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Il vedutismo veneziano: una nuova visione Atti del Seminario 27 maggio 2011 Sala della Passione Pinacoteca di Brera, Milano

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Il vedutismo veneziano: una nuova visione

Atti del Seminario 27 maggio 2011

Sala della PassionePinacoteca di Brera, Milano

27 maggio 2011

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www.fondazionebracco.com

A Venezia, dipingi, dipingi! Ti grida la luce, scambiandoti per un

Canaletto, un Carpaccio, un Guardi

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Il vedutIsmo venezIano: una nuova vIsIone

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in collaborazione con

national Gallery of art, Washington

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Il vedutismo veneziano: una nuova visione

atti del seminario 27 maggio 2011

Pinacoteca di Brera, Milano

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sommario

Introduzione

Programma

Gli interventi

Diana Bracco

Sandrina Bandera

Aldo Bassetti

Caterina Bon Valsassina

David Allan Brown

Giandomenico Romanelli

Dario Camuffo

Dario Maran

Mariolina Olivari

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Fedele alla propria missione di promuovere il patrimonio artistico e storico italiano nel mondo e di diffondere espres-sioni della cultura, della scienza e dell’arte, la Fondazione Bracco è stata sponsor ufficiale della mostra “Venezia, Ca-naletto e i suoi rivali”, organizzata alla National Gallery of Art di Washington dal 20 febbraio al 30 maggio 2011, dove sono stati presentati al pubblico americano 20 dipinti di Canaletto e 33 dei suoi contemporanei più importanti, tra cui Gaspare Vanvitelli, Luca Carlevarijs, Michele Marieschi, Bernardo Bellotto e Francesco Guardi.La mostra è stata uno dei massimi eventi culturali a Wa-shington nell’anno delle celebrazioni per i 150 anni dell’U-nità d’Italia, registrando oltre 100.000 visitatori nei tre mesi di apertura. A chiusura della rassegna di Washington, si è voluto or-ganizzare a Milano presso la Pinacoteca di Brera, in colla-borazione con l’Istituzione stessa e l’Associazione Amici di Brera, il Seminario dal titolo “Il vedutismo veneziano: una nuova visione” per riflettere sull’eredità culturale e scientifi-ca di questa grande stagione della pittura veneziana, che ha messo in luce l’inscindibile connubio di arte e scienza. Lo stretto rapporto tra due discipline che si completano reciprocamente, come la ricerca pittorica e la ricerca scienti-fica, è stato ampiamente dimostrato all’interno della mostra stessa, dove, in uno spazio dedicato, è stato presentato lo strumento noto come “camera oscura”, usato da alcuni dei Vedutisti per costruire le loro vedute. Infatti come ha dichiarato il curatore della pittura ita-liana dell’Istituzione statunitense, David Alan Brown, uno tra i massimi esperti internazionali, “la grande esposizione allestita alla National Gallery of Art, è stata caratterizzata da una forte componente scientifica, legata soprattutto alla camera oscura: sappiamo che i pittori veneziani tenevano moltissimo alla precisione topografica dei propri lavori e sembra che, per costruire le loro vedute, abbiano utilizzato diversi strumenti tecnici, come appunto la camera oscura o

Introduzione

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una lente grandangolare. Lungi dall’essere un’illusione otti-ca, la camera oscura era funzionale all’organizzazione della congerie di dati visivi presenti nell’occhio ai fini della loro rappresentazione su una superficie piana”. Di conseguenza la Fondazione Bracco ha commissiona-to uno studio sull’uso della camera oscura da parte dei Ve-dutisti a Dario Camuffo, Professore dell’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima del CNR di Padova, mentre Dario Maran, docente alla veneziana Ca’ Foscari, ha contribuito coni suoi studi offrendo un’analisi dettagliata del “Quader-no” di disegni di Canaletto, i cosiddetti “scaraboti”, tracciati grazie alla camera oscura, che ci svelano come alla fine il pittore li usasse per “montare” le sue vedute al pari di sce-nografie teatrali. Inoltre Giandomenico Romanelli, già direttore della Fon-dazione Musei Civici di Venezia, ha illustrato il nuovo modo di intendere la “visione” introdotto da Canaletto e dai suoi amici/rivali per immortalare una città che ha ispirato una scuola di pittori, i quali ne hanno dipinto pietra per pietra, canale per canale, catturando vedute, ancora oggi riconosci-bili, divenute icone nell’immaginario del mondo. Ma erano proprio “vedute” o non erano invece “visioni”? Ecco l’intrigante interrogativo, a cui il Prof. Romanelli cerca di dare una risposta, sottolineando come questi pittori non siano nati dal nulla, ma al contrario abbiano lavorato su un humus culturale ricchissimo, popolato in pochi decenni di distanza, prima o dopo di loro, da figure dello spessore di Tiepolo o Algarotti e su cui le suggestioni architettoniche di Vitruvio e Palladio e le visioni di Piranesi, hanno esercitato un influsso enorme. Fu vera città o quella, come l’Illuminista Francesco Al-garotti, famoso in tutta Europa, sollecitava Canaletto, che “fabbricar potrebbesi? Ai lettori il dubbio, se non la sentenza. π

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14.30

Registrazione partecipanti

15.00

Saluto di benvenuto

diana BraccoPresidente Fondazione Bracco

sandrina BanderaSoprintendente e Direttore della Pinacoteca di Brera

aldo BassettIPresidente Associazione Amici di Brera

caterina Bon valsassInaDirettore Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Lombardia

15.40

Video sulla mostra “Venice: Canaletto and his Rivals” National Gallery of Art, Washington

15.45

“venezia: canaletto e i suoi rivali”david alan BroWnCuratore pittura italiana, National Gallery of Art, Washington

16.15

“canaletto e i suoi amici: veduta e/o visione?”Giandomenico romanellIDirettore Fondazione Musei Civici di Venezia

Programma

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16.35

Video sull’uso della camera oscura nel ‘700 National Gallery, LondonSi ringrazia la National Gallery di Londra per la gentile concessione

16.50

“la camera oscura: il nostro occhio nel passato” dario camuffoCNR - Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima

17.20

“canaletto e il Quaderno” dario maranUniversità Ca’ Foscari di Venezia

17.35

“un capriccio di carlevarijs a Brera” mariolina olIvarIPinacoteca di Brera

17.50

visita alla Pinacoteca di Brera con focus sulle opere dei vedutisti presenti nella collezione (canaletto, Bellotto, carlevarijs)

18.30

aperitivo

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saluto di benvenuto di diana BraccoPresidente Fondazione Bracco

Buongiorno e benvenuti a tutti. Un grazie anzitutto al Soprintendente e Direttore del-la Pinacoteca di Brera Sandrina Bandera e al Presidente dell’Associazione Amici di Brera Aldo Bassetti che ospitano il nostro simposio in questa splendida Sala della Passione. Fondazione Bracco ha fortemente voluto questa impor-tante giornata di studio che si tiene pochi giorni prima della chiusura della mostra “Venezia: Canaletto e i suoi Rivali”. L’esposizione, che è stata organizzata a Washington dalla National Gallery of Art insieme con la National Gallery di Londra e che è stata sostenuta dalla nostra Fondazione, ha avuto uno straordinario successo di pubblico, registrando oltre 100.000 visitatori fino ad oggi, ed è stata uno dei mas-simi eventi della Capitale americana. Voglio ringraziare di cuore il Prof. David Allan Brown della National Gallery of Art di Washington, tra i massimi esperti mondiali di pittura italiana, che ci onora della sua qualificata presenza e che ci illustrerà alcuni aspetti artistici e scientifici legati alla mostra. Un grazie a distanza anche a Charles Beddington, cu-ratore dell’esposizione di Londra e di Washington: la colla-borazione tra le due Gallerie Nazionali inglese e americana ha permesso di raccogliere un numero eccezionale di capo-lavori, tra cui venti fra i più bei Canaletto esistenti. Come Fondazione Bracco siamo stati onorati e orgogliosi di aver contribuito a un così significativo progetto culturale, proprio nell’anno in cui si celebra il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Questa d’altronde è stata solo una delle tante importanti iniziative che abbiamo messo in campo per onorare questa storica ricorrenza.

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Lasciatemi ricordare anzitutto il sostegno al Concerto dell’Orchestra della Fondazione Lirico-Sinfonica del Petruz-zelli diretta dal Maestro Maazel che si è tenuto il 17 marzo scorso presso l’Ambasciata d’Italia a Washington. Un modo concreto per contribuire alla promozione della cultura ita-liana nel mondo e per rinsaldare la lunga amicizia tra Italia e Stati Uniti. Un ulteriore grande progetto è stato il restauro della Gal-leria di Papa Alessandro VII Chigi nel Palazzo del Quirinale, la cui conclusione è prevista quest’anno. Per noi è un’occa-sione storica: è la prima volta, infatti, che un soggetto privato ha l’opportunità di essere Partner della Presidenza della Re-pubblica in un progetto di recupero della sua centenaria sede.Tre iniziative legate ai 150 anni dell’Unità d’Italia e accomu-nate da un unico fil rouge: la tutela e la promozione, in Italia e nel mondo, del patrimonio culturale nazionale. Proprio questa spiccata “italianità”, che ci piace rivendi-care, è uno dei tratti della Fondazione Bracco. Un’istituzione nata da poco più di un anno, ma già attiva in progetti cul-turali, scientifici e sociali impegnativi, che affonda le sue radici nel patrimonio di valori maturati in oltre 80 anni di storia della Famiglia e dell’Azienda Bracco. Ciò che rende uniche le imprese familiari è proprio il fat-to che si fondano sulla volontà di un imprenditore che vuol costruire qualcosa che vada al di là del lavoro, un progetto di vita che racchiude al suo interno una storia vera e personale – quella appunto di una famiglia. Proprio per questo mi sen-to di dire che le imprese familiari sono dotate di una qualità e di una linfa vitale che dà loro qualcosa in più: l’anima. La Fondazione Bracco vuole cercare di cogliere e custo-dire quest’anima, facendola conoscere ai nostri giovani. E penso alle giovani generazioni dei miei nipoti, ma anche ai molti giovani che entrano via via a lavorare nel Gruppo.

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La Fondazione, che ha una connotazione fortemente in-ternazionale, si propone di sostenere la valorizzazione del patrimonio culturale, storico e artistico nazionale; sviluppa-re la sensibilità ambientale; promuovere la ricerca scientifi-ca e la tutela della salute; favorire la formazione professiona-le dei giovani; sviluppare iniziative di carattere assistenziale e solidale per contribuire al benessere della collettività. All’interno delle macroaree “scienza”, “sociale”, “cul-tura”, stiamo realizzando progetti concreti, tutti ispirati al patrimonio di valori tangibili e intangibili dell’impresa Bracco e degli imprenditori che attraverso le generazioni ne sono stati alla guida: l’etica della responsabilità, il senso del dovere, la ricerca della qualità e dell’eccellenza, l’impegno per l’innovazione continua, l’attenzione verso la persona, lo stretto legame con le comunità e il territorio. Nell’ambito delle iniziative a carattere scientifico la Fondazione dedica un’attenzione speciale su aree quali la diagnostica e la prevenzione, la medicina personalizzata, lo studio delle interrelazioni fra le problematiche della salute e quelle socioculturali. Inoltre, la “questione di genere”, ov-vero l’attenzione verso le problematiche femminili nei vari ambiti della vita, è il vero fil rouge che collega in modo tra-sversale tutti i nostri progetti. È per questo che, in occasione dell’8 marzo di quest’anno e del 2010 abbiamo organizzato due simposi scientifici cen-trati proprio sulla salute della donna: nel primo abbiamo av-viato una riflessione su “Diagnostica e prevenzione amiche della donna”; nel secondo abbiamo presentato i risultati di un’indagine scientifica realizzata dalla DOXA per la Fonda-zione Bracco in collaborazione con l’Assessorato alla Salute del Comune di Milano, in cui viene valutato l’impatto degli stili di vita e delle attività culturali e sociali sulla felicità dei cittadini, con un focus particolare sulla popolazione femmi-nile.

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In ambito culturale, come Bracco abbiamo sempre cre-duto che non si possa costruire il futuro se non si conosce il passato; proprio perché consideriamo l’unione di impresa e cultura un binomio vincente, abbiamo sostenuto prima come Azienda e ora attraverso la Fondazione progetti cultu-rali in vari campi in Italia e all’estero: dalla musica classica al recupero di beni architettonici all’organizzazione di mo-stre d’arte. Questa straordinaria mostra su Venezia, ad esempio, rap-presenta il proseguimento di un rapporto che con la Natio-nal Gallery of Art di Washington risale già al 2006, quando Bracco ebbe l’opportunità di sostenere l’esposizione dedicata ai grandi Maestri del Rinascimento Bellini, Giorgione e Ti-ziano.

Oltre alle iniziative a favore della scienza e della cultura, l’impegno di Fondazione Bracco si declina infine anche nei tanti programmi a carattere sociale: voglio richiamare in particolare le iniziative rivolte ai giovani, e intese come investimento nello sviluppo individuale e collettivo dei ra-gazzi. I giovani sono infatti una risorsa indispensabile per costruire un futuro all’insegna di un’equilibrata conviven-za. Molti i programmi concreti già realizzati: dalle borse di studio in campo scientifico e artistico ai progetti di colla-borazione con l’Istituzione scolastica e le Università; dalle opportunità di stage in azienda alle attività ricreative; dal sostegno allo sport al supporto al disagio. Tutti progetti volti a coltivare e a far crescere i talenti individuali, tenendo stretto il legame tra il patrimonio da conservare e il futuro da costruire. Promuovere l’arte e la scienza e aiutare i giovani ci sembra il modo migliore per mantenere vivo questo legame.

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Franz Kafka diceva che la giovinezza è felice perché ha la capacità di vedere la bellezza. Chiunque sia in grado di man-tenere la capacità di vedere la bellezza non invecchierà mai veramente, e sarà sempre capace di capire il presente e im-maginare il futuro.Grazie a tutti. π

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sandrina BanderaSoprintendente e Direttore della Pinacoteca di Brera

Meritato applauso alla Signora Bracco e alla Fondazione Bracco che fa sempre tanto per la cultura e per portare an-che all’estero la grandezza dell’arte e della cultura italiana. Ho avuto la fortuna di vedere a Washington la mostra. È una mostra straordinaria per il tema della veduta, che na-turalmente è sempre toccante, per l’aspetto anche di diffu-sione, della comunicazione che metteva bene in luce anche la problematica della committenza e che è sempre molto affascinante, moderna, dopo gli studi di Francis Haskell. Ma devo dire ciò che mi ha straordinariamente affascinato nel vedere queste opere, quasi tutte di collezione francese o an-glosassone, comunque non italiane, quindi di provenienza abbastanza rara, è la poesia straordinaria della pittura di questi Maestri veneziani. E credo che sia questo il punto no-dale che ha affascinato anche i centomila visitatori. La luce, la sensazione di percepire i silenzi della laguna, la liquidità della laguna, i rumori del mattino. Un fascino incredibile, perché è veramente, al di là di qualsiasi argomento di studio, di qualsiasi argomento di prospettiva, comunque una pittura di una poesia straordinaria. Quindi è anche bello che qual-cuno in Italia abbia sostenuto questa diffusione all’estero di un settore così importante della nostra cultura artistica. Sono stata così grata alla Fondazione Bracco quando ci è stata offerta l’occasione di offrire in qualche modo, se così si può dire, questa sala per lo svolgimento della presentazione della mostra qui a Milano. È anche un’occasione per avere degli studiosi importanti, come David Allan Brown e Roma-nelli, i professori Maran e Camuffo e anche, devo dire, per dare un po’ di spazio e di lustro a una donazione recente di un Carlevaris che generosamente ci è stato offerto. Il dona-tore tra l’altro è qui presente e quindi un’occasione anche per dare un po’ di spazio alla Pinacoteca che ha un settore abbastanza dignitoso di vedutisti.

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Non voglio occupare di più questo tempo prezioso e pas-so la parola a chi è stato un po’ paladino e ha fatto da in-termediario, che nelle grandi occasioni ci è sempre vicino, il nostro presidente degli Amici di Brera, Aldo Bassetti, che ci sostiene sempre nelle grandi giornate. π

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aldo BassettIPresidente Associazione Amici di Brera

Grazie prima di tutto. Io sono molto lieto di partecipare a questo seminario che certamente – e guardo la Dott.ssa Bracco – inaugura un rapporto di collaborazione tra gli Ami-ci di Brera, che sono da sempre attivi a fianco della Pinaco-teca, e la Fondazione Bracco,che si è distinta in questi anni per la qualità e l’interesse delle proprie iniziative. Fu proprio a seguito - e Lei, Dott.ssa Bracco lo ricorda – del convegno “Perché è importante investire in cultura”, convegno organizzato dalla Fondazione Bracco, in quegli splendidi ambienti, che io pensai a una possibile, reciproca collaborazione. C’è stata poi una conferenza stampa di presentazione della mostra di Washington, esempio molto valido di come una privata Fondazione, gestita con visioni intelligenti e mo-derne e sottolineo questi aspetti, possa sollecitare, approfon-dire temi di particolare valore storico e artistico e ricavarne conclusioni di grande interesse. Perché una delle cose che più mi ha colpito è stato il tasso d’interesse del pubblico che era presente durante quella conferenza stampa. E di-fatti l’attenzione dei partecipanti, gli stimoli e le curiosità suscitati, furono assolutamente inaspettati. Fu così aperto un nuovo interesse nell’osservazione dei dipinti dei Vedutisti veneziani e, quindi, un ulteriore convincimento dell’assolu-ta qualità ed eccezionalità di quelle opere. Infatti io mi ricor-do quando l’esperto fece vedere quella camera oscura, capii come la descrizione del paesaggio non era un descrizione di tipo fotografico, ma era una descrizione di tipo interpretati-vo, creativo. Al termine di quella conferenza io mi congratulai con la presidente della Bracco ed ebbi modo di esprimerle (mi ricordo che eravamo in piedi in anticamera) quanto sarebbe stato auspicabile un seminario di approfondimento su Cana-letto e il Vedutismo Veneziano.

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L’importante mostra di Washington, che la Fondazione Bracco ha sponsorizzato con sapiente mecenatismo e intelli-gente opportunità, diventa un’occasione importante, anche per Milano. Infatti nella nostra città, oltre alle opere conser-vate a Brera, sono presenti veri e propri capolavori di quel periodo in numerose collezioni pubbliche e private. Quindi sono certo che i collezionisti milanesi e non solo questi non potranno non essere stimolati dal tema e dalla qualità di questo seminario. L’importanza dei relatori, le loro qualifi-che e professionalità ne garantiscono la validità. D’altra parte la Pinacoteca di Brera è un importante e fondamentale punto di riferimento storico e artistico della città. Ecco allora che gli Amici di Brera tenacemente insi-stono affinché le importanti forze economiche e culturali, presenti a Milano, sollecitino e partecipino all’attuazione del grande progetto di Brera. Non è e non deve essere im-possibile. Lo scorso luglio, a Palazzo Marino, veniva sottoscritta un’intesa tra i Ministeri competenti e cioè Beni Culturali, Difesa e Università, per la realizzazione della Grande Brera. Da quel giorno purtroppo abbiamo avuto soltanto silenzio e immobilità. E colgo, pubblicamente se mi consentite, l’oc-casione di ribadire la necessità di realizzare quanto conte-nuto in quel documento. È un contenuto generico, ma è un contenuto politico e di principio. Nuovi spazi espositivi per la Pinacoteca. Sale per le mostre temporanee. Auditorium. Sono una reale necessità di questa Pinacoteca e Milano non può mancare questa occasione. Quindi io ringrazio Sandrina Bandera che ci ha dato l’o-spitalità in questa splendida sala. Ringrazio la Fondazione Bracco e ho terminato. Grazie. π

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caterina Bon valsassInaDirettore Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Lombardia

Buonasera a tutti. Io per la verità non ho fatto assolutamen-te nulla per la giornata di studi, salvo essere qua, con grande gioia, e quindi debbo, come primissima cosa, ringraziare le tre persone che mi hanno preceduto nelle comunicazioni: la Presidente della Fondazione Bracco che non solo ha realiz-zato la mostra americana, ma anche ha consentito questo convegno, Aldo Bassetti, presidente degli Amici di Brera e amico anche mio personale, per avere consentito a tutti noi di essere oggi qui presenti attorno a un argomento che m’in-teressa molto sia come direttore regionale per i beni cultu-rali e paesaggistici della Lombardia, ma molto di più come storico dell’arte e “veneziana” nel cuore. Ringrazio per ulti-ma il Soprintendente Sandrina Bandera, in base al principio family hold back,dove per “family” si intende il Ministero per i beni e le attività culturali in tutte le sue articolazioni, che ci ospita tutti. Esauriti saluti e ringraziamenti per l’eccellente organiz-zazione della giornata,aggiungo che m’interessa di questo convegno assolutamente tutto, dai nomi dei relatori che sono tutti amici e colleghi, penso a David Allan Brown, all’a-mico Romanelli, m’interessa il contenuto e soprattutto la raffigurazione di Venezia, che ancora ricordo dalla mostra di Treviso su Canaletto curata da Giuseppe Pavanello nel 2009, di cui parlavamo un attimo fa con Nico Romanelli. Quindi è un tema interessantissimo questo del vedutismo veneziano. Sono molto curiosa dell’intervento che farà Ca-muffo sulla camera oscura, vista da un punto di vista di sto-ria della scienza, come funzionava esattamente, e mi torna alla mente un testo che per me è sempre stato capitale per capire come funzionavano quegli strumenti di osservazione che tentano di riprodurre la realtà, ma poi anche di inter-pretarla. Penso alla Svetlana Alpers nel suo saggio L’arte del descrivere e a uno splendido brano di Comenio che lei ripor-ta in questo libro, un testo della metà del Seicento, in cui dà le indicazioni di come vada condotta un’osservazione corret-ta con tutte le prescrizioni per “insegnare a osservare”: un

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metodo che può essere praticato utilmente per osservare un prato, un quadro, qualsiasi cosa, che guida l’osservatore in maniera tale che l’occhio diventi come una sorta di scanner laser – lo dico con un termine moderno – in grado di imple-mentare la propria memoria visiva. Io questo insegnamento sull’ osservazione del Comenio l’ho praticato per constatar-ne l’efficacia e verificare che non è vero che sempre osservia-mo seguendo queste prescrizioni. Ho potuto praticare su me stessa, che se si osserva così come dice il Comenio, in realtà qualunque cosa si guardi in questo modo, viene immagaz-zinata in maniera indelebile nella propria memoria visiva. Per questo sono particolarmente curiosa di quell’aspetto non solo da storico dell’arte puro, ma utile a capire invece come funzionava l’unione fra strumenti di osservazione e l’arte della pittura. Un altro aspetto delle comunicazioni di questa giornata che mi è particolarmente caro sono i temi raffigurati, e cioè Venezia. Venezia in cui possiamo andare a guardare “ma guarda, quella cosa adesso non c’è più” e vedere come la pittura non serve solo a dire che è bella o che è interessante o perché la si collezionava, ma potrebbe essere anche un utilissimo strumento, per esempio, nel corso di un restauro di un edificio, per vedere gli scarti, per vedere come si tin-teggiava, che materiali si utilizzavano e così via. Voglio dire come utilizzare i quadri anche come documenti figurativi che possano servire non solo per la loro qualità estetica, ma anche per indagare con maggior precisione sull’assetto di una città nel suo insieme. Io a questo punto però sono troppo curiosa e quindi mi preparo ad ascoltare i convegnisti. Grazie. π

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venezia: canaletto e i suoi rivalidavid alan BrownCuratore pittura italiana National Gallery of Art, Washington

Sarà ancora aperta per tre giorni, fino al 30 maggio, alla National Gallery of Art di Washington la mostra Venezia: Canaletto e i suoi rivali, che ha riscosso un successo inter-nazionale. A quegli appassionati d’arte che non possono re-sistere a un buon affare può interessare sapere che l’ingresso alla mostra, così come alla Galleria stessa, è gratuito. Ma, dato il tempo limitato e la probabilità che chi non l’abbia ancora visitata non lo farà, vorrei in questa occasione pro-porre una sorta di visita virtuale dei suoi punti di maggior interesse. Organizzata in collaborazione con la National Gallery di Londra, questa esposizione è allestita su due li-velli nell’East Building della galleria, disegnato dall’archi-tetto IM Pei e aperta al pubblico nel 1978 alla presenza del Presidente Jimmy Carter. L’esposizione presenta una ventina dei più bei dipinti di Canaletto e oltre trenta opere dei suoi contemporanei più importanti, tra i quali Gaspare Vanvi-telli, Luca Carlevarijs, Michele Marieschi, Bernardo Bellotto e Francesco Guardi. Ognuno di questi pittori di Venezia ha rappresentato la città in modo diverso e tutti in competi-zione fra di loro in un mercato dominato dal British Grand Tour, al suo apice nel XVIII secolo. Il concetto della mostra come una serie di rivalità con il Canaletto è stato svilup-pato dal curatore Charles Beddington, esperto dell’artista e mercante d’arte a Londra. Il mio ruolo, come curatore di coordinamento a Washington, è stato quello di contribuire a selezionare le opere, a progettare l’installazione, e a prepa-rare didascalie e targhe. Il mio personale campo di ricerca, come molti di voi sapranno, è il Rinascimento italiano e, detto tra noi, devo confessare che quando ho iniziato a la-vorare su questo progetto, non apprezzavo particolarmente i dipinti dei Vedutisti. Ora, a tre anni di distanza, posso dire di essermi convertito alla bellezza e alla complessità del ge-nere, in particolare al Canaletto, che è, a mio parere, il vero eroe della mostra, rispetto a Guardi, che forse è più adatto al gusto contemporaneo.

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La mostra fa parte di una serie di eventi che si sono tenu-ti a Washington e in tutti gli Stati Uniti per celebrare il 150° anniversario dell’Unità d’Italia e la lunga amicizia che lega i due paesi. Rendendo omaggio a uno dei maggiori successi della cultura italiana, la mostra dei Vedutisti ha inaugurato le celebrazioni di tutto ciò che è italiano, attraverso confe-renze, film, concerti e spettacoli teatrali. L’eredità italiana è in questo modo più che mai viva a Washington. In linea con un concetto di mostra che si allontana dai tradizionali “splendori” o “tesori”, Canaletto e i suoi rivali mira a un maggior coinvolgimento di parte di un pubblico che non si limita all’ammirazione passiva. Grazie alle capacità pre-stitoriali delle due gallerie nazionali, la mostra comprende un gran numero di capolavori, che tuttavia non sono pre-sentati come tali. A differenza delle precedenti mostre su Venezia e su Canaletto, questa si concentra sulle rivalità che hanno opposto l’artista ai suoi “colleghi”. Il nostro obiettivo non è stato di collocare Canaletto su un piedistallo, ma di gettare nuove luci sulle sue opere nel contesto di un merca-to guidato dal Grand Tour, senza però sminuirne i risultati. Attraverso una serie di accostamenti di opere di Canalet-to e degli altri Vedutisti, i visitatori della mostra possono confrontare diverse rappresentazioni degli stessi (o simili) luoghi e monumenti. Il nostro obiettivo era coinvolgere lo spettatore in modo attivo affinché vivesse un’esperienza significativa e indimenticabile, proprio come una visita a Venezia. Tuttavia i visitatori della mostra non sono incorag-giati ad impadronirsi dei quadri per esporli nelle loro ville di campagna, anche se questo era il loro scopo originale. Come spiega la didascalia introduttiva, Venezia, perla delle isole del Mare Adriatico, è stata una delle principali destinazioni per viaggiatori e aristocratici del XVIII secolo. I viaggiatori europei del Grand Tour – il viaggio nei luoghi culturali più significativi, considerato essenziale per l’educazione di un gentiluomo – venivano ad ammirare la millenaria Repub-blica, le sue magnifiche opere d’arte, e i palazzi e le chiese

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che sorgono tra le acque dei canali e la laguna. Venivano inoltre per partecipare alle grandi feste e alle cerimonie non senza la promessa di divertimenti meno elevati che Venezia sapeva offrire. Un dipinto / ricordo costituiva un’importante e duratura testimonianza di un viaggio nella Serenissima. All’ingresso della mostra è collocata proprio una gondola d’epoca appartenuta al pittore americano Thomas Moran ed ora nel Museo Mariners di Newport News, in Virginia. Fig. 1 Moran è conosciuto come pittore del West americano, ma ha vissuto e lavorato a Venezia per circa un decennio nel tardo XIX secolo, diventando noto come “il Turner Americano”. Moran acquistò la gondola, forse dal figlio dei poeti Robert e Elizabeth Browning e, quando rimpatriò, la riportò alla sua residenza a Long Island, New York. Lì un Indiano gli ha fatto da gondoliere, portando il pittore e la sua famiglia sul lago in cui vivevano. Possiamo confrontare un’immagine romantica di Venezia di Moran, che raffigura la sua rispo-sta emotiva alla città, con la veduta del Molo dal Bacino di San Marco di Canaletto, dato in prestito per la mostra dalla Regina Elisabetta II. Il contrasto con dipinti come quelli di Moran o di Turner ha dato origine all’opinione che le vedute di Canaletto fossero semplicemente topografiche e, in questo senso, prive di arte. Questa è stata più o meno l’idea che io ho avuto di queste immagini quando ho iniziato a lavorare su di esse. La verità è che un’opera come quella di Cana-letto, per quanto appaia precisa, contiene molteplici sottili cambiamenti e modifiche, per non parlare delle distorsioni, realizzate per produrre un effetto estetico. In realtà, ogni dipinto nella mostra sembra mediare tra l’esigenza di ser-vire come documentazione pittorica da un lato, e l’essere un’opera d’arte esteticamente soddisfacente, dall’altro. Un cambiamento ricorrente nella mostra riguarda la maestosa altezza del campanile di San Marco, che è stata notevolmen-te ridotta nei quadri per adattarsi a un formato compatto orizzontale. La gondola, una delle più antiche del mondo, esposta all’ingresso della mostra, ha lo scopo di attrarre visi-

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Fig. 1thomas moranLo Splendore di Venezia, 1889The Philbrook Museum of Art, Tulsa

Fig. 2canalettoIl Molo dal Bacino di San Marco nel giorno del’AscensioneThe Royal Collection, Her Majesty Queen Elizabeth II

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tatori e trasportarli visivamente nella città lagunare celebra-ta dalle vedute di Canaletto e dei suoi rivali. Fig. 2

Organizzata cronologicamente, la mostra inizia con l’o-pera di Vanvitelli, che ha portato a Venezia una meticolosa rappresentazione delle vedute urbane, tipica della tradizione nordica, dando vita al primo dipinto vedutista della città nel 1697, anno di nascita di Canaletto. Nella prima sala si trovano anche un dipinto di Luca Carlevarijs, fondatore del-la scuola veneziana di Vedutisti, che ha stabilito le norme per raffigurare luoghi famosi, adottate anche dal Canaletto e dagli artisti successivi. Canaletto iniziò a dipingere vedute a partire dal 1720 e rapidamente ha sfidato il dominio di Car-levarijs in questo campo. Il giovane Canaletto aveva comin-ciato la sua carriera come pittore di scenografie, lavorando come assistente di suo padre. A riflettere il background di Canaletto come pittore teatrale sono le ombre profonde, le nubi minacciose, i dettagli ampiamente sfumati e il tono drammatico delle prime opere, come Piazza San Marco Fig. 3, esposto su prestito del Museo Thyssen Bornemisza di Madrid, o Campo San Vidal e Santa Maria della Carità (Il laboratorio del tagliapietre), Fig. 4, dalla National Gallery di Londra, e il Rio dei Mendicanti da Ca’ Rezzonico. Dipinti di ampie superfici e imponenti, Campo San Vidal e Santa Maria della Carità (Il laboratorio del tagliapietre) e il Rio dei Mendicanti, creati per i committenti tedeschi, sono uni-ci nell’opera di Canaletto. Entrambi mettono in luce luoghi insoliti e di vita quotidiana a Venezia, con molti dettagli pit-toreschi come gli scalpellini al lavoro o la donna appoggiata ad un balcone. Il bucato steso ad asciugare figura in primo piano in entrambe le immagini. La volontà dell’artista di rappresentare gli angoli più remoti di Venezia, e non solo i suoi principali monumenti e scorci, lo distinse dai suoi pre-decessori, ma non gli fece ottenere una supremazia nel cam-po. Alla fine degli anni ’20 del Settecento, Canaletto iniziò a dipingere vedute più piccole intrise di luce solare. Questo passaggio fondamentale a vedute di luoghi riconoscibili, re-

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Fig. 3canaletto Piazza San MarcoMuseo Thyssen Bornemisza, Madrid

Fig. 4

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Fig. 5canalettoL’ingresso del Canal Grande, verso ovest, con la Basilica della SaluteMuseum of Fine Arts, Houston

Fig. 6canalettoIl Bacino di San MarcoMuseum of Fine Arts, Boston

Fig. 7

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lativamente piccole, molto luminose e dai dettagli sfocati è mostrato da una tela centrale della mostra, Il Canal Gran-de e la chiesa di Santa Maria della Salute dal Museum of Fine Arts di Houston Fig. 5. Dipinti come questo attirano gli stranieri, soprattutto i visitatori inglesi, il cui patrocinio era assicurato dall’imprenditore e console inglese Joseph Smith. Per i turisti, questi dipinti erano più semplici da trasportare e da appendere in gruppi. La sala successiva della mostra, che mette a confronto Canaletto e Marieschi, esibisce quella che è indiscutibilmen-te la più bella opera di Canaletto oggi in America, il Bacino di San Marco Fig. 6, in prestito dal Museum of Fine Arts di Boston. Questa magnifica tela di dimensioni insolitamente grandi era appartenuta precedentemente al conte di Carlisle a Castle Howard, ed essendo stata venduta dalla collezione, è miracolosamente sopravvissuta al disastroso incendio che ha distrutto quasi tutte le sue opere di Canaletto. Il dipinto offre un’ ampia veduta panoramica del bacino da un punto di vista inspiegabilmente alto. La rappresentazione della cit-tà, minuziosamente dettagliata, che si estende in lontanan-za, fa da contrappunto estetico alle imbarcazioni in primo piano. Delineando più dettagli di quanti ne possa percepire l’occhio umano, il dipinto sembra essere un insieme di ve-dute annotate separatamente in disegni, magari utilizzando un dispositivo ottico come una lente grandangolare. Un di-pinto come questo richiedeva mesi per essere completato, e Canaletto era, in effetti, notoriamente lento nel portare a termine le sue opere. Questa debolezza, dal punto di vista del committente, ha offerto un’opportunità a Marieschi, la cui visione molto semplificata della stessa scena si contrap-pone nella mostra a quella del Canaletto. Fig.  7 Marieschi aveva il vantaggio di lavorare velocemente, utilizzando pen-nellate ampie e fluide e avvalendosi di collaboratori per le sue figure. Con un prezzo più basso per le sue opere rispetto a quelle di Canaletto, Marieschi avrebbe costituito un peri-colo concorrente per l’artista, se non fosse morto giovane,

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all’età di 33 anni, nel 1743. Al piano superiore si accede alla stanza successiva della mostra, dedicata alla rappresentazione di feste e cerimo-nie. Come spiega il pannello della sala, nessun’altra città in Europa organizzava un numero così alto di manifestazioni civili e religiose come Venezia. Questi spettacoli potevano durare per giorni o addirittura mesi nel caso del Carnevale. Il susseguirsi infinito di celebrazioni ha segnato la progressi-va decadenza di Venezia, da potenza politica ed economica, a parco giochi del lusso e del divertimento. A questo punto della mostra ritroviamo Carlevarijs, come il maestro che ha istituito gli standard per rappresentare questi eventi. Fig. 8 

In questo confronto, Carlevarijs, sulla sinistra, ritrae la festa dell’Ascensione, quando l’imbarcazione ufficiale dei dogi, il Bucintoro, veniva condotta nella laguna, dove il capo di stato veneziano gettava un anello nelle acque, a simboleg-giare il dominio della Serenissima sul mare. La grande tela di Carlevarijs, una delle due che Gina Lollobrigida vendette al Getty Museum nel 1984, ritrae il fasto e il fervore della manifestazione, nella quale l’enorme imbarcazione, sontuo-samente rivestita in oro e accompagnata da una moltitudine di altre navi, inizia il viaggio verso il Lido. La vista della città, incentrata sul Palazzo Ducale, non è altro che uno sfondo poco preciso per la colorata flottiglia in primo piano. La raffigurazione del Canaletto della festa dell’Ascensione è uno dei quattordici dipinti vedutisti che l’artista fece per il console Smith, il quale li vendette a re Giorgio III nel 1762. Dipinto che la sua discendente, la Regina Elisabetta, ha pre-stato alla mostra. La versione di Canaletto, che, al contrario di quella del Carlevarijs, è più piccola e presenta un maggio-re equilibrio tra figure e architettura, è resa nei minimi par-ticolari che danno vita all’evento. La parete opposta offre un contrasto altrettanto illuminante fra Carlevarijs e Canaletto nel dipingere una regata sul Canal Grande Fig. 9. Potremmo forse affermare che l’opera di Canaletto, sempre in prestito dalla collezione reale, ha la dignità sobria di un monarca,

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Fig. 8

Fig. 9

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mentre il Carlevarijs, a destra, raffigura lo sfarzo dell’attrice alla quale apparteneva in precedenza. Principale sponsor della mostra di Washington è stata la Fondazione Bracco, che da sempre nutre un interesse par-ticolare per l’arte e la scienza. Nella precedente mostra che Bracco ha promosso presso la National Gallery, il legame tra arte e scienza era stato rappresentato da radiografie che mo-stravano il modo in cui Bellini, Giorgione, Tiziano avevano elaborato le composizioni sotto la superficie dipinta nelle loro tele. Nella mostra di oggi, la connessione arte/scienza riguarda invece la camera oscura. Sappiamo che i Vedutisti veneziani apprezzavano la precisione topografica e sembra che per realizzare le loro vedute abbiano utilizzato disposi-tivi ottici, come la camera oscura o il grandangolo. Il Museo Correr di Venezia ha prestato all’esposizione due esempi sto-rici della camera oscura che, esposti insieme ad altri tre re-alizzati per l’occasione, hanno permesso ai visitatori di farsi un’idea di come questo strumento scientifico venisse utiliz-zato per progettare, invertire, e abbozzare gli edifici e le pro-spettive. Fig. 10 Altri relatori specialisti tratteranno proprio come Canaletto e i suoi colleghi abbiano adattato la camera oscura con quale effetto. Vorrei qui fornire la mia opinione sulla camera oscura che, lungi dall’essere un gioco ottico, è servito allo scopo di organizzare la grande quantità di dati visivi presentati all’occhio, per riprodurli su una superficie piana, dando quindi all’artista un controllo su ciò che aveva visto; in altre parole, ha portato ordine nel caos. Una carat-teristica distintiva dei lavori di Canaletto è il suo metodo di rappresentare la stessa scena da diversi punti di vista. Nell’opera Piazza San Marco, che fa parte della collezione della Galleria, il punto di vista dal quale si vede la basilica, collocato in alto, deve essere integrato da un secondo punto di vista, più lontano da sinistra, che riesce così a includere nel suo campo visivo la piazzetta e il bacino, altrimenti non visibili. Fig. 11

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Fig. 10canalettoPiazza San Marco, verso sud-ovestWadsworth Atheneum, Hartford, CT

Fig. 11canalettoPiazza San Marco e la Piazzetta, verso sud-estNational Gallery of Art, Washington

Fig. 12

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Fig. 13Bellotto L’Arsenale, VeneziaNational Gallery of Canada, Ottawa

Fig. 14

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La sala successiva della mostra riunisce Canaletto e il ni-pote Bernardo Bellotto, le cui vedute vengono spesso confuse con quelle dello zio. Fig. 12 I primi lavori di Bellotto, come il Campo Santi Giovanni e Paolo, presente nella collezione della National Gallery, sulla sinistra, si ispirano a quelli del più anziano maestro. Quando quest’opera è arrivata a Wa-shington, infatti, si è creduto che appartenesse a Canaletto. Altri dipinti di Bellotto, tuttavia, mostrano una sensibilità nettamente diversa. Mentre in Canaletto tutto è armonia, il giovane Bellotto tendeva a esaltare l’architettura della città, come in una magnifica tela verticale dell’Arsenale, prestata alla mostra dalla Galleria Nazionale del Canada, a Ottawa. Fig. 13 Quest’opera è un’invenzione di Bellotto e presenta il simbolo del dominio marittimo di Venezia in un modo quasi surreale, come in un film di Cecil B. De Mille. Le enormi statue di leoni in pietra, sottratte ad Atene nel 1687 e di guardia all’ingresso dell’edificio, sono in contrasto con le piccole figure umane, mentre le ombre profonde in cui la scena è avvolta, conferiscono un’intensità quasi minacciosa. Nonostante la sua importanza storica come cantiere navale, l’Arsenale era un soggetto raro per i Vedutisti, quindi non sorprende che l’interpretazione di Bellotto non abbia tro-vato eco. Quando negli anni Quaranta del secolo la Guerra di Successione Austriaca ha reso difficili i viaggi a Venezia, Canaletto si trasferì dove si trovavano i suoi clienti, cioè in Inghilterra, dove visse e lavorò per più di un decennio. An-che Bellotto partì da Venezia, nel suo caso, per non tornare mai più. A Nord delle Alpi ha trovato quella fredda luce in-vernale che sembrava già pervadere le sue scene veneziane. La mostra si conclude con Francesco Guardi, il nuovo rivale apparso dopo il ritorno di Canaletto a Venezia negli anni 50 del secolo. Guardi, che a differenza degli altri Vedutisti ha iniziato come pittore figurativo, ha appreso l’arte della pittura vedutista copiando le stampe di Canaletto. Un paio di straordinari dipinti del Guardi, in prestito dal Museo Gul-benkian, Lisbona, mostra come il pittore ha trattato due del-

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le vedute più celebri di Venezia: Piazza San Marco e il Canal Grande. Fig.  14 Tutti i suoi predecessori avevano illustrato il carattere monumentale degli spazi urbani della città. Ma Guardi ha qui colto il sentimento della città nel suo glo-rioso declino. Le sue pennellate leggere dissolvono piazze e palazzi in vibranti immagini che celebrano una grandezza ormai passata. Nelle ultime opere della mostra, Guardi vol-ta simbolicamente le spalle alla città per creare delicate e poetiche impressioni delle piccole isole della Laguna. Fig. 15 Le sue rappresentazioni della laguna, con la natura che do-mina sulle opere dell’uomo, si avvicinano allo spirito della rappresentazione di paesaggi puri, prefigurando l’approccio romantico nel rappresentare Venezia, che abbiamo visto in Thomas Moran. La loro luce scintillante anticipa inoltre gli impressionisti e Whistler. Così l’opera di Guardi rappresenta davvero la conclusione del glorioso capitolo del Vedutismo veneziano. π

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Fig. 15GuardiL’Isola della Madonetta nella lagunaFogg Art Museum HUAM, Cambridge Mass.

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canaletto e i suoi amici: veduta e/o visione?Giandomenico romanelliDirettore Fondazione Musei Civici di Venezia

Quando la segreteria scientifica della Fondazione Bracco mi ha chiesto di partecipare a questo seminario, mi sono sen-tito onorato per l’invito, come succede in questi casi. Ho quindi suggerito un titolo possibile al mio intervento, quello, appunto, che compare nel folder del programma: “Canaletto e i suoi amici” ho poi chiosato dopo i due punti con un inter-rogativo: veduta e/o visione? E ho scoperto con piacere che, seppure usata in maniera diversa, la parola visione ricorre nel titolo stesso dell’incontro di oggi: “Il vedutismo venezia-no: una nuova visione”. Ripeto: la stessa parola viene usata in due accezioni di-verse, da me e dalla organizzazione del seminario. Tutta-via ho trovato assai stimolante e interessante questa coin-cidenza. Fra l’altro l’introduzione così dettagliata e precisa proposta da David Brown, mi esime da ogni altro tipo di ragionamento descrittivo e/o sistematico e mi consente un peregrinare più libero –se non proprio stravagante- dentro alle problematiche del vedutismo. Sono infatti convinto che, al di là del piacere, al di là della bellezza, al di là della con-solazione, al di là del ricordo che il vedutismo stimola e ha da sempre stimolato, al di là di tutto questo quindi, dentro e dietro il vedutismo alberga una fitta serie di complesse problematiche: si tratta di questioni di carattere e natura latamente culturali; ma anche di tipo squisitamente icono-grafico, di profilo tecnico (di questo, altri dopo di me tratte-ranno con più competenza) che coinvolgono direttamente e, vorrei dire, radicalmente, il piano che possiamo definire “ideologico”. Tornando al mio titolo, devo dire che, per la sua formula-zione, mi sono ispirato a una definizione che mi piace molto e che è stata coniata da due studiosi di Carpaccio, Augusto Gentili e Flavia Polignano, i quali hanno parlato a lungo e in maniera molto competente e innovativa, delle celebri “Due Dame” e del piccolo e a lungo misterioso dipinto che si trova oggi negli Stati Uniti, la cosiddetta “Caccia in valle”, esposto al Getty Museum di Los Angeles. Come si sa, “La caccia”

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canaletto, Il Bucintoro al molo il giorno dell’Ascensione, The Royal Collection © 2011 Her Majesty Queen Elizabeth II

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altro non è che la parte superiore della tavola con le “Due Dame”, firmata da Vittore Carpaccio, del Museo Correr. L’e-spressione che ho tratto dagli scritti di Gentili e Polignano in riferimento al paesaggio lagunare raffigurato nella “Caccia in valle”, e che mi ha subito sedotto, è: “non è veduta, ma visione”. Non è panorama dal balcone delle due dame, ma proiezione allegorica e simbolica dei loro pensieri. Quando è stato scritto qualche anno fa, il saggio in cui l’espressione è contenuta, tagliava le gambe a tutta una se-rie di elucubrazioni e di considerazioni fatte dagli storici dell’arte veneziana sul fatto che quella “Caccia in valle” sa-rebbe stata il primo brano conosciuto di pittura pura, il pri-mo brano di vedutismo e di pittura di paesaggio svincolata da ogni pretesa e obbligo di “funzione”, fosse scenografica, illustrativa, allegorica, morale e così via. Ma non era vero niente! Quando è stato dimostrato che si tratta del frammento di un dipinto più vasto – e più com-plesso – dotato di altro significato e di una precisa carat-terizzazione allegorica – come i due hanno brillantemen-te argomentato – si è capito che bisognava dare al dipinto un’altra collocazione semantica: non è veduta, ma visione, così come hanno scritto i nostri due studiosi. È proiezione psicologica, se si vuole. Lo ripeto, perché mi sembra che tut-to questo sia piuttosto importante: è proiezione allegorica dei loro pensieri.

La veduta invece, venendo al genere che ha avuto nel tempo lo strepitoso successo che sappiamo, che oggi siamo chia-mati a trattare e che è illustrato in maniera così qualita-tivamente alta nella mostra prima di Londra e poi di Wa-shington, quel vedutismo è, analogamente a quel che siamo venuti dicendo, veduta o è visione? È un’operazione per così dire fotografica, di registrazione, di testimonianza, di do-cumentazione o è qualcosa d’altro? La domanda non è da poco, come è agevole intuire; ma, al suo seguito, ne sorgono e ne sgorgano molte altre e non meno immediate, radicali e,

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per noi, ineludibili: perché il vedutismo si sviluppa a Venezia e non altrove? Quali sono le premesse, l’humus, le condizio-ni, la spinta e l’obbligo quasi che hanno spinto questi artisti a fare del vedutismo? Da dove veniva questa moda o questo bisogno? Da sempre, ci è stato detto, giustamente, che il crogiuolo si può rinvenire nella cultura pittorica tedesca e, potremmo aggiungere, anche in quella fiamminga: tutti ricordano le molte pagine -fino a Proust!- sulla veduta di Delft o su altre vedute olandesi che hanno influenzato la storia di altre pit-ture, di altri mondi, di altri universi. Ma si deve insistere e ripetere la domanda: perché proprio a Venezia? Ricordo con piacere, soddisfazione e un po’ di nostalgia la grande mostra che realizzammo nel 2002-03 a Roma e poi a Venezia dedicata all’opera di Vanvitelli: essa cercava di spiegare, di individuare il nesso, di cogliere l’elemento sca-tenante che permetteva il passaggio da una poetica illustra-zione, come era quella di Vanvitelli, alla genialità sublime di Canaletto. Canaletto certamente non si forma e si afferma così dal nulla, quasi per fatalità o per un caso felice. Come se egli fosse a lavorare come decoratore e scenografo appresso al padre e a un certo punto, tra una scena e un fondale, si fosse detto: “sarebbe interessante che mi mettessi a dipinge-re un po’ di paesaggio, che mi dedicassi a questo genere che sta montando e dà grandi soddisfazioni –anche economi-che-, che ha un buon pubblico e si vende bene:la veduta”. Non paesaggi -che hanno già dei valenti professionisti-; non pastorellerie e fonti, ruscelli e rocce e macchie d’alberi; nemmeno marine, con o senza battaglie o naufragi o pe-scatori e così via. No: meglio una veduta di città, di questa problematica e inusuale città che è Venezia, tra calli e canali, campi e chiese, la Piazza e il Molo. E, infatti, salvo che a Londra, quando egli allarga la scena e introduce un po’ di territorio, Canaletto dipinge siti urbani, spazio costruito e abitato, scorci tagliati, portici e atri, banchine approdi rive, frammenti di città, insomma. Dentro lo spazio definito, ge-

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ometrico, misurabile, quantificabile, illustrabile in formule prospettiche e in tempi in modo da fornirci delle straordina-rie meditazioni su Venezia: questo sono le sue vedute. Non sono Venezia, piuttosto meditazioni su Venezia. Eccola una prima risposta ai nostri quesiti: vi è, in Ca-naletto, una assoluta libertà di proporzioni, di punti di vi-sta; libertà di ingrandire, di diminuire, allargare, abbassare, di stringere e di introdurre punti di fuga multipli e antite-tici. E, infatti, non si tratta di una documentazione sulla città. Certo, la sua pittura può essere utile e servire anche come memoria, come ricordo, come ricaduta ineguagliabile e souvenir sublime del Grand Tour da parte di chi poteva permettersi il lusso di compierlo, così come di comprare o di commissionare opere ad artisti come Carlevarijs o come Canaletto o agli altri artisti che si sono più o meno brillan-temente affermati sulla scena della veduta e che abbiamo appena sentito richiamare e illustrare. Ma dietro c’era anche dell’altro. Non dimentichiamo che Canaletto si forma in un con-testo e si confronta con delle personalità che non sono cosa da poco: non è gente che si accontentava della vedutina, come si accontenteranno poi i clienti del figlio di Francesco Guardi, Giacomo, che disegnava e dipingeva le sue veduti-ne formato cartolina, che poi vendeva nel negozio indicato esplicitamente ai piedi della scena, “sono in vendita nel tal negozio, nella bottega che si trova al ponte dei Bareteri al tale numero ecc. ecc”. Quello era un prodotto evidentemente da grande pubblico, ripetitivo e quasi seriale. Ma Canaletto è un’altra cosa! Carlevarijs è un’altra cosa! Con chi si confrontava Canaletto? Chi erano i suoi inter-locutori? Chi c’era attorno a lui quando rifletteva sulla città? E poi, Canaletto dipinge solo vedute? Dipinge cioè solo questi straordinari e incredibili grandangolari su Venezia, sui suoi siti o su parti di città ritratta da punti di vista insoli-ti, anche se non unici evidentemente? Ricordiamo, a questo proposito, che Carlevarijs pubblica nel 1703 “Le Fabbriche

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e Vedute di Venetia”, una serie di vedute, cento e una, per la precisione, che già danno esattamente il repertorio pres-soché completo di tutti i punti di vista da cui lavoreranno poi i vedutisti. Non si tratta di invenzioni estemporanee in-somma, non sono il frutto del capriccio di un giorno: oggi mi metto qua e dipingo questa veduta. I soggetti si sono sedimentati in liste, in repertori. Era, insomma, gente che studiava, che meditava, che dava lucidamente senso al pro-prio lavoro. Ma Canaletto, si diceva, non realizza solo vedute, ma capricci, disegni finiti e acquerellati, incisioni; egli elabora invenzioni su sollecitazione nientemeno che di Francesco Al-garotti, cioè del più famoso, se non certo il più grande, tra i letterati dell’ illuminismo italiano; l’uomo, per intenderci, del “Newtonianesimo per le dame” dei “Viaggi di Russia”, ce-lebre internazionalmente e che poteva vantare una rete di re-lazioni continentale; colui, infine, che diventa l’insostituibile collettore di dipinti italiani per le corti dell’Europa intera. Su sollecitazione di Francesco Algarotti, il nostro Anto-nio Canal, in arte Canaletto, si mette al tavolino e poi, ta-volozza alla mano, davanti alla tela e compone e scompone dei Capricci che non sono capricci, che sono piuttosto delle raffinate esercitazioni intellettuali, cioè degli smontaggi e rimontaggi, destrutturazioni e ricostruzioni di architetture ipotetiche e reali per far “vedere” quella città – come diceva Algarotti quando gli suggeriva questi temi – “che fabbricar potrebbesi”. Una città “che fabbricar potrebbesi”. Possiamo già dire che c’è dell’utopia, quindi, dietro e dentro Canaletto, non c’è di certo solo un generico gusto per il paesaggio e la veduta. O, almeno, non c’è questo soltanto. Lo spessore culturale di Canaletto è ben diverso da quello del pittore che va in giro a fare paesaggi. Canaletto si con-fronta con Tiepolo. Tiepolo talvolta realizza le figure di qual-cuna delle tele canalettiane, celebri sono soprattutto le due famose con “S. Francesco della Vigna”, interno ed esterno. Zuccarelli è anch’egli impegnato in tali pastiches con ani-

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mali e figurine dentro ad alcune scene e vedute veneziane. Anche Piazzetta è lì da preso: e l’uno dipinge e l’altro incide e illustra e Antonio Visentini traduce i dipinti e i disegni in lastre di rame: è l’atelier del Console Smith, un moderno laboratorio multimediale in cui tutto ciò accade e si verifica; Smith, come si sa, oltre che mercante, è collezionista e un po’ mecenate e un altro po’ è anche imprenditore cultura-le e editore. Assieme ad Albrizzi ha una casa editrice che pubblica opere classiche con le vignette di Piazzetta come la “Gerusalemme liberata”; che usa i disegni di Tiepolo, che vende e scambia, esporta e compra, investe.

Canaletto assai presto si mette anch’egli a lavorare per l’inci-sione: si tratta di materiali che trovano più agevole smercio rispetto ai dipinti (i quali, tra l’altro, hanno raggiunto quota-zioni vertiginose che solo i collezionisti inglesi oramai si pos-sono permettere) ma sono anche assai utili e maneggevoli per dar vita a dei veri e propri “cataloghi” su cui i clienti più facoltosi possono scegliere la loro veduta dipinta; ma queste incisioni sono di certo, assieme a quelle di Giambattista Tie-polo, tra le più straordinarie incisioni che abbia prodotto il ‘700 europeo. I nostri vedutisti sono intellettuali che riflettono, si do-cumentano, discutono, si confrontano: intellettuali a tutto tondo, cioè; è gente che ha dentro di sé un pensiero. Non sono degli esecutori meccanici (magari con l’ausilio della camera oscura) né prodigiosi traduttori e interpreti di una memoria visiva. Essi hanno idee e ideologia e mettono in forma un pensiero molto forte e articolato. Dicevo prima che c’è dell’utopia. Ma perché Venezia? Perché non altre città? Milano: bisogna aspettare l’800 per trovare un vedutismo milanese. Torino: bisogna aspettare che vi si rechi Bellotto –uscen-do dalla bottega dello zio Canaletto- per trovare belle vedute di Torino. Ma è così anche altrove: Firenze non ha veduti-smo né Genova e così via.

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Perché a Venezia? Potremmo tentare una prima rispo-sta: nessuna altra città, nemmeno Roma, ha confidato in termini tanto perentori e fin dai primi secoli d’esistenza le proprie fortune (politiche, istituzionali, diplomatiche, eco-nomiche, morali…) al proprio apparire, cioè appunto alla propria forma così come essa veniva proposta e percepita; la qualità scenografica urbana e la sua ‘assunzione’ fondante e ideologica sono, quindi, sin dall’origine, acquisiste come molto forti o, addirittura, perfette. Raffigurare la città po-teva significare anche trasferire nella rappresentazione una parte delle ‘qualità’ che ne supportavano e garantivano tale perfezione (un potere simile, mutatis mutandis, a quello di una reliquia, potremmo dire semplificando). Questo ha sem-pre legittimato e incoraggiato l’uso della città e di sue parti come ambiente, fondale se non addirittura protagonista di eventi: storia e storie antiche e moderne, storie inventate, storie letterarie o addirittura storie della salvezza. In un ce-lebre retablo di Antoin Ronzen a Saint Maximin au Var in Provenza, c’è la raffigurazione del Cristo deriso della Passio-ne, che ha come ambientazione la Piazzetta di San Marco! E poi annunciazioni e ultime cene, visitazioni e conviti evan-gelici, parusie ed epifanie; e storie di Alessandro Magno e di Carlomagno, cicli cavallereschi e imprese crociate, e così via. Insomma: ‘vedere’ Venezia e rappresentarla era un fatto usuale e assai praticato, se ne possedeva, infine, la chiave psicologica oltre che ideologica. Non è un caso. Non sono fatti occasionali o casuali. La città era riuscita a proporre se stessa come uno scenario per-fetto per qualsiasi narrazione e per qualsiasi ideologizzazio-ne sullo spazio e sul tempo. Non dimentichiamo che Venezia ha un proprio ed esclu-sivo tempo, un tempo di fruizione, un tempo di vita, un tempo di percezione, un tempo di spostamento (la barca e non la carrozza!) ma anche un tempo di trascrizione della sua immagine, che è suo ed esclusivamente suo.

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canaletto, Regata sul Canal Grande, The Royal Collection © 2011 Her Majesty Queen Elizabeth II

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Bene, Canaletto e i suoi amici, o i suoi rivali a seconda di come si preferisca vederli, sono artisti che si impossessano di questi strumenti e che li usano, ma, soprattutto, che li usano per un proprio progetto. Quando Algarotti suggerisce a Canaletto di realizzare dei dipinti per testimoniare e dar forma all’idea di una città che “fabbricar potrebbesi”, signi-fica che egli introduce lucidamente un elemento di critica forte alle condizioni dello sviluppo e della forma della città in questo secolo XVIII pur così vitale, così vivace, così imba-razzante, anche, e sotto molti punti di vista. Non lontano da Canaletto c’era Padre Lodoli e magari Tommaso Temanza, cioè personalità di livello europeo che discutevano e disputavano di architettura con teorici france-si, inglesi e tedeschi, che li tenevano in grande considerazio-ne; si ragionava di Vitruvio e di Palladio, soprattutto di Pal-ladio, riproposto come punto di riferimento per la riforma del linguaggio dell’architettura non meno che per una lettu-ra funzionale moderna e classica della forma urbana. E non per caso Canaletto metterà – così come farà anche Guardi al traino di lui – il ponte di Rialto di Palladio sul Canal Grande in alcune delle sue tele. Oppure metterà insieme la Basilica di Vicenza, il ponte di Palladio, la chiesa di S. Francesco del-la Vigna sulle sponde del Canal Grande: si sta discutendo e si sta ragionando, si sta leggendo e re-interpretando la storia e suoi segni, i fatti così come gli atti mancati.

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Se poi volessimo però anche metterci a ragionare di linguag-gi e dei modi secondo i quali li declinano i singoli vedutisti, dovremmo cambiare registro ben sapendo anche che, pur-troppo, siamo stati in un certo senso avvelenati dall’osses-sione dell’attribuzione, che ha assorbito per decenni l’atti-vità di critici e filologi non sempre con risultati encomiabili (salvo, forse, che per il mercato antiquario): si tratta dell’uno o dell’altro? E in quale preciso momento? Chi imita e chi è imitato? Scuola, bottega o ‘ambito di’? Per carità, non mi si fraintenda: è giusto, legittimo e opportuno che a un certo punto si cerchi di arrivare al catalogo ufficiale: ma anche il vedutismo come corrente artistica e culturale va ben al di là del micragnoso disputare attribuzionistico (salvo, lo ripeto, che per le quotazioni del mercato!) c’è il respiro dell’arte e della storia che soffia sotto, c’è la originalità di protagonisti di massimo livello, c’è, insomma, del genio oltre all’oscilla-zione del prezzo raggiunto in asta. Vi sono, a ben vedere, elementi che non possono essere confusi nell’uno o nell’altro. Bellotto, che spesso è stato con-fuso con Canaletto (e talvolta gli artisti ci hanno messo del loro a creare e alimentare queste confusioni: tutti sanno che fuori di Venezia Bellotto si firma Canaletto, come lo zio!), non usa la luce di Canaletto, usa una luce nera. I dipinti di Bellotto sono intrisi di luce nera, mentre quella di Canaletto è spesso una luce solare, pomeridiana, dorata, oppure mat-tutina, limpida come un cristallo.

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Se si guardano le architetture di Bellotto, si vedrà che sono tutte contornate di nero, di una linea nera che non troverete assolutamente nei dipinti di Canaletto, né in quel-li di Carlevarijs, ma nemmeno in quelli di Marieschi. Cioè ognuno elabora degli stilemi da una parte, che usa costante-mente ma liberamente accompagnati da una sorta di basso continuo, per così dire; ogni dipinto diviene poi parte qua-lificante e irrinunciabile di un grande e complesso mosaico, di un insieme vasto e capiente in cui la città reale si ‘tradu-ce’ in rappresentazioni accostabili, comparabili, ma non per formare un unico immenso panorama continuo, bensì per testimoniare diversità e versatilità di un luogo e dell’idea di quel luogo, o, meglio, delle molte idee di quel luogo (che è il più delle volte proprio Venezia). E qui convergono realtà e siti possibili, quelli “che fabbricar potrebbonsi”, per restare con Algarotti; e altri innumerevoli luoghi e sogni, tempi e contesti, altre realtà, altre forme, altre utopie.

C’è poi il problema, lasciatemelo almeno citare, dei Capric-ci. Non si capisce Canaletto, si capisce ancor meno Guardi, senza mettere insieme alle vedute in senso stretto, i Capricci. I Capricci non sono il lavoro fatto nei ritagli di tempo dagli artisti. I capricci sono essenziali per definire e per decifrare la loro poetica. Come è possibile non parlare dei Capricci quando il tema del Capriccio investiva personalità così determinanti, così protagoniste sulla scena artistica non soltanto veneziana? E, analogamente, è possibile parlare di Canaletto senza par-lare di Piranesi? Io credo che non sia possibile; cioè, an-che se sfalsati cronologicamente di una ventina d’anni, non esiste l’uno senza l’altro (mentre Tiepolo appare osservare sornione dal bianco argentato dei suoi fantastici capricci!). L’esperienza di Piranesi per quanto riguarda l’analisi del monumento, dello spazio, della storia e del tempo introdu-ce un’ottica fortemente, esasperatamente visionaria, anche quando egli –apparentemente- rileva con parametri ogget-

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tivi un frammento di pietra o un’architettura (ecco perché all’inizio vi dicevo che per me è molto importante questo tema della visione). La visionarietà, quindi, è la libertà di rompere i rapporti proporzionali, la libertà di rompere l’im-paginazione, di costruire gli scenari appropriati, è un meto-do di destrutturazione e annichilimento, di radicalità nera e utopica insieme: questo metodo quindi, non è possibile leggerlo, vederlo, interpretarlo e capirlo prescindendo da Pi-ranesi. Da Piranesi e da tutto ciò che ne è derivato.

Detto questo, posso solo provare invidia per chi ha avuto la fortuna o ancora per qualche giorno ha ancora la fortuna, di poter vedere la mostra di Washington; fortuna eccelsa, basti pensare all’opportunità di trovarsi davanti a quello che a mio giudizio è il capolavoro assoluto di Canaletto, cioè il “Bacino di S. Marco” di Boston, che è una tale sintesi di pensiero, di riflessione sulla città, di critica, di poetica che raramente è possibile trovare altrettanto profonda e altret-tanto rivoluzionaria come in questa tela: c’è uno spazio che si espande e si allarga in maniera incommensurabile men-tre da destra avanza una sorta di prua di nave, l’isola di S. Giorgio. Questa dinamica fa sì che l’osservatore si avveda nettamente, anche se in maniera metaforica o allegorica, dell’incombere di qualche cosa che sta per mutare, che è in corso una metamorfosi tragica: e qui Canaletto mostra di avere la percezione sublime e subliminare del tempo pre-sente che si muta in futuro, grazie a quell’antenna che solo i grandi poeti, i grandi artisti sanno ascoltare (e consente loro di avvertire la sensazione netta del futuro che incombe). Questo paesaggio mastodontico e dilatato fino a togliere il respiro, ci fa dire: ma come è possibile, una veduta che va dal campanile di S. Marco o ancor prima, fino a comprende-re tutto il Bacino, tutto. E c’è tutto, ogni finestra, ogni pietra di ogni casa e ogni sartia delle navi e ogni albero e ogni prua, ogni barca, ogni vogatore, ogni cappello rosso con cui si fregiavano i facchini del porto di Venezia. C’è tutto dentro,

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canaletto (1697-1768)Bacino di San Marco, Venezia, ca. 1738Olio su telaMuseum of Fine Arts, BostonAbbott Lawrence Fund, Seth K.Sweetser and Charles Edward French FundPhotograph C, Museum of Fine Arts, Boston

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ma tutto è sospeso come un attimo prima di un’esplosione. È tutto come prima di una rivoluzione, prima di un cataclisma che cambierà l’universo. E per capire quel cataclisma biso-gna andare proprio ai Capricci di Piranesi che ne potrebbero essere in certo senso, l’antitesi: lì quella che appariva come imminente deflagrazione, una colossale esplosione, si tra-sforma in una incommensurabile implosione e tutto spro-fonda dentro una sorta di buco nero che conduce a prima della storia, in un passato mitico e prometeico che va a for-mare le “Carceri”, geometria di spazi impossibili e però così psicologicamente veri, tragici e palpitanti. In Canaletto l’equilibrio sembra piuttosto propende-re verso il futuro, verso un’utopia razionale e newtoniana, scientifica e non meno vibrante, lucida, perfetta e totale.

Io vi chiedo, quando entrate in un museo e siete affascinati da una qualche “veduta” o, riflettendo, vi lasciate sedurre dal complesso fenomeno artistico e culturale di straordina-ria qualità e intensità che chiamiamo vedutismo, vi chie-do, dicevo, di pensate che anche la singola tela è il punto di arrivo, il risultato strepitoso e impareggiabile (ovvero sommesso e modesto) di un processo culturale complesso, ideologico, altrettanto commisto di utopia urbana che di esaltante ed emozionata percezione di un luogo, di archi-tetture, di spazi, di forma che si trasforma spesso in prosa e descrizione ma talvolta tocca il linguaggio più alto della pittura e si fa poesia. π

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la camera oscura: il nostro occhio nel passatodario camuffoCNR - Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima, Padova

riassuntoIn generale, le immagini dei dipinti forniscono informazioni di tipo qualitativo, ma nel caso di Venezia è possibile otte-nere una valutazione di quanto il livello del mare sia salito grazie alla precisione di alcuni dipinti eseguiti con l’ausilio della camera oscura. Per questo motivo vengono esaminati la storia della camera oscura, il suo sviluppo tecnologico e il suo utilizzo nel campo della scienza (specialmente per osser-vazioni astronomiche) e dell’arte, dato che la camera venne considerata un occhio artificiale e le sue “vedute naturali” superiori in bellezza “all’arte della pittura”. Il primo famoso pittore che usò a Venezia la camera oscura fu Paolo Caliari, soprannominato il Veronese, che nel 1571 dipinse la “Presentazione della Famiglia Coccina alla Vergine”, ora alla Gemäldegalerie Alte Meister a Dresda. L’i-potesi che Veronese abbia riprodotto Palazzo Coccina (ora Papadopoli Arrivabene) con l’ausilio di una camera oscura è suffragata dalla testimonianza indiretta di un altro venezia-no contemporaneo, Luca Barbaro, dalla precisione geome-trica della riproduzione, dal confronto con un’altra riprodu-zione dello stesso palazzo fatta da Luca Carlevarijs nel 1703 con una camera oscura. La camera oscura divenne popolare a Venezia tra il XVII e il XVIII secolo con i Vedutisti, a partire da Caspar Adria-ens detto il Vanvitelli, Luca Carlevarijs, Michele Marieschi, Giovan Antonio Canal detto il Canaletto, Bernardo Bellotto, Francesco Guardi, Gabriele Bella, Giuseppe Bernardino Bi-son e Giambattista Piranesi. Nel XVIII secolo due storici veneziani, Algarotti e Za-netti, descrissero l’uso locale della camera oscura. Algarotti scrisse che la camera oscura era necessaria ai pittori quanto il telescopio per gli astronomi e il microscopio per i fisici, e in particolare che i più famosi Vedutisti contemporanei facevano uso quotidiano della camera oscura. Zanetti fece una lista dei pittori attivi a Venezia, e nel commentare il loro stile dette la chiave per interpretare Canaletto che si servì

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della camera oscura come un utile ausilio, ma con la guida e l’aggiunta della fantasia. Le vedute panoramiche di Canaletto erano composte da una o più vedute parziali ottenute riposizionando la camera: prima da buon regista per scegliere i punti di ripresa e le immagini migliori, poi da esperto scenografo teatrale per creare degli scenari veneziani in cui piazze ed edifici veni-vano valorizzati nel modo migliore, anche se questo poteva comportare la compresenza di più punti focali (uno per ri-presa), o di più prospettive non perfettamente legate tra loro, ovvero la rotazione, la contrazione o l’espansione di qualche immagine. Oltre alla veduta statica (con un solo punto di osservazione, come la macchina fotografica) Canaletto usò la veduta dinamica, combinando tra loro immagini ripre-se da punti diversi, come le può vedere una persona che passeggia in un dato posto. Il riposizionamento della came-ra oscura a distanze minori o maggiori dal nuovo soggetto portava ad aumentare o diminuire le dimensioni di questo e il pantografo dava ancor maggiore libertà nelle scelte delle dimensioni. La conseguenza fu che in tali casi la prospettiva non era unica, i vari edifici appartenevano a vedute parziali indipendenti, erano relazionati tra loro da distanze spaziali non reali, e talvolta avevano proporzioni falsate. Le scene di vita con persone e animali erano invenzioni fantastiche per ottenere una Venezia viva e gustosa. Se invece si focalizza l’attenzione solo su una qualche parte del dipinto, che può comprendere uno o più palaz-zi, la riproduzione architettonica diviene incredibilmente precisa. In particolare, i dipinti di Canaletto e Bellotto por-tano la testimonianza dell’inquinamento che nel passato affliggeva Venezia, con palazzi severamente anneriti dopo solo 150 anni di vita. L’annerimento dei palazzi è riprodot-to fedelmente con un gradiente nell’intensità che riflette il dilavaggio maggiore ai piani più elevati per l’azione delle gocce di pioggia trasportate dal vento, o il maggiore anne-rimento sotto alle balconate, o la scia bianca dove l’acqua

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percola tra pietra e pietra dilavando la superficie. Nei quadri si trova anche la fascia verde brunastra delle alghe e questa costituisce un indicatore biologico dell’altezza media delle alte maree. Confrontando il livello delle alghe nei quadri con quello che si trova sui palazzi oggi, e conside-rando che lo spostamento del livello delle alghe corrisponde allo spostamento del livello del mare avvenuto nel frattempo si può ricostruire la crescita del mare negli ultimi secoli. Questa misura però va corretta per due fattori: il primo è l’aumento dell’altezza media delle onde nei canali, un tem-po dovute solo all’azione del vento e delle barche a remi, oggi aumentate per l’azione dei natanti a motore; il secondo l’aumento dinamico delle onde lunghe in laguna a seguito degli scavi di approfondimento dei canali. Dopo aver valu-tato tali fattori di disturbo, la crescita del livello del mare deducibile dal dipinto di Veronese, dal 1571 a oggi, è 82±9 cm; dai quadri di Canaletto e Bellotto, dalla prima metà del XVIII secolo a oggi, 64±11 cm. Questo significa che nel pe-riodo tra Veronese e Canaletto la velocità 1,2 mm/anno con cui la città veniva sommersa era sostanzialmente metà di quella odierna (2,4 mm/anno). Vengono inoltre esaminati errori e incertezze possibili con questo metodo. In particolare, in presenza di una serie di dipinti riproducenti la stessa veduta e di datazione incer-ta, si suppone che al primo della serie si possa fare maggior affidamento più preciso rispetto agli altri, ma come ricono-scerlo? Si può riconoscere il dipinto capostipite che ha ge-nerato i successivi e ricostruire l’ordine delle copie nel loro albero genealogico? La metodologia proposta si basa sulla valutazione dei piccoli “errori” intesi come la valutazione quantitativa di quanto certi dettagli nei dipinti si discosti-no dalle dimensioni reali del soggetto che possiamo con-trollare oggi nei palazzi che furono copiati. Sembra logico supporre che il primo dipinto di una serie, che potremmo chiamare l’originale, sia maggiormente accurato in tutte le proporzioni, mentre le copie successive vanno degradando

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nella precisione, essendo affette da un aumento casuale di piccoli errori riscontrabili come lievi deviazioni dalla realtà. Inoltre, se un certo quadro capostipite è affetto da un certo tipo di errore, di una data consistenza, tutti i quadri derivati da questo devono ripetere lo stesso tipo di errore. Sorpren-dentemente, nella serie analizzata, composta da sei vedute apparentemente identiche, eseguite da Canaletto, Bellotto e un Anonimo (forse ancora Bellotto?), ne è risultato che tutti i dipinti sono indipendenti tra loro. Infine si discutono brevemente le azioni intraprese per la salvaguardia della città, incluso il MOSE, il sistema basato su barriere mobili da alzarsi nel caso di acqua alta. Un proble-ma insoluto è che le murature a Venezia sono impregnate di sale marino e i cicli di cristallizzazione - dissoluzione del sale sono destinati, nel lungo periodo, a disgregare le murature.

1. IntroduzioneIl riscaldamento globale costituisce una sfida tremenda per la società, specialmente nelle zone costiere. Tra queste vi è Venezia, ricca di storia, di arte, di patrimonio monumentale, ed è a rischio di sommersione per la concomitanza di due fattori: l’espansione termica delle acque oceaniche dovuta appunto al riscaldamento globale, e la subsidenza del terre-no. La subsidenza è prevalentemente dovuta a moti tettonici che hanno un andamento localmente costante da milioni di anni, stimato tra 1,0 e 1,3 mm/anno (Bondesan et al., 2001; Kent et al., 2002; Carbognin et al., 2004; Carminati et al., 2005; 2007). Il livello apparente del mare è quello realmente percepito dai Veneziani, come viene registrato dai mareogra-fi che sono fissati a strutture della città e costituiscono un ri-ferimento mobile con la subsidenza. Nel periodo 1872 -2010 il mareografo di riferimento ha registrato 34 cm, indicando una velocità media di 2,4 mm/anno includendo il periodo critico di estrazione delle acque freatiche dal 1930 al 1970. Un’altra conseguenza drammatica della sommersione progressiva è che le acque eccezionalmente alte, generate

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dal vento di Scirocco quando un’area depressionaria viene a trovarsi sul Mediterraneo occidentale, si vanno ripetendo con frequenza sempre maggiore e invadendo parti sempre più vaste della città. La lunga serie delle acque alte, tratta da fonte documentaria (792–1867 AD) e dalle osservazioni strumentali (1872–2010) ha mostrato un aumento esponen-ziale delle acque alte (Camuffo, 1993; Enzi e Camuffo, 1995) con conseguenze pesanti alla società e danni ai beni tenuti a pianterreno. Questa magnifica città è stata ritratta da molti artisti, e sono particolarmente famose le immagini colme d’arte e di realismo fatte dai Vedutisti che fiorirono particolarmente nel XVIII secolo. L’aspetto realistico diviene impressionante grazie all’utilizzo della “camera oscura” dotata di un’ottica che in qualche modo può considerarsi l’antenata di una mo-derna macchina fotografica. Ci si può chiedere se la bellezza delle vedute sia dovuta all’ausilio tecnologico della camera oscura o alla genialità del pittore. Quando si guarda il qua-dro di un Vedutista si può anche cadere nell’impressione di stare innanzi a una moderna foto, ma questa si trasforma presto in un sogno per l’effetto congiunto di una prospettiva adattata al soggetto, della combinazione artistica di colori, luci, ombre e proporzioni, degli spunti immaginari e fanta-stici racchiusi nel dipinto. La ricerca del realismo da parte dei Vedutisti congiun-ta all’uso della camera oscura è stata preziosa, non solo ai fini della produzione artistica e del piacere della fruizione, ma perché hanno fornito alcune informazioni uniche con-cernenti l’ambiente e il livello del mare che si trovavano a Venezia secoli addietro. Questo lavoro si prefigge di presentare e discutere il con-tributo che si può cogliere dai Vedutisti ai fini della salva-guardia della città.

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2. la nascita della camera oscuraLa camera oscura era nota sino dall’antichità. Inizialmente era una stanza oscurata con un piccolo foro (che fungeva da obiettivo) sulla parete; i raggi della luce esterna penetrando attraverso il foro proiettavano delle immagini rovesce e sfo-cate sulla parete opposta. Era nota in Cina sin dal V secolo a.C., e si trova menzionata da Aristotele nel IV secolo a.C. Le vicende che hanno portato al suo sviluppo sono molte e dovute a molti autori. Ne menzioneremo solo alcuni dei principali, partendo con Ibn Alhazen (nato ca. 965 - morto 1038 d.C.).

La metodologia fu usata per divertimento, a scopi astrono-mici, o per lo studio della natura e della prospettiva. Nel Rinascimento la camera oscura cessò di essere una camera fissa e divenne uno strumento portatile anche se molto rozzo e ancora senza lenti (Fig. 1). In questo periodo vari artisti in Italia, nei Paesi Bassi e in Europa Centrale si dedicarono a studiare con essa la prospettiva e a scoprire le leggi geometriche che rendevano credibili le strutture archi-tettoniche nei dipinti. I più noti italiani furono Filippo Bru-nelleschi (nato 1377 – morto 1446), Leon Battista Alberti (n. 1404 – m. 1472), Masaccio (n. 1401 – m. 1428), Piero della Francesca (n. 1416/7 – m. 1492). Scrisse Giorgio Vasari nel

Fig. 1 La “camera oscura”, un dispositivo ottico simile a una macchina fotografica. I primi modelli portatili erano delle scatole in legno con un foro che proiettava l’immagine sulla parete opposta (Ganot, 1860).

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famoso trattato “Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti” (1647) nel capitolo “Vita di Leon Battista Alberti” (Parte Seconda, pag. 275) ma senza documentare la fonte: “L’anno poi 1457 […] trovò Leon Battista a quella similitudi-ne, per via d’uno strumento, il modo di lucidare le prospet-tive naturali e diminuire le figure, ed il modo parimente di potere ridurre le cose piccole in maggior forma e ingrandir-le: tutte cose capricciose, utili all’arte e belle affatto”. Leonardo da Vinci (n. 1452 – m. 1519) nel Codex Atlanti-cus (Leonardo, 1478 – 1519) fu particolarmente interessato a cogliere e rappresentare la Natura nel suo aspetto scientifico, ma praticamente suggerì agli artisti che la camera oscura poteva essere un nuovo ausilio tecnologico per riprodurre paesaggi o visioni prospettiche. Nei Paesi Bassi e in Europa Centrale spiccarono Jan Van Eyck (n. 1390 – m. 1441), Al-brect Dürer (n. 1471 – m. 1528) e Johannes Vermeer (n. 1632 - m. 1675) interessati sia alla rappresentazione delle vedute esterne che a quella degli interni. Tutti questi artisti studio-si delle visioni prospettiche inventarono vari dispositivi per riprodurre forme architettoniche, paesaggi, nature morte e personaggi. Furono particolarmente interessati a capire qua-li erano le leggi della prospettiva e come si dovevano appli-care; non ebbero mai un interesse diretto a riprendere im-magini fotografiche della Natura. Di questi pionieri dell’arte solo Vermeer visse in tempi avanzati in cui era possibile di-sporre di una camera oscura di qualità accettabile. La prima camera oscura veramente portatile era costi-tuita da una scatola in legno con un piccolo foro. Riducen-do la dimensione del foro si aumentava la nitidezza, ma si riduceva l’intensità del raggio luminoso e inoltre, se il foro diveniva così piccolo da innescare la diffrazione, questa di-struggeva l’immagine. In pratica, la possibilità di ottenere contorni più nitidi si opponeva all’intensità luminosa e alla visibilità dell’immagine. Di fatto, le immagini che venivano proiettate erano macchie sfocate di luci, colori e ombre che difficilmente permettevano di riconoscere il soggetto.

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Nel XVI secolo la camera oscura divenne uno strumento portatile raffinato e maneggevole. I due più famosi astro-nomi che ne trassero vantaggio furono Kepler e Scheiner. Johannes Kepler (nato 1571 -morto 1630) usava una piccola tenda mobile che oscurava un tavolino portatile su cui ve-niva proiettata l’immagine raccolta da un periscopio posto sulla parte sommitale, avvalendosi di uno specchio o di un prisma (Fig. 2). Con questo dispositivo studiò un’eclisse e i transiti di Mercurio. Cristopher Sheiner (n.1575 – m. 1650), contemporaneo e nemico di Galileo, proiettava su uno scher-mo il disco solare per osservare le macchie solari (Scheiner, 1630) che invece costarono la vista a Galileo che le osservava direttamente al telescopio. La camera oscura fu migliorata con l’aggiunta di una lente da occhiali posizionata nell’obiettivo o in prossimità di questo (Fig. 3). Con la lente fu possibile avere il controllo del fascio di luce in ingresso, migliorando la qualità dell’imma-gine con obiettivi più aperti e con fasci luminosi più intensi, con immagini più nitide e con aberrazioni cromatiche mi-nori. Con ogni probabilità, questo rivoluzionario migliora-mento si deve a Girolamo Cardano (n. 1501 - m. 1576) che pubblicò un trattato di ottica molto avanzato “De luce et lumine” (“sulla luce e le sorgenti luminose”) che faceva par-te di una serie di sette libri chiamati “De subtilitate rerum” (“la sottigliezza delle cose”, 1550, 1563). L’evoluzione della camera oscura trasse beneficio dai pro-gressi dell’ottica fatti dapprima con l’invenzione del micro-scopio (1590) a opera di Zaccharias Janssen (n. 1580 – m. 1638) e di suo figlio Hans e, successivamente, di quella del telescopio (1608 - 1611) che ebbe tra i padri Hans Lippershey (n. 1570 - m. 1619) e Galileo Galilei (n. 1564 - m. 1642). An-che Pierre Gassendi (n. 1592 - m. 1655), René Descartes (n. 1596 - m. 1650), Robert Hooke (n. 1635 - m. 1703), Robert Boyle (n. 1627 - m. 1691), furono degli autorevoli scienziati che contribuirono in vario modo allo sviluppo della camera oscura.

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Fig. 2 Una camera oscura a tenda, del tipo usato da Keplero. La tenda oscurava un ripiano di legno su cui veniva posto il foglio di carta. Un periscopio posto in cima e dotato di prisma o di specchio proiettava l’immagine sul foglio, e questa poteva venire ricalcata a mano (Ganot, 1860).

Fig. 3 Principio di funzionamento della camera oscura evoluta con lente e raddrizzamento dell’immagine. L’obiettivo proietta l’immagine rovesciata su uno specchio a 45° che la controrovescia proiettandola su un piano di vetro orizzontale su cui viene appoggiato un foglio di carta. (Ganot, 1860)

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L’obiettivo dotato di una lente aperse nuovi orizzonti, come la possibilità di controllare il fuoco e l’apertura dell’an-golo della visione ottica. Inizialmente, la lente era semplice-mente una lente da occhiali con fuoco fisso e l’immagine proiettata veniva messa a fuoco per tentativi: avvicinando o allontanando una superficie di vetro trasparente con un foglio di carta appoggiato sul vetro sino a che l’immagine non fosse divenuta nitida. Più tardi fu possibile agire sul-la lunghezza focale, spostando in avanti o indietro la lente. L’immagine era capovolta, ma fu possibile raddrizzarla con l’ausilio di uno specchio o di una seconda lente. L’utilizzo e le potenzialità di questo dispositivo furono menzionati in alcuni libri, come a esempio Giovanni Batti-sta della Porta (n. 1535 – m. 1615) che nel suo trattato “Ma-giae Naturalis Libri” (”Libri sulla magia naturale”, 1589) e Athanasius Kircher (n. 1602 – m. 1680) che scrisse (Kircher, 1646) che la camera era un ausilio prezioso per i pittori in tempi in cui molti artisti facevano del loro meglio per rap-presentare veristicamente la realtà. Nel 1685, Johannes Zahn scrisse un trattato fondamen-tale di ottica pura e applicata “Oculus artificialis teledioptri-cus sive telescopium etc.” (“occhio artificiale per osservazio-ni a distanza basate sulla diottrica, ovverossia sul telescopio ecc.” Fig.  4). Zahn fece un’analisi approfondita dell’occhio naturale e artificiale, partendo dalla fisiologia dell’occhio e dalle varie applicazioni ottiche, incluso l’indice di rifrazio-ne, le caratteristiche e le combinazioni delle lenti concave e convesse, il ruolo dell’apertura dell’obiettivo, la formazione delle immagini, le osservazioni astronomiche, il telescopio, il microscopio e la camera oscura (Fig. 5a). Era evidente il fatto che nell’occhio umano l’immagine ottica si forma su una superficie sferica, mentre nella came-ra oscura su una superficie piana, e questa era una possibile causa di distorsioni di cui dover tener presente. Tuttavia, nel caso di grandi lunghezze focali associate a piccoli angoli ottici, come era la situazione del tempo per i limiti della

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Fig. 4 Frontespizio del libro di Johannes Zahn i.e. “Oculus artificialis teledioptricus sive telescopium etc.”, Würzburg, 1685

Fig. 5b La Camera Oscura con il motto latino “Cedit Naturae Ars pictrix, dum pulcherius Arte. Hic Natura suis ludit imaginibus”. (Zahn, Oculus artificialis (1685) Fundamentum I, Syntagma III, Caput IV, Pragmatia II Fig XX).

Fig. 5a La Camera Oscura con obiettivo su supporto allungato dotato di lente, vista da diverse angolazioni (Zahn, Oculus artificialis (1685) Fundamentum I, Syntagma III, Caput IV, Pragmatia IV, Fig XXI). Questo modello è molto simile a quello usato da Canaletto.

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tecnologia, tale distorsione era irrilevante, specialmente se paragonata con gli ampi angoli ottici macro o eyefish delle moderne macchine fotografiche. Nel trattato di Zahn, la camera oscura viene presentata come un potente ausilio tecnologico per riprodurre la Natu-ra e le vedute naturali, cosa particolarmente utile ai pittori. Tanto era l’entusiasmo per la scoperta delle immagini na-turali che si proiettavano sulla superficie della camera che fungeva da schermo, che Zahn in una tavola riportante la camera oscura aggiunse un cartiglio col motto in latino “Ce-dit Naturae Ars pictrix, dum pulcherius Arte. Hic Natura suis ludit imaginibus” (“L’arte della Pittura ha dovuto cedere di fronte alla Natura perché questa è più bella dell’Arte. Qui la Natura gioca con le proprie immagini”), significando che le immagini prodotte dalla camera oscura sono più belle ri-spetto alle invenzioni degli artisti. Questi erano l’opinione e il fervore con cui veniva salutato questo nuovo dispositivo che prometteva applicazioni favolose. L’evoluzione successiva della camera oscura fu negli anni attorno al 1850, quando Sir David Brewster usò la camera oscura per effettuare fotografie, e chiamò questo dispositi-vo “pinhole chamber” (“camera con foro-obiettivo”). La ca-mera oscura era sostanzialmente una scatola opaca con un piccolo foro al centro di una parete, che fungeva da obiet-tivo fotografico. Di fronte all’obiettivo, Brewster aggiunse una tendina opaca apribile e chiudibile manualmente, che però permetteva solo tempi di esposizione molto lunghi. In pratica, fu una specie di macchina fotografica con obietti-vo senza lente, ma copribile manualmente. Tuttavia, questo sviluppo avvenne dopo il periodo di cui stiamo trattando e qui ci fermiamo.

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3. la camera oscura a veneziaNel 1568, il dotto veneziano Daniel Barbaro scrisse un libro di grande interesse per il nostro scopo intitolato “Della Pro-spettiva. Opera molto utile a Pittori, Scultori et Architetti” (Fig. 6) in cui riportò la descrizione di tre invenzioni per ri-produrre su un foglio di carta delle visioni prospettiche. La prima, discussa al Capitolo 3 pag.191 (Fig. 7) era un sistema primitivo usato da Albrecht Dürer (n. 1471 – m. 1528) una cinquantina d’anni prima, per riprodurre per punti il con-torno di un oggetto. Il punto focale coincideva con un gancio fisso al muro e posto alle spalle dell’operatore. Attraverso questo gancio poteva scorrere una cordicella mantenuta tesa da un peso, mentre l’altro estremo della cordicella era fissato a un puntale mobile che, con l’aiuto di un secon-do operatore, veniva successivamente posto a contatto con vari punti dei bordi dell’oggetto da riprodurre. La cordicella

Fig. 6 Frontespizio del libro di Daniel Barbaro: “Della Prospettiva. Opera molto utile a Pittori, Scultori et Architetti”. Venezia, 1568. (Museo Galileo - IMSS, Firenze)

Fig. 7 Il primitivo sistema usato da Albrect Dürer per riprodurre le immagini, illustrato da Barbaro (1568). (Museo Galileo - IMSS, Firenze)

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tesa attraversava un grigliato verticale, frapposto fra il primo operatore e l’oggetto, e i punti di intersezione della cordicel-la sul piano del grigliato costituivano la proiezione dell’og-getto su questo piano. Il sistema era piuttosto macchinoso e approssimativo, ma a Dürer bastava e Barbaro stesso ne aveva verificato il funzionamento. La seconda invenzione al Capitolo 4 pag. 192 era attri-buita a Baldassara Lanci ma, dopo una copiosa descrizione, Barbaro ammise che necessitava ancora di qualche perfezio-namento per poter funzionare. La terza invenzione al Capitolo 5, pag. 192 -193 era la ca-mera oscura come noi la conosciamo, già con l’aggiunta del-la lente come suggerito da Cardano pochi anni innanzi. In particolare, Barbaro diede una gustosa descrizione di come la Natura si riveli attraverso la camera oscura e di come questa possa essere sperimentata da chiunque grazie a una semplice lente d’occhiale infissa su un buco praticato sullo scuro della finestra di una stanza: “Con mirabile diletto la natura ce insegna la proportionata digradatione delle cose1 & ci aiuta in ogni modo a formare i precetti dell’arte. Per il che dovremo essere diligenti osservatori di quella in ogni occasione. Ma per hora io toccherò una bellissima isperienza d’intorno alla Perspettiva. Se vuoi vedere come la natura pone le cose digradate, né solamente quanto ai contorni del tutto o delle parti, ma quanto ai colori & le ombre & le simiglianze, farai un bucco nello scuro d’una finestra della stanza di dove vuoi vedere, tanto grande quanto è il vetro d’un occhiale. Et piglia un occhiale da vecchio, cioè che habbia alquanto corpo nel mezzo2, & non sia concavo come gli occhiali dei giovani che hanno la vista curta. & incassa questo vetro nel buco assaggiato. Serra poi tutte le finestre, & le porte della stanza siche non vi sia luce alcuna, se non quella che viene dal vetro. Piglia poi uno foglio di carta, & ponlo incontra al vetro tanto discosto che tu veda minuta-

1 Come le cose cambino proporzione con la distanza2 Cioè una lente biconvessa e con un certo numero di diottrie.

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mente sopra al foglio tutto quello che è fuori di casa, il che si fa in una determinata distanza più distintamente. Il che troverai accostando, ovvero discostando, il foglio al vetro, finche ritrovi il sito conveniente. Qui vi vedrai le forme nella carta come sono, & le digradationi, & i colori, & le ombre, & i movimenti, le nubi, il tremolar delle acque, il volare degli uccelli & tutto quello che si può vedere”.

4. chi fu il primo pittore a usare la camera oscura a venezia?

Vi sono fondate ragioni di sospettare che Paolo Caliari, det-to “il Veronese” (n. 1528 – m. 1588) sia stato il primo tra i famosi pittori Veneziani a giovarsi della camera oscura, che utilizzò in un dipinto particolare. Si tratta della presentazio-ne della Famiglia Coccina alla Vergine3 (Fig. 8). Sarà utile premettere che la Famiglia Coccina era venuta nella città di Venezia, chiamata “la Dominante”, provenen-do dall’entroterra, nel Bergamasco (dai Veneziani chiama-

3 Attualmente alla Gemäldegalerie Alte Meister di Dresda col nome ‘Die Madonna der Familie Cuccina’.

Fig. 8 Paolo caliari, detto il Veronese: presentazione della Famiglia Coccina alla Vergine. Il palazzo evidenziato a destra è Palazzo Coccina, oggi Papadopoli-Arrivabene. (Gemäldegalerie Alte Meister, Dresda)

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ta “la campagna”) e incontrava delle difficoltà ad inserirsi nell’alta società veneziana perché veniva considerata una zotica arricchita parvenu. Nel 1570, i Coccina chiamarono quello che consideravano il più importante pittore venezia-no del tempo, il Veronese, per un grande quadro a scopo diplomatico -esibizionistico, rappresentante la presentazio-ne della Famiglia alla Vergine Maria. Doveva essere chiaro che, se la Madonna aveva accettato di buon grado questa Famiglia, i Veneziani non potevano arrogarsi atteggiamenti contrari a quanto ormai assodato dalla Madre di Dio. Per render maggiormente chiara la loro posizione, ed esplicito il loro potere, il quadro doveva rappresentare anche il loro magnifico Palazzo4 sul Canal Grande (Fig. 9), che era stato finito di costruire dieci anni prima, nel 1561. Il dipinto, ter-

4 Palazzo Coccina, successivamente chiamato Tiepolo, Papadopoli e oggi Arrivabene.

Fig. 9 (a) Particolare di Palazzo Coccina nel dipinto di Veronese del 1571 (Gemäldegalerie Alte Meister, Dresda). (b) Una foto del medesimo Palazzo scattata da Ongania attorno al 1880 (Ongania 1890-91). Il dipinto riporta accuratamente tutte le misure, tranne l’attico (freccia) ampliato nel 1874-75.

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minato nel 1571, doveva essere esposto nel salone delle feste del Palazzo o, eventualmente, nello scalone d’onore. Nel di-pinto la Vergine apre la scena all’estremità sinistra, e il loro Palazzo la chiude all’estrema destra. Nel dipinto s’intravvede una porzione della sagoma di un secondo palazzo avente la sola funzione di creare lo sfondo del Canal Grande che si fonde con questo tratto di Paradiso che include la Madonna, i Coccina e il loro Palazzo. Non è noto alcun documento che attesti esplicitamente che Veronese si sia giovato di dispositivi ottici per riprodurre prospettive o palazzi. Sappiamo soltanto che Veronese fu in-caricato di rappresentare il Palazzo Coccina con la maggior precisione possibile in quanto il Palazzo era il vero gioiello della Famiglia e il quadro stava esposto all’interno del Palaz-zo stesso dove chiunque aveva la possibilità di notare e cri-ticare piccoli errori o deviazioni dalla realtà. Ciononostante, vi sono tre motivi che supportano l’ipotesi che Veronese si sia giovato di una camera oscura per riprodurre fedelmente questo Palazzo. La prima ragione, di tipo storico, si rifà al trattato di Da-niel Barbaro (1569), scritto giusto l’anno prima che Coccina affidasse l’incarico a Veronese. In pratica, Barbaro testimo-nia che la camera oscura era nota ed usata a Venezia in que-gli anni e che i pittori ne apprezzavano le qualità per le loro opere. Questa testimonianza rinforza l’ipotesi che Veronese, in quanto pittore veneziano, conoscesse la camera oscura e che possa essersi aiutato con questa per rappresentare con esattezza questo Palazzo, data la particolare richiesta del committente. La storia prova che l’ipotesi è realistica e pro-babile, non che fu certamente così.

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La seconda ragione, di tipo scientifico, è che le caratte-ristiche architettoniche di Palazzo Coccina sono riprodotte con una precisione incredibile, impensabile senza l’ausilio di una camera oscura. Se si confronta il dipinto del Veronese con una foto reale del palazzo, si rimane impressionati dalla concordanza e dall’esattezza di tutte le proporzioni. Si può valutare matematicamente una tale precisione. Per prima cosa si misura l’altezza di ogni piano normalizzandola5 ri-spetto all’altezza totale dell’edificio, col vantaggio di rendere indipendente questo rapporto dalle dimensioni reali e, so-prattutto, dalle distorsioni dovute al diverso posizionamento del punto di osservazione rispetto all’edificio che potrebbe variarne l’altezza. Successivamente, si calcolano le differen-ze rispetto le misure omologhe da una foto dell’edificio reale. Queste piccole differenze sono degli “errori” di riproduzione

5 Vale a dire dividendola per l’altezza dell’edificio.

Fig. 10 (a) Palazzo Coccina sul Canal Grande in una incisione di Luca Carlevarijs (tavola 80 in Carlevarijs, 1703). L’incisione riporta accuratamente tutte le misure, tranne l’attico ampliato nel 1874-75. (b) Una foto del medesimo Palazzo scattata da Ongania attorno al 1880 (Ongania 1890-91).

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da cui è possibile calcolare la deviazione standard6 (SD). Nel caso in oggetto si ottiene un valore molto piccolo: SD = 0,04. L’errore più grande deriva dalla fascia del sottotetto, ed è un errore ben giustificato in quanto il sottotetto fu sopraelevato durante i lavori di restauro e ampliamento eseguiti dal pro-prietario Papadopoli nel 1874 -75, mentre Il resto della fac-ciata fu lasciato inalterato (Arbore Popescu e Zoppi, 1993). La terza ragione viene dal confronto di Palazzo Coccina dipinto da Veronese con l’incisione eseguita da Luca Carle-varijs nel 1703 (Fig. 10) che si sa esser stata ripresa con l’au-silio di una camera oscura. Se si paragonano fra di loro le immagini eseguite da Veronese e da Carlevarijs, e poi que-ste con una foto dello stesso palazzo scattata da Ongania negli anni 18807 (Ongania, 1890-91), si vede chiaramente che Veronese e Carlevarijs riportano esattamente le stesse proporzioni, mentre la foto degli anni 1880 si discosta per l’innalzamento del sottotetto. La prima ragione di ordine storico è un po’ blanda, ma conferma con certezza che l’ipotesi è possibile. La seconda e la terza sono più stringenti, essendo basate su un confronto scentifico-oggettivo delle immagini: indicano che era prati-camente impossibile ottenere quella precisione senza l’ap-poggio di una camera oscura e che una incisione fatta con una camera oscura praticamente coincide con il particolare di Veronese.

6 La deviazione standard detta anche ‘scarto quadratico medio’ è un indice di dispersione delle misure ottenute sperimentalmente.7 Si è preferito utilizzare una vecchia foto di fine 1800 perché questa assicura la piena visione della facciata, mentre oggi la crescita del livello apparente del mare ha costretto a costruire un imbarcadero a passerella per accedere dal Canal Grande al Palazzo, essendo tutti i gradini della scala d’approdo coperti da alghe.

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5. I vedutisti venezianiSi può essere Vedutisti senza utilizzare la camera oscura? È una domanda che possiamo girare agli Storici dell’Arte ma di fatto i Vedutisti ebbero nel loro corredo tecnologico, a parità di dignità, tavolozza, colori, pennelli, stecche, came-ra oscura e pantografo. Questi erano gli ausili strumentali di cui si giovavano, ugualmente utilizzati per raggiungere il fine, o “l’invenzione” come s’usava dire, che il pittore si pre-figgeva per la propria creazione artistica, avente per soggetto un panorama naturale o urbano o, nel caso del Canaletto, la vita stessa della città nel suo pulsare. Volendo cercare radici remote e lontane, la più autore-vole ci porta nei Paesi Bassi dove Christian Huyghens (n. 1629 – m. 1695), matematico, fisico e astronomo, dimostrò e divulgò l’utilità della camera oscura agli artisti. I più fa-mosi artisti Fiamminghi che si giovarono di questo mezzo furono il già menzionato Johannes Vermeer e Vanvitelli. Fu quest’ultimo a portare la scintilla del Vedutismo a Venezia, prima che questo diventasse una moda che perdurò per un secolo intero. Caspar Adriaensz (n. 1653 – m. 1736), soprannominato van Wittel, alias Gaspare Vanvitelli, alias Gasparo degli Oc-chiali, verso il 1675 si trasferì da Amersfoort a Roma dove si stabilì e realizzò la propria carriera. Fra il 1694 e il 1710 fece una serie di viaggi per l’Italia fermandosi a dipingere Firenze, Bologna, Ferrara, Venezia, Milano, Piacenza e Na-poli. Fu uno dei più importanti pionieri che con l’ausilio di una camera oscura dipinsero paesaggi naturali e urbani oggi noti come “vedute”. Queste vedute ebbero molto successo e nell’ambiente veneziano Vanvitelli rimase un riferimento essenziale. Luca Carlevarijs (n. 1665 - m. 1731) potrebbe essere de-finito un matematico, topografo, pittore, incisore e architet-to e può essere considerato la pietra miliare da cui parte il Vedutismo veneziano. Nacque a Udine, nel retroterra del-la Serenissima Repubblica ma si trasferì a Venezia e fu in

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contatto con Vanvitelli. Carlevarijs fu il primo a usare siste-maticamente la camera oscura per le sue vedute veneziane (Lorenzetti, 1948; Chiarelli, 1965; Wiebenson e Baines, 1993) o, per lo meno, fu il primo rinomato pittore veneziano di cui abbiamo una tale informazione. Carlevarijs osservava le immagini reali attraverso la camera oscura non solo per scegliere le immagini più accattivanti, ma anche perché era molto interessato allo studio della prospettiva e alla riprodu-zione accurata dei palazzi. Si serviva di questo ausilio tecno-logico, ma non ne era passivamente condizionato (Pignatti, 1980). Il genere artistico del Vedutismo fiorì grazie al suc-cesso che ebbe un suo libro che comprendeva un centinaio di vedute della città: “Le Fabriche, e vedute di Venetia dise-gnate, poste in prospettiva et intagliate da Luca Carlevariis con privilegii” stampato nel 1703 e che includeva il Palazzo Coccina come incisione numero 80. La prima edizione del 1703 conteneva cento incisioni, ma le successive furono ar-ricchite di altri paesaggi urbani. Altri Vedutisti veneziani che utilizzarono la camera oscu-ra furono: Michele Marieschi (n. 1696 - m. 1743), Giovan An-tonio Canal detto “il Canaletto” (n. 1697 - m. 1768) (Fig.11), Bernardo Bellotto (n. 1720 - m. 1780), Gabriele Bella (n. 1730 - m. 1799), Giuseppe Bernardino Bison (n. 1762 - m. 1844) e altri considerati minori, alcuni dei quali formatisi o passati per la bottega del Canaletto. Francesco Guardi (n. 1712 - m. 1793), fu l’ultimo dei grandi Vedutisti ma ebbe una sensi-bilità artistica diversa, che lo portava ad allontanarsi dalla tradizione culturale precedente per diventare un precurso-re del Romanticismo. Questa visione artistica lo portava a trasformare maggiormente la realtà con la conseguenza di dare riproduzioni oggettivamente meno accurate, almeno nei dettagli di nostro interesse. Un altro famoso Vedutista veneziano fu Giambattista Piranesi (n. 1720– m. 1778), che si trasferì a Roma nel 1740 dove divenne famoso per i suoi paesaggi e le rovine archeologiche e architettoniche che tal-volta sembrano preludere al Romanticismo.

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6. Giovan antonio canal detto “il Canaletto” e il nipote Bernardo Bellotto

In questo lavoro ci concentreremo su Canaletto (Fig. 11a) e Bellotto e trascureremo gli altri Vedutisti veneziani perché sono meno rilevanti ai nostri fini di ricerca sull’ambiente fisico veneziano in quanto trascurarono alcuni dettagli del tutto irrilevanti ai fini dei loro dipinti, ma di grande interes-se per noi, come l’annerimento del fumo sui palazzi o la fa-scia brunastra delle alghe attaccate ai palazzi lungo i canali. Tuttavia, poiché ci sarà cruciale l’esatta interpretazione di quanto coglieremo dai dipinti di Canaletto e Bellotto, sarà utile approfondire la conoscenza di questi autori per poterne poi meglio leggere le opere. Il padre di Canaletto fu Bernardo Canal (n. 1674 - m. 1744), pittore e allestitore di scenografie teatrali, artista di certa fama non limitata ai confini della Serenissima. Nella sua bottega, Bernardo aveva come apprendisti e assistenti i due figli Cristoforo e Giovan Antonio e questa formazione fu

Fig. 11a Ritratto di Giovan Antonio Canal detto “il Canaletto” inciso da Antonio Visentini (1735) da un disegno di Giovanni Battista Piazzetta.

Fig. 11b La Camera Obscura di Canaletto conservata al Museo Correr, Venezia. Questa camera è molto simile a quello descritto da Zahn, (1685) in Fig. 5a.

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fondamentale nella vita del Canaletto, non solo per appren-dere i rudimenti dell’arte della pittura e l’uso della camera oscura (Fig.11b), ma anche come scegliere gli elementi mag-giormente d’effetto per realizzare una scena teatrale o una composizione artistica. Il padre Bernardo era maestro di bottega e secondo l’uso era chiamato col cognome “Canal”. Quando il giovane Giovan Antonio raggiunse la sua fama, fu chiamato col soprannome “Canaletto”, equivalente a “Canal Junior”, seguendo l’uso locale di chiamare i figli con il dimi-nutivo del cognome fintanto che questo era appannaggio del padre. Questo soprannome temporaneo divenne presto così famoso che gli rimase. Bernardo Canal fu richiesto di approntare a Roma la sce-neggiatura di due opere di Alessandro Scarlatti, e Bernardo andò nel 1719 portandosi al seguito, come aiutante, Giovan Antonio ventidueenne. Questo viaggio segnò la svolta della carriera del Canaletto che venne in contatto con Gian Paolo Panini (n. 1691 – m. 1765) di poco più anziano ma ormai affermato pittore di vedute paesaggistiche. Ritornato a Vene-zia, Canaletto continuò il genere delle vedute panoramiche urbane che stava divenendo popolare grazie a Vanvitelli e Carlevarijs. Gli storici dell’arte più vicini al tempo del Ca-naletto come Moschini (1806), De Tipaldo (1834) e Rovani (1856), scrissero che Canaletto fu un discepolo di Carlevarijs verso il quale ebbe molta stima e affetto e da cui imparò molto in tecnica e in arte. Canaletto s’ispirò a Carlevarijs sia per l’estetica sia per le scelte dei siti di maggior interesse commerciale, fattore di non secondaria importanza. Per esempio, si può confrontare Carlevarijs, “Regata sul Canal Grande in onore del Re di Da-nimarca Federico IV”, datato 1711, al J. Paul Getty Museum, Los Angeles (Fig. 12a) con Canaletto: “A Regatta on the Grand Canal” del 1735 alla Royal Collection, Windsor Castle, Lon-dra (Fig. 12b), o la “Regatta on the Grand Canal” del 1740 cir-ca alla National Gallery, Londra (Fig. 12c), o altri dipinti sullo stesso soggetto. La Regata era una manifestazione storica,

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che si ripete ancora oggi, con sfarzose imbarcazioni d’epo-ca e personaggi in costume per celebrare vittorie militari o impressionare dignitari stranieri. Si riporta la stessa veduta del Canal Grande in un altro dipinto del Canaletto, datato 1720-1723, ora al museo di Cà Rezzonico a Venezia (Fig. 12d), dove il Canal Grande ha dismesso lo sfarzo e si presenta con l’aspetto di ogni giorno. Per paragone la Fig. 12e mostra la medesima veduta ripresa con una macchina fotografica dal-lo stesso punto di vista, il balcone del secondo piano di Cà Foscari. Nel dipinto di Carlevarijs si notano gli edifici al lato sinistro del Canal rispondenti al vero, mentre quelli al lato destro sono sostanzialmente falsi, eccessivamente larghi e alti. Al contrario, Canaletto si mantiene molto più vicino alla realtà. In particolare, i due dipinti londinesi del Canalet-to datati 1735 e 1740 sono molto simili tra loro, con piccole differenze rispetto al dipinto giovanile di Cà Rezzonico. In pratica, Canaletto non si lasciò condizionare né dalla pura imitazione di Carlevarijs né dalla limitata tecnologia della camera oscura ma imparò da loro ed ebbe le proprie idee e seppe come realizzarle servendosi della tecnologia di-sponibile al tempo trasformando i limiti che incontrava in nuovi spunti creativi. Canaletto era molto interessato all’aspetto artistico, ma anche a quello commerciale. Era soprattutto interessato a vendere agli stranieri che venivano, o che sarebbero voluti venire a Venezia per motivi di studio, di svago o di com-mercio, un quadro a ricordo di questa magnifica città. Il quadro non doveva ricordare soltanto i palazzi, ma anche la gaiezza, la vita e la gioia che si poteva assaporare a Vene-zia. Per questo motivo i dipinti sono colmi di luci, colori e contrasti, con palazzi imponenti e personaggi di tutti i tipi, dalle macchiette dei venditori, dei bimbi che giocano, degli animali più vari, ai nobili paludati o agli ambasciatori dei paesi lontani vestiti con curiosi copricapi e vesti sgargianti. La tradizione (Lanzi, 1834, pag. 289 e Rovani, 1856, pag. 419), riporta che Giambattista Tiepolo (n. 1696 – m. 1770)

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Fig. 12a carlevarijs, la Regata per il Re di Danimarca (1711, The J. Paul Getty Museum, Los Angeles)

Fig. 12b canaletto, Regata sul Canal Grande (1735, Royal Collection, Windsor Castle, Londra)

Fig. 12c canaletto, Regata sul Canal Grande (1740) (Canaletto, A Regatta on the Grand Canal, ©The National Gallery, Londra)

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Fig. 12d canaletto, Il canal Grande da Cà Balbi verso Rialto (1720-23, Cà Rezzonico, Venezia)

Fig. 12e Vista del Canal Grande, foto scattata dalla balconata del 2° piano di Cà Foscari, dalla stessa posizione del Canaletto

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era un ottimo amico di Canaletto, e che spesso interveniva aggiungendo nei suoi quadri delle gustose scene della vita di ogni giorno che creavano la vita veneziana e un rappor-to diretto con l’osservatore che in breve si trova immerso in quella realtà fantasiosa e fantastica. La chiave per inter-pretare Canaletto è dunque il sinergismo tra la scenografia architettonica creata dai palazzi e la creatività artistica della vita che si svolge all’interno di questa città. Ma vedremo che anche la scenografia architettonica è un risultato geniale di come Canaletto poteva vedere le singole parti di questi ele-menti e di come le assemblava poi. Canaletto lavorò prevalentemente a Venezia, tranne circa un decennio di permanenza a Londra dal 1746 al 1755/56. Si sa che Canaletto era ben organizzato per la produzio-ne di quadri. Nella sua bottega aveva allevato un numero di aiutanti che intervenivano più o meno parzialmente sui quadri sotto la sua guida. Tra questi vi era anche il giovane nipote Bernardo Bellotto, che cominciò ancora ragazzo, un vero ragazzo prodigio, lavorando in bottega e seguendo lo zio in alcuni viaggi di lavoro per l’Italia. Bellotto lavorò per anni, attenendosi diligentemente allo stile dello zio, che dovette assimilare perfettamente per in-tegrare e completare i suoi quadri. Quando nel 1738, a soli 17 anni, raggiunse l’indipendenza iscrivendosi alla Fraglia8 dei pittori veneziani, Bellotto fu libero di esprimersi con un proprio stile personale che un esperto può riconoscere. Tut-tavia, quando raggiunse la prima indipendenza, continuò a firmare i suoi quadri col nome di Canaletto perché mag-giormente quotati sul mercato, e questo soprannome gli fu ufficialmente riconosciuto da molti al tempo. L’abilità del giovane Bernardo e l’abuso della firma, autorizzata o non, causarono dissapori e gelosie tra zio e nipote, e una certa difficoltà e confusione nell’attribuzione della paternità di certi quadri. Dopo un po’ Bellotto e Canaletto divennero ri-

8 Congregazione di arti e mestieri

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vali e Bellotto andò (o dovette andare) a cercare fortuna in altre città europee cominciando con Dresda dove andò nel 1747 invitato dall’Elettore di Sassonia. Di lì passò a Vien-na su invito dell’Imperatrice, poi a Monaco, Dresda e infine Varsavia dove morì. I suoi contemporanei lo consideravano bravo e diligen-te, fedele discepolo dello zio, come mostra questa descrizio-ne nell’“Abbecedario Pittorico” di Antonio Orlandi (1753, pag.101) che si riferisce ai primi tempi di attività di Bellotto, includenti tutto il periodo veneziano che va dal 1738 al 1747: “BERNARDO BELLOTTO, di nascita assai civile, Nipote di Antonio Canal. Cogli ammaestramenti del Zio superate le difficoltà dell’ arte, prese ad imitarlo con tutto lo studio ed assiduità. Per consiglio del Zio portatosi a Roma fece uso del suo talento per disegnare e dipingere le antiche fabbriche e le più belle vedute di quell’alma città. Con tale esercizio ren-dendosi sempre più abile ritornato a Venezia passò a Verona, Brescia e Milano, dove con molta sua lode le più cospicue prospettive di quei paesi in tele ritrasse; e molte ancora ne dipinse di quelle di Venezia così diligentemente e al naturale eseguite, che un grande intendimento ricercasi in chi vuole distinguerle da quelle del Zio. Presentemente è a Dresda, occupandosi a rappresentar col pennello i luoghi più celebri di quella Città; ed essendo ancor giovine, e indefesso nello studio ed attenzione, è da sperare che il nome di lui celebre e famoso divenga”. Poiché in questo lavoro siamo interessati a certi aspetti delle vedute veneziane, quanto si dirà per Canaletto s’intende possa valere in linea di massima anche per Bellotto, almeno per il periodo veneziano che sostanzialmente si sovrappone a buona parte del primo periodo veneziano di Canaletto.

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7. l’uso che canaletto fece della camera oscura A questo punto dobbiamo porci la domanda di quanto fu rilevante per Canaletto l’uso della camera oscura e se noi, a nostra volta, possiamo trarre vantaggio da certi dettagli riportati nei quadri. In altri termini: sono questi precisi, credibili e utilizzabili o si tratta solo di invenzioni artisti-che? Abbiamo la possibilità di verificare e dare una risposta scientifica a questi interrogativi? Dovremo quindi stabilire dei limiti: cosa è diverso da una foto nei quadri di Canaletto, e cosa invece ricalca la precisione di una foto.

7.1 cosa differenzia i quadri del canaletto da una fotoSia gli Storici dell’Arte immediatamente successivi a Ca-naletto (come Algarotti, 1756, Zanetti, 1771, Lanzi, 1834) sia quelli contemporanei (Corboz, 1974, 1985, 2008; Nepi Scirè, 1977; Bettagno, 1982, 2001; Pignatti, 1987, 1996, 2001; Pedrocco, 1995, 2001; Terpitz, 2000; Succi e Delneri, 2001; Kowalczyk e Da Curta Fumei 2001, 2005; Bettagno e Kowalczyk, 2005; Kowalczyk, 2008; Pavanello e Craievich, 2008; Staatliche Kunstsammlung Dresden, 2008; Bedding-ton e Bradley, 2010) hanno sempre giustamente sostenuto che i quadri di Canaletto e degli altri Vedutisti non sono una rigida riproduzione del vero come lo potremmo vede-re in una moderna foto panoramica. In particolare Corboz analizzò alcune prospettive concludendo che erano state ottenute combinando tra loro delle vedute parziali, ripre-se separatamente. Il punto fondamentale che dobbiamo chiarire è se l’invenzione artistica trasforma la realtà solo nell’assemblare in qualche modo delle parti distinte (le ve-dute parziali) o se va oltre trasformando la realtà delle sin-gole componenti. Per meglio capire questo punto cruciale conviene tornare alla testimonianza diretta di chi conobbe Canaletto, a parti-re dall’erudito veneziano Conte Francesco Algarotti (Fig. 13). Algarotti apprezzava molto Canaletto e possedeva anche al-cuni suoi quadri, spunto di lunghe discussioni sull’arte. Nei

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suoi scritti sulla camera oscura riecheggiano parole e pensie-ri del suo grande amico pittore. “DELL’USO DELLA CAMERA OTTICA [...omissis] Per via di una lente di vetro e di uno specchio, si fabbrica un or-digno, il quale porta la immagine o il quadro di che che sia, e di un’ assai competente grandezza, sopra un bel foglio di carta, dove altri può vederlo a tutto suo agio, e contem-pIarIo: e cotesto occhio artifiziale, Camera ottica si appella. Non dando esso l’entrata a niuno altro lume fuorchè a quel-lo della cosa che si vuoI ritrarre, la immagine ne riesce di una chiarezza, e di una forza da non dirsi. Niente vi ha di più dilettevole a vedere, e che possa essere di più utilità, che un tal quadro. E lasciando stare la giustezza dei contorni,

Fig. 13 Frontespizio del libro di Francesco Algarotti, “Saggi sopra le Belle Arti” Venezia, 1756.

Fig. 14 Frontespizio del libro di Anton Maria Zanetti “Della pittura Veneziana e delle opere pubbliche de’ Veneziani Maestri”, Venezia, 1771.

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la verità, nella prospettiva e nel chiaroscuro, che nè trovarsi potrebbe maggiore, n’è concepirsi; il colore è di un vivo, e di un pastoso insieme, che nulla più. I chiaroscuri principali delle figure vi sono spiccati ed ardenti nelle parti loro più rilevate ed esposte al lume, degradando insensibilmente di mano in mano che quelle declinano: le ombre sono forti bensì, ma non crude; come non taglienti, ma precisi sono i dintorni. Nelle parti riflessate degli oggetti si scuopre una infinità di tinte, che male si potriano senza ciò distinguere: e in ogni sorta di colori, per il ribattimento del lume dall’uno all’altro, ci è una tale armonia, che ben pochi son quelli che chiamare si possano veramente nemici. Nè punto è da stupirsi, che con tale ordigno quello arri-viamo a scernere, che altrimenti non faremmo. Quando noi volgiam l’occhio ad un oggetto per considerarlo, tanti altri ce ne sono dattorno, i quali raggiano ad un tempo medesi-mo nell’occhio nostro, che non ci lasciano ben distinguere le modulazioni tutte del colore e del lume che è in quello, o almeno ce le mostrano mortificate e più perdute; quasi si tra il vedi e il non vedi. Dove per contrario nella Camera ottica la potenza visiva è tutta intesa al solo oggetto che le è innanzi; e tace ogni altro lume che sia. Maraviglioso dipoi in tal quadro è lo innanzi e lo indie-tro. Oltre al diminuirsi che fa negli oggetti la grandezza, secondo che dall’occhio si allontanano; vedesi ancora dimi-nuita la sensibilità del colore, del lume, delle parti di quelli. A maggior distanza risponde più perdimento di colore, ed isfumatezza di contorno; ed assai più slavate sono le ombre in un lume minore, o più lontano. Gli oggetti al contrario, che sono più vicini all’occhio, e più grandi, sono anche più precisi nel contorno, di ombre molto più vivi, più alti di tin-ta: e in ciò consiste quella prospettiva, che chiamasi aerea; quasi che l’aria posta tra l’occhio e le cose, come le adombra un tal poco, così ancora le logori, e le si mangi. In essa pro-spettiva sta una gran parte dell’arte pittoresca per ciò che si spetta agli sfuggimenti, agli scorci, allo sfondato del quadro;

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e per essa, ajutata che sia dalla lineare, riescono dolci cose a vedere, e dolci inganni. Niuna cosa può meglio mostrarla quanto la Camera ot-tica, in cui la natura dipinge le cose più vicine all’occhio con pennelli, dirò così, acutissimi e fermi, le lontane con pennelli più spuntati di mano in mano, e più solli. Molto di essa si vagliono i più celebri pittori, che abbia-mo oggigiorno, di vedute; nè altrimenti. avrìano potuto rap-presentar le cose così al vivo. [… omissis] Quell’uso che fanno gli astronomi del canoc-chiale, i fisici del microscopio, quel medesimo dovrebbon fare della Camera ottica i pittori. Conducono egualmente tutti cotesti ordigni a meglio conoscere, e a rappresentar la natura.” In breve Algarotti rammenta che la camera oscura aiuta a scegliere e trovare l’inquadratura ottimale, a mettere in giusto gioco di luce e di ombre un soggetto, a creare profon-dità e sfondo sia nella forma, che nel colore e nelle linee di contorno. Favorisce la scelta dei contrasti e delle sfumature, permette la scelta fra più immagini e fa pregustare l’assem-blaggio delle scene, facendo vedere cose belle, e aiutando a creare affascinanti inganni. La camera oscura è il segreto del successo dei Vedutisti: senza di essa non avrebbero potuto sperare di rendere così vere e vive le loro opere. Nel 1771, un altro erudito veneziano, Anton Maria Zanet-ti pubblicò un’opera monumentale in cinque libri dal titolo: “Della pittura Veneziana e delle opere pubbliche de’ Vene-ziani Maestri” (Fig. 14), scritta l’anno successivo alla dipartita di Canaletto e apparsa due anni dopo. Zanetti fece un’analisi puntuale dei pittori veneziani e delle loro opere seguite da un breve commento. I suoi libri furono considerati un au-torevole riferimento giacché quanto scrisse fu ripreso quasi alla lettera, anche se talvolta sintetizzato, oltre 60 anni più tardi dallo storico fiorentino Luigi Lanzi nel libro: “Storia Pittorica dell’Italia dal Risorgimento delle Belle Arti fin pres-so alla fine del XVIII secolo. Vol III, Scuola Veneziana” pub-

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blicato nel 1834. La testimonianza di Zanetti che certamen-te conobbe Canaletto è fondamentale per interpretarne stile e finalità. La parte più interessante del commento di Zanetti è di seguito riportata: “ANTONIO CANAL. Saranno forse inutili le scritte me-morie di questo egregio Maestro, perciò che le molte opere sue sparse per le parti più colte dell’Europa nostra saran-no sempre onorevole testimonio del suo valore. Ma poichè più delle pitture sono per durare gli scritti, trasmettasi alla posterità più lontana le notizie ch’ei fu uno de’ più valenti pittori de’ giorni suoi nel rappresentare vedute e prospettive, tanto tratte dalla verità, quanto dalla immaginazione; e po-chi o niuno facilmente ei ne vide, che prima in quel genere a lui n’andasse avanti. Unì il Canal ne’ suoi quadri alla natura le pittoresche licenze con tanta economia, che le opere sue vere compa-riscono a chi non ha che buon senso per giudicarne9; e chi molto intende trova di più in esse grand’ arte nella scelta de’ siti, nella distribuzione delle figure, nei campi, nel maneggio delle ombre e dei lumi; oltre a una bella nitidezza e saporita facilità di tinta e di pennello, effetti di mente serena e di genio felice. Figliuolo egli fu di Bernardo, che traea origine dalla no-bilissima famiglia da Canal, ed era pittore da teatro. Ne’ pri-mi anni seguitò col Padre quell’esercizio, utile per sciogliere la mano e svegliare la fantasia della gioventù e per obbligar-la a operar con prontezza; e fece bellissimi disegni per gli scenarii. Lasciato poi il teatro nel 1719, annojato dalla indi-scretezza de’ Poeti drammatici, passò giovinetto a Roma, e tutto si diede a dipingere vedute dal naturale. Bei soggetti ei trovò quivi nel genere spezialmente dell’antichità; e belli per i pittoreschi accidenti n’ebbe dopo nella patria sua, i siti della quale non potrono essere più op-

9 Unì nei suoi quadri cose naturali e licenze pittoriche con tanta maestria che le sue opere sembrano vere a chi le giudica basandosi solo sul proprio intuito.

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portuni a quel fatto; cosicchè chi veduti non gli ha, crede nel mirar le pitture, che siano piuttosto immaginari pensamenti che semplici verità. Insegnò il Canal con l’esempio il vero uso della camera ottica; e a conoscere i difetti che recar suole a una pittura, quando l’artefice interamente si fida della prospettiva che in essa camera vede, e delle tinte spezialmente delle arie, e non sa levar destramente quanto può offendere il senso. Il Professore m’intenderà. Finì di vivere nel passato anno 1768, il dì 20 Aprile, il 71 dell’età sua.” In breve Zanetti dice che Canaletto riuscì a coniugare così bene elementi di arte e fantasia con quelli reali, che chi vede i suoi quadri senza un’adeguata preparazione ri-mane convinto di vedere una riproduzione fotografica. Al contrario, chi è veramente esperto rimane ammirato per la maestria con cui ha selezionato le vedute, come ha compo-sto le immagini, come ha fatto le campiture, come ha uti-lizzato le ombre, le luci e i colori. Fu maestro nell’uso della camera oscura. Ne conosceva bene i limiti ed evitava di farsi condizionare da questi, come quei pittori che si adattano a riprodurre le piccole scene limitate dallo stretto angolo visi-vo della lente, o con i colori poco intensi e brillanti per la bassa intensità luminosa della luce che penetra dall’obietti-vo. Canaletto sapeva bene come superare tutti questi limiti ed eliminare quanto poteva penalizzare l’estetica. In pratica Algarotti e Zanetti sono concordi nelle loro affermazioni, nell’insistere sui limiti della camera oscura su cui cadevano i Vedutisti minori e sul fatto che il Canaletto era maestro nel superarli. Qualcosa resta però nel vago: precisamente, cosa sono le “pittoresche licenze” che Canaletto introduceva nei qua-dri? A parte le gustose scene di vita, vi sono altri elementi fantastici e immaginari? I palazzi erano ripresi esattamente oppure venivano trasformati e distorti? Cosa “offendeva il senso”? Qual è il segreto misterioso che poteva capire sol-

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tanto l’esperto Professore e che non si degna di raccontarci? Possiamo osare di sostituirci ai panni di questo luminare? È quanto ci sforzeremo di fare. Dobbiamo ripartire dal presupposto che Canaletto vole-va riprodurre un ricordo di Venezia a quei viaggiatori che tornavano in patria affascinati dalla città e dalla sua vita, o mostrare angoli della città particolarmente attraenti a chi era costretto ad accontentarsi di un quadro per vedere Ve-nezia. Questo significa riprodurre una veduta ordinata dei monumenti più interessanti, ripresi nel modo a loro più fa-vorevole e presentati nella loro valorizzazione migliore. Per questo la camera oscura si prestava a testare dei provini di inquadrature e di luci alle varie ore del giorno, tra cui poi il pittore avrebbe potuto scegliere la migliore. Sin qui siamo in un uso diligente della camera oscura, ma nel normale approccio della visione statica, tipica dei Ve-dutisti e appreso da Carlevarijs: il dipinto rappresenta quello che vede il pittore, posizionato davanti al soggetto. Canaletto inventò la veduta dinamica, combinando sulla stessa tela più immagini distinte, ciascuna osservata da un punto di vista diverso, come un passante che abbia visto e ricordi, ma riuscendo a combinarle in modo unitario. È quanto ri-mane in mente a una persona che abbia passeggiato lungo un rio, o in una piazza, e abbia osservato i vari palazzi. Li rivede uno per uno, individualmente, dal loro punto di vista migliore, ma gli può sfuggire qualcosa delle loro relazioni spaziali e delle proporzioni che legano un edificio all’altro. Canaletto riunisce queste immagini, come in un sogno o un ricordo, talvolta penalizzando le relazioni geometriche di distanza, proporzione o angolatura per valorizzare singolar-mente gli edifici di maggior interesse. Canaletto fece anche altri passi geniali che dobbiamo evidenziare. Per trovarli, ripartiamo dal punto, sottolineato da Zanetti, che Canaletto era nato come scenografo e fece bellissimi disegni per gli scenarii. Nella sua esperienza sce-nica aveva imparato che l’ambiente in cui si muovevano gli

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attori era costituito da uno sfondo e dalle quinte laterali, le quali non erano tenute perpendicolari allo sfondo, ma ruo-tate verso gli spettatori per renderle meglio visibili anche da chi era seduto ai lati della platea. I palazzi laterali potevano quindi essere ruotati di quel tanto che avrebbe migliorato la loro visualizzazione (Fig. 15). Questo effetto scenico andava però contro le leggi della prospettiva, in quanto non ci sa-rebbe più stato un unico punto di vista per tutta la scena, ma uno per lo sfondo e uno per ogni lato: in pratica tre punti di vista distinti e difficilmente combinabili tra loro. Tuttavia, penalizzando le leggi della geometria e della pro-spettiva si poteva ottenere un effetto estetico straordinario valorizzando tutti gli elementi che si affacciavano alla stessa scena e creando una miscela sapiente e geniale di realtà (le singole immagini) e di fantasia (la combinazione di queste immagini parziali, i loro rapporti spaziali). Mettendo a frutto l’esperienza acquisita nella bottega del padre, la soluzione veramente geniale fu: realizzare nella tela del quadro una scenografia teatrale. La camera oscura soffriva di tutte le limitazioni del tem-po: la lente aveva un fuoco fisso, non si potevano ottenere distanze ravvicinate, non esistevano lenti macro per operare

Fig. 15 Nel palcoscenico di un teatro, le quinte (in rosso) ai lati della scena sono mobili per permettere l’allestimento scenografico e l’ingresso e l’uscita degli attori. La scenografia riproduce edifici o ambienti naturali, e l’angolo che le quinte formano con l’osservatore è scelto in modo da aumentare la veduta e creare un’atmosfera fiabesca. Anche le dimensioni possono essere espanse o contratte, per creare l’effetto desiderato dato l’angolo visivo.

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in ambienti con poco spazio e le lenti con un angolo visuale ridotto richiedevano distanze considerevoli. Se i vetrai vene-ziani avessero costruito una lente troppo macro, vista la de-formazione a barile dell’immagine nessuno avrebbe voluta accettarla e la lente macro, anche se sperimentata, sarebbe stata immediatamente scartata. Era quindi impossibile ottenere un panorama a largo re-spiro oppure la veduta all’interno dei campi10. Se l’angolo ottico della camera non era sufficiente, era tuttavia possibi-le realizzare un panorama combinando più visioni parziali, ognuna ottenuta con una piccola rotazione della camera. Se un qualche ostacolo si frapponeva tra la camera e un monu-mento, Canaletto poteva spostare la camera per riprendere la parte coperta per poi aggiungerla. Queste sono scaltrez-ze tecniche del mestiere cha anche gli altri pittori sapevano fare, e non sembrano l’intuizione geniale e misteriosa su cui tutti insistono. Ciò che rende geniale Canaletto è la scaltrezza e la bra-vura con cui risolse questi problemi. A volte per evidenziare meglio un palazzo laterale che sarebbe apparso penalizza-to dalla visione radente, o per adattare meglio il soggetto alle dimensioni della tela, ruotava qualche immagine. Ov-viamente, non conveniva effettuare la rotazione operando sull’immagine come faremmo noi oggi con un computer, perché sarebbe stato troppo laborioso, mentre era molto semplice ottenerla riposizionando diagonalmente la camera oscura, cambiando l’angolatura della ripresa. Oppure, se lo spazio era insufficiente per inquadrare nel-la camera oscura i palazzi di fronte e quelli ai lati, Canaletto riposizionava la camera in modo da riprendere separata-mente il fronte e i lati e poi rimontava il tutto. Il problema era che i vari pezzi erano indipendenti, con punti di fuga diversi; anche le ombre convergevano verso direzioni diver-se, a seconda della posizione della camera che le riprendeva.

10 “Campo” è il nome delle piazzette veneziane; solo la Piazza San Marco può pregiarsi dell’appellativo “Piazza”.

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A volte la bozza presa con la camera oscura poteva essere troppo piccola rispetto a quanto prefissato, e allora veniva ingrandita con il pantografo. La pratica del pantografo è confermata dalla presenza di alcuni fori causati dai puntali del pantografo sui fogli dei disegni (Gioseffi, 1960; Gilardi, 2000). Riprese indipendenti potevano subire ingrandimenti diversi. A volte poteva essere un problema, altre il ripro-porzionamento di alcune parti poteva essere voluto, per esempio un campanile poteva essere rimpicciolito per non svettare fuori della tela. Tutte queste piccole incongruenze potevano saltare all’occhio e il montaggio avrebbe potuto riuscire una specie di Frankenstein. Occorreva dare coeren-za unitaria alle varie parti e mascherare i rattoppi non coin-cidenti. Canaletto risolse questi problemi molto sapientemente, con effetti speciali dovuti alla combinazione di angolature diverse, ma senza esagerare troppo nelle differenziazioni, unificando il tutto con giochi di luce, ombre e colori che dessero la credibilità di un unico impianto ripreso allo stes-so istante e con le ombre tutte orientate concordemente, creando diversivi che distraessero l’occhio per non cercare e non vedere l’incongruenza geometrica dei punti focali di-versi. Per questo aggiunse barche, scene di vita, animali, personaggi e mille altri gustosi dettagli che attirassero l’at-tenzione. L’occhio vede la magnifica cornice urbana e si per-de volentieri a cercare e gustare questi diversivi psicologici di raffinata bellezza artistica e di autentica genialità. Zannetti scrisse meritatamente ch’ei fu uno de’ più va-lenti pittori de’ giorni suoi nel rappresentare vedute e pro-spettive, tanto tratte dalla verità, quanto dalla immagina-zione e aggiunse che l’osservatore non smaliziato non si accorge di nulla e crede di vedere la realtà: in pratica non era la Venezia vera, ma una Venezia inventata e trasformata da un sapiente regista, un sogno fissatosi sulla tela con l’ap-parenza del vero.

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Tanto grandi erano la creatività e la capacità di Canalet-to nel copiare e realizzare paesaggi naturali o urbani com-binando parti diverse che, come piacere o sfida a se stesso, talvolta creò delle composizioni puramente fantasiose asso-ciando edifici e ambienti totalmente indipendenti fra loro o immaginari, i cosiddetti “Capricci” che, se disgiunti dallo spirito del Canaletto, possono apparire come una strana ed inspiegabile combinazione di elementi architettonici o pae-saggistici. I Vedutisti cosiddetti minori che cercarono d’imitarlo diedero risultati un po’ goffi. Canaletto ben si merita il titolo di Maestro: non fu il primo a lanciare il Vedutismo, ma aprì le porte a un genere nuovo, consistente nella combinazione di più immagini genialmente fuse assieme sulla stessa tela. Il suo stesso maestro storico, Carlevarijs, fu eccellente nelle vedute frontali come si è visto nella Fig. 10 tratta dal volu-me “Le Fabriche, e vedute di Venetia” del 1703, ma piut-tosto grossolano nell’aggiunta dei palazzi al lato destro del Canal Grande nella “Regata sul Canal Grande in onore del Re di Danimarca Federico IV”, del 1711, già commentato in Fig. 12a. Naturalmente i concetti sopraelencati possono essere chiariti solo con esempi, come quelli che seguiranno, par-tendo dal caso più semplice. Alcuni dipinti presentano una prospettiva perfetta, con un solo punto focale ben definito, come la “Veduta della Piazzetta San Marco verso Nord”, (1750-1755, The Northon Simon Museum, Pasadena, Fig. 16). Il punto focale dove con-vergono tutte le linee si trova al centro della Basilica, che diviene il soggetto logico più importante. Possiamo supporre che questa fu la scelta più ovvia, perché lo spazio a dispo-sizione era molto ampio, sufficiente a trovare degli ottimi punti per una ripresa completa, e non era necessario alcun artifizio. A parte il valore artistico, la stessa veduta potreb-be essere ottenuta con una foto. È l’immagine statica che avrebbe visto una persona ferma nell’esatta posizione in cui

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Fig. 16 canaletto, “Veduta della Piazzetta San Marco verso Nord” (1750-1755, the Northon Simon Museum, Pasadena). La prospettiva è semplice e perfetta, con un solo punto di fuga, ben preciso. È un’immagine statica come la vedrebbe una persona ferma in un punto, o una macchina fotografica.

Fig. 17 canaletto, “Piazza San Marco verso la chiesa di S. Giminiano e le Procuratie Nuove” (1735-1740, Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini, Roma; Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della Città di Roma). Visione espansa dei lati. Sono evidenti due punti di fuga (circoli) che sovrappongono la convergenza delle linee prospettiche dalla parte destra e da quella sinistra. L’effetto è di ruotare le due vedute laterali verso l’osservatore espandendo lateralmente l’immagine.

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Canaletto aveva fissato la camera. Quello che sorprende è invece la ripresa dall’alto. Non è pensabile il pennone di una nave ormeggiata nel Bacino San Marco perché sarebbe oscillato troppo per realizzare il disegno. È più probabile che sia salito sulla colonna sul molo che regge il leone alato di San Marco che si trova di fronte al punto di fuga. In altri casi vi è la scelta di operare in due o più riprese separate per poi combinarle al fine di ottenere effetti specia-li. Ne è esempio la “Piazza San Marco verso la chiesa di S. Giminiano e le Procuratie Nuove” (1735-1740, Galleria Na-zionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini di Roma, Fig. 17), composta da tre riprese separate: al centro la veduta fron-tale con la chiesa di S. Giminiano che costituisce il fondo della Piazza, i palazzi al lato destro (le Procuratie), e quelle al lato sinistro (le Procuratie con il campanile). Le linee di convergenza ai punti focali s’intrecciano tra loro portando i punti focali verso parti opposte, il che significa una rotazio-ne delle estremità delle due ali laterali verso l’osservatore. La rotazione permette di rendere visibili le Procuratie alla sinistra, altrimenti coperte dal campanile. La Piazza è stata così espansa orizzontalmente e valorizzata, mettendo gene-rosamente in vista tutti i palazzi che la contornano, anche se con questo si è fatta una piccola ma geniale violenza alla geometria. È una composizione scenica con le quinte dispo-ste per essere visibili al meglio. Una foto non avrebbe mai potuto mostrare lo stesso scenario. È l’impressione che una persona si crea dopo aver passeggiato per Piazza San Marco ed essersi fermato a guardare ora questo ora quel monu-mento. Tornano innanzi agli occhi i ricordi di tutti i palazzi, contemporaneamente e senza ostacoli che li coprano, nella loro ubicazione approssimativa, come la memoria sa fare e il ricordo rincorre. È una visione dinamica, che richiama for-temente le sensazioni di chi ha già visto quei luoghi, che dal dipinto risaltano anche più vivi. Non è più la Venezia reale, ma la Venezia di favola che rimane nel ricordo e nel cuore.

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Una soluzione più complessa e smaliziata si trova nella “Piazza San Marco” (1730, Museum Fine Arts, Houston, Te-xas, Fig. 18), composta anch’essa da quattro riprese separate: la Basilica in posizione centrale sullo sfondo, il campanile e i due palazzi ai lati (le Procuratie) ruotati come se fossero le quinte laterali di una scenografia teatrale al fine di renderli simmetricamente convergenti verso le due ali della Basilica. L’impianto è a prima vista sorprendente, in quanto per va-lorizzare i lati ci si sarebbe attesa una rotazione contraria. Se avesse ruotato le Procuratie verso l’osservatore, come nel caso della Galleria Nazionale di Roma, i raggi convergenti si sarebbero ancora una volta intrecciati portando da parti opposte i due punti focali. Questa operazione avrebbe però richiesto uno sviluppo orizzontale maggiore, una tela più lunga. Ma una tela lunga e stretta non si presta per un qua-

Fig. 18 canaletto, “Piazza San Marco”, (1730, Museum of Fine Arts, Houston, Texas). Visione compressa dei lati. Sono evidenti due punti di fuga (circoli) che si allontanano rispetto alla convergenza delle linee prospettiche della parte destra e di quella sinistra. L’effetto centrifugo è ottenuto ruotando le due vedute laterali in senso opposto rispetto all’osservatore, il che è equivalente a una contrazione delle immagini laterali. In pratica, le due ali sono state riprese separatamente, con la camera posta diagonalmente.

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dro commerciale, che deve essere un rettangolo secondo la proporzione aurea della tradizione. Il punto cruciale è che in una veduta-foto normale la Basilica sarebbe stata troppo piccola, mentre Canaletto voleva che fosse ben apprezzabile in tutti i suoi dettagli. Fissata la dimensione della Basilica, la soluzione per raccordare i lati in una tela troppo stretta rispetto alla necessità è inattesa ma logicamente ineccepibi-le: Canaletto prende solo una porzione sia delle Procuratie di destra, sia di quelle di sinistra e le ingrandisce, ma a questo punto le due ali assumono proporzioni troppo grandi, incon-ciliabili con la Basilica. Deve quindi ridurre l’altezza delle Procuratie a partire dal fondo, sfumando progressivamente questa riduzione man mano che si avvicina al primo piano. Dal punto di vista ottico, questa operazione è equivalente a controruotare di un po’ le Procuratie spostando verso i bordi del quadro i loro due punti focali come se questi si respinges-sero. Per questo effettua due riprese separate, con la camera in angolatura diagonale rispetto a entrambi i lati. Sempre per stare dentro il rettangolo della tela aggiunge il campa-nile rimpicciolito di quel tanto che gli permetta di entrare tutto intero all’interno della veduta. La soluzione è piuttosto complessa, ma certamente geniale. Una volta ancora, reale e immaginario si mescolano, lasciando a chi guarda l’im-pressione di aver ritrovato un ambiente noto ma anche con qualcosa d’indefinito che sfugge, come nei sogni. Nel caso di vedute con canali la soluzione diveniva par-ticolarmente semplice, in quanto la riva destra e la sinistra costituivano già in partenza due parti separate e il canale in mezzo a loro costituiva una campitura neutra che ben si prestava ad assorbire e mascherare ogni differenza tra le due prospettive. Per esempio poteva riprendere la riva destra stando sul lato sinistro e poi attraversare il canale per coglie-re dalla riva sinistra il lato opposto. Non sempre i due punti di vista potevano essere esattamente affacciati, o allo stesso livello dal suolo, creando piccole dissimmetrie.

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La tecnica di combinare visioni parziali è particolarmen-te chiara nella veduta “Ingresso al Canale di Cannaregio” datata 1735, alla Cassa di Risparmio di Venezia (Fig.  19a) molto simile alla stessa veduta datata 1734-42 alla Natio-nal Gallery di Londra. Il dipinto si differenzia da una foto (Fig. 19B) in quanto è sostanzialmente composto di due ve-dute principali. La prima, ripresa dalla riva del Canal Gran-de di fronte al Canale di Cannaregio, mostra i palazzi che sul lato opposto si specchiano sul Canal Grande, in ottima posizione frontale. Dalla stessa posizione, sulla sinistra, si apprezza anche il lato di Palazzo Labia che si affaccia sul Canale di Cannaregio. Tuttavia, i palazzi che si affacciano sul lato destro del Canale di Cannaregio sono visti d’infila-ta, con un’ottica radente alle facciate che vengono pratica-mente schiacciate e annullate dalla visione prospettica reale, tranne quelle all’imbocco dove il canale ruota leggermente. Canaletto trova la soluzione geniale di allargare di molto il Canale di Cannaregio per far spazio alle facciate dei palazzi da valorizzare sul lato destro, ruotandoli e allargandone la visione. In pratica, il quadro viene realizzato con due punti focali distinti e intersecantisi a seguito della rotazione dell’e-stremità della riva destra verso l’osservatore. In altri casi la veduta è generalmente corretta, tranne alcune parti. Ne è esempio “Il Canal Grande da Cà Grimani” 1735, Collezione Privata, Londra, Fig. 20) che ha una prospet-tiva corretta tranne che per il primo palazzo sul lato destro. Il lato destro del Canal Grande è visto da un’ottica radente e i singoli palazzi sono difficilmente riconoscibili; per questo motivo il primo palazzo è stato ruotato guadagnando una migliore visibilità. Chi guarda il dipinto ha l’impressione che le barche nel Canal Grande siano il vero soggetto, e i palazzi un favoloso contorno. Anche le nubi che s’innalzano sopra al Canal Grande spostano l’attenzione sugli elementi fantastici che entrano a far parte del quadro.

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Fig. 19 (a) canaletto, “Ingresso al Canale di Cannaregio” (1735, Cassa di Risparmio di Venezia). (b) Una foto di oggi con la medesima veduta. Nel dipinto il canale di Cannaregio è stato allargato per valorizzare i palazzi della riva destra. I due lati del canale sono stati ripresi separatamente, e poi composti sulla tela. L’intreccio delle linee prospettiche convergenti verso i due punti di fuga indicano una rotazione verso l’osservatore, espandendo lateralmente l’immagine.

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Nel caso della “Dogana da Mar” (1740, Kunsthistorisches Museum, Vienna, Fig. 21), troppo lontana dalla riva del Ba-cino San Marco, Canaletto dovette tenere la camera posi-zionata su un natante per avvicinarsi e riprendere la Punta con la loggia della Dogana. Il natante doveva essere molto stabile perché è impossibile usare una camera oscura con il beccheggio e il rollio delle onde. Più realisticamente avreb-be potuto essere una piattaforma formata da un gruppo di natanti fissati tra loro, per esempio in occasione della realiz-zazione dei ponti votivi di barche per la festa della Madon-na della Salute in novembre, dato che il ponte attraversa il Canal Grande poco distante dalla veduta in oggetto, o del Redentore in luglio, ma dalla parte opposta, per raggiungere la Giudecca. In ogni caso, una volta disegnata la Punta della Dogana, Canaletto lasciò il precario mezzo di supporto e salì sul molo della Dogana, e da quella riva riprese l’isola della Giudecca, visibile nello sfondo. Il riposizionamento è visibile dai due punti di fuga distinti, ma il braccio di laguna che s’inframmezza e le barche e i velieri che vi scorrono sopra sviano l’attenzione da questo artifizio.

Fig. 20 canaletto, “Il Canal Grande da Ca’ Grimani” (1735, Collezione Privata, Londra) ha una prospettiva normale, tranne che per il primo palazzo sulla destra che guadagna visibilità da una piccola rotazione verso l’osservatore.

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Fig. 21 (a) canaletto, “Dogana da Mar” (1740, Kunsthistorisches Museum, Vienna), composto da due vedute distinte: la loggia sulla banchina in visione ravvicinata e l’isola della Giudecca sullo sfondo. Il riposizionamento è riconoscibile dai due punti di fuga distinti. (b) Lo stesso monumento oggi. La banchina è stata elevata per evitarne la sommersione, ma è ritornata a livello critico. Dal tempo del dipinto la fascia delle alghe si è alzata di 72±16 cm.

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7.2 cosa nei quadri del canaletto non differisce da una foto

John Ruskin, che non amava Canaletto, nella sua opera “Mo-dern Painters” (1848) gli dà un giudizio molto negativo di manierista servile e degradato, ma riconosce che riproduce esattamente i singoli ornamenti architettonici. Il fatto che i singoli palazzi siano stati riportati con esattezza in tutti i loro dettagli, anche quelli apparentemente più insignifican-ti, è di estrema rilevanza per il nostro studio, come vedremo oltre. Canaletto superava brillantemente le varie difficoltà con alcune soluzioni geniali e fantasiose; in pratica però, la fantasia interveniva solo nel legare tra loro le varie parti e nell’aggiungere scene di vita, ma non toccava nulla all’in-terno delle singole porzioni di veduta che componevano il quadro. Si è già anticipato che, per acquistare credibilità e

Fig. 22 (a) Dettaglio tratto da Canaletto: “Ingresso al Canale di Cannaregio” (1735, Cassa di Risparmio di Venezia). (b) Foto odierna dello spigolo dove sono riconoscibili le bianche pietre angolari in pietra d’Istria, alcune delle quali sostituite da mattoni (riconoscibili) per lavori di manutenzione e riadattamento. Dal tempo del dipinto la fascia delle alghe si è alzata di 74±10 cm.

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distrarre l’attenzione, Canaletto introduceva nei dipinti un numero di particolari estremamente precisi, volendo sugge-rire a livello subconscio l’idea che anche il resto del dipinto fosse altrettanto accurato. Sarà utile verificare quanto affermato sulla sua precisio-ne con qualche esempio di particolari facilmente riconosci-bili. Cominciamo con un esempio tratto dall’“Ingresso al Canale di Cannaregio” del 1735, già mostrato in Fig. 19a, e focalizziamoci sul dettaglio delle pietre angolari in pietra d’Istria sotto alla finestra (Fig. 22). L’edificio ha subito alcuni lavori di manutenzione e re-stauro, che hanno ampliato le finestre e sostituito alcune pietre d’Istria bianche con dei mattoni nuovi, facilmente ri-conoscibili. La parte originale di pietre e mattoni sopravvis-

Fig. 23 Canaletto: dettaglio dalla “Veduta della Piazzetta San Marco verso Nord” in Fig.16 (1750-1755, the Northon Simon Museum, Pasadena). Tutti gli edifici sono riprodotti con cura, e si è qui indicato come esempio il particolare del bassorilievo riproducente Eva sul capitello angolare del Palazzo Ducale. Nel riquadro in alto una foto odierna del bassorilievo.

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suti coincide esattamente con il dipinto. Lascia sconcertati vedere che in un panorama urbano così vasto Canaletto sia sceso al dettaglio della singola pietra. Anticipiamo anche il fatto che nel dipinto si vede la fascia bruna-verdastra delle alghe attaccate al basamento in pietra d’Istria. Questa fascia si trova a un livello decisamente inferiore rispetto ad oggi: esattamente 74±10 cm più basso. Questa differenza non è dovuta a imprecisione di Canaletto, ma all’effetto combina-to della subsidenza del suolo e dell’innalzamento delle acque del mare, come vedremo. L’esempio successivo (Fig. 23) mostra uno dei tanti det-tagli della “Veduta della Piazzetta San Marco verso Nord” (1750-1755) già discussa in Fig. 16. Si è qui evidenziato sol-tanto il particolare di Eva sopra al capitello angolare del Pa-lazzo Ducale, confrontandolo con una piccola foto di oggi, nel riquadro. È un particolare come tanti altri, che scom-pare nell’insieme dei molti palazzi che si affacciano sulla Piazzetta, tutti individualmente riportati con una precisione veristica estrema. Se si vuole controllare la precisione della riproduzione architettonica dei palazzi, ecco il dettaglio di una riprodu-zione giovanile di Palazzo Grimani di San Luca (Fig. 24a) trat-to da “il Canal Grande da Palazzo Grimani” del 1735, già visto in Fig. 20. Il palazzo del dipinto è posto a fianco di una foto degli anni 1880 tratta da Ogania (1890-91) (Fig. 24b). È evidente l’esatta corrispondenza delle varie caratteristiche architettoniche e della ripartizione in piani. Ora però un’eccezione. Si tratta dello stesso Palazzo Gri-mani di San Luca (Fig.  25a) in veduta frontale in un altro quadro della sua vecchiaia, nel periodo che intercorre da quando Canaletto ritornò da Londra nel 1755 alla sua morte nel 1768. Questo dipinto è interessante sotto vari aspetti, oltre alla testimonianza della severità dell’inquinamento atmosferico esistente a Venezia nel XVIII secolo. Anche la precisione nel riportare i rivoletti bianchi dell’acqua perco-lante (frecce bianche) è impressionante. Il punto cruciale è

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Fig. 24 (a) canaletto, dettaglio di Palazzo Grimani di San Luca, tratto da “Il Canal Grande da Palazzo Grimani” (1735, Collezione Privata, Londra) in Fig.20. (b) Una foto dello stesso palazzo negli anni 1880 (Ongania, 1890-91). È evidente la precisa corrispondenza degli elementi architettonici.

Fig. 25 (a) canaletto, tarda pittura di Palazzo Grimani di San Luca (1755-68) (Canaletto, Venice: Palazzo Grimani, ©The National Gallery, London). Il dipinto è molto accurato nel riprodurre i segni dell’inquinamento atmosferico e dove l’acqua colando rimuove le croste nere (freccia bianca) ma introduce alcune deviazioni architettoniche: le colonne interne del secondo e terzo registro sono trasformate a sezione rettangolare (freccia rossa) e l’arcata centrale acquista una colonnina (freccia verde). (b) Una foto storica dello stesso palazzo prima della rimozione delle croste nere dalla facciata (foto di Franzoi e Smith, 1993).

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che appaiono alcune piccole inesattezze nei dettagli e non è chiaro se queste si debbano attribuire a un calo di vista, o a minore attenzione, o all’introduzione di licenze pittoriche per motivi artistici. In questo tardo dipinto le colonne sca-nalate che contornano porte e finestre ai due piani superiori (freccia rossa) sono state scambiate (o cambiate?) con lese-ne scanalate della stessa dimensione, passando da sezione tonda a sezione rettangolare. In realtà le lesene scanalate si trovano al piano terra e al contorno del palazzo e, nella camera oscura, come nello schizzo sul posto, queste piccole differenze sono indistinguibili. Può essere che sia l’età, sia il lungo periodo di permanenza a Londra, abbiano contribuito ad attenuare la percezione diretta e il ricordo di tutti i mi-nimi dettagli dei palazzi veneziani, cosa più che compren-sibile per un Canaletto anziano e privo dei suoi aiutanti di bottega dei tempi migliori. La cosa più sorprendente è che gli archi centrali sono contornati da una colonnina (freccia verde) e sormontati da una decorazione che sembrano più un capriccio inventivo che una svista. Anche le proporzioni del palazzo sono approssimative. Bisogna comunque riconoscere che Canaletto ebbe una vista eccellente, almeno rispetto alla media, sino agli ultimi anni. Ciò è provato dall’accuratezza di tutte le immagini, e in particolare dall’opera eseguita a luce fioca all’interno della Basilica di San Marco durante un concerto vocale: i “Cantori di San Marco” alla Kunsthalle di Amburgo (Fig. 26) dove scrisse in calce alla pagina: “Io Zuane Antonio da Ca-nal ho fatto il presente disegno delli Musici che canta nella Chiesa Ducal di S. Marco in Venezia in età di anni 68 Senza Occhiali, L’anno 1766”. Questo avvenne due anni prima del-la sua dipartita. In pratica, Canaletto con la sua bottega produsse sem-pre dipinti con una certa inventiva nell’impianto scenico della presentazione dei palazzi, ma ogni singolo palazzo era perfettamente rappresentato, come in una foto. Si è notata qualche rara eccezione nell’ultimo periodo.

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Si è detto che Canaletto voleva riprodurre una Vene-zia viva, con la sua vita pulsante; il contorno fiabesco dei palazzi faceva da scena tutto intorno, come in un teatro. I personaggi e dettagli dovevano distrarre l’occhio e rendere credibile la rappresentazione pittorica. Per propria natura, e a buona ragione, Canaletto fu un perfezionista instancabile nel riprodurre i minimi particolari. Eppure, a volte prepa-rava le sue tele con uno o più disegni decisamente piccoli per le limitate dimensioni della camera oscura, tanto che talvolta abbisognava anche del pantografo per espanderli ulteriormente. È chiaro che in queste condizioni i dettagli più minuti molto difficilmente avrebbero potuto essere rico-nosciuti e documentati nella prima bozza eseguita sul posto con la camera oscura. Questi dovevano essere annotati e ri-presi separatamente. Viene da supporre che la lavorazione

Fig. 26 canaletto, particolare dei “Cantori di San Marco” (1766, Kunsthalle, Amburgo) con la scritta in calce: “Io Zuane Antonio da Canal ho fatto il presente disegno delli Musici che canta nella Chiesa Ducal di S. Marco in Venezia in età di anni 68 Senza Occhiali, L’anno 1766”.

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dei quadri si sia avvalsa di tre fasi distinte, almeno dal punto di vista della sequenza logica, come segue. Sul posto, con l’ausilio della camera oscura, venivano testati i vari provini per riconoscere la veduta migliore e veniva tracciata su carta la prima bozza, o le varie parti che sarebbero poi concorse per comporre la bozza finale. Nella sua bottega, tutte le immagini riprese venivano analizzate, adattate, eventualmente ingrandite, e combinate tra loro per formare la struttura del dipinto. Venivano poi stesi i colori, le campiture, le luci, le ombre, i personaggi, le barche e le scene di vita per arricchire e vivificare la sceno-grafia. Una seconda volta sul posto, di fronte ad ogni singolo palazzo, per aggiungere tutti i particolari veristi che caratte-rizzavano l’edificio. Data la precisione dimostrata nel posi-zionamento di ogni peculiarità e nelle proporzioni, le ipotesi che vengono in mente sono due. Che tornasse sul posto col dipinto per aggiungere a vista diretta i singoli dettagli, ma non è credibile che possa aver trasportato i dipinti con la vernice ancora fresca dato che questi si sarebbero rovinati facilmente e se ne sarebbe trovata traccia. L’altra ipotesi è che lasciasse il dipinto in bottega e tornasse sul posto con la camera oscura per eseguire riprese dettagliate, a distanza ravvicinata, dei particolari da aggiungere poi in bottega. In pratica, si può supporre che il realismo sia intervenuto a due livelli: all’inizio del dipinto, per la prima bozza; alla fine del dipinto, per l’aggiunta dei dettagli. La camera oscura fu certamente essenziale nella prima fase; molto probabilmen-te lo fu anche nell’ultima.

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8. Quando esistono più quadri con la medesima veduta, è possibile distinguere il primo dai successivi?

È noto che tanto Canaletto quanto Bellotto furono molto interessati all’aspetto commerciale e che si erano organizza-ti per rivendere quadri su commissione, proponendo anche repliche di soggetti particolarmente apprezzati. In tal caso la veduta di successo veniva riprodotta, anche a distanza di tempo, su una nuova tela, col risultato che oggi esistono serie di dipinti apparentemente identici, o molto simili tra loro. Questo fatto può costituire un serio problema per il no-stro studio perché, se ci servono dipinti dotati di precisione fotografica a riguardo di alcuni elementi che discuteremo più oltre, ci necessita sapere se dobbiamo utilizzare solo il capostipite di una serie, oppure se possiamo usare uno qua-lunque dei successivi. Il problema è rilevante in quanto il primo quadro può essere andato disperso, o essere ignoto perché nella serie alcuni possono essere di datazione incer-ta. Il punto fondamentale è sapere se in queste serie i vari dipinti erano stati in vario modo derivati dal primo, secondo un preciso albero genealogico che in genere non conoscia-mo, ovvero se erano stati dipinti indipendentemente l’uno dall’altro. Nel caso di una serie di dipinti derivati da un capostipite di successo, possiamo supporre che il primo inevitabilmente contenga alcune piccole imprecisioni dimensionali che ne limitino la precisione, e che le repliche successive seguano le leggi statistiche della propagazione degli errori, diminuendo la precisione generale e aumentando la distribuzione casua-le degli errori. In linea di principio è logico supporre che il primo dipinto sia anche il più preciso, e che le repliche successive lo siano sempre meno, man mano che nell’albero genealogico ci si allontana dal ceppo iniziale.

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Vi sono molti quadri di cui non si conosce la datazione esatta, o è controversa, e non si può mai essere sicuri che il dipinto che si sta osservando sia il solo realizzato con tale veduta, o il primo di una serie, o un cadetto derivato da al-tri. In pratica, come si debbono considerare i quadri succes-sivi al primo in una serie: copie, repliche o originali ripetuti? Si può stabilire in modo oggettivo e quantitativo il livello di accuratezza e individuare matematicamente il primo di ogni serie? Per raggiungere lo scopo di riconoscere e posizionare i quadri secondo il loro albero genealogico, dobbiamo escogi-tare una metodologia oggettiva, basata sull’analisi matema-tica applicata alle impercettibili imprecisioni di ogni dipinto in modo da ottenere degli indici numerici che, posti in or-dine dal più piccolo al più grande, ci esprimano l’ordine di successione dei quadri cui si riferiscono. Per esempio: padre = indice piccolo; figlio = indice medio; nipote = indice gran-de; fratelli = indice uguale. La metodologia basata sull’incremento degli errori che abbiamo usato si basa su un certo numero di passaggi. Dap-prima nel quadro viene individuato un insieme di grandez-ze architettoniche misurabili, appartenenti tutte allo stesso palazzo. Per esempio l’altezza di ciascun piano, di porte e finestre, di balconate e di ogni altro elemento architettoni-co considerato viene normalizzata dividendola per l’altezza totale del palazzo nel dipinto. Lo stesso viene fatto su una foto odierna del palazzo in questione. Come si è anticipato, con i rapporti non occorre conoscere alcuna altezza reale e le distorsioni dovute al diverso posizionamento del punto di osservazione rispetto all’edificio divengono ininfluenti. Definiremo come “errore” la differenza tra la misura nor-malizzata nel quadro e quella corrispondente normalizzata nella foto. Se il padre ha dei difetti (e li ha certamente) li può trasmettere ai figli, e i dipinti derivati da uno stesso capostipite devono in qualche modo riprodurre la maggior parte degli errori del primo, ma introducendo anche altri

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errori casuali, con il risultato di peggiorare la situazione. Se calcoliamo la deviazione standard di tutti gli errori, questa deve crescere con il numero successivo di repliche: il primo l’avrà più piccola, l’ultimo più grande. Al contrario, se i quadri sono indipendenti, sia il tipo di errori di ciascuno, sia i valori della deviazione standard risulteranno distribuiti casualmente, senza alcun ordine. Si è fatto un test con la serie di quadri noti come “il Ca-nal Grande e la Salute visti dal Campo Zobenigo” di cui si conosce un certo numero di repliche. Due di queste vedute, una di Canaletto (primi anni del 1730) (Fig. 27) e una di Bel-lotto (1741 circa) sono conservate al Fitzwilliam Museum, Cambridge. Altre tre copie dovute a Bellotto sono rispettiva-mente in una Collezione Privata (datata 1740-41), al Getty Museum, Malibu (Los Angeles) (datata 1743-44), e una (data-ta 1743-44) apparteneva alla Stewart Collection, New York, ma fu rivenduta a sconosciuti da Christies’ nel 1995. Un altro dipinto è di Anonimo, ed è conservato a Cà Rezzonico, a Venezia (datazione incerta, dopo il 1738). Per illustrare la metodologia dell’errore complessivo in termini di deviazione standard si sceglie un elemento archi-tettonico che meglio si presti, come il Palazzo Pisani-Gritti

Fig. 27 canaletto, Il Canal Grande e la Salute visti da Campo Zobenigo (inizio 1730, Fitzwilliam Museum, Cambridge).

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alla sinistra del quadro. Si è diviso il palazzo in otto fasce (evidenziate con altrettante frecce in Fig. 28) che ricalcano altrettanti elementi orizzontali riconoscibili, come il piano terra, il poggiolo, la balconata al primo piano, la distanza fra le balconate, la balconata al secondo piano, la distanza fra la balconata e le finestrelle sottotetto, lo spazio che rimane fino al tetto, lo svettamento dell’edificio a lato. Per ogni dipinto, ciascuna di queste singole altezze è stata poi trattata come si è detto per calcolare gli errori e da questi la deviazione standard che li rappresenta globalmente. Il Canaletto degli anni 1730, che è certamente il primo della serie, viene valutato SD =0,23; il Bellotto al Fitzwilliam Museum, posteriore di circa un decennio ha SD = 0,13, con precisione ampiamente superiore a quella dello zio-maestro.

Fig. 28 Palazzo Pisani-Gritti da un numero di tele con la stessa veduta. Queste sono, rispettivamente: a canaletto (Fitzwilliam Museum, Cambridge), quattro dipinti di Bellotto (b) Fitzwilliam Museum, Cambridge; (c) J. Paul Getty Museum, Malibu (Los Angeles); (d) Richard Green Gallery, Londra; (e) Albans Colnaghi, Londra; infine (f) Anonimo (Ca’ Rezzonico, Venezia). Le frecce numerate indicano le varie fasce in cui il palazzo è stato diviso per evidenziare le piccole differenze dal reale e quantificare gli errori.

a.  b.  c.  d.  e.  f.

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Gli altri dipinti di Bellotto hanno SD = 0,19, 0,26 e 0,27. L’Anonimo di Cà Rezzonico ha SD = 0,22 con precisione si-mile a quella di Canaletto e in posizione mediana rispetto a quelle di Bellotto (Camuffo et al., 2005). Da questa analisi possiamo concludere che il Bellotto al Fitzwilliam Museum è doppiamente più preciso rispetto al primo della serie e ripro-duce lo stesso soggetto, ma certamente non è stato ottenuto copiando la tela del Canaletto. Non è quindi considerabile una ‘copia’ ma è a tutti gli effetti un secondo, indipendente ‘originale’ ottenuto tornando sul medesimo posto circa un decennio dopo, affacciandosi ancora dalla medesima fine-stra al secondo piano della casa di fronte a Palazzo Pisani-Gritti. Per quanto concerne gli altri dipinti sullo stesso sog-getto, la risposta sintetica della SD non è altrettanto chiara in quanto il distacco non è molto forte. Per ottenere una risposta precisa occorre passare all’a-nalisi della propagazione e distribuzione dei singoli errori. Come nel caso precedente, si definisce una sequenza ordi-nata di numeri rappresentanti quanto l’altezza normalizza-ta di ogni fascia differisce, in positivo o negativo, da quella corrispondente nel riferimento. Questa sequenza ordinata di numeri grandi e piccoli, positivi e negativi, che caratteriz-za la distribuzione delle imperfezioni commesse dal pittore, costituisce il DNA del quadro, che verrà trasmesso ad ogni discendente. Nell’ipotesi che un quadro (che chiameremo fi-glio) sia la riproduzione di uno precedente (che chiameremo padre), dobbiamo attenderci che la sequela del DNA del pa-dre sia ripetuta simile anche nel figlio, anche se con qualche piccola variazione, permettendo la ricostruzione dei quadri derivati e di tutto l’albero genealogico. Se per esempio un palazzo è costituito da due piani sol-tanto, e il primo è stato sopravvalutato (errore con segno +), necessariamente il secondo sarà sottovalutato (errore con segno -). Con molta probabilità questo tipo di errore si propagherà anche ai quadri derivati da questo. Se un se-condo quadro presenta l’errore opposto, o del tutto diverso,

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con ogni probabilità sarà indipendente dal precedente. Se il confronto viene fatto considerando non due sole misure per palazzo, ma una serie di 8, come fatto per il Palazzo Pisani-Gritti, è chiaro che le probabilità di stabilire con precisione l’ordine di generazione in una serie, o l’indipendenza tra quadri, diviene altissima. Applicando la metodologia della propagazione degli erro-ri in termini di DNA pittorico al Palazzo Pisani-Gritti (Fig. 29) emerge chiaramente che tutti i dipinti presentano sequele di DNA indipendenti, tranne che l’Anonimo di Cà Rezzo-nico che ricalca da vicino 7 errori su 8 del Bellotto della Collezione Privata, essendo solo l’errore in sesta posizione decisamente diverso (Camuffo, 2010). Ciò fa supporre che

Fig. 29 Test della propagazione degli errori (DNA) da una serie di dipinti apparentemente identici per distinguere il capostipite dai derivati e ricostruire l’albero genealogico. Il test è basato sulla valutazione dell’errore di sovrastima o sottostima di ogni fascia. I punti rappresentano gli errori, le linee hanno il solo scopo di aiutare l’occhio a connettere tra loro i punti. Non si ritrova alcuna ripetizione sistematica degli errori, tranne una simiglianza molto forte tra l’Anonimo di Cà Rezzonico e il Bellotto della Collezione Privata.

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questi due quadri siano imparentati strettamente fra loro, per esempio a livello di copia (Anonimo copia da Bellotto) o a livello di bozza (Anonimo e Bellotto partono dallo stes-so bozzetto su carta). La prima ipotesi implicherebbe che l’Anonimo abbia avuto a disposizione il quadro di Bellotto da copiare con molta diligenza. La seconda implichereb-be che l’Anonimo dovrebbe essere molto vicino a Bellotto, probabilmente un aiutante di bottega, anche se è difficile pensare alla possibilità di una concorrenza interna. La se-conda ipotesi potrebbe anche ammettere che l’Anonimo sia Bellotto stesso. Naturalmente, queste discussioni sono state fatte per meglio illustrare la metodologia e le sue potenzia-lità, lasciando poi ad altra sede la soluzione delle stimolanti ipotesi qui avanzate. La sola conclusione che si vuole sottolineare è che nella serie dei dipinti di Canaletto e Bellotto con la stessa veduta qui considerata, tutti hanno avuto una genesi indipendente e alla pari. Tutti questi quadri sono da considerarsi ‘origina-li’ anche se un po’ ripetitivi nel soggetto. In tal caso appren-diamo che non è critico doversi avvalere solo del primo di una serie di quadri per ottenere le immagini più vicine alla realtà.

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9. la camera oscura e l’inquinamento a veneziaIn genere si è portati a supporre che nei secoli passati le città avessero un’atmosfera molto pulita, mancando l’inquina-mento industriale e quello da traffico, con il riscaldamento domestico ridotto veramente al minimo e dovuto alla com-bustione di legna o carbonella. La fortunata combinazione di dipinti effettuati con la camera oscura e nello spirito di ricerca del verismo nei particolari potrebbe darci un’idea ab-bastanza precisa di come era l’ambiente veneziano del XVIII secolo. Tuttavia, prima dobbiamo risolvere un ulteriore pro-bema: alcuni vedutisti (come Canaletto, Bellotto, Guardi e talvolta Carlevarijs) mostrano palazzi con macchie scure di fumo e polveri depositate sulle pareti, mentre altri (come Marieschi) mostrano edifici puliti, nella purezza delle loro linee architettoniche. Il dubbio che dobbiamo porci e risol-vere è se alcuni abbiano forzato la mano con i segni dell’in-quinamento per insistere sull’aspetto realistico, oppure se al-tri abbiano omesso questi dettagli perché ritenuti irrilevanti, disgustosi e al di fuori di ogni tradizione classica che tende a presentare le cose nella loro veste migliore, omettendo mac-chie e sporcizia. Si può risolvere il dubbio analizzando le macchie dell’in-quinamento sui palazzi: se sono frutto di fantasia saranno poste a casaccio; se invece ricalcano la realtà devono rispet-tare le leggi chimiche e fisiche dell’inquinamento che noi oggi conosciamo ma non conoscevano i Vedutisti. Per loro, l’unico modo di riprodurle esattamente era quello di copiar-le esattamente. L’inquinamento atmosferico sotto forma di fumi o di particolato di dimensioni grossolane si deposita sulle sporgenze orizzontali e si fissa anche sulle pareti verti-cali, specie dove queste sono umide. La pioggia battente por-ta notevoli quantità di acqua sulle pareti esposte, e quest’ac-qua ruscellando lungo la parete esercita una forte azione di dilavaggio, tranne che nelle parti che rimangono riparate dal flusso in discesa. I palazzi veneziani sono costruiti con

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la pietra d’Istria, un calcare bianchissimo molto resistente, mentre gli edifici minori sono in mattoni ricoperti da into-naco tranne che nel basamento, le balconate, le architravi e altre parti strutturali dove ritorna la pietra d’Istria. Sullo sfondo bianco di questa pietra, lo scuro degli inquinanti de-positatisi contrasta molto fortemente, rendendo molto visi-bile il fenomeno. Il primo test che possiamo fare è verificare se Canaletto e Bellotto hanno riportato fedelmente le varie forme di degrado a noi note in funzione di come le super-fici vengono bagnate (Camuffo et al, 1982; 1983; Camuffo, 1998). Queste possono essere riassunte come segue. Aree bianche. La pietra d’Istria assume un aspetto bianco intenso nelle zone esposte dove l’acqua ruscella abbondan-temente sulla superficie, rimuovendo tutte le particelle che si fossero depositate tra una precipitazione e la successiva. Le aree bianche non si formano necessariamente nelle zone direttamente colpite dalla pioggia, ma il punto essenziale è lo scorrimento abbondante di acqua. La pietra si dissolve debolmente e recede assottigliando la parte interessata. Alla fine della precipitazione atmosferica, durante la fase di eva-porazione, la poca calcite rimasta in soluzione precipita for-mando dei bianchissimi cristalli spatici di calcite. Nel caso di un edificio a intonaco, in queste zone vengono rimossi non solo l’inquinamento, ma anche la pellicola pittorica e l’intonaco stesso può restarne assottigliato. Aree nere. Il nero è dovuto alla presenza di particelle scu-re che restano fissate alla superficie formando delle croste di gesso più o meno coese. Fatto essenziale è che la zona inte-ressata sia raggiunta da acqua in fase liquida, per esempio per schizzi o debole percolamento, ma non in quantità tale da rimuovere le particelle depositatesi tra una pioggia e la successiva. Le particelle di nero fumo possono essere com-poste da una grande concentrazione di carbonio o anche dai fumi delle sostanze lavorate ai fini artigianali. In presenza di acqua e di solfati di origine marina o non, o di anidride solforosa rilasciata dalle combustioni, l’acido solforico che

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si sviluppa reagisce con la pietra calcarea formando cristalli di gesso che inglobano le particelle nere e che assumono l’apparenza di croste nere. Queste croste assorbono inqui-nanti anche in fase gassosa e agiscono da catalizzatori per la grande superficie specifica e per eventuali impurità presenti, divenendo sempre più aggressive. Dopo il 1825, quando fu introdotto il carbone a Venezia, o i primi decenni del 1900, quando si allargò l’uso del petrolio, le particelle carboniose rilasciate dalle combustioni e imprigionate dalle croste nere assunsero un ruolo fondamentale nel degrado dei monu-menti per l’elevato tenore di acidità assorbibile e la grande capacità di catalizzare le reazioni chimiche. Le croste nere si formano più facilmente sul substrato calcareo, ma anche sugli edifici dove l’intonaco resta protetto dall’acqua ruscel-lante, come tipicamente avviene sotto piccole sporgenze. Aree grigie. Nelle zone assolutamente asciutte, come sot-to portici o altre parti ben riparate, le particelle più grandi, sia inquinanti sia di origine naturale, possono accumularsi formando uno strato di polvere incoerente, di colorazione grigiastra. La superficie sottostante rimane sostanzialmente inalterata, a parte lo sporco che ne offusca o copre la leggi-bilità. Le superfici più interessate al deposito secco di parti-celle sono quelle orizzontali, che raccolgono prevalentemen-te le particelle più grosse che sedimentano per deposizione gravitazionale. In un dipinto la colorazione di un’area grigia potrebbe essere confusa con quella di un’area nera, assai simile. Possiamo analizzare il problema dell’annerimento e del-la formazione delle croste sui palazzi per l’inquinamento ai tempi della Serenissima tornando alle immagini di Palazzo Grimani nei due dipinti di Canaletto: quello in maturità del 1735 (Fig. 24) e quello in vecchiaia del 1755-68 (Fig. 25a). En-trambi i dipinti mostrano i segni di un inquinamento im-pressionante, ed entrambi mostrano una corretta distribu-zione di aree bianche e scure, come dobbiamo attenderle e come si vedono nella foto di alcuni decenni fa prima che la

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facciata del palazzo venisse ripulita (Fig. 25b). In primo luogo si può vedere che l’annerimento è correttamente distribuito secondo un gradiente verticale, più scuro in basso e più chia-ro in alto. Questo perché l’intensità del vento si attenua per dissipazione turbolenta nella parte bassa, sicché la parte alta dell’edificio è colpita da un numero molto maggiore di gocce trasportate dal vento e quindi meglio dilavata. In entrambe le figure si nota chiaramente che la parte più bassa è inte-ressata da un basamento sporgente, e quindi meglio esposto alla pioggia. Anche questo, correttamente, viene dilavato dall’acqua piovana e da quella che gocciola dalle balconate superiori e appare più chiaro. Nella zona immediatamente sotto i poggioli, dove arrivano gli schizzi di pioggia ma non è possibile il dilavamento, troviamo le zone più scure. In alcuni punti in corrispondenza delle balconate, o comun-que dove si creano piccole sconnessure tra pietra e pietra, si formano piccoli rivoletti d’acqua che dilavano localmente la pietra, con l’apparenza di piccoli ruscelli bianchi colanti lun-go la parete, alcuni evidenziati con freccia bianca in Fig. 25a. Non è ragionevole pretendere il dettaglio che ogni rivoletto visibile ai tempi di Canaletto lo sia ancora oggi, dati i vari lavori di manutenzione e restauro subiti dal palazzo. Passando dall’analisi dei particolari al messaggio genera-le, Canaletto testimonia un inquinamento molto intenso a Venezia, soprattutto se si considera che Palazzo Grimani fu costruito nel 1556-75 e che dopo un solo secolo la pietra d’I-stria è completamente annerita, almeno nelle parti riparate dal dilavamento. Un altro esempio interessante (Fig. 30) è tratto da Bellotto, “Piazzetta San Marco” (National Gallery of Canada, Otta-wa) i dettagli sono del tutto simili al quadro di Canaletto: “Veduta della Piazzetta San Marco verso Nord” (1750-1755, The Northon Simon Museum, Pasadena) già commentato per altri aspetti in Fig. 16. Nell’esempio si vedono delle lunghe co-late di sporco nelle zone adiacenti alle finestre dove l’acqua piovana raccoglie, e trascina poi sulla parete, la deposizione

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avvenuta nei periodi tra una pioggia e la successiva. È evi-dente l’effetto in corrispondenza della sporgenza a ‘O’ che ha raccolto lo sporco nella parte superiore e il trascinamen-to dell’acqua l’ha ridistribuito a partire da quella inferiore (freccia verde). Analogamente ai bordi della finestra gotica (frecce gialle). Ancora, il gocciolatoio sporgente dal tetto evi-ta il dilavaggio della parte sottostante nella stessa verticale, che appare più scura (freccia rossa). Finalmente, la fascia orizzontale a cerchi e quadrifogli in pietra d’Istria appare scura per lo scarso dilavaggio (freccia rosa). È davvero sorprendente vedere una tale deposizione di inquinanti prima dell’uso del carbone e del petrolio. A quei tempi il combustibile in uso a Venezia città era soltanto le-gna di fascina per cuocere, pezzi di legno di scarto dalla costruzione delle barche per un riscaldamento domestico molto ridotto o per il funzionamento di qualche forno essen-

Fig. 30 Dettaglio del Palazzo Ducale particolare dalla veduta della Piazzetta San Marco di Bellotto (Ottawa, National Gallery of Canada). Nella figura sono evidenziati i percolamenti dell’acqua piovana che trascina le particelle di fumo e di sporco depositatesi sulla modanatura della finestra a “O” (freccia verde) e su entrambi i lati del davanzale della finestra gotica (frecce gialle). La bianca pietra d’Istria che forma la loggia con decorazione a tondi e quadrifogli (freccia lilla) è fortemente annerita.

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ziale, come quello per il pane (Camuffo et al., 2000). Veniva-no anche utilizzate un po’ di carbonella ottenuta dalla com-bustione incompleta del legno, quantità esigue di olio, sego e cera per l’illuminazione e combustione di zolfo cristallino per la disinfezione di botti e vestiti. Le grandi fornaci per la lavorazione del vetro, del bronzo, dei coppi e mattoni erano state spostate da secoli nelle isole, in particolare le fonde-rie del vetro a Murano, per evitare il rischio di disastrosi incendi in città. In città erano possibili solo piccole attività artigianali, tra cui in particolare piccoli cantieri edilizi con fornetti per la calcinazione, e piccoli cantieri per imbarca-zioni detti “squeri”, con la fusione di resina, pece o bitume per calafatare gli scafi di legno. Gli squeri erano diffusi nella città, mentre le navi erano costruite all’Arsenale, in posi-zione periferica. La costruzione di barche e navi richiedeva l’impermeabilizzazione degli scafi, mentre la loro manuten-zione periodica richiedeva la rimozione a caldo del vecchio strato di impermeabilizzante dalla carena e l’applicazione, sempre a caldo, del nuovo. Sta di fatto che l’inquinamento dal fumo di resina, pece o bitume e l’annerimento di case e palazzi erano molto intensi nei secoli XVII e XVIII.

10. la camera oscura e il livello del mare a veneziaIl livello del mare che si può vedere nei quadri è del tutto aleatorio, perché può corrispondere a una qualunque fase di marea. Per conoscere il livello medio del mare, o qualunque altro riferimento utile, necessita un altro indicatore che non vari continuamente nel tempo. Fortunatamente, le alghe che vivono nella fascia del bagna-asciuga tra la bassa e l’alta ma-rea costituiscono un indicatore biologico il cui fronte coinci-de con il livello medio delle alte maree. A Venezia, il fronte delle alghe si trova circa 31 cm al di sopra del livello medio del mare (Rusconi, 1983) e nel passato veniva tenuto come un naturale riferimento del livello del mare per l’altezza di ponti, banchine, costruzioni o altri usi civili ed era indicato come “Comune Marino” con abbreviazione CM. Il Comune

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Marino aveva il vantaggio di essere indicato con precisione dalla natura stessa lungo ogni canale, e di venire rinnovato ogni anno con i cicli di crescita delle alghe. Questo è un mar-catore biologico utilissimo da cui potremo trarre vantaggio, se e quando è riportato nei quadri, naturalmente se è ripor-tato con precisione. Ancora una volta Canaletto e Bellotto lo ritraggono, mentre altri, come Carlevarjis e Marieschi, lo ignorano ritenendolo un fattore contrario all’estetica. Se si confronta il livello del fronte delle alghe come ri-portato nei dipinti con quello attuale, è possibile calcolare lo spostamento del livello apparente del mare avvenuto negli ultimi secoli (Camuffo et al., 2003; 2004; 2005; Camuffo, 2001; 2010). I dipinti che possono essere utilizzati a questo scopo devono riportare ben visibilmente la fascia verde-bru-nastra delle alghe attaccate a dei palazzi il cui basamento non sia stato trasformato nel frattempo da lavori di adat-tamento o manutenzione. Veronese dipinse un solo quadro rilevante al nostro fine, ma in ogni caso la sua testimonianza è preziosa. Canaletto e Bellotto dipinsero oltre 200 quadri a soggetto veneziano ma, sulla base delle limitazioni sopra accennate, il numero si assottiglia drasticamente e, se si vogliono evitare informazioni ripetitive, si riduce ulterior-mente. Alla fine, sono state individuate 12 vedute di soggetti diversi utilizzabili per valutare il cambiamento del livello del mare a Venezia. Dobbiamo naturalmente porci e verificare alcuni dub-bi sull’affidabilità della metodologia in quanto Canaletto e Bellotto avrebbero potuto essere esatti nella riproduzione dei palazzi ma non in quella delle alghe. La chiave sta nel-la consistenza interna dei risultati che si possono ottenere. Ogni dipinto fornisce un dato indipendente da cui calcolare quanto il mare è cresciuto dalla data del dipinto a oggi. La prima verifica sta nella dispersione dei dati. Se la fa-scia delle alghe non è riportata accuratamente, i risultati che si otterranno saranno distribuiti casualmente, con gran-de dispersione. Se invece la fascia delle alghe è riportata

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accuratamente, tutte le osservazioni convergeranno verso il valore reale con piccola dispersione. Questo modesto sparpa-gliamento dei dati, che costituisce la banda d’incertezza del sistema, è dovuto a due ragioni: una è ovviamente intrin-seca ad ogni insieme di misurazioni sperimentali; l’altra al fatto che ogni palazzo veniva costruito su una piattaforma di pali impiantati nel fango e subiva nel tempo un assestamen-to diverso, a seconda del proprio peso e della stabilità delle fondamenta. Nel caso di Canaletto e Bellotto, tutti i dati ottenuti sono distribuiti molto coerentemente, con uno sparpagliamento massimo entro a ±10% del segnale, il che indica una preci-sione maniacale nel copiare ogni dettaglio, sia questo appa-rentemente rilevante o irrilevante. Una seconda verifica sta nel confronto tra i dati così ot-tenuti e le osservazioni mareografiche a partire dal 1872. Vedremo che i risultati sono fortemente coerenti. Una terza verifica consiste nel confronto con le indagini archeologiche condotte da Ammerman (2005) nella laguna veneta. Anche questo test ha dato ottimi risultati, come ve-dremo oltre.

10a. Il livello del mare dedotto da veronesePoiché la parte della facciata di Palazzo Coccina che ci inte-ressa è rimasta inalterata a seguito dei lavori di trasforma-zione eseguiti da Papadopoli nel 1874-75, possiamo confron-tare il livello delle alghe nel 1571, come si vede nel dipinto di Veronese (Fig. 31a), con quello visibile in un’antica foto di Ongania (1880-90) (Fig. 31b) e con il livello odierno (Fig. 31c). In particolare, prenderemo in esame la scala che dà sul Ca-nal Grande e che fa parte dell’ingresso ufficiale del Palazzo. Nel particolare del dipinto (Fig.  31a) si notano alcune persone in piedi sugli scalini. Le alghe sono estremamen-te viscide e scivolose ed è impossibile camminare o stare in equilibrio sopra di esse. Non aveva nemmeno senso co-struire scale con gradini inusabili o sommersi, perché questi

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avrebbero costituito un pericolo alla navigazione e all’appro-do, e Veronese conosceva con esattezza di quanti gradini ac-cessibili era dotata la scala. La scala esterna è costituita da 6 gradini contando anche il pianerottolo a filo; oltre questi esi-stono tre gradini interni, ma quanto avviene all’interno non è rilevante. Nell’ingrandimento di Fig. 31a si possono contare 5 gradini liberi da alghe con persone su di essi, mentre il gradino sottostante appare più scuro, infestato da alghe. An-che l’altro abbozzo di palazzo nello stesso dipinto, presenta lo stesso stile (quindi la stessa età) e il medesimo numero di gradini. Oggi (Fig. 31c) tutti gli scalini della scala di Palazzo Coccina sono coperti di alghe, ed è stato necessario costruire un approdo esterno per accedere al palazzo. L’altezza di ogni scalino è 18 cm, di modo che la fascia delle alghe è risalita col mare di 5×18 cm = 90±9 cm in confronto col 1571. Alla misura si è attribuita l’incertezza di uno scalino, ±9 cm =18

Fig. 31 (a) Dettaglio del portale e della scala di Palazzo Coccina nel dipinto di Veronese (1571). (b) Lo stesso, da una foto degli anni 1880 (Ongania (1890-91). (c) Lo stesso, ma oggi (2008). Oggi le alghe infestano tutti i gradini ed è stato costruito un approdo in legno per accedere al palazzo.

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cm, che coincide con la risoluzione possibile. Tuttavia, allo spostamento delle alghe va sottratta una correzione di 8 cm che discuteremo oltre. Fatta la correzione, dal tempo di Ve-ronese a oggi la crescita del livello del mare è stata 82±9 cm (Camuffo, 2010). Dal confronto tra Veronese (Fig. 31a), la foto di Ongania (Fig. 31b) ripresa negli anni attorno al 1880 (Ongania (1890-91), e la foto odierna (Fig. 31c ) si deduce che dal 1571 al 1880 vi furono 46±9 cm di spostamento alghe, corrispondenti a 38±9 cm di crescita del livello del mare; dal 1880 a oggi: 44±9 cm di spostamento alghe, corrispondenti a 36±9 cm di crescita del livello del mare. La foto di Ongania è stata scat-tata in un periodo coperto dalle osservazioni mareografiche, iniziate nel 1872, e questo permette un confronto tra i valori ottenuti con il metodo delle alghe e le misure strumentali

Fig. 32 La crescita del livello marino a Venezia dedotto da Ammerman (2003) dall’evidenza archeologica nella laguna veneta negli ultimi 2000 anni. Il bordo superiore dell’area azzurra corrisponde al livello del mare, la fascia verde alle acque alte. La scala è espressa come differenza rispetto a oggi, stabilendo lo zero al valore medio mare del 2003. Il punto giallo indica 82 cm ricavati dal quadro di Veronese, quello rosso i 61 cm da Canaletto e Bellotto. Entrambi coincidono con i risultati di Ammerman.

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dirette. Per questo periodo il mareografo mostra 34±1 cm in ragionevole accordo entro la banda di incertezza dichiarata. Il risultato del quadro di Veronese può essere confrontato con la ricostruzione del livello del mare a Venezia fatta da Ammerman (2005) sulla base dell’evidenza archeologica di vestigia romane e medievali lasciate nella laguna veneta ne-gli ultimi 2000 anni. Nel grafico di Ammerman nel periodo dal 1570 al 2005 si valuta una risalita del mare pari a 80 cm (Fig. 32, punto giallo), in ottimo accordo con gli 82±9 cm dedotti dal quadro di Veronese

10b. Il livello del mare dedotto da canaletto e BellottoUna volta individuati i quadri che si prestavano a questo tipo di studio, con una barca si è raggiunta la fascia delle alghe in corrispondenza di ogni palazzo per misurare l’altezza del fronte in termini assoluti e relativi, facendo riferimento alla dimensione dei blocchi di pietra, dagli scalini, dalla distan-za del fronte dal cordolo, dai davanzali delle finestre e da ogni altro elemento architettonico per poi poter ricostruire esattamente i livelli anche nei quadri per triangolazione e confronto proporzionale con grandezze note. In tal modo è stato possibile calcolare con ragionevole precisione (indicata nel seguito come intervallo di incertezza) lo spostamento del fronte delle alghe e l’innalzamento corrispondente del livel-lo del mare (Camuffo e Sturaro, 2003, 2004; Camuffo et al., 2005). Qui riporteremo solo alcuni esempi. Nel primo, il quadro intitolato “Il Canal Grande dai Pa-lazzi Falier e Giustinian Lolin verso il Palazzo Venier del-la Torricella”, (Bellotto 1735, Collezione Privata, Londra, Fig. 33a) mostra la facciata di Palazzo Giustinian-Lolin con la sua fascia d’alghe. Oggi la scala è completamente sommer-sa, e riemerge solo in bassa marea coperta di alghe, per cui è stata necessaria la costruzione di un pontile in legno per l’accesso (Fig. 33b). L’innalzamento del fronte delle alghe è stato di 69±10 cm.

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Fig. 33 (a) Dettaglio del Palazzo Giustinian Lolin da Bellotto: “Il Canal Grande dai Palazzi Falier e Giustinian Lolin verso il Palazzo Venier della Torricella”, (1735, Collezione Privata, Londra). (b) Una foto della situazione odierna. In alta marea la scala viene completamente sommersa ed è coperta da alghe. È stato necessario alzare il pavimento all’interno e per entrare è stato costruito un pontile in legno. La fascia delle alghe si è alzata di 69±10 cm.

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Fig. 34 (a) Bellotto, dettaglio di Palazzo Flangini (Collezione Privata, USA). Un uomo sta ritto sulla scala e si notano tre scalini liberi da alghe. (b) La stessa scala è oggi completamente coperta di alghe ed è stato costruito un pontile in legno per accedere. La fascia delle alghe si è spostata verso l’alto di 74±10 cm.

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Analogamente, la veduta del Canal Grande con Cà Flan-gini (Bellotto, 1738-1747, Collezione Privata, USA, Fig. 34a), una persona sta in piedi sulla scala e si notano tre gradini liberi da alghe. Oggi tutti i gradini sono sommersi e infestati d’alghe (Fig. 34b) per cui l’accesso è ora possibile tramite un pontile in legno. L’innalzamento del fronte delle alghe è sta-to di 74±10 cm. Ancora, in “Campo SS. Giovanni e Paolo” (Bellotto, 1741 ca, Museum of Fine Arts, Springfield, Fig. 35) la porta che si affaccia al “Rio dei Mendicanti” ha tre gradini senza alghe.

Fig. 35 (a) Bellotto, “Campo SS. Giovanni e Paolo” (1741 ca, Museum of Fine Arts, Springfield). La porta ha tre scalini liberi da alghe. (b) Oggi tutta la scala è sommersa, il pavimento è stato rialzato e la soglia della porta è stata alzata di 70 cm sopra l’ultimo gradino per evitare la penetrazione dell’acqua. La fascia delle alghe oggi (freccia rossa) si è spostata verso l’alto di 80±10 cm rispetto al 1740 (freccia gialla). La freccia verde indica lo stesso scalino nel 1740 e nel 2003.

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Oggi, per evitare la penetrazione dell’acqua, il pavimento del piano terra è stato alzato e la parte bassa della porta è stata murata per 70 cm al di sopra del primo gradino che sporge sul canale, e l’innalzamento del fronte delle alghe è stato di 80±10 cm. Passando al risultato dell’analisi delle vedute di Canalet-to e Bellotto, il valore medio dei vari spostamenti delle alghe osservati è stato di 73±11 cm. Le inevitabili incertezze che hanno accompagnato ogni misura sono variate da caso a caso, rimanendo interne all’intervallo compreso tra 7 e 19 cm; la loro media pesata ha portato al limite d’incertezza ±11 cm applicato al risultato finale (Camuffo et al., 2005). Anche nel caso di Canaletto e Bellotto si è cercata una qualche verifica indipendente dei dati, come segue. Come prima verifica della metodologia si è pensato di applicare la stessa procedura a una serie di 15 foto scattate negli anni 1880 da Ongania (1890-91) in cui i palazzi hanno la fascia di alghe chiaramente visibile. La stima della cresci-ta del livello apparente del mare dalle vecchie foto è stata 38±10 cm, che va paragona ai 30±1 cm misurati col mareo-grafo. Com’era da attendersi, con le vecchie foto il risultato è accettabile ma non eccellente in quanto considerando poco più di un secolo il margine d’incertezza è grande rispetto il segnale, esattamente 33% del segnale. La metodologia è giu-stificata invece nel caso di Canaletto e Bellotto in quanto il segnale è grande rispetto all’incertezza, che si riduce al 12% del segnale. Il secondo test riguarda la consistenza interna dei dati. Le misure dedotte dai quadri sono molto coerenti tra loro, con una dispersione minore del ±10% del segnale. Il terzo test riguarda il confronto col trend delle osser-vazioni mareografiche strumentali. Ponendo in un grafico (Fig. 36) le osservazioni mareografiche 1872 al 2010, la loro linea di interpolazione lineare passa attraverso il gruppo dei punti rappresentanti i risultati dai dipinti di Canaletto e Bel-lotto.

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Il quarto test riguarda il confronto con il grafico dedotto dalle vestigia archeologiche (Ammerman, 2005) nella lagu-na. Nel grafico di Ammeman (Fig. 32) si evincono 60 cm dal tempo di Canaletto e Bellotto, praticamente coincidente con la valutazione dai dipinti, pari a 61±11 cm nel 2003, oggi aggiornata a 64±11 cm. Data la coerenza dei risultati con test indipendenti, la metodologia viene confermata e i risultati acquistano validi-tà scientifica.

11. correzioni da apportarsi alla metodologiaIl Comune Marino è determinato dall’altezza periodicamen-te raggiunta dalle acque che bagnano pietre e murature e permettono la vita alle alghe. L’altezza del bagnamento è determinato dalle alte maree, cui si sovrappongono alcune piccole onde interne ai canali. Le onde piccole sono sostan-zialmente dovute all’increspamento delle acque per l’azione del vento, note come onde capillari dell’altezza di pochi cm, e quelle dovute al passaggio delle imbarcazioni. Oggi qualco-sa è cambiato dai tempi di Canaletto, e si deve tenere conto di due fattori in particolare: il traffico dovuto alle barche a motore, e l’escavo di alcuni canali per permettere il passag-gio di navi a grande tonnellaggio. Occorre quindi valutare quanto sia il contributo di questi due fattori. Il traffico dovuto ai natanti a motore, benché soggetto a severi limiti alla velocità nei canali all’interno della città, si muove a velocità superiore rispetto a quello delle barche a remi generando onde di ampiezza maggiore. Per conoscere la differenza tra le onde al giorno d’oggi e quelle ai tem-pi della Serenissima si sono effettuate per anni misure con ondametro in Canal Grande, fissato a Palazzo Coccina, allo-ra sede del CNR, Istituto per lo Studio della Dinamica delle Grandi Masse. Queste misure hanno ovviamente fornito una buona documentazione della situazione moderna, ma anche una risposta concernente il moto ondoso interno nel XVIII secolo. Ogni anno si ripete a Venezia la Regata, secondo la

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tradizione secolare che si è vista rappresentata nei dipinti di Carlevarijs e Canaletto (Fig. 12 a, b, c). Oggi la Regata è com-posta di due parti. La prima è la parata storica in cui copie perfette delle imbarcazioni in uso ai tempi ruggenti della Se-renissima ripercorrono il Canal Grande con la forza dei loro remi. La seconda comprende delle competizioni sportive per generi diversi di barche a remi di antica tradizione locale. In breve, l’ondametro ha mostrato che nel Canal Grande le onde provocate dalle imbarcazioni a remi durante le Regate hanno altezza media di 5 cm inferiore rispetto a quelle del traffico usuale comprendente natanti motorizzati. L’escavo di canali larghi e profondi per il passaggio di petroliere, navi commerciali e di crociera ha cambiato la risposta della laguna. Ovviamente, in condizioni statiche la presenza di canalizzazioni più impegnative non cambia il livello, ma nel caso dinamico di onde lunghe, come quella di marea o le sesse11, cambiano sia l’attrito al fondo sia il fatto che un tempo la linea di costa interna si comportava come un punto nodale, smorzando le oscillazioni; oggi favorisco-no il trasporto e l’accumulo di acqua all’interno della laguna per dar luogo a una debole onda di riflessione dalla costa interna. Il contributo al temporaneo innalzamento del livel-lo del mare a Venezia per motivi dinamici è stato calcolato essere dell’ordine di 3 cm. Si è quindi calcolato che il massimo livello di bagnamen-to delle pareti sia oggi 8 cm più alto rispetto ai tempi della Serenissima (Camuffo e Sturaro, 2003), spostando conse-guentemente il livello del fronte delle alghe. Pertanto, per ristabilire condizioni omogenee con la situazione ai tempi di Veronese prima, e di Canaletto e Bellotto poi, vanno sot-tratti gli 8 cm che hanno artificiosamente elevato il Comune Marino sia per l’effetto delle onde brevi, sia delle lunghe.

11 Le “sesse” sono oscillazioni libere delle acque dell’Adriatico in risposta alle rapide variazioni di pressione barometrica.

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12. Il livello del mare a venezia negli ultimi cinque secoli

Come si è anticipato, a Venezia il livello apparente del mare è stato regolarmente misurato a partire dal 1872 e costitu-isce una tra le più lunghe serie di osservazioni mareogra-fiche. Queste osservazioni strumentali sono state riportate in Fig. 36 dove si vede un andamento crescente molto netto seppur con qualche fluttuazione interna dovute a fattori na-turali e antropici. La più famosa di queste deviazioni causate dall’uomo fu causata dall’emungimento delle acque sotter-ranee per scopi industriali nel periodo dal 1930 al 1970, che localmente portò a un forte abbassamento del suolo (circa 10-12 cm), parzialmente recuperato negli anni successivi per ripascimento di falda (Carbognin et al., 2004) con l’effetto di un temporaneo rallentamento della crescita del mare.

Fig. 36 Risalita del livello apparente del mare a Venezia dai dati indiretti dai dipinti di Veronese (1571, punto verde), di Canaletto e Bellotto nel periodo 1727-1768 (punti rossi) e le rilevazioni mareografiche (punti blu) nel periodo 1872-2009. La curva spessa nera dà l’interpolazione esponenziale e la banda azzurra il limite d’incertezza. Se si estrapola all’indietro nel tempo l’interpolazione lineare dei punti blu, la retta (non evidenziata nel disegno) passa per i valori dedotti dai dipinti di Canaletto e Bellotto.

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Circa 140 anni di misure strumentali dirette sono un patrimonio conoscitivo eccezionale ma non sufficiente per permettere di estrapolare i dati sul lungo periodo a suppor-to degli scenari dei vari modelli e, soprattutto, come base di progettazione per gli interventi di salvaguardia della cit-tà, primo fra tutti il sistema a barriere mobili denominato MOSE. A questo fine, le informazioni del Comune Marino dedu-cibili dai quadri di Veronese, Canaletto e Bellotto costituisco-no un’opportunità unica. Sappiamo che il Comune Marino si è spostato seguendo la crescita del livello marino tranne che per gli 8 cm di correzione che si deve applicare per il periodo recente. Sappiamo anche che come si sposta il Co-mune Marino di altrettanto si sposta anche il livello medio del mare. Questo permette di valutare con ragionevolezza il livello apparente del mare nel 1571 e dal 1727 al 1768. In generale, insiemi di dati sperimentali raccolti per pe-riodi relativamente brevi possono essere interpolati con più di una curva, e l’interpretazione di primo ordine è preferibile (perché la più neutra) quando non esistano motivi teorici o specifici diversi. I rilevamenti mareografici dal 1872 al 2010 sono ben interpolabili con un trend lineare. Prolungando per il passato la linea avente per equazione il trend lineare trovato, questa incontra la nube di punti determinati dai dipinti di Canaletto e Bellotto, sicché anche in questo caso di circa 350 anni l’interpolazione lineare si trova giustificata. Tuttavia, quando si arretra ancora nel tempo e ci si avvicina a cinque secoli, con il dipinto di Veronese, la curva che me-glio interpola tutti i dati è un’esponenziale con equazione

y = 71.196 exp (0.0016X)

dove X rappresenta l’anno corrente (Camuffo et al., 2011).

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Questa curva indica un innalzamento del mare molto più lento durante il periodo centrale della Piccola Età Glacia-le12, e un’accelerazione sempre crescente man mano che il clima è andato cambiando passando a livelli termici sempre crescenti sino al Riscaldamento Globale in atto oggi.

13. sintesi e conclusioni su camera oscura, vedutisti e problemi di venezia

Nella seconda metà del XVI secolo, dopo l’aggiunta della lente, la camera oscura guadagnò in intensità luminosa, nitidezza dell’immagine e profondità focale divenendo un prezioso ausilio tecnologico per pittori e architetti. Veronese fu il primo famoso pittore veneziano a giovarsene, anche se una volta sola, per riprodurre Palazzo Coccina nel 1571. Questa ipotesi è suffragata dalla testimonianza indiretta del contemporaneo Daniel Barbaro, dalla grande precisione del-la riproduzione, e dal confronto con l’incisone fatta nel 1703 da Carlevarijs col medesimo soggetto. Da questo dipinto ve-niamo a sapere che la fascia vede brunastra delle alghe si è alzata sino a coprire tutti i cinque gradini della scala con un innalzamento del livello apparente del mare pari a 82±9 cm. Oltre un secolo dopo, i Vedutisti cominciarono a utiliz-zare sistematicamente la camera oscura come un ausilio per essere guidati nella prospettiva, migliorare la precisione e ridurre i tempi di produzione dei dipinti. Canaletto, da buon regista, usò la camera per scegliere i punti di ripresa e le immagini migliori. Tuttavia, per i limiti della tecnologia del tempo, e specialmente per l’angolo ottico relativamente stretto, le vedute panoramiche furono possibili con la com-binazione di due o più vedute parziali, con la camera sem-plicemente ruotata oppure spostata in punti di vista diversi. Canaletto usò raramente la veduta statica della ripresa da un punto fisso, come farebbe una macchina fotografica, ma

12 La Piccola Età Glaciale è un periodo relativamente freddo compreso tra il XIV e la metà del XIX secolo, in pratica tra l’Ottimo Climatico Medievale e il Riscaldamento Globale che stiamo vivendo.

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inventò la veduta dinamica consistente nell’accoppiare nella stessa tela immagini prossime tra loro e riprese da punti leg-germente diversi, come le può vedere e ricordare una perso-na che passeggi in un dato ambiente. La conseguenza fu che si dovettero forzatamente adattare fra loro visioni prospetti-che leggermente diverse, con la compresenza di più punti di fuga distinti. Canaletto fu un maestro nel combinare fra loro vedute indipendenti, scelte e combinate con il gusto dello scenografo che fu in gioventù per ottenere effetti speciali nella valorizzazione dei singoli palazzi che venivano ruotati di quel po’ per migliorarne la vista, come fossero quinte tea-trali. Rotazioni, espansioni, compressioni erano usate anche per riproporzionare e adattare i vari soggetti alle dimensioni della tela. I suoi “Capricci” furono un’espressione libera ed estrema di questa sua capacità. Canaletto riuscì nell’intento di rendere l’apparenza dei suoi quadri omogenea e credibile con l’aiuto della fantasia e dell’arte usando grande coerenza di luci e colori, ridise-gnando coerentemente le ombre, mascherando le forzature e distraendo l’attenzione con scene di vita e dettagli veri-sti di vario tipo. In fondo, lo scopo di Canaletto, seguito a ruota dal nipote Bellotto, era quello di riprodurre su tela il ricordo di una città viva, di quanto avveniva in essa, entro la meravigliosa cornice di canali e palazzi, tutti presentati individualmente per il loro lato migliore. Canaletto e Bellotto usavano scegliere e prendere delle riprese sul posto con la camera oscura per preparare poi una bozza del dipinto. Successivamente, nella loro bottega, mon-tavano la scenografia pittorica, eventualmente espandendo parti col pantografo, e rifinivano la veduta aggiungendovi gustosi bozzetti di vita veneziana. Alla fine completavano il quadro dei vari dettagli, molti dei quali probabilmente rivisti sul posto per essere riportati così accuratamente. L’esatto aspetto urbanistico architettonico della città può rimanere penalizzato dalle invenzioni artistiche di Canalet-to e Bellotto che creavano le loro vedute con qualche trucco

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da regista o da scenografo deformando il reale. Al contrario, i singoli pezzi che le compongono furono realizzati con pre-cisione maniacale. Questo fatto permette l’utilizzo in campo scientifico di certi dettagli riportati nei quadri. Si è incontrato il problema che esistono alcune tele con la medesima veduta e non è sempre possibile stabilirne l’or-dine di produzione essendo incerta o ignota la datazione. Il sospetto è che il primo quadro della serie, fatto sul posto, possa essere molto preciso, mentre le altre tele siano copie con sempre minore precisione nella restituzione dei dettagli. Per verificare questo fatto, ed eventualmente stabilire con quale ordine siano state generate queste copie, si è studiata una metodologia basata sulla valutazione complessiva dei piccoli errori dimensionali riportati nel quadro ed espressi in termini di deviazione standard. Ancora più potente e raf-finata è la metodologia che considera la propagazione degli errori. La serie ordinata dei singoli errori, positivi e negati-vi, costituisce una sequela di valori che rappresenta un’in-formazione genetica caratteristica di ogni quadro, simile al DNA, che dovrebbe ripetersi nei dipinti generati successiva-mente, copiando il capostipite. Considerando alcuni esempi si è visto che ogni quadro è indipendente, anche se ripete il medesimo soggetto di successo. Si è visto che la tela di Anonimo a Cà Rezzonico con soggetto “il Canal Grande e la Salute visti da Campo Zobenigo” ricalca molto da vicino il DNA di uno specifico quadro di Bellotto, ponendo nuovi interrogativi sull’attribuzione. Dall’analisi dei dipinti di Canaletto e Bellotto conoscia-mo che la Venezia del XVIII secolo era fortemente inquinata, con palazzi anneriti dal nerofumo e altri inquinanti particel-lati. Le emissioni erano riferibili a un limitato uso domestico e a un certo numero di fornaci per cantieri edili e navali, so-prattutto per la costruzione e la manutenzione degli scafi, il che comportava la continua fusione di resina, pece e bitume il cui fumo nero e denso anneriva i monumenti.

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Il quadro di Veronese, nel cuore della Piccola Età Gla-ciale, mostra che nel XVI secolo la velocità di sommersione di Venezia era 1,2 mm/anno, circa metà rispetto a quella odierna (2,4 mm/anno), il che significa che il fattore domi-nante era la subsidenza del suolo, mentre l’espansione ter-mica delle acque oceaniche restava pressoché invariata. I quadri di Canaletto e Bellotto riportano con precisio-ne anche la fascia brunastra delle alghe che vivono nel ba-gnasciuga e costituiscono un indicatore biologico del livello medio delle alte maree. Dal confronto tra il livello del fronte delle alghe nei quadri e quella raggiunta oggi è possibile co-noscere di quanto sia cresciuto il livello del mare nel frat-tempo. La metodologia è stata verificata con modalità in-dipendenti e applicata a tutti i quadri per cui questo è stato possibile. Si è così ottenuto un innalzamento del mare pari 64±11 cm. Combinando tutti questi risultati si è ricostruito il livel-lo del mare per quasi cinque secoli, il che costituisce una base di dati eccezionalmente estesa nel tempo, il che per-mette la migliore interpretazione del presente e più accurate proiezioni future della stima del livello marino a Venezia. Nel più ridotto arco di tempo (1872-oggi) delle osservazioni strumentali, Venezia sembra affondare con velocità sostan-zialmente invariata. Tuttavia, se si estende la conoscenza di vari secoli, ne emerge che la sommersione di Venezia sta procedendo con accelerazione esponenziale, come era logico attendere per la continua crescita della temperatura globa-le a partire dal cuore della Piccola Età Glaciale. In prima approssimazione, circa metà della velocità attuale di som-mersione è attribuibile alla subsidenza del suolo, in larga parte dovuta a cause tettoniche che procedono inalterate da milioni di anni. La parte rimanente è dovuta all’espansione termica delle acque oceaniche (eustatismo) ed è essenzial-mente controllata dai cambiamenti climatici.

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Questi risultati sono preziosi ai fini della programmazio-ne dei rimedi contro le acque alte a Venezia che stanno a loro volta aumentando con frequenza esponenziale. Il rime-dio più importante è il MOSE. Il MOSE necessita di almeno un decennio per la costruzione, poi dovrà operare per 40-50 anni. Conoscendo il trend di crescita del livello marino negli ultimi 5 secoli è possibile calcolare con un ragionevole livel-lo di confidenza il livello del mare che il MOSE dovrà essere preparato ad affrontare. Si dovrà inoltre considerare che il MOSE migliorerà la situazione, ma non sarà in grado di evi-tare tutte le acque alte e garantire la più piena protezione a Venezia (Pirazzoli, 2002). Rimane la necessità di continuare gli studi per azioni di salvaguardia sul lungo termine, ad esempio se è possibile e come innalzare il livello del suolo, se con iniezioni profonde di acqua marina, di sabbia o altro. Tuttavia, il problema più grave è un altro. Gli edifici ve-neziani sono costruiti su un basamento impermeabile in pietra d’Istria che è un calcare molto resistente e non dà luogo a risalita capillare. Sopra questo basamento in pietra potevano stare mattoni e intonaco, protetti da ogni contatto con l’azione disgregatrice dell’acqua marina. Oggi, mentre la città sta sprofondando relativamente al livello del mare, molti edifici si trovano col basamento sommerso, o quasi. Le strutture murarie in mattoni, malta e intonaco vengo-no ripetutamente impregnate d’acqua marina, talune ogni alta marea, altre ogni acqua alta. Una volta impregnate d’acqua marina, il cloruro sodico (NaCl) migra all’interno della muratura e con l’evaporazione dell’acqua si accumula in strati superficiali formando efflorescenze bianche e su-befflorescenze (Fig.  37). Questo sale è deliquescente: quando l’umidità relativa ambiente supera la soglia del 75%, il cloru-ro sodico perde la forma cristallina idratandosi e iniziando a formare una soluzione con l’acqua che riesce a catturare dall’atmosfera. Quando l’umidità relativa torna a scendere sotto la soglia critica avviene l’inverso, e la formazione dei cristalli cubici salini stacca gli intonaci e disgrega matto-

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ni e malte (Camuffo and Sturaro, 2003, 2004; Camuffo et al., 2005). Oggi la maggior parte degli intonaci è staccata e persa, specie al piano terra e al primo piano. Nel futuro questi cicli dirompenti che si sono innescati continueranno a danneggiare le murature dall’interno, e questo tremendo meccanismo che si è ormai innescato potrà concludersi con il collasso dell’edificio. Questo problema richiede interventi urgenti per bonificare e sostituire le parti colpite. Senza il supporto di ricerche mirate e approfondite, l’uni-ca conclusione che si possa immaginare nel lungo termine è che la città sia tristemente destinata a scomparire, o inabis-sandosi progressivamente nelle acque (Nosengo, 2003), o per l’accelerata disgregazione degli edifici, o per entrambi. π

Fig. 37 (a) Un edificio con risalita capillare di acqua marina dal basamento immerso nel canale, efflorescenze bianche di sale marino, caduta dell’intonaco e mattoni degradati. (b) Dettaglio mostrante i cristalli bianchi di cloruro sodico formanti l’efflorescenza.

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ringraziamenti. La più grande gratitudine va a: Fondazione Bracco, Milano, che ha voluto, sostenuto e realizzato questa pubblicazione; Prof David A. Brown e Dr David Essex, National Galle-ry of Art, Washington; Prof. Giandomenico Romanelli, Direttore della Fondazione Musei Civici Veneziani; Cassa di Risparmio, Vene-zia; Dr. Anna Lo Bianco, Direttore Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini, Roma; Dr Rossella Vodret, Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della Città di Roma; Gemäldegalerie Alte Meister, Dresda; Fitzwilliam Museum, Cam-bridge; National Gallery, Londra; Kunsthi-storisches Museum, Vienna; Kunsthalle, Am-burgo; Contessa Bianca Maria Arrivabene, proprietaria di Palazzo Coccina oggi Papado-poli-Arrivabene; Prof Alberto Tomasin, Uni-versità di Venezia; Cà Foscari, Venezia; Dr Laura Carbognin, CNR-ISMAR Venezia; Ing. Paolo Canestrelli e Ufficio Maree Comune di Venezia; Ing. Giovanni Cecconi, Consorzio Venezia Nuova, Venezia; Dr. Alessandra Len-zi, Museo Galileo - Istituto e Museo di Storia della Scienza, Firenze; Dr Orsola Braides, Bi-blioteca Nazionale Marciana, Venezia; Arse-nale Editrice, Venezia; Google Books (http://books.google.com/) per la documentazione bibliografica e tutti i Musei, le Gallerie, le Collezioni pubbliche e private menzionate in questo lavoro per la loro cortesia e per aver in vari modi facilitato questa ricerca. Infine, ma non da meno, a: Prof. Maria Mautone Direttrice del Dipartimento dei Beni Cultu-rali del CNR, Dr Laura Moltedo, responsabile dei Progetti Esterni del CNR; il progetto eu-ropeo “Climate for Culture” (Grant 226973) e a tutti i colleghi e collaboratori del CNR che in diversi tempi e diversi Istituti hanno collaborato a questo studio, in particolare Dr

Giovanni Sturaro, Dr Emanuela Pagan e Dr Chiara Bertolin.

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canaletto e il Quadernodario maranUniversità Ca’ Foscari di Venezia

Anch’io ringrazio, innanzitutto, la Fondazione Bracco per l’opportunità che mi è stata offerta, ovvero di potere illu-strare, in un contesto così prestigioso e ad una platea com-petente e curiosa, alcune nuove acquisizioni sul processo compositivo e sul procedimento operativo di Canaletto. Le immagini che vedremo – e le argomentazioni con-nesse – costituiscono il primo approfondimento degli esiti di una ricerca che, sino ad oggi, ho avuto modo di diffon-dere solo in ambito accademico, al vaglio dei docenti e dei ricercatori dell’area della rappresentazione dell’architettura (ICAR 17). Ambito anch’esso autorevole, indubbiamente, ma ri-stretto agli “addetti ai lavori”; per questa ragione quando ho appreso del coinvolgimento diretto della Fondazione Bracco nella mostra “Canaletto and his rivals” per l’edizione di Wa-shington D.C. ho ritenuto doveroso sondare se, nel contesto delle iniziative che la Fondazione avrebbe avviato a corolla-rio del progetto, esistesse la possibilità di una divulgazione delle mie “scoperte” ad un pubblico più ampio. La fortuna, non il caso, ha voluto che la mia richiesta fosse indirizzata ad una istituzione voluta da persone che, evidentemente, credono davvero alla disseminazione della conoscenza e gestita, soprattutto, per conseguire tale obietti-vo per cui… eccomi qui. Ringrazio nuovamente, dunque, per l’invito la Presidente Dott. Diana Bracco e la Dott. Linda Cena, con tutte le sue collaboratrici.

Ho deciso di titolare il mio contributo “Canaletto e il Qua-derno” senza sapere, ovviamente, quale taglio avrebbero dato ai loro interventi i colleghi che mi hanno preceduto; di Canaletto ci hanno già parlato – estesamente, approfondita-mente e perfettamente – il Prof. Brown ed il Prof. Romanel-li; il Quaderno si è già intravisto nel video; della camera ot-tica ha già parlato il Prof. Camuffo. Inevitabilmente, perciò, il mio intervento ritornerà su alcuni temi già affrontati e

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descritti ma, nello spirito davvero seminariale dell’incontro, sarò lieto di riuscire a convincervi sulla necessità di ridurre l’ambiguità, o l’indeterminatezza, intorno ad alcune que-stioni quando si ragiona su Canaletto, queste:• la relazione tra Quaderno e opere finite• la relazione tra realtà topografica ed i luoghi rappresen-

tati nelle vedute• la molteplicità o unicità del punto di vista• il ruolo della camera ottica nel processo creativo

Il Quaderno, come già sapete, è il volumetto rilegato con-servato presso le Gallerie dell’Accademia di Venezia: esso contiene una serie di sequenze relative a quindici distinti luoghi della città, scene urbane che Canaletto riverserà, a suo modo, nelle sue vedute. Utilizzerò il termine scaraboto per qualificare le tracce presenti nel Quaderno (un termine usato per iscritto una sola volta da Canaletto, presente in uno dei fogli della Rac-colta Viggiano, sempre conservata a Venezia), ma ritengo doveroso precisare che una tale qualificazione di quei segni non è ancora pacificamente accolta dagli storici dell’arte, i

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quali riservano tale termine – scaraboto, appunto – ad un altro tipo di disegno che Canaletto avrebbe redatto prima di comporre le sue vedute: purtroppo nessuno degli schizzi esistenti sembra soddisfare tale aspettativa! Resto fiducioso, perciò, del fatto che riuscirò a farli convinti della esattezza della mia affermazione. O almeno ci proverò con i presenti stasera. Il cartiglio proposto in apertura – ben noto, peraltro – è un autografo di Canaletto, applicato a un disegno conservato a Berlino. Mi piace utilizzarlo perché esprime bene il rischio di ambiguità di cui accennavo poco fa; sulla scorta dell’in-dagine svolta, però, l’annotazione di Canaletto non deve es-sere intesa come una ridondanza espressiva, bensì come la rivendicazione di un doppio livello di paternità nell’opera: “… dissegnià e fatto”, cioè materialmente redatto – grafica-mente tracciato – e consapevolmente ideato, cioè progettato. La strategia scelta per tentare di rappresentare – in ma-niera spero convincente – il metodo di lavoro di Canaletto ho deciso di addentrarmi in una sola delle quindici sequenze del Quaderno, quella del Bacino di San Marco verso ovest (quella più complicate ed estesa) partendo, però, non dal Quaderno ma dalle opere finite che rappresentano tale scena. Nella sequenza che segue, quindi, ho raccolto alcune del-le opere che W.G. Constable (e tutti gli storici che si sono occupati del catalogo canalettiano) raggruppa nelle “Vedute verso Ovest del Bacino di San Marco”; rivedrete, pertanto, alcuni dipinti di cui si è parlato nelle precedenti comunica-zioni, in quanto si tratta di opere presenti nella mostra di Washington, ma con una diversa finalità.

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La sequenza ci permette, sia pure sommariamente, di avere una idea di quante volte… (sono molte di più in realtà, cir-ca una quarantina) …di quante volte Canaletto sperimenta, percorre ed elabora questa scena, questo tema; e non solo su tela, come sappiamo, ma anche in incisione e, soprat-tutto, nei disegni della Royal Collection, conservati a Win-dsor Castle (una serie ricchissima, che ho avuto la fortuna di studiare e leggere approfonditamente in più riprese, sempre con l’aiuto di Martin Clayton, Deputy Curator della Royal Collection – Prints and Drawings). In questo avvicinamento ad una piccola serie di opere finite, vedute che hanno reso celebre il Maestro, ho voluta-mente considerato, come accennavo, un’unica scena urba-na. Un tema affrontato e ri-affrontato da Canaletto in tempi distinti, come indicano le date. La scelta deriva da una necessità di ricerca, dalla preci-sa volontà di verificare se il metodo compositivo che avevo individuato e descritto per un’altra sequenza del Quaderno fosse applicabile anche alla sequenza più estesa del Quader-no stesso. Le vedute viste in sequenza (che presentano una scena con il medesimo orientamento, da est verso ovest) si rife-riscono, diremmo oggi, a diverse inquadrature; un fatto oggettivo, che suggerisce l’idea di un punto di osservazione prescelto diverso, volta per volta, da Canaletto. Questa con-clusione soddisferebbe, certamente, la convinzione – anche di alcuni storici – di un Canaletto vedutista/fotografo: diver-samente, come cercherò di illustrarvi, il processo creativo di Canaletto è molto più sofisticato. La sua elaborazione visiva non è grossolana ma, piuttosto, a grana finissima, come già il prof Romanelli, partendo da altre argomentazioni, ci ha fatto intendere. Vediamo di capire, dunque, cosa c’è “sotto”.

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Nella veloce sequenza mostrata le immagini, prima giu-stificate in pari larghezza, sono ora riportate nella loro esat-ta proporzione: l’aspetto interessante da evidenziare è che, pure al variare del supporto, le relazioni tra gli elementi po-sti in scena (primo e secondo piano) rimangono invariate; la stessa inquadratura, infatti, è spesso rappresentata in qua-

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dro grande o piccolo, ma non si tratta mai di ingrandimenti o rimpicciolimenti (a pantografo) dello stesso schema, bensì di opere distinte nelle quali, in ragione delle misura e dei rapporti dimensionali del supporto, Canaletto modifica lo scorcio delle facciate, alza o abbassa la linea d’orizzonte, av-vicina od allontana gli oggetti. In buona sostanza egli adatta – “…dissegnià e fatto” – il medesimo palinsesto visivo alle diverse condizioni di superficie – pittorica o grafica – di cui dispone. Dall’osservazione di alcuni elementi in scena emergono, però, cose davvero interessanti; qui, come potete osservare, ho isolato da tutte le vedute lo stesso dettaglio.

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Il dettaglio è la Basilica di Santa Maria della Salute. Come potete vedere, anche se i punti di osservazione delle varie vedute finite sono diversi – almeno così ci era-no apparsi al primo impatto visivo – le cupole, le guglie ed i campanili della Basilica sono rappresentate mantenendo invariata la relazione tra essi, indipendentemente dalla di-mensione del supporto dell’opera. Si tratta, credo comprendiate, di un indizio davvero si-gnificativo (ed anche atteso, sulla base degli esiti della prima ricerca), perché sottintende – e conferma – il fatto che le vedute finite, diverse per composizione, sono elaborazioni distinte derivanti da una ripresa dei veri luoghi effettuata da un unico punto di vista, uguale per tutte le vedute. Lo spostamento, nello spazio, del punto di osservazione, dunque, è l’esito della manipolazione degli scorci – topograficamente esatti – fissati negli scaraboti del Quaderno. E quanto osser-vato per i dipinti vale anche per i disegni della Royal Collec-tion, vere e proprie “opere finite”, almeno quanto le tele.

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L’invenzione di Canaletto sta tutta qui; rispetto ai suoi predecessori, il suo metodo compositivo risolve ed evita quanto “…può offendere il senso.” nell’osservatore quando “…l’artefice interamente si fida della prospettiva che in essa camera vede,…” (giusta A.M. Zanetti, Della Pittura Venezia-na Libro Quinto. pag 463.) Canaletto – forse in forza della sua formazione nella bot-tega del padre scenografo – ci appare perfettamente con-sapevole del fatto che il riconoscimento dei luoghi deriva dalla compatibilità dell’immagine ottica, osservata in quel determinato istante, con l’immagine mentale di quel mede-simo luogo, ovvero quella sommatoria – quasi infinita – di distinte inquadrature impresse nel corso di precedenti espe-

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rienze visive, rese coerenti al medesimo luogo per la loro plausibilità prospettica. I dati della memoria di un luogo, depositati nella corteccia cerebrale da distinti punti di osser-vazione, sono d’insieme ma anche di dettaglio e, soprattutto, di relazione tra gli elementi appartenenti alla scena. Le sue composizioni ci risultano ancora oggi convincenti (ed ancor più lo furono per i contemporanei) proprio perché suscitano la memoria dei veri luoghi. I singoli elementi che caratterizzano la scena urbana, infatti, sono riproposti con la preoccupazione di replicare le vere relazioni tra essi piut-tosto che il valore – astratto – della esattezza geometrica e topografica. Nelle vedute di Canaletto, così come nell’esperienza vi-siva, il rapporto dell’osservatore con la realtà urbana non è statico ma dinamico: la prospettiva cambia, certamente, in ragione dello spostamento del punto di osservazione, eppure il luogo – vero o rappresentato – rimane perfettamente rico-noscibile. Ma la veduta canalettiana riesce, persino, ad offrirci una scena urbana sempre prospetticamente plausibile ai mol-teplici movimenti dell’occhio che osserva il quadro, senza “… offendere il senso” con forzature prospettiche. Canaletto riesce a fare in modo che il nostro occhio navighi sulla tela alternando elementi di dettaglio ad altre inquadrature più larghe, le quali ci appaiono sempre perfettamente vere per-ché composte rispettando, soprattutto, le relazioni della vera scena urbana. Torniamo, ora, al dettaglio della identica rappresentazio-ne della Basilica della Salute nonostante la apparente varia-zione del punto di osservazione (è la mia affermazione, di cui vorrei farvi convinti): come spiegare questo apparente errore di Canaletto?

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È il Quaderno ad offrirci la risposta, ed esattamente lo schizzo, anzi lo scaraboto della Salute che Canaletto regi-stra all’interno della sequenza relativa alla veduta del Baci-no verso ovest: una traccia sempre perfettamente coerente, come si può osservare, con la rappresentazione dell’edificio in questione, in tutte le varie opere finite che abbiamo visto in apertura della comunicazione. La sequenza in questione (fogli 21 verso – 24 recto) si estende in sei doppie pagine, dodici fogli. Alcuni di questi fogli si sviluppano, in realtà, su un doppio registro e sono leggibili tracce, a pietra nera, perfettamente coerenti con la scena oggetto di studio, anche se non ripassate a inchiostro (come nel registro principale). Come in tutte le sequenze del Quaderno – relative a di-stinti ambiti urbani – gli elementi rappresentati alle estre-mità del doppio foglio sono utilizzati da Canaletto come cardine, in modo che, al voltare di pagina, lo stesso edificio si ripresentasse e rendesse possibile, qualora necessario, ri-pristinare la continuità della sequenza.

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Anche le tracce a pietra nera del registro superiore dei fogli sono coerenti con quanto affermato e permettono di concor-rere al montaggio complessivo della veduta. In particolare, sono importanti le tracce a a pietra nera – estremamente leggere – che rappresentano il profilo delle cupole della ba-silica di San Marco e che ci appaiono, in secondo piano, dietro alla copertura di Palazzo Ducale (l’ala verso il Ponte

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dei Sospiri) e che si estendono verso destra, comprendendo persino la Chiesa della Pietà, San Zaccaria e San Giorgio dei Greci. L’estremità sinistra dell’inquadratura è occupata, invece, dalla importante mole della Chiesa di San Giorgio Maggiore e la scena si conclude in corrispondenza del fronte verso bacino del Dormitorio, progettato da Giovanni Buora.

Il montaggio dell’intera sequenza così sommariamente descritta (realizzato rapportando ad uguale misura gli edifici cardine di cui si è detto poco fa) determina, come si può vedere, una scena estremamente ampia in larghezza. Solamente alcune delle vedute finite mostrate in apertu-ra (un disegno ed una tela) rappresentano una composizione relativa all’intera sequenza: tutte le altre vedute sono scene corrispondenti solo ad una porzione della stessa, porzione più o meno ampia, suggerendo di volta in volta un punto di osservazione più o meno ravvicinato. Eppure nessuna di tali opere è copia di altre, precedenti, in quanto Canaletto, ogni volta, compone ex novo. Le sue vedute possono apparire copia – o ingrandimento – di una precedente versione, ma ciò accade perché all’origi-ne della varie composizioni finite vi sono i dati di una stes-sa sequenza del Quaderno: una base-dati topograficamente esatta, raccolta con l’uso sapiente della camera ottica, da un unico punto di vista per l’intera sequenza. Intuizione, questa, che permette a Canaletto di disporre di tracce pro-spetticamente coerenti e, pertanto, facilmente manipolabili, sul palcoscenico delle opere finite. Questo è l’esito principale della mia ricerca.

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Nel percorso compiuto per riuscire a qualificare l’effet-tiva origine ottica degli scaraboti del Quaderno – questio-ne, a mio avviso, definitivamente risolta – ho capito che interfacciando le tracce del Quaderno con la realtà urbana di Venezia (per fortuna sostanzialmente invariata nei capi-saldo prospettici) sarei giunto al punto di ripresa, al luogo prescelto da Canaletto per raccogliere gli scaraboti per le sue vedute – tante – di una stessa scena urbana. Partendo, dunque, dalle relazioni tra elementi di primo e secondo piano della scena, registrati con esattezza ottica nel Quaderno, ho potuto delineare, traguardando, assi visivi che concorrono ad un unico punto di osservazione per l’intera sequenza. La traccia della sfera dorata, posta su Punta della Doga-na, si sovrappone con una certa relazione alla cupola bas-sa della Salute, quella del Presbiterio: questa relazione tra elementi posti su piani sovrapposti della scena permette di tracciare un primo asse visivo, vincolante. Ripetendo la stes-sa operazione per altre relazioni – dalle tracce alla realtà urbana – giungiamo a constatare che tali assi convergono verso uno stesso punto, e con alto grado di precisione.

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È importante evidenziare, anche per i futuri sviluppi della ricerca in corso, che Canaletto registra le tracce – foto-inci-sioni – derivanti da lunghezze focali diverse, per una scena, panoramica, avente un’ampiezza di circa 90° (come insegna-vano le regole della scenografia teatrale settecentesca). È necessario, a questo punto, dare un rapido cenno alla ricerca che mi ha permesso di giungere a questi convinci-menti ed a svelare la relazione scaraboto/veduta finita (ed al particolare modo d’uso della camera ottica da parte di Canaletto): non si è trattato, infatti, di un colpo di fortuna, ma piuttosto di un premio alla determinazione (o, se volete, alla testardaggine) nel volere giungere ad un risultato scien-tificamente convincente.

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Vediamo, quindi, solo un dettaglio della sequenza (fogli 21 verso- 24 recto) che mi ha portato alla soluzione dell’enig-ma. Velocemente: in colore verde ho evidenziato quello che ho definito elemento cardine della scena, l’edificio R, che lega la scena rappresentata nel registro inferiore della dop-pia pagina (Riva del Ferro) con quella superiore (ove è ripreso il Ponte di Rialto, al centro della scena). In colore giallo ho evidenziato Palazzo Dolfin-Manin, dietro al quale emerge la guglia a croce, forse la cuspide di un campanile. Per la mia ricerca l’elemento chiave.

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Gli storici dell’arte che si sono occupati del Quaderno hanno sempre, e concordemente, attribuito quella cuspide alla Chiesa di S. Bartolomio, prossima al campo omonimo, ai piedi della riva destra del Ponte di Rialto. Anche per me, ovviamente, tale attribuzione costituiva un dato certo, in-confutabile. Si tratta, in realtà (e purtroppo, come ho pensato per al-cune notti insonni; o per fortuna, viste le conseguenze per gli esiti della ricerca), della cuspide posta in sommità alla cupola della Chiesa di S. Giovanni e Paolo. Tale elemento, con quella determinata ed univoca relazione con la facciata di Palazzo Dolfin-Manin (documentata nelle tracce del Qua-derno) può essere visto, però, solo da una posizione molto più arretrata nel Canal Grande: la ricerca del possibile punto di osservazione compatibile con quella sovrapposizione (e posto lungo quel determinato asse) mi ha portato ad indivi-duare la posizione, unica, dalla quale, ruotando lo sguardo, tutte le tracce della sequenza sarebbero risultate positiva-mente risolte. La soluzione è risultata possibile perché – doverosamen-te, a quel punto – ho rimesso in discussione varie certezze, in particolare la questione del funzionamento della camera ottica, per trovare la ragione delle variazioni di quadro pro-spettico nelle tracce del Quaderno.

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Per potere apprezzare le funzionalità dei diversi tipi di camera ottica è necessario un richiamo di carattere geome-trico-proiettivo: ho elaborato, a tale scopo, una immagine riassuntiva della animazione che illustra cosa significhi il fatto che la prospettiva sia una relazione tra osservatore e oggetto osservato. Se la relazione osservatore/oggetto non viene modifica-ta, la prospettiva che si genera sul quadro non cambia. Ciò che cambia, ma senza per questo modificare la prospettiva, è la qualità di risoluzione degli oggetti posti in visione. Con riferimento alle macchine fotografiche odierne, del-le quali tutti abbiamo esperienza, sappiamo che utilizzando un teleobiettivo l’oggetto osservato presenterà una maggio-re accuratezza nei dettagli e nei profili (anche se a scapito dell’ampiezza della scena); utilizzando, diversamente, un obiettivo grandangolare, alla maggiore ampiezza corrispon-derà una minore qualità nella definizione dei contorni. La questione importante, ribadisco, sta nel fatto che, al variare della lunghezza focale, i diversi elementi della scena, essen-do ripresi da un determinato ed unico punto di osservazione, non risultano modificati nella prospettiva, neppure quando venga ruotato l’asse visivo principale. Data questa premessa proviamo a capire in quale modo – e con quale strumento – Canaletto abbia raccolto i suoi famosi scaraboti, le tracce relative alle quindici sequenze del Quaderno.

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Esistono tre tipi di camera ottica.• Camera a semplice ribaltamento

Il raggio visivo, che riflette la realtà esterna, attraversa la lente collocata in corrispondenza del piccolo foro prati-cato su una delle facce della scatola; l’immagine si ricrea sulla faccia opposta a quella del foro, su di uno schermo più o meno trasparente. L’immagine, che risulta visibi-le solo se osservata creando un ambiente con intensità luminosa molto inferiore a quella esterna, si presenta capovolta alto/basso ed invertita destra/sinistra: nello schema qui proposto, tratto dalla animazione realizzata a tale scopo, il campanile di San Marco si presenta a destra anziché a sinistra e con la cuspide verso il basso anziché verso l’alto. Si tratta del ribaltamento semplice, di cui già accennava il Prof. Camuffo, caratteristica di uno strumento esistente e diffuso, certamente, già nel ‘600 (se non prima ancora).

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• Camera a specchio internoÈ il tipo di camera che viene sempre citata, perché a que-sto tipo appartiene la camera ottica “A.Canal” del Museo Correr di Venezia (vista nel video, presentato dal Prof. Brown, ed esposta in mostra a Washington). Si tratta di una camera nella quale lo specchio interno, inclinato a 45 gradi, intercetta i raggi visivi confluiti al suo interno attraverso la lente – a focale fissa – e li rinvia alla faccia superiore della scatola, dove è posto lo schermo in vetro opalino e smerigliato: un piano orizzontale, sul quale l’o-peratore andrà a collocare fogli il più possibile trasparen-ti – in carta oleata – per calcare le tracce che vi appaiono. Uno strumento che presenta grandi vantaggi, ma anche molti limiti. Come funziona la camera Correr? la scena esterna rimane la stessa, lo specchio intercetta la pira-mide visiva (dopo il passaggio del fascio luminoso, qui rappresentato dal cono, attraverso la lente) e la riflette verso il quadro smerigliato superiore dello strumento. La diagonale del quadro, parametro necessario per definire l’angolo di campo dell’obiettivo, è una misura che deriva dal diametro del cono visivo (in effetti ad esso sempre inferiore, per cui sono escluse le possibili deformazioni ottiche che potrebbero derivare dalla zona periferica del-la lente). Rispetto al semplice ribaltamento l’immagine ora è molto più definita, incisa; anche l’operatività è resa più facile, perché il piano su cui si ricrea l’immagine è, questa volta, orizzontale ma rimane un problema, che vedete tutti. Anche se l’orientamento alto/basso è cor-retto (l’immagine non è capovolta) rimane l’inversio-ne destra/sinistra: l’immagine non è immediatamente utilizzabile, richiede una elaborazione successiva, una post-produzione. Rimane, poi, la questione del vetro smerigliato: con la camera a specchio interno l’operato-re deve utilizzare una carta il più possibile trasparente per delineare le tracce ma è vincolato, soprattutto, dalla focale fissa (di grande formato ed ottica “normale”, non

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“grandangolare”, vedi lo schema riassunto nell’immagi-ne). La scena della veduta, perciò, risulterà dalla giustap-posizione – non mediata – di una serie di quadri distinti, da ricollocare in una griglia, in una sorta di patchwork. Non è nota, peraltro, l’esistenza di alcun scaraboto cana-lettiano su carta oleata, ed anche per questa ragione la camera ottica “A.Canal” riveste, tutto sommato, scarso interesse nell’intento di riuscire ad illustrare – e com-prendere – l’origine ottica delle tracce del Quaderno. Nel-le immagini che seguono, in ogni caso, possiamo farci un’idea di quel che si vede nella camera ottica del Museo Correr, confrontando l’immagine realizzata con una nor-male macchina fotografica: si noti l’inversione destra/sinistra, il corretto orientamento alto/basso e la qualità dell’intensità luminosa interna, ovvero la misura di det-taglio visivo che lo strumento permette.

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• Camera ad operatore interno (e specchio esterno)Vediamo ora il funzionamento del terzo tipo di camera. In questo caso lo specchio è posto in sommità dello stru-mento, ed è tale piano riflettente che intercetta il fascio luminoso e devia la piramide visiva, questa volta verso il basso, in direzione della lente. L’immagine, proveniente dallo specchio, attraversa la lente e si ricrea sul piano di lavoro posto all’interno della camera – ad operatore interno, appunto – questa volta correttamente orienta-ta sia destra/sinistra ed anche alto/basso (a condizione, ovviamente, che l’operatore volga le spalle alla scena). La camera ad operatore è un vero e proprio laboratorio. Le tracce, ora, possono essere calcate, con pietra nera, direttamente sul foglio in carta opaca, probabilmente appartenente ad un piccolo fascicolo. L’aspetto più inte-ressante – che mi ha condotto alla soluzione dell’enigma – sta nel fatto che la lente può avvicinarsi allo specchio. Non si tratta di uno zoom, come diremmo oggi, perché la lente è posta dopo lo specchio e non anteriormen-te ad esso. Con tutta evidenza, quindi, Canaletto non vede direttamente l’esterno, egli ne vede, sul piano, solo un’immagine riflessa, proveniente dallo specchio incli-nato a 45°. Avvicinando la lente allo specchio egli può ingrandire l’immagine – e la conseguente traccia – sen-za modificare la prospettiva tra gli elementi della scena urbana, perché il punto di osservazione – lo specchio – rimane fisso rispetto alla realtà esterna. Lo specchio, inoltre, può ruotare sul proprio asse zenitale: perché questa osservazione/constatazione è importante? Per-chè questo tipo di strumento permette la raccolta di dati geometricamente esatti – e coerenti nella prospettiva – anche quando lo specchio ruota ed in questo modo, da un unico punto di vista, Canaletto può realizzare una sorta di panoramica – diremmo oggi – composta di se-quenze molto varie e, talvolta, persino doppie esposizio-ni dello stesso edificio – per disporre di maggiore detta-

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glio – ma tracce pur sempre omologhe nella prospettiva Questa grande quantità di dati veri, esatti, sono raccolti da Canaletto – ne parlava il Prof, Romanelli, partendo da altre considerazioni – con piena consapevolezza del proces-so che prevede, nel successivo procedimento operativo, una elaborazione compositiva delle tracce. Trattandosi di valori raccolti, con metodo scientifico, da un unico punto di osservazione, le tracce raccolte potranno essere manipolate, trasfigurate e renderanno possibile ricre-are una scena – non vera, ma verosimile – per l’osservatore maggiormente coerente con la memoria dei luoghi. La scena vera, otticamente esatta, condurrebbe a quell’immagine – distesa ed amplissima – che abbiamo vi-sto nel montaggio della sequenza del Bacino di San Marco. Canaletto, manipolando e condensando i dati raccolti sopra un unico piano – il foglio, o la tela –, riesce a suscitare la percezione di uno spazio che, nella realtà non è assoluta-mente piatto ma piuttosto, passatemi il termine, cilindrico o, più esattamente, sferico. È evidente che Canaletto è giunto a concepire – e gestire – tale modus operandi facendo tesoro della sua competenza di scenografo, consapevole soprattutto del fatto che, come nella scenografia, muovendo le ali (cioè le quinte laterali), è possibile ottenere una rappresentazione del vero edificio in modo che esso risulti comunque perfettamente riconoscibi-le. L’attenzione, nel modificare lo scorcio di una determina-ta facciata, deve essere rivolta a rispettare le vere relazioni dell’impaginato prospettico, operazione possibile utilizzando la cosiddetta regola della diagonale interna. Eccettuando due brevi sequenze – quella di Campo Santa Maria Formosa e quella dell’Arsenale, molto ricche ed elabo-rate (persino con ombreggiature a sanguigna, forse le prime della serie) Canaletto si limita, in effetti, a raccogliere nel Quaderno le tracce dell’impaginato prospettico dei singoli edifici, annota le relazioni dimensionali tra fronti opposti del canale, evidenzia e descrive la presenza di elementi si-

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gnificativi e connotativi posti sullo sfondo della scena, deli-nea i contorni delle persone e degli oggetti in rapporto all’e-dificato circostante, ma non si attarda sui dettagli decorativi o pittorici (con quelle eccezioni di cui si è detto). Ciò accade, mi piacerebbe riuscire a farvi convinti, per-ché egli è consapevole del fatto che solo tali dati – veri – ri-sulteranno utili nella fase di composizione prospettica della veduta, ovvero nella costruzione del palinsesto geometrico sul quale colore, forma, luce, materia pittorica permetteran-no di stordire, immediatamente, l’osservatore: ma tale risul-tato viene raggiunto proprio perché le relazioni tra gli ele-menti posti in scena, singolarmente e collettivamente, sono attentamente e fedelmente rispettate, indipendentemente dalla loro esattezza topografica. Nelle immagini che seguono, e che concludono il mio contributo, ho preso in considerazione proprio la sequenza del Campo di Santa Maria Formosa, mettendo in relazione gli scaraboti del Quaderno con le opere finite, ovviamente, ma anche per accennare a due questioni che potranno es-sere argomento di una nuova indagine: mi riferisco al rap-porto di Canaletto con Luca Carlevarjis – suo predecessore e forse, almeno all’inizio, mentore – e con Bernardo Bellotto, nipote nonché competente (ed autorizzato) utilizzatore del modus operandi dello zio.

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Iniziamo da Carlevarjis. L’incisione ci appare, quasi per-fettamente, il ricalco del disegno: quello che emerge è il li-mite di una rappresentazione, certamente derivata da tracce ottenute con l’uso della camera ottica, rigorosa dal punto di vista proiettivo ma che presenta molti elementi aberranti, in particolare nella rappresentazione degli edifici che delimita-no i bordi del campo. Carlevarjis, direbbe A.M. Zanetti, non sa “…riconoscere i difetti che [la camera ottica] recar suole ad una pittura”; egli è un “… artefice” che “…interamente si fida della prospettiva che in essa camera vede” e non sa “… levar destramente quanto può offendere il senso”, per cui “Dipinse anche vedute e prospettive; ma il fiorire del nostro Antonio Canal ne oscurò il merito in parte”. Vediamo, ora, quale sia la rappresentazione che, dello stesso luogo, ci offrono Canaletto e Bellotto. Tralasciando la differenza determinata dalla diversa gamma tonale delle due composizioni, cifra specifica dei due vedutisti, se non fossero osservabili contestualmente – entrambi i dipinti sono presenti in mostra – potremmo facilmente ritenere che la veduta del nipote sia l’esatta copia dell’opera dello zio. Ma il dipinto del Duca di Bedford, a Woburn Abbey, era completato quando Bernardo aveva ancora dodici anni: non è assolutamente accettabile, dunque, l’ipotesi che si tratti di copia da copia. L’unica ragione plausibile della quasi perfetta omologia tra le due opere deriva, dobbiamo allora ritenere, dalla co-mune origine di entrambe le vedute: la sequenza di sca-raboti raccolta da Canaletto nel suoi fogli rilegati, ora nel Quaderno.

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Quando il figlio di Fiorenza Domenica, l’unica sposata delle tre sorelle, inizia a comporre la sua veduta del Campo di Santa Maria Formosa Canaletto deve ancora lasciare Ve-nezia per Londra e Bernardo ha già almeno vent’anni (risul-ta iscritto alla fraglia dei pittori già sedicenne): può contare ancora, dunque, sulla presenza e l’occhio vigile dello zio An-tonio, qualora necessario. Ho evidenziato solamente alcuni elementi per rappre-sentare le differenze, e le analogie, tra le due composizioni; rispetto alle tracce registrate con la camera ottica, visibili nel Quaderno, Canaletto introduce alcune significative for-zature:• l’asse verticale posto in corrispondenza del centro della

facciata della Chiesa (in colore blu) viene reso quasi coin-cidente con l’asse (in colore verde) posto in corrisponden-za dell’asse della cupola;

• le cornici di gronda dei due edifici che definiscono il fronte destro della scena (in colore giallo e magenta) che, nelle tracce, risultavano poste a quota diversa vengono allineate;

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• la vera da pozzo al centro del campo (evidenziata in ros-so) viene inserita modificando la sua posizione rispetto alla facciata della Chiesa: nel Quaderno essa appare po-sta a sinistra della porta d’ingresso, mentre nella veduta risulta molto più traslata verso sinistra, fino a risultare centrata rispetto alla partizione definita dalla seconda fi-nestra termale in facciata;

• la cupola stessa (in colore arancio), infine, viene rap-presentata con un nuove proporzioni: diversamente da quanto accade nel Quaderno, ora la larghezza del suo tamburo quasi coincide con la partizione centrale del-la facciata, delimitato dalle paraste a doppio ordine che sorreggono il timpano (probabilmente la sovrapposizione dei due assi – facciata e cupola, di cui si è detto poco fa – era la premessa compositiva necessaria per consentire una maggiore enfasi all’elemento emergente dalla coper-tura).

Osservando gli stessi elementi nella veduta di Bellotto, diversamente, nessuna delle licenze, rispetto al Quaderno, descritte per Canaletto trova spazio. Anzi, la composizione del nipote ci appare come una trascrizione letterale, quasi meccanica, delle tracce raccolte un decennio prima dallo zio nei suoi fogli e quindi l’allievo prediletto si esercita nel proce-dimento senza dimostrare piena consapevolezza delle poten-zialità del processo compositivo. Egli mantiene distinti, come nel Quaderno, gli assi di facciata e della cupola; gli edifici sul lato destro del campo replicano esattamente le diverse quote di gronda; la vera da pozzo è collocata, come nello scarabo-to, leggermente a sinistra della porta d’ingresso; la cupola, infine, viene trascritta rispettando – ancora “alla lettera” – quando segnato nel Quaderno, ovvero delimitando l’ampiez-za del suo tamburo in relazione al timpano di facciata.

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Ecco la differenza, la cifra che ci permette di distinguere, almeno in questa occasione, Canaletto da Bellotto. Antonio Canal raccoglie dati veri con la consapevolezza di doverli poi elaborare, e modificare, allo scopo di rappresentare in modo convincente e coinvolgente uno spazio vero – tridi-mensionale – entro limiti dimensionali ben definiti (e bidi-mensionali). Ed anche nella griglia compositiva sulla quale, per brevità, non mi soffermo, potremmo apprezzare impor-tanti accuratezze di derivazione scenografica, che mancano del tutto in Bellotto: ma mi limito a lasciarvi, per ora, solo un indizio visivo, senza commento. L’occasione per ritornare su tale ragionamento potreb-be essere, peraltro, molto vicina, già alla fine dell’estate, in quanto giusto ieri sarebbe stata confermata la decisione per realizzare la mostra su “Canaletto e il Quaderno” presso Pa-lazzo Grimani a Venezia, la nuova sede espositiva del Polo Museale Veneziano: mi auguro, dunque, di avere presto l’op-portunità di illustrarvi quei passaggi oggi solo accennati e le nuove “cose canalettiane” sulle quali sto ragionando. Vi ringrazio per l’attenzione. π

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un capriccio del carlevarijs a Breramariolina olivariPinacoteca di Brera

Una tela di Luca Carlevarijs1 (Fig. 1) che raffigura il Capriccio con il Ponte Rotto è stata donata alla Pinacoteca di Brera nel 2010 dal professor Giuseppe Scalabrino, neuropatologo e do-cente all’Università degli Studi di Milano. Con questo dono fortunato la Pinacoteca arricchisce il suo piccolo ma pre-zioso nucleo di opere di vedutisti veneziani del XVIII secolo che comprende due Vedute di Venezia di Canaletto, altre due di Francesco Guardi e lo straordinario pendant di Bernardo Bellotto, che nel 1744 immortalava in due celebri capolavori la Gazzada di Varese. Si tratta di un nucleo lungamente sognato e inseguito dai conservatori braidensi, che si è formato man mano tra il 1831, quando entrarono le due tele di Bellotto, e i primi trent’anni del Novecento. La mancanza originaria di opere che rappresentassero la pittura da stanza del Settecento, capitolo da sempre ri-tenuto fondamentale della storia della pittura italiana, era dovuta alla genesi stessa del museo, nato, come è noto, dalle soppressioni degli ordini religiosi e perciò ai suoi inizi costi-tuito quasi totalmente da dipinti sacri. L’assenza di quadri profani che illustrassero anche generi diversi della pittura era una questione che si era aperta quasi immediatamente. Anche rispetto al ruolo pedagogico al servizio degli allievi della Accademia questa era sentita come un grave lacuna, cui si doveva in qualche modo porre rimedio. Mancavano modelli per la ritrattistica, per la grande pittura di storia e mitologica, per il paesaggio classico. Nel raccogliere il suo Gabinetto dei ritratti di pittori, e cercare di farne un nucleo organico all’interno del giovanissimo museo, già nel 1806 Giuseppe Bossi rivelava di essersi posto il problema, e da par suo ne tentava una soluzione di doppia valenza, cercan-do con la sua scelta di rimediare sia alla carenza di ritratti

1 Luca Carlevarijs (Udine 1663-Venezia 1730), Capriccio con il Ponte Rotto, olio su tela, cm. 85,8 x 130,5. La tela era divenuta proprietà Scalabrino nel 1993, acquistata dalla Galleria Nuova Arcadia di Padova.

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Fig. 1 l. carlevarijs, Capriccio con il ponte rotto

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Fig. 2 B. Bellotto, La Gazzada di Varese Fig. 3  B. Bellotto, Villa Melzi alla Gazzada

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sia a quella di una categoria assolutamente diversa, quella, fondamentale, degli artisti visti dagli artisti, o, se vogliamo vederla in chiave preromantica, dell’interpretazione del sé2. Negli anni successivi gli scambi intrapresi da altri con-servatori con antiquari e collezionisti - in verità pochi se confrontati con altre istituzioni lombarde, come la Carrara di Bergamo, andarono sorprendentemente controcorrente rispetto alla politica praticata da altre musei. Furono infatti sacrificati pezzi talvolta di rara bellezza, come alcune prove di Crivelli o di Farinati, per assicurarsi prove che potevano sem-brare meno rilevanti. I conservatori erano infatti guidati dalla medesima volontà: rendere le raccolte più organiche, comple-tare utopicamente un panorama antologico delle eccellenze dell’arte italiana anche nei settori della “pittura minore”, cer-care di sopperire almeno in parte alle assenze più gravi. L’acquisto delle due tele di Bellotto, nel pensiero della Commissione che lo eseguì nei primi mesi del 1831 (Palagi, Migliara, Hayez, Mazzola, Sabatelli, Fumagalli e Cattaneo), doveva in parte sopperire proprio alla assenza di modelli pa-esistici a disposizione degli allievi e costituiva il primo, ful-minante tentativo di portare il paesaggio dentro la scuola, prima ancora che nel museo. Il nome del Bellotto, in quel momento storico, non era popolare, né Gazzada, irrilevante villaggio nelle campagne varesine, offriva scenografie spet-tacolari o memorie storiche che ne giustificassero un pregio particolare. Lo spessore culturale della commissione colse evidentemente lo straordinario e avvolgente impatto emo-tivo delle vedute, già quasi centenarie e tuttavia di una mo-dernità assoluta. Fig. 2/3

2 Giuseppe Bossi. Il Gabinetto dei ritratti dei pittori (1806), cat. della mostra, a cura di S. Coppa e M. Olivari, Milano Pinacoteca di Brera, 11 giugno-20 settembre 2009. La mostra è stato il primo, organico tentativo di far ritornare nelle sale della pinacoteca la collezione di autoritratti di artisti, dispersa ormai da quasi due secoli. Una prima ricostruzione parziale era stata tentata nei primi anni Ottanta del Novecento da Carlo Bertelli, che ne aveva esposto alcuni nel corridoio Sala I.

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Nel 1855, con il perfezionamento del Legato Oggioni, ar-rivavano in Pinacoteca le due tele di Guardi raffiguranti Il Canal Grande con le Fabbriche Nuove di Rialto e Il Canal Grande verso Rialto con Palazzo Grimani e Palazzo Manin. Fig. 4/5

Ma, seppur con ragioni del tutto diverse, la coscienza che a Brera mancassero ancora dei capisaldi fondamentali ac-compagnava i conservatori della pinacoteca anche nel secolo successivo, quando ormai la didattica non era più una delle vocazioni istituzionali primarie della galleria. Era il sorgere di una critica d’arte pionieristica e illuminata, il rinnovarsi di una cultura che valutava in modo nuovo il “bello” nel Seicento e nel Settecento ciò che spingeva a credere che la povertà di opere che rappresentassero soprattutto la pittura veneziana del Settecento fosse una carenza grave, che anda-va sanata. Con il Novecento si apriva finalmente una stagione den-sa di successi, dovuta soprattutto a Ettore Modigliani e poi ad Antonio Morassi. Nel 1904 Rosalba Carriera (ora Marian-na Carlevarijs ?) faceva il suo ingresso con un delicato Ritrat-to Maschile. Fig. 6 Nel 1911 si acquistavano da una collezio-ne fiorentina Il Concertino e Il Cavadenti di Pietro Longhi. Fig.  7/8 Nel 1913 arrivava dalla collezione Drey di Monaco Annibale che giura odio ai romani di Giovan Battista Pit-toni. Fig. 9 Nel 1916 Emilio Treves legava alla pinacoteca la Rebecca al pozzo di Piazzetta. Fig. 10 Nel 1927 la famiglia Chiesa acquistava sul mercato antiquario parigino per do-narla a Brera la seconda parte della folgorante Madonna del Carmelo, san Simone Stock e le anime purganti di Tiepolo, Fig. 11 sciaguratamente tagliata in due a fine Ottocento e la cui prima parte era già stata acquisita e donata poi al museo da Ida Pittaluga Chiesa due anni prima, nel 19253. Nel 1928

3 Brera conserva un dipinto di Giacomo Favretto, dall’inequivocabile titolo Vandalismo. Poveri antichi, in cui è raffigurato un pittore-restauratore, secondo la tradizione operante a Murano, alle prese con una delle due parti in cui il telero del Tiepolo, originariamente a Venezia

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Fig. 4 f. Guardi, Il Canal Grande verso Rialto Fig. 5 f. Guardi, Veduta del Canal Grande con le Fabbriche nuove di Rialto

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sempre dai Chiesa vennero ceduti, a parziale pagamento della tassa d’esportazione per una opera, i due Canaletto, la Veduta del bacino di San Marco dalla punta della Dogana e la Veduta del Canal Grande da Campo San Vio. Fig. 12/13 Nel 1929 arrivava a Brera un piccolissimo capolavoro ancora di Tiepolo, Le Tentazioni di Sant’Antonio. Fig.  14 Nel 1932 veniva acquistato come Alessandro Longhi il Ritratto di una giovane cantante Fig. 15 (ora attribuito a Francesco Zugno). Nelle salette appositamente progettate da Portaluppi nella Brera ricostruita dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale, poteva quindi finalmente prendere corpo l’immagine di un museo al passo con le riscoperte e il gu-sto della nuova storia dell’arte. Le “salette del Settecento”, come da allora furono sempre chiamate, costituivano - e costituiscono ancor oggi - una anomalia non solo rispetto all’immagine del museo codificata nel corso della storia pre-cedente, ma perfino rispetto a quella della pinacoteca porta-luppiana che veniva inaugurata nel 1950. Fig. 16 Erano infatti le uniche dove fosse prevista la presenza di qualche elemento

nella chiesa di sant’Aponal, era stato tagliato. Evidentemente l’iniziativa doveva aver suscitato un certo clamore anche nello spregiudicato mercato antiquario internazionale di fine Ottocento. I doni della famiglia Chiesa alla Pinacoteca furono all’epoca abilmente pilotati da Ettore Modigliani e da Antonio Morassi. Merita di essere ricordato che erano scaturiti da una storia romanzesca, che aveva coinvolto un figlio della famiglia Chiesa, Achillito, in un collezionismo bulimico e ossessivo che lo aveva portato alla rovina e alla interdizione per gli enormi debiti contratti e gli imbrogli subiti. La collezione, sottoposta al vaglio della Soprintendenza e giudicata da Modigliani quasi tutta irrilevante, fu venduta a New York nel 1926. Ma la vicenda doveva proseguire con toni ancora più intricati negli anni immediatamente seguenti. I Canaletto, venduti nel 1928 da Sir C.H. Seely furono acquistati da un intermediario e poi da Chiesa e ceduti allo Stato, ma una lettera anonima denunciò nei passaggi degli interessi sia di Pelliccioli che di Modigliani, poi ampiamente scagionato. Di fatto i Canaletto arrivarono come pagamento parziale della tassa d’esportazione che Achillito Chiesa doveva versare per una contestatissima tavola attribuita ad Antonello da Messina, ora al Museu d’Art de Catalunya come anonimo della cerchia di Bartolomeo degli Erri (M. Cresseri, Per Brera.Collezionisti e doni alla Pinacoteca dal 1882 al 2000, a cura di M. Ceriana e C. Quattrini, Firenze 2004, p. 126), opera pure coinvolta in una polemica accesissima perché giudicata malattribuita o addirittura falsa.

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di arredo, a simulare se non proprio un cabinet collezio-nistico di quadri da stanza, almeno un salottino vagamen-te rococò. La forma ellittica, le pareti ad angoli smussati e arrotondati, le colonnine e la profusione di marmi preziosi nei toni pastello dinamizzavano uno spazio fino ad allora anonimamente quadrangolare e lo dividevano in due am-bienti gemelli che si affrontano evocando le simmetrie tanto care al collezionismo settecentesco. Il concetto di tentare di ricreare sinteticamente un ambiente che evocasse quel-lo originario delle opere, comunque, era già stato avanzato da Portaluppi nel suo primo intervento braidense. Nel 1923 per Lo sposalizio della Vergine di Raffaello l’architetto aveva

Fig. 6 r. carriera (Marianna Carlevarijs ?), Ritratto maschile

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Fig. 7 P. longhi, Il Concertino Fig. 8 P. longhi, Il Cavadenti

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infatti proposto e realizzato un nicchione foderato da una boiserie in noce4. Fig. 17

Ancora oggi le salette ospitano da una parte i pittori ve-neti del Settecento, dall’altra quelli lombardi. Due mondi a confronto, due dimensioni del sentire diverse, due modi di vivere il proprio tempo apparentemente antitetici. Concreto e velatamente indignato (come sempre), quello lombardo ci trapassa con ritratti che sono capolavori di psicologia, con poveri che sono metafore dell’intero genere umano, con na-ture morte essenziali. Sfaccettato e lieve quello veneto guar-da la sua città-stato e i suoi ormai piccoli riti con ironia, con consapevolezza, con pessimista e orgogliosa inquietudine. Eppure l’“antigrazioso” Magnasco e il destrutturato Guardi attingono la loro unicità da un comun denominato-re, la malinconia. Dalla malinconia non è certo immune il lombardo Ceruti, con le sue pagnotte storte e poverette, né lo è, all’opposto, l’immota Venezia di Canaletto. Ma è Bellotto, il secondo “Canaletto”, che ci dimostra come un vedutista veneziano di passaggio in Lombardia possa immediatamen-te farsi lombardo e creare misteriosamente i prototipi inar-rivabili del “paesaggio della realtà” che daranno frutti solo un secolo dopo e dare una lezione di moralità tratta dall’os-servazione di un “vero” diverso. È dunque a questo nucleo storico, una serie formidabile dovuta, ripeto, solo all’intelligenza dei nostri antichi conser-vatori, ma che purtroppo è sempre ignorato dalla storiogra-fia braidense degli ultimi cinquanta anni, che dopo quasi ottant’anni si aggiunge finalmente un tassello importante come il Capriccio di Carlevarijs, maestro assente finora non solo da Brera, ma da tutti i principali musei milanesi.

4 Archivo SBSAE, Milano, Archivo Vecchio.

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Fig. 9 G.B. Pittoni, Annibale che giura odio ai Romani Fig. 10 G.B. Piazzetta, Rebecca e Eleazaro al pozzo Fig. 11 G.B. tiepolo, Madonna del Carmelo, san Simone Stock e le anime purganti

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Il grande spazio che è conferito alla raffigurazione del ponte, una buona metà - o forse più - della composizione, sembra confermare l’idea di Corboz che vede il capriccio come una questione di interpretazione, più che come una categoria. Secondo Corboz, infatti, il capriccio in quanto genere non fu, nelle intenzioni, un’“antiveduta”, come per molto tempo lo si è considerato, ma piuttosto il risultato “di un rapporto particolare del pittore con i suoi procedimenti di scelta, ritagli e montaggio”5: Tuttavia Carlevarijs è ancora lontano dal capriccio come poi lo concepiranno un Ricci o, ancora di più, un Guardi. È una questione che con termine moderno potremmo definire “generazionale”. Carlevarijs è un iniziatore, e come tale ha ancora sul banco di prova il problema generale della scelta, della selezione e della impostazione degli elementi costitu-tivi dell’immagine. Le sue necessità sono quelle di costruire un proscenio che abbia tutte quelle caratteristiche, e com-prenda tutti quei fattori, che nell’estetica vigente sono giudi-cati imprescindibili per il raggiungimento di una naturalità “bella” e ospitale: l’acqua, la vegetazione, la varietà delle forme (piani, livelli, compresenze), la profondità, la classici-tà, l’umanità. Tutto rimanda a dimensioni più sfuggenti ma capitali: il tempo, lo spazio, il rapporto uomo-natura, la con-sapevolezza della storia e della sua dignità. Queste immagini dovevano fugare l’idea del pericolo o del rischio insito nella natura, concetto invece caro al Seicento e alla categoria del “pittoresco”. Per questo erbe e alberi, ovvero la selvatichezza della natura che tenta di impadronirsi nuovamente dei se-gni dell’uomo, non devono mai prevalere; le macchiette, ad una ad una osservate e tratte dal vero, sono poi nobilitate e non hanno alcuna connotazione ironica o sociale come suc-cederà in vedutisti operativi anche pochissimo tempo dopo

5 A. Corboz, Profilo per un’iconografia veneziana”, in “Luca Carlevarijs e la veduta veneziana del Settecento”, a cura di I. Reale e D. Succi, cat. della mostra, Padova, Palazzo della Ragione, 25 settembre – 26 dicembre 1994, Milano 1994, p. 31.

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Carlevarijs; il cielo si apre ricco di luci rosate dietro la sce-na, ma non disegna ombre che non siano quelle puramente convenzionali dettate dal chiaroscuro scolastico, né satura tutto di aria e di abbagliante sole come avviene nei due Ca-naletto. Il ruolo di Carlevarijs, insomma, è ancora quello di artefice di archetipi che poi altri potranno superare. Questo Capriccio col Ponte Rotto è quindi un teatro, o meglio una scena di teatro, costruita per ottenere e perseguire la piace-volezza agli occhi dell’osservatore. Cani, popolani, viandan-ti, si aggiungono alla scenografia della veduta denunciando di essere ancora frutto del meccanismo canonico che vede le macchiette nascere solo alla fine, come piccolissimi attori posti su un palcoscenico già precedentemente finito. Ma la raffigurazione dei traghettatori indaffarati a trasportare da una riva all’altra contadini, cavalli e cavalieri, è un valore aggiunto di considerevole rilievo, dato che solo raramente capita di vedere i capricci entrare in una dimensione de-scrittiva così vicina alla cronaca realistica. Il Ponte Rotto era in realtà un antico ponte romano, il Ponte Emilio. Costruito nel 193 avanti Cristo a valle dell’Iso-la Tiberina per affiancare il Ponte Sublicio, sul quale i carri non potevano passare, ebbe da subito una storia tormentata. La sua posizione, in un punto in cui le correnti del Teve-re sono particolarmente forti, lo portò a rovinare per ben quattro volte. Dopo la difficile costruzione, durata trenta-sette anni, il ponte subì un primo rifacimento nel 12 avanti Cristo, all’epoca di Augusto. Nel 1230 cadde in seguito ad una inondazione e fu fatto ricostruire da Papa Gregorio IX. Dopo varie altre ristrutturazioni, Paolo III, a metà Cinque-cento, incaricò dei lavori di ricostruzione Michelangelo, che però non li portò mai a termine. Proseguì quindi un altro architetto, Giovanni Lippi, che li concluse nel 1552. Dopo soli cinque anni una violenta inondazione lo fece nuova-mente crollare. Per iniziativa di papa Gregorio XIII, dal 1573 al 1575 il ponte venne ricostruito un ultima volta dall’archi-tetto Mastro Matteo di Città di Castello. Ventitre anni dopo,

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Fig. 12 canaletto, Veduta del bacino di San Marco dalla punta della Dogana Fig. 13 canaletto, Veduta del Canal Grande verso la punta della Dogana

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Fig. 14 G.B. tiepolo, Tentazioni di Sant’Antonio Fig. 15 a. longhi (F. Zugno ?), Ritratto di un giovane cantante

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nella notte di Natale del 1598, Roma fu colpita dalla più grave inondazione del Tevere che si ricordi. Il ponte rovinò definitivamente e da quel momento le tre arcate rimaste in piedi (due delle quali poi abbattute nell’Ottocento) vennero lasciate a stato di rovina, assumendo la denominazione di Ponte Rotto. Nel 1665 il vercellese Giovan Battista Falda inseriva il Ponte Rotto nelle sua raccolta di incisioni intitolata Vedu-te delle fabbriche, Piazze, et Strade fatte fare nuovam.te in Roma dalla S.tà di N.S. Alessandro VII. Successivamente Ga-spar van Wittel lo ritraeva in una serie di vedute dipinte tra il 1681 e il 1685, ma tutti i paesaggisti e vedutisti nordici presenti a Roma mostrano di prediligerlo come protagonista di vedute dove la forza evocativa del paesaggio romano si incontra con esigenze di scenografie monumentali. La sua stessa storia, le vicissitudini che ne contraddistinsero la vita illustre e travagliata, gli intrecci delle sue ripetute resurre-zioni lo ponevano alla immaginazione degli artisti come una delle antichità romane più cariche di suggestioni. Non poteva dunque esserci scelta più significativa, da parte di Carlevarijs, che ci indicasse con chiarezza quali si-ano i legami di continuità tra il vedutismo romano e quello veneziano e quali i debiti e le eredità personali tratte da van Wittel da parte del maestro udinese.

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La raffigurazione di questa celebre rovina romana all’in-terno di un “capriccio”, impaginato nel più classico degli schemi, dimostra infatti in modo quasi paradigmatico quan-to le prove dell’artista di Amersfoort siano state riferimento fondamentale per il friulano. Van Wittel si era “italianizza-to”, stabilendosi a Roma, a partire dai vent’anni, ma arri-vò a Venezia nel 1697, quando Carlevarijs di anni ne aveva trentaquattro. Ma già il maestro di Carlevarijs, Johan Anton Eismann, si era cimentato proprio con le raffigurazioni di “capricci” caratterizzati da antichi monumenti romani col-locati ai bordi di specchi d’acqua, per lo più porti di mare. Dunque il genere era già quello cui Carlevarijs era avvezzo. Ma le suggestioni di van Wittel lo portano ad aprire ed am-pliare le immagini e nel contempo ad osservare con mag-giore spirito di fedeltà al vero. Resta da vedere se Carlevarijs può aver dipinto questa e le altre sue vedute con rovine ro-mane semplicemente traendole da un collega o se non pos-sano davvero essere il frutto di un pur breve viaggio a Roma, come riferiva Moschini all’aprirsi dell’Ottocento e come era d’altronde normale nel curriculum di tutti i paesisti di qual-che rilievo. Il Ponte Rotto fu raffigurato da Carlevarijs in una serie di altre tele note, tra le quali meritano di essere ricordate la versione conservata a Cà Rezzonico a Venezia, dove la parte del ponte non più esistente è nascosta da altre costruzioni e quella conservata nelle Collezioni Reali di Win-dsor Castle. Rispetto alla versione Scalabrino la più simile è però la variante della Accademia dei Concordi a Rovigo, nella quale, sorprendentemente, il ponte termina nell’Arco di Costantino, come se quest’ultimo ne costituisse la testa.

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Fig. 16 P. Portaluppi, Saletta del Settecento, Pinacoteca di Brera Fig. 17 P. Portaluppi, Progetto per l’allestimento dello Sposalizio della Vergine di Raffaello, 1923

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Fig. 18/19 l. carlevarijs, Capriccio con il Ponte Rotto, particolari.

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L’identità delle misure avvicina il Capriccio braidense ad altri due dipinti. Uno è il Porto di mare di Leasinindustria a Milano, l’altro, con cui condivide l’allaccio evidente con la romanità, è il Capriccio con porto fluviale, l’Arco di Costan-tino e Castel Sant’Angelo, presentato contemporaneamente ma separatamente alla Galleria Nuova Arcadia di Padova nell’ambito di una esposizione dedicata al pittore friulano nel 20076. Isabella Reale proponeva che i due, la tela Leasi-nindustria e Il Capriccio con porto fluviale potessero essere pendant7. Mi chiedo allora se il capriccio Scalabrino non po-tesse essere stato, in origine, il terzo di un gruppo di quattro, pur sapendo che non sempre le misure uguali sono prova inconfutabile di una uguale provenienza. Vi sono comunque vari fattori che potrebbe avvallare l’i-potesi, prima delle quali l’ambientazione in ore del giorno diverse, la cui differenza si coglie perfettamente nel mutato colore del cielo, nuvoloso, ma pieno e azzurro nel Capriccio con porto fluviale, rosato di alba o di tramonto nel Capriccio con il Ponte Rotto. Ma anche l’impostazione spaziale sembra tener conto di quei rimandi simmetrici e di quelle antitesi spaziali che erano tanto cari all’estetica settecentesca e che determinavano la sistemazione dei dipinti a coppie il più possibile simili per formato o addirittura a coppie gemel-le sulle pareti dei cabinet collezionistici e di ogni casa di buon gusto. Meriterebbe che una volta o l’altra si spendesse qualche parola su questi criteri estetici, che tanto influirono anche sulle prime sistemazioni delle istituzioni museali na-scenti tra Sette e Ottocento, Brera compresa, Tanto forte era il vincolo dettato da queste non scritte leggi visive da vincere su qualsiasi criterio di soggetto, epoca, scuola e perfino, tal-

6 I. Reale, Luca Carlevarijs, cat. della mostra, Firenze, Palazzo Corsini, Padova, Galleria Nuova Arcadia, s.d., ( ma 2007) p. 10.7 I. Reale, Aldo Rizzi, quattro decenni dopo: intuizioni critiche su Sebastiano Bombelli e Luca Carlevarijs, in “Un’identità: custodi dell’arte e della memoria. Studi, interpretazioni, testimonianze in ricordo di Aldo Rizzi”, a cura di G.M.Pilo, L. De Rossi, I.Reale, Arte Documento.Quaderni, 12, 2007, p. 295.

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volta, sul formato originario delle opere. Non furono pochi infatti i collezionisti o i conservatori che “adattarono” al-cune opere, modificandone misure e formati, per appaiarle ad altre di diversa origine e creare così forzosamente nuovi pendant o nuove serie, semplicemente per sistemarle a pare-te secondo i principi di ordine che il gusto dettava. Fig. 18/22

Il Capriccio con il Ponte Rotto di Carlevarijs ora a Brera è occupato quasi interamente da rovine. A sinistra, la veduta “reale” delle arcate superstiti e delle case che fiancheggiano il fiume si conclude con il campanile di Santa Maria Egizia-ca, la chiesa poco lontana. Sulla sponda destra un alto cippo è sovrastato da un vaso monumentale, mentre un arco e altre rovine chiudono la scena. La luce proviene da sinistra, ma illumina quasi esclusivamente quel lato e il fondale in prospettiva. Il primo piano, dove le macchiette si muovo-no tra piccole asperità del terreno, erbe e cespugli declinati nei toni dei bruni, è tenuto in controluce, così come la riva destra, che affonda i maestosi muri antichi in una densa penombra, evocatrice di memorie. Solo il centro del dipinto è tenuto sgombro dallo scorrere del fiume, che dopo il ponte si allarga addirittura in una ansa azzurrata. Nel Capriccio con porto fluviale già Nuova Arcadia, inve-ce, il massiccio lato dell’Arco di Costantino, posto sulla sini-stra, si pone idealmente in contrapposizione con l’altrettan-to importante presenza delle architetture della riva destra del primo dipinto. Per il resto lascia spazio all’ampia veduta del fiume e al distendersi del profilo di Castel Sant’Angelo e della città. In questo modo, le due vedute, poste l’una a fian-co dell’altra, perfino se a distanza considerevole, divengono una il completamento ideale della spazialità dell’altra, come un grande teatro che si dispiega in grandangolare tra due quinte terminali.

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Fig. 20/21 l. carlevarijs, Capriccio con il Ponte Rotto, particolari.

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Il Capriccio con l’Arco di Costantino si qualifica per vari motivi come una prova nata intorno al 17148. Considerato che comunque tutte le tele con analogo soggetto vengono associate dalla critica al secondo decennio del secolo, anche quella Scalabrino può essere credibilmente collocata in un arco cronologico simile. π

8 I. Reale, 2007, p. 295.

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Fig. 22 l. carlevarijs, Capriccio con il Ponte Rotto, particolare.

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ringraziamenti

La Fondazione Bracco ringrazia per la collaborazione tutti i Relatori intervenuti.

Inoltre

Sandrina Bandera, per aver ospitato alla Pinacoteca di Brera il Seminario di studi

Aldo Bassetti per la valorizzazione del Seminario con la passione che gli Amici di Brera pongono nella salvaguardia dello straordinario patrimonio artistico della Pinacoteca milanese

I Musei prestatori che hanno reso possibile la mostra:

Museu Nacional d’Art de Catalunya, BarcellonaGemaeldegalerie, Staatliche Museen zu Berlin, BerlinoBirmingham Museum & Art Gallery, BirminghamMuseum of Fine Arts, BostonBristol’s Museum, Galleries & Archives, BristolHarvard Art Museum / Fogg Art Museum, Cambridge, Mass.The Fitzwilliam Musem, Cambridge, UKDallas Museum of Art, DallasGemaeldegalerie Alte Meister, Staatliche Kunstsammlungen, DresdaPhiladelphia Museum of Art, Filadelfia

Wadsworth Atheneum Museum of Art, Hartford, Conn.Museum of Fine Arts, HoustonStaatliche Kunsthalle, KarlsruheMuseu Calouste Gulbenkian, LisbonaS.M. la Regina Elisabetta II, LondraThe National Gallery, LondraSir John Soane’s Museum, Londra The J.Paul Getty Museum, Los AngelesColecion Carmen Thyssen-Bornemisza, MadridMuseo Nacional del Prado, MadridMuseo Thyssen Bornemisza, MadridNational Gallery of Canada, OttawaInstitut de France, ParigiMusée Jacquemart-André, ParigiCollection of Ann and Gordon Getty, San FranciscoMuseo di Stato dell’Ermitage, San PietroburgoMusei Civici Veneziani, Ca’ Rezzonico, VeneziaNational Gallery of Art, WashingtonS.G. il Duca di Bedford, Woburn AbbeyCastle Howard, The Trustees of Kiplin Hall, Yorkshire

E tutti i prestatori e collezionisti private che hanno desiderato rimanere anonimi.

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crediti fotografici

The Philbrook Museum of Art, Tulsa – pag. 25The Royal Collection, Her Majesty Queen Elisabeth II, London- pagg.25/39Museo Thyssen Bornemisza, Madrid - pag.27Museum of Fine Arts, Houston- pagg.28/92Museum of Fine Arts, Boston- pagg.28/50Wadsworth Atheneum, Hartford, CT- pag.33National Gallery of Art, Washington- pag.33National Gallery of Canada, Ottawa- pagg.34/116Fogg Art Museum HUAM, Cambridge, Mass. – pag.37Museo Galileo-IMSS, Firenze - pag. 63Gemaeldegalerie Alte Meister, Dresden – pagg.65/66The J.Paul Getty Museum, Los Angeles – pagg.75/108Royal Collection Windsor Castle - pag.75The National Gallery of Art, London - pagg.75/100Fondazione Musei Civici di Venezia, Ca’ Rezzonico – pagg.76/108The Northon Simon Museum, Pasadena – pagg.90/99Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini, Roma – pag.90Cassa di Risparmio di Venezia - pagg.95/98Kunsthistorisches Museum, Wien – pag.97Arsenale Editrice, Venezia – pag.101Kunsthalle Hamburg – pag.103 Fitzwilliam Museum, Cambridge – pagg.107/108Richard Green Gallery, London – pag.108Albans Colnaghi Collection, London – pag.108Museum of Fine Arts, Springfield – pag.125Pinacoteca di Brera, Milano – pagg.181/202

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Atti del Seminario “Il vedutismo veneziano: una nuova visione”27 maggio 2011Pinacoteca di Brera, Milano Progetto editoriale a cura di Fondazione Bracco

Redazione editorialeFondazione Bracco Progetto GraficoDario Zannier

© 2011 – Fondazione BraccoTutti i diritti riservatiwww.fondazionebracco.com

I testi degli interventi sono stati rivisti ed autorizzati dai Relatori.

Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore.

Finito di stampare nel mese di gennaio 2012 presso Italgraf, Rubiera (RE)Printed in Italy

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Il vedutismo veneziano: una nuova visione

Atti del Seminario 27 maggio 2011

Sala della PassionePinacoteca di Brera, Milano

27 maggio 2011

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www.fondazionebracco.com

A Venezia, dipingi, dipingi! Ti grida la luce, scambiandoti per un

Canaletto, un Carpaccio, un Guardi