Il vocabolario di latino

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La storia di una vita.Ciò che ho raccolto sono cose semplici, emozioni, riflessioni episodi che hanno caratterizzato buona parte della mia vita, della mia giovinezza in particolare, e che ancora oggi mi accompagnano e di cui sono fiero ed orgoglioso. Possono anche essere lette come una risposta a mio figlio Andrea, che spesse volte mi ha chiesto perché custodissi con tanta cura e gelosia, tra le mie vecchie cose, un vocabolario di latino: un vecchio Campanini e Carboni.L'ambiente? Vico Equense e i suoi Casali e la magica, immota atmosfera che si resipra tra quelle eterne calli.

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IL VOCABOLARIO

DI LATINO

( IL RACCONTO DI UNA VITA )

Biagio Cilento

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A mia madre,

ai miei figli Raffaele, Nicola ed Andrea, a

mio nipote Francesco

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Premessa

Chi dovesse leggere queste poche righe, siano esse

appunti autobiografici, un diario o semplicemente il racconto di una vita o

qualsiasi altra cosa si voglia, dovrebbe sapere dall’inizio che io non ho

avuto nessuna pretesa di essere uno scrittore e di non esserlo mai stato.

Ciò che ho raccolto sono cose semplici, emozioni, riflessioni episodi che

hanno caratterizzato buona parte della mia vita, della mia giovinezza in

particolare, e che ancora oggi mi accompagnano e di cui sono fiero ed

orgoglioso. Possono anche essere lette come una risposta a mio figlio

Andrea, che spesse volte mi ha chiesto perché custodissi con tanta cura e

gelosia, tra le mie vecchie cose, un vocabolario di latino: un vecchio

Campanini e Carboni.

Credo che ognuno di noi, alle soglie della terza età, dovrebbe

potersi misurare con le parti trascorse della sue prime due e tentare un

resoconto scritto di quei pezzi di vita trascorsi, perché questa operazione

aiuterebbe a capire meglio tante cose. Questo scritto dunque, al di là dalla

velleità letteraria, credo che abbia certamente un effetto terapeutico, in

quanto richiede lo sforzo di analizzare tutti gli eventi che hanno concorso

a formare ciò che effettivamente sono oggi. Una risultante derivante

dall’educazione ricevuta, dalle esperienze infantili ed adolescenziali. In

breve la fatica di essere uomini.

Biagio Cilento

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L’infanzia, la casa, la famiglia

Il vento soffiava, tra gli spiragli e le fessure dell’unico balcone con un

ritmo monotono, a tratti sibili gelidi che rendevano ancora più tetre e

fredde le lunghe giornate invernali. I vetri, sporcati soltanto dalle impronte

di piccole mani e resi opachi dal vapore di un alito innocente, erano retti

soltanto da righelli di stagnola logorati dal tempo e non più in perfetta

tenuta. Da quel balcone si stagliava il palazzo del de Gennaro, circondato

da grosse palme e da alberi di ulivo le cui cime erano continuamente

piegate da folate di tramontana, con i suoi grandi finestroni di vetro

colorato e sempre chiusi che riflettendo gli ultimi flebili raggi di sole

rendevano più triste ciò che restava di una giornata invernale che stava per

concludersi. Quello era l’unico e sempre uguale paesaggio che si

presentava ai miei occhi ogni qualvolta, seduto accanto ad un vecchio

braciere di rame, con poca carbonella accesa, distoglievo lo sguardo da un

libro di latino o da una pagina dell’Eneide.

Spesse volte, nel voltare lo sguardo mi perdevo distratto e allora tutto

quello spettacolo finiva con lo scomparire e io, rapito da quel mare di

solitudine e di tristezza, totalmente assente mi vedevo immedesimato in

uno dei racconti mitologici che stavo studiando con tanto di spada in

pugno in groppa ad un magnifico cavallo bianco. Amavo quei momenti di

solitudine nei quali piaceva perdermi e sognare ad occhi aperti cose

impossibili.

A farmi tornare nella realtà ci pensava mia madre, che carezzandomi

dolcemente, dopo aver dato un rapido sguardo all’orologio, mi

preannunciava il ritorno di papà dal lavoro. Si sarebbe andati, finalmente,

tutti a consumare l’unico pasto caldo della giornata. Lo diceva con tanta

gioia quasi fosse una festa.

Intanto, dal cucinino subito fuori dell’uscio di casa, o meglio dall’unica

stanza che ci fungeva da soggiorno, camera da letto e sala da pranzo,

giungeva il profumo di polenta con broccoli o di pasta e fagioli.

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Fuori, il vento soffiava sempre più minaccioso e gelido col calar della

sera. Un freddo che sentivi giungere fino alle ossa e che ti arrossava il naso

e le dita delle mani e dei piedi protetti dall'unico paia di scarpe, che era già

stato più volte dal ciabattino con ferite non più facilmente rimarginabili,

che a stento riuscivano a riparare. Dopo cena, ci si raccoglieva tutti intorno

al braciere ad ascoltare qualche fatterello che mamma sapeva raccontare

molto bene o narrarci episodi della sua giovinezza, spesso poco piacevoli.

Mamma era rimasta orfana di madre ancora in tenera età ed era cresciuta

e maturare in fretta per poter accudire alla casa e spesso badare anche ai

pochi animali da soma nella stalla, essendo mio nonno di professione

carrettiere. Della sua infanzia e della sua giovinezza dunque poteva

raccontare ben poche cose, ma riusciva a farci partecipare a quei racconti

con vivo interesse senza sembrarne turbata anzi esprimendo una serena

felicità e l’aver dedicato tutta se stessa alla sua famiglia era stata per lei la

sua massima aspirazione.

L’unico a crearle qualche problema – dei suoi cinque figli – ero io, ma non

perché fossi particolarmente cattivo o perché non volessi studiare, perché

dei cinque, io era quello che veniva su con qualche problema di salute,

quello che aveva maggior bisogno di cure e pure di affetto. Affetto e cure

che mia madre mi ha dato fino al suo ultimo respiro e così bene da aver

riempito tutta la mia vita. E’ a lei oggi che devo tutto: il suo amore, le sue

premure, i suoi preziosissimi consigli mi mancano moltissimo ed è a lei e

al suo ricordo che principalmente dedico queste poche pagine. E’ un

ricordo così forte che a volte ho l’impressione di sentirmela a fianco e

forse è veramente così.

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Mio padre

Anche di papà sento la mancanza e non è che il nostro rapporto sia stato

facile, anzi tutt' altro. Bell’uomo, otto anni più giovane di mamma di cui

era molto innamorato; amava trascorre buona parte del suo tempo libero al

circolo a giocarsi quei pochi preziosissimi spiccioli che tratteneva per sé

dalla busta paga ogni fine mese. Spiccioli che appunto, siccome pochi,

finivano sempre troppo presto, contribuendo così ai suoi sbalzi di umore

che finivano col renderlo irascibile ed intrattabile, tanto che spesso, per un

nonnulla volavano scapaccioni.

Il più vulnerabile ero io, forse perché il più grande e forse anche perché gli

venivano in mente marachelle passate e mai punite. Allora giù botte fino a

farmi sanguinare il labbro o il naso e la smetteva solo allora, lasciandomi

sul viso oltre qualche livido, il profumo di saponette Lux con le quali

spesso era solito lavarsi le mani. Questa operazione mio padre la faceva

solitamente prendendomi per mano e portandomi nell’androne, sulle scale,

lontano dagli sguardi di mia madre. Sapeva bene che se lo avesse visto, gli

si sarebbe avventata addosso come una tigre.

Come avrei mai potuto rivolgermi a lui ed aprirmi nel momento del

bisogno? Come potevo essere aiutato e soprattutto compreso? Quante volte

ho desiderato avere con lui un rapporto amichevole, un rapporto che forse

a noi due avrebbe aiutato a superare tanti piccoli grandi problemi e a me

farmi sentire più sicuro e più forte. Io ce la mettevo tutta, ma i risultati non

erano dei migliori. Ho tentato di tutto con lui, ma sempre con scarso

risultato. Avere un padre per amico credo che sia la massima aspirazione

per un adolescente, ma a me, in parte fu preclusa.

C’erano anche momenti belli che trascorrevo insieme con lui. Questo

accadeva quando si andava a caccia sul monte Faito, alla ”posta alla

beccaccia”. Ci si alzava alle tre del mattino e si partiva con un pezzetto di

pane in saccoccia. Io lo seguivo per i sentieri della montagna come un vero

cane da caccia. Al ritorno, mi faceva portare la doppietta in spalla, che

insieme a qualche tordo appeso alla cintola, mi facevano sentire pieno di

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orgoglio e molto spesso invidiato dai miei compagni di gioco. Erano quelle

le uniche occasioni che mi si presentavano per poter scambiare quattro

chiacchiere con mio padre.

Ricordo qualche rara carezza e ancora più raramente, l’aver camminato al

suo fianco con la sua mano poggiata sulla mia spalla: bastava solo questo,

ed era così poco, a rendermi felice e a farmi sentire sicuro e protetto, ma

forte allo stesso tempo. Dio! Quanto ho amato quei momenti rari e quanto

ne sento ora la mancanza. Anche durante gli ultimi anni della sua vita,

quando colpito da un male incurabile che lo vedeva consumarsi giorno

dopo giorno, quando mi vedevo impotente e disperato non sapendo come

poterlo aiutare, carezzandogli i capelli cercavo di fargli capire quanto bene

gli volessi e che avrei dato volentieri la mia vita per lui se questo avesse

potuto salvarlo. Poco prima di spirare volle vedermi: poche parole e una

forte stretta di mano, quasi volesse farsi perdonare di non avermi dato

abbastanza. Non si rese conto che con quell’ ultimo gesto mi aveva già

dato tutto.

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La nostra stanza

Tra un fatterello e un altro, il tempo passava e il piccolo braciere diventava

sempre più freddo, si faceva presto l’ora per dormire. Un po’ di trambusto

animava ancora la piccola stanza, prima che la giornata si concludesse

definitivamente. Lettini pieghevoli in ferro comparivano all’improvviso,

nascosti durante il giorno da tende, e vi prendevano posto le mie due

sorelle, che soddisfatte della giornata trascorsa con la maestra di taglio e

cucito, si rannicchiavano l’una accanto all’altro per meglio difendersi dal

freddo, in attesa che il sonno ristoratore le consegnasse ai sogni di tutte le

ragazze di allora.

Io dormivo in un altro lettino che dividevo con mio fratello minore e nel

quale ci si poteva a malapena girare, correndo il rischio di finire sul

pavimento, tanto era stretto per noi due. Appena la stanza piombava nel

silenzio e nel buio, illuminata soltanto da un piccolo lumicino elettrico

montato su di una statuetta in argento che raffigurava il sacro Cuore,

restavo immobile con gli occhi sbarrati a pensare cosa avrei fatto da

grande. Valutavo i miei progetti, tutto quello che avrei voluto fare per

guadagnare tanti soldi per offrire una vita migliore alla mia famiglia.

Volevo dimostrare a mio padre che valevo qualcosa. Volevo ripagare mia

madre delle tante privazioni e dei tanti sacrifici che faceva. Ma soprattutto

volevo dimostrare a me stesso, con abnegazione ed ostinata caparbietà, che

nella vita si può riuscire e l’importante era non abbattersi mai.

Ero il primogenito e mi sentivo in dovere di dare una mano, di contribuire

a tirare il carro, un fardello che, col passare del tempo diventava sempre

più gravoso ed era una sensazione che mi faceva sentire quasi in colpa.

Quello che non sono mai riuscito a capire era come faceva mia madre a

tirare avanti tutta la famiglia, amministrando quel poco che mio padre

riusciva a portare a fine mese. La paga di mio padre era la misera paga di

un modesto tornitore e noi vivevamo in un modesto decoro, senza mai

contrarre una sola lira di debito con chicchessia, nonostante questo tutti noi

andavamo a scuola.

Con l’arrivo del sonno, tutta la stanza piombava in un silenzio profondo,

cadenzato soltanto dal ticchettio di una vecchia sveglia che scandiva

inesorabilmente il tempo che passava, o dal rumore di qualche molletta da

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bucato, che il vento faceva battere sull’inferriata del balcone. Il silenzio,

quel buio appena rischiarato dalla luce di quel lumicino, quei rumori lievi,

mi facevano paura, com' è normale in tutti i bambini, allora infilavo la

testa sotto le coperte e, benché fossimo tutti in una sola stanza, avevo

l’impressione che ci fosse sempre qualche presenza estranea tra noi.

La stessa sveglia che cullava il nostro sonno, ci svegliava con il suo stonato

scampanellio, alle sei del mattino. Mamma andava subito nel cucinino a

preparare la colazione a papà che si recava al lavoro puntualmente con la

navetta delle sei e quaranta, poi preparava un po’ di caffè d’orzo, con la

quale faceva la zuppa a noialtri, solo di tanto in tanto con l’aggiunta di

poco di latte.

Le dita dei piedi nudi a contatto con il pavimento gelido si contraevano

facendo correre un brivido lungo la schiena e allora ti veniva voglia di

infilarti nuovamente sotto le coperte. Era solo il profumo dell' orzo e del

pane appena affettato sulla tavola che ci faceva alzare. Mi infilavo

rapidamente i calzini rattoppati alla meglio, le scarpe e subito dopo fuori

dall’ uscio a lavarsi con l’acqua fredda, a turno, nell’unico grosso tino di

terracotta che fungeva da vasca da bagno, da deposito per panni sporchi e

da lavatrice.

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Il vocabolario di latino

Spesse volte mi piaceva trascorrere ore intere, seduto fuori dell’uscio di

casa a guardare mia madre, che chinata su quel grosso tino, con quelle sue

braccia nude per nulla intirizzite dal freddo. Lavava lenzuola, camicie,

pantaloni e indumenti intimi, per poi stenderli tutti, magari approfittando di

una giornata di sole e occupando il poco spazio che ci spettava, facendo

bene attenzione a non sconfinare nello spazio dei vicini per evitare inutili

polemiche. Spesso canticchiava qualche vecchia canzone napoletana con

voce chiara e melodiosa e che probabilmente le ricordava qualcuna delle

poche giornate felici della sua gioventù. Poi appena si accorgeva che la

stavo osservando, estasiato, quasi rapito da quel suo modo di fare sempre

allegro e pieno di calore, abbozzava un sorriso di compiacimento

mostrando una dentatura bianca perfettamente allineata.

Com' era bella mia madre. La vicina, di casa si soffermava anch' essa a

guardarla per un attimo prima di scendere le scale e sicuramente avrà

invidiato quella donna che, malgrado i tanti problemi e il tanto da fare con

una famiglia numerosa trovava anche il tempo di sorridere e di essere

felice.

Era molto brava nel riuscire a capire i miei stati d’animo, quando ero triste

o quando volevo farmi perdonare qualche malefatta. Mi apriva quelle sue

grandi braccia nelle quali trovavo calore e rifugio e senza riuscire a

nasconderle niente le raccontavo ogni cosa, ed ho continuato a fare fino a

pochi anni fa , quando altre braccia avrebbero dovuto farlo o almeno

tentare ma con scarso risultato. Unico svago di quella donna era di fumare

mezza nazionale ogni tanto che io stesso andavo a comprarle di

contrabbando e dalla quale faceva fare anche a me una boccata di nascosto,

dopo aver sorseggiato un poco di caffè, quando si riusciva ad averne in

casa. Altre volte si faceva accompagnare per una piccola passeggiata alla

villetta comunale o a guardare l'arrivo dei tram da Castellammare o da

Sorrento, la cui fermata era proprio davanti al vicolo dove abitavamo. Fu

proprio durante una di queste passeggiate che le feci notare che aveva la

gonna con un lembo strappato e che forse sarebbe stato opportuno

acquistarne una nuova al mercatino rionale, visto che di rattoppi ne aveva

già tanti e che mi - mi pento ora a dirlo- mi vergognavo quasi di starle a

fianco. Mi guardò in silenzio poi, abbozzando il suo solito tenero sorriso,

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mi cinse la spalla con il suo grosso braccio e chinando il capo mi sussurrò

dolcemente “ figlio mio, con i soldi della gonna devo comprarti il

vocabolario di latino”. Al momento non dissi una parola, ma mi si formò

un grosso nodo alla gola tanto da impedirmi persino di ingoiare, poi

guardandola fisso negli occhi feci a me stesso solenne giuramento, che da

grande avrei fatto tutto il possibile per offrirle una vita migliore, che le

avrei comprato tutto ciò che avrebbe desiderato e che non avrebbe mai

potuto avere, che l'avrei ripagata dei tanti sacrifici. Oggi mi rendo conto di

esserci riuscito soltanto in parte anche se lei non mi ha mai chiesto né mi

ha mai fatto capire di aver desiderato qualcosa. se non il vederci crescere

sani ed onesti, nel corpo e nell'animo, e d'esserci fatti onore a scuola e

nella vita. Io non avevo capito che solo e soltanto questo era tutto quello

che una donna come mia madre avesse potuto desiderare immensamente.

Conservo ancora gelosamente quel vecchio vocabolario di latino, anche se

un po' malridotto, spesso lo prendo tra le mani e dopo aver sfogliato alcune

pagine ingiallite lo stringo forte al petto, chiudo gli occhi ed ho la

sensazione per pochi istanti, di trovarmi ancora tra quelle braccia e di

sentirne le carezze.

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Il Natale

Giorni fa, mettendo ordine tra le mie vecchie carte, mi é capitato tra le

mani un tema d’ italiano sul Natale svolto da uno dei miei ragazzi quando

frequentava le elementari: Natale é la più bella festività dell'anno é vero,

riflettendoci , non esiste festività più bella e più sentita, che più di ogni

altra ricorda il calore familiare.

Torno subito indietro negli anni, e mi tuffo nei ricordi, quando si attendeva

questo periodo festivo non tanto per le due settimane di vacanza a scuola,

quanto per potersi ingozzare di zeppole al miele, frutta secca, qualche

pezzo di pollo e altri dolcetti fatti in casa. Con l'avvicinarsi poi del 25 di

dicembre, anche la speranza di un nuovo paio di scarpe o addirittura di un

cappotto, acquistato sempre al mercatino dell'usato di Pugliano diventava

una realtà. Era chiaro che il tutto veniva programmato prima, tredicesima

permettendo.

Sin dai primi giorni di dicembre si avvertiva nell'aria una strana sensazione

come se qualcosa di grande stesse per accadere. un' atmosfera nuova, più

movimenti nelle strade e nei vicoli rionali , preparativi di bancarelle e di

addobbi vari, la comparsa dei primi zampognari e lo scoppio di tanto in

tanto di qualche mortaretto confermavano l'avvicinarsi del Santo Natale, la

festa più bella dell'anno.

Durante questo periodo ci si sentiva più buoni , più tolleranti con i vicini di

casa, con i quali si iniziava a parlare di veglioni e delle varie pietanze da

portare a tavola la sera della vigilia.

Anche io, pervaso da questa atmosfera di bontà cercavo di restare più

tempo a casa ad. aiutare la mamma come meglio potevo. Accudivo i

fratelli più piccoli, attingevo l'acqua dal pozzo giù nell' androne, andavo a

farle piccole commissioni non senza la speranza di ricavarne degli

spiccioli. II richiamo della strada con tutta la sua animosità, era più forte di

ogni altra cosa e verso sera scendevo un poco giù nel vicolo dove con i

pochi amici si giocava a nascondino o a carte oppure si accendeva un

fuoco e attorno ad esso ci raccontavamo innocenti fatterelli e si facevano

progetti per il futuro, di cosa avremmo fatto da grandi.

Nei giorni poi, che subito precedevano il Natale, ci si raccoglieva in casa

dei vicini a giocare a tombola o a carte. Erano tombolate di quindici o

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venti persone: tutti seduti intorno all'unico braciere o a qualche modesta

stufa elettrica.

La padrona di casa ad un certo punto interrompeva il gioco portando in

tavola l'immancabile zuppiera di zeppole fritte condite con miele e canditi

o con confettini colorati, accompagnata da alcune bottiglie di liquore fatto

in casa o di vermouth di marca scadente e mentre il tutto veniva consumato

in fretta. Lei osservava tutti con sguardo compiaciuto e severo dall'altro

capo della tavola e chi più poteva arraffare arraffava, senza tener conto di

alcuna norma di buona educazione, che avrebbe imposto di rispettare un

turno o seguire un ordine, ed aspettandosi sempre i soliti complimenti di

brava cuoca e di ottima padrona di casa.

La vigilia era poi il giorno più atteso. A svegliarci di buon mattino era il

vociare dei ragazzi che lavoravano nel laboratorio di pasticceria proprio

sotto casa e il rumore delle fascine che venivano trasportate dalla cantina al

forno pronto per essere acceso, oppure i passi veloci dei burrai e i loro

brusii che, animatamente con i loro cesti di vimini sottobraccio portavano

a Napoli i formaggi del Faito appena lavorati. I vari Staiano, Vanacore, i

Guida, i Cuomo, i Savarese e tanti altri che con i loro passi gravi sul

basolato di lava del Vesuvio di cui era lastricata la strada, in fila indiana o

per due, guardando di tanto in tanto l'orologio, cercavano di recuperare

qualche secondo e poter arrivare per primi alla stazione e trovare posto sul

primo treno in partenza per Napoli.

Mamma di primo mattino preparava la cioccolata calda con fette di

panettone fatto in casa, cosa che si faceva soltanto in caso di grandi

festività o compleanni, poi iniziava a preparare il cenone. Si digiunava per

tutto il giorno fino alle sei sette di sera poi tutti a tavola ad ingozzarsi a più

non posso, quasi a volersi vendicare delle tante piccolo privazioni subite

durante tutto l'anno e consapevoli che per un'altra abbuffata sarebbero

dovuti trascorrere altri dodici mesi.

Ancora oggi ricordo quei momenti e li rivivo come fossero attuali

provando le stesse emozioni di allora, specie quando incontrando vecchi

compagni di allora e proprio in occasioni di festività ricordiamo con

piacere quei tempi e non senza un pizzico di nostalgia.

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L’adolescenza, la gioventù,

gli amici ,il paese

II tre di febbraio, giorno di S. Biagio, i raggi di sole che attraverso i

finestrini del balcone tornavano a lambire una parte del lettino dove

dormivo, segno inequivocabile della imminente stagione primaverile. Quei

pallidi raggi di sole sembravano recare un messaggio di speranza, te li

sentivi giungere fino al cuore e sembravano sussurrarti “ coraggio la

brutta stagione invernale é passata, sta arrivando la primavera”.

Che bella stagione la primavera, le giornate più lunghe, l' aria più dolce e

più tiepida, la natura tutta che si risveglia dopo il torpore dei mesi

invernali. Al mattino, subito dopo colazione e mentre preparavo il fagotto

dei libri di scuola, mi soffermavo alcuni minuti ad ascoltare estasiato il

cinguettio dei fringuelli che svolazzando da un noce all'altro iniziavano a

corteggiarsi per la imminente nidiata.

Anch'io avvertivo quel pizzico di euforia, i miei tredici quattordici anni

cominciavano a farmi sentire più maturo, più uomo, specie con la

comparsa sul viso della prima peluria, e cominciavo a guardare le

ragazzine con maggior interesse. Già qualche compagno di scuola di

qualche anno più grande, vantava avventure spesso arricchite con piccole

bugie e che io amavo ascoltare cercando di imparare nuove tecniche di

conquista.

A scuola eravamo soltanto in sei i maschi e circa una ventina di ragazze,

tutte abbastanza carine, non che ce ne era qualcuna che mi interessava in

particolare, ma cercavo lo stesso di far conquiste, facendo sfoggio di tutta

la mia vivacità o con fatterelli o con battute facili, ma quasi sempre con

scarso risultato. Riuscivo solo a divertire e a volte diventare anche

simpatico ma niente di più e questo mi amareggiava profondamente.

Spesso facevo le mie confidenze più riservate a Mario, l’unico caro e vero

amico che avevo e lui mi confidava le sue.

Trascorrevamo così interi pomeriggi insiemi seduti sulle scale del portone

di casa a scambiarci opinioni e consigli e a programmare in parte quello

che sarebbe stato il nostro futuro e lo facevamo cosi bene che ci sentivamo

come due fratelli sempre disponibili ad aiutarsi l'un l'altro.

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Ognuno ascoltava, con interesse i problemi, le ansie, i timori e le

aspirazioni dell'altro. Ognuno ascoltava con il cuore e con il cuore cercava

di aiutare l'amico. Peccato che tutto finì troppo presto, Mario si arruolò

giovanissimo nella benemerita dove fece una rapida e brillante carriera e

così – per un po’ - ci perdemmo di vista. Di amici cosi non ne ho più avuti,

alcune volte ci siamo incentrati per caso e, anche se raramente, non

abbiamo potuto fare a meno di riandare, anche se per poco, nei ricordi

della nostra adolescenza, in Via Canale , tempi in cui bisognava maturare

in fretta, e rapidamente crescere e diventare grandi.

Ancora oggi lo cerco per potergli parlare di altri problemi , forse ben più

gravi di quelli di allora, problemi forse non di facile soluzione,- ma avrei,

se non altro, la certezza di essere capito ed ascoltato con il cuore.

Ho accennato prima a Via Canale, dove sono nato e dove ho trascorso la

mia infanzia e la mia adolescenza, nel piccolo rione che insieme a piazza

S.Ciro, piazzetta mercato piazzetta della Croce, Via Pozzillo e Via

Vescovado, rappresentava la parte più antica e più caratteristica di Vico

Equense. Via Canale, era popolata da una quarantina di famiglie, quasi

tutte operaie e artigiane, gente semplice ed onesta, dedita soltanto al

lavoro, con un unico obiettivo ti tirare avanti la famiglia quasi sempre

abbastanza numerosa , con decoro.

Ogni sera la piazzetta si popolava di gente e noi ragazzi con strillando

festosamente animavamo l'intero rione, mentre le donne a gruppetti, sedute

davanti ai portali dei caseggiati, discorrevano del più e del meno,

attendendo il ritorno dei propri mariti o dei figli dal lavoro mentre un odore

di minestra, quasi sempre broccoli o cavoli si spandeva per ogni angolo del

vicolo.

Solo sul tardi , quando ognuno era rientrato nella propria casa, per ultimo,

il rumore degli zoccoli dei muli e il cigolio delle ruote del carretto,

annunciavano il rientro di Raffaele il carrettiere.

Oggi di quegli scenari dal sapore eduardiano non é rimasto più nulla. Le

vecchie famiglie che popolavano il rione sono scomparse mentre buona

parte di noi giovani di allora siamo partiti per il mondo alla ricerca di

fortuna.

Non é rimasto niente, neanche il vecchio rione: infatti via Canale non

esiste più. Delle grosse mura ne hanno bloccato gli accessi da ambedue i

lati, volute da chissà quale politico o amministratore comunale e chissà per

quale scopo. Eppure via Canale é sempre stata una piccola importante

arteria di collegamento tra via Nicotera, via R.Bosco, piazzetta mercato,

con la stazione della Circumvesuviana, agevolando di molto i pendolari

che di primo mattino si recavano al lavoro con i primi treni in partenza per

Napoli.

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Quello che maggiormente rattrista é che i Vicani , sempre attenti ai

problemi del loro paese e tanto legati alle proprie tradizioni, abbiano

permesso scempi del genere, impassibili e senza un minimo di protesta.

Rimane soltanto il ricordo , un caro ricordo del rione dove hai trascorso i

primi anni della tua vita, che ti ha visto crescere sano in un ambiente pulito

ed onesto tra gente povera e dignitosa, dalla quale é venuta fuori una

generazione di valenti artigiani , bravi marinai e ottimi professionisti, tra i

quali, medici di chiara fama. Qualcuno negli anni é ritornato, forse i più

fortunati, e ha investito buona parte dei propri risparmi acquistando parte

di ciò che é rimasto di quei grossi caseggiati, non tanto per una forma di

investimento o di business vero e proprio, quanto per poter trascorrere il

resto degli anni negli stessi luoghi che lo hanno visto in pantaloncini corti,

e dove ha lasciato i ricordi più belli e più amari o forse perché troppo

legato alle proprie tradizioni o forse ancor di più per una forma di rivalsa

vera e propria rispetto agli anni di privazioni e di miseria.

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L’estate tra il ’55 e il ‘56

Durante l'estate, il nostro paese era letteralmente invaso da comitive di

turisti stranieri, il cosiddetto turismo di massa o turismo a basso costo che

in Europa faceva la sua prima apparizione, avrebbe modificato gli usi e i

costumi degli europei e poi un po’ più tardi anche di noi. Francesi, Inglesi,

Tedeschi, Danesi e Svedesi si riversavano nel nostro piccolo paese e per

tutta la penisola sorrentina,, assetati di sole e di mare. Si apriva, per i

giovani del paese, una vera e propria caccia alla bella straniera, anch'essa

attratta dalla fama del bel maschio partenopeo. Quasi tutti riuscivano a

conquistare la bella francesina o inglesina e a trascorrervi insieme una

piacevole settimana di vacanze, specie quando non si avevano materie da

riparare a settembre.

A sera gli alberghi locali erano sempre assediati, ognuno si recava a

prendere la propria conquista, il più fortunato con la lambretta, non

mancando poi di mettersi in mostra seduti ai tavoli dei bar della piazza

davanti ad una tazza di caffè o una lattina di Coca Cola oppure

passeggiando per le vie del centro e balbettando ad alta voce quel poco di

francese o inglese sgangherato e scolastico e facendo sfoggio dell'unico

paia di jeans rimesso a nuovo per l'occasione: ci si pavoneggiava tenendosi

per mano con la ragazza appena conquistata.

Per il più bravo, cioè quello che era riuscito ad avere più avventure con più

straniere e magari con le più carine era oggetto di orgoglio e di prestigio e

per tutto l'anno scolastico e non si faceva altro che raccontare, ai meno

fortunati, di quelle avventure arricchite di episodi e situazioni oggi poco

interessanti ma per quell' epoca estremamente piccanti.

Quelle straniere alte, bionde, alcune di statuaria bellezza, provenienti da

paesi all'avanguardia sicuramente per quanto riguardava l'educazione

sessuale, fornivano a noi giovani del tempo, in un paese del sud, quel

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necessario bagaglio di informazione e di ammodernamento delle abitudini

e dei nostri costumi. Basti pensare alle prime minigonne, che sarebbero

apparse di lì a poco, o ai primi bikini o ancor di più a qualche topless. Esse

lasciavano in noi, bei ricordi, e alcune volte e non di rado…qualche

colonia di streptococchi.

Infatti alla loro partenza, dopo la settimana di vacanza, tra lacrime,

abbracci e scambi di promesse , non erano pochi i dongiovanni che si

recavano furtivi in farmacia, con ricetta del medico, causa strani bruciori

accompagnati da ancor più strane perdite dagli organi genitali. Molti di

loro hanno poi sposato la loro conquista trasferendosi a Londra, Parigi,

Oslo o Berlino, più che altro perché attratti da buone prospettive di lavoro.

I più fortunati sono riusciti a formarsi una famiglia e ad adattarsi agli usi e

ai costumi locali , per molti altri é stato un fallimento e non hanno più fatto

ritorno al paese natio, forse per vergogna oppure per non offuscare

l'immagine di conquistatore che si erano fatti negli anni passati e di loro

non si é saputo più nulla. Sto parlando di anni per me molto brutti, anni

amari, forse i più brutti della mia giovinezza, di quelli che lasciano il

segno.

Era chiaro che le conquiste più significative fossero avvenute in spiaggia,

dove era sufficiente un piccolo pretesto per attaccar bottone, facendo

sfoggio delle poche parole imparate durante l'anno scolastico, per lo più

frasi già preparate. In realtà però, come sempre, a scegliere erano sempre

loro, le turiste, ma era chiaro che ad accaparrarsi le più carine erano i

cosiddetti fusti anche se sapevano pronunciare soltanto buon giorno e

buonasera. Io ero completamente fuori gioco. Preferivo non scendere

proprio in spiaggia non mettermi in mostra e restarmene da solo in disparte

con un amaro sorriso sulle labbra e una spina nel cuore. Infatti la vitiligine

che mi deturpava in parte il volto e le mani ed alcune parti del torace, con i

raggi abbronzanti del sole, finiva col mettere ancora di più in risalto la

differenza di colorazione della pelle creandomi seri problemi di

adattamento, specialmente in spiaggia.

Chi legge e sente parlare per la prima volta di vitiligine pensa a chissà

quale male o quale forma di malattia o disfunzione della pelle. Non é né

l'una né l'altra. Secondo noti dermatologi é mancanza di pigmento e pare

sia causato da choc nervoso delle cellule preposte per la sua secrezione. A

tutt’ oggi non se ne conoscono i motivi e non vi é alcun rimedio.

Dall'età di quattro anni e cioè fin dalla comparsa sul viso delle prime

chiazze, di problemi ne ho avuti, in modo particolare durante gli anni

dell'adolescenza... Non che soffrissi di complessi di inferiorità o di altro, é

che non mi é mai piaciuto mettermi in mostra ed essere oggetto di

Page 21: Il vocabolario di latino

21

osservazioni curiose,rispondere a domande imbarazzanti e poco delicate o

a commenti a volte poco lusinghieri.

A soffrirne parecchio era pure mia madre, anche se in silenzio e senza mai

lasciare trapelare alcuna emozione. Spesso dava fondo ai pochi risparmi

per portarmi da specialisti a Napoli e farmi sottoporre a strane terapie a

base di raggi ultravioletti, ma sempre con scarso risultato. Si sentiva quasi

in colpa, responsabile di questa mia situazione per il solo fatto di avermi

generato e di vedersi impotente dopo aver tentato tutto quanto era

possibile, allora, per la scienza medica.

Era proprio in quelle occasioni, che carezzandomi il capo, e baciandomi

sulla fronte mi insegnava a trasformare il mio difetto fisico in particolarità

ma soprattutto mi insegnava a guardarmi entro. Fissandomi sempre con

quei suoi grandi occhi neri, quasi a volersi far perdonare quella sua

impossibilità a risolvere il mio grosso problema. Non si rendeva conto che

era proprio il vederla soffrire in silenzio a causa mia che mi amareggiava

moltissimo e che per questo io l'amavo immensamente, ed oggi più di

allora.

Oggi incontro tante persone affette da questo inconveniente, sembra quasi

diventata la malattia del secolo e che secondo statistiche di noti istituti

dermatologici ne é affetto l'uno per cento della popolazione europea. Tocca

tutte le classi sociali, ricchi, poveri, docenti universitari, medici, noti

professionisti , dirigenti di azienda, giovani donne bellissime e persino

qualche presidente della repubblica. Pare che la causa scatenante sia lo

stress.

Page 22: Il vocabolario di latino

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La mia prima ragazza

All’età di diciassette anni ho avuto la mia prima ragazza, la mia prima

esperienza amorosa ed è stato con lei che ho goduto le prime emozioni di

un bacio appassionato, quasi rubato, dietro un carretto o un portone o in

una stradina di sera al buio.

Si realizzavano così i primi sogni, il piacere di stringere a te una ragazza

per la prima volta e sentirti finalmente uomo, insomma la prima cotta.

Aspettare per delle ore sotto la sua finestra in attesa di un cenno e attendere

che uscisse per qualche commissione e poter stare un poco insieme:

Parlare del futuro e fare progetti tenendosi per mano, momenti molto belli

specie quando il calore e l'affetto che dai ti viene ricambiato con la

medesima intensità. Ci lasciammo dopo alcuni mesi senza apparenti

motivi, pare che ai genitori della ragazza di tanta poesia non importasse

proprio nulla. Cercavano un marito per la loro figliola a breve termine e

prima che avessi potuto farlo io di acqua sotto i ponti ne sarebbe dovuta

scorrere tanta. Assaporavo, quindi, ancora troppo giovane, le prime

delusioni e le prime amarezze che pure possono scaturire da un rapporto

cosi bello.

Più avanti negli anni ho imparato alcune cose e credo che ve ne siano

ancora tante da imparare sui rapporti con il sesso cosiddetto debole.

Cos'abbia poi di debole una donna non sono mai riuscito a capirlo, ed é

quasi sempre lei a tenere i fili di un rapporto mentre, quando vuole, sa

essere assai più forte di noialtri maschi. Guai a farle capire che ne sei

troppo innamorato, significherebbe essere alla sua mercé anima e corpo, e

quando vuole sa farti soffrire fino a spezzarti il cuore. Le persone con una

certa sensibilità d'animo, le quali non esitano ad esternare subito i propri

sentimenti, le proprie ansie, le proprie emozioni e tutto quanto di più bello

si portano dentro, corrono il rischio, quasi sempre, di passare da momenti

di gioia immensa a momenti di profonda costernazione. Forse perché non

comprese subito o forse, perché mal comprese. Nel corso della mia

Page 23: Il vocabolario di latino

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gioventù é capitato spesse volte di perdere amicizie molto significative

che avrebbero potuto dare inizio a storie interessanti, per il solo fatto di

aver messo troppo entusiasmo nell'esprimere i propri sentimenti anche se

con onestà e sincerità; senza altri fini se non quello di poter contare su

qualcuno, entrare in un angolo del suo cuore e rimanerci in silenzio. Vivere

sapendo di essere importante per qualcuno su cui poter contare in ogni

momento credo sia il desiderio di tutti. Ti aiuta ad affrontare la vita con

maggior coraggio e a superarne i momenti difficili. Purtroppo pero, tutto

ciò non sempre riesce e molte volte, questo, oltre a ferirti profondamente, ti

vale anche la qualifica di immaturo. A questo punto vale la pena di citare

una massima da un manoscritto di un filosofo

Americano trovato nella chiesa di S. Paolo a Baltimora nel 1692

“Sii sempre te stesso sopratutto non fingere negli affetti e neppure sii

cinico riguardo all’ amor , perché a dispetto di tutte le aridità e disillusioni

esso é perenne come 1‘ erba”.

Sto parlando di anni in cui prima che una ragazza ti dicesse di si dovevi

prima farle una corte accanita e ancor prima che potessi infilarle una mano

tra il reggiseno ti ci dovevi almeno fidanzare ufficialmente. Oggi» se uno

ci riflette un po', si rende conto che forse era quasi tutto più bello allora, e

che tutta, questa ventata di civiltà e di progresso, che ci ha investito in

questi ultimi anni, tutta questa apparente fasulla emancipazione in tutti i

campi per un certo senso non credo abbia migliorato di molto il modo di

vivere rispetto a quel periodo,o almeno non ci ha resi più civili.

Durante l'estate di quegli anni,- sembrerà strano, trovavo spesso rifugio nei

libri di scuola. Infatti oltre a riparare l'immancabile matematica , mi

piaceva immergermi nei libri di storia e di letteratura italiana in special

modo mi piacevano Foscolo e Leopardi; avevo un obiettivo: diplomarmi e

iniziare a lavorare seriamente, volevo navigare e volevo fare presto soldi e

carriera in modo da poter tirare via da quell' unica stanza tutta la mia

famiglia e offrir loro una vita più agiata. Volevo dimostrare a mia madre

che non aveva riposto invano le sue speranze.

Aveva già pagato a caro prezzo la povera donna, l'aver sposato un uomo di

otto anni più giovane di lei, un uomo che aveva bisogno più di una madre

che di una moglie con tutte le responsabilità che questa cosa comportava

per la sua vita e per la nostra.

Page 24: Il vocabolario di latino

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Il mare, il deserto

Ho accennato prima alla via del mare»si, perché allora il mare

rappresentava l'unica fonte di guadagno rapida e sicura. Quasi ogni

famiglia della penisola sorrentina con Torre del Greco e Castellammare

comprese, mandava- anche a costo di grossi sacrifici- il primogenito

all'istituto nautico di Piano di Sorrento. Una volta conseguito il diploma di

capitano di lungo corso o di macchinista navale, con pochi anni di

navigazione specie se su navi petroliere, ti potevi risollevare dalle miserie

del dopoguerra. Durante i cinque anni di frequenza ognuno di noi faceva

grossi progetti, sognando carriere brillanti su ponti di comando o in sala

macchine,traversate oceaniche piene di fascino e di mistero e avventure

con ragazze esotiche dall'ombellico scoperto.

Si assaporava anche la gioia del ritorno a casa, dopo lunghi viaggi, pieni di

orgoglio e con le valige colme di tante cose a volte interessanti a volte

inutili cianfrusaglie. Ognuno ascoltava con grande interesse i racconti

avventurosi di qualcuno più anziano che al suo ritorno da lunghi viaggi,

tornava all'istituto per salutare vecchi insegnanti o più che altro per

mostrare qualche capo di vestiario americano. Raccontando avventure con

fanciulle sudamericane o mediorientali, magari arricchite da contorni più

piccanti. Tutte quei racconti venivano seguiti con grande interesse e

restavano oggetto dei nostri discorsi per parecchie settimane. Fino

all'arrivo di qualcun altro che ne raccontava delle nuove. Molti di noi, poi,

si sono subito resi conto che la realtà era ben diversa.

Il mare ha sempre avuto, indubbiamente, il suo fascino, un qualcosa di

infinitamente bello, un qualcosa che con il tempo ti entra nel sangue e te ne

innamori tanto da non poterne fare più a meno, come per una bella donna

ma come ogni bella donna sa essere anche amaro e cattivo. Un oceano in

tempesta, di paura ne fa venire tanta. Ti senti sballottato per giorni interi di

qua e di là come chiuso in una scatola di latta mentre onde maestose dalla

cresta frastagliata dai venti impetuosi ti vengono incontro minacciose.

Quasi a mettere a dura prova il tuo coraggio di uomo e di marinaio.

Preoccupato e sbigottito, osservi dall'oblò ben sigillato, uno spettacolo

che potrei definire unico al mondo. Solo allora ti rendi conto della

maestosità delle forze della natura e di tutta la loro potenza e che la nave,

per quanto possa essere grande e modernamente attrezzata, rimane a

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malapena un piccolissimo guscio di noce alla mercé di tanta forza

sovrumana. E’ proprio in quei momenti, che ti torna in mente la casa, la

famiglia, il paese, tutte le persone care. Poi quasi rapito da tanto

sbigottimento alzi gli occhi al cielo sempre grigio e minaccioso, e pensi a

Nostro Signore in tutta la Sua grandezza ed é a Lui che ti rivolgi con

preghiera semplice e silenziosa. Val la pena ricordare alcuni versi di un

poeta arabo del 700 “ Bisogna essere perduti nell'immensità dell' oceano o

del deserto per sapere che cosa sia la solitudine dove non canta né un

albero né un uccello, nell'aridità delle pietre e della sabbia Colui che non

conosce questo non può dire di essere mai rimasto solo". Ed é proprio da

questa solitudine povera e silenziosa che nasce la speranza e la preghiera

anche per i più renitenti, una preghiera che tutto trasforma in comunione ed

in amore. LA vita di mare,quindi,non é fatta solo di emozionanti avventure

o di spettacoli maestosi che soltanto un oceano può dare, come ad esempio

il sorgere della luna nuova nell’ Atlantico o i favolosi tramonti dell’ oceano

Indiano, ma anche di grandi rischi e di privazioni. Dopo alcuni anni, ti

rendi conto che ti manca qualcosa. Che non ti bastano più le lettere della

mamma, dei fratelli o di qualche amico, senti che ti manca un qualcosa che

ti faccia sentire più vivo, più forte, un qualcosa che ti dia una ragione in

più per tutti i sacrifici una ragione per la quale valga la pena questa vita.

Un qualcosa che ti faccia sentire meno solo in tanta immensità e alla quale

tu possa dedicare una parte dei tuoi pensieri, specie di sera sotto le stelle.

Volevo una famiglia mia : una moglie, dei figli che mi accogliessero

quando tornavo a casa. Per il navigante il concetto famiglia, ha significati

un po' particolari, sa che la scelta errata della propria compagna gli

costerebbe molto caro e che gli renderebbe la lontananza ancor più amara e

pesante. Nasce, quindi la necessità di una scelta accurata ed attenta di

quella che sarà in futuro la, propria consorte e cioè una ragazza semplice

ed onesta, affettuosa e senza tanti grilli per la testa, disposta a dividere i

rischi e le privazioni della lontananza anche per lunghi periodi e che al

ritorno si dedichi a lui anima e corpo, facendogli dimenticare con le sue

dolcezze le fatiche e le amarezze di mesi di duro lavoro. Più di ogni altra

cosa che sia una buona, educatrice dei propri figlioli ed un ottima

amministratrice, responsabilità assai gravose e spesso mal sopportate. Con

il passar degli anni poi, ti rendi conto che la fatica della lontananza da cosi

grandi affetti diventa sempre più pesante e a volte, tuo malgrado, nasce la

necessità di cambiare professione, che anche se meno lucrosa, ti consenta

almeno di assaporare la gioia incomparabile del ritorno a sera a casa .La

mia vita di navigante, quindi, non é durata a lungo. Dieci anni circa di

navigazione effettuati su vecchie carrette e su navi petroliere sulle quali ho

girato buona parte del mondo. Oltre a permettermi di guadagnare qualche

soldo in più questa magnifica professione mi ha consentito,durante i lunghi

viaggi, di visitare tanti paesi,di conoscere tante genti diverse, di impararne

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usi e costumi e sopratutto a rispettarne le tradizioni, gli usi e i costumi

molto diversi dai nostri.

Il Giappone

Nell'aprile del 1964 una grossa compagnia di navigazione americana

cercava ufficiali di macchina e di coperta da inviare in Giappone ad

assistere ai lavori di trasformazione di alcune navi petroliere di loro

gestione. Questi lavori consistevano nell'aumentare la portata dello

stivaggio attraverso l'aggiunta di tanche laterali e centrali lasciando

invariata la potenza dell'apparato motore. La chiusura del canale di Suez a

causa della guerra dei sei giorni tra Egitto ed Israele aveva segnato una

grave crisi nei trasporti marittimi per il medio ed estremo oriente

costringendo le navi a fare il periplo dell'Africa. Molte società di armatori

preferivano mettere in disarmo le loro navi, altre invece, le più forti,

preferivano aumentare la portata delle loro navi e rientrare così nei costi

sostenuti con viaggi più lunghi.. Avevo da poche settimane conseguito con

esito brillane gli esami di patentino presso la Capitaneria di porto di

Cagliari che mi autorizzava a svolgere le mansioni di ufficiale di

macchina su navi nazionali ed estere di qualsiasi tipo e tonnellaggio.

Risposi all'annuncio della AFRAN con scarso entusiasmo, nulla faceva

presagire la speranza o la fortuna di avere un ingaggio. Sicuramente gli

altri concorrenti avrebbero avuto certamente esperienze professionali

superiori alle mie. Dopo circa un'ora di attesa , una graziosa segretaria mi

fece accomodare nell'ufficio del responsabile. La conoscenza di qualche

lingua mi ha sempre aiutato nella vita, forse fu per questo motivo, o forse

per simpatia o per semplice fortuna, fatto fu che dopo dieci minuti di

colloquio, questo grosso signore americano nello stringermi la mano mi

disse che l'ingaggio era mio e che nello spazio di una settimana sarei

dovuto partire per il Giappone. II tempo necessario per il disbrigo delle

pratiche necessarie e tutto fu pronto in pochi giorni. Si avverava cosi, una

parte dei miei sogni. Non credevo ai miei occhi, ancor oggi mi domando

del perché tra tutti quelli che si erano presentati, ed erano veramente tanti

fui scelto proprio io : chissà, forse perché ero il più giovane, forse perché si

leggeva sul mio viso che ero desideroso di quel lavoro o forse solo per

semplice fortuna.. Quando lasciai l’ufficio, alcuni che mi avevano

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preceduto nel colloquio, mi guardarono con sguardi pieni di interrogativi,

altri con invidia, altri con un sorriso ironico, altri non mancarono di

accennare al solito raccomandato. Nemmeno mi voltai, tanto mi sentivo

felice, fiero ed orgoglioso. Avevo quasi l'impressione di camminare senza

toccare con i piedi per terra, come sospeso, leggero come una piuma.

Guardavo diritto davanti a me e con passo veloce verso la stazione a

prendere il primo treno in partenza, non vedevo l'ora di raccontare tutto a

mia madre. Come ho già detto: in pochissimi giorni preparai tutti i

documenti necessari e alla firma del contratto ricevetti. Oltre al biglietto

dell'aereo, un congruo bonus in dollari per spese generali. II 17 di aprile

partivo da Napoli per Hiroshima . Un viaggio molto stressante, ma la gioia

che avevo dentro e l'ansia di arrivare era tanta che non mi fecero dormire

per tutta la durata del viaggio. Finalmente, per la prima volta, mi

imbarcavo su una nave così lontana e non per partire subito, ma per

rimanervi alcuni mesi per lavori, mentre alloggiavamo in albergo in un

paese sconosciutissimo ma di cui avevo sentito tanto parlare e che era

sempre stato nei miei sogni di ragazzo. Finalmente conoscevo l’ estremo

oriente e il Giappone . Questo paese dalle mille risorse, dalla gente fiera e

orgogliosa, legata alle loro millenarie tradizioni, laboriosa ed intelligente,

leale onesta e molto ospitale. Gente meravigliosa, donne dal fascino

misterioso e discreto. All'arrivo ad Hiroshima era ad attendermi un auto

inviata dall'agenzia che mi condusse a Kure, una cittadina distante una

ventina di km, ed esattamente al Semba Hotel. Dopo aver sbrigato le

pratiche di rito mi ritirai nella mia camera e senza neanche spogliarmi mi

buttai sul letto, ove rimasi fino al mattino successivo. A svegliarmi ci

penso una graziosa vecchina che in punta di piedi e con molto tatto nel

porgermi una tazzina di caffè, cercava di spiegarmi in un pessimo inglese,

che in sala mi attendevano due signori. I due primi ufficiali della nave,

giunti qualche settimana prima, aspettavano di conoscermi per

accompagnarmi al cantiere Kawasaki per presentarmi alle maestranze

locali ed assegnarmi quelle che, da quel momento, sarebbero state le mie

mansioni. Questi signori essendo di grado più alto alloggiavano in un

albergo più grande insieme al comandante e al direttore di macchina della

nave. II Semba Hotel era una modesta pensione tutta in legno a due piani,

molto pulita ed accogliente con al centro un minuscolo giardino ricco di

fiori variopinti e pini nani, con l'immancabile vasca di pesciolini rossi

alimentata da un piccolo rigagnolo d'acqua corrente. Gli avventori

pochissimi, per lo più uomini d'affari o agenti di commercio . La

proprietaria, miss Saito, per non farmi sentire a disagio mi faceva pranzare

un po’ dopo, aspettando che tutti gli avventori fossero usciti , facendosi in

quattro per prepararmi tutto quello che di buono sapeva cucinare,

purtroppo sempre a base di riso, che io con un piccolo sforzo di finzione

dimostravo di gradire. Ogni mattino, dopo colazione, veniva l'autista del

cantiere a prendermi con l'auto aziendale e con la stessa facevo ritorno a

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sera in pensione. Man a mano che i giorni passavano cominciavo a capire

quella gente e ad adattarmi alle loro usanze, anche se non senza difficoltà.

Come ad esempio mai entrare in casa con le scarpe e a sera andare in sala

da pranzo indossando una specie di kimono. Degli appositi zoccoli di

legno erano sistemati in uno scaffale all'ingresso e mentre mi accingevo ad

andare in camera- a cambiarmi, la vecchina o mamasan, mi preparava, il

bagno caldo con sali profumati e spesse volte era lei stessa ad insaponarmi

la schiena aspettandosi poi i soliti complimenti che dimostrava di gradire

molto con lievi inchini. Ciò che non riuscivo a capire, all'inizio, era il

perché di strani sorrisetti ogni qualvolta mi strofinava il petto. Soltanto in

un secondo momento compresi che la causa era dovuta alla folta peluria

che mi copriva parte del torace e delle cosce, cosa che per i giapponesi

veniva considerato simbolo di grande virilità. Qualche problema nasceva

al sabato pomeriggio e sopratutto la domenica. Di divertimenti ve ne erano

molti, ma da solo mi annoiavo e ciò non era sfuggito a Miss Saito che tra

l'altro era l'unica persona in albergo a parlare un poco di inglese. Spesse

volte mi faceva accompagnare dai suoi due figli a fare picnic ad Hondo

park, un grazioso isolotto poco distante al quale si accedeva attraverso un

minuscolo ponticello di legno. Si era in primavera inoltrata e le giornate

erano stupende, con un clima dolce simile alle giornate primaverili in

penisola sorrentina. La gente portava i bambini fuori a giocare e ogni

famiglia faceva ben attenzione a non lasciare nel parco cartacce o altri

rifiuti, cosa che ognuno sistemava in appositi contenitori ordinatamente.

Anche le radioline a transistor erano tenute a basso volume per non

disturbare chi era venuta a godere un po' di tranquillità o anche solo per

discorrere fra di loro era cosi e lo facevano così a bassa voce che

difficilmente se ne distinguevano le voci. Le donne discorrevano tra loro

con compostezza, senza gesticolare, coprendosi il viso,di tanto in tanto,

con un piccolo ventaglio di seta quasi a voler nascondere un delicato

sorriso. Gli uomini le precedevano con fare patriarcale scambiandosi

rispettosi inchini. Restavo colpito da quella educazione tale educazione,e

da quei modi di fare tanto gentili e raffinati, da tanta civiltà. Da buon

napoletano cercai di insegnar loro a cucinare gli spaghetti al filetto di

pomodoro cotti al dente, evitando di mangiarli sempre scotti e per giunta di

contorno alla solita bistecca. Di tanto in tanto canticchiavo qualche vecchia

canzone napoletana che tutta la famiglia Saito ascoltava estasiata,

ringraziandomi poi con calorosi applausi.. Purtroppo neanche questo

bastava, mancava ancora qualcosa e lo aveva capito anche la proprietaria

della pensione.

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Aiko

Una sera tornando dal cantiere, la signora Saito mi chiese con molto garbo

se non avessi avuto niente in contrario di cenare in compagnia di un ospite

della pensione. Fu cosi che conobbi Aiko una graziosa ragazza di circa

diciannove anni che lavorava come promotrice di prodotti cosmetici e che

ogni settimana veniva a Kure da Okayama per il suo giro, restando un paio

di giorni soltanto. Cercai subito di familiarizzare facendo sfoggio del poco

di lingua che ero riuscito ad imparare durante le poche settimane di

permanenza,mentre la signora Saito cercava di tradurre ogni tanto,

facendoci da interprete assai compiaciuta. L’indomani invitai la ragazza

per una passeggiata per la cittadina, cosa che lei accettò volentieri.

Andammo a cinema e dopo ad ascoltare un po' di musica alla casa da tè.

Chissà perché a volte a favorire la comprensione tra due persone, anche se

di cultura diversa, é proprio la musica.. Basta il suono di una chitarra o di

un violino, basta una bella voce ad accomunare persone di lingua e

costume diverso, sembrerà strano ma é proprio cosi». L'indomani al ritorno

a sera mi tocca nuovamente di cenare da solo. Aiko aveva terminato il suo

giro ed era partita lasciandomi i suoi saluti e tanta gratitudine per la bella

serata trascorsa insieme . Dopo circa una settimana, nel sedermi davanti

alla solita bistecca notavo sul viso della signora uno strano sorrisetto. Mi

osservava con una certa curiosità, più del solito, e mi ronzava intorno con

la scusa di pulire,di spostare una sedia o una posata. Con piccoli passi

svelti e con movimenti molto garbati mi lanciava maliziose occhiate

coprendosi le labbra per nascondere il solito sorriso. Ben presto mi resi

conto del perché di quel comportamento. Nell’ alzare il tovagliolo scoprii

un piccolo biglietto con un piccolo fiore di gelsomino stampigliato in un

angolo e sul quale era scritto una sola parola AIKO. In un primo momento

non riuscivo a capire, chiesi alla signora Sito e lei mi spiegò che Aiko era

tornata e aspettava che io l’andassi a prendere, non sapendo se dopo una

settimana io gradissi ancora la sua presenza a tavola . Mi precipitai subito

verso la sua camera ove in Kimono e seduta sui talloni, a testa bassa, mi

salutava scartabellando tra le mani un piccolo dizionario Giapponese-

Italiano. La salutai dandole il benvenuto alla loro maniera, con un lungo e

riverente inchino le porsi la mano ed insieme andammo in sala da pranzo

seguiti dallo sguardo compiaciuto della padrona di casa. Ogni anno a

Maggio, in Giappone , si festeggia il ciliegio in fiore. I negozi restano

chiusi per tutta la giornata e le scolaresche si riversano per le strade

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addobbate con lampioncini e bandierine di carta colorata, insieme ai loro

insegnanti e genitori. Tutti ad applaudire gruppi di marjòrettes che al suono

di pifferi e tamburi marciavano festose.. Quella mattina anche io ed Aiko

ci prendemmo una vacanza,salimmo su un grosso autobus e ci recammo

ad Hiroshima . Città bellissima costruita con i più moderni criteri di

architettura anche se di tanto in tanto si notavano ancora i segni lasciati

dall'esplosione atomica dell'ultimo conflitto. Ruderi lasciati positivamente

dalle autorità , quasi come monito alle future generazioni affinché non

dimenticassero mai lo scempio arrecato da quell’ esplosione. Al centro il

Peace Museum che oltre a migliaia di foto raccoglie testimonianze di ciò

che é stata una delle più grandi vergogna della storia. All'ingresso del

museo le foto a grandezza naturale di tutti gli scienziati che presero parte

alla costruzione della bomba con sotto una scritta in varie lingue:

Giapponesi! Questi i volti e i nomi degli scienziati che hanno contribuito

alla distruzione delle città di Hiroshima e Nagasaki . Tra quei nomi

figurava anche quello di un nostro connazionale Enrico Fermi. Confesso

che come italiano non potei fare a meno di provare vergogna.

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Hiroshima

Strade larghe con traffico ordinato e sui marciapiedi puliti una

miriade di persone s'incrociava senza urtarsi, rispettosa della segnaletica.

Uomini d'affari che discutevano a bassa voce, senza gesticolare e che poi si

salutava con ossequiosi inchini, sempre con tale compostezza ed

educazione che tanto distingue questo popolo. I negozi arredati con gusto e

sempre illuminati a giorno, mettevano in mostra le loro mercanzie più

preziose. Quasi sempre all'interno personale femminile che ti accoglieva

con graziosi sorrisi. Ragazze bellissime, specie nei negozi di perle di

Hondori e Nakadori Street, le due strade più importanti di Hiroshima, dove

spesso le commesse erano assai più belle delle perle coltivate che ti

mostravano su panni di velluto rosso o verde, a migliaia. Passeggiammo

per quasi tutta la mattinata, pranzammo in un tipico ristorante locale tutto a

base di riso e pesce, e per la prima volta assaggiai il tè tipico giapponese

fatto con alghe marine. Dicono che faccia bene allo stomaco, ma posso

assicurare di non aver mai bevuto in vita mia bevanda più nauseante. A

sera andammo al circo, sotto un enorme tendone si esibivano incontri di

lotta libera, ed esercizi ginnici alla sbarra e al trapezio . Aiko ogni tanto dal

suo piccolo dizionario tirava fuori qualche parola d' italiano, che al

momento non aveva alcun senso ma che io fingevo di gradire con un

sorriso, cercando di risponderle con il poco di lingua che ero riuscito ad

imparare. Eravamo seduti l'uno accanto all’'altra, molto vicini, e ogni

qualvolta le parlavo lei abbassava leggermente la testa, quasi a vergognarsi

dei suoi occhi a mandorla. Non immaginava che buona parte del suo

fascino era proprio là, in quei due piccoli meravigliosi occhi, neri come il

carbone e cosi pieni di espressioni e di luminosità. Anche durante tutta la

passeggiata camminava al mio fianco facendo bene attenzione di restare un

passetto dietro di me. E' tipica usanza giapponese, per una donna, restare

sempre un piccolo passo dietro al proprio compagno in segno di rispetto.

Spesse volte rallentavo l'andatura per restare sempre allineati e ci volle non

poco a farle capire che pur apprezzando tale atteggiamento per me era lo

stesso, anzi preferivo sentirmela vicino. Tanto che per ultimo mi decisi a

prenderla per mano, e cosi restammo fino all'arrivo a Kure. Ormai era

diventata una normale routine di lavoro inserire Kure nel suo giro di affari.

Ogni giovedì mattina arrivava puntuale al Semba Hotel lasciandomi un

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segnale del suo arrivo, come ad esempio un biglietto o un fiore di

gelsomino sul cuscino della mia camera. Ogni giovedì, al ritorno dal

cantiere, erano le prime cose che notavo con molta gioia. Non era una

grande bellezza, viso un po' appiattito, non molto alta ma per il resto ben

fatta a parte i seni molto piccoli. Non amava truccarsi il viso con creme e

rossetti anche se curava moltissimo l'estetica delle mani. Usava un

profumo molto delicato che sapeva di gelsomino e che io percepivo subito

appena lei era in albergo. Molto dolce, dai modi gentili e raffinati, ricca di

educazione, molto legata alle proprie tradizioni, labbra carnose, dal sorriso

semplice e misterioso nello stesso tempo, che ogni volta scopriva una

dentatura bianchissima perfettamente allineata. Ebbene questa minuscola

giapponesina mi attraeva molto,tanto da farmi lasciare il cantiere un po'

prima ogni giovedì pomeriggio. Amava farmi dei piccoli modesti

regali,ogni tanto, che accettavo con piacere, piccoli giocattoli di legno o

vasetti di creme da barba . Un giorno mi regalo una cornice con dentro una

sua foto, che ancora conservo molto gelosamente. Spesse volte non

uscivamo, restavamo in albergo ad ascoltare vecchi dischi di Nato Ring

Cole o di Armstrong oppure in camera sua dove piano piano mi insegnava

un po' di lingua giapponese che io imparavo molto rapidamente, tanto da

riuscire a mettere insieme alcune frasi. Sembrava assai compiaciuta di ciò,

anche se per esprimere altre cose non era affatto necessario parlare. Aiko

spesso mi toccava il naso, me lo carezzava delicatamente cominciando

dalla fronte. Non sono mai riuscito a capirne il significato. Forse l'unica

spiegazione sta nel fatto che questa gente ha il setto nasale piccolo e

schiacciato che spesso provoca loro problemi di respirazione oltre che di

estetica e che insieme alle palpebre, fa provare a questo popolo

meraviglioso una sorte di complesso di inferiorità nei riguardi di noi

occidentali, tanto che, soprattutto oggi, le donne si sottopongono a

dolorosi interventi estetici pur di modificare i loro lineamenti per renderli

simili ai nostri. II nostro rapporto, per tutta la durata della mia permanenza

in Giappone si limitò soltanto a questo. Per i giapponesi la stretta di mano

e il bacio sulle labbra é sempre stato considerato una scambio di batteri,

anche se oggi le cose sono cambiate in alcuni paesi del sud esiste ancora

questa consuetudine e cioè limitare i saluti e le dimostrazioni di affetto ad

un semplice e riverente inchino. Ad Aiko avevo cercato di far capire che in

un rapporto dì coppia il bacio é essenziale perché rafforza i sentimenti ed é

come voler trasmettere con il proprio respiro una parte della propria anima

nel corpo dell'altro. Su ciò la trovai molto consenziente, trovò cosi

piacevole baciarsi che ogni qualvolta tornava era la prima cosa che mi

chiedeva di fare, ancor prima di chiedermi come stavo. Non vi é stato altro

tra di noi, per Aiko io ero il primo ragazzo, consapevole che ben presto

sarei dovuto partire non me la sentii di rischiare di lasciarla nei guai, forse

perché avevo visto troppi film americani con situazioni del genere, forse

perché provavo della tenerezza per quella minuscola orientale. Anche

Page 33: Il vocabolario di latino

33

perché sapevo che in Giappone il senso dell'onore é ancora molto alto e

che ben presto tra di noi ci sarebbero stati alcuni oceani e qualche

continente Una settimana prima della partenza, giunse dall'Italia il resto

dell'equipaggio della nave e con esso ci trasferimmo tutti a bordo in modo

da completare l'allestimento e iniziare ad espletare ognuno le proprie

mansioni,compresi i turni di guardia. Dopo tante settimane erano finite le

vacanze o meglio era finita la pacchia come soleva dire il comandante ogni

qualvolta si andava a pranzo. Riabituarsi alla vita di bordo era un po' duro.

Il giorno prima della partenza da Kure, Aiko venne appositamente da

Okayama ed insieme trascorremmo tutto il pomeriggio. Facemmo un po'

di shopping in modo da spendere gli ultimi Yen rimasti. Ricordo che

comprai una macchina fotografica, una collana di perle e tanti souvenir da

portare a casa . Aiko mi regalò un ventaglio di seta da portare a mia madre

e una sua piccola miniatura, pregandomi di non dimenticarla e di scrivere

di tanto in tanto. Un po' impacciato, più che emozionato, stavo cercando di

dire qualcosa, ma lei prontamente, nel poggiarmi il palmo della mano sulle

labbra, mi pregò di non dire nulla .Di non fare promesse che poi non avrei

potuto mantenere. Mi abbracciò teneramente, mentre due grosse lacrime

le scendevano per le guance. Rivivo ancora oggi, dopo circa trenta anni, le

emozioni di quei momenti solo a ricordarli. Dopo circa un anno, dalla mia

partenza da Kure, ricevetti una lettera scritta un po' in italiano un po' in

inglese dove, Aiko , mi ricordava che in Giappone si festeggiava

nuovamente il ciliegio in fiore ma che questa volta il suo cuore era molto

triste. Confesso che il mio primo pensiero fu quello di prepararmi le valige,

salire sul primo aereo per Hiroshima e andare dove mi portava il cuore.

Non me la sentii, sopratutto lasciare mia madre che forse non avrei mai più

rivisto. In Giappone non sono più tornato,anche se con Aiko siamo rimasti

in corrispondenza per diversi anni. E’ 1970 che non ricevo più sue notizie,

forse avrà cambiato città oppure si sarà formata una famiglia e il ricevere

mie notizie avrebbe potuto crearle qualche problema. Spesse volte torno

con il pensiero a rivivere quei momenti meravigliosi che tanto hanno

inciso sul mio carattere e sulla mia educazione. Forse, più avanti negli

anni, tornerò a rivisitare quei luoghi a me tanto cari e chissà se con un

pizzico di fortuna potrò rincontrare quella minuscola giapponesina.

Page 34: Il vocabolario di latino

34

Sahara Algerino: Hassir'Mel

Anche il deserto, come gli oceani, ha il suo enorme fascino.

Durante i miei due anni di lavoro ad Hassir’Mel nel Sahara

Algerino ho potuto constatare di persona quanto sia affascinante

questa immensità di sabbia e di pietre che i venti lavorano

continuamente, dando loro le forme più strane. Spazi infiniti e

silenzi profondi, rotti soltanto dal sibilo dei venti caldi,che con il

loro soffiare costante e la loro potenza, riescono a spostare intere

dune di sabbia da una zona ad un' altra trasformando continuamente

il paesaggio. Nel deserto c'è vita, questo potrà sembrare strano a chi

si dovesse trovare per la prima volta per lavoro o per turismo nel

Sahara. Immerso in questo mare di silenzio e di solitudine, tra pietre

aride e sabbia lucente, sotto un sole impietoso in un cielo sempre

terso di un azzurro intenso, vivono intere mandrie di dromedari ed

enormi greggi di pecore e capre. Brucando la poca erba che trovano

assai ricca di sostanze nutrienti e dissetanti, riescono a sopravvivere

garantendo a loro volta la vita a piccoli gruppi di nomadi che a

secondo dei periodi si spostano continuamente da un' oasi all'altra

con tutte le loro masserizie. Infatti, il latte, i datteri e ogni tanto un

po' di carne di montone o di dromedario costituiscono elementi

essenziali per la sopravvivenza di queste genti. Sono proprio queste

poche cose che offrono, insieme ad un po’ di pane azzimo, al

viandante turista o pellegrino che si trovasse a passare davanti ai

loro accampamenti. L'ospitalità per questa gente é sacra, l'ospite é

considerato come messo di Allah. Durante la mia permanenza nel

deserto, durante i lavori di montaggio del Gasdotto Algeria-Italia,

vivendo quasi sempre a contatto con gruppi di nomadi che

lavoravano al nostro campo base, mi sono capitati numerosi episodi

e credo che qualcuno valga la pena di essere raccontato.

Page 35: Il vocabolario di latino

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Le nozze di Mohamed

Uno degli addetti alle pulizie in cucina prende moglie, la prima

moglie. Raramente gli arabi fanno partecipare europei a cerimonie

cosi solenni, sono molto gelosi delle loro usanze, io sono stato uno

dei pochi fortunati. Vuoi perché trattavo con molta umanità questa

gente, vuoi perché all'ora della preghiera li facevo smettere di

lavorare un po’ prima in modo che avessero il tempo necessario di

fare le pulizie al proprio corpo prima di pregare. Spesse volte

pregavo anche io insieme a loro, si perché nel deserto ho riscoperto

la preghiera, ho imparato a pregare Dio. Forse è stato proprio questo

il motivo dell’invito di Mohamed alle proprie nozze.

Attorno ad alcuni grossi fuochi, ogni tanto alimentati con sterco

di dromedario essiccato dove venivano arrostiti alcuni montoni

uccisi per l'occasione, sedevano da una parte i familiari dello sposo

e dall'altra quelli della sposa. Soltanto i maschi. Le donne erano

intente a preparare la sposa , che io non sono mai riuscito a vedere

in viso, sotto una grossa tenda nera tutta addobbata di nastri colorati.

Ad un certo punto un gruppo di nomadi anziani, parenti dello sposo,

lascia il proprio posto per andare a sedere accanto ad un fuoco più

grande dove stavano seduti i parenti della sposa. Iniziano così le

trattative per il contratto finale. Io me ne sto in disparte sempre

guardingo ad osservare silenzioso e non nascondo anche con un po’

di paura. Soltanto a contratto concluso con baci e abbracci, vengo a

sapere che il povero Mohamed ha dovuto pagare al futuro suocero

un dromedario, otto capre e alcune migliaia di dinari locali, pari a

poche centinaia di migliaia di lire italiane e che la sposa aveva

appena compiuto gli undici anni d’età.. Dopo alcuni minuti lo

sposo, tutto raggiante e coperto da un grosso mantello bianco, si

avvia verso la tenda nuziale sputando di tanto in tanto un liquido

rossastro che gli viene dalla masticazione di una miscela di tabacco

ed erbe aromatiche, secondo antiche tradizioni beduine molto

eccitanti. Fa uscire tutte le donne, che, anche se anziane, sono

sempre con il viso coperto dal tradizionale velo , entra e chiude la

tenda dall'interno. A questo punto la cosa più strana: i nomadi seduti

Page 36: Il vocabolario di latino

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attorno ai fuochi iniziano a battere con dei bastoni su grossi

coperchi di latta facendo un frastuono infernale e come se non

bastasse irrompono al centro del campo alcuni guerrieri nei loro

costumi tradizionali che in groppa a dei meravigliosi purosangue,

veloci come il vento lasciano partire alcune scariche a salve da

vecchi fucili da caccia. II tutto tra le urla festose delle donne che

emettono un suono gutturale stridulo prodotto dalla vibrazione della

lingua. Tutto il campo é un via vai di gente che urla e suona a più

non posso. Io rimango seduto al mia posto, immobile ed affascinato,

e soltanto alla fine apprendo che le urla e tutto il baccano servivano

a coprire le eventuali grida di dolore della povera sposa che veniva

deflorata con brutale e disumana violenza. Dopo circa mezz'ora di

permanenza sotto la tenda i tamburi tacciono e lo sposo tutto

raggiante in volto, inorgoglito dalla sua provata mascolinità, esce

per andare a sedere nuovamente vicino ai, parenti e a raccontare

come è andata. Tutte le donne anziane che prima avevano

preparato la ragazza ritornano nuovo sotto la tenda e ne escono

subito dopo mostrando agli invitati tutti un piccolo batuffolo di

cotone macchiato di sangue, a dimostrare la illibatezza della

fanciulla. A questo punto ricomincia il baccano e si conclude il

contratto nuziale definitivamente. Si da cosi inizio al banchetto a

base di carne di montone con riso lesso, datteri e una specie di

biscotti dolci, pane azzimo accompagnato da brocche di latte di

capra. Se per puro caso, per difetti di imene, o per anemia o per

qualsiasi altro motivo di disfunzione della povera sposa, non si

fossero viste quelle poche gocce di sangue significava che la

ragazza non era vergine pertanto lo sposo con i propri familiari

ritenendosi offeso ed imbrogliato rompeva il contratto. Quasi

sempre, in casi del genere, la discussione tra le parti durava tutta la

notte e spesse volte finiva a coltellate. Quella é stata l'unica e sola

volta che ho partecipato a feste del genere.

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Una persona che non

dimenticherò mai

Ogni venerdì si celebrava la festa cranica era il giorno

equivalente alla nostra domenica. Usufruivamo di mezza giornata di

riposo che ognuno trascorreva a leggere, scrivere a casa oppure

giocando a carte o facendo delle piccole escursioni in Land Rover,

fino alle oasi di Metlilli o Ghardaia senza però allontanarsi troppo.

Fu appunto al ritorno da una di queste gite che al campo base mi

capito di incontrare una persona, venuta appositamente da Algeri a

farci visita: un missionario dei Peres Blanches. Giovane, sui

trentacinque anni, molto colto, sempre sorridente, ogni venerdì

pomeriggio veniva a celebrarci la Santa Messa percorrendo circa

mille km i pista desertica..Sempre disponibile ascoltava con

interesse, ma sopratutto con il cuore, le nostre storie, quasi sempre

poco belle, riuscendo a trovare parole di conforto e di

incoraggiamento facendo sfoggio del suo sorriso aperto e

rassicurante. Con don Agostino instaurammo subito un rapporto di

cordiale ed affettuosa amicizia, e lo aspettavamo tutti con

trepidazione per poterci confessare ed ascoltare la Santa Messa.

Spesso pernottava da noi, ero io stesso a preparagli un alloggio che

anche se modesto, dimostrava di gradire sempre con piacere.

Diceva che quelle poche ore trascorse tra noi gli davano la

sensazione di sentirsi in Italia. Il primo Natale in Algeria toccò a

me, essendo uno degli ultimi arrivati, insieme ad altri sei tecnici

italiani. Fui costretto a rimanere di guardia al campo. Ebbene pur

avendo già vissuto esperienze del genere durante i miei pochi anni

di marinaio, posso assicurare che trascorrere il Natale lontano dai

propri cari é una fatica che l'animo umano non riesce a sopportare

tanto facilmente. A questo punto ecco entrare in scena don

Agostino. Questo giovane missionario trascorse tutto il periodo

Natalizio al campo a farci compagnia, facendoci pesare meno la

lontananza Ricordo che durante una passeggiata gli chiesi come mai

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un giovane colto e pieno di vita trascorresse lunghi periodi in posti

tanto lontani, quasi dimenticati da Dio, percorrendo migliaia di Km

e senza non poca fatica per celebrare la Messa ad un piccolo gruppo

di espatriati costretti a quel duro lavoro dalle necessità della vita.

Sarebbe potuto restare ad Algeri presso la Nunziatura Apostolica

dove svolgeva funzioni di segretario, con tutte le comodità con

l’aria condizionata e magari tra gente del suo stesso livello socio

culturale, oppure tornarsene nella sua Vicenza e trascorrere il Natale

con i suoi che tanto amava. Invece si fermò con noi e per un attimo

guardandomi e poi poggiandomi il braccio sulla spalla e con il suo

solito sorriso, mi disse “ Non puoi immaginare la gioia che provo e

1'appagamento che provo nel sacrificare poche ore della mia vita

per gli altri, percorrerei anche diecimila Km se fosse necessario per

celebrare la Messa sia pure per uno di voi soltanto”. Poi riguardo al

posto dimenticato da Dio continuò così “ Non esistono posti

dimenticati da Dio,più questi sono lontani e più Dio è vicino a te,.

infatti egli ora é qui con te mano nella mano, la tua bagnata di

sudore la sua di sangue”.

La notte di Natale improvvisammo un altare all'aperto sulla

sabbia rossa del deserto illuminato soltanto dal chiarore della luna e

delle stelle tra le quali si vedeva nitida nella notte tersa del deserto la

costellazione della Croce del Sud.. Tutti insieme cantammo il "Tu

scendi dalle stelle" mentre si celebrava la Messa di mezzanotte. A

cantare vi era anche chi non entrava in una Chiesa da più di trenta

anni. Un’ esperienza unica che fa parte dei miei ricordi più cari e

non manco mai di ricordare nelle mie lettere la figura di Sua

Eminenza don Agostino Marchetto. Già perché don Agostino alcuni

anni fa é stato consacrato vescovo di Astigi e alla cerimonia io e la

mia famiglia avemmo l' alto onore di partecipare. Dopo l’Algeria é

stato nunzio apostolico in quasi tutto il continente Africano

compreso il Madagascar e le isole Mauritius , attualmente é nunzio

apostolico a Minsk in Bielorussia quale primo ambasciatore del

Papa dove svolge la sua missione con lo stesso entusiasmo e la

stessa forza di allora.. Sono sicuro che di persone così non se ne

incontrano tutti i giorni, ma quando ti capita é proprio nei posti più

strani ed impensati, lontani dalla cosiddetta civiltà. Sono proprio

loro che, animati da spirito di iniziativa pronti ad affrontare ogni

sorta di privazione e sacrifici, ricchi soltanto di altruistica bontà e

armati di fede cristiana, fanno riacquistare la fede in Cristo a chi l'

ha persa e la rafforzano in quelli che ce l’hanno debole.

Fortunatamente esistono ancora sacerdoti di questo genere. L' aver

incontrato questo giovane missionario, nel deserto del Sahara, in

un'oasi sperduta lontano dal mondo, in un momento tra i più difficili

della mia vita, quando ti abbandonavano speranza e fiducia, quando

Page 39: Il vocabolario di latino

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sentendoti solo e lontano dagli affetti più cari persino la fede

vacillava, é stato per me una grande fortuna, e un po’ come accade

in quei racconti del Reader's Digest posso poter dire che Agostino é

una persona che non dimenticherò mai.

Il ricordo dei compagni di scuola

Amo molto trascorrere parte del mio tempo libero tra le mie

vecchie cose libri di scuola vecchie litografie, foto ingiallite dal

tempo e tanti altri oggetti . Sotto lo sguardo attento di Andrea , che

nel vedermi rassettare con tanta cura vecchie cianfrusaglie, non può

fare a meno di domandarmene il perché, sapendo che ad ognuna di

esse é legata una storia,interessante o meno, ma che comunque fa

parte di ricordi a me molto cari. Ci sediamo, sul divano, l'uno

accanto all'altro e con una vecchia foto del 1952 tra le

mani,comincia a chiedermi curioso. Sa bene mio figlio Andrea che

a me piace raccontare e ricordare ed io lo faccio con piacere, specie

se chi mi sta davanti sa ascoltare pazientemente. Dietro la vecchia

foto una scritta : classe II F S. Agnello di Sorrento anno scolastico

I952/53. La classe, una mista,composta in buona parte da ragazze.

Infatti su circa 22 alunni noi maschi eravamo soltanto in otto. Con

alcuni di essi ci siamo incontrati spesso negli anni, chi in giro per il

mondo come me, chi invece si é dedicato all'attività commerciale

seguendo le orme paterne, chi ha preferito non fermarsi al diploma

conseguendo la laurea e oggi é un brillante manager, chi meno

fortunato e ancor giovane é passato a miglior vita, stroncato dal

male del secolo. Con le ragazze é stato meno facile incontrarsi

avendo buona parte di esse intrapreso la carriera dell'insegnamento

nei vari istituti della penisola sorrentina: Laura, Maddalena,

Giovanna, Franca, Mariagrazia, Anna, Lidia, Margherita e varie

Maria, le ricordo tutte come fosse ieri eppure sono passati da allora,

più di quaranta anni.. Chissà perché quando ci si incontra dopo tanto

tempo é sempre con immenso piacere, é come rivivere un po’ della

nostra prima giovinezza. Appena subito dopo i primi convenevoli,

comincia tutta una serie di: ti ricordi di questo o di quello del

professore di italiano o della professoressa di matematica, per

concludere con un breve sommario di quello che é stata là nostra

Page 40: Il vocabolario di latino

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vita. Si avverte la necessità di volersi aprire ad un vero e sincero

amico come ad un fratello, riconoscere che anche l’altro ha un’

origine e una storia comune con te, e lasciarsi andare a raccontare

cose personali anche se non ti vengono chieste.

Margherita

Così mi ricordo di Margherita che sentì il bisogno di scaricarsi

un po’ dell'amarezza che si portava dentro: voleva semplicemente

essere capita, o essere seguita con il cuore. Si passava spesso la

mano tra i capelli o si aggiustava l'ultimo bottone del golfino, come

voler mascherare in parte quel suo invecchiamento dovuto al tempo

che era passato per entrambi, ma anche a delusioni e dispiaceri, l

'aver perso qualche figlio in tenera età o forse con problemi di droga

e non sapere come fare per tirarlo fuori. E mentre lei raccontava, io

per qualche attimo con la mente ritornai a quel lontano 1952,

quando lei con il nasino all'insù e la coda di cavallo, con due piccoli

seni che appena le gonfiavano il grembiule di scuola, con le labbra

pulite, appena umettate e lucidate dal burro di cacao, con due occhi

grandi e luminosi e il visino rosso sempre sorridente, nessuno di noi

sapeva ancora cosa ci avrebbe riservato la vita. Ora li davanti a me,

un po’ trasandata, a raccontare le sue pene fissandomi sempre coi

suoi begli occhi grandi ma questa volta bagnati di lacrime.

Page 41: Il vocabolario di latino

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Suor Giuseppina

Quante storie, quanti ricordi, a volte piacevoli a volte un po’

amare, ma sempre struggenti e profondamente umane. Mio figlio

guarda la foto e ascolta il mio racconto, così gli mostro un’altra

ragazzina.” Vedi questa ragazza alta poco più di un soldo di cacio

con due lunghe trecce e che si nasconde dietro le compagne quasi a

non volersi far ritrarre dal fotografo ? Si chiamava Anna» Già,si

chiamava, non perché fosse morta ma perché ha cambiato il suo

nome da ragazza in Suor Giuseppina. E’ L'unica che ha preso i voti

ed é rimasta nel convento delle Suore Della Parità in S.

Agnello,dove era già ospite sin dal 1950.”

Con Anna ci siamo incontrati poco tempo fa ,cosi quasi per

caso. Subito mi ha riconosciuto e nel salutarmi calorosamente non

ha mancato di ricordarmi, quando seduto al banco subito dietro di

lei, la tormentavo tirandogli le piccole trecce. Ebbene parlare di

Anna e del lavoro che svolge attualmente, trovare le parole adatte

per definire la missione che questa piccola grande suora svolge, non

é impresa da poco. Insieme ad altre due o tre consorelle si occupa

del collegio della Purità che raccoglie neonati abbandonati, bambini

tolti alla custodia dei genitori causa maltrattamenti, ragazze madri e

chiunque bussi alle porte convento per chiedere aiuto. Gestisce il

tutto con piccole sovvenzioni e modeste offerte di cittadini. E’

riuscita ad accudire fino a cinquantatre neonati . Ogni tanto vado a

farle visita: mi riceve nel suo piccolo salottino dove un grosso

Crocifisso troneggia alla parete e sembra quasi volerti dire che i

modi per amarlo e servirlo sono tanti, oltre la preghiera, ma che

certamente l'opera di Suor Giuseppina é la più gradita, é la più

nobile é la più grande. Quando esci dal convento ti senti più

tranquillo, quasi come se un velo di serenità e di pace fosse

penetrato in te. Ti rendi conto allora che non esiste opera più bella

dell'onorare la propria vita. Che viverla sacrificandola per il bene

degli altri. Ho dato ad Anna l' appellativo di piccola grande suora,

Page 42: Il vocabolario di latino

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perché sono fermamente convinto che non esiste persona più alta di

chi si dona agli altri.

Fissando con sguardo sempre più attento alla vecchia foto,

piano piano si ha l’impressione di esserne risucchiati e di tornare

indietro nel tempo, di ritornare in mezzo a loro e di rivivere quei

momenti. Sono tutti li davanti a me: Caccioppoli, Carbone,Cinque,

Marnilo, De Maio, Russo, Montella, Pollio. Visi puliti dagli sguardi

onesti e sinceri non ancora imbruttiti dalla cattiveria, dall'invidia e

dalle ingordigie della vita. Mi rivedo in mezzo a loro felice e

spensierato, ancora senza sogni nel cassetto, con l'unica

preoccupazione di come poter racimolare un sei in latino o in

matematica.. Vorrei poterli abbracciare tutti, vorrei poter chiedere

loro scusa se qualche volta ho commesso ingenue mancanze,

stringerli tutti in un forte abbraccio collettivo, specie chi ora non é

più tra noi. Poter dire loro: “voglio a tutti voi un gran bene “.

Sono passati più quaranta anni da allora e di cose ne sono

successe, tante e tali da aver inciso profondamente sulla nostra vita.

Di una cosa però sono certo, gli eventi non hanno mutato i nostri

cuori, anche quelli dei meno fortunati. Lo dimostra il fatto che ogni

qualvolta ci si incontra, non si può fare a meno di stringersi in un

caloroso fraterno abbraccio che certamente non ha bisogno di

parole. Nel riporre la foto, dissi ad Andrea che un giorno anche lui

avrebbe ricordato in questo modo i suoi compagni di scuola.

Page 43: Il vocabolario di latino

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Lunedì 23 Gennaio 1995:

la malattia

Ho sempre avuto un carattere aperto e gioviale, dalla battuta

facile, sempre disponibile al sorriso, un qualcosa che ti nasce dal di

dentro. A volte basta una giornata di sole, il canto di un uccello, un

bel tramonto o una bella canzone a cancellare ogni sorta di

malinconia e di tristezza. Purtroppo, non sempre questo genere di

atteggiamenti desta simpatia negli altri. Esistono alcune persone non

facili da individuare e per fortuna non in gran numero, che si

portano dentro ogni sorta di monomanie e di complessi. Gente

incapace di amare e di gioire, di saper godere anche di un semplice

sorriso, incapace di saper apprezzare i momenti belli che ti offre

questo bene cosi grande e prezioso che é la vita , con tutte le sue

meraviglie e le sue magie. Sebbene senza aver fatto loro il benché

minimo torto, senza aver arrecato scortesia alcuna , spesso ti

tolgono il saluto e quando li incontri cambiano addirittura strada

evitando anche un semplice sguardo. Se ne stanno da soli, rigirando

tra le mani qualche pagina di giornale, cosi soltanto per darsi un

tono o quasi a voler far capire agli altri di voler restare da soli,

vittime soltanto dell'ipocondria e dell’ incapacità di comunicare che

si portano dentro. Eppure basterebbero poche sedute da un buon

psicanalista a risolvere tanti loro problemi. L' incomunicabilità poi,

é quasi sempre accompagnata da una buona dose di cattiveria e di

invidia appunto verso quelle persone -sempre disponibili,allegre e

che gioiscono con poco.

A mano a mano che passano gli anni va via un po’ di vita e

con essa un po’ di entusiasmi, ma il carattere rimane, anche quando

cominciano ad affacciarsi acciacchi, più o meno gravi. E’ così caro

Andrea accadde che un triste giorno, mi trovai faccia a faccia con la

malattia. Cominciò con delle semplici visite presso il medico di

famiglia molto scrupoloso, il quale, non convinto di un esame me

ne fa fare altri e poi altri ancora. Ogni volta c’era sempre qualcosa

Page 44: Il vocabolario di latino

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che non convinceva. Dopo mesi di esami del sangue e di radiografie

varie, e di visite presso luminari della medicina, ebbi la sentenza.

La prima domanda che ti viene da fare al professore è quanto mi

resta ancora da vivere; al che il medico senza guardarti negli occhi,

come a vergognarsi di dirti una bugia, cerca di tranquillizzarti

prescrivendoti antidolorifici e qualche controllo ogni fine mese.

Uscii dallo studio un poco frastornato, demoralizzato, mi pareva che

tutta quella carica di vitalità e di voglia di fare che tanto aveva

caratterizzato la mia vita fino ad allora scomparve d’un sol colpo.

Da quel preciso istante la mia vita fu determinata dai tempi di

evoluzione della malattia e comunque fossero andate le cose a me

non sarebbe rimasto molto da vivere.

Mano a mano che passavano i giorni avevo l'impressione di

entrare in un isolamento quasi totale. Diffidenza, curiosità, paura di

contagio e falsa commiserazione furono le prime cose che notavo

negli altri. Alcune anche nelle persone più vicine. In quelle che

avrebbero dovuto colmare la solitudine interiore con tutto l'affetto

ed il calore di cui un uomo nelle mie condizioni avrebbe avuto

bisogno. Credo che la tenerezza e l'affetto siano le prime cure per

tutti i mali, a volte con risultati addirittura superiori agli ultimi

ritrovati della medicina. Piano piano si smorzava in me la gioia di

vivere. Pensavo al passato e alla vita vissuta e a tutte le cose che

avevo fatto e a quelle che ancora avrei voluto fare.

Cominciai, a perdere entusiasmi ed interessi: in poche parole

cominci a sentirti una nullità. Pensavo e te caro Andrea e a tutti voi

Tu studiavi ancora e avevi ancora molto bisogno di me. Pensavo

alla gioia immensa ed alla tenerezza che avrebbe potuto darmi

l'abbraccio di un nipotino. Vederlo crescere sano e forte, giocare

con lui. Si dice che le cattive notizie non giungono mai da è sole,

anche stavolta tanto per non smentire il proverbio la mia triste

diagnosi giunge insieme alla notizia della perdita del lavoro. Ho

sempre considerato il lavoro la parte più importante nella vita di un

uomo, spesso anche più importante della stessa famiglia II lavoro è

onore e dignità, specie per chi gli ha dedicato tutto se

stesso,cercando di affermarsi dando quel senso di agiatezza alla

propria famiglia. Ma quando sei in disgrazia il tutto si risolve con:

una stretta di mano, qualche parola di elogio e di incoraggiamento,

qualche modesto assegno, uno sguardo dispiaciuto appena velato di

falsa ed ipocrita commiserazione. Sono stati il grazie che una

grande e potente azienda mi tributò per averle dedicato metà della

propria vita lavorativa.

Mi veniva quasi da ridere nel leggere negli occhi di chi mi

stava davanti un certo imbarazzo nel non riuscire a trovare una

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forma anche semplice modo di dire “spiacenti non abbiamo più

bisogno di lei”. Forse lo dissero anche,forse dissero anche tante

altre belle frasi, sicuramente già preparate. Frasi di circostanza che

si dicono in quei momenti, ma la mia mente era assente, molto

lontana. In quei pochi minuti non trovandosi davanti il solito

dipendente avvilito e piagnucoloso sicuramente pensarono di

trovarsi davanti ad una persona superba e irriconoscente: loro non

sapevano cosa stavo passando. Con una calorosa stretta di mano ed

un leggero sorriso appena velato di malinconia uscii con la stessa

dignità con la quale ero entrato quindici anni prima. Dopo alcune

settimane di forzato riposo, cominciarono a comparire i primi

sintomi del male, strane coliche addominali che insieme ad una

repentina perdita di peso affievolivano sempre di più le mie

speranze. Consapevole della gravità della situazione mi resi subito

conto che nei mesi successivi avrei patito atroci sofferenze che mi

avrebbero consumato piano piano fino alla morte. II leggere negli

occhi dei miei ragazzi,sempre umidi,dolore e costernazione mi

rendeva ancor più penose ed amare le giornate che sembravano

interminabili.

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Martedì 20 Febbraio 1995

La notte dormivo pochissimo,con lo sguardo sempre fisso al

soffitto. Non potevo e non dovevo arrendermi cosi, lasciare che il

male mi consumasse poco a poco senza, tentare qualcosa, non

dovevo rassegnarmi. Il volto di padre Pio da Pietralcina, da un

dipinto ad olio attaccato alla parete, pareva guardarmi fisso dalla sua

folta barba. Questo grande santo, santo vero, santo italiano, con i

suoi grandi occhi pieni di amore e di sofferenza,sembrava

incoraggiarmi a non arrendermi, a non rassegnarmi e a lottare

perché solo lottando si può vincere. II mattino seguente, mi alzai di

buon’ ora, e mi recai a Vico, il mio paese natale, come se qualcosa o

qualcuno mi spingesse a farlo. Chiesi consiglio ad un vecchio

medico di famiglia che dopo aver dato una rapida occhiata alle

analisi ed alle radiografie mi suggerì di sottopormi, senza indugio,

al trapianto del fegato prima che fosse troppo tardi. II 27 di Febbraio

partivo per Torino, presso un grosso ospedale sicuramente tra i più

attrezzati d'Italia per interventi del genere. II primario del centro

trapianti mi visitò accuratamente e dopo ever intuito l'entità del mio

male mi prescrisse una serie di esami da farsi presso il centro stesso.

Con il passar dei giorni mi resi subito conto di essere capitato

nel posto giusto. Educazione e pulizia oltre ad una grande

professionalità, mi restituirono speranza e fiducia.. Un’ equipe

medica meravigliosa che lavorava fino a 15 ore al giorno

alternandosi anche di notte con perfetto sincronismo, formata da

giovani specialisti e da un corpo infermieristico altrettanto giovane e

preparato, davano all'ammalato spesso ridotto già a larve umane

quel senso di fiducia e di coraggio tali da far ritornare un filo di

speranza anche nei cuori più affranti. Rimasi a Torino alcune

settimane durante le quali fui sottoposte ad una serie di esami alcuni

di essi molto dolorosi ma necessari prima di essere sottoposto

Page 47: Il vocabolario di latino

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all'intervento di trapianto appena si rendeva disponibile un organo

compatibile. Spesso dovevo sottopormi ad esami abbastanza

delicati che richiedevano una certa preparazione, come spogliarmi

completamente ed essere depilato anche nelle parti più intime. Alla

paura non mancava un senso di imbarazzo e di vergogna, specie

quando chi doveva prepararmi era una bella infermiera poca più che

ventenne che con mani esperte e con gran professionalità e

delicatezza, cercava di mettermi a mio agio, tutto accompagnato

quasi sempre dal solito sorriso, dolce e spontaneo. E' in momenti

come questi che ti rendi conto di cosa sia veramente un bel sorriso e

di quanto sia importante . Non costa niente e rende molto,

arricchisce chi lo riceve senza nulla togliere a chi lo dona, nessuno é

abbastanza ricco per farne a meno o abbastanza povero per non

meritarlo. Esso sembra volerti suggerire “sii sereno,fa in modo che

il tuo cuore non soccomba alla paura del dolore, alle tante

preoccupazioni che in questo momento ti assillano, perché noi

stiamo vegliando su di te e non ti abbandoneremo”. Terminata la

serie di analisi mi detto di essere stato messo a ruolo e di attendere

la chiamata dall'ospedale appena fosse giunto il mio turno.

Iniziò cosi una snervante attesa che si protrasse per circa sette

mesi. Le giornate mi ridiventarono interminabili. Benché fiducioso,

spesse volte forti coliche addominali non facevano presagire nulla

di buono. Amano a mano che le settimane passavano non riuscivo

ad accettare la situazione di inoperosità, cosa che mi capitava per la

prima volta nella vita. Il vedermi messo da parte, il restare inattivo

per delle settimane, per dei mesi, il sentirmi un essere inutile in un

momento in cui avrei potuto ancora dare il meglio di me stesso,

credo sia stato per me più doloroso delle coliche stesse.

Page 48: Il vocabolario di latino

48

Agosto

Finalmente una telefonata dall'ospedale mi informò che entro

quindici giorni avrei dovuto trovarmi a Torino. essendo prossimo il

mio intervento di trapianto epatico.

La domenica 27 Agosto, con la fronte appoggiata al

finestrino,osservavo la pista mentre i motori con il loro rombo

assordante si preparavano a lasciare l'aereo-porto di Capodichino II

cuore mi batteva forte nel petto quasi a volerne uscire mentre

giovanili emozioni e fantasmi del passato mi tornano in mente. In

un attimo raggiungemmo la quota di circa duemila metri di

altitudine in volo per le Molinette, ove mi aspettavano per

restituirmi ad una nuova vita.

Non ero abbattuto, anzi partivo fiducioso. Erano tante le

preghiere rivolte alle persone care che tenevo in paradiso e forse

avevano ascoltato le mie suppliche: sarei ritornato ne ero sicuro .

Man mano che la terra si allontanava, un ultimo sguardo a Napoli al

mare al Vesuvio che scompariva alla mia destra verso sud. Chiusi

gli occhi e con la testa poggiata allo schienale riandai per un attimo

a Pietralcina, mi tornarono in mente via, Canale, l'infanzia bella ed

amara insieme, i vecchi compagni di scuola, il sorriso aperto e

sincero di qualche persona cara che per ultima nell'augurarmi buona

fortuna mi aveva accompagnato con la luminosità dei suoi occhi.

Mi tornò in mente il volto di mia madre, col suo sguardo

rassicurante come per dirmi “vai tranquillo io ti sarò sempre

vicino”. Ricordai i suoi forti abbracci ogni qualvolta tornavo dai

miei lunghi viaggi di marinaio. Quando magrissimo dovevo

pregarla – prendendola in giro scherzando -di non stringermi troppo

altrimenti correvo il rischio di rompermi qualche costola e lei mi

Page 49: Il vocabolario di latino

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stringeva ancora di più e più stringeva e più rideva divertita. La

stessa cosa la dissi ai ragazzi prima di partire e loro, con gli occhi

rossi di pianto “papa torna presto noi tutti ti aspetteremo con

ansia”. Molte volte, durante il corso della vita si ricevono dei colpi

tanto duri che si ha l'impressione di non aver più la forza di rialzarsi.

Io però avevo ancora speranza, come se fossi sorretto da una forza

che mi veniva da dentro, una forza sovrannaturale. Era la forza

alimentata dalla fede, alla quale mi aggrappavo con tutta la mia

disperazione e con tutte le poche energie che mi rimanevano.

Soltanto dopo, soltanto quando si è superato tutto e si ritorna di

nuovo in piedi, solo allora si avverte dentro una tranquillità ed una

pace che ti fanno dimenticare il passato, e i suoi dolori, i rancori, i

torti, le amarezze e ogni forma di cattiveria subiti. Il passato rimane

lì, non si dimentica niente, ma è come se la serenità raggiunta te lo

facesse guardare con altri occhi. Così era accaduto a me. Mi sentivo

in pace con tutti e avrei voluto gridarlo ai quattro venti.

Page 50: Il vocabolario di latino

50

Il trapianto

Mercoledì 10 ottobre

Le settimane precedenti l’intervento le trascorsi a Torino in

day hospital, e mi sembrarono interminabili. Le ore non passavano

mai. Facevo trascorrere il tempo con lunghe passeggiate al

Valentino, osservando immobile lo scorrere dell’ acque del Po. In

albergo tenevo la mente impegnata leggendo quotidiani, scribac-

chiando su qualche enigmistica o guardando la televisione.

Qualsiasi programma andava bene, l'importante era non pensare.

Ogni mattino mi recavo in ospedale al reparto trapianti epatici

dove,in un grande salone, si riunivano tutti i trapiantati di fegato in

attesa di visita di controllo e con loro scambiare quattro chiacchiere.

Per lo più erano meridionali: siciliani, napoletani, pugliesi,

calabresi e qualche sardo. C’era chi era stato operato da alcuni mesi

chi da poche. settimane, venivano sottoposti a visite di controllo già

precedentemente programmate per poter seguire le funzionalità del

nuovo organo e dell'intero organismo. Io chiedevo e loro

rispondevano tutti alla stesso modo alle domande che rivolgevo loro

con garbo e delicatezza “ Non ho sofferto non ho avvertito alcun

dolore. Mi sento bene se fossi come rinato” Qualcuno raccontava di

essere giunto in ospedale addirittura in coma epatico e di non

ricordare nulla, di essere ritornato in ottima forma e di aver ripreso

la vita normale, anzi meglio di prima. La famiglia, il lavoro, la

buona tavola, sempre con una certa cautela insomma l'interesse alla

vita.

Mi raccontavano tutto ciò anche per incoraggiarmi e tirarmi su

col morale. Ben sapevano il dramma che stavo vivendo e nell' attesa

l' ansia che a volte ti chiudeva la gola in una morsa mentre nel petto

qualcosa ti batteva forte. Loro lo sapevano molto bene, avevano

avuto anche loro quei momenti, e in molti il ricordo era tangibile e

vicino. Tutti trovavano parole di elogio e di stima, di riconoscenza

e di ammirazione per quel gruppo di giovani specialisti che li

Page 51: Il vocabolario di latino

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seguivano con tanta assiduità e professionalità. Tutto questo mi

infondeva un tale coraggio e una tale forza da farmi sentire ogni

giorno più sicuro e fiducioso. Sentivo dentro di me come un

qualcosa che mi ripeteva sempre “ce la farai,ce la farai”.

Per tutta la durata degli esami clinici, della degenza e

dell'intervento stesso, due cose non mi hanno mai abbandonato: la

fiducia nei medici e la presenza spirituale di Padre Pio da

Pietralcina. Qualcuno potrebbe anche pensare che io esageri a

raccontarlo o che sia stato soltanto suggestione . Chi mi conosce

bene però sa che non sono mai stato né uno stinco di santo né un

bigotto, anzi per niente un buon cristiano, ma posso affermare con

assoluta certezza e senza alcuna ombra di dubbio di aver avvertito la

presenza del frate di Pietralcina accanto al mio lettino durante tutto

il periodo trascorso all'ospedale delle Molinette di Torino.

Verso le diciannove del quattro ottobre, ricevetti la telefonata

dall'ospedale “entro un’ora al massimo il ricovero” Era la voce

inconfondibile dello stesso primario che mi annunciava finalmente

la reperibilità di un fegato compatibile e che mi sarebbe stato

trapiantato entro il mattino seguente. Dio! Quanto avevo aspettato

di sentire quella voce. Avvertii per tutto il corpo una vampata di

calore, non sapevo se ridere o piangere. Non sapevo se quello che

avvertivo era gioia, spavalderia o un senso di paura allo stesso

tempo. Era come vedere materializzata la fine di un incubo.

Provavo la stessa cosa che avevo avvertito al mio primo imbarco,

quando ricevetti il telegramma dell'armatore che mi invitava ad

andare a Ravenna per imbarcare in qualità di allievo ufficiale su di

una vecchia carretta che faceva viaggi di legname dal Mar nero per

Alessandria d’Egitto.

Durante la notte fui affidato alle cure preparatorie di personale

altamente qualificato. Tutte giovani infermiere dagli cchi dolcissimi

e dai visi indimenticabili, che consapevoli del mio stato d'animo e

del mio disagio, cercavano amorevolmente di tranquillizzarmi

rendendomi meno penosa la attesa che mi separava dall'intervento.

Alle ore 7,30 del mattino del quattro ottobre, giorno di S. Francesco

D'Assisi, entro in sala operatoria per nulla turbato.- Ad attendermi

l'equipe al completo, alcune domande di rito da parte dello stesso

primario il professor Salizzoni, mentre mi preparava per l'anestesia.

Dopo alcuni secondi mi vedo nudo, disteso su di un tavolo di legno,

al centro di un grande spiazzo circondato da una fitta siepe di rovi

dalla quale facevano capolino di tanto in tanto, volti scolpiti nella

pietra.. Tutte facce uguali, prive di espressioni, come scavate nella

roccia, con grosse cicatrici sulle guance. Cerco di coprire con le

mani le mie nudità, quasi a voler sfuggire a quegli sguardi indiscreti.

Page 52: Il vocabolario di latino

52

Poi, più nulla l'oblio totale. Verso le ore 16 fui trasportato in sala di

rianimazione dove dopo pochi minuti avrei riaperto gli occhi. A

svegliarmi definitivamente é il ticchettio di un piccolo ramo di

betulla che la brezza serale che scendeva dalle Alpi e che lambiva

questa parte della città, faceva picchiare continuamente sui vetri

della finestra della camera. Un flebile raggio di sole, già autunnale,

filtrando attraverso i rami dell'albero mi giungeva fino al minuscolo

lettino, sembra quasi accarezzarmi le ginocchia e sussurrarmi

dolcemente "bentornato". Comincia a tastarmi, e a muovermi

lentamente. Sentivo strani tubicini di drenaggio che fuoriescono da

varie parti del corpo mentre osservavo incuriosito il gocciolio lento

delle numerose flebo appese ad appositi attrezzi con i vari segnali di

allarme. Ero ancora vivo, si, la cosa meravigliosa non mancò di

meravigliarmi. Dio era stato buono con me. Chissà perché noi

meridionali spesso mischiamo sacro e profano, e corriamo subito in

chiesa a chiedere grazie soltanto nei. momento del bisogno,

raccomandandoci sopratutto al Signore. Non me ne vogliano i

professori Salizzoni ed Andorno., se mai dovessero leggere queste

memorie. Mi ero completamente affidato nelle loro mani pieno di

fiducia e sicuro di un brillante risultato, ma non avevo potuto fare a

meno anche io, di recarmi in chiesa nello stesso ospedale delle

Molinette pochi minuti prima del ricovero. Volgevo lo sguardo su

quel grosso Crocifisso al centro dell'Altare e gli chiedevo

silenziosamente con nodo alla gola di accompagnare la mano che da

li a poche ore mi avrebbe aperto l'addome.

Page 53: Il vocabolario di latino

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La ripresa

I giorni passava lenti ed io lentamente riacquistavo le mie

energie. L'organismo iniziava ad adattarsi al nuovo organo e a dare

i primi risultati positivamente.

Qualche dolorino fastidioso non mancava, era principalmente

dovuto alla posizione supina a letto e alle suture interne ed esterne,

per fortuna dì lieve entità e subito debellato con farmaci appropriati

e dalle amorevoli cure dell'assiduo personale infermieristico.

Ciò che maggiormente mi é rimasto impresso di questa

esperienza era ed è ancora – passati gli anni- l'assiduità con la quale

gli specialisti seguivano i ricoverati durante tutto il periodo di

degenza in sala di rianimazione. Ogni notte il silenzio veniva

interrotto soltanto da qualche lamento o dal passo felpato del prof.

Andorno o da quello veloce dello stesso primario, il prof. Salizzoni.

Li sentivi parlottare sotto voce con l'infermiere di turno e benché

aguzzassi attentamente l'udito non sono mai riuscito a capire una

sola parola. Poi si fermavano sull'uscio di ogni stanza ad osservare i

propri pazienti. Quegli sguardi davano a noi trapiantati un effetto

superiore a qualsiasi altro farmaco Erano sguardi che ti

rassicuravano nel corpo e nello spirito. Potevi riposare serenamente,

perché sapevi che c'era chi vegliava su di E così trascorreva un'altra

notte e un’altra ancora e ancora altre.

I primi giorni di degenza in sala dì rianimazione, sono stati i

più sofferti sia fisicamente che psicologicamente. Le sonde e i

numerosi tubicini che uscivano da. tutte le parti del mio corpo,

collo compreso, non mi permettevano di cambiare posizione a

letto. I miei occhi continuavano a fissare il soffitto e la parete di

fronte sempre alla ricerca, di qualcosa o di qualcuno, che non c’era

mai. Di tanto in tanto roteavo lo sguardo, come un camaleonte per

fissare il telefonino portatile sul comodino accanto al letto,

aspettando che con uno squillo mi portasse una voce amica. Dopo

il terzo giorno. ricevetti la visita dei miei figli. Arrivò per primo

mio figlio Nicola che prestava servizio al comando di La Spezia.

Page 54: Il vocabolario di latino

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Venne con permesso speciale Dopo essersi assicurato del mio

stato di salute e che il mio fisico era in ripresa, seppure lentamente,

mi mise al corrente della sua brillante carriera e del suo proposito

di partire volontario in missione o per il Kossovo o per il Sinai.

Nicola, al contrario degli altri miei due figli, raramente lascia

trasparire emozioni interiori, anche a costo di soffrire

maggiormente, non. esterna ansie timori e a volte riesce a

mascherare anche dolore fisico. Conoscendolo bene e sapendo che

non amava sentir parlare di sofferenze e dì disagi cercavo di

deviare i discorsi su altri argomenti. Sembravamo due vecchi amici

che si incontrano dopo molto tempo e discorrono di sport e di

donne.: con lui soprattutto di donne.

La visita di Lello, invece fu un po’ particolare. Appena entrò

nella mia stanza rimase quasi scioccato, stentava a riconoscermi. Si

avvicinò e nel tentativo dì sollevarmi sulle braccia mi sussurrò

““Dio mio come ti hanno conciato”

Dovetti tranquillizzarlo con qualche battuta di spirito, cosa che

a me è sempre venuto spontaneo anche nei momenti tragici e forse

proprio per questo mio modo di fare sono riuscito a vincere anche il

male. Gli chiesi di sedersi sul letto accanto a me anche se il

regolamento lo vietava, e tenendolo per mano e gli feci capire che

la loro visita mi aveva fatto immensamente piacere ed era stata

molto importante. Perché fino a quel momento mi aveva assillato la

paura di morire senza averli rivisti o senza aver prima chiesto loro

perdono. Perdono per non aver avuto abbastanza, tempo da.

Dedicargli, perdono per le incomprensioni e le superficialità con cui

spesso avevo discusso qualche loro richiesta trascurando le loro

esigenze di ragazzi. Mi ero trovato in condizioni tali che i problemi

di lavoro e poi quelli sopraggiunti avevano determinato grosse

incomprensioni in famiglia, che, come spesso succede si

scaricavano su di loro poveri ragazzi e qualche volta giù anche

botte da orbi. Ma volevo rappacificarmi con loro anche per aver

spesso violato i loro sogni di adolescenti con incomprensioni e

indifferenza. Lello aveva capito perfettamente tutto ciò e con un

ulteriore tentativo dì sollevarmi tra le braccia, con gli occhi umidi,

mi disse “Papa non hai mancato in niente e anche quando me le hai

date io ti ringrazio perché lo stesso perché sono servite a farmi

maturare e a diventare uomo “ Sapevo che mentiva.

Page 55: Il vocabolario di latino

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Mi riapproprio del mondo

Dopo 16 giorni di degenza fui dimesso. Ero stato

completamente rimesso a nuovo e a tempo di record. Qualche

breve raccomandazione da parie del prof. Andorno e una calorosa

stretta di mano. Quella fu l'unica volta che vidi sorridere quel

meraviglioso medico.

Lasciai l'ospedale nel pomeriggio inoltrato. Torino era avvolta

in una leggera foschia umida , tipica di quella stagione l'aria era

ancora tiepida e un profumo di caldarroste che giungeva da un

caldarrostaio subito fuori dell'ospedale mi fece avvertire l’autunno.

Mi fermai per un attimo ad osservare il traffico intenso ordinato di

quella città e il via vai delle centinaia di persone che entravano ed

uscivano dalle Molinette con i loro problemi, i loro affanni ma

anche,le loro gioie come quella che provavo io in quel momento.

Tra non molto anche io avrei ripreso il ritmo di vita normale,

con maggior forza e vitalità. Mi sentivo dentro come una persona

nuova, più sereno, meno teso, più buono, tutto il corpo era pervaso

da sentimenti di pace e di bontà. Non potevo fare a meno di ripetere

a me stesso di quanto il mondo fosse meraviglioso, proprio come il

ritornello di una canzone di Domenico Modugno che mi ritornava

in mente ad intervalli costanti. Malgrado potessi muovermi

lentamente e soltanto a piccoli passi e malgrado qualche dolore che

ancora avvertivo continuavo a ripetere dentro di me: meraviglioso.

Percorsi poche centinaia di metri fino alla fermata del tram e mi

sentii subito molto stanco. La piccola borsa da viaggio, benché

contenesse poche cose, era diventata un fardello sempre più pesante

da portare costringendomi a frequenti soste. La mascherina, asettica

che mi era stata consegnata in ospedale poco prima di uscire mi

creava qualche problema nella respirazione ma era assolutamente

necessaria. Non mi importava nulla che la gente mi guardasse

incuriosita e si spostasse al mio passaggio fissandomi chi come

Page 56: Il vocabolario di latino

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fossi un appestato chi con uno sguardo pieno di commiserazione.

Qualcuno addirittura, si avvicinò per chiedermi cosa mi fosse

capitato qualche altro invece solo per semplice curiosità. Io li

tranquillizzavo subito con un semplice sorriso di riconoscenza.

Nonostante tutto ero felice perché stavo per ritornare a, casa mia. e

il mondo mi appariva così bello che non potevo fare a meno di

ripetermelo.

Camminavo dando l’impressione di uno che si era appena

destato da un lungo sonno. Dopo qualche mese di pantofole avevo

l'impressione di avere ai piedi un paio di sci. I pantaloni molto

larghi e il giubbotto a vento comprato al mercatino rionale poche

settimane prima del ricovero in ospedale mi davano la sensazione di

non trovarmi nei miei panni. Mi passai una mano tra i capelli lunghi

e mi toccai il viso ossuto e smunto coperto da una piccola peluria

dura come il ferro. Era mai possibile che in cosi poco tempo sette o

otto settimane fossi dimagrito così tanto? Cominciavo ad avere una

esatta percezione di me e della mia immagine, non dovevo essere

un gran che presentabile ma in cuor mio ero felice.. Man mano che

mi avvicinavo alla, fermata del tram che mi avrebbe portato

all’aeroporto, il mio sguardo si soffermava sulle cose più banali, più

semplici, con lo stesso interesse di un bambino che muove i primi

passi: il rincorrersi di due colombi, il raspare di un gatto tra le buste

della spazzatura, o lo sguardo quasi compiaciuto di un cane che

aveva appena fatto i propri bisogni sull'aiuola davanti ad una casa.

Mi soffermai per pochi attimi davanti ad un edicola per un rapido

sguardo alle copertine dei settimanali e provai le stesse emozioni di

quando facevo ritorno a casa dopo dieci mesi di imbarco sulle

petroliere Avevo lo stesso famelico desiderio di notizie: volevo

voracemente sapere e conoscere cosa fosse accaduto durante la

mia assenza: i fatti di cronaca, di politica, di economia. La pace

ancora lontana nei paesi dell’ex Iugoslavia, le stragi e i massacri in

Bosnia. Ricordo che ne acquistai alcuni e li sfogliai subito con

attenta bramosia sotto lo sguardo un poco incuriosito

dell'edicolante.

Respirai a pieni polmoni l’aria fresca di quel tardo pomeriggio

d’autunno guardandomi intorno e riappropriandomi di nuovo del

mondo. Mi riabituavo lentamente ma con gioia alla presenza della

gente intorno a me quasi fossi stato uno che era stato in totale

solitudine o nel deserto del Sahara o in una sperduta isola del

Pacifico. Era bello tutto questo.

L'aereo delle 19,30 decollò in perfetto orario dalla Malpensa

per portarmi finalmente a casa..

Page 57: Il vocabolario di latino

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Il ritorno in famiglia

Fare ritorno nuovamente in famiglia, al paese, alle persone

care dopo tutto ciò che avevo passato mi provocò sentimenti e

sensazioni non facilmente descrivibili. Un insieme di gioia e

confusione un misto bellissimo d’euforia ed eccitazione. Napoli

illuminata vista dall'alto é ancora più bella, la stessa Napoli che

appena, qualche mese prima mi aveva visto partire con il cuore

colmo di paure, incertezze, speranze mi riaccoglieva, con l'aiuto del

Signore, facendomi festa con le sue luci e il suo meraviglioso

disordine. All'arrivo ad attendermi trovai Andrea il più piccolo, si fa

per dire, che mi corse incontro con le braccia aperte e gli occhi

umidi. Credo di aver pianto anche io, non so se di gioia o di

commozione. Ancora una volta dovetti raccomandare a quel fusto

alto un metro e ottanta, circa, di non stringere troppo perché ciò

che era rimasto di me si sarebbe potuto scucire tutto d’un colpo. Lui

sorrise teneramente, era felice di riabbracciare suo padre. Prima, di

entrare in auto,un rapido sguardo al via vai frenetico dei

viaggiatori e al gesticolare dei tassisti per accaparrarsi i clienti

migliori, poi subito via nel caos della, città.

Sui marciapiedi tutto intorno si scorgevano già pronte le prime

bancarelle per le prossime festività natalizie tutte addobbate di

palloncini e lampadine colorate mentre per i negozi già

comparivano le prime- coppie di zampognari che prenotavano le

novene per la festa dell’Immacolata. Ad ogni semaforo una-

miriade di scugnizzi sia napoletani che di colore cercavano di

vendere le loro povere mercanzie: fazzolettini di carta, sigarette,

deodoranti e altre cianfrusaglie mentre altri, senza alcun permesso

si buttavano sul cofano per lavarti i vetri noncuranti del fatto che il

verde fosse appena scattato, in un frastuono di trombe e clacson.

Dallo specchietto retrovisore scorgevo il viso minaccioso degli altri

autisti, qualcuno urlava improperi accompagnati da gesti poco

urbani, ma i ragazzi sembravano averci fatto 1’abitudine e quindi

Page 58: Il vocabolario di latino

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non si scomponevano per niente continuando il loro lavoro

indisturbati in quel caos infernale.Contavano rapidamente sul palmo

della mano i pochi spiccioli guadagnati e si preparavano al

prossimo segnale di stop.

Osservavo tutto ciò con curiosità, come se fosse la prima

volta: Dio quanto mi era mancato tutto questo! Con il trascorrere del

tempo riacquistai sempre maggior energie e con esse peso e forma

Ai controlli periodici gli specialisti riscontravano buoni risultati, sin

dalle prime settimane anche se il pericolo rigetto poteva essere

sempre in agguato almeno per i primi mesi. A poco a poco ripresi i

miei impegni di lavoro e con esso riacquisto poco per volta voglia

di fare, sempre con maggiore mordente e determinazione.

Finalmente lavoro e famiglia occupavano nuovamente la mia mente

e il mio cuore.

Page 59: Il vocabolario di latino

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I parenti

Si dice che nei momenti di maggior bisogno sì conosce il

cuore degli amici o dei parenti. E’ un proverbio come tanti, al quale

non sì da importanza fino a quando non ci si trova in una situazione

di estremo bisogno. Allora e soltanto allora si scopre a proprie spese

che i proverbi non falliscono quasi mai. Capii che io ero un

problema, capii in un attimo che solo io era l’aiuto vero per me

stesso e tutto il resto era solo trita convenzione, se non addirittura

falsità e ipocrisia. Nessuno riesce a capire il dramma che si porta

dentro uno che ha subito un ‘esperienza del genere: essere aperto,

essere frugato dentro mentre tu sei come morto su un tavolo

operatorio, il sentirsi in un certo senso violato anche se per il tuo

bene, in fondo è sempre il tuo corpo che stanno tagliando e questo il

corpo lo porterà sempre in una sua intima memoria. In fondo la

gente non vuole sentire i mali e le sofferenze degli altri e così tutti –

dopo una frettolosa accoglienza festosa - prendevano le distanze da

me e la cosa più triste era che tra queste persone c’erano anche

quelle che avrebbero dovuto esserti più vicine. Forse perché

pensavano non ci fosse più alcun rimedio, forse che non ci fosse più

nulla da fare e che comunque sarei morto. Forse pensavano che

avrei potuto chiedere soldi e che certamente non avrei potuto

restituire In parole povere mi ritrovai più solo che mai. A volte

può essere anche un bene prendere le distanze da questo genere di

persone cosi ti eviti quel fastidioso ed ipocrita scambio di

convenevoli saluti quando ti capita di incontrarne qualcuna.

Cominciarono così ad evitarmi un po’ tutti quelli che prima

sembravano avermi accolto con grande gioia, anche perché credo

che mi dessero per spacciato, che avessi i giorni contati, insomma

ero già quasi morto per loro. Nonostante fosse tutto passato,

nonostante la mano ferma di un eccellente chirurgo e la

Misericordia, di Dio Onnipotente mi avessero restituito a nuova

vita, te li ritrovavi davanti per strada quasi tutti i giorni iettatori e

Page 60: Il vocabolario di latino

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menagramo con la loro finta cortesia a chiedermi come stavo o

come mi sentivo soltanto per semplice curiosità, e leggevo in quelle

domande una punta di delusione e cattiveria gratuita come se li

avessi fregati in qualcosa come se avessi deluso ogni loro

aspettativa Quando rispondevo di sentirmi in ottima forma sia fisica

che psichica,: mi guardavano un po’ incuriositi, abbozzavano un

lieve sorriso, sapete di quelli a metà labbra, a denti stretti, quasi a

volermi dire “ ma perché vuoi imbrogliarci, tu stai male, tu devi

star male, perché vuoi deluderci, uno come te, con quello che ha

avuto sarebbe dovuto morire e invece tu stai ancora qui”. E dopo

alcuni secondi, non ancora soddisfatti, “che fai ora ? Stai

lavorando? Sei in pensione ?" Come vivi ?” A questo punto io

scoppiavo in una fragorosa risata e con. una pacca sulla spalla

accennavo ad un grosso premio di assicurazione o meglio ancora ad

un inaspettato terno al lotto che mi permetteva una vita da nababbo.

A quel punto il sorriso scompariva immediatamente dalle labbra

dell'amico o del parente. Poi, continuando in maniera ironica, mi

accostavo ancor di più al suo viso e guardandolo fisso negli occhi

gli sussurravo a mezza voce che notavo delle strane venature

giallastre nelle sue pupille, sintomatiche fuori ogni ombra di dubbio

a seri problemi alle vie biliari. E gli consigliavo immediatamente di

farsi delle analisi. Detto da uno che come che era stato quasi per

morire non era una cosa da prendere sottogamba. Ero certo di

avergli rovinato la giornata e quella diventava la mia unica

soddisfazione, ma soprattutto l’unico modo per non farlo più

avvicinare. Fortunatamente per me, i fatti prima detti non mi hanno

trovato completamente impreparato in quanto avevo già fatto

esperienze amare con la cattiveria umana in passato. Sono

comunque cose che lasciano il segno e che difficilmente si

dimenticano e ancor più difficile é il riuscire a perdonale.

Pochi mesi dopo, durante un incontro pastorale presso il

convento di S. Francesco di Assisi a Vico Equense, chiesi a Padre

Giovanni , un vecchio caro e saggio che aveva educato quasi tutta la

gioventù del paese, soprattutto quella della mia generazione e quella

immediatamente poco, cosa bisognasse fare per poter essere un

buon cristiano. Dopo avermi ascoltato attentamente per alcuni

minuti, l’anziano frate mi chiese di trovare la forza di perdonare,

non di capire, ma di perdonare senza riserva alcuna. Bisognava fare

il primo passo verso coloro che hanno mancato, aprendo loro le

braccia e il proprio cuore, perché sono loro che hanno bisogno di

essere aiutati e confortati, pagare con affetto e perdono la cattiveria

e le ingiustizie ricevute. Gli risposi che ero andato al convento

proprio per quel motivo: poter trovare la forza di perdonare perché,

Page 61: Il vocabolario di latino

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malgrado tutta la mia buona volontà, fino ad allora non vi ero

ancora riuscito. Allora Padre Giovanni cingendomi la spalla con il

suo braccio, mi disse:” Figliolo, ti capisco bene, è così difficile

anche per me che sono un sacerdote figuriamoci per te, perciò ti

dico di pregare il Signore sempre con maggior vigore e fede

affinché te ne dia la forza. Soltanto quando ci sarai riuscito potrai

forse dirti un buon cristiano”

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Don Alberto Cadolini

Ogni qualvolta che ci capita di notare un manifesto a lutto ci

soffermiamo per un attimo a leggere, non tanto il nome quanto l'età

del deceduto. Poi,se il deceduto é persona conosciuta, qualche breve

commento con l'occasionale vicino, che legge pure lui per curiosità

e la cosa finisce lì. Tutta la vita, quindi, di quella persona nei

commenti e nei giudizi di poche parole di chi legge quel misero

manifestino.” Era una brava persona, non lo era, bevevo,

giocava,era un violento,era ricco,era povero era un buon padre di

famiglia, era malato, aveva debiti ecc. ecc”, poi il giudizio finale

quasi a voler assolvere, con quella ipocrita indulgenza, tutti i

piccoli peccati di quel poveretto.” Tutto sommato era una brava

persona, un poveraccio quasi a voler lasciare quel manifesto con

un segno di perdono e di carità”. Se invece, la persona deceduta é

un amico un caro e buon amico le cose cambiano E' capitato a me

qualche tempo fa a Piano di Sorrento, mentre attraversavo il corso

principale, di leggere di sfuggita il nome Don Alberto Cadolini. Ho

bloccato l'auto, noncurante del traffico, e dopo essermi accostato ho

letto con stupore quel necrologio:” Don Alberto Cadolini non è

più”. Non mi ero sbagliato dunque era proprio lui, don Alberto , il

caro e tanto amato don Alberto, mio carissimo amico. Un brivido di

gelo mi ha attraversato subito la schiena come se qualcuno mi

avesse infilato attraverso il collo della camicia un cubetto di

ghiaccio. Con lo sguardo fisso su quel nome non ho potuto fare a

meno di tornare indietro ai ricordi di alcuni anni, quanto quel

sacerdote professore aveva fatto per me e tanti altri come me in

circa cinquanta anni di insegnamento: tutti gli studenti dell’Istituto

Nautico si ricordavano di lui. Ho conosciuto don Alberto alle scuole

medie a nel millenovecentocinquanta e poi all'istituto nautico Nino

Bixio di Piano di Sorrento, dove è stato mio insegnante di religione

fino al millenovecentosessanta. Ma i nostri rapporti di stima ed

amicizia sono continuati anche dopo. Già, perché noi, i suoi allievi

di sempre, come soleva, chiamarci venivamo seguiti attentamente

anche dopo il diploma, sia nella carriera che nella vita familiare.

Sembrerà paradossale ma ricordava i nomi di tutti i suoi allievi sin

dal millenovecentoquarantasei. Ha seguito le carriere di tutti noi: in

marina mercantile, marina militare o nell'industria. Chiedeva

sempre di tutti e di tutti si informava sulle condizioni di salute o sui

Page 63: Il vocabolario di latino

63

rapporti con la famiglia e gli si illuminava il viso di gioia quando le

notizie erano buone e soffriva e si rattristava quando non lo erano.

Insegnare all'istituto nautico, nell'immediato dopoguerra non

era impresa facile, per un insegnante di religione, in quanto la

religione non veniva considerata materia di giudizio e quindi non

rilevante per il voto di profitto a fine anno scolastico. Il fatto poi

che generalmente l'ora di religione capitava nell'orario scolastico per

ultima, ragion per cui il povero sacerdote ci trovava stanchi ed

affamati e quindi poco attenti e poco interessati alle sue

argomentazioni. Poi c’era anche un altro fattore molto importante e

cioè che molti allievi avevano ripreso gli studi dopo il conflitto

mondiale e in alcuni casi parecchi di loro superavano in età gli stessi

insegnanti rendendo il compito di insegnare ancora più difficile.

Don Alberto aveva capito tutto ciò e ne era perfettamente

cosciente e con il suo modo di fare semplice e cordiale riusciva a

trasformare quella che poteva sembrare un'ora di noia in un'ora di

piacevole rilassamento ed apprendimento. Con grande dolcezza e

tranquillità riusciva a spiegare in maniera semplice i passi della

Bibbia con parole e commenti suoi da trasformarli in racconti veri e

propri insomma venivamo rapiti da quel suo modo di narrare. Ci

faceva entrare in prima persona in quei racconti, facendoci

dimenticare orario e stanchezza. Spesso terminava la lezione un

poco prima dell'orario e ascoltava attentamente i nostri commenti e

le nostre eventuali lagnanze verso qualche altro professore, magari

troppo severo o un poco avaro di voti, ma solo poche volte mi

ricordo, e per qualche caso speciale si impegnava a spendere

qualche buona parola per noi con un suo collega. Succedeva quando

qualcuno di noi riceveva note di condotta sul registra di classe o

qualche punizione più o meno severa che avrebbe potuta

pregiudicare l’anno scolastico solo allora si ricorreva a don Alberto.

L'indomani mattina, ancor prima di entrare in classe si recava

in presidenza dal buon preside l’ingegnere Alberto Carrino, che

accontentava sempre, facendosi promettere, pero, maggior impegno

e serietà dai suoi allievi. Il preside Carrino , comunque, non avrebbe

mai rifiutato nulla a don Alberto sia per il suo modo paterno di fare

sia per la grande stima ed amicizia che li univa. Don Alberto non

diceva di no a nessuno. Accoglieva tutti anche dopo l'orario delle

lezioni con il suo sorriso aperto e cordiale, ascoltava attentamente le

lamentele e non mancava mai di dare buoni consigli o di farsi in

quattro ad aiutare i suoi allievi. Anche quando si sentiva stanco o

stava poco bene. Non l'ho sentito mai lamentarsi, neanche quando il

male aveva già minato il suo poderoso fisico. Come ho già

accennato prima, don Alberto ha seguito i suoi allievi che sono stati

Page 64: Il vocabolario di latino

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tantissimi, anche dopo il diploma. Li ha seguiti nella vita e nella

carriera e l'ho visto soffrire intensamente quando veniva a sapere

che qualcuno di noi aveva avuto qualche problema con la propria

moglie, oppure di i lavoro, o di altro: noi eravamo sempre i suoi

ragazzi.

Nel millenovecentosettantasei ho avuto, anche io, seri problemi

col mio lavoro perché la cattiveria umana non ha mai limite In

pratica avevo perso il lavoro al quale tenevo tanto e con esso stavo

per perdere anche la famiglia Trascorrevo momenti di dolore e di

angoscia profonda per situazioni createsi indipendentemente la mia

volontà e dalle quali non sapevo proprio come venirne fuori per

puro caso, un pomeriggio d'estate incontrai don Alberto a Vico

Equense. Ci abbracciammo affettuosamente e subito dopo aver

notato nel mio sguardo tanta tristezza volle sapere tutto. Mi diede

appuntamento per la sera stessa a casa sua a Piano dove mi ascoltò

ancora per un altro paio d'ore. Ad un certo punto, dopo aver

compreso che fare. la guerra ai mulini a vento non avrebbe risolto

assolutamente nulla prese carta e penna e scrisse un biglietto per un

suo carissimo amico sacerdote direttore della Stella Mari di Taranto:

don Raffaele Pepe.e scrisse: “Caro Raffaele, il latore del presente é

Biagino un mio caro allievo che ha bisogno di essere ascoltato ti

prego di fare qualcosa per lui se ti sarà possibile* Ma sopratutto

ascoltalo con il cuore Tuo Alberto”

Conservo ancora quel biglietto tra i miei ricordi più cari..Dal

millenovecentosettantasei al millenovecentosettantanove sono stato

in Algeria da dove di tanto in tanto gli mandavo mie notizie per

incontrarlo poi nel millenovecentonovantadue presso la Fincantieri

di Castellammare di Stabia in occasione di un varo. Ogni tanto ci

sentivamo per telefono e mi ero ripromesso di fargli visita, ma il

male che subdolamente stava minando il mio fisico mi lasciava

sempre meno tempo.

Avrei voluto essere presente almeno ai suoi funerali,

accompagnarlo nel suo ultimo viaggio e spendere qualche parola di

gratitudine, ma sicuramente lo avrà fatto, qualcuno dei suoi

numerosi ex allievi presenti anche se avrei voluto tanto poter dire

qualcosa anch'io. Gli avrei voluto dire:”Caro don Alberto, grazie

per tutto quello che hai fatto; ora lasci un enorme vuoto nei nostri

cuori, è anche grazie alla tua opera che la marina mercantile italiana

si é arricchita di valenti ufficiali che tanto onore e dignità hanno

portato alla penisola Sorrentina. Sono stati i tuoi insegnamenti che

hanno formato il nostro carattere ed arricchito il nostro spirito. Tutti

noi ti dobbiamo tanto e non ti dimenticheremo.

Page 65: Il vocabolario di latino

65

II fischio severo del vigile mi fece capire che stavo bloccando

il traffico!Lasciai Piano con una stretta al cuore e gli occhi umidi

avevo perso un grande amico.

Francesco e

La terza età

Quando si supera la soglia dei sessanta anni cominciamo a

pensare di essere entrati nella fase della tersa età quindi, alle. porte

della vecchiaia;ma la terza età non è solo una questione di anni.

Essa comincia soltanto quando smettiamo di svolgere l’attività che

abbiamo sempre svolto. Quando non siamo più costretti a lavorare

per vivere e a timbrare ogni mattino il cartellino presenza in

fabbrica oppure ad aprire e chiudere la serranda di un negozio.

Quando andiamo in pensione, quando la società nel suo insieme

decreta che non siamo più utili e dobbiamo metterci da parte, solo

allora comincia la terza età . Assistiamo allo scorrere della vita

quotidiana come spettatori e non siamo più i protagonisti del

mondo.

Secondo me restare in ozio, inattivi, è un fattore assolutamente

negativo. L'inattività avvilisce, apre rapidamente le porte alla

vecchiaia e fa morire il corpo e la mente. Vi sono tantissimi

hobbies, giardinaggio, meccanica, modellismo, collezionismo

oppure se te lo permettono continuare con la propria attività.

Insomma ingegnarsi sempre a fare qualcosa, una qualunque cosa

purché ti mantenga impegnato senza per questo essere obbligato a

farlo. In altre parole essere partecipi della vita ma con serenità e

senza ansie inutili. Le contraddizioni della vita le ammettiamo, non

le giustifichiamo ma soprattutto le accettiamo con occhio attento e

benevole tolleranza confrontandole al nostro passato. E’ in questa

fase dell’esistenza che analizziamo spesso, la nostra vita quasi fosse

uno spettacolo o un romanzo, aprendo il cuore alle riflessioni e ad

un esame attento e critico .Nel rivedere la nostra vita molte volte ci

paniamo la domanda se ci riteniamo soddisfatti oppure no. Tutti noi

a questi punto, avremo la consapevolezza. di aver perso delle

occasioni, di aver commesso errori . Certamente il passato non va

dimenticato completamente perché esso fa parte del nostro fardello

di esperienze,ma neanche bisogna dargli eccessivo peso perché il

ricordo appassionato delle esperienze passate può soffocare il

presente e avvilire il futuro.

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Ormai ciò che é fatto é fatto e tutti i momenti vissuti sia quelli

belli che quelli amari acquistano alla mia età un valore puramente

estetico. L'importante è l’essere consapevole di aver fatto tutto ciò

che la nostra coscienza riteneva giusto fosse fatto. Così facendo

acquistiamo, con un piccolo sforza, la tranquillità e la serenità , che

ci permetterà di godere la terza età come una stagione felice della

nostra vita, anzi forse la più felice, perché si acquista la giusta

distanza dalle cose.

Durante i periodi bui e tristi della nostra vita, siamo più

coinvolti dal mondo. Quando noi siamo costretti a subire l'

arroganza e la protervia di chi ci impartisce ordini o ci richiede

prestazioni, provocandoci sofferenze psicologiche e morali,

dispiaceri dai quali possono sollevarci le persone a noi più vicine e

che ci infondono tanta umana rassegnazione.

“Coraggio vedrai che il Signore prima o poi premierà le tue

sofferenze”. Alle persone che hanno perso un congiunto ancora

giovane o in tenera età si dirà: “II Signore passeggiando in un prato

fiorito ha voluto cogliere il fiore pini bello”. A chi invece, avrà

perso urna persona cara avanti negli anni gli si dirà:” il Signore ha

voluto premiarlo portandolo con se in Paradiso. Ognuno di noi

credente, sa che prima o poi riceverà il giusto premio alle sue

sofferenze, perché il Signore è sempre misericordioso. Già

sappiamo bene che la vita stessa é un dono meraviglioso, anche se

spesso dimostriamo di non apprezzarla abbastanza vivendola male.

Io da parte mia, posso ritenermi più fortunato degli altri perché

il dono stupendo della vita l'ho ricevuto due volte. Come ho già

detto nelle pagine precedenti; sei anni fa, il Signore nella Sua

infinita Misericordia, mi ha guarito da un male terribile e questo a

rafforzato ancora di più in me il suo di Lui e la mia fede.

Ma a trasformare completamente e in meglio questa mia

stagione della vita é stato l'arrivo di Francesco. Vi chiederete: ” ma

chi è Francesco?” Ebbene Francesco non é soltanto il mio primo

nipotino, non é soltanto un bellissimo bambino dagli occhi vispi e

dal sorriso ricco di tenerezza, intelligente ed affettuoso.

Francesco é gioia, é speranza é desiderio di un domani

migliore. Francesco é l'ansia del nuovo giorno per poterlo stringere

in un tenero abbraccio o poterlo soltanto ascoltare per telefono.

Francesco é tutto questo e molto di più di quanto potessi aspettarmi

dalla vita ed è la consolazione più grande per chi come me si sta

affacciando alla soglia della terza età. Dopo essere nato una

seconda volta. Per farla breve, Francesco é stato per me come una

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folata di vento d’aprile che cancella ogni tristezza e malinconia col

profumo di primavera.

Conclusioni

Quanto ho cominciato a scrivere queste brevi riflessioni sulla

mia vita, l’ho fatto partendo dalla descrizione della villa De

Gennaro che vedevo dalla finestra della mia unica stanza, ora che

sto volgendo alle conclusioni ritorno nuovamente alla mia memoria

e ai miei ricordi più lontani e a quella villa da dove è partito il mio

ricordo. Perché è solo il ricordo che rende possibile qualsiasi

presente e qualsiasi futuro.

Questi miei ricordi li ho voluti scrivere non per velleità

letteraria, ma semplicemente perché dovevo, anzi sentivo, in

qualche modo la necessità di dovere oggettivare sulla pagina scritta

episodi determinanti della mia vita, specialmente quelli che per me

sono stati i più dolorosi, ma anche i più significativi. Dovevo

potermi in qualche modo ritrovare e contemplare serenamente ciò

che era, era stato ed ancora continua ad essere il mio mondo e la

mia vita. Così con la memoria ritorno alla villa de Gennaro.

Qualche famiglia benestante. come i Cosentino, i Di Palma ed

i nobili de Gennaro, se ne stavano in disparte sempre chiusi nei

loro palazzi. Ricordo, come fosse ora, che soltanto la domenica

mattina, la nobil donna Clementina De Gennaro si recava ad

ascoltare la prima messa quella delle sette e trenta nella piccola

chiesa dell’Addolorata. All'uscita dalla Chiesa vi era, ad attenderla,

una. schiera di ragazzi che dopo averle baciato la mano le augurava

buona domenica. La nobildonna, compiaciuta regalava, ad ognuno

di noi- ero anche io tra quella schiera- una. moneta da cinque lire .

Si ricordava sempre di tutti noi, e se qualcuno mancava sì

preoccupava subito di chiedere notizie, invitando tutti ad

impegnarsi di più con lo studio e ad essere sempre ubbidienti in

famiglia. La Signorina Clementina viveva nella sua balla villa

circondata da un grande giardino coltivato a frutta insieme al

fratello, il giudice Tommasino, principe di Cantalupo ed alla sua

fedele governante Rosina. Di tanto in tanto veniva a farle visita uno

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dei fratelli, l'avvocato Francesco quasi sempre accompagnato dal

figlioletto Tommaso che portava dunque il nome dello zio.

L’avvocato era alto, imponente, sempre molto elegante col

suo fare severo quasi militare, non amava che il figlio si fermasse

a giocare con noialtri coetanei quasi a volergli ricordare la sua

posizione sociale.

Al piccolo Tommaso di tutto ciò non importava, nulla, e

appena poteva, sgaiattolava dalla villa e veniva a giocare a palla con

tutti noi. Si divertiva tanto a comportarsi come un vero scugnizzo,

noncurante della sua nobiltà II tutto sotto lo sguardo compiaciuto

delle mamme del rione che vedevano i loro figli giocare con il

signorino de Gennaro. Con Tommaso i rapporti di stima ed

amicizia sono durati nel tempo e sono stati sempre più forti.

Eravamo molto legati io e Tommaso e ci si interessava l’uno

dell’altro con fraterna ed antica amicizia: salute, lavoro, affanni,

gioie anche quando gli impegni dì lavoro mi portavano a vivere

in paesi diversi o i suoi impegni politici lo tenevano severamente

impegnato:Tommaso non era solo nobile di nome, ma lo era

soprattutto di cuore .

Sempre disponibile verso gli altri, sempre pronto, senza mai

voltare le spalle a. chi gli chiedeva un consiglio o un aiuto

concreto. Tommaso era il ragazzone di sempre: buono, generoso,

disponibile allo scherzo senza mai far pesare la sua posizione

sociale, anche quando ricoprì la carica- di primo cittadino di Vico

Equense. Tommaso é rimasto così fino all’ultimo, fino a quando

un male terribile lo ha portato via strappandolo prematuramente

all’affetto dei suoi cari, dei suoi amici, della sua città.

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… Ricordo ogni cosa della nostra adolescenza e della nostra

gioventù, in un paese che non era ancora caotico, dove era possibile

ancora giocare per strada, dove era possibile ancora sentire profumi

nell’aria. Ricordo la povertà di quel tempo che era sempre dignitosa

e mai vergognosa, ricordo l’onestà della mia famiglia e di tutte le

altre famiglie.

Ricordo i ricordi di un tempo perduto irrimediabilmente perché

non tornerà più e nel ricordo e in questa scrittura ho voluto dar

fondo alla malinconia che sempre mi ha accompagnato e ancora mi

accompagna anche nei momenti di gioia, perché è attraverso tutto

quello che ho scritto e tutto quello che mi resta ancora da vivere che

io ho la percezione di Dio e della sua immensa grandezza.