Il Viaggio della Vita: Nascere, amare e morire

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Il Viaggio della Vita: Nascere, amare e morire di Italo Bertolasi tratto da Re Nudo 15 Libertà da Libertà per

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di Italo Bertolasi

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Il Viaggio della Vita: Nascere, amare e morire

di Italo Bertolasi

tratto da Re Nudo 15 Libertà da Libertà per

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di Italo Bertolasi

Il VIaggIo della VIta Nascere, amare e morIre Italo Bertolasi, fotografo, scrittore, conoscitore di molti mondi e insegnante di watsu, ci guida nel ciclo vita-amore-morte

Può sembrare una stravaganza, perché siamo per lo più interessati alle fasi intermedie della nostra vita, dedicare attenzione all'inizio e alla fine della nostra vita: i momenti della nascita e della morte. Due veri enigmi. Dove, al di là di quel che accade, si può scorgere un confine. Una specie di porta. Che da sempre uomini coraggiosi hanno voluto esplorare. All'inizio e alla fine della vita forse si rivela il nostro "volto" segreto? Chi siamo prima della nostra nascita e dopo la nostra morte? Filosofi e scienziati, ma anche uomini profondi o disperati, che la vita mette con le spalle al muro, si son posti certamente queste domande. Per dare risposte a questo mistero si son forse costruite religioni, pratiche spirituali, e pellegrinaggi. E si é capito il senso della vita: tortuoso sentiero che riunisce quel primo "villaggio" - il ventre materno e la nostra nascita - all'ultimo capolinea dove tutto può sembrarci finire per sempre. Viviamo ancorati ai ricordi della nostra nascita: tutti i piaceri della vita non inseguono forse il ricordo del nostro paradiso prenatale? Quando, senza far niente eravamo nutriti, cullati e amati nel profumo e nel calore del liquido amniotico del ventre materno. E, alla fine, la morte non sarà forse che un estremo "orgasmo" dove finalmente il nostro corpo si aprirà per espandersi nel tutto. Per ricongiungerci con la creazione. Ci possiamo chiedere allora: siamo forse immortali? "Alcuni dicono che sempre furono e saranno" ci spiega René Daumal nel suo libro guida al "Monte Analogo"; perché ognuno di noi ha nel mondo "il suo uomo cavo, come la spada ha il suo fodero, come il piede ha la sua impronta e che alla morte si ricongiunge". Tra nascita e morte, la nostra avventura umana, ci spiega il monaco zen Daisetzu Suzuki, non é altro che una grande tela su cui l'uomo dipinge" con le sue mani e i suoi piedi, usati come pennelli, il mondo intero per settanta, ottanta, novanta anni. Tale quadro si chiama storia". Un viaggio che é sempre condito d'amore che c'é nella gioia, nella sofferenza e nelle passioni umane. Alla nascita c'è amore materno e paterno che ci nutre, poi nella maturità c'é amore

sessuale e passionale che ci trasforma in creatori di altre vite, che in vecchiaia, si può trasformare in compassione: una generosa voglia di dare cura e sostegno a chi ne ha bisogno. L'amore maturo é quell'armoniosa intimità che ci fa sentire tutt'uno con gli altri esseri umani e con tutte le creature dell'Universo. E' un'espansione di coscienza e di confini: uno stato di vera "illuminazione". Nascita, amore e morte sono inevitabili tappe della nostra vita ma anche dei veri maestri e dei veri templi. Dove si rivela il mistero della nostra esistenza. Dove si può "conciliare quanto si ha dentro di sé con quanto esiste fuori di sé". E dove si riuniscono vita e morte. Momenti estremi, apparentemente inconciliabili. Ci si può allora chiedere, con rovesciamenti di senso illuminanti: c'é un "morire" anche al momento della nascita e dell'amore? E un "nascere" nell'attimo dell'ultimo respiro? Sono questi dei veri "koan". Nel buddismo zen i koan sono quelle affermazioni paradossali usate per aiutare la meditazione e quindi "risvegliare" una profonda consapevolezza. Ci insegna il monaco giapponese Hakuin Ekaku, vissuto tre secoli fa: "Se intraprendete lo studio di un koan e vi ci dedicate senza interrompervi, scompariranno i vostri pensieri e svaniranno i bisogni dell'io. Un abisso privo di fondo vi si aprirà davanti e nessun appiglio sarà a portata della vostra mano e su nessun appoggio si potrà posare il vostro piede. La morte vi è di fronte mentre il vostro cuore è incendiato. Allora, improvvisamente sarete una sola cosa con il koan e il corpo-mente si separerà. ... Ciò è vedere la propria natura ".Avvicinarsi allora con rispetto e curiosità a questi estremi della vita può allora educarci e aprirci alla accettazione e comprensione della nostra umana esistenza. Nascere in Acqua. Ho avuto il privilegio di poter assistere a diverse nascite per realizzare un filmato sul nuovo modo di far nascere in acqua. Mi si sono così aperte le porte di alcuni reparti di maternità.

Le sale con le vasche da parto sono curate con gran cura: colori tenui, penombra, spaziosità. L'idea della nascita dolce é di ricreare un nido d'amore dove la donna può mettere in atto tutte le sue risorse fisiche, psichiche e spirituali. E' l'ostetrica Verena Schmid che ci fa riflettere sul mistero del parto: "La spiritualità porta a pensare che la vita esista sempre, che ciclicamente si incarni e disincarni, porta a pensare che il bambino, esista già prima del concepimento e che porti con sé un progetto di vita. porta a pensare che il bambino e i genitori s'incontrino per un compito comune, che l'uno sia il destino dell'altro. Avvicina alla dimensione sacra della nascita e della vita. Benché oggi razionalmente si conoscano molti particolari di come inizia la vita....rimane magico l'apparire di una persona attraverso il corpo di una donna". Il parto accende una straodinaria relazione d'amore tra madre e bambino. Come ci spiega Willi Maurer, autore del libro "La prima ferita": “la fonte sepolta della pace e della salute é in quell'imprinting ,impronta, determinata dal contatto multisensoriale

che avviene tra madre e bambino al momento della nascita". La nascita in un'acqua tiepida e termoneutra - 35° - che contiene il potere della cura, dell'eros e della spiritualità, prolunga la sensazione di appagamento provato dal bimbo nel liquido amniotico e il contatto intimo con la madre. Queste attenzioni ai primi momenti di vita "pone le basi per una cultura nuova basata sui bisogni fondamentali dell'essere umano". Mi hanno accompagnato in questo mio "viaggio" nella nascita, tre ginecologi e ostetrici, pionieri in Italia del parto in acqua: Albin Thoeni, per anni primario all'ospedale di Vipiteno, che ha conseguito il record nazionale di 2500 parti in acqua, Roberto Fraioli che a Mestre valorizza la relazione madre, padre e bambino rendendo più profonda l'esperienza della nascita con corsi preparto dove le neomamme con i papà fanno watsu - un nuovo shiatsu in acqua - meditazioni e massaggi, e ancora Ciro Guarino che dirige il reparto di Ginecologia e Ostetricia a Castellamare di Stabbia. Mi spiega Albin Thoeni: " L'acqua permette la mediazione tra dimensione razionale,

di controllo e quella emozionale di abbandono. Le vasche e gli ambienti famigliari nelle stanze sono parte integrante di un concetto più vasto, che ha come obiettivo la tutela del neonato e vuol garantire ai genitori un'esperienza bella e intensa. Il rispetto della libertà della donna e dell'intimità della coppia, il ruolo centrale dell'ostetrica nell'evento parto e la presenza discreta della figura del medico ginecologo, permettono di ricreare l'atmosfera di un parto a domicilio con il suo interventismo minimo che può coniugare la sicurezza di madre e neonato alla piena soddisfazione della partoriente che si sentirà al centro dell'evento, vivendo così il proprio parto nella più completa libertà e massima intimità". Il travaglio e la nascita in acqua avvengono in un clima di accoglienza e tenerezza. Il papà partecipa a tutte le fasi del travaglio cullando la mamma, massaggiandola e sostenendola nel dolore delle doglie. Qualche volta entra anche lui in vasca facendo con il suo corpo "parete" alla mamma che si appoggia per aprire il proprio grembo al miracolo della nascita. Assistere ad un parto é come ritrovarsi in un rito, che svela coraggio, dolore e verità che ogni volta, come fosse la prima volta, ci fa assistere al "miracolo" di una vita che si crea e si rivela assieme a turbini di emozioni ed energie contrastanti: la forza selvaggia e procreativa della donna, la sua fragilità e il suo "sacrificio", le antiche paure che accompagnano sempre il parto. Ma anche piacere orgasmico che si mischia a urla e dolori atroci che alla nascita si trasformano in un'onda d'amore incondizionato, di cura, di compassione, abnegazione e servizio dedicato alla nuova vita. La nascita sospinge la madre ma anche chi la assiste verso una dimensione di trascendenza e di comprensione di come tutto si riunisce con la solennità di un rito. Ci ricorda ancora Verena Schmid che: "Tornano i rituali della placenta, del seppellirla sotto una pianta fino a mangiarla o seccarla per usarla come rimedio nel tempo. Sono rituali simbolo del legame con le radici". E con la Terra madre. Anche la preparazione alla nascita, con meditazioni,

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watsu - shiatsu in acqua - tai chi e massaggi vuol dare centralità all'empowerment della donna che con il parto entra in una dimensione sacra e sovraumana. La nascita " si erge a rituale antico quanto il mondo" legata al sapere antico e a una memoria arcaica e profonda. E dove la vita umana si perpetua con i suoi valori e i suoi rituali. Per sempre. Assistendo ai parti ho fatto un bagno di verità ed emozioni. E ho pianto di gioia e meraviglia. La donna che partorisce é una madonna in trono: e il bimbo che nasce un piccolo "dio". Che può reinventare il mondo. Una bella immagine di parto, che riunisce la rilevanza del rito sacrale a quello della affermazione degli innati potenziali femminili, l'ho scovata nel villaggio di Yelapa, vicino ai territori degli indios Huicholes. Ai piedi della Sierra Madre Occidentale, una delle più inaccessibili e impervie regioni del Messico. E' un quadretto chiamato "Nierika" - perché rivela, come si crede, il volto della divinità. E' stato "dipinto" da uno sciamano con una tecnica particolare: dopo aver ricoperto una tavoletta di legno con uno strato di cera d'api mischiata ad una piccola quantità di resina, si abbozza il disegno incidendo la cera con un strumento appuntito, poi si procede premendo nei solchi del filo colorato. Il mio quadro raffigura la "Dea del Mondo" che crea e protegge ogni forma vivente. E' raffigurata nel momento magico del parto. Circondata da serpenti rituali ha tra le mani il sacro peyotel, un cactus, venerato come una divinità in quanto dispensa longevità, fortuna, salute, e che provoca uno stato d'estasi perché contiene mescalina. Morte e Rinascita. Può sembrare stravagante definire la morte non come la fine di tutto ma invece come un "Viaggio". Per questo in India sulle pire funerarie si agghinda la salma con un abito da viaggio. Sul ventre del cadavere é posto un sacchettino che contiene un pò di denaro ed altri amuleti per propiziare un lungo cammino. Prima c'é il fuoco che trasforma il cadavere in un mucchietto di ceneri poi gettate nell'acqua di un fiume che la

espande dappertutto. A Pashupati, il tempio più sacro del Nepal che é sulle sponde del Bagmati, sono rimasto una settimana a meditare e osservare la vita che scorre come l'acqua del fiume. Mi son messo vicino alle pire delle cremazioni. Osservare il disfacimento del corpo umano é una meditazione che mi é stata consigliata da Bhudi Lama, famosa jakhrini - sciamana - di Boudha e che fa parte del normale tirocinio di monaci e sciamani. Avevo paura. Ma volevo anche confrontarmi con le mie angosce. Prima di avvicinarmi a questi crematori "open air" ero spaventato dall'idea di rimanere

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per così tanto tempo a contatto con la morte. Ma invece, giorno dopo giorno, vagabondando sulle sponde di quel fiume, sentivo crescere in me una grande serenità. I morti bruciavano vicino a frotte di bimbi che sguazzavano nel fiume. Alle prime luci del mattino branchi di scimmie uscivano dalla foresta per avvicinarsi ai sacri templi a caccia di dolci frutta ed altre golosità offerte dai pellegrini alle divinità. Sulla sponda opposta le donne lavavano i panni, mentre intorno alle pire si davano un gran da fare i parenti in lutto, i "fuochisti" che regolavano i falò, e gli "aghori" veri padroni del posto. Appartengono ad

una setta di Sadhu che si perfeziona spiritualmente con rituali macabri e trasgressivi: dormire vicino alle pire, cuocersi il cibo con le braci della cremazione, circondarsi di simboli di morte, in particolare crani umani che utilizzano sia come boccali che come strumenti rituali. Quello che mi ha spiegato l'amica jakrini é che andare alle pire a meditare e pregare ci permette di scorgere il destino delle anime. Il fuoco consuma il cadavere liberando lo "spirito" del defunto in mezzo a turbinii di fumo, scintille e arcobaleni di luce che, sapientemente interpretati, ci indicano la qualità spirituale di chi brucia. La morte in Oriente é accolta come il rimedio per finalmente "volare" liberi verso altre vite celesti. Per questo si crede che l'obiettivo della vita sia la "moksha", la liberazione dall'illusione (Maya), la fine del ciclo delle reincarnazioni, la dissoluzione nel divino e la fusione con la coscienza cosmica. Anche in Giappone, dove shinto e buddismo si riuniscono armoniosamente, la morte é accolta con serenità e accettazione. Nell'antichità esistevano "giardini segreti" per prepararsi a una buona morte: deserti d'alta montagna, foreste e fiumi dove si "spariva" nel ventre di madre Natura e della creazione. Questa pratica era chiamata Obasuteyama. Nella provincia di Nagano c’è un monte scosceso e inquietante – il Kamurikiyama – che è ancora chiamato Obasuteyama. Chi sceglieva di concludere il proprio cammino umano e la propria ricerca di perfezione e santità, scompariva così nei deserti d’alta montagna. Programmando con un complicato rituale il tempo della propria morte. L’asceta si isolava nella “Terra Pura” di una foresta, praticando una dieta via via sempre più severa che si concludeva con il “danjiki” – il digiuno totale. Prima di tutto ci si asteneva dalle carni – dieta “nikudachi” – prescritta usualmente ai monaci buddisti. Poi si scartavano i cibi salati – dieta “shiodachi” – che precedeva il regime più austero – “kokudachi” – che escludeva cinque cereali: riso, frumento, miglio, orzo e avena. L’astensione dai cereali, consigliata dai saggi taoisti, oltre ad allungare la vita avrebbe affinato lo spirito donando saggezza e santità.

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Così si acquisiva un corpo “Buddha”. Si racconta che l’asceta leggendario Yosho ridusse il suo cibo alla dose di un chicco di miglio per poi scegliere un menù di radici, erbe selvatiche, pinoli, resine e aghi di pino. Ryosan, altro monaco pellegrino, si era ritirato nella foreste del monte Kimpu sopravvivendo con una dieta di solo fogliame. Un’altro regime di austerità - “Mokujiki”, la pratica delle tre essenze – prescriveva di nutrirsi solo con tre “essenze” del bosco che si potevano scegliere e che sarebbero diventati l’unico cibo. A questi digiunatori veniva attribuito il titolo di “mokujiki Shonin” – santi dei tre elisir. Miira, pratiche di auto mummificazione Col nome onorifico di “Shokushimbutsu” – o Buddha mummificati – venivano chiamati quei monaci coraggiosi che nelle sperdute foreste di Senninzawa e del Dewasanzan, nella provincia dello Yamagata, prolungavano queste diete fino al digiuno totale ed alla morte. Un vero e proprio suicidio rituale. La complessa procedura prevedeva i digiuni iniziali che escludevano carni, sale, cereali e gli elisir del bosco. E che erano protratti per cicli di tre, sei, nove anni. Alla fine di questa penitenza l’asceta beveva un tè velenoso preparato con la corteccia dell’ “Urushi” – l’albero della lacca giapponese. Il veleno procurava vomiti e la perdita di altri liquidi corporei. Lo scopo era di rinsecchire il corpo ma anche di renderlo indigeribile a vermi e larve. L’asceta era così pronto per il sacrificio estremo. Con l’aiuto di altri monaci preparava la sua tomba. Si scavava, nell’angolo di bosco preferito, una profonda buca dove veniva calata una cassa di legno. L’asceta entrava in questo “tempio”. Poi si richiudeva il tutto con un piano di legno ricoperto da un manto di terra. Si lasciava solo un minuscolo foro per infilarvi una canna di bambù che avrebbe permesso al nostro aspirante suicida almeno di respirare. In questa tomba, il sepolto vivo, si sedeva nella posizione del loto, con il rosario in mano e i suoi cimbali, continuando a pregare e meditare fino allo sfinimento. La sua morte era annunciata da un tragico silenzio. Tre anni dopo si doveva riaprire la cassa e se il corpo del coraggioso asceta era incorrotto se ne proclamava la santità.

Il suo cadavere veniva allora ripulito e ancor più mummificato con incensazioni ed altri accorgimenti. Alla fine dei trattamenti era rivestito con paramenti sacri per essere esposto sugli altari assieme alle altre statue di Buddha. I primi europei che studiarono queste mummie le chiamarono “miira”, immaginando che fossero conservate con la mirra egizia. Mentre il nome locale era “shokushimbutsu” che voleva indicare gli asceti “mai morti”, che con la loro ascesi avevano conquistato uno stato di perfezione, santità e immortalità. Nel 1960 sotto la guida di Ando Kosei, studioso dello sciamanesimo giapponese, si scoprirono e studiarono una trentina di queste mummie. Le più antiche risalivano al medioevo testimoniando così la lunga durata di questa pratica ascetica che è stata proibita ufficialmente solo cinquanta anni fa. Nei templi di Dainichibo e Churenji si può far visita a due mummie “shokushimbutsu”. Quella di Sada Testu, un omicida pentito che alla fine del 18° secolo, dopo anni di penitenza, si è automummificato diventando un miira, e che oggi purtroppo è diventata un’icona e un marchio commerciale che decora magliette e altri grotteschi souvenir. Quello che oggi è rimasto di questi digiuni ascetici è il menù vegetariano offerto al pellegrini nelle Jinje di montagna. E forse l’idea di chiudere con onore la propria vita scomparendo per sempre nel ventre santo della foresta, come facevano i miira, che é ancor oggi profondamente radicata nell’inconscio di ogni buon giapponese. Uno dei luoghi preferiti per compiere questo “suicidio rituale” è l’estesa foresta selvaggia che si estende ai piedi del monte Fuji, vicino a Tokyo. E’ chiamata “oceano d’alberi” – Aokigahara – e attrae ogni anno una piccola folla di disperati. Dal 1950 si sono contati 500 casi di suicidio. Per contrastare questa “moda” si è perfino istituito un corpo speciale di guardie forestali, di volontari e giornalisti “salvavita” che nel 2002 hanno ritrovato 70 corpi. La media è di 30 suicidi all’anno e di un centinaio di arresti di sospetti suicidi scoperti mentre vagabondano senza meta nei labirinti di questa foresta.