressioneW mv mv mgy⎛ ⎞= − + −⎜ ⎟

⎝ ⎠1mgy

2 22 1 2

1 12 2fpressioneW mv mv mgy= − + − 1mgy

Costruiamo ora il teorema di Bernoulli, considerando a tal proposito la figura 1.

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Immagine 1: Il tubo di Bernoulli Il lavoro della forza di pressione può essere a sua volta scomposto utilizzando la definizione di pressione:

pressioneF pS=

fpressione s s d dW F x F x F x= Δ = Δ − Δ s s s d d dp S x p S x= Δ − Δ

dove le lettere “d” e “s” pedici si riferiscono a elementi provenienti da destra rispettivamente da sinistra, Δx lo spostamento compiuto dal fluido e S la superficie su cui viene effettuata la forza. Ora

S x VΔ =

dove V è il volume di fluido spostato, da cui

( )fpressione s d s dW p V p V p p= − = − V

Riassumendo

( )2 22 1 2 1

1 12 2 s dmv mv mgy mgy p p V− + − = −

Dividiamo ora tutta l’eguaglianza per il volume V del fluido, così da ottenere l’equazione di Bernoulli. Al primo membro la massa del fluido fratto il suo volume ci dà la sua densità, al secondo membro il volume si semplifica con quello già presente:

( )2 22 1 2 1

1 12 2 s d

mv mv mgy mgy p p VV V

− + − −=

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( )2 22 1 2 1

1 12 2

s d

m v v gy gyp p

V

⎛ ⎞− + +⎜ ⎟⎝ ⎠ = −

( )ds ppgygyvv −=⎟⎠⎞

⎜⎝⎛ −+− 12

21

22 2

121ρ

Osserviamo quindi che per ogni punto del fluido vale

ds ppgygyvv −=−+− 1221

22 2

121 ρρρρ

sd pgyvpgyv ++=++ 1212

22 2

121 ρρρρ

21

2v gy p costanteρ ρ+ + =

2.3) L’equazione di continuità L’equazione di continuità non è altro che la legge della conservazione della massa applicata ai fluidi. Anch’essa, come il teorema di Bernoulli, se applicata al volume, considera il moto di un fluido incomprimibile in regime laminare. Il fluido non può essere evidentemente né creato, né distrutto, di conseguenza la quantità di fluido che passa nel tubo sarà la stessa in tutte le sue parti. Per i fluidi incomprimibili abbiamo la seguente relazione:

tvAtvAV Δ=Δ=Δ 2211

2211 vAvA =

Quindi lungo il tubo di flusso troviamo una costante

AvR = Dove R corrisponde alla portata volumica (in m3/s), A all’area di sezione e v alla velocità con cui scorre il fluido.

2.4) Comportamento di un fluido in una strettoia Le verifiche appena eseguite ci permettono di descrivere in modo decisamente più preciso e accurato il moto di un fluido in situazioni a noi nuove; a tal proposito prendiamo in esame il caso della strettoia. Come abbiamo appena visto nell’equazione di continuità una variazione dell’area di sezione ha delle ripercussioni sulla velocità del fluido: ciò è abbastanza intuitivo e anche facile da verificare; basta prendere l’annaffiatore del giardino e schiacciarne l’estremità: l’acqua che ne fuoriesce non è

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più un largo e pesante rivolo che cade ai nostri piedi, ma un getto molto più veloce che zampilla lontano. Ciò è una conseguenza della conservazione della massa: visto che l’acqua è incomprimibile se dimezzo la sezione del tubo in cui scorre la velocità è costretta al raddoppio per ristabilire l’equilibrio della costante. In una strettoia qualsiasi avviene esattamente la stessa cosa, a sezione minore corrisponde velocità maggiore. Questo è molto importante, perché ci permette di affermare che un fluido più veloce di un altro avrà pressione minore. A dimostrazione di ciò, prendiamo la situazione v2 > v1 e inseriamo queste velocità nell’equazione di Bernoulli: otteniamo

sd pgyvpgyv ++=++ 1212

22 2

121 ρρρρ

Per semplicità esaminiamo una strettoia posta in orizzontale, quindi con y1 = y2 = 0. Otteniamo

sd pvpv +=+ 21

22 2

121 ρρ

Siccome la densità ρ del fluido è costante, l’unico altro parametro che potrebbe compensare lo squilibrio dato dalle diverse velocità è la pressione p. Da questa uguaglianza possiamo trarre la conclusione generale che più la velocità di un fluido è alta, più la sua pressione dovrà essere minore. A sostegno di questa tesi ci sono anche gli esperimenti portati avanti da Giovanni Battista Venturi (Reggio Emilia, 1746 – Reggio Emilia, 1822).

Immagine 2: Effetto Venturi Nella figura 2 possiamo ben vedere come la velocità del fluido sia strettamente correlata con la sua velocità. Nel caso specifico preso in considerazione risulta ovvio che la superficie S1 = S2, ne consegue che le velocità v1 e v2 sono uguali. Per quanto già dimostrato, nei punti 1 e 3 avremo la stessa pressione in grado di sollevare il fluido alla stessa altezza h, ma come la velocità è costretta a subire un aumento nel punto 2 è evidente che la pressione scema, situando così h2 a un nuovo livello, più basso degli altri 2. Queste relazioni sulla dinamica dei fluidi stanno alla base degli studi di aerodinamica, in quanto sia la morfologia di un’ala di un volatile, sia la sezione di quella di un aeroplano (peraltro non molto differenti tra loro), hanno un disegno ben preciso.

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2.5) Forze agenti su un’ala: portanza, resistenza, forza peso e spinta Fin dai tempi più remoti l’uomo ha cercato di inseguire un grande sogno: quello di librarsi in aria e volteggiare come un uccello. Basti pensare agli innumerevoli (e a volte anche drammatici) tentativi falliti nei secoli proprio per soddisfare questo suo desiderio. Il primo prototipo di macchina motorizzata realmente in grado di volare (anche se per pochi secondi) si librò nell’aria grazie ai fratelli Wright il 17 dicembre 1903: consisteva in un biplano di carta e legno con alla guida un uomo che tendeva corde e pulegge per gestire la planata. Oggigiorno le cose stanno un po’ diversamente, e molte persone non ricordano nemmeno il nome dei pionieri che, grazie al loro lavoro, ci permettono di godere dei vantaggi dell’aereo, il mezzo di trasporto civile più rapido e strabiliante che l’uomo abbia mai inventato. L’immagine di un falco e quella di un aereo da turismo in volo ci appaiono ovviamente diverse, suggerendoci che nessun nesso li accomuni. Orbene, i metodi con cui i due riescono a restare in aria non sono poi così differenti tra loro: infatti, il principio che ne sta alla base è lo stesso. Ogni ala, sia essa animale o progettata dall’uomo, ha una struttura ben definita: deve avere una sagoma che costringa l’aria a scorrere più velocemente sulla superficie superiore rispetto a quella inferiore. Questa differenza di velocità crea una differenza di pressione positiva diretta verso l’alto, generatrice della forza atta a sostenere il corpo in aria; questa forza è appunto detta portanza. L’altra forza principale che agisce su un’ala è la resistenza dell’aria, che può essere suddivisa in resistenza di profilo e resistenza indotta. La prima può essere ulteriormente scomposta in resistenza di attrito e resistenza di scia (o forma). 2.5.1) Resistenza di attrito: La resistenza di attrito è dovuta alla frizione delle molecole d’aria con la superficie alare. Queste frizioni portano alla formazione di uno strato limite in cui la velocità dell’aria varia da 0 (sulla superficie) a v. Dipende chiaramente dalla rugosità e dalla forma della superficie sulla quale scorre, e rappresenta la maggior parte della resistenza dovuta alla viscosità. 2.5.2) Resistenza di scia (o forma): La resistenza di scia deriva dalle turbolenze che nascono sulla superficie superiore dell’ala quando lo scorrimento del fluido non è più di tipo laminare. Nel caso ideale di un fluido non viscoso la somma dell’energia potenziale e dell’energia cinetica resta costante, vale a dire che nelle linee di flusso a contatto con la superficie queste due forme di energia sono continuamente trasformate a seconda del profilo alare che sono costrette a seguire, senza dispersioni in attrito. Ciò consente alle molecole d’aria di viaggiare anche contro variazioni di pressione notevoli, modificando la loro velocità ma mantenendo una linea di flusso “pulita” che segue interamente il contorno del corpo. Con l’inserimento del fattore viscosità le faccende si complicano, in quanto parte dell’energia cinetica dev’essere impiegata per vincere la forza di attrito nello strato limite adiacente al dorso dell’ala. Così facendo non è più possibile effettuare una totale riconversione dell’energia cinetica in energia potenziale. Inoltre, le molecole d’aria che dissipano gran parte della loro energia cinetica in attrito si trovano ad affrontare dei forti aumenti di pressione che impediscono loro di proseguire, facendole ripiegare e creando così una scia turbolenta. Quando si è confrontati con situazioni di questo genere la portanza scema drasticamente e ci si viene a trovare in una situazione di stallo. Questo tipo di resistenza dipende dalla pressione che le linee di flusso adiacenti all’ala sono costrette a sopportare. Descritto a parole può risultare di problematica comprensione, consideriamo quindi a tal proposito le figure 3a e 3b:

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Immagine 3a: Linee di flusso in regime laminare Abbiamo detto che le molecole di un fluido ideale seguono perfettamente il profilo dell’ala, entro alcuni limiti ciò avviene anche con i fluidi come l’aria e l’acqua come nella figura 3a.

Immagine 3b: Linee di flusso in regime turbolento Quando invece le differenze di pressione alle quali le particelle sono sottoposte sono troppo elevate ciò non è più possibile, portandoci alla situazione riprodotta nell’immagine 3b. Si notano bene i vortici che si vengono a creare sul dorso dell’ala, pieghe di linee di flusso a contatto con altre più forti. Tutto questo non avviene nei fluidi ideali, perché le turbolenze sono una conseguenza diretta dell’attrito superficiale. 2.5.3) Resistenza indotta: Oltre alle resistenze dovute alla viscosità appena prese in esame, l’ala deve sottostare a un’altra forza generata dalla sua azione sul fluido, più precisamente dalla portanza. Abbiamo visto che la portanza è una forza che scaturisce da una differenza di pressione tra il dorso e il ventre dell’ala, di conseguenza l’aria cercherà di compensare questo scompenso spostandosi dalla zona ad alta pressione a quelle di bassa pressione, cioè dall’intradosso all’estradosso. Questo è possibile solo agli estremi dell’ala, dove l’aria riesce a sgattaiolare dal ventre al dorso dell’ala. Vengono così a crearsi dei vortici marginali di intensità proporzionale alla differenza di pressione. Nella figura 4 è rappresentato uno studio condotto dalla NASA a riguardo, nel quale delle colonne di fumo colorato emesse da terra vengono turbate dall’arrivo di un piccolo aereo da agricoltura. Il velivolo in planata aumenta al massimo la superficie di lavoro dell’ala alzando il muso, questa manovra va a generare una forte differenza di pressione tra l’intradosso e l’estradosso accrescendo così l’effetto di portanza. Questa forza è direzionata verso il retro dalla posizione dell’aereo, andando a diminuire la velocità e permettendo l’atterraggio. In questa situazione la grande pressione sul ventre dell’ala crea dei vortici marginali molto ampi, dai quali (grazie all’aiuto del colorante) si deduce facilmente come si formino.

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Immagine 4: Vortici alari Riassumendo, quella comunemente chiamata resistenza dell’aria è il risultato di una somma delle altre tre forze, raggruppate sotto un nome generico per comodità.

indprofindsciaattrtot RRRRRR +=++=

dove Rtot, Rscia, Rind e Rprof sono rispettivamente resistenza totale, di scia, indotta e di profilo. Finora abbiamo definito le forze agenti su un’ala quali la portanza e la resistenza a parole, vediamo adesso come siano rappresentabili graficamente.

Immagine 5: Forze alari

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Con l’ausilio della grafica si possono esprimere alcune considerazioni molto interessanti circa la direzione, l’intensità e l’origine delle forze in gioco. Prima di tutto occorre però chiarire una cosa: il vento relativo in ogni immagine rappresenta il movimento dell’aria rispetto all’ala, quindi non c’è differenza tra un’ala in movimento in un fluido fermo e viceversa, da non confondersi con i venti che conosciamo noi (che tra l’altro con il moto in regime lineare hanno ben poco a che fare). Il vettore chiamato “Spinta” indica la direzione in cui la propulsione fa avanzare l’oggetto, dunque il lavoro dei motori nel caso di un aeromobile. Il vettore rappresentante la resistenza ha la stessa direzione del vento relativo e ciò risulta piuttosto intuitivo, considerato il fatto che deriva soprattutto dall’attrito nello strato limite; quel che è meno ovvio è la direzione del vettore portanza, che è normale a tutte le linee di flusso. Questa direzione è causata dalla fonte stessa della portanza, vale a dire il gradiente di pressione generante la forza che è perpendicolare alle linee di flusso. La risultante è la somma vettoriale delle componenti “portanza” e “resistenza”, ed è la forza totale esercitata dall’aria. Essa contrasta la forza peso, come si può ben vedere nella figura 6 nel caso della discesa stazionaria di un velivolo.

Immagine 6: Discesa stazionaria

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Dalla seconda legge di Newton1 abbiamo che:

ris pF F ma+ = Visto che siamo in presenza di una planata stazionaria, v è costante e ; si può quindi riscrivere la formula come

0a =

0ris pF F+ =

ris pF F= −

Questa uguaglianza ci conferma la nostra tesi, vale a dire che in un oggetto a motori spenti (da notare che la freccia “Spinta” nel precedente disegno è assente) in movimento rettilineo uniforme l’accelerazione è nulla e una forza è l’esatto opposto dell’altra. L’assenza di vettori nella stessa direzione del moto potrebbe trarre in inganno su cosa muova l’aeroplano, ma è bene ricordare che in regime di moto rettilineo uniforme qualsiasi velocità v iniziale del corpo viene mantenuta.

2.6) Angolo d’attacco Abbiamo visto che ogni ala è in grado di generare un effetto di portanza quando percorre un fluido, alla base di ciò ci sono due cause: una l’abbiamo già chiarita, ed è il particolare profilo che ha, l’altra è il particolare angolo con cui essa fende il fluido in cui si muove. Tutti noi l’abbiamo sicuramente già sperimentato almeno una volta: chi non ha mai messo la mano fuori dal finestrino dell’auto mentre è si muove a velocità sostenuta? Se la teniamo parallela alla strada l’aria non ha nessun effetto su di essa, ma come la incliniamo leggermente verso l’alto ci accorgiamo subito che una forza la sostiene. Aumentando ancor maggiormente l’inclinazione non siamo quasi neanche più in grado di controllarla, e la mano schizza verso l’alto (finché il braccio lo permette, ovviamente). Le varie inclinazioni che le diamo non sono altro che le variazioni dell’angolo d’attacco con cui la superficie aerodinamica fende l’aria. Con questo termine si identifica un angolo immaginario formato dalle linee di flusso in arrivo e la corda di profilo. Quest’ultima è una retta che congiunge due punti strategici dell’ala, più esattamente il punto morto (o punto di attacco) e il punto di uscita.

Immagine 7: Angolo d’attacco

1 Seconda legge di Newton: “Rispetto ad un referenziale inerziale, la variazione istantanea (rispetto al tempo) della quantità di moto di un punto materiale è uguale alla risultante delle forze esterne agenti su di esso” (C.Ferrari, “Fisica”, II anno liceo scientifico, 2005-06).

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Il punto d’attacco corrisponde ad A; è la prima parte dell’ala che viene a contatto con l’aria e l’unica in cui la velocità del fluido è ipoteticamente uguale a 0, non a caso è chiamato punto morto. Per esseri precisi siamo costretti a definirlo ipoteticamente, visto che in realtà esso non esiste: è il classico dilemma dell’uovo in cima alla montagna. Analogamente, come si cerca di raggiungere questo punto limite si è continuamente sbalzati da una parte e dall’altra di esso. Infatti è laddove avviene la separazione delle linee di flusso, determinando cosa passerà sul dorso e cosa sotto al ventre dell’ala. Il punto B è il punto d’uscita, laddove l’aria si stacca dalla superficie alare per ricongiungersi con l’altra sua “metà” che ha percorso la via sull’altro lato. Richiamo a proposito la figura 3a, in cui si vede molto bene come le linee di flusso si separino in A per poi ricongiungersi in B.

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3.) Il volo

3.1) Premesse In questo capitolo vedremo in dettaglio le leggi che governano il volo, così come l’angolo d’attacco sia basilare per questo processo. Abbiamo già constatato che in qualsiasi tipo di volo ci sono alla base le due forze aeree in gioco, vale a dire la portanza e la resistenza. Tramite vari esperimenti si è potuto constatare che queste due entità sono definibili matematicamente tramite le seguenti leggi empiriche:

2

2port pvF C Sρ ∞=

2

2res rvF C Sρ ∞=

dove Fport e Fres sono rispettivamente forza di portanza e forza di resistenza. S è la superficie portante dell’ala, sulla quale viene eseguito il lavoro dalla pressione. Se inserissimo un’ala in un sistema di coordinate 0xyz S sarebbe rappresentabile come la sua proiezione sul piano 0xy. Il simbolo “ρ”sta a indicare la densità del fluido, nel nostro caso l’aria, e 2v∞ il quadrato della velocità relativa di quest’ultima rispetto all’ala lontano da essa, cioè al di fuori dello strato limite. Infine i parametri Cp e Cr sono delle costanti che variano a dipendenza dell’angolo d’attacco e della forma più o meno aerodinamica del corpo in volo. Esaminando le due formule ci rendiamo conto che, salvo i coefficienti Cp e Cr, sono perfettamente uguali; questo ci suggerisce che sono direttamente proporzionali tra loro: infatti la resistenza dell’aria è il prezzo da pagare per generare portanza. Inoltre, risulta evidente come la velocità relativa del fluido sia la variabile dinamica che maggiormente influenza le due relazioni. Il fatto che le formule siano composte da solo quattro parametri (i già citati velocità, superficie, densità e coefficienti) non significa che siano altrettanto semplicistiche, in quanto tengono in considerazione anche la temperatura e l’altitudine per la densità ρ dell’aria, le dimensioni e la posizione dell’ala nello spazio per S, così come l’angolo d’attacco e l’aerodinamicità per le costanti Cr e Cp. Per fare un esempio prendiamo in considerazione il diagramma polare che segue, ci mostra molto bene come l’angolo d’attacco sia importante per creare le condizioni ideali per le quali un volo effettivamente esista.

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Immagine 8: Variazioni di Cp e Cr rispetto ad α Sull’asse delle ascisse sono rappresentati i valori del coefficiente di resistenza, sull’asse delle ordinate quelli di portanza. Prima di qualsiasi analisi occorre notare che la stessa lunghezza sull’asse 0y equivale a un decimo su quello 0x, l’immagine riproduce quindi la situazione in scale sfalsate per comodità di lettura. Se le proporzioni fossero state rispettate saremmo in presenza di una curva che passa da valori sotto lo zero ad altri molto elevati in uno spazio sull’asse x ristrettissimo, dimostrandoci che il profilo alare è la forma che meglio si addice alla produzione della massima portanza con il minimo possibile di resistenza. Da tempo l’uomo si è reso conto che la natura nel suo agire tende sempre più alla perfezione, si è quindi posto il quesito se non fosse il caso di imitarla. Sir George Cayley alla fine del XVIII secolo nel suo Note-Book annotava che la miglior forma per uno scafo era la stessa della sezione orizzontale di una trota, prima di lui anche Leonardo da Vinci aveva già formulato una tesi a riguardo nei suoi trattati di idrodinamica. Nel caso dell’aerodinamica vale lo stesso concetto, con le ali dei velivoli costruite dall’uomo imitanti la morfologia degli arti animali. Che dire della forma base? Una semplicissima gobba dorsale che, allungando il percorso delle particelle d’aria, crea una differenza di pressione sufficiente a sostenere il corpo in volo, sia esso di legno o in carne ed ossa, artificiale o opera della natura. L’unica differenza tecnica sostanziale che intercorre tra una macchina e l’animale è la forza originante la propulsione che fa avanzare, accelerare o rallentare il corpo in volo (la spinta nell’immagine 5): come tutti ben sappiamo gli uccelli devono sbattere le ali per muoversi, mentre un aeromobile ad ala fissa lo fa con l’utilizzo di potenti motori. Non si è ancora arrivati a sviluppare le competenze tecniche necessarie, ma esistono già alcuni prototipi di macchine ad ala mobile che riescono a dare scarsissimi risultati, questo dimostra la complessità dei movimenti da compiere per svolgere questa azione.

3.2) I vari tipi di volo Quando si parla del volo degli uccelli è di consueta abitudine pensare al simpatico battito d’ali del passerotto dei nostri giardini o simili, ma così facendo è facile perdere di vista tutte le altre modalità

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con le quali gli animali (e non solo gli uccelli) possono stare in aria. A dipendenza delle dimensioni, delle abitudini, della necessità di compiere grandi spostamenti o meno i voli risultano molto diversificati tra loro, distinguibili in volo planato, volo a vela (comprendente le due sottocategorie dei veleggiatori statici o dinamici), volo battente e infine il volo ronzato. 3.2.1) Il volo planato Il volo planato, detto anche volo librato, come dice il nome non implica un utilizzo attivo delle ali. Questo tipo di volo fu il primo a svilupparsi negli animali, non esigendo particolari strutture per essere attuato. Ancora oggi troviamo una miriade di specie che si lanciano da punti sopraelevati planando verso altri posti più in basso. Esistono serpenti in grado di planare da un ramo all’altro estendendo le loro costole aumentandone così la superficie portante, lo stesso sono in grado di fare alcuni scoiattoli con delle estensioni di pelle lungo i fianchi e la rana volante con delle zampe palmate, i draghi volanti e gli exocetidi, particolare specie di pesci in grado di balzare fuori dall’acqua e “volare” per ben 180 metri!

Scoiattolo siberiano volante (Finlandia) Exocetidi Rana volante

Serpente arboricolo (Chrysopelea ornata) Draco volans Il volo planato non richiede alcuna spesa di energia, sfrutta soltanto la forza di gravità e/o la velocità acquistata precedentemente per vincere la forza di resistenza dell’aria. Le strutture portanti sono tra le più diversificate, come si può ben constatare nelle immagini appena riprodotte. 3.2.2) Il volo a vela Così come il volo planato, quello veleggiato pretende uno sforzo minimo. Questo tipo di volo sfrutta le correnti d’aria ascendenti e i venti e permette di coprire grandi distanze con un dispendio energetico irrisorio.

• I veleggiatori statici: Con questo nome si riuniscono gli uccelli che sfruttano il volo a vela per muoversi sulle terre emerse. A questa categoria appartengono i grandi rapaci dell’ordine

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dei Falconiformi quali aquile, falchi, avvoltoi, poiane, condor e avvoltoi. Hanno ali piuttosto larghe e corte, con una grande curvatura che ne aumenta la portanza e una superficie portante fessurata che permette una maggior manovrabilità nelle variazioni delle correnti d’aria. Sono animali che amano veleggiare pigramente trasportati dal vento, per prendere quota compiono dei giri circolari all’interno delle correnti ascensionali di aria calda proveniente da terra.

Immagine 14: Il volo veleggiato statico Non è raro incappare in un rapace in volo in montagna, infatti è proprio nelle catene montuose che si hanno le maggiori correnti ascensionali, aria calda proveniente dal piano e dalle vallate sottostanti.

• I veleggiatori dinamici: A differenza dei precedenti, i veleggiatori dinamici sfruttano le diverse velocità dei venti a quote differenti sul mare. A causa degli attriti tra l’acqua e l’aria, sulla superficie del mare vi è la formazione di uno strato limite con velocità minori a bassa quota che crescono piuttosto regolarmente man mano che ci si alza verso i livelli superiori fino a circa 15 metri sopra il livello del mare. Scendono fino in prossimità della superficie dell’acqua veleggiando sostenuti dal vento, una volta che la raggiungono si volgono controvento aumentando vertiginosamente la velocità relativa dell’aria; così facendo usufruiscono di una forza portante che aumenta di pari passo con l’ascesa verso l’alto nello strato limite, riportandoli in alto.

Immagine 15: Il volo veleggiato dinamico

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Questi uccelli riescono a restare in volo per molte ore senza fare pause, coprendo così le grandi distanze migratorie marine. La classe regina di questo complesso tipo di volo è sicuramente quella degli albatri, i quali raggiungono i 3.7 metri di apertura alare, la quale va a compensare la ristrettezza e la bassa curvatura (basti pensare che il rapporto lunghezza-larghezza delle ali di questi animali può arrivare a 18:1!). Queste ali sono adatte a creare un effetto di portanza ad alte velocità non essendo fessurate come quelle dei rapaci, andando però a scapito della manovrabilità a quelle più basse.

3.2.3) Il volo battente Altrimenti detto volo remigante, esso è la forma più diffusa tra gli uccelli volatori dei nostri giorni. Implica un grande dispendio di energia tramite l’uso dei muscoli pettorali, infatti è nei volatori battenti che si ha un maggior sviluppo dei muscoli e dello sterno. Questa pratica implica una grande ampiezza di movimenti delle ali al livello della “mano” e della spalla, in quanto le due parti devono svolgere compiti tanto differenziati quanto coordinati tra loro. Grazie all’uso della fotografia rapida e delle riprese ad elevate quantità di fotogrammi per secondo si è riusciti a decifrarne tutte le fasi, svelandone i segreti più reconditi. L’immagine che segue ci mostra qualitativamente le tappe principali di tali movimenti.

Immagine 16: Il volo battente Come si può ben vedere l’avambraccio compie un semplice movimento ascendente e discendente, mentre la parte più esterna dell’ala è un continuo distendersi e ritrarsi. Quando viene dato il colpo verso il basso l’ala è alla sua massima estensione per aumentare il più possibile la propria superficie e quindi la portanza. Questo movimento comincia da sopra le spalle dell’animale e si conclude ben al di sotto del ventre, a dipendenza della specie le punte possono arrivare quasi a toccarsi. Al vigoroso battito d’ali diretto in basso segue un rapido ritorno alla situazione iniziale, effettuato tramite il ripiegamento della parte più esterna. Tale azione riduce la quantità di aria da spostare per rialzare l’ala, limitandola al solo avambraccio: d’altronde, senza questo movimento si ritroverebbe a spostare la stessa quantità in un movimento tanto quanto nell’altro, non potendo minimamente alzarsi da terra. 3.2.4) Il volo ronzato Da ultimo abbiamo il volo ronzato che una sola famiglia di animali è in grado di sostenere, ossia i colibrì. Il nome di questo particolare tipo di volo deriva dal suono che lo accompagna, infatti i colibrì producono un distinto ronzio molto simile a quello di un insetto. Questi uccelli volano mantenendo un’inclinazione in avanti che varia dai 30 ai 45 gradi, e sono in grado di compiere evoluzioni che nessun altro essere vivente su questa terra è in grado di fare, come restare sospesi in aria in un punto fermo e persino retrocedere. Queste incredibili capacità sono date dalle morfologia dell’ala: infatti è completamente rigida in corrispondenza del polso, ma viene mossa in qualsiasi direzione al livello della spalla. Ciò permette di rovesciare l’ala nel movimento ascendente al punto

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da creare una forza portante quasi altrettanto grande quanto quella generata nel verso opposto. Nell’immagine 17 è riprodotto un esemplare di Selasphorus platycercus nel momento in cui rialza l’ala, ben mostrando come il dorso e il ventre di quest’ultima siano invertiti.

Immagine 17: Selasphorus platycercus L’assenza di un moto spontaneo in avanti fa di questo volo il più dispendioso tra tutti, in quanto i battiti al secondo necessari toccano la punta degli 80 (a titolo di paragone, un’aquila reale non ne sostiene più di uno). Tutte queste caratteristiche fanno senz’altro i volatori ronzanti i più sorprendenti del regno animale.

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4.) Uno sguardo al passato

4.1) Introduzione I primi e quasi sempre unici animali ai quali pensiamo nel pronunciare la parola “volo” sono gli uccelli, ma è bene premettere che ci sono rappresentanti volanti per ogni classe di vertebrati. Ne abbiamo già incontrati alcuni nel capitolo 3.2.1, infatti il volo non è d’esclusiva per i simpatici amici pennuti, tutt’altro. I primi alla conquista dell’aria furono gli insetti, i quali spiccarono il volo già prima del Carbonifero (345-280 milioni di anni fa). Una delle testimonianze più sorprendenti giunta fino ai giorni nostri a riguardo è sicuramente la Meganeura Monyi, una libellula con un’apertura alare ben superiore ai 60 centimetri! Gli unici animali a godere delle ali come mezzo di locomozione primario sono gli insetti, gli uccelli e un particolare ordine dei mammiferi, quello dei pipistrelli. Molti fattori suggeriscono che il volo attivo si sia evoluto in tempi e regni differenti, principalmente nei rettili e appunto nei già citati insetti. A conferma di ciò abbiamo gli studi condotti sulle analogie esistenti sugli arti e sulla loro funzione. Per fare un esempio basta prendere in considerazione il caso dell’ala: malgrado il fatto che sia negli insetti sia negli uccelli l’ala adempia la stessa funzione, non è possibile trovare nessun carattere condiviso tra i due.

Immagine 18: Analogia

Nell’ala di uccello si vedono molto bene le strutture in comune con i mammiferi, quali la presenza di ossature simili (nei vari casi ritroviamo sempre omero, radio, ulna, carpo e metacarpo), cose che non hanno niente a che fare con le elitre degli invertebrati, sprovviste di ossa, vascolarizzazione e strutture in generale oltre alle nervature. Si può quindi affermare che le due classi dei Mammiferi e degli Uccelli discendano dagli stessi antenati comuni, vale a dire i Rettili. A questo punto dobbiamo fare qualche passo indietro nel tempo, almeno fino all’era Mesozoica, che va da 225 a 65 milioni di anni fa. Questo enorme lasso di tempo viene suddiviso nei più conosciuti periodi del Triassico, Giurassico e Cretaceo, ricordati soprattutto per i loro incontrastati dominatori: i dinosauri.

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Il Triassico fu teatro della comparsa sulla Terra dei primissimi mammiferi, anche se si sa poco o nulla su di loro, e dei primordi dei dinosauri, che non superavano i 3-4 metri di lunghezza. Nel Giurassico si ebbero i primi vertebrati volanti: erano dei rettili appartenenti all’ordine estinto degli Pterosauri, letteralmente lucertola (sauro) alata (ptero). Comprendevano rettili di dimensioni variabili, con dei massimi di apertura alare di 12 metri per alcune specie del Cretaceo. Quest’ultimo periodo invece diede alla vita il primo essere vivente quasi definibile “uccello”: si trattava di Archaeopteryx, l’animale oggetto di animate discussioni di molti studiosi in dubbio se considerarlo o meno l’anello mancante nella catena evolutiva degli uccelli.

4.2) I volatori primitivi 4.2.1) Meganeura Monyi Brögn Etimologia: grande (mega) neurottero (neura) di Brogniart (Brögn) Nome scientifico che indica una particolare specie di antica libellula, visse nel Carbonifero più di 300 milioni di anni fa. Fu scoperta in una cava di carbone a Commentry in Francia, nel 1880. Cinque anni più tardi il paleontologo francese Charles Brogniart ne descrisse e denominò il fossile. Di ragguardevoli dimensioni (pare siano stati rinvenuti fossili con aperture alari di 80 centimetri), si cibava prevalentemente di prede da lei catturate quali piccoli anfibi e altri insetti. I fossili di questo sorprendente animale sono la testimonianza di un certo peso più antica giunta fino a noi degli antichi volatori, in quanto le dimensioni e l’ambiente ne hanno permesso una splendida fossilizzazione. È dato per scontato che oltre della Meganeura ci fossero una miriade di altri animaletti in grado di volare liberamente (apidi, mosche e moscerini di ogni tipo), ma non possono certamente reggere il confronto con un insetto di così sorprendenti proporzioni, visto che di misterioso avevano ben poco. Infatti è universalmente riconosciuto che non siano stati molto differenti dagli odierni insetti di piccola taglia.

Immagine 19: Fossile di Meganeura Monyi Immagine 20: Ricostruzione di Meganeura Monyi Non si è ancora riusciti a risolvere il mistero che aleggia sul come sia stato possibile per un animale così rudimentale raggiungere agevolmente i 70 centimetri di apertura alare. Gli insetti non dispongono né di un apparato respiratorio né di uno circolatorio in grado di servire efficacemente il corpo in tutte le sue parti, pare tuttavia che l’atmosfera del Carbonifero fosse molto più ricca di ossigeno di quanto non lo sia quella attuale. Questa differenza sostanziale potrebbe essere alla base della sopravvivenza della Meganeura così come la causa della sua estinzione, avendo preferito ridurre le proprie dimensioni piuttosto che sviluppare il suo rudimentale sistema di

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approvvigionamento d’aria. Ovviamente si tratta solo di una supposizione, in ogni caso più che plausibile. 4.2.2) Gli pterosauri Etimologia: lucertole (sauri) alate (ptero) Fecero la loro comparsa sulla Terra all’incirca 200 milioni di anni fa, nel Triassico, parallelamente ai dinosauri acquatici (gli ittiosauri, antenati dei pesci). Ebbero una diffusione globale, eccezion fatta per l’Antartide, e seguivano una dieta strettamente carnivora. Inizialmente non superavano i 50-60 centimetri di lunghezza coda compresa, ma nel Cretaceo Superiore arrivarono a misurare 12 metri di apertura alare per un peso di soli 50 kg, grazie a particolari adattamenti evolutivi (si tratta di Quetzalcoatlus, il più grande volatore mai vissuto sulla Terra). Questa particolare categoria di vertebrati volanti comprendeva due sottordini: Rhamphorhyncoidea e Pterodactyloidea, distinguibili grazie alla presenza o meno di una lunga coda. Gli pterosauri, oggi completamente estinti, facevano parte del superordine dei saurischi, uno dei tre gruppi formanti la sottoclasse degli arcosauri assieme ai celurosauri e agli ornitischi2. I paleontologi fecero questa suddivisione sulla base della forma del bacino; vale a dire che i saurischi portavano dei caratteri più simili a quelli degli odierni coccodrilli, mentre l’ossatura degli ornitischi assomigliava molto di più a quella dei moderni uccelli. Paradossalmente, gli uccelli non derivano da questo ordine, sono bensì discendenti dei saurischi. Fino ad oggi si è riusciti a catalogare circa una sessantina di specie differenti di pterosauri, rinvenuti sopratutto in sedimenti di origine marina; questa discreta quantità di informazioni ha permesso agli studiosi di formulare alcune interessanti ipotesi sulla loro forma. Si sa quasi per certo che non avevano alcun tipo di piuma, ma piuttosto un rado piumino di pelo, il che va a rafforzare la tesi che fossero degli animali omeotermi, a sangue caldo. Alcuni di loro avevano un cranio molto allungato, ciò potrebbe derivare dal fatto che la capacità di volare presume un grande utilizzo delle aree motorie del cervello e del cervelletto come negli odierni uccelli, oppure semplicemente essere una misura aerodinamica o di controbilanciamento del peso delle lunghe mascelle per non affaticare troppo i muscoli del collo durante il volo. È stato comunque confermato che negli pterodattili più evoluti queste protuberanze e creste craniali erano fortemente vascolarizzate, il che va a suggerire che svolgessero una funzione termoregolatrice come in altri dinosauri di terra (ad esempio le placche ossee di Stegosaurus), oltre ad essere un richiamo per l’accoppiamento. Un’altra caratteristica aerea condivisa con gli odierni uccelli riguarda la costituzione delle ossa: questi animali primitivi disponevano già di ossa pneumatiche atte a alleggerire drasticamente la struttura; questo spiega anche come degli animali anche giganteschi arrivassero a pesare abbastanza poco da poter permettere loro di volare.

2 Da notare che a dipendenza delle fonti prese in considerazione la classificazione degli pterosauri risulta differente. Nell’immagine 28 formano infatti un gruppo a sé stante, anche se nella maggior parte dei casi vengono comunque classificati come un sottordine dei saurischi, malgrado il diverso percorso evolutivo.

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Immagine 21: Ricostruzione di Pteranodon (65 milioni di anni fa) Immagine 22: Fossile di Rhamphorhynchus Le ali erano qualcosa a sé stante, essendo profondamente diverse da quelle che conosciamo noi: qualitativamente le possiamo immaginare come quelle dei pipistrelli, la superficie che sosteneva il corpo in volo era una sottile membrana di pelle simile al loro patagio, ma il suo sostegno era rappresentato da un allungamento sproporzionato del quarto dito (nei pipistrelli questo ruolo è ricoperto dal secondo dito, anche se tutti e cinque hanno delle lunghe falangi, mentre che negli uccelli non resta che una traccia del secondo). Da notare che negli pterosauri il mignolo è assente, quindi il gravoso compito di sostenere tutto quel peso è affidato in gran parte a due dita di lunghezza pari a circa la metà dell’intera apertura alare stessa (non dimentichiamoci che le ali sono due, quindi uno per arto!)! Non si è ancora riusciti a capire cosa abbia spinto ad un così grande allungamento un solo dito lasciando gli altri tre normali, inoltre non si è a conoscenza del modo in cui questa membrana cutanea si attaccasse posteriorment: forse era situata direttamente sulle zampe posteriori, forse sui fianchi; della membrana alare, peraltro già molto fragile di natura, non ci è pervenuta quasi nessuna traccia, lasciando una misteriosa ombra sulla sua reale forma. Le caratteristiche alari e scheletriche degli pterosauri ci indicano che in genere non erano animali di costituzione particolarmente robusta, malgrado ciò i più grandi riuscivano a compiere lunghissime trasvolate per raggiungere i luoghi di accoppiamento. L’origine marina dei sedimenti conservanti i fossili degli esemplari più grandi fanno pensare a un animale dedito alla pesca, ma ci sono controverse opinioni sul fatto che quasi nessuno di loro sia stato rinvenuto nell’entroterra; c’è infatti chi sostiene che gli pterosauri avrebbero potuto benissimo vivere all’interno del continente cibandosi di ben altro che di solo pesce, e il solo fatto che nessun resto sia stato ritrovato non vuol certo dire che non ce ne siano mai stati. Il dibattito è ancora acceso, e ognuna delle due parti schiera a propria difesa argomenti più che validi e disparati. Per citare qualche esempio: la possibilità di usufruire di tre dita della mano per muoversi agilmente a terra e arrampicarsi sugli alberi avrebbe potuto permettere loro di colonizzare vaste aree lontane dall’oceano. Dall’altro lato le grandi dimensioni, la loro goffaggine e le fragili strutture scheletriche sarebbero state ragioni più che valide per restare in prossimità delle coste, a un passo dalla salvezza aerea da eventuali predatori terrestri. Inoltre la dentatura di alcuni di loro è decisamente specifica alla cattura di prede in acqua, come si può ben constatare nelle immagini seguenti:

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Immagine 23: Dettaglio fossile di Rhamphorhynchus Immagine 24: Teschio di Dorygnathus (Giurassico Inferiore) Si vede evidentemente come i denti siano rivolti in avanti; sicuramente non si tratta di strutture adatte a trinciare la carne (ricordiamo che nessun rettile ha mai beneficiato della capacità di masticare il cibo), ma piuttosto alla trafittura in volo di prede piccole e/o sguscianti quali, appunto, i pesci. Per quanto riguarda le abitudini degli pterosauri di dimensioni più piccole le possibilità di ulteriori approfondimenti si aprono a ventaglio di pari passo al numero di specie esistite, ci limiteremo quindi a dire che questo gruppo molto diversificato di rettili volanti ha in serbo molti più segreti di quanto non si possa immaginare.

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4.2.3) Archaeopteryx Etimologia: antica (archaeo) ala (pteryx, da ptero) Vissuto nel Giurassico (180-130 milioni di anni fa), Archaeopteryx è seme di discordia e oggetto di studi approfonditi dal primo momento che l’uomo ne venne a conoscenza nel 1855, anno in cui se ne riportò alla luce il primo fossile a Solnhofen, in Baviera. Questa zona ha un sottosuolo calcareo di roccia sedimentaria a grana finissima risalente appunto al periodo del Giurassico, la sua particolarità sta nel fatto che la sua speciale costituzione è riuscita a conservare anche delle parti organiche quali le piume senza degradarle, consegnandoci dei resti decisamente più dettagliati riguardo l’aspetto esteriore di questo sorprendente animale. Attualmente sono noti dieci fossili di questo volatile, tutti peraltro provenienti da questa area: nove di essi sono per la maggior parte completi o quasi, mentre uno di loro è composto dai resti delle sole piume. Tra questi dieci esemplari gli archeologi sono riusciti a distinguere due specie di Archaeopteryx: Archaeopteryx lithographica (per i sedimenti in cui è stato ritrovato) e Archaeopteryx bavarica. La domanda principale che da tempo assilla gli studiosi riguarda la sua classificazione, in quanto porta caratteri di origine sia aviaria che rettiliana: è già o non è ancora un uccello? È ancora o non è già più un rettile? Una parziale (seppur insoddisfacente) risposta ce l’ha data la tassonomia che, piuttosto arbitrariamente3, ha deciso di farlo rientrare sotto il genere Aves, ordine dei saurischi, famiglia degli Archeopterygidae, viene quindi considerato un uccello.

Immagine 25: Fossile di Archaeopteryx Lithographica Immagine 26: Ricostruzione di Archaeopteryx Lithographica Archaeopteryx aveva pressappoco le dimensioni di un fagiano e disponeva di ossa cave molto leggere come tutti i saurischi teropodi suoi coevi, oltre ad ali e penne ben formate che si ritiene quasi sicuramente usasse per voli di caccia, entro i limiti delle sue possibilità. Era già presente l’attuale forma della zampa posteriore degli uccelli, con tanto di dito opponibile. Tutte queste caratteristiche aviarie convivevano con le vecchie rettiliane quali, in primis, la mancanza di un becco corneo per una bocca da iguana munita di denti. Inoltre, malgrado possedesse ali e piume per il volo, non godeva ancora del vantaggio fornito da uno sterno in grado di sostenere una gran massa

3 Il fattore determinante di questa scelta fu la presenza di penne e piume più che ben definite, praticamente identiche a quelle degli odierni uccelli.

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muscolare; possiamo quindi dedurre che Archaeopteryx era sì un uccello sotto molti aspetti, ma sicuramente lungi dall’esserlo a tutti gli effetti. Infatti, si è riscontrato che la sua struttura scheletrica assomiglia incredibilmente ad un suo coevo, il cui nome scientifico è Compsognathus. Essi differiscono soltanto per il loro aspetto esterno, appunto perché lo scheletro di Archaeopteryx è praticamente identico a quello di un dinosauro, con tanto di vertebre mobili nella coda e dita anteriori munite di artigli. Basti pensare che i loro fossili in passato sono spesso stati scambiati l’uno con l’altro, laddove non vi era traccia evidente di penne o della forchetta, tipico osso situato vicino allo sterno dei volatili.

Immagine 27: Scheletri Compsognathus e Archaeopteryx

Nell’immagine 27 abbiamo un paragone tra le due strutture scheletriche, ricostruito sulla base dei fossili ritrovati sino ad oggi. Così come tutti i saurischi teropodi del tempo i due animali avevano solo tre dita nella zampa anteriore; in Archaeopteryx e nei suoi discendenti prossimi sono ancora ben visibili nonostante la presenza dell’ala. La sua attaccatura principale nella parte più periferica dell’arto è rappresentata dal secondo dito come negli uccelli, il terzo andrà via via atrofizzandosi sempre di più, mentre il primo (il più interno, il “pollice”) diventerà l’alula.

5.) L’evoluzione del volo negli uccelli

5.1) Dai dinosauri agli archaeorniti Ci sono controverse opinioni su come e quando la storia degli uccelli abbia avuto inizio, anche se le numerose teorie sussistenti hanno svariati punti di contatto tra loro. Le due ipotesi più avvalorate sostengono che gli uccelli così come li conosciamo oggi si siano sviluppati da un particolare sottogruppo dei tecodonti, un gruppo di dinosauri di piccola e media taglia in grado di muoversi molto velocemente sulle sole zampe posteriori e con una struttura scheletrica già relativamente leggera. Questo sottogruppo, detto degli pseudosuchi, generò una grande diversità di rettili carnivori come il Compsognathus e il Velociraptor, resi famosi (in special modo il secondo) dalla trilogia cinematografica Hollywoodiana “Jurassic Park”4. Il nodo del problema sta nella diversità

4 Coloro che hanno visto il film ricorderanno i Velociraptor come dei dinosauri a squame, non è tuttavia da escludere che fossero degli animali a sangue caldo dotati di pseudo-piume o simili, in quanto i sedimenti conservanti i fossili non sono della stessa composizione di quelli che furono in grado di fossilizzare le penne di Archaeopteryx.

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temporale attribuita al momento in cui il ramo degli uccelli si è staccato da quello dei rettili; se direttamente dagli pseudosuchi oppure più tardi, a partire da un derivato di quest’ultimi. Secondo la prima ipotesi gli uccelli si svilupparono a partire dai tecodonti già nel Triassico; tra le varie specie viventi in quel periodo, le due ritenute più probabili ad aver dato il via sono Euparkeria (ca. 230 milioni di anni fa) e Sphenosuchus (ca. 200 milioni di anni fa). Questo significa che tra questi possibili antenati e Archaeopteryx è trascorso un periodo che va da un minimo di 20 ed un massimo di 80 milioni di anni, ma risulta piuttosto sorprendente che dopo un così lungo lasso di tempo egli presenti delle caratteristiche (soprattutto scheletriche) così simili al Compsognathus, frutto di un diverso percorso evolutivo. L’alternativa a questa via è che Archaeopteryx sia sì un pronipote degli pseudosuchi, ma di origine meno diretta. A riguardo possiamo citare l’ipotesi fatta da Thomas Huxley nel 1868, il quale sosteneva che gli uccelli derivassero appunto da dinosauri carnivori originariamente e indirettamente provenienti dal ceppo degli pseudosuchi, più precisamente dai celurosauri del più “recente” Giurassico. Qui entra in gioco la straordinaria somiglianza che intercorre tra Archaeopteryx e il celurosauro suo coevo Compsognathus, dando più credibilità alla tesi che i due siano strettamente imparentati. Di seguito è riportato l’albero filogenetico che riassume tutte le varie possibilità appena descritte:

Immagine 28: Albero filogenetico degli uccelli Il dibattito è sempre aperto, e tanto quanto si discorre delle già citate abitudini degli pterosauri lo stesso avviene per l’origine di Archaeopteryx. A sostegno dell’ipotesi degli pseudosuchi c’è la possibilità che la somiglianza tra i due animali sia solo il frutto di una fortuita convergenza evolutiva, confermata dal fatto che un importante cambiamento scheletrico come la presenza o

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meno della forchetta non sia compatibile con l’origine celurosauriana, richiedendo molto tempo per essere attuato. Inoltre recenti studi hanno rivelato che l’orecchio interno degli Archaeorniti era decisamente più somigliante a quello degli pseudosuchi piuttosto che a quello dei celurosauri. Sull’altro fronte, i sostenitori dell’origine dinosauriana spingono sull’idea che il lasso di tempo intercorso tra gli pseudosuchi come Euparkeria e l’uccello Archaeopteryx sia troppo grande per non aver mai consegnato agli archeologi dei fossili di esseri viventi rappresentanti una via di mezzo tra i due (anche se la loro attuale assenza non avvalora la tesi che non siano mai esistiti, basterebbe trovarne uno solo). Si suppone anche che i celurosauri avessero molto di più del solo scheletro in comune con gli Archaeorniti, come, ad esempio, pseudo-penne derivate dalle squame o addirittura vere e proprie penne, con conseguente omeotermia. Per quanto riguarda il comportamento non si esclude che costruissero nidi per la cova e si prendessero cura della propria prole, esattamente come oggi fanno tutti gli uccelli. Archaeopteryx è da taluni considerato un vicolo cieco dell’evoluzione, in ogni caso ci mostra molto bene come sia avvenuto il passaggio dai rettili agli uccelli. Il passo seguente alla comparsa delle piume e delle ossa cave fu un drastico alleggerimento della struttura consistente nella atrofizzazione progressiva della coda, al fine di bilanciare la posizione e migliorare la “manovrabilità”. Ne è un degno rappresentante Confuciusornis, il cui nome ci rimanda alle sue origini cinesi. Aveva ancora alcuni caratteri in comune con i rettili da cui originariamente discendeva, infatti non aveva del tutto convertito l’uso delle zampe anteriori al volo, così da avere ancora gli artigli ossei di Archaeopteryx.

Immagine 29: Confuciusornis

5.2) Dagli archeorniti ai giorni nostri Così come per tutti gli altri viventi, la selezione naturale fu il motore dell’evoluzione della classe degli Uccelli, scegliendo per così dire i più adatti a sviluppare le caratteristiche necessarie a spiccare il volo. Ci vollero molti milioni di anni per arrivare alla complessità di questo genere di volatori, in quanto gli adattamenti necessari sono stati molti e drastici. Nel capitoletto precedente è stato visto in dettaglio come si sia riusciti a compiere il passo più grande di tale processo, vale a dire la genesi di una nuova classe di vertebrati, vedremo ora di vedere un po’ più in dettaglio cosa avvenne in seguito. Come già detto in precedenza la sfida principale consistette nel trovare degli animali con delle particolari caratteristiche fisiche e anatomiche adatte alla vita aerea, dopodiché la strada era tratta.

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Infatti, a partire dagli Archaeorniti fino ai giorni nostri i cambiamenti furono sì molti ed importanti, ma da un certo profilo meno “drastici”. Le tappe principali di questo percorso evolutivo furono sette, delle quali due le abbiamo già accennate. Più precisamente si tratta in primis del cambio di manto da squame a penne e piume (Archaeopteryx) e la fusione delle ultime cinque vertebre caudali in un’unica placca ossea detta pigostilo (Confucuisornis). Seguirono poi la comparsa dell’alula con la scomparsa delle dita artigliate, la fusione delle ossa del piede in un’unica struttura, l’arrotondamento della testa dell’omero e infine la formazione di articolazioni a sella nelle vertebre cervicali (i Neorniti, gli uccelli moderni). Parallelamente alle appena citate conquiste evolutive ci furono però un’infinità di altri adattamenti che col passare del tempo resero gli uccelli odierni degli animali molto diversificati tra loro per dimensione, alimentazione, abitudini, comportamento e habitat naturale.

5.3) Approfondimento: Dalle squame alle piume Il cambiamento di rivestimento cutaneo con il passaggio dalle squame rettiliane alle vere e proprie piume degli uccelli fu il piede di partenza dell’evoluzione degli uccelli. La materia base di tutti i rivestimenti cutanei è la stessa proteina, vale a dire la cheratina, ma prima di entrare in merito occorre fare qualche precisazione sulle strutture delle proteine. Ciò che caratterizza ogni singola proteina non è unicamente una determinata sequenza di amminoacidi, bisogna anche prendere in considerazione la loro disposizione nello spazio. Esse, infatti, si organizzano in varie strutture per dare forma ai più disparati prodotti dell’anabolismo, che vanno dai ben noti capelli alla microscopica emoglobina. Esistono quattro livelli di organizzazione delle proteine, detti struttura primaria, secondaria, terziaria e quaternaria delle proteine.

Immagine 30: Struttura delle proteine

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La struttura primaria di una proteina è determinata direttamente dalla sequenza di nucleotidi che compongono il suo gene codificante, e consiste semplicemente in una lunga catena di amminoacidi uniti tra loro da legami peptidici (a). La presenza di gruppi funzionali quali C=O e N–H negli amminoacidi permette la formazione di interazioni tipo ponte idrogeno all’interno della catena peptidica, portandola a ripiegarsi su se stessa e formare delle strutture ad α-elica o β-foglietto (b). È possibile che in differenti punti di tale catena siano presenti dei complessi di amminoacidi in grado di formare delle strutture ad elica o foglietto, si può arrivare così ad averle entrambe nella stessa struttura proteica. Questo porta la catena ad assumere, a seconda del caso considerato, particolari conformazioni spaziali quali globuli e fibre, detti strutture terziarie (c). L’associazione di più globuli o fibre (non necessariamente uguali tra loro) in un’unica grande proteina genera il livello di organizzazione strutturale più complesso, la struttura quaternaria (d). Per tornare al caso specifico delle piume e degli altri rivestimenti cutanei, due parole sulla cheratina. Ricca di zolfo e di tipo fibrosa, è suddivisibile in due categorie: molle e dura. La cheratina molle è la componente principale di pelo, capelli e piume, ed ha proprietà totalmente diverse dalla cheratina dura. Infatti è traslucida e gode di una certa plasticità, basti pensare alle caratteristiche dei nostri capelli: li possiamo cambiare di forma e, se in buona salute, risplendono sotto la luce del sole. Se sottoposta al calore essa si ritrae, se invece viene messa in acqua fredda si gonfia idratandosi. L’altro tipo di cheratina, quella dura, è agli antipodi. Di consistenza decisamente più rigida non si piega sotto sforzo, bensì si spezza; inoltre è molto più resistente al calore. È la componente base di tutte le scaglie cornee della cute dei rettili, così come delle nostre unghie, del corno del rinoceronte e degli artigli in generale. Queste caratteristiche così diverse tra loro sono dovute semplicemente alle precedenti organizzazioni a livello intermolecolare delle fibre di cheratina, il che va a sostenere che un passaggio da scaglie a piume sia stato possibile. Una possibilità è che una semplice mutazione del DNA sul gene codificante la cheratina potrebbe aver causato la sostituzione di un amminoacido con un conseguente cambiamento della struttura primaria della proteina; passando dai livelli più bassi alle organizzazioni superiori l’errore si tramanda con un effetto “a cascata”, creando una struttura proteica completamente nuova con proprietà differenti. Se le microscopiche strutture in cui si organizzano le proteine non dovessero bastare a convincere i più scettici basta prendere in considerazione l’analoga disposizione dei due rivestimenti cutanei mostrati nell’immagine 31 e vedere da cosa hanno origine.

Immagine 31: Squame e piume Le squame e le piume si sviluppano nel medesimo modo, vale a dire che nascono dalle stesse strutture dell’epidermide. All’inizio non sono altro che delle piccole papille dermiche sulla superficie embrionale dell’animale, semplici addensamenti di cellule che sporgono leggermente dalla pelle. La forma usuale di penne e squame è raggiunta in entrambe i casi tramite un processo di cheratinizzazione delle cellule della papilla dermica: vengono progressivamente riempite con questa proteina e, man mano che muoiono, la penna (o la scaglia, a differenza dell’animale) cresce verso ciò che sarà la sua forma finale. A processo ultimato la guaina protettiva che ricopriva la nuova penna si sbriciola (eliminata dall’azione di lisciatura del becco) e si spiega per assumere la forma definitiva. L’unica differenza che intercorre tra le due forme di rivestimento cutaneo è quindi cosa va a svilupparsi da queste papille a livello embrionale, ma ciò è già definito prima della nascita, dal codice genetico dell’animale.

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6.) Penne e piume

6.1) Le penne: struttura e suddivisione Prima di entrare in dettaglio nell’argomento ed esprimere tutte le considerazioni del caso occorre chiarire la distinzione esistente tra penne e piume: le prime sono le vere responsabili dell’effetto di portanza che sostiene l’animale in volo, mentre le altre hanno funzioni e strutture molto diverse. Per meglio comprendere come dei semplici filamenti proteinici siano in grado di sostenere masse variabili da pochi grammi ad alcuni chili consideriamo la figura 31 rappresentante la struttura base di una penna.

Le penne hanno una struttura particolare con uno stelo centrale suddivisibile in calamo (1) e rachide (2), che fungono rispettivamente da attacco al corpo e alle superfici portanti che formano il vessillo (3). Questo stelo portante centrale ha una curvatura più o meno marcata a dipendenza del tipo di penna alla quale appartiene: vale a dire che se essa farà parte dell’ala avrà una forma diversa da una appartenente al dorso piuttosto che ad una della coda e così via. Le barbe (4) si diramano da entrambi i lati della rachide per formare una superficie compatta e uniforme molto resistente: questa caratteristica è dovuta alla particolare struttura ad intreccio che la

compone. Dalle barbe partono le barbule (6) e gli uncini (5) che formano un fittissimo tessuto a cerniera che, se aperto, può essere richiuso facilmente. Come verifica basta prendere una qualunque penna di uccello e aprirne le barbe con delicatezza: una volta separate esse sono ancora in grado di essere riunite senza danno alcuno. Gli struzzi non dispongono degli uncini che ancorano le barbe tra loro, è per questo che le loro penne sono così voluminose e inadatte al volo (da notare che per giunta sono simmetriche). Benché le penne dispongano di questa curiosa capacità, devono essere continuamente curate dall’uccello al fine di evitarne il degrado delle barbe. Questa manutenzione viene effettuata tramite il becco, e consiste nella spalmatura su tutta la superficie corporea di una

sostanza oleosa secreta dall’uropigio, una ghiandola esocrina posta sulla parte superiore del dorso, in prossimità dell’attacco delle penne caudali. L’operazione ha un molteplice intento: proteggere le penne dall’usura di sabbia e polveri sospese nell’aria, impermeabilizzarle per far sì che non si bagnino appesantendo l’uccello e anche riordinare la disposizione di penne e barbe sul corpo dell’animale. In mancanza dell’uropigio, alcune specie hanno sviluppato un sistema di ricambio automatico molto ingegnoso, le cosiddette penne del polverino. Si tratta di speciali penne che, crescendo in continuazione e consumandosi all’apice, formano una finissima polvere che va a ricoprire e così proteggere il resto del piumaggio. L’asimmetricità delle penne destinate al volo è alla base della forma aerodinamica generante la portanza, in quanto la parte più stretta del vessillo è più spessa e rigida dell’opposta, sovrapponendo una penna all’altra si ottiene così la classica gobba dell’ala sul bordo d’attacco.

Immagine 32: Struttura di una penna

Principalmente le penne sono raggruppate in quattro categorie: remiganti (primarie, secondarie e terziarie), timoniere (altrimenti dette caudali), copritrici e dell’alula.

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Nell’immagine che segue è rappresentato il piumaggio di un esemplare di poiana codabianca (Buteo Rufinus) con evidenziate le penne dell’ala destra e della coda. Nelle parti non definite si tratta sempre e solo di penne di copertura, salvo evidentemente l’ala sinistra.

Immagine 33: Penne di poiana codabianca • Penne remiganti primarie (P1-P10): Sono le penne situate sul carpo, ossia in corrispondenza della parte ossea della “mano”; sono le più esterne e più di tutte le responsabili dei movimenti in volo. Generalmente sono 10/11, fatta eccezione per cicogne e fenicotteri che ne hanno 12 e alcune specie di passeri 9. Le prime remiganti, quelle più avanzate, sono molto rigide e appuntite e man mano che ci si avvicina al corpo diventano sempre più larghe. Tra tutte le penne presenti sono anche le più asimmetriche, come ci mostra la seguente immagine:

Immagine 34: Penna remigante primaria di Aquila Reale (ala destra) • Penne remiganti secondarie (S1-S14): Di numero molto più variabile rispetto alle precedenti (si passa dalle 6 del colibrì alle 32 degli albatros), sono situate in corrispondenza dell’area dell’avambraccio. Anch’esse asimmetriche, sono le penne che generano la quasi totalità della portanza dell’ala. • Penne remiganti terziarie (non rappresentate): Da ultime per quanto riguarda le remiganti abbiamo queste particolari penne che non sempre presenziano nelle ali degli uccelli, essendo di minore importanza rispetto alle altre. Occupano la piccola parte del gomito, quindi a stretto contatto con i fianchi dell’animale.

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• Penne timoniere o caudali (T1-T6): Le penne timoniere devono il loro nome alla funzione direttrice che assolvono, essendo le responsabili della direzione, della stabilità in volo e anche dell’atterraggio. Normalmente sono 11, ma come sempre esistono delle eccezioni. La loro lunghezza dipende dal tipo di volo che conduce l’animale e caratterizza la manovrabilità della quale le evoluzioni aeree necessitano. Abbiamo visto che a maggior velocità corrisponde una più alta forza di portanza e resistenza dell’aria, è quindi deducibile che un uccello in picchiata ad alte velocità disporrà di penne caudali di minor lunghezza. Per spiegare il fenomeno richiamo l’equazione generale del capitolo 3.1 sulle forze aeree:

2

2vF CSρ ∞=

La lunghezza della coda è ovviamente proporzionale alla sua superficie S, di conseguenza correlata alla quantità di aria spostata; ne deriva che a parità di velocità la forza generata è quindi proporzionale alla lunghezza stessa della coda. Questo fattore può creare problemi quando si è confrontati con velocità maggiori: in tali situazioni mantenere l’equilibrio in volo risulta molto più difficile per uccelli a timone lungo piuttosto che ad altri muniti di uno più corto, perché variazioni anche minime dell’angolo caudale e quindi dell’area S portano a variazioni enormi della forza F. Occorre però precisare che una lunga coda non rappresenta necessariamente uno svantaggio: un falco pellegrino può sì raggiungere i 285 km/h in picchiata, ma a velocità ridotte paga i suoi particolari adattamenti anatomici con una scarsa reattività nei movimenti, cosa che non fa un comune passero, in grado di cambiare direzione molto frequentemente. • Penne copritrici (CS): Il nome ci suggerisce che queste penne svolgono una funzione strettamente di copertura, infatti il loro compito è quello di rendere il più fluido possibile lo scorrimento dell’aria sull’intero animale. Le troviamo quindi dappertutto, su dorso, ventre, ali, zampe e testa, e differiscono molto nella loro forma e dimensione a dipendenza della parte del corpo che coprono. Di natura generalmente simmetrica, fungono anche da protettivo alle altre penne, in special modo sul dorso delle ali.

Immagine 35: Penna copritrice di Porciglione

• Penne dell’alula: L’alula, detta anche ala bastarda, è ciò che resta dell’antico pollice dei rettili (vedi capitolo 4.2.3). Originariamente munita di artiglio come tutte le altre dita della zampa anteriore, ha perso definitivamente le sue funzioni per diventare un sofisticato strumento in grado di gestire l’aerodinamica in modo totalmente indipendente. In special modo quando si vola a velocità

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ridotte, il volatile la alza così da costringere le linee di flusso a seguire maggiormente il contorno dorsale dell’ala e diminuire così le situazioni di stallo in cui potrebbe incappare.

Immagine 36: L’alula Le penne dell’alula svolgono un importante ruolo nelle evoluzioni in volo che prevedono forti variazioni di velocità e rapide impennate, lavorando appunto contro il distacco dello strato limite dal dorso dell’ala.

6.2) Le piume

Abbiamo detto in precedenza che le piume rivestono diverse funzioni, principalmente quella isolante, non contribuendo così all’aerodinamicità dell’uccello. Questo compito è affidato alle semipiume (3) e alle piume vere e proprie (4). Questi due tipi di piuma formano un soffice piumino che ricopre l’intera superficie del corpo isolando l’uccello dal freddo: intrappolando con le numerose barbe un cuscino d’aria sotto le penne copritrici ne sfruttano le capacità termo-isolanti. Di aspetto profondamente diverso dalle precedenti abbiamo le vibrisse (1), le quali non hanno che qualche rado peluzzo alla base della rachide (e non è un’eccezione non trovarne del tutto). Generalmente sono situate in prossimità del becco proteggendo le narici dall’entrata di polvere, nel rondone servono anche da “retino” per la cattura di moscerini e altri insetti in volo. Da ultime, ma non certamente per importanza, abbiamo le filopiume (2). La loro funzione è legata all’equilibrio e alla coordinazione dei movimenti, in quanto sono in diretta connessione con le vie nervose responsabili del rilevamento della propria posizione nello spazio. Anche le filopiume sono sparse su tutto il corpo come quelle isolanti, ma a differenza di quest’ultime

penetrano tra gli strati più esterni della muta. Così Immagine 37: Vari tipi di piuma

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facendo si muovono con le penne responsabili del volo, inviando dalle terminazioni nervose presenti nel follicolo tutte le informazioni necessarie alle aree cerebrali del cervelletto. Si può quindi affermare che le piume svolgono un ruolo determinante nel volo dell’animale, cosa che a rima vista può risultare di secondaria importanza.

.) Nati per volare: i rapaci

scenza” con uno dei suoi rapaci, uno splendido giovane esemplare di falco ellegrino femmina.

p

7 Durante i mesi di stesura di questo lavoro ho avuto la possibilità di parlare con un autentico falconiere aramaico, il quale mi ha permesso di entrare in stretto contatto con i rapaci e poterne così studiare alcune caratteristiche senza dover andare in alta montagna o in parchi nazionali per poi osservarli da lontano con un binocolo. Durante questi incontri abbiamo avuto modo di approfondire il volo degli uccelli sotto vari punti di vista, passando dagli aspetti prettamente anatomici al vero e proprio stile di volo dell’animale. Visto il mio crescente interesse per la falconeria mi ha concesso l’onore di “fare conop

plarImmagine 38: 2 esem i di falco pellegrino

pellegrino un animale alla costante ricerca di cibo. Questa caratteristica, abbinata ad una scarsa

Il falco pellegrino (Falco Peregrinus) è un uccello della famiglia dei Falconidi, ordine Accipitriformi, ed è diffuso a livello pressoché globale sulla Terra, laddove ovviamente le condizioni climatiche e ambientali lo permettono. Di dimensioni modeste (variano tra i 38 e i 50 cm da capo a coda, con un’apertura alare di poco superiore al metro), tra gli uccelli è il cacciatore per eccellenza, in quanto il suo stile di caccia è unico nel suo genere. Infatti piomba sulle proprie prede, prevalentemente colombi, a velocità prossime ai 250 km/h per ucciderle con un unico colpo mortale. La sua grande abilità di volo richiede un grande dispendio di energia, questo fa del falco

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intelligenza se paragonato ad uccelli come il corvo, ha permesso all’uomo di farlo diventare suo alleato di caccia fin dai tempi più remoti grazie all’antichissima arte della falconeria. Generalmente nella falconeria sono possibili due metodi di caccia, affidati a diverse specie di falco per differenti tipi di prede. I falchi da basso volo come l’astore e lo sparviero sono adatti alla caccia di prede a terra, essendo lanciati direttamente dal falconiere una volta avvistata la preda. I falchi da alto volo, altrimenti detti nobili, volteggiano nel cielo nell’attesa di scorgere un obiettivo come colombi e altri uccelli di medie dimensioni sulla quale piombare dall’alto. In quest’ultima categoria rientrano l’agrifalco e, appunto, il falco pellegrino. È incredibile vedere come, malgrado tutti questi animali facciano parte della medesima Famiglia, essi siano così diversificati tra loro. Ogni metodo di caccia richiede specifiche caratteristiche anatomiche, in modo da ottimizzare il proprio rendimento. Nel caso specifico del falco pellegrino è già stato detto che piomba sulle proprie prede a velocità altissime, dovrà quindi disporre di arti e strutture scheletriche adatte a sopportare tali sforzi. La realtà ce lo conferma, in quanto la già citata coda corta è un ottimo espediente per regolare con maggior facilità la propria traiettoria a velocità elevate. Analogamente un falco da basso volo gode di una corporatura decisamente meno snella del precedente, con ali e coda maggiormente indicate per i voli di inseguimento radenti al suolo. Tutto questo discorso ci porta ad un’unica ed importante conclusione, l’estrema specificità del volo degli uccelli, in quanto ogni singola specie esistente o esistita in passato ha determinate caratteristiche atte a rivestire specifiche funzioni. Per quanto ci si sforzi a cercare persino di ciò che Madre Natura ha concepito in milioni di anni, l’essenza stessa del problema sfugge di mano vista la sua imponenza. Gli uccelli sono il frutto di un enorme percorso che li ha resi dominatori dei cieli molto prima che il più antico antenato dell’uomo mettesse persino piede sulla terra, e non c’è assolutamente da stupirsi se ne è rimasto affascinato al punto tale da volerli raggiungere in volo.

“Tutti hanno un paio di ali ma solo chi sogna impara a volare”

Jim Morrison (1943 – 1971) cantante americano e leader dei Doors

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Ringraziamenti I miei ringraziamenti vanno in primis ai docenti responsabili di questo lavoro, prof. C. Ferrari per quanto riguarda la parte di fisica e prof.ssa C. Beretta – Steiner per la biologia. Volevo comunque estenderli ai restanti docenti facenti parte del gruppo di lavoro interdisciplinare G. Zenoni e E. Bernasconi per la loro disponibilità. Un ringraziamento speciale va al falconiere che, mettendo a disposizione il suo tempo libero, mi ha aiutato nella stesura di questo lavoro. Permettendomi di entrare in contatto con questi magnifici uccelli quali sono i rapaci mi ha fatto scoprire un mondo, quello della falconeria, a molti ancora sconosciuto. Grazie.

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Bibliografia Libri e altre fonti: C.Ferrari, “FISICA”, II anno liceo scientifico, 2005 – 2006. Lawrence G. Mitchell, John A. Mutchmore, Warren D., “ZOOLOGIA”, Zanichelli, 1991. Michael J. Benton, “LE REGNE DES REPTILES”, Edimages, 1990. Stefano Bulla e Vittorio Parisi, “ANIMALI ALLA CONQUISTA DEL VOLO”, 1996. J. Kane et M. Sternheim, Université du Massachusettes, “PHYSIQUE”, InterEditions, 1986. “L’ENCYCLOPÉDIE DES DINOSAURES”, Éditions Mondo, 2002. Gregory A. Petsko e Dagmar Ringe, “Struttura e funzione delle proteine”, Zanichelli, 2006. A. Châtelain, “Mécanique des fluides”, preprint EPFL, 1995. Microsoft Encarta 2001. Siti internet: http://it.wikipedia.org/wiki/Daniel_Bernoullihttp://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Battista_Venturihttp://it.wikipedia.org/wiki/Fratelli_Wrighthttp://www.liceomedi.com/volo/sito/fisica_del_volo/fisica_del_volo.htmhttp://it.wikipedia.org/wiki/Angolo_d%27attacco NB: Tutti i siti sono stati ricontrollati in data 6.12.2006 e tutti riportavano le stesse informazioni utilizzate per lo svolgimento di questo lavoro. Database immagini: Immagine in copertina: Due esemplari di falco pellegrino (Falco Peregrinus), immagine tratta da http://www.provincia.bologna.it/polizia/risultati/Falco_pellegrino.html 1.) Icarus: Scultura in acciaio dell’artista portoghese Tawny Gray, 1992. http://www.freenetpages.co.uk/hp/tawnygray/icarus.gif Immagine 1: Il tubo di Bernoulli: Disegno personale. Immagine 2: Effetto Venturi: A. Châtelain, “Mécanique des fluides”, preprint EPFL, 1995, p.23. Immagine 3a: Linee di flusso in regime laminare: J. Kane et M. Sternheim, Université du Massachusettes, “PHYSIQUE”, InterEditions, 1986, p.311. Immagine 3b: Linee di flusso in regime turbolento: J. Kane et M. Sternheim, Université du Massachusettes, “PHYSIQUE”, InterEditions, 1986, p.311. Immagine 4: Vortici alari: http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/0/08/Airplane_vortex.jpg Immagine 5: Forze alari: Disegno personale. Immagine 6: Discesa stazionaria: A. Châtelain, “Mécanique des fluides”, preprint EPFL, 1995, p.33. Immagine 7: Angolo d’attacco: A. Châtelain, “Mécanique des fluides”, preprint EPFL, 1995, p.32.

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Immagine 8: Variazioni di Cp e Cr rispetto ad α: A. Châtelain, “Mécanique des fluides”, preprint EPFL, 1995, p.32. Immagine 9 : Scoiattolo siberiano volante (Finlandia): http://newton.corriere.it/PrimoPiano/News/2004/06_giugno/14/scoiattolo.shtml Immagine 10 : Exocetidi: http://oceanlink.island.net/oinfo/biodiversity/flyingfish/flyingfish5.jpg Immagine 11 : Rana volante: http://www.ecologyasia.com/images-k-z/wallaces-flying-frog.jpg Immagine 12 : Serpente arboricolo (Chrysopelea ornata): http://www.federalreview.com/2005_05_08_blogarchive.htm Immagine 13 : Draco volans http://animaldiversity.ummz.umich.edu/site/resources/Grzimek_herps/Agamidae/v07_id28_con_flylizar.jpg/medium.jpg Immagine 14: Il volo veleggiato statico: Lawrence G. Mitchell, John A. Mutchmore, Warren D., “ZOOLOGIA”, Zanichelli, 1991, p.811. Immagine 15: Il volo veleggiato dinamico: Lawrence G. Mitchell, John A. Mutchmore, Warren D., “ZOOLOGIA”, Zanichelli, 1991, p.811. Immagine 16: Il volo battente: Lawrence G. Mitchell, John A. Mutchmore, Warren D., “ZOOLOGIA”, Zanichelli, 1991, p.812. Immagine 17: Selasphorus platycercus Enciclopedia Microsoft Encarta 2001: Colibrì. Immagine 18: Analogia: Enciclopedia Microsoft Encarta 2001: Analogia. Immagine 19: Fossile di Meganeura Monyi http://www.hiltonpond.org/ThisWeek060408.html Immagine 20: Ricostruzione di Meganeura Monyi: Stefano Bulla e Vittorio Parisi, “ANIMALI ALLA CONQUISTA DEL VOLO”, 1996, p.12. Immagine 21: Ricostruzione di Pteranodon (65 milioni di anni fa): http://www.brilliant-creations.com/ptero.htm Immagine 22: Fossile di Rhamphorhynchus: http://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/5/54/Rhamphorhynchus.JPG Immagine 23 : Dettaglio fossile di Rhamphorhynchus : http://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/5/54/Rhamphorhynchus.JPG Immagine 24: Teschio di Dorygnathus (Giurassico Inferiore): Michael J. Benton, “LE REGNE DES REPTILES”, Edimages, 1990, p.95. Immagine 25: Fossile di Archaeopteryx Lithographica: http://www.nisuma.com/petera/images/archaeopteryx.jpg Immagine 26: Ricostruzione di Archaeopteryx Lithographica: http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/a/a4/Archaeopteryx-model.jpg Immagine 27: Scheletri Compsognathus e Archaeopteryx: Stefano Bulla e Vittorio Parisi, “ANIMALI ALLA CONQUISTA DEL VOLO”, 1996, p.39.

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Il volo degli uccelli

Immagine 28: Albero filogenetico degli uccelli: Lawrence G. Mitchell, John A. Mutchmore, Warren D., “ZOOLOGIA”, Zanichelli, 1991, p.821. Immagine 29 : Confuciusornis : “L’ENCICOPÉDIE DES DINOSAURES”, Éditions Mondo, 2002, p.143. Immagine 30 : Struttura delle proteine : Gregory A. Petsko e Dagmar Ringe, “Struttura e funzione delle proteine”, Zanichelli, 2006, p.3. Immagine 31 : Squame e piume : “Quaderni le scienze - L’evoluzione”, a cura di M. ferraguti e F. Mondella, no.37, settembre 1987, p.36. Immagine 32: Struttura di una penna: Lawrence G. Mitchell, John A. Mutchmore, Warren D., “ZOOLOGIA”, Zanichelli, 1991, p.808. Immagine 33: Penne di poiana codabianca: http://www.ebnitalia.it/qb/QB009/penne.htm Immagine 34: Penna remigante primaria di Aquila Reale (ala destra): Josef Hiebeler, “DER STEINADLER IN DER FALKNEREI”, 2000. Immagine 35: Penna copritrice di Porciglione: www.ebnitalia.it Immagine 36: L’alula: Lawrence G. Mitchell, John A. Mutchmore, Warren D., “ZOOLOGIA”, Zanichelli, 1991, p.810. Immagine 37: Vari tipi di piuma: Lawrence G. Mitchell, John A. Mutchmore, Warren D., “ZOOLOGIA”, Zanichelli, 1991, p.808. Immagine 38: 2 esemplari di falco pellegrino: http://www.ebnitalia.it/qb/QB012/pic/pellegrino08.jpg

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