Il Trono delle Ombre - cap_1_6

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Chinerai il capo sotto il suo peso perché anche tu sei soltanto un uomo. Avvertirai il gelo della terra perché non le sopravvivrai. Benedirai l’abbraccio del metallo perché sarà il tuo unico alleato. Odierai la vista dei suoi rubini perché regnerai nel sangue. (monito dell’artefice della Corona Nera) 0050.testo.indd 7 27/07/11 16:50

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Primi 6 capitoli del romanzo fantasy "Il Trono delle Ombre" di Giovanni Pagogna, pubblicato dalla Rizzoli.

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Chinerai il capo sotto il suo pesoperché anche tu sei soltanto un uomo.

Avvertirai il gelo della terraperché non le sopravvivrai.

Benedirai l’abbraccio del metalloperché sarà il tuo unico alleato.Odierai la vista dei suoi rubini

perché regnerai nel sangue.

(monito dell’artefice della Corona Nera)

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Prologo

L’urlo lacerò il silenzio della foresta, fulmineo e terribile. Quella voce roca non sembrava nemmeno appartenere a un essere umano, così come il corpo straziato dal quale proveniva, e colpì Sigurd come un pugno nello stomaco, facendolo vacillare. Vide il carnefice, un vecchio guerriero la cui criniera dorata cominciava a venarsi d’argento, strap-pare l’ennesimo brandello di carne dal petto dell’uomo e gettarlo nel fuoco con un ghigno malvagio.

Il nauseante odore di bruciato lo raggiunse. Il giovane distolse lo sguardo e si sforzò di svuotare la mente. Doveva mostrarsi degno, si ripeté. Era cresciuto in mezzo a uomini forti, brutali, che gli avevano raccontato mille volte ogni loro impresa e ogni sopruso colviano, eppure non era pronto a nulla di ciò che aveva visto quel giorno.

Donne in lacrime trascinate nel fango per i capelli mentre i loro figli bruciavano vivi nelle case date alle fiamme. Guer-rieri di cui conosceva le spose che gemevano selvaggiamente sopra ragazze gettate sui cadaveri ancora caldi di padri e fratelli. Uomini devoti che trascuravano i sacrifici agli dèi, squartando i prigionieri per pascere tra i corpi sbudellati come porci nel trogolo e vantarsi delle barbe fradice di sangue e delle collane di orecchie mozzate e ossa ancora coperte di brandelli di carne umana.

Questo era ciò che avrebbe avuto ogni giorno nel leggen-dario Rekborg, gli avevano detto. Ogni giorno fino alla fine dei tempi, quando il fato degli dèi si sarebbe compiuto e lui

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avrebbe lasciato un’ultima volta il paradiso dei guerrieri per affrontare demoni e giganti. Quell’orgia di violenza rendeva la vita degna di essere vissuta, avevano ripetuto.

L’uomo accanto a lui, un colosso dal ventre a botte e i denti marci di nome Sven, infilzò il brano di pelle e glielo accostò al viso.

«Annusa! Senti come puzzano di porco i colviani!» sbraitò ridendo sguaiatamente.

Il lezzo della carne carbonizzata si mescolò al fiato tiepido e disgustoso dell’ubriaco. Sigurd si ritrasse ancora di più.

Il bestione allora lo prese per i capelli e lo costrinse ad avvicinarsi.

«Cosa c’è, ti fa schifo? Chi ti ha partorito, ragazzo, una femmina eidr o una pecora?»

Tutti gli sguardi erano puntati su di loro, Sigurd si sentì avvampare. Le risate lo colpivano come schiaffi.

«Rispondi!» gli urlò in faccia l’altro. La stretta si fece più forte e il dolore gli restituì lucidità.

«Una donna. Le pecore erano impegnate con tuo padre» sibilò simulando un’audacia che non possedeva.

Altre risa, ma stavolta non destinate a lui. Sven si pietrificò per un lungo istante, come se le parole stessero cercando di farsi strada attraverso i fumi dell’alcol, poi ebbe un fremito e le vene del collo cominciarono a pulsare.

Tutto intorno gli altri rimasero immobili e si fecero d’im-provviso taciturni, consci della tensione che serpeggiava. Le mani scivolarono lentamente verso le armi: nessuno sapeva quale piega avrebbero preso gli eventi. Gli Eidr potevano uccidere per un’offesa del genere.

Il mento del bruto si increspò sempre di più, finché questi mollò la presa e scoppiò a ridere, imitato da tutti.

«Ben detto, cucciolo! Forse un po’ di sangue nelle vene ce l’hai. Ora dimostracelo» tuonò passandogli un pugnale e trascinandolo per un braccio fino all’albero cui era legato il prigioniero.

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Il vecchio guerriero scosse la testa, dispiaciuto per aver perso la sua fonte di piacere. «È andato, non sente più niente.»

Raccolse un tizzone ardente dal fuoco, si chinò tra le gambe immobilizzate e lo conficcò con forza, impalando il prigioniero. La carne martoriata sfrigolò e il contraccolpo fece sussultare il corpo, ma la testa tornò immediatamente a ciondolare, inerte.

Il vecchio si strinse nelle spalle, come a sottolineare che l’aveva detto.

L’enorme mano dell’ubriaco si serrò sul mento scarni-ficato e lo sollevò.

«Guardalo! Credi che i colviani si siano comportati diversamente con i tuoi avi? Facciamo giustizia. Solo giu-stizia, mi hai capito? Il nostro rancore non sarà placato finché l’ultimo di loro occuperà una sola spanna di questa terra!» gridò paonazzo.

Tutto intorno vi fu un coro di assensi. Non c’era uomo tra loro che non avesse perso cari e terre durante la guerra e la successiva occupazione.

Il bestione costrinse il giovane a posare la mano destra sul petto del cadavere.

«Giuralo! Giuralo sul sangue!» intimò.Sigurd non poté evitare di contemplare l’orrore che

aveva di fronte: le palpebre erano state tagliate, il naso e le orecchie mozzati, lo scalpo strappato fino a scoprire il cra-nio. Troppo per lui: si divincolò e corse tra i cespugli, dove crollò in ginocchio e vomitò. Continuò a essere scosso da conati e singhiozzi, gli occhi erano offuscati di lacrime per lo sforzo o magari stava piangendo, preferì non scoprirlo. Pregò silenzioso gli dèi che nessuno lo venisse a cercare, l’umiliazione sarebbe stata incancellabile. Strappò una man-ciata d’erba, cercando di ripulirsi prima di tornare verso il bivacco, nonostante il malessere non accennasse a scemare.

Si trovava ancora carponi in mezzo alle frasche, con un

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rivoltante sapore acidulo in gola, quando un pugno di uomini fece irruzione nella radura e si scatenò il caos.

Sigurd vide due suoi compagni alzarsi di scatto e venire abbattuti dai giavellotti scagliati dai nemici, armati con lance, spade e scudi. Non c’erano dubbi. Legionari colviani.

La sorpresa svanì in fretta, i guerrieri eidr impugnarono le asce e si avventarono contro gli assalitori. Nel mezzo della mischia, uno spiccava tra tutti: alto e possente, indossava un’armatura più pesante e combatteva con furia inconte-nibile. Aveva atterrato un uomo dopo l’altro quasi senza sforzo fino a raggiungere Sven. Sigurd vide il legionario rannicchiarsi dietro lo scudo e caricare come un toro mentre il colosso ubriaco mulinava l’ascia sopra la testa. Il colpo si abbatté violentissimo, ma il colviano, più veloce, gli fu addosso in un baleno. I gomiti dell’eidr cozzarono sulle spalle protette dall’armatura e l’arma gli sfuggì di mano, scivolando inerte sulla lorica di bronzo. Caddero insieme sul grande fuoco del bivacco, ma solo lo straniero si rialzò, fulmineo. Schiantò il bordo inferiore dello scudo sulla gola dell’eidr, che strillava avvolto dalle fiamme, quindi lo infilzò con la lancia, inchiodandolo su quella che era divenuta una pira.

Il legionario gettò via lo scudo, sguainò la spada e il pugnale e scrutò come un predatore affamato la battaglia che gli infuriava intorno.

Gli uomini correvano in ogni direzione, cadevano, si rialzavano, colpivano e cadevano ancora, passando in un attimo davanti al suo nascondiglio oppure oltre il fuoco dove il barbaro aveva smesso di contorcersi. In quel delirio non c’era traccia di eroismo né degli epici duelli celebrati nei poemi che lo avevano infervorato durante i banchetti. Era soltanto una disperata lotta per la vita.

Due uomini ruzzolarono a terra a un passo dal cespuglio, avvinghiati come cani rabbiosi. Entrambi avevano perso le armi e lottavano a mani nude. Sigurd riconobbe Ingvar, un

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ragazzo del suo villaggio, che riuscì a schiacciare l’avversario sotto il proprio peso e si accinse a strangolarlo, ma questi gli artigliò gli occhi, facendogli perdere la presa. Rotola-rono mordendo e scalciando finché il soldato non riuscì ad afferrare un sasso, con il quale colpì Ingvar alla tempia. Stravolto e ansimante, il legionario si mise a cavalcioni su di lui e lo percosse ripetutamente con la pietra, stringendola con entrambe le mani. Il braccio dell’eidr, levato a disperata difesa, ricadde mentre il colviano infieriva, imbrattato dal sangue e dalla materia grigia che schizzavano a ogni colpo. Un urlo rabbioso sovrastò il fragore dello scontro e anche il legionario cadde morto. Uno stivale si posò sulla faccia del cadavere, mentre Ragnar, il fratello di Ingvar, faceva leva per svellere l’ascia rimasta conficcata nel cranio del nemico. Aveva vendicato il fratello, ma era arrivato troppo tardi per salvargli la vita, mentre Sigurd non aveva mosso un dito per aiutarlo. Il ragazzo non se la sentì di alzare lo sguardo, sapeva già che avrebbe incontrato solo disprezzo. Lo sputo lo centrò sulla guancia, viscido e schifoso. Inca-pace di reagire e consapevole che Ragnar avrebbe potuto reclamare la sua vita come prezzo per il disonore, il giovane rimase immobile anche quando l’ascia si sollevò ancora. L’arma tracciò una mezzaluna e intercettò un affondo del guerriero nemico che poco prima aveva bruciato vivo Sven, neutralizzandolo. Ragnar lo incalzò con rapide spazzate, ma il colviano scartò di lato e contrattaccò. Fu così rapido che Sigurd vide solo il bagliore rossiccio delle fiamme guizzare sulla lama e subito dopo all’eidr non restava che un mon-cherino sanguinante, mentre la mano mozzata rotolava a terra ancora serrata intorno all’ascia. Prima che Ragnar si rendesse conto di quant’era accaduto, il legionario gli scivolò alle spalle e lo sgozzò.

Il giovane si rintanò ancora più a fondo nel cespuglio e cercò di seguire i movimenti dello straniero che l’aveva sbalordito con la sua ferocia, ma gli sembrava che fosse

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ovunque, intento a menare fendenti come un demone. Non aveva mai visto combattere così: gli altri al confronto erano goffi e impacciati. Lo ritrovò dall’altra parte del campo, impegnato in un nuovo duello: il colviano girò intorno a un guerriero ipnotizzandolo con una sequenza di parate e affondi, gli conficcò il pugnale nell’incavo del ginocchio e, quando l’avversario crollò a terra, lo decapitò con un singolo colpo di spada.

Sigurd fu scosso da una manata sulla spalla e di colpo non udì più il clangore delle armi né le urla. Sobbalzò ter-rorizzato, trovandosi di fronte il vecchio, che gli tappò la bocca per impedirgli di urlare e gli sussurrò poche parole all’orecchio.

«Taci e seguimi, se hai cara la pelle.»«Dovremmo aiutare i nostri fratelli!» ribatté il giovane

appena l’altro tolse la mano.«Già, come hai fatto finora. Non sono diventato vecchio

combattendo battaglie perse. Vieni con me, mezza lega più avanti c’è un buon punto per seminare i colviani. Ti porterò fin laggiù, poi ci divideremo per confonderli. Se saremo fortunati, ci rivedremo al villaggio.»

Ignorando la provocazione, Sigurd gettò un’ultima occhiata verso la radura prima di fuggire. Ormai gli eidr erano rimasti in pochi, i nemici stavano prendendo il soprav-vento. Il loro campione si trovava di nuovo vicino al fuoco. Le fiamme scintillavano sulla sua armatura, sui muscoli e sulle lame, lucidi di sangue e sudore, e si riflettevano sugli occhi, di un verde tenue, felino, fissi su di lui come quelli di un rapace.

“Com’è possibile che ci abbia visti?” si domandò incre-dulo. Erano immersi nell’oscurità della foresta e il colviano doveva essere accecato dal fuoco. Fece qualche passo nella scia del vecchio, ma non resistette alla tentazione di voltarsi e guardare ancora: il legionario era scomparso.

Corsero a perdifiato senza più voltarsi indietro.

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Il vecchio cominciò a pensare di avercela fatta, non man-cava molto alla biforcazione che ricordava. Non aveva detto al ragazzo che per sé avrebbe scelto la pista rocciosa, dura, su cui non restavano tracce, mentre a lui sarebbe toccato un terreno facile che avrebbe spinto i colviani a braccarlo. Non era diventato vecchio nemmeno grazie alla sua generosità.

Aveva il fiato grosso, non avrebbe potuto tenere quel ritmo a lungo. Il giovane, al contrario, doveva trattenersi per non lasciarlo indietro. Era un ingenuo, meritava di morire.

«Chi è quello?» chiese il ragazzo senza rallentare il passo.Il vecchio gli scoccò un’occhiata infastidita.La foresta scorreva intorno a loro sempre uguale. Tron-

chi, rami e foglie, nient’altro che tronchi, rami e foglie. Divoravano il sentiero senza nemmeno spostare le fronde che si protendevano verso di loro, tuffandosi alla cieca nelle tenebre.

L’altro insistette.«Chi era quel demone uscito dagli inferi, Olaf?»Parlare equivaleva a sprecare fiato, soprattutto per lui

che non ne aveva, però gli rispose ugualmente, convinto che poi avrebbe taciuto.

«È un grande guerriero» rantolò il veterano, spezzando le frasi al ritmo del suo respiro. «Comanda i bastardi che occupano le nostre terre. È il serpente più velenoso di quel nido di vipere.»

«Come si chiama?»Il vecchio non rispose e Sigurd si voltò per controllare

se fosse rimasto indietro. Con la coda dell’occhio scorse qualcosa emergere improvvisamente dall’ombra, poi la gamba sinistra cedette e si trovò a terra. Voleva rialzarsi, ma le gambe non rispondevano. Non sentiva dolore, non sentiva nulla. Rotolò su un fianco e si tastò il corpo, ritra-endo le mani viscide e appiccicose. Le guardò più volte. Non era sangue, sembrava così chiaro alla luce della luna. Non poteva essere il suo sangue. Tornò a sfiorarsi il ventre e

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sentì i lembi di una ferita, uno squarcio che gli attraversava l’addome. Di colpo avvertì un freddo profondo.

La vista si stava appannando, ma riuscì a individuare Olaf. Si era accasciato contro un albero pochi passi più indietro e anche lui si teneva il ventre, da cui fuoriusciva una massa scivolosa.

L’ufficiale colviano torreggiava silenzioso su di loro, guardandoli morire. Il sangue gocciolava pigro dalla punta delle sue armi.

Le ferite all’addome uccidono lentamente e in modo atroce. Quella era la punizione per ciò che avevano fatto, non ci sarebbe stata misericordia. Il vecchio mormorò un’ultima parola colma di terrore mentre fiotti di sangue uscivano sempre più copiosi dalla sua bocca.

«Yanvas.»

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Capitolo 1

La luce calda e dorata del tardo pomeriggio inondava la vallata, refoli di vento sferzavano l’erba, i cui ciuffi cresciuti ai margini della mulattiera sfioravano le gambe muscolose e abbronzate dei legionari che ne percorrevano i tornanti. La strada era stata scavata nel fianco della collina dai genieri parecchi anni prima per trasportare il legname necessario alla costruzione del Vallo Dolagirt, una titanica opera difen-siva destinata a marcare il confine tra l’Impero Colviano e l’indomito popolo degli Eidr. Erano trascorsi tre inverni da quando i buoi avevano trascinato a valle l’ultimo tronco e la natura aveva cominciato a sanare quella ferita. Le zolle d’erba si protendevano oltre i bordi e avevano colonizzato le poche chiazze di terra rimaste dopo che carri e intemperie l’avevano erosa fino a scoprire uno strato duro e irregolare di pietre, ghiaia e radici nodose. Era su quel suolo aspro che si posavano rapidi e leggeri i calzari chiodati dei venti uomini della pattuglia, esperti veterani che dovevano quasi sforzarsi per non marciare all’unisono come erano abituati a fare fin da quando erano ragazzi. Gli ordini però erano stati perentori: la valle era aperta e il vento poteva portare lontano il suono del passo ritmato sui ciottoli. Per lo stesso motivo, il comandante aveva ordinato di nascondere gli elmi sotto i mantelli e coprire tutte le superfici metalliche: sareb-be bastato un riflesso per tradirli anche a grande distanza.

Lo scricchiolio dei passi era attutito dal frusciare della vegetazione e dall’incessante frinire delle cicale. Il silenzio

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era rotto di tanto in tanto da imprecazioni smorzate quando un uomo incespicava, ma erano poco più che sussurri quelli che giungevano alle orecchie di Yanvas, l’ufficiale in testa alla colonna, niente per cui adirarsi. Come i suoi uomini, aveva fatto il soldato per tutta la vita ed era arrivato fino al grado di comandante della cavalleria della sua legione d’appartenenza, la Quarta, anche se negli ultimi anni aveva combattuto come fante, alla testa di piccoli distaccamenti di esploratori. Alla sua unità era affidata la protezione del limitare orientale del Vallo, dove le asperità dei Monti Utrisar impedivano di rendere impenetrabili le frontiere con forti e muraglie, facendone una via d’accesso privilegiata per le bande di guerrieri che rifiutavano la cessazione delle ostilità con l’Impero.

La conoscenza eidr del territorio era ineguagliabile: sapevano scivolare tra le montagne come spettri e per la rigida dottrina militare colviana non era stato facile contra-starli, ma Yanvas aveva intuito che avrebbe dovuto ribaltare l’approccio basato sulla forza bruta e batterli in astuzia. Aveva suggerito di stabilire una rete di piccoli avamposti per incanalare i nemici verso dei passaggi obbligati, dove li attendevano imboscate tese dai legionari.

La pattuglia era partita con l’intento di sfruttare la coper-tura delle tenebre per raggiungere uno dei presidi più lon-tani, posto a guardia delle sorgenti del fiume che lambiva il campo principale. Anche se avrebbero seguito Yanvas persino nell’Abisso senza lamentarsi, gli uomini non ama-vano muoversi di notte, soprattutto Airril, il mezzosangue delle Terre Selvagge e miglior battitore di piste della legione. Si sentivano vulnerabili, sapevano che ogni ombra poteva celare un nemico in agguato, specie da quando circolavano voci sul ritorno del Guercio, il più feroce e sfuggente tra tutti i predoni.

Incursioni e saccheggi facevano parte della cultura eidr, per secoli ne erano stati la principale fonte di sostentamento

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e le loro leggi affermavano che un uomo in stato di biso-gno poteva sentirsi libero di appropriarsi del necessario per sopravvivere, ovunque fosse. Gli altri razziatori erano per l’appunto tali, cani rognosi che vagavano alla ricerca di bersagli facili e carogne da spolpare. Attaccavano le fattorie, portavano via provviste e bestiame, talvolta anche donne da tenere come schiave e concubine. Non di rado gozzovigliavano sul posto e i legionari li sorprendevano a dormire nei letti delle vittime, ancora ebbri di sangue e birra.

Il Guercio era diverso: se gli altri erano cani, lui era un lupo. Non si accontentava di rosicchiare gli avanzi gettati nel cortile dell’Impero, andava a caccia e, anzi, sembrava provare piacere nell’affrontare sfide proibitive. Non attac-cava fattorie se non come diversivo, i suoi bersagli prediletti erano acquartieramenti, granai, mulini, locande di posta, tutti obiettivi ben difesi o dall’elevato valore strategico.

Nessuno sapeva come si chiamasse, di lui si raccontava che fosse un uomo snello, biondo e sfregiato da una vistosa cicatrice che arrivava fino all’orbita vuota. La vaga descri-zione l’aveva fornita uno schiavo, l’unico sopravvissuto dopo l’attacco a una torre di segnalazione poco distante da dove si trovavano. Lo schiavo non conosceva la lingua eidr e non aveva potuto dialogare con il Guercio, ma era convinto che in quella voce roca ci fosse stata della pietà nei suoi confronti, perché, aveva detto, erano fratelli di fronte all’oppressione colviana. In pochi conoscevano questi par-ticolari, la corona non voleva che trapelasse il lato umano del nemico: per il volgo gli Eidr non facevano prigionieri. Il Ducato di Grelian, così si chiamava il feudo protetto dal Vallo, era stato strappato loro in tempi recenti, perciò gli sconfitti andavano demonizzati e ostracizzati, non si dove-va permettere che i coloni provassero empatia o la nuova autorità non si sarebbe mai consolidata.

Yanvas non condivideva quei metodi, ma li comprende-

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va. Era cresciuto nell’Eiam Vurd, oltre le montagne, dove il padre aveva servito anch’egli come ufficiale di carriera finché una ferita l’aveva reso invalido. Lì gli ippogrifi delle legioni, i vessilli raffiguranti gli animali fantastici metà gri-fone e metà cavallo, non erano benvenuti nemmeno dopo un secolo d’occupazione. Colvian, fondatore dell’Impero, li aveva scelti alla vigilia dell’incoronazione per simboleggiare la fierezza e la forza che avrebbero portato la sua gente all’egemonia. Secondo i bestiari, gli ippogrifi vivevano sulle cime inaccessibili dei Monti Fiamma Nera ed erano tra i pochi nemici naturali dei giganti – altro tratto che aveva affascinato il condottiero –, ai quali davano la caccia per cibarsene e adornare i propri nidi con le loro barbe, scalpi e pellicce. L’esistenza di questi esseri era messa in dubbio dagli scettici dopo che l’esplorazione della catena non aveva portato ad alcun avvistamento, ma nel tesoro imperiale era conservato un uovo gigantesco, che si diceva rinvenuto da Colvian in persona.

L’Eiam Vurd era stato conquistato da Avrian, il terzo imperatore, solo per rendere più sicure le frontiere meri-dionali. Non era stata attuata nessuna politica di assimila-zione culturale, nella convinzione di rendere meno invisi i colviani. Al contrario, tradizioni e credenze religiose avevano finito per esasperare la separazione tra i locali e i pochi coloni e legionari, suscitando un rancoroso senti-mento nazionalista.

Yanvas ricordava la lugubre atmosfera che regnava all’ini-zio dell’inverno, quando nei villaggi si eseguivano per giorni rituali volti a scongiurare il ritorno dei morti. L’ossessione per i trapassati pervadeva ogni aspetto della vita in quella regione, e lui aveva impiegato molto tempo a liberarse-ne nonostante fosse un uomo razionale e avesse ricevuto un’istruzione rigorosa. Rimpiangeva gli anni spensierati e la natura selvaggia teatro di tante avventure adolescenziali: per questo aveva accettato di buon grado il compito di

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occuparsi di quel settore delle difese, ritenuto rischioso e ingrato dagli altri ufficiali.

Rinvigorito dai ricordi, aveva accelerato il passo ed era giunto presso un tornante affiancato da una bassa scarpata di terreno sabbioso e friabile, sovrastata da una vecchia ceppaia; era il punto di riferimento per riconoscere l’inizio del sentiero che avrebbero imboccato. Afferrò una radice protesa a mezz’aria e con un’ampia falcata abbandonò la mulattiera. Il sudore colava sul volto severo, lungo il collo e sotto il pettorale dell’armatura, inzuppando la veste leggera e scivolando lungo le braccia muscolose fino ai massicci bracciali di cuoio e bronzo, oggetti cui era profondamente legato. Li aveva ricevuti dal padre alla vigilia della sua prima campagna, come lui li aveva ricevuti dal proprio, e così via di generazione in generazione. Il cuoio era sbiadito e logoro, specie quello del bracciale sinistro contro cui sfregavano le cinghie dello scudo, crepato vicino alle placche di bronzo su cui campeggiavano due ippogrifi consunti dal tempo. In origine erano appartenuti a un arciere, quando ancora Colvian non aveva plasmato le legioni in una formidabile macchina bellica, e da allora erano passati al secondo figlio maschio di ogni generazione così come le terre andavano al primogenito. Il primo figlio riceveva l’investitura dall’im-peratore, il secondo gli donava la sua vita, come recitava il motto dei Talendyr, la sua casata: “Dalla corona l’onore, per la corona il sangue”.

Sganciò l’otre dalla cintura e bevve tre piccoli sorsi mentre aspettava gli altri. Aveva guadagnato un certo vantaggio, perciò appoggiò una gamba sul moncone di legno ingrigi-to e scrutò la valle sottostante. Si rilassò, ammirato per la poesia dell’erba che si piegava al vento creando l’illusione delle onde su un mare appena increspato, punteggiato da isole di vegetazione più fitta, faggi e frassini risparmiati dalle asce perché troppo piccoli, flutti destinati a infrangersi sulle scogliere del monte antistante. In lontananza, quasi

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invisibili nell’ombra del fondovalle, si intuivano le sagome del campo trincerato da cui provenivano e il grigio serpente di pietra del Vallo, che da lì si snodava ininterrotto fino al mare, a dieci giorni di marcia verso ovest.

I suoi occhi però non stavano solo ammirando il pae-saggio idilliaco, cercavano tracce del nemico: un riflesso all’orizzonte, piante che si spostavano controvento, stormi di uccelli che si levavano in volo; notare un piccolo parti-colare poteva segnare un vantaggio incolmabile nella lotta per la sopravvivenza. Sembrava tutto tranquillo. Poteva significare che non c’era pericolo o che il nemico era così abile da non farsi scoprire, ma non permise a questi pen-sieri di impadronirsi di lui: la tensione l’avrebbe logorato, lasciandolo privo di energie nervose quando invece da esse sarebbe dipesa la loro vita.

Si carezzò la mascella coperta da un velo di barba ispida e scura: come il resto della sua pattuglia, smetteva di radersi e lavarsi alcuni giorni prima di uscire in missione. Gli Eidr, infatti, addestravano i cani a seguire le tracce lasciate dai legionari, che alle terme usavano oli ed essenze, perciò biso-gnava fare in modo di puzzare come barbari, affinché dietro di loro restasse soltanto odore di uomo, non di colviano.

Airril lo raggiunse per primo. Yanvas gli tese la mano e lo aiutò a salire, poi ripeté lo stesso gesto con ogni uomo della pattuglia. Non era necessario, erano soldati temprati e dalla resistenza ferrea, ma colse l’occasione per guardarli negli occhi. Non lesse stanchezza sui loro volti, solo deter-minazione a portare a termine la missione. Non sorrise né ammiccò incrociandone gli sguardi, non era una chioccia e non occorreva rassicurarli, erano veterani. Senza bisogno di ordini, si dispersero al limitare del bosco per una breve sosta. Yanvas era un comandante severo ma giusto, idolatrato perché condivideva ogni disagio e, quando necessario, anche le privazioni della vita in una regione di frontiera. Non si contavano le occasioni in cui aveva dormito all’addiaccio

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protetto solo da una coperta da sella, si era sfamato con bacche ed erbe raccolte attorno al bivacco oppure aveva marciato oberato dal peso delle armi di un ferito, oltre che delle proprie.

Quando Airril aveva trascorso la prima notte da effettivo della Quarta, era stato circondato da una manciata di sol-dati sfaccendati che avevano preso a schernirlo e chiamarlo schiavo per via delle sue origini. Aveva cercato di tirare dritto per la sua strada, capendo che cercavano un pretesto per una rissa, ma non c’era stato verso di evitare il confronto. Ben presto si era trovato a terra travolto da calci e pugni, non prima però di avere steso due aggressori. Yanvas si era avventato su di loro come una furia, colpendo con il piatto del gladio finché nessuno era rimasto in piedi. Non aveva voluto sentire ragioni, li aveva condotti ai margini del campo armati di zappe e picconi e messi tutti, Airril compreso, a scavare un profondo fossato. Avevano lavorato sotto il suo sguardo severo fino al tramonto del giorno seguente senza cibo né acqua. Il nuovo arrivato aveva sopportato la puni-zione in silenzio e, alla fine della giornata, la fatica comune lo aveva fatto accettare dai commilitoni, che non l’avrebbero più vessato. Airril sapeva che, per quanto l’ufficiale fosse stato duro, qualsiasi altro provvedimento lo avrebbe messo in guai anche peggiori e da quel momento aveva sviluppato un profondo rispetto per lui.

I più scaltri, o forse cinici, capivano che non era un malcelato senso di uguaglianza o di umanità a muoverlo, le barriere sociali colviane erano invalicabili e radicate a fondo, ma un inflessibile senso del dovere nei confronti dell’Impero. Paradossalmente, ciò aumentava la fiducia che riponevano in lui, perché sapevano che un uomo mosso solo dai buoni sentimenti può voltare le spalle ai compagni se terrorizzato, mentre la ferrea disciplina regge l’urto della battaglia.

Yanvas e Airril si scambiarono un’occhiata, era tempo di rimettersi in marcia. La sosta non era servita per riposare,

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ma per entrare in sintonia con il nuovo ambiente: dovevano fermarsi ad ascoltare il bosco, familiarizzare con suoni e odori per cogliere anomalie che altrimenti la mente avrebbe accantonato senza prestarvi attenzione.

Si avviarono a distanza di una ventina di passi l’uno dall’altro: al limitare del bosco un gruppo numeroso poteva ancora risultare visibile dal basso o dal costone opposto. Il cacciatore delle Terre Selvagge andò in avanscoperta, la foresta era il suo terreno, mentre Yanvas guidava la fila di uomini lungo uno stretto sentiero seguito dagli animali per abbeverarsi alla sorgente. Quello che stavano percorrendo era di gran lunga il tratto preferito dall’ufficiale colviano, il più simile ai boschi in cui aveva passato infinite giornate a immaginare avventure ed esplorare ogni anfratto. I passi risuonavano sordi sulla terra battuta del sentiero, coperta da un sottile strato di aghi rinsecchiti, una sorta di tappe-to color ruggine nel verde del sottobosco, che seguiva il dolce saliscendi del terreno in cui le radici dei grandi abeti rossi abbozzavano scalinate irregolari. Di tanto in tanto la pattuglia attraversava zone più umide, caratterizzate da un fitto manto erboso e soffici distese di muschio ed erica, che scricchiolava in modo inconfondibile cedendo sotto il peso degli uomini quando rallentavano appena per cogliere un mirtillo o minuscole fragole di un rosa pallido, ma dal sapore straordinariamente dolce e rinfrescante.

Passando accanto a un giovane abete con un ramo spez-zato, Yanvas staccò un grumo di resina appena indurita, che prese a masticare lentamente, assaporandone il forte gusto aromatico. L’aveva imparato seguendo Zorav, l’uomo che allevava i cani da caccia per suo padre, nelle lunghe uscite alla ricerca di buone località in cui portare gli ospiti per le loro battute di caccia.

Uscivano prima dell’alba, in modo che Yanvas non tar-dasse alle lezioni del maestro d’armi e dei precettori, quando la foschia del mattino non si era ancora diradata e le sagome

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spoglie degli alberi morti assumevano un aspetto lugubre che lo spingeva ad accelerare il passo per restare accanto all’esperto uomo dei boschi, il quale spesso imprecava per l’intralcio. Nonostante i modi burberi, però, il servitore non lesinava consigli e indicazioni su cosa la natura potesse offrire a chi sapeva cosa cercare, specie quando si trattava delle bacche di ginepro, delle pigne di pino mugo e dei frutti del pruno selvatico, con cui preparava liquori forti come il bahercis, di un intenso colore rosso.

Yanvas sapeva che la madre mal sopportava tale pro-miscuità sociale e che il figlio accettasse di buon grado cibi così rozzi, ma lei non aveva mai osato farlo notare in pubblico. Era stato il fratello maggiore, Imian, a riferir-glielo per rimarcare i loro differenti destini: Imian viveva sotto una campana di vetro, istruito ed educato alla più raffinata filosofia colviana e ai protocolli di corte, mentre Yanvas era destinato a servire in armi per gran parte della vita in luoghi mai sentiti nominare. Ma non gli importava, il padre gli aveva spiegato quale sarebbe stato il suo destino, lo stesso che anche lui aveva dovuto accettare a suo tempo. Aveva favoleggiato delle legioni il cui passo scuoteva la terra, della gloria e della dedizione alla corona. L’etichetta sul campo di battaglia era soltanto un limite, anche se non doveva trascurarla se voleva godere di un certo ascenden-te sui sottoposti. Non bisognava aspettarsi che il nemico rispettasse alcuna regola, non era un torneo per dame e bellimbusti, perciò doveva fare tesoro dell’opportunità di imparare anche dal più umile dei servi e trattarlo con equità e rispetto. Esempio e autorevolezza, non spocchia e autoritarismo: quella era la chiave per il cuore degli uomini. Yanvas si chiedeva spesso se quelle parole fossero state dettate dal disprezzo verso il fratello debosciato, per il quale il padre non provava la stessa affinità che lo univa al secondogenito.

Le riflessioni furono interrotte dall’avvicinarsi di Airril,

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che aveva ridisceso il sentiero con il caratteristico passo felino.

«Cosa c’è, Airril?» sussurrò Yanvas, allentando la lama nel fodero.

Alle sue spalle tutti sguainarono le armi.«Una frana, non possiamo proseguire.»Poteva essere una trappola per condurli verso un’im-

boscata. Gli Eidr imparavano in fretta a ritorcere contro il nemico le sue stesse tattiche, perciò decise di andare a controllare di persona.

Salirono rapidi gli ultimi metri fino a una sella oltre la quale il sentiero cominciava a digradare e raggiungeva la gola dove sorgeva l’avamposto a guardia delle sorgen-ti. Appena oltre la sommità si apriva una voragine larga parecchi metri. Il terreno era impraticabile, le radici delle numerose piante cadute si protendevano verso l’alto come una falange di lance.

«Non vedo tracce» disse sottovoce al battitore.«Non ce ne sono. Guardate lì, neanche i giganti possono

sradicare piante del genere.»«Sono d’accordo, gli Eidr non avrebbero mai potuto

provocare una cosa simile.»«Comunque di qui non si passa, attraversare quel gro-

viglio significa solo andare in cerca di rogne.»«Più in alto il terreno è roccioso e non ci sono piste.

Dobbiamo costeggiare il monte.»«Il buio scenderà presto, meglio fare il giro e ritrovare

il sentiero prima dell’imbrunire o sarà difficile orientarci.»Yanvas batté una mano sulla spalla di Airril e con il

pollice gli fece segno di tornare indietro.Raggiunsero gli altri e con pochi sussurri li informarono

dell’accaduto, quindi intrapresero la marcia attorno al fianco della montagna. Per guadagnare tempo avanzavano di corsa, alternando scatti a brevi soste. Yanvas aveva diviso la pat-tuglia in due colonne che si tenevano in continuo contatto

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visivo, separate da pochi metri. Quando una correva, l’altra si fermava a rifiatare e a sorvegliare i dintorni per coprirle le spalle, in una continua staffetta.

A causa dell’imprevisto, il tempo scarseggiava: la luce diminuiva a vista d’occhio e dovevano riuscire a ritrovare la pista prima che calasse l’oscurità, altrimenti la natura più aspra dell’altro versante li avrebbe costretti a rallentare o addirittura fermarsi fino all’alba.

Giunsero sfiancati nel punto in cui la montagna si assot-tigliava come la prua di una nave, un costone spazzato dal vento dove il bosco si riduceva a pochi alberi bassi e contorti e grovigli di rovi in cui era difficile districarsi. Quello era il passaggio più esposto, senza la copertura offerta dalle fronde sarebbero stati fin troppo visibili e non sapevano se qualcuno attendesse in agguato oltre la stretta svolta. I soldati scostarono i lembi dei mantelli per essere più liberi nei movimenti, mentre Yanvas impartiva gli ultimi ordini.

«Andremo a coppie e non ci fermeremo finché non sare-mo al riparo dall’altra parte. Non restate allo scoperto o sarà come chiamare gli Eidr a gran voce per dirgli dove siamo. Sull’altro versante state pronti a tutto. All’inizio saremo pochi e separati, se ci attaccheranno restate al limitare del bosco o verremo circondati. Qualsiasi cosa succeda, non fatevi prendere vivi.»

Fece partire la prima coppia e mormorò un’invocazione a Reverion, il dio della guerra. Muoversi in quel modo era imprudente, quasi suicida, ma gli eventi lo avevano privato di alternative e doveva correre il rischio di infilarsi a testa bassa nella tana del lupo.

I due uomini scomparvero oltre il crinale in mezzo a un trambusto di rami spezzati ed erba secca. Yanvas trasse un profondo respiro e scattò, imitato poco più in basso da un membro dell’altra colonna. Il terreno era infido, non vedeva bene dove metteva i piedi, correva saltellando per non caricare tutto il peso su un’unica gamba: sarebbe

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bastato un attimo per procurarsi una slogatura. I rovi si attorcigliavano attorno alla punta dei calzari, le zolle d’erba cedevano privandolo dell’appoggio e le radici nascoste lo costringevano a un equilibrio precario basato sullo slancio: se solo avesse rallentato, sarebbe ruzzolato a terra come un vecchio ubriacone.

Raggiunse l’estremità del costone e si aggrappò ai rami di un abete macilento per darsi lo slancio, ma il legno sec-co si spezzò. Yanvas annaspò alla ricerca di un appiglio e cadde pesantemente sul fianco sinistro. Si ritrovò supino e senza fiato, vulnerabile come una tartaruga rovesciata. Rimase immobile per qualche secondo e poi, accertatosi di essere ancora tutto intero, rotolò sul fianco per rimet-tersi in piedi. Girandosi, vide lo spuntone di un tronco abbattuto emergere tra i fili d’erba a una spanna da dov’era caduto: aveva rischiato di finire impalato. Fece segno al soldato che lo seguiva di continuare e raggiungere gli altri, quindi impose alle gambe tremanti di rimettersi in moto e si lanciò verso una macchia d’alberi dove avrebbe potuto riprendere fiato.

Cercò di capire se la situazione fosse tranquilla o se si fosse verificato il temuto attacco, ma ebbe l’impressione che le sue percezioni fossero annebbiate, attutite, come se tutto si svolgesse oltre una densa membrana acquosa. Finalmente mise piede al coperto, una barriera di giovani aghifoglie e cespugli di ginepro che attraversò alla cieca, con gli avambracci a proteggere il viso, incurante dei rami che gli graffiavano la pelle. Ne riemerse dopo pochi passi, accolto dagli sguardi tra il preoccupato e l’irridente dei tre soldati che lo avevano preceduto.

«State bene, comandante?» chiese uno di loro sottovoce.Yanvas annuì, abbandonandosi a sedere con il cuore che

scoppiava. Tutto si era svolto in pochi attimi, ma gli era sembrata un’eternità. Sputò e si pulì la bocca con il dorso della mano.

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Quando un’altra coppia li raggiunse, si sentì di nuovo in grado di articolare dei suoni.

«C’è puzza di trappola?» domandò.«Non si muove una foglia.»«Gli uccelli sono ammutoliti» osservò sospettoso.«Colpa nostra, con questa cagnara...»«Soprattutto mia. Devono avermi sentito anche giù al

campo» ammise.«Consolatevi, signore: se fosse caduto Moryn, le sue

imprecazioni starebbero ancora echeggiando per ogni angolo della vallata.»

Sorrisero tutti, tranne Moryn, che borbottò una raffica di bestemmie.

Yanvas si concentrò di nuovo sull’ambiente circostante, mentre il resto della pattuglia arrivava alla spicciolata. Dal bosco non provenivano che i gemiti del legno sferzato dal vento e i tonfi delle pigne staccate dai rami.

Si rimisero in marcia con molta circospezione, ma la pru-denza si rivelò inutile, la zona era completamente deserta. Si trovavano su un terrazzamento naturale, sotto di loro il fianco scosceso diventava verticale e non c’era spazio per due colonne, perciò si disposero in fila indiana, affrettandosi per raggiungere il sentiero.

Dopo qualche minuto si imbatterono nella familiare serpentina di terra battuta. Tirarono un sospiro di sollievo, tranne Airril, il quale esclamò laconico: «I corni!».

L’uomo delle Terre Selvagge mostrava un’abilità fuori dal comune nel memorizzare il terreno fin nei minimi det-tagli e i suoi sensi sempre all’erta riuscivano a presagire le minacce, conferendogli un intuito quasi sovrannaturale. Era solo una delle tante doti che lo rendevano insostitui-bile agli occhi di Yanvas, poiché la profonda sintonia con la natura, secondo lui innata nella sua gente, si traduceva in un’infallibile capacità di orientarsi in qualsiasi condi-zione; inoltre la sua grande esperienza come battitore di

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piste e l’istinto per la caccia ne facevano un esploratore formidabile.

«Io non ho sentito niente» rispose Moryn.«Guarda la luce. È l’ora del cambio della guardia, eppure

non hanno suonato.»«Ha ragione Airril. Qualcosa non va, ormai avremmo

dovuto sentirli più volte.»Allarmati, ripresero a correre.L’esistenza di una rete di avamposti a guardia del confine

e la sua ubicazione non erano destinate a restare segrete a lungo, anzi era necessario che i nemici ne venissero a cono-scenza, la evitassero e si dirigessero verso i pochi varchi, lasciati di proposito, dove sarebbero stati annientati dai legionari in agguato. Era l’unico stratagemma in grado di ribaltare i due vantaggi principali degli Eidr, l’iniziativa e la superiorità numerica, grazie alle quali fino a quel momento avevano potuto scegliere dove e quando attaccare. Il lega-to aveva messo in atto un antico principio dell’arte della guerra: mostrarsi forte dove era debole e debole dov’era forte, per combattere solo su terreni favorevoli dove poteva concentrare le truppe. Aveva ordinato di suonare i corni a intervalli regolari dall’alba fino al primo turno di guardia dopo il tramonto. In questo modo gli avamposti vicini potevano controllarsi a vicenda e le pattuglie sapevano sempre dove ripiegare per ottenere aiuto e dare l’allarme se si imbattevano in nemici troppo numerosi. Il suono acuto dei ricurvi corni imperiali era rassicurante per i legionari, ne alzava il morale perché non li faceva mai sentire isolati in una terra ostile e innervosiva i predoni.

Il sentiero, ora roccioso, si avvitava su se stesso via via che si inoltrava nei recessi della valle, da cui la luce fuggiva rapida per lasciare spazio a ombre sempre più estese e profonde.

La stanchezza iniziava a farsi sentire, correre su una superficie aspra e irregolare tagliava le gambe, le bocche erano riarse e il sudore colava sui graffi provocati dalla

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vegetazione, facendoli bruciare. La temperatura era calata bruscamente, ogni staffilata del vento acuiva la sensazio-ne di freddo e il fastidio per le vesti fradice. Eppure non rallentarono il passo, anzi accelerarono appena il terreno tornò pianeggiante e più morbido: non c’era un minuto da perdere. Se gli Eidr avevano sopraffatto la guarnigione posta a guardia delle sorgenti, potevano avvelenare il fiume e mettere in pericolo l’intera Quarta legione, con conseguenze catastrofiche per la sicurezza del Ducato.

Era quasi buio quando giunsero nei pressi dei due enormi massi squadrati che ostruivano l’accesso all’anfiteatro natu-rale in cui sorgeva l’avamposto. Le rocce costituivano un bastione attraversato solo da un angusto passaggio ricavato a forza di braccia e picconate allargando un budello in cui un uomo poteva a stento strisciare.

Il comandante sollevò un pugno e tutti si fermarono in attesa di istruzioni.

«Airril, sali là sopra e dài un’occhiata. Voi sparpagliatevi tra le rocce e tenete gli occhi ben aperti» ordinò con voce bassa, ma ferma.

Airril gettò a terra il mantello, studiò la parete per qual-che secondo, poi incuneò mani e piedi in fessure appena percettibili e cominciò l’arrampicata. Possedeva energie inesauribili, era dotato di grande agilità e di una forza insospettabile per la sua corporatura snella. Nell’Impero si era favoleggiato a lungo sugli elusivi indigeni delle Terre Selvagge e, dopo aver conosciuto quell’uomo, il colviano era certo che le voci non fossero esagerate.

L’esploratore si issò oltre la sommità del masso e scom-parve.

Yanvas tirò fuori dalla bisaccia una striscia di carne affu-micata dura come il cuoio e ne infilò in bocca un pezzetto per ammorbidirlo con la saliva. Era difficile mangiarla in preda alla sete che lo divorava, ma il piacevole sapore sala-to lo ristorò, restituendogli le forze. Continuò a compiere

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piccoli movimenti e flettere le gambe, non voleva che i muscoli si irrigidissero. Gli occhi saettavano di continuo in alto alla ricerca di notizie. Alzando la testa per l’ennesima volta, vide la chioma fulva fare capolino. Airril segnalò di aver scorto quattro predoni vicino all’acqua e intimò loro di avanzare, mentre lui li avrebbe coperti dall’alto con l’arco, quindi scomparve di nuovo oltre il ciglio.

Yanvas lasciò cinque uomini di guardia e, in completo silenzio, si infilò nel dedalo seguito dagli altri.

Ripensò alla raccomandazione sulla resa. Era futile, chiunque servisse a sud dei Monti Fiamma Nera sapeva che la cattura significava solo torture indicibili prima che la morte sopraggiungesse liberatoria. Le storie in proposito si sprecavano e lui stesso era stato testimone di un episodio accaduto quattro anni prima, quando il Vallo era ancora in costruzione. L’intero campo, attirato da urla strazianti provenienti dall’esterno, era accorso sul terrapieno perime-trale per capire chi le avesse lanciate, scoprendo con orrore che si trattava di un commilitone, un messaggero catturato nelle retrovie, legato per i polsi e le caviglie a pali infissi nel terreno. Attorno a lui si muoveva una manciata di eidr che alternavano le mutilazioni a insulti e provocazioni verso l’accampamento. Yanvas era lì da poco e, insieme ad altri ufficiali, aveva insistito per compiere una sortita e salvare il poveretto, ma il legato era stato irremovibile. Si trattava di uno stratagemma usato di frequente, i prigionieri erano esche per attirare uomini fuori dalle difese e massacrarli. Potevano star certi – aveva detto – che tra gli alberi c’erano centinaia di arcieri con le frecce già incoccate. Dovevano sopportare lo strazio e tranquillizzare la truppa, non c’era altro che potessero fare senza mettere tutti in pericolo. Gli aguzzini avevano pazientato dopo ogni colpo, in modo che le urla e le suppliche del prigioniero minassero il morale colviano, finché, dopo un lungo supplizio, avevano posto fine alla tortura. Avevano evirato il prigioniero, gli avevano

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cavato l’occhio destro con un coltello e, mentre ancora mugolava e il sangue usciva a fiotti dalle ferite, lo avevano arso vivo. Era stato il primo contatto di Yanvas con gli uomi-ni del Guercio: privare di un occhio le vittime era la firma della sua banda e negli anni successivi ne ebbe numerose e macabre conferme.

Non si sentivano rumori di lotta e Airril non aveva fatto cenno ai legionari: li diede per morti. Non capiva come quattro uomini avessero potuto sopraffarne venti asserra-gliati dentro le fortificazioni.

Trovò la risposta appena sbucò sul pianoro su cui si erge-va la palizzata: ogni singolo palmo di terra era costellato di frecce piantate quasi in verticale, fitte come fili d’erba. Gli Eidr dovevano aver scagliato la pioggia mortale da oltre le rocce, fuori vista, cogliendo di sorpresa la piccola guarni-gione. I cadaveri dei colviani erano sparsi ovunque, alcuni fuori dal perimetro del fortino e senza armatura. Si soffermò a esaminare i due più vicini, caduti l’uno accanto all’altro con la schiena trafitta da numerose frecce e le armi ancora nei foderi. I secchi che trasportavano si erano rovesciati e i corpi giacevano in una maleodorante pozza d’acqua, sangue e interiora che ne aveva impregnato le vesti. Immaginò che stessero andando a gettare via le frattaglie di una preda appena macellata. Colto da un sinistro presagio, ne afferrò uno per la spalla e lo girò sulla schiena. Come temeva, era privo dell’occhio destro.

Dall’alto, Airril indicò che gli eidr si trovavano dall’altro lato del pianoro, ignari di essere stati scoperti. Un fremito di eccitazione percorse il gruppo, in cuor loro ardeva la speranza di aver finalmente sorpreso il Guercio.

«Moryn, prendi quattro uomini e aggira la palizzata da sinistra, io e altri quattro andremo a destra per circondarli. Voi» indicò gli ultimi rimasti «ispezionate l’avamposto, potrebbero esserci dei superstiti. Ne voglio uno vivo, ci servono informazioni» ringhiò Yanvas.

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La stanchezza svanì mentre coprivano gli ultimi metri con le armi in pugno e i sensi acuiti al massimo dalla ten-sione. Dopo pochi passi li videro. Tre di loro, inginocchiati sui ciottoli della riva, armeggiavano con degli otri da cui fuoriusciva un liquido viscoso, della consistenza del miele, violaceo nella penombra della sera. L’ultimo era accucciato più indietro, accanto a una pila di otri sigillati con la cera. Doveva averli sentiti, perché fece per girarsi borbottando qualcosa mentre sfilava l’arco lungo dalla spalla, ma un gladio soffocò nel sangue le sue parole con un brutale fendente alla gola.

Appena i tre alzarono la testa, capirono di non avere speranze e non tentarono nemmeno di raggiungere le armi. Raccolsero una manciata di quella sostanza nel palmo della mano e la ingoiarono. In pochi secondi caddero in acqua con la bava alla bocca e il corpo squassato dalle convulsioni.

Yanvas, che parlava la lingua eidr, si gettò su quello che l’aveva ingollato per ultimo, cercando di fargli sputare il veleno. Per nulla spaventato dalla morte incombente, l’uo-mo gli rivolse un sorriso beffardo e rantolò poche parole prima di spirare: «Questo è il veleno che scorre a Nastrond, bastardo. I tuoi amici avranno presto un assaggio di cosa vi riserva il fato».

«Recuperate gli otri, presto!» urlò il colviano.Li trascinarono fuori dal fiume usando dei bastoni per

non toccare l’acqua contaminata e li avvolsero nei loro mantelli, insieme ad alcuni di quelli sigillati, per poterli esaminare in seguito.

«Non hanno fatto in tempo a versarne molto, forse non tutto è perduto» disse uno dei soldati. Annusò la sostanza e subito accusò nausea e giramenti di testa. Doveva essere potente, eppure non ne avevano mai sentito parlare. L’eidr morente aveva detto che proveniva dall’inferno degli assassini e degli spergiuri, senza dubbio quello riservato agli odiati colviani.

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Yanvas era furente per non averli potuti interrogare, ma non sarebbe stato giusto prendersela con i suoi uomini, nessuno poteva prevedere che i sabotatori si sarebbero tolti la vita.

«Dobbiamo dare l’allarme» rifletté ad alta voce.Tornare indietro in tempo era impossibile, avrebbero

dovuto attendere l’alba e poi marciare per ore, mentre il fiume scompariva sottoterra poco più avanti e scorreva nelle viscere della montagna, per sgorgare una seconda volta a poca distanza dall’accampamento principale.

«Ho un’idea! Stracciate vesti e mantelli»«Cosa avete in mente, comandante?» chiese Moryn.«Legateli a dei pezzi di legno secco e gettateli in acqua.

Con un po’ di fortuna, alcuni arriveranno a valle e attire-ranno l’attenzione. Seguire il fiume è impossibile, dovremo farne il nostro messaggero».

Mentre alcuni soldati si apprestavano a eseguire gli ordini, l’ufficiale raggiunse quelli che avevano rastrellato l’interno dell’avamposto alla ricerca di sopravvissuti. Dalle loro facce capì subito che non ne avevano trovati. Anche lì le frecce si erano abbattute fittissime su casse, tende e barili. I pochi tanto fortunati da trovarsi al riparo durante la salva erano stati finiti con asce e pugnali.

«Non possono essere stati solo quei quattro, comandante» commentò Gelvas, un veterano coperto di cicatrici.

«Lo credo anch’io. Nel pianoro ho trovato tracce di parecchi stivali» confermò Airril.

«Secondo te quanti erano?» chiese Yanvas.«Almeno una ventina. Difficile farsi un’idea precisa, le

impronte si sovrappongono.»«Dài, Airril! Guarda che disastro, ci sono frecce ovunque...

gli Eidr sono abili con l’arco, ma pensi davvero che venti uomini avrebbero potuto fare questo scempio prima che i nostri avessero il tempo di prendere le armi?» sbottò Gelvas indicando con entrambe le mani la scena che li circondava.

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«Sono stati colti di sorpresa e massacrati in pochi istanti» convenne Yanvas.

«Vero, ci vogliono almeno trenta o quaranta arcieri per una cosa del genere. Per esserne sicuro avrò bisogno di tempo e luce. Magari troverò i resti di un bivacco o impronte più chiare» propose la guida.

«No, significherebbe attendere l’alba con le mani in mano. Ci muoveremo subito» grugnì l’ufficiale.

Yanvas avvertiva l’impulso di assumersi la colpa, spie-gare che era stata una sua negligenza quella di non porre delle sentinelle sulle rocce o sulle alture che sovrastavano le sorgenti, ma lasciò perdere. Non avrebbe aggiunto nulla a ciò che sapevano e mostrarsi debole sarebbe stato con-troproducente.

Airril stava per ribattere, ma fu interrotto da uno dei legionari, che si avvicinò preoccupato: «Comandante, non troviamo il corno».

«Sei sicuro? Hai frugato i morti e le tende?»«Due volte, comandante. Non c’è.»Quella era un’altra pessima notizia. Con lo strumento a

disposizione, il Guercio avrebbe potuto depistare le pattu-glie, attirarle in trappola, fornire falsi segnali agli avamposti e infiltrarsi ovunque. Fino ad allora i predoni non erano mai riusciti a imitare il suono acuto della buccina, il lungo corno ricurvo colviano, ma il furto apriva nuove e terribili prospettive.

«Prendete cibo e acqua, dobbiamo inseguirli» ordinò Yanvas.

«A-acqua? Ma...»«Togliete gli otri ai morti. Quei cani li avranno riempiti

prima di avvelenarla. Airril, pensi di poter seguire la loro pista?»

«È buio pesto, comandante. C’è la luna nuova, tra poco non si vedrà a un palmo dal naso. Anch’io voglio vendicare i nostri morti, ma non questa notte.»

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Il Guercio si era fatto beffe dei colviani per l’ennesima volta e solo gli dei sapevano se l’intervento della pattuglia fosse stato tempestivo o se a valle il veleno non stesse già mietendo vittime.

«Avremo la nostra vendetta, dovesse costarmi l’anima» promise Yanvas stringendo i pugni.

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Capitolo 2

Il cocchio rallentò gradualmente, fino a fermarsi con un sobbalzo che si ripercosse sulle articolazioni già messe a dura prova del passeggero, Sulion Talendyr, patriarca dell’omo-nima casata, il quale scostò la tendina e sbirciò i dintorni.

Fuori dalla porta occidentale, nota come Porta dell’Im-peratore perché da quella direzione il sole si inchinava innanzi alla grandezza dell’augusto sovrano, attendeva un variopinto estratto dei più umili strati sociali colviani. I più chiassosi erano i mercanti, che inveivano contro le guardie, accusandole di far perdere loro gli affari migliori, e decan-tavano a gran voce la qualità delle merci, dalle profumate e costosissime spezie della lontana isola di Ailearth, alle pellicce provenienti dalle sconfinate foreste delle Marche dell’Est, fino ai nerboruti schiavi originari di ogni provincia dell’Impero e oltre, le cui sembianze non mancavano di suscitare l’interesse e i commenti dei popolani meno avvezzi alla loro presenza. Sulion scorse un gruppetto di ragazze adorne del verde smeraldo delle novizie di Ivrassas, dio della fertilità e del raccolto, che ridacchiavano paonazze in volto di fronte alla virilità a stento contenuta dal perizoma di uno schiavo dalla pelle bronzea, forse uno shamsita o un ahlamu.

I contadini erano silenziosi, aspettavano pazienti con un occhio alle gerle e ai cesti ricolmi di ortaggi e frutta appe-na còlta, da cui bisognava tenere lontane le mani rapaci dei monelli e degli accattoni che si mescolavano ai devoti pellegrini diretti ai grandi templi cittadini. Lo sguardo di

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Sulion si soffermò sulle toghe purpuree di due sacerdoti di Reverion in piedi proprio accanto alla carrozza. Uno di loro, molto anziano, era curvo sotto il peso delle armi che per tradizione facevano parte del corredo dei ministri del culto del dio guerriero.

Sulion aprì lo sportello e li invitò a salire, accompagnando le parole con un gesto gentile della mano.

«Vi prego, padri, onoratemi della vostra presenza, andia-mo nella stessa direzione.»

Quindi si rivolse ai cavalieri della scorta: «Dite ai soldati alla porta che ho un appuntamento urgente col Maresciallo di Colvian».

I due spronarono i cavalli e presero a fendere la folla con la mole delle bestie, finché attirarono l’attenzione del-le guardie, soldati scelti della Prima legione distinguibili per le loriche dorate, ai quali indicarono la carrozza e la destinazione. I legionari si armarono di zelo e, tra spintoni e grida, aprirono un corridoio attraverso cui la carrozza poté transitare, seguita dai cavalieri con i bastoni bene in vista, pronti a punire chiunque avesse osato contestare il privilegio nobiliare. I Colviani però erano avvezzi a quelle scene e le proteste si limitarono a un ronzante mormorio di disapprovazione.

Il giovane sacerdote aiutò l’anziano confratello a sfilare l’elmo e a posare il massiccio martello d’arme sul pavimento di legno, poi lo imitò. Restare a capo coperto in presenza di una persona di rango superiore sarebbe stato disdicevole.

«Vi ringrazio a nome di entrambi, mio signore. La sabbia di Alyrian scorre inesorabile e il peso della corazza talvolta è insopportabile» esordì il vecchio.

«Non sono sordo alle vostre parole, anch’io porto i segni del tempo e della vita sul mio corpo» gli fece eco il nobile, indicando i capelli canuti e il moncherino della gamba destra, amputata appena sopra il ginocchio. L’aveva persa nell’Eiam Vurd trentasette anni prima, per salvare la vita a

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un compagno d’armi, amico e ufficiale come lui, Drelmyn Marvilien. Alla testa di sei centurie, avevano avviato il rastrellamento di una zona impervia in cui si erano verificate sparizioni di coloni e profanazioni di tombe. I valligiani si erano mostrati reticenti e ostili, non avevano fornito alcuna indicazione utile, anzi spesso avevano negato l’esistenza stessa del problema. Dopotutto erano stranieri, avevano accennato in modo sibillino, era naturale che la terra riget-tasse i loro morti.

La faccenda si era trascinata per mesi, finché avevano deciso di intervenire in forze, ma nemmeno la minaccia di appiccare il fuoco alle case aveva smosso i cupi abitanti dalle proprie convinzioni. Esasperati, avevano violato gli antichi cimiteri e dissotterrato cadaveri risalenti a prima dell’inva-sione imperiale, diffondendo la voce che non avrebbero smesso finché non avessero ottenuto delle informazioni. Gli anziani li avevano avvisati che la terra non avrebbe perdonato un simile oltraggio e presto avrebbero scontato tanta empietà, anatemi a cui i colviani avevano risposto con un’alzata di spalle e qualche calcio nei loro sederi ossuti.

In una gelida notte della luna delle Ombre, in pieno inverno, la verità emerse nel modo più drammatico. Nel campo, piazzato per spregio su terra consacrata costellata di tumuli sepolcrali secolari, si era diffuso un insopportabile puzzo di marciume e putrefazione, poi erano spuntate dal nulla decine di esseri repellenti, curvi e macilenti, con la pelle color pergamena tesa sui teschi scavati, privi di naso e orecchie, con minuscoli occhi malevoli iniettati di sangue e bocche sproporzionate, irte di denti aguzzi e marci, che si aprivano e chiudevano senza sosta per lanciare sibili e ringhi gutturali. Ovunque nel campo si sentivano urla, invocazioni agli dèi e rumori di lotta. I legionari si erano trovati attaccati da ogni lato, persino dentro le tende, inca-paci di capire cosa fossero quelle creature immonde che li aggredivano con zanne e artigli, strappando grandi brani

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di carne che ingoiavano voracemente. Si trattava di ghoul, i temuti mangiatori di cadaveri alla cui esistenza i Colviani non avevano mai creduto. Quando un soldato soccombeva agli attacchi dei mostri, subito questi si gettavano sul cadavere e banchettavano con le sue carni in un tripudio di sangue. Tattiche e disciplina erano scomparsi, ognuno combatteva per la propria vita. Sulion invece era accorso presso la tenda di Drelmyn, assediata da mezza dozzina di creature. Si era gettato nella mischia senza pensarci due volte, brandendo il gladio e una torcia in ampi semicerchi per aprirsi la strada fino al comandante ridotto a mal partito. Alla fine erano riusciti a fuggire insieme ad altri superstiti, ma Sulion era stato morso al polpaccio da uno dei mostri. La ferita si era infettata e aveva preso a suppurare, assumendo un colore malsano. L’uomo aveva perso conoscenza a causa delle febbri e, quando si era risvegliato, aveva appreso dal cerusico della legione che la gamba gli era stata amputata per salvargli la vita. Drelmyn gli aveva fatto visita tutti i giorni durante la convalescenza, raccontandogli che la spedizione punitiva non aveva trovato traccia dello scontro, come se non fosse mai avvenuto. I sacerdoti di Reverion al seguito avevano proclamato la zona suolo maledetto, nessuno avrebbe dovu-to dormire, mangiare o accendere un fuoco al suo interno finché non fosse stata purificata. Legionari e sacerdoti ave-vano prontamente voltato le spalle al campo di battaglia e si erano allontanati senza guardarsi indietro. Per quanto ne sapeva, nessuno si era mai curato di purificare quell’antico cimitero e tra le tombe dovevano ancora aggirarsi gli spiriti dei suoi commilitoni caduti durante l’attacco.

Il comandante e il medico gli avevano detto di conside-rarsi fortunato, la maggior parte dei feriti non si era mai ripresa dalle febbri ed era morta delirando. Sulion però non riusciva a pensare a se stesso come a un uomo benedetto dalla sorte. Anche se gli onori conquistati nelle campa-gne precedenti e la dote della moglie gli avevano fruttato

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terre le cui rendite lo avevano reso un uomo facoltoso, la mutilazione aveva segnato la fine del servizio agli ordini della corona. I rimpianti non gli mancavano: fino a quel momento la sua carriera era stata fulgida, esemplare, le prospettive di ottenere presto il comando di un’unità erano concrete, anzi sembrava destinato a guidare la cavalleria della legione. Ma gli dèi avevano voluto diversamente ed era stato il suo secondogenito a raggiungere il grado cui lui aveva aspirato. Le gesta del figlio lo riempivano di orgoglio, aveva realizzato i suoi sogni di padre e donato prestigio alla casata. Non mancava molto alla fine del servizio di Yanvas, ciò significava che avrebbe potuto sposarsi e generare un nuovo ramo dei Talendyr, più ritto e sano di quello del debosciato Imian, un damerino incline a intrighi, gioco e fornicazione. Non sembrava nemmeno frutto del suo seme, pensò.

«Siete di ritorno da un viaggio?» chiese agli ospiti pri-ma che il lungo silenzio seguito alle riflessioni diventasse scortese.

«Sì, mio signore. Abbiamo riportato al villaggio natìo le armi di un confratello spentosi da poco. Riposeranno nel tempio finché qualcuno si sentirà in grado di indossarle e unirsi all’Ordine» rispose il più giovane.

«Presto dovrai portare anche le mie, Nudros» disse il vecchio ridacchiando.

«Fratello Leos ama ricordarci quanto ci mancherà» ammiccò Nudros all’indirizzo del nobile, che rispose con un sorriso.

Intanto la carrozza doveva aver superato la seconda cinta muraria, perché i sobbalzi erano cessati e l’andatura era diventata più regolare, con grande sollievo delle schiene indolenzite dei passeggeri. Non si udivano più le grida di macellai, pescivendoli e venditori di tessuti o l’olezzo dello sterco e dei vasi da notte imprigionato tra le case sbilenche e troppo vicine. Il cocchio procedeva sugli ariosi spazi

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pavimentati del Campo di Avrian, la piazza più grande della capitale.

Fratello Leos si piegò per guardare fuori e annunciò: «Il tempio! Siamo arrivati».

Sulion bussò tre volte contro il pannello di legno alle sue spalle, al di là del quale sedeva il cocchiere, e subito la carrozza si fermò. Nudros aiutò il confratello a indossare le armi e a scendere.

«Invocheremo la protezione di Reverion su di voi, nobile signore» lo ringraziò il giovane sacerdote.

«Il tempo delle battaglie per me è finito molti anni fa, padri. Vi sarò grato se vorrete pregare per mio figlio Yanvas, che combatte gli Eidr nel Grelian.»

«Lo ricorderemo a Reverion, allora. I suoi nemici sono i più feroci tra tutti.»

«Che il suo braccio sia sempre saldo» si unì Leos con il martello d’arme sollevato a toccare la fronte.

Appena lo sportello si richiuse, il postiglione spronò la pariglia per percorrere gli ultimi metri che li separavano dalla residenza dei Marvilien.

La tendina era rimasta ripiegata e il patriarca dei Talen-dyr tenne lo sguardo fisso sul grandioso tempio del dio della guerra, ritenuto secondo solo a quello del padre degli dei Alyrian per magnificenza e dimensioni. In realtà il più grande era quello di Pavlion l’Oscuro, dio dell’oltretomba, le cui cripte sotterranee nel tempo si erano estese sotto la città a tal punto che non ne esisteva una mappa completa e intere sezioni giacevano dimenticate insieme alle sal-me ivi deposte. Nessuno amava celebrare il trionfo della morte, solo le grigie sorelle votate alla cura dei cadaveri attraversavano i cunicoli traboccanti di teschi e il loro voto del silenzio impediva si diffondessero voci sull’immensa necropoli.

Il tempio di Reverion, al contrario, era un abbacinante monumento alla possanza imperiale: i marmi bianchi risplen-

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devano al sole del mattino come le vittorie che arridevano agli ippogrifi innalzati dalle legioni e le torri affusolate come lance svettavano a sfidare il cielo. L’area circostante e la maestosa scalinata d’ingresso erano lastricate con elmi e armature catturati in battaglia, battuti, ribattuti e inchiodati fino a formare una superficie liscia su cui la luce danzava ammantando l’edificio di una luminescenza unica, in modo che nessuno potesse giungere al cospetto della divinità senza aver calpestato i nemici di Colvian. Gli annali tramanda-vano che l’imperatore Dathos, figlio di Faranil, ricevesse i capi delle genti sottomesse seduto su quei gradini, perché, come aveva affermato con la sua proverbiale mancanza di tatto, i vinti dovevano constatare che i loro campioni erano a malapena degni di baciargli le terga.

Attorno al tempio sorgeva un giardino unico e inquietan-te: senza un filo d’erba o una foglia, gli alberi era costituiti da fasci di lance infisse nel terreno; spade, daghe e pugnali spuntavano come fiori da aiuole delineate con scudi di ogni foggia, anch’essi predati ai cadaveri degli sconfitti. Il giardino di Reverion si nutriva del sangue dei vinti.

In gioventù Sulion aveva attraversato innumerevoli volte il Giardino di Ferro per rendere omaggio al dio prima di partire per una campagna, ma, dopo l’Eiam Vurd, non aveva più trovato la forza di recarvisi. Temeva che Reverion avreb-be potuto leggere il rancore che gli albergava nell’animo e punire il suo prediletto.

Il cocchio si fermò per la terza volta, finalmente a desti-nazione. La scorta smontò da cavallo e aiutò il padrone a scendere. I cavalieri si offrirono di scortarlo fino al portone, ma Sulion rifiutò, avviandosi sorretto da due grucce con intarsi d’avorio e argento. Poteva essere uno storpio, ma non doveva sembrare un povero storpio, aveva pensato quando la madre gliele aveva regalate al suo ritorno a casa.

Il palazzo del Maresciallo di Colvian era imponente quasi quanto il vicino tempio, costruito con gli stessi mar-

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mi immacolati su cui si aprivano le alte finestre del piano nobile – tanto ravvicinate da ricordare un colonnato che girava tutto attorno all’edificio e lasciava intravedere i lus-suosi interni decorati con statue e dipinti – mentre il piano terra, dove si trovavano cucine, locali di servizio e alloggi delle guardie, era massiccio come una fortezza.

Dodici legionari e un centurione della Prima lo atten-devano sulla soglia in una rigida posizione di saluto, tri-butandogli gli onori dovuti a un superiore prima che a un nobile: quel gesto lo inorgoglì, non aveva mai cessato di sentirsi un soldato.

«Lord Talendyr, vogliate seguirmi, sua eminenza il Mare-sciallo vi attende» lo invitò il centurione.

Imboccarono un lungo corridoio, affiancati da sei legionari i cui passi rimbombavano nel solenne silenzio del palazzo e si perdevano oltre una moltitudine di porte chiuse, che supera-rono una dopo l’altra, fino ad arrivare a una scalinata che da sola avrebbe potuto occupare metà della sua villa. Il centurione ebbe il tatto di non offrirsi di aiutarlo ma, imitato dalla scorta, adeguò il passo all’incedere lento e saltellante dell’ospite.

Era la prima volta che Drelmyn lo riceveva nella sontuosa residenza ufficiale, gli incontri precedenti si erano tenuti nel maniero che i Marvilien possedevano sull’altra sponda del fiume Duin. Si chiese se il vecchio amico stesse cercando di impressionarlo facendo sfoggio di tutto il suo potere: il Maresciallo di Colvian era la seconda carica militare dell’Im-pero, subordinato solo alla corona, e godeva di un’autorità quasi illimitata. Drelmyn era assurto ai vertici dello stato in seguito alla battaglia di Vegharath, quando, dopo una marcia massacrante lungo la Carovaniera Occidentale alla testa di due legioni, aveva liberato la città dalla morsa dell’assedio khaztan costato la vita all’imperatore Faranil. Era stata quella brillante vittoria a fermare la montante marea dei cavalieri delle steppe che, impressionati dal valore dei legionari, era-no passati al soldo del nuovo imperatore Dathos. Da allora

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le orde mercenarie combattevano al fianco degli ippogrifi dietro lauto compenso.

Dubitava che si trattasse di una coincidenza, del resto la questione che avrebbero affrontato era importante e l’amicizia solo uno dei tanti elementi da porre sul piatto della bilancia per determinarne l’esito.

La scala dava direttamente sull’arioso ambiente che Sulion aveva scorto scendendo dalla carrozza, tanto elegante e pieno di luce che gli sembrava di poter abbracciare ogni angolo del Campo di Avrian solo voltando lo sguardo.

Il centurione lo guidò fino alla prima porta a sinistra e l’aprì senza bussare, certo che il loro rumoroso incedere li avesse annunciati, quindi tornò ad assumere la rigida posizione di saluto.

Nonostante tutto, quando Sulion entrò, l’amico si scosse come sovrappensiero e posò il bastone del comando d’oro massiccio, simbolo della sua carica.

«Vi porgo i miei omaggi, eminenza» esordì provocandolo bonariamente. Drelmyn avrebbe dovuto rinunciare al suo pre-zioso manto di vanità oppure apparire freddo e sulla difensiva, venendo meno ai doveri dell’amicizia. L’astuto interlocutore colse il messaggio e rispose gioviale: «Salute a te, Sulion. Ti prego, dimentica le formalità, siamo qui come amici».

«E compagni d’armi» puntualizzò l’anziano Talendyr.«E compagni d’armi» concesse il Maresciallo, che non

aveva interesse a rispolverare il debito d’onore che li legava. «Non mi aspettavo di ricevere una tua visita, è stata una sorpresa per me quando ieri sera l’araldo ti ha annunciato.»

«Preferisco discutere a quattr’occhi. Le occasioni con-viviali sono sempre, come dire, dispersive» rispose Sulion sorridente. “Stavolta non potrai svicolare, caro mio. Non sarei qui se avessi risposto alla mia ultima missiva” pensò.

«Hai ragione, hai ragione. Posso offrirti da bere? Il viaggio è lungo dalla tua tenuta in campagna. Ho un vino dolce delle mie vigne sul Lago Yarnil, devi assaggiarlo.»

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«Ne ottieni una buona produzione?»«Quanto basta per la mia mensa e per farne dono agli

amici» minimizzò Drelmyn.«Potremmo offrirlo allo sposalizio dei nostri figli» buttò

lì Sulion con aria serafica.L’altro si alzò, riempì due coppe con studiata lentezza e

ne passò una all’ospite.«Vorrei riflettere ancora un po’ sulla tua proposta,

Sulion.»“Vorrai dire ‘cercare un partito migliore’” pensò l’altro,

che rispose: «Yanvas è un ottimo soldato, la sua carriera è impeccabile e ha guadagnato ben tre decorazioni al merito».

«Gode di una reputazione eccellente, non c’è che dire. Ma, vedi, ai soldati della Quarta non è destinato granché. Probabilmente al congedo riceveranno appezzamenti nelle Terre Selvagge. Quel posto è famoso solo per gli uomini bestia e le malattie.»

«Sai meglio di me che non è certo per mancanza di valore che non hanno esteso le frontiere! Dolagirt ha deciso di consolidare i confini, che altro avrebbero potuto fare?» Sulion stava perdendo la pazienza di fronte alla mancanza di ragionevolezza dell’amico. Posò bruscamente la coppa sulla scrivania e un rivolo di vino macchiò il tavolo di quercia.

Era costume assegnare ai legionari terre nelle province che avevano conquistato durante i vent’anni di servizio, per fondarvi colonie e stabilire una prima linea di difesa con-tro rivolte e attacchi. Gli ufficiali ricevevano diritti feudali sulle medesime terre, formando uno zoccolo duro fedele alla corona anche nelle marche più lontane da Colvian. A causa della politica remissiva dell’attuale imperatore, ora ai veterani venivano destinate zone poco ambite e produttive, ritenute fino a pochi anni prima inadatte alla colonizzazione.

Era per questo motivo che Sulion insisteva per combinare un matrimonio con i Marvilien: la casata del Maresciallo vantava possedimenti sia a sud, nel Ducato di Grelian, sia

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a ovest lungo il corso dell’Involuin. Questi ultimi, di gran lunga più estesi e ricchi dei primi, erano già destinati al primogenito della casata. La legge imperiale non permetteva alla nobiltà di tramandare feudi privi di confini in comune, perciò, se Drelmyn non voleva che le tenute greliane tornas-sero alla corona alla sua morte, aveva una sola possibilità: lasciare un castello nel sud alla figlia – le donne non potevano ereditare feudi, ma solo il diritto ad amministrare e abitare una fortezza – e intercedere presso l’imperatore affinché al marito si conferissero le terre circostanti.

«Ti confesso che avrei trovato la proposta molto più inte-ressante se fossi venuto da me per tuo figlio Imian, Sulion.»

Finalmente Drelmyn aveva scoperto le carte: era risentito perché la figlia non sarebbe andata in moglie al primo della schiatta dei Talendyr.

«Sylia era una bambina quando Imian si è sposato.»«Ma Lenissa no!»«L’imperatore non l’avrebbe mai permesso. Non accorda

i suoi favori ai matrimoni tra primogeniti e nobildonne. Per quel matrimonio, avresti dovuto rinunciare a conservare anche un singolo sasso dei castelli e delle ville in cui hai riversato centinaia di migliaia di corone.»

Sulion sapeva che l’argomentazione non era inattacca-bile, perciò giocò la sua ultima risorsa. Sollevò il bordo della tunica e accarezzò il moncherino con aria sofferente. Il gesto non sfuggì a Drelmyn. Gli balenò un lampo negli occhi, poi si velarono di tristezza. Era un colpo basso e lo sapevano entrambi, ma non poteva ignorarlo.

«Suppongo che tu abbia ragione» disse lentamente, con voce grave. «Yanvas conosce bene la regione dei Monti Utrisar, potrei dare in dote a Sylia il castello di Qualisar. Non credo faticherò a convincere l’imperatore a destinare a tuo figlio la baronia, ha tutto l’interesse a dividere i pos-sedimenti della mia casata, siamo diventati troppo potenti per non apparire... minacciosi.»

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«Le guerre che hanno insanguinato l’Impero dopo la morte di Colvian hanno lasciato molti insegnamenti. Puoi forse dargli torto?»

Sulion si riferiva alle lotte dinastiche tra i maggiori feu-datari, vere e proprie guerre civili, per stabilire chi avrebbe dovuto regnare dopo la morte del primo imperatore. Da allora, i suoi successori avevano cercato di mantenere deboli e divise le casate.

«No, al suo posto farei lo stesso» fu costretto ad ammet-tere Drelmyn.

«È per questo che sei il suo braccio destro, comprendi e applichi la ragion di Stato» lo blandì Sulion, sul cui volto si era fatto strada un ampio sorriso.

«Oh! No, non sempre. Questa è la ragione di Dolagirt» mormorò l’altro amareggiato.

L’anziano Talendyr si bloccò per un attimo, aveva colto una strana sfumatura in quella frase, ma non riuscì a incro-ciare lo sguardo di Drelmyn perché questi, posata la coppa di vino, si era diretto verso la porta.

«Mi spiace interrompere questa piacevole rimpatriata, Sulion, ma sono atteso a palazzo tra breve. Spero perdonerai la mia scortesia.»

«Non dirlo nemmeno. Il tempo per concordare i dettagli non ci manca. Comunicherò subito la notizia a mio figlio, ne sarà entusiasta.»

«È un uomo fortunato.»Sulion si rabbuiò, quelle parole risvegliavano brutti ricor-

di. Forse era stata una scelta poco felice dell’interlocutore, ma forse no. Lo considerava troppo intelligente per non ricordare il diverso contesto in cui le aveva pronunciate molti anni prima.

Percorsero insieme il tragitto fino al portone, dove si separarono, ognuno diretto verso la propria carrozza. La giornata era splendida, il cielo terso, di un azzurro inten-so che invogliava a respirare a pieni polmoni e a stare

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all’aperto, eppure il suo istinto di vecchio soldato grattava come un sassolino sotto una porta ben oliata. Durante il viaggio di ritorno si sforzò di pensare a quanto avrebbe scritto a Yanvas, ma stentava a concentrarsi, alcune paro-le ed espressioni dell’incontro gli risuonavano in mente all’improvviso come brevi lampi di cui non riusciva a cogliere il senso.

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Capitolo 3

Il fumo si levava in dense volute dai fuochi alimentati con legna verde e sterco di cavallo, librandosi pigramente nell’aria fresca dell’alba come se non volesse allontanarsi dal tepore delle fiamme, attorno alle quali erano riuniti capannelli di guerrieri eidr per consumare la colazione, polenta condita con grasso e birra leggera. Le voci erano roche, i movimenti impacciati dopo l’ennesima notte tra-scorsa bivaccando al limitare della foresta, a poche centinaia di metri dal campo della Quarta legione, da giorni sotto assedio. Il sonno scoraggiava la conversazione, gli uomini scambiavano solo brevi battute cui seguivano grugniti o un accenno di risa. Airril sapeva che quella sorta di letargo dei sensi non sarebbe durato a lungo, quindi allungò il passo, pur mantenendo un’andatura rilassata. Non doveva farsi scoprire mentre attraversava le linee nemiche. Indossava la tunica e i pantaloni di lana marrone sottratti a uno dei sabotatori, un elmo per coprire i capelli rossicci e aveva alterato il colore della barba con cenere e sporcizia. Sul suo viso, non meno segnato dalla fatica di quelli dei nemici tra cui si nascondeva, risaltavano solo gli occhi di un azzurro cristallino, che aveva in comune con gli Eidr. Sarebbe passato inosservato a meno di un esame accurato o, rischio di gran lunga maggiore, che qualcuno gli avesse rivolto la parola: la guida delle Terre Selvagge conosceva solo poche frasi stentate nella lingua dei nemici.

Si era introdotto nell’accampamento con una lepre in

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mano, in modo che non risultasse sospetto vederlo emergere dagli alberi, ma, avvicinatosi ai fuochi, se n’era liberato prima che qualcuno chiedesse di dividerla con lui o si offrisse di arrostirla, leggendo in risposta un vuoto colpevole nel suo sguardo. La soluzione ai suoi guai si presentò sotto forma di un cumulo di sterco di cavallo, da cui raccolse delle ampie manciate fino a riempirsi le braccia, poi si diresse verso un fuoco all’estremità opposta del bivacco. Come aveva sperato, si tennero tutti alla larga da lui. Lungo il tragitto studiò il terreno, notando che gli eidr avevano abbozzato delle rozze imitazioni delle tattiche d’assedio imperiali, sca-vando trincee serpeggianti in cui avevano accatastato rami, fascine e altro materiale da utilizzare per colmare il fossato e assaltare la palizzata. Scaricò senza troppe cerimonie il rozzo combustibile accanto al fuoco, tra le imprecazioni dei guerrieri intenti a mangiare. Li oltrepassò e si diresse verso le difese colviane come se fosse la cosa più naturale del mondo. Pregò che il sudore non cominciasse a grondare da sotto l’elmo facendo colare via la sporcizia dalla barba e rivelandone il colore, insolito tra gli Eidr.

Quando l’odore pungente dei fuochi si affievolì, coperto da quello di mucido del fango e della terra appena smossi, si sentì più tranquillo. Balzò in una trincea, raccolse delle fascine e ripartì mormorando l’ennesima preghiera agli dèi. Lo scavo era poco profondo – gli arrivava alla vita –, meno di metà di quelli abitualmente realizzati dai legionari e non avrebbe offerto molta protezione. Comprese il motivo quando raggiunse una squadra di zappatori all’opera: non possedevano un equipaggiamento adatto e scavavano con le spade e le asce, raccogliendo la terra dentro i mantelli, perciò i loro sforzi richiedevano un abnorme spreco di tempo ed energie.

Gli Eidr avevano scarsa familiarità con gli assedi, prefe-rivano colpi di mano e una condotta della guerra più agile. Immobilizzare grandi contingenti di uomini richiedeva

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un’organizzazione logistica che non avevano mai mostrato di possedere, come testimoniavano quei rozzi tentativi.

Aveva appena superato il gruppetto quando sentì un’esclamazione. Non capì esattamente cosa significasse, ma era sicuro che qualcuno si fosse rivolto a lui. Finse di non aver sentito e tirò dritto, ma il richiamo si ripeté più deciso. Si chiese che accidenti potesse volere da lui uno di quei bastardi. Scosse le spalle e grugnì seccato, quindi udì dei passi ravvicinati, come se qualcuno si affrettasse per raggiungerlo. Lanciò un’occhiata alle proprie spalle per controllare che non stessero per pugnalarlo e vide avvicinarsi un uomo robusto con le mani nere di terra. Questi gli diede una pacca sulla schiena, con un brusco movimento del capo indicò la palizzata e ringhiò qualcosa. Airril non capì una parola, ma sembrava un rimprovero o un avvertimento. Annuì e accennò a voltarsi mentre continuava ad avvicinarsi al campo della legione, ma l’altro lo afferrò per il braccio e ripeté l’ammonimento in tono perentorio.

Notò che gli astanti avevano smesso di scavare e li stavano fissando. Doveva fare qualcosa.

Gettò a terra le fascine e sferrò un pugno in pieno volto all’eidr.

«Munnrid» sibilò all’indirizzo dell’uomo, che giaceva a terra più sorpreso che dolorante.

Dando fondo al suo scarso repertorio, lo aveva tacciato di essere uno che parlava a vanvera, come a dire che non aveva il coraggio per combattere sul serio. Prima che i compagni potessero intervenire, si batté un pugno sul petto, imbracciò l’arco e cominciò a scoccare frecce all’indirizzo dei colviani, accompagnandole con grida di guerra. Gli altri si mostrarono sconcertati, ma lo imitarono: un guerriero non doveva sottrarsi alla lotta. Nella confusione, Airril lanciò non visto una freccia attorno alla cui asta era legata ben stretta una sottile pergamena consegnatagli da Yanvas e destinata al legato della Quarta. Aveva urlato per attirare

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l’attenzione delle vedette e lanciato lungo, nella speranza che la freccia cadesse in vista e che i legionari notassero il messaggio. Ignorava cosa vi fosse scritto, non sapeva leggere e, per precauzione in caso di cattura, il comandante aveva fatto ricorso al colviano arcaico.

La sua piccola messinscena aveva acceso gli animi, il campo ribolliva e gli uomini accorrevano in armi per unirsi all’attacco. Approfittò della confusione per defilarsi, stavolta con minore prudenza e a grandi passi, ma senza correre o dare segni di nervosismo.

Alle spalle dello schieramento eidr, Yanvas rigirò nel liquido viscoso la punta del giavellotto e lo impilò sugli altri, imi-tato dai legionari. La mattina seguente al massacro presso le sorgenti del fiume, la pattuglia si era rimessa in marcia per rientrare e scoprire se l’avvertimento avesse sortito i risultati sperati, ma al loro arrivo il campo era circondato da eidr pronti ad assaltarlo al primo segno di cedimento, come sciacalli nella scia di un animale morente. Yanvas aveva inviato staffette agli avamposti vicini con l’ordine di abbandonarli e raggiungerlo al più presto, poi si era ritirato sulle alture per osservare l’evolversi degli eventi. Gli assembramenti di barbari si erano moltiplicati di ora in ora, ma non si erano mai impegnati in veri e propri assalti, limitandosi a scaramucce per infastidire i legionari. Accanto ai falò erano stati issati stendardi di ogni regione e Yanvas si era chiesto più volte se la situazione, da attrito di confine, stesse sfociando in guerra aperta. Il Guercio ne era capace.

Procedendo per marce forzate, lo avevano raggiunto i distaccamenti di tre avamposti, mettendogli a disposizio-ne truppe sufficienti a tentare di sbloccare la situazione. Il disprezzo per la viltà dell’attacco nemico era così forte che Yanvas aveva ordinato di avvelenare le armi con la sostanza catturata ai sabotatori, per ripagarli con la loro stessa moneta. Nella notte aveva consegnato un messaggio

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al suo uomo migliore affinché trovasse il modo di recapi-tarlo dentro il campo a qualsiasi costo. Non era sicuro che Airril sarebbe tornato per riferirgli l’esito della missione: poteva aver cercato rifugio all’interno dell’accampamento, oppure, solo in mezzo a un’orda di eidr, poteva essere stato scoperto e ucciso. Scacciò dalla mente l’immagine del corpo ormai freddo dell’esploratore, riverso in un fosso con la gola tagliata. Il sole era alto nel cielo, non poteva attende-re oltre. Diede ordine di raccogliere le armi e avanzare. I legionari si erano disposti a ventaglio, attenti a tenere le punte avvelenate rivolte a terra, per ridurre al minimo il rischio di colpire un commilitone. Solo poche centinaia di metri li separavano dal nemico, perciò si muovevano nel massimo silenzio.

Poco dopo, Yanvas udì un tramestio tra i cespugli ed estrasse la spada. I soldati si fermarono e istintivamente puntarono i giavellotti in direzione dei rumori, ma il coman-dante li invitò alla calma con un cenno. Con suo grande sollievo, fu la guida a emergere dalla vegetazione.

«Non è da te fare tanto chiasso, Airril» lo rampognò bonariamente Moryn.

«Non volevo scuotere i tuoi nervi delicati.»Airril era privo dell’elmo e aveva la manica sinistra imbrat-

tata di sangue. Yanvas lo guardò con aria interrogativa.«Non è mio, comandante» lo rassicurò. «Un impiccione

voleva darmi una lezione e mi ha seguito fuori dall’accam-pamento.»

«Te ne sei liberato?»Airril mimò con il pollice l’atto di tagliare la gola.«Bene. Hai consegnato il messaggio?»«L’ho scagliato oltre la palizzata legato a un freccia, non

ho potuto fare altro in mezzo a quella bolgia.»L’ufficiale annuì, sapeva che non avrebbe potuto chiedere

di più. Informò i soldati che i commilitoni assediati erano a conoscenza del tentativo di soccorrerli e contavano su di

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loro, quindi ripresero la marcia smaniosi di combattere, mentre due coppie di buccinatori si allargavano sui fianchi.

Si disposero al limitare della foresta e aggiustarono la pre-sa sulle armi. Le provocazioni di Airril avevano infiammato lo spirito bellicoso degli eidr, che si aggiravano in maniera scomposta nella terra di nessuno, urlando e scagliando tutto quanto capitasse loro a tiro. Dagli spalti del campo trincerato non giungeva risposta, anzi non c’era anima viva a presidiarli.

Un uomo dai capelli biondi cavalcò tra i guerrieri infe-rociti per arringarli spiegando che il veleno aveva spianato loro la strada verso la vittoria: la torma di barbari eruppe in un boato che scosse la terra e si lanciò all’assalto per col-mare il fossato e scalare le difese, coperta da una tempesta di frecce scatenata dagli arcieri della retroguardia.

Yanvas restò immobile, con gli sguardi ansiosi degli uomini puntati sulla sua mano destra, in attesa dell’ordine di attaccare.

La massa urlante divorò le distanze e si avventò sul fossato, riversandovi pietre, terra e rami, senza incontrare la minima resistenza da parte dei difensori. In un batter di ciglia un primo gruppo riuscì ad arrivare alla palizzata, con tanta foga che alcuni finirono impalati sui tronchi aguzzi disposti alla base. Senza esitare, gli altri si arrampicarono sui corpi e continuarono l’assalto.

Yanvas abbassò bruscamente il braccio e caricò in dire-zione degli arcieri ignari del pericolo. I colviani giunsero indisturbati alle loro spalle e lanciarono una prima salva di giavellotti. Ogni colpo andò a segno, una moltitudine di uomini si accasciò rantolando. Scagliarono un’arma dopo l’altra, decimando gli attoniti nemici, infine sguainarono le spade e caricarono i sopravvissuti, scioccati per l’orrenda fine dei compagni contratti in pose innaturali per gli spasmi, mandandoli in rotta.

«Ora!» urlò Yanvas in direzione del buccinatore.

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Il suono familiare e rassicurante si diffuse sul campo di battaglia. I guerrieri, intenti ad azzuffarsi per raggiungere tra i primi il campo e saccheggiarlo, si voltarono sorpresi. Anche il cavaliere biondo, ora più vicino, si girò e Yanvas capì che si trattava del Guercio. Nonostante la distanza, incrociarono gli sguardi per un attimo, come se fossero soli sul campo di battaglia. L’eidr si scosse e ordinò di spazzare via quel manipolo di pazzi.

I legionari assunsero la consueta formazione chiusa, opponendo un muro di scudi alla marea urlante che stava per abbattersi su di loro.

Ancora pochi istanti e i colviani avrebbero scoperto se il piano aveva avuto successo, altrimenti sarebbero stati sopraffatti. Gli eidr si avvicinavano sempre di più, mulinando le asce con i volti tramutati in maschere d’ira.

«Lanciate!» ordinò il comandante.L’ultima salva di armi da getto sibilò verso i nemici,

spazzando via la prima linea. Gli altri titubarono per un attimo, ma non arrestarono la carica. Yanvas pregò che la freccia scoccata da Airril fosse stata notata e recuperata.

«Serrate i ranghi!»In quel momento dal campo apparentemente inanimato

si scatenarono i corni della Quarta, le porte dell’accam-pamento di spalancarono e i colviani uscirono all’attacco come demoni urlanti. Le coorti si riversarono dalla porta pretoria, mentre la cavalleria, divisa in due squadroni, uscì dalle porte laterali e attaccò i nemici ai fianchi.

«Con me, legionari!» tuonò Yanvas prima di gettarsi nella mischia.

Trapassò di slancio due guerrieri, sempre con un occhio sul Guercio, deciso a farsi strada per affrontarlo. Lo vide impennare il cavallo di fronte ad alcuni legionari che lo incalzavano con le lance, poi da una trincea davanti a lui si erse un eidr gigantesco armato con due asce.

Yanvas parò un colpo, fortissimo nonostante fosse stato

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sferrato con il braccio sinistro, e ne bloccò un secondo con lo scudo. L’ascia rimase conficcata tra le tavole, la lama spuntò una spanna più su del suo avambraccio. Con una torsione verso sinistra trasse a sé l’avversario, sbilanciandolo in avanti, quindi sollevò con altrettanta violenza lo scudo colpendo al mento il colosso, che annaspò senza fiato. Il comandante approfittò della momentanea vulnerabilità dell’eidr e gli affondò l’arma in gola. L’uomo cadde a terra; Yanvas gli puntò un piede sul petto ed estrasse la spada dalla ferita. Riportò lo sguardo dove aveva scorto il Guercio per l’ultima volta, ma non lo vide. Guardò in tutte le direzioni, ma le torme di cavalleria avevano alzato una nube di polvere. L’aveva perso.

Circondati da ogni parte, gli eidr opposero una resistenza sempre meno convinta, incapaci di capire come la situazione potesse essersi ribaltata nel volgere di pochi attimi. Convinti che non avrebbero dovuto fare altro che depredare un accampamento traboccante di cadaveri, non erano pronti per una battaglia in piena regola.

L’ultimo colpo al loro vacillante morale lo diede un’al-tra bordata dei corni colviani, questa volta dal folto degli alberi. Non potevano immaginare che si trattava solo dei quattro uomini mandati da Yanvas per simulare l’arrivo di una seconda legione alle loro spalle.

Terrorizzati, gettarono le armi e si arresero o si diedero alla fuga, inseguiti dalla cavalleria che ne faceva strage.

Al termine della battaglia, Yanvas cavalcò a lungo alla ricerca del cadavere del Guercio, imitato dagli altri ufficiali, ma non ne trovarono traccia. Appena rientrato al campo, gli si fecero incontro il tribuno Galbas, che comandava la cavalleria in sua assenza, e il legato della Quarta, lord Arsant. Yanvas si irrigidì e portò il pugno destro al petto in segno di saluto. Entrambi risposero al saluto, quindi il legato sorrise, evento raro quanto un’eclissi.

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«Avete salvato la legione, Yanvas. Ve ne renderemo merito» esordì l’alto ufficiale.

«Vi ringrazio, legato. Il piano era audace, ma senza il coraggio e il sangue freddo di Airril, non ce l’avremmo mai fatta.»

«Airril, il suo nome ricorre spesso nei vostri rapporti. È la guida delle terre meridionali, vero?»

«Sì. Un uomo di raro valore.»«Farò in modo che riceva una congrua ricompensa.

Quanto a voi, intendo proporvi per una decorazione.»Yanvas avvampò. Pensava che Airril la meritasse mag-

giormente, ma sapeva che non era costume dell’Impero premiare chiunque non discendesse da avi colviani.

«Per un attimo ho temuto che fosse troppo tardi» rispose per sciogliere l’imbarazzo.

«Sia lode a Reverion, il veleno ha mietuto pochissime vit-time. Prima ancora dei vostri segnali, i soldati hanno notato pesci morti trascinati via dalla corrente, perciò eravamo in allerta» spiegò Arsant.

«Siamo solo un po’ assetati» scherzò Galbas.Il legato estrasse una pergamena sigillata dalla cintura e

la porse all’eroe della giornata.«È di vostro padre. È arrivata subito dopo che siete

partito per l’ultimo pattugliamento, insieme all’ordine di rientrare il prima possibile a Colvian.»

«Sapete di cosa si tratta, legato?» chiese Yanvas.«Andrete ad assumere il comando dei rinforzi e dei

rimpiazzi destinati alla Quarta, tribuno. Li condurrete qui prima della cattiva stagione.»

«Molto bene.»«Vi consiglio di unirvi alla colonna che scorterà i pri-

gionieri oltre i Monti Fiamma Nera, verso i mercati degli schiavi. Ne trarremo un buon guadagno.»

I due subalterni annuirono. Il bottino veniva diviso tra gli effettivi di una legione al termine di ogni campagna, in

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ragione del grado e dell’anzianità di servizio, ma i proventi della vendita degli schiavi erano appannaggio dei soli ufficiali superiori e potevano fruttare una piccola fortuna.

«Domattina vi farò trovare un rapporto sugli atti eroici di oggi per il Maresciallo di Colvian. Ora andate a occuparvi dei vostri uomini e dite loro che sono orgoglioso di coman-dare soldati così valorosi. Vi dobbiamo la vita» concluse Lord Arsant, quindi li salutò e si ritirò nei suoi quartieri per ricevere i resoconti dei centurioni sulle perdite e sui danni alle difese.

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Capitolo 4

Yanvas smontò da cavallo, gli accarezzò la testa e lo con-dusse per la cavezza nei pochi metri che li separavano dalla taverna di Daimmvor: non ne avrebbe incontrate altre prima di valicare il Passo del Monte Walur, una delle tre porte – insieme all’Ewograth-Zul e al Devengar – dell’Impero.

Negli ultimi dieci giorni lui, Trimvos e Pitral, i due legio-nari della scorta, avevano cavalcato dall’alba al tramonto, in sella a cavalli sempre freschi grazie alle stazioni di posta pre-senti a intervalli regolari lungo le strade imperiali. Avevano costeggiato i Monti Utrisar verso est fino a Qualisar, dove avevano imboccato la Carovaniera del Ferro Occidentale, uno dei due rami della strada che si inerpicava sui ripidi versanti dei Monti Fiamma Nera: era stata costruita con enormi sforzi quasi cento anni prima dall’imperatore Avyrius per agevolare il trasporto delle enormi ricchezze minerarie della regione, di cui le fornaci colviane non erano mai sazie. La grande strada lastricata presentava due percorsi alterna-tivi a partire dalla biforcazione del Monte Vorbragh, che si congiungevano solo presso il porto fluviale di Tannquil. Il ramo orientale era più breve e diretto, ma era pericoloso perché sfiorava gli ultimi capisaldi delle tribù dei giganti, abbarbicati attorno al picco del Nimarath, la possente Torre Bianca, la cima più alta della catena. Eccetto pochi temerari, era percorso solo da reparti militari e carovane pesantemente armate. Il ramo occidentale invece serpeggiava tra i colli pedemontani per quasi cinquanta leghe prima di svoltare

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verso nord e superare le montagne, ma costeggiava la foresta disabitata del Fjoturlund ed era relativamente sicuro.

I legionari lo affiancarono, ma Yanvas fece cenno di precederlo, voleva assaporare da solo la vista di quel luogo straordinario. Chiesero un ultimo sforzo ai cavalli sfiancati dall’arrampicata lungo gli erti tornanti e scomparvero oltre l’ingresso della corte, che di lì a poco sarebbe stato chiuso per la notte.

L’ufficiale invece si fermò e si voltò per contemplare il tramonto. Non sapeva a quale epoca risalisse il nome Fiamma Nera, anche le antiche fonti antecedenti l’Impero lo riportavano come tramandato dagli avi, ma restava sempre stupito pensando a come descrivesse alla perfezione quella catena montuosa, così imponente che gli Eidr narravano si trattasse della spina dorsale del gigante Umrir, il primordiale titano con il cui corpo gli dèi avevano plasmato il mondo.

Le montagne si ergevano improvvise da colli e pietraie con i loro fianchi quasi verticali, svettanti guglie di lucida roccia nera, con le cime aguzze coperte di nevi perenni e spesso nascoste dalle nubi. Quel giorno però il cielo era terso e i rosei raggi del tramonto accendevano come torce i pinnacoli che si susseguivano a perdita d’occhio.

Per secoli non c’era stato modo di valicarli a causa dei giganti che vi abitavano e che tormentavano le terre alle pendici con razzie e soprusi. Era stato Colvian, il primo imperatore, a domarli, spezzando i sigilli di un nuovo mondo che attendeva solo di essere conquistato e civilizzato dalla potenza del suo popolo, missione a cui Yanvas e generazioni di Talendyr prima di lui avevano votato l’esistenza.

L’ufficiale sospirò rapito. Aveva visitato quasi ogni angolo dell’Impero durante la sua carriera, eppure non riusciva a ricordare uno spettacolo altrettanto maestoso. Cercò di imprimerselo a fondo negli occhi per portarlo con sé. L’in-domani avrebbe ridisceso il versante settentrionale, cupo, freddo e ombroso.

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Rimase in contemplazione fino a quando sulle cime non rimase che una sottile lama di luce e le valli sottostanti furono inghiottite dalle tenebre. Si avviò con lentezza verso l’ingresso della locanda, dove un ragazzo si era arrampicato con una scala per accendere la lanterna che avrebbe guidato gli ultimi viandanti. Yanvas passò sotto l’arcata mentre, assolto quel compito, il garzone si apprestava a chiudere i cancelli. Il ragazzo si esibì in un lieve inchino, cui l’uomo rispose con un cenno del capo. Si era fatto tardi, Trimvos e Pitral dovevano essere impazienti e affamati, perciò conse-gnò le redini al giovane insieme a una manciata di monete ed entrò per unirsi a loro.

Appena mise piede oltre la soglia della taverna, fu inve-stito da una zaffata di aria calda e viziata, satura di sudore, cibo e fumo. Daimmvor, la Locanda Nera, così chiamata per il colore della roccia con cui era stata costruita, era scura anche all’interno: il soffitto di legno e le travi a vista che lo attraversavano erano neri per le frequenti fumigazioni con cui venivano disinfestati e la scarsa aerazione del locale. L’edificio era assai più imponente delle tipiche taverne e stazioni di posta, poiché spesso il maltempo scoraggiava le carovane dall’affrontare le montagne, e così poteva ospita-re con agio un gran numero di persone e animali. La sala traboccava di mercanti, soldati e faccendieri di ogni risma. Un paio di bardi in piedi sui tavoli si contendevano l’atten-zione degli avventori con poemi e ballate che prevalevano a stento sul brusio.

Yanvas raggiunse i suoi uomini, che si erano accomodati all’estremità di un tavolaccio circondato da panche, dove gli avevano riservato un posto a capotavola. Quando si avvicinò, si alzarono e fecero il saluto, quindi si sedettero tutti insieme e ripresero a piluccare pezzetti di formaggio e mele cotte al forno con il lardo.

«Avete già preso accordi per la notte?» chiese.«No, comandante, abbiamo aspettato voi. La locanda è

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piena, abbiamo pensato che l’oste non si sarebbe sforzato troppo per sistemare due legionari stanchi e puzzolenti.»

«Ci penso io, voi ordinate la cena.»L’oste, un omone dalla pancia formidabile, sedeva accan-

to all’altrettanto monumentale caminetto, in cui il fuoco ardeva vivace nonostante la temperatura fosse già eleva-ta. Era appollaiato su uno sgabello e rigirava pigramente enormi spiedi carichi di carne, dai quali il grasso gocciolava sfrigolando tra le fiamme. Di tanto in tanto si voltava e controllava i clienti, carezzando il manico della mannaia da macellaio piantata in un ceppo posto accanto allo sgabello. L’aroma d’arrosto fece brontolare lo stomaco dell’ufficiale, ricordandogli quanto fosse affamato.

L’oste gli lanciò un’occhiata con sufficienza. Appena notò gli schinieri istoriati, mutò espressione e squadrò Yanvas, di cui riconobbe il doppio ordine di pteruges decorati che gli copriva le spalle. I legionari semplici avevano un unico ordine di pteruges sulle spalle, i centurioni due, i comandan-ti, come ulteriore distinzione, avevano delle frange dorate all’estremità di essi.

Il burbero grugno si aprì in un sorriso mellifluo e l’oste si alzò strofinandosi le mani sui cosciali bisunti delle brache.

«Mio signore, comandate.»«Tra un paio di settimane passerà di qui una colonna di

legionari e schiavi, fate trovare loro provviste sufficienti per valicare le montagne e raggiungere Oellir.»

«Mi serviranno molte corone per procurarmele, mio signore» borbottò l’altro a testa china, con un bagliore avido nello sguardo.

«Questa è una lettera di lord Arsant, legato della Quarta. Ti garantirà credito presso qualunque mercante dell’Im-pero.»

«Benissimo! Troveranno tutto il necessario.»Afferrò la pergamena e la infilò nella tunica, dove rimase

visibile attraverso il tessuto teso sul ventre voluminoso.

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«Ho bisogno di letti per me e la mia scorta.»«Povero me! Non posso accontentarvi, mio signore» pia-

gnucolò afflitto come se gli fosse appena morta la moglie. «Il passo è aperto da poche settimane e i mercanti si affollano per andare a sud prima che i prezzi salgano.»

«Se non c’è posto staremo nel fienile o nella stalla» tagliò corto Yanvas, stufo dei modi untuosi del locandiere.

«Oh no! Non dormirei questa notte sapendo che un nobile è costretto a bivaccare nel cortile. No, non potrei mai! Vi cederò la mia stanza. Il pagliericcio è stato rifatto da poco. Vi costerà due corone, capirete il disagio a cui mi espongo...»

Due corone per una notte erano un vero furto, ma Yan-vas voleva allontanarsi dal calore soffocante del focolare e cenare, quindi allungò le monete e memorizzò le indicazioni per trovare la stanza.

Tornato al tavolo, si lasciò sedere pesantemente sulla panca. Le fatiche del viaggio si potevano leggere in faccia ai suoi uomini e anche lui avvertiva la stanchezza. Ingollò voracemente una cucchiaiata dopo l’altra dello spezzatino ancora fumante, quindi, rinfrancato, si fermò per ripren-dere fiato.

«Ho rimediato una sola stanza. Dovremo dividerla, ma almeno avremo un pagliericcio e saremo al caldo e al coperto.»

«Se non è un problema per voi, comandante, per noi va più che bene» lo rassicurò Trimvos.

«Siamo quasi a metà strada. Da domani calpesteremo il suolo dei nostri avi. Sarà come essere a casa.»

Trimvos accennò un sorriso e disse: «Per fortuna ave-te scelto di precedere la colonna degli schiavi, altrimenti saremmo ancora sotto le mura del castello di Qualisar».

«Sarebbe stato un viaggio meno duro, ma troppo lungo. Non so quando potrò ripartire da Colvian e devo condurre le truppe al campo in tempo per completarne l’addestra-

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mento e costruire gli acquartieramenti invernali. Se tutto andrà bene, saremo di ritorno per la fine della Luna dei Valorosi» concordò il comandante.

Notò che Pitral era rimasto in silenzio, assorto. Si accorse che fissava una delle serve, una giovane dai capelli corvini e gli zigomi forti che marcavano un volto affascinante. Il legio-nario cercava di incrociarne lo sguardo, ma lei non alzava mai gli occhi azzurri da ciotole e stoviglie. La veste stretta in vita, la cui unica concessione era la generosa scollatura, lasciava intuire un corpo snello e provocante. La ragazza si chinò e i due ebbero una fugace visione del seno pieno, dalla pelle liscia e perfetta. Yanvas distolse lo sguardo, il grado gli imponeva un contegno severo.

Finirono lo spezzatino e chiusero il pasto con delle focac-cine al miele e pinoli, chiacchierando del tragitto e della vittoria appena conseguita sugli Eidr. Yanvas si accomiatò per lasciare liberi i soldati, che amavano concludere la serata con una partita a dadi, e uscì all’aperto per un’ultima boccata d’aria prima di ritirarsi.

Appoggiò contro il muro la scala utilizzata dal ragazzo per accendere la lanterna, si arrampicò e si sedette sul cam-minamento degli spalti, con la schiena contro il parapetto. Aprì l’astuccio per pergamene che portava appeso alla cintura e ne estrasse la lettera di suo padre. Era una notte di luna piena e poté leggerla senza fatica, mentre attorno a lui i pipistrelli compivano rapide picchiate per catturare gli insetti attirati dal lume.

Sulion lo informava di aver raggiunto un accordo con la casata dei Marvilien per dargli in moglie Sylia, la più giovane – e secondo suo padre la più bella – delle figlie di lord Drelmyn. Avrebbe ricevuto in dote la castellania di Qualisar, zona che conosceva bene, e il comando della guarnigione della fortezza, oltre alle terre elargite ai vetera-ni al termine del servizio. Auspicava di trovare il modo di farli incontrare durante il suo rientro a Colvian, che sapeva

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imminente, affinché si potessero delineare gli ultimi dettagli. La lettera si concludeva con notizie sulla salute della madre e considerazioni sulla conduzione della tenuta, ma la parte importante era la prima e la rilesse più volte, come aveva fatto quasi ogni sera da quando l’aveva ricevuta.

Un rapace notturno lanciò un richiamo e uno dei cavalli nitrì innervosito. Yanvas si destò di soprassalto. Doveva essersi appisolato. Rientrò. La sala era buia e silenziosa, con le panche trasformate in brande improvvisate dai vian-danti che non avevano trovato posto per dormire. L’oste russava davanti al focolare, la sua pancia si stagliava come una collinetta tremolante contro le braci morenti. Salì le scale cigolanti fino alla soffitta, dove di solito dormiva il personale. Le pareti non erano in muratura come nel resto dell’edificio, ma sottili tavolati male in arnese, attraverso i quali filtravano spifferi e suoni. Si diresse verso la porta alla sua destra, seguendo le indicazioni, e l’aprì con cautela, timoroso di disturbare i compagni di viaggio, ma la stanza era deserta. L’unico segno del passaggio dei due erano i bagagli impilati in un angolo. Udì alle proprie spalle delle risatine femminili e gemiti di natura inequivocabile. A quanto sembrava, le servitrici avevano riservato a Trimvos e Pitral una calorosa accoglienza. Quella sera i suoi compagni non avrebbero certo sentito la sua mancanza.

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Capitolo 5

I tre cavalieri procedevano da ore lungo lo sterrato, attra-verso frutteti e sconfinati campi di grano in cui stavano maturando le messi. Non incrociavano anima viva da quando avevano abbandonato la strada principale, i pochi contadini e pastori avvistati da lontano si erano guardati bene dall’av-vicinarsi e fare domande. Superarono un’ultima collina e finalmente, da sotto gli elmi arroventati dal sole a picco, scorsero le mura della villa dei Talendyr. Si lanciarono al galoppo, ansiosi di concludere il viaggio iniziato venticinque giorni prima, seicento leghe più a sud.

Senza mai abbandonare la Carovaniera del Ferro, dal Monte Walur avevano raggiunto Tannquil in dieci giorni, lì si erano imbarcati su un battello fluviale che li aveva condotti fino alla capitale Colvian dopo aver oltrepassato le grandi città di Arathuin e Marghalis. La prima sorgeva alla confluenza dei due rami del Duin ed era uno snodo importante perché vi si smistavano le merci da inviare verso Tannquil oppure a Losirith, punto di partenza della Carovaniera Occidentale, mentre la seconda era il granaio della fertile pianura dell’Ereth.

Prima di discendere il fiume, avevano compiuto una breve sosta a Oellir per invitare i mercanti a diffonde-re la voce dell’imminente arrivo di una grossa partita di robusti schiavi da destinare alle campagne del nord. Per i Colviani era importante che gli schiavi non lavorassero mai in prossimità delle loro terre d’origine, in modo che le

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barriere linguistiche e la scarsa familiarità con il territorio scoraggiassero la fuga.

Cullato dalla pigra corrente del grande corso d’acqua, Yanvas aveva riflettuto a lungo sul proprio futuro. Sulle sue spalle gravava la responsabilità della prosecuzione della stirpe dei Talendyr: in particolare sapeva quanto stesse a cuore a suo padre che non si interrompesse l’ultracen-tenaria tradizione della carriera militare. Il primogenito Imian avrebbe perso il cognome all’atto dell’investitura, assumendo per legge quello delle terre su cui si sarebbe trovato a governare, così come i suoi figli. Persino se i futuri discendenti avessero perso il diritto a governare il feudo, non sarebbero mai ritornati Talendyr, ma avrebbero adottato il cognome materno. La corona indeboliva e diluiva in ogni modo possibile i legami di sangue per scoraggiare alleanze sotterranee che avrebbero potuto minacciarla.

Sebbene la vita militare non gli dispiacesse per nulla – non ne aveva conosciuta altra e nemmeno ne aveva mai sentito il bisogno –, provava una piacevole sensazione di sfida e di novità al pensiero di amministrare la castellania di Qualisar. Secondo le parole di Sulion, c’era la possibilità che in seguito il figlio venisse nominato barone, ma Yanvas era convinto che il padre gli avesse scritto con la morte nel cuore, consapevole che ciò avrebbe significato l’estinzione della casata.

Quale che fosse il suo destino politico, avrebbe dovuto condividere il resto dei suoi giorni con una donna che al momento nemmeno conosceva. Aveva capito da tempo che quello dei genitori non era stato un matrimonio riuscito, bensì freddo e formale, e temeva di finire allo stesso modo, cercando consolazione tra le braccia delle schiave più giovani e avvenenti. I partiti ambìti erano i primogeniti, non i figli cadetti, ritenuti un ripiego migliore solo del nubilato o della vita monacale. A quelli come lui erano preferiti persino i rampolli dell’alta borghesia, soprattutto i mercanti, perché

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oltre a garantire enormi ricchezze, gli affari li spingevano a vivere nelle grandi città anziché in manieri e tenute sparsi negli angoli più anonimi dell’Impero, dove per le dame si prospettava una vita di noia e solitudine, accanto a bruti che le accarezzavano con la stessa grazia con cui per lustri avevano lucidato l’armatura.

Yanvas rabbrividiva all’idea di una megera capricciosa e immusonita, sarebbe stato come dividere il letto con un eidr. Aveva la spiacevole impressione che da sempre la classe dominante considerasse il matrimonio alla stregua della riproduzione dei cavalli migliori.

Varcarono i cancelli della villa e si fermarono nel cortile deserto, all’ombra degli enormi castagni in fiore che sovra-stavano l’edificio. Era l’ora più calda della giornata e tutti riposavano prima di riprendere il lavoro.

Yanvas affidò il cavallo ai compagni, impartì le istru-zioni per raggiungere le scuderie della tenuta e da lì la cucina, dove la servitù li avrebbe rifocillati e accuditi, ed entrò in casa. L’ingresso era fresco e quieto come lo ricordava. La villa si sviluppava su di un unico piano e aveva una pianta rettangolare, con l’ala orientale e quella posteriore dedicate a granai, fienili e tutti i locali neces-sari alla cura delle campagne circostanti. La grande corte interna era il regno di suo padre, che l’aveva trasformata in un lussureggiante giardino e amava trascorrervi le gior-nate immerso nella lettura. Si fermò un attimo presso il piccolo altare votato ai dhulos, gli spiriti degli antenati. L’aria di casa fece svanire la stanchezza e, quando uscì di nuovo all’aperto, si sentiva già come se non l’avesse mai lasciata. Appena si fu riabituato all’abbacinante luce del sole, si diresse verso la poltrona del padre, che gli dava le spalle. Cercando di non fare rumore, si addentrò tra rose, aiuole di gladioli, bocche di leone e profumati cespugli di lavanda.

«Yanvas! Finalmente, figlio mio!» sbottò Sulion.

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«Padre, mi avete sentito» rispose con una vena di delu-sione.

«Sono zoppo, non sordo. I servitori vi hanno visti arrivare e ti hanno riconosciuto subito. Come stai? È passato così tanto tempo da quando sei venuto l’ultima volta.»

«Tre anni, ma sto bene. Anche voi mi sembrate in buona salute.»

Yanvas notò che il genitore teneva in grembo pergamene con disegni e appunti.

«Di cosa si tratta?»«Me li ha dati Drelmyn. È una nuova arma a cui stanno

lavorando, una versione rimpicciolita degli scorpioni d’as-sedio, si chiama balestra. Il problema principale è caricarla, richiede una forza notevole, ma con questa potremmo eguagliare o persino superare gli archi lunghi. Dimmi di te, piuttosto. Hai ricevuto la lettera?»

«Sì, vi ringrazio per la vostra premura. Sono ansioso di conoscere Sylia, ne avete tessuto grandi lodi.»

«È una splendida ragazza, sarà una moglie devota e feconda. Le tue gesta ti hanno preceduto, sono fiero di come hai combattuto al Vallo.»

«A tal proposito, devo consegnare al Maresciallo Mar-vilien il rapporto di Arsant.»

«Oh, non preoccuparti, sa già tutto. Un corriere ti ha anticipato. Consegnerai il rapporto all’imperatore Dolagirt durante la cerimonia che si terrà a palazzo.»

«All’imperatore in persona? Cerimonia?»«Tra due giorni ti verrà conferita una decorazione, Yan-

vas. La più alta onorificenza che l’Impero attribuisca ai propri eroi: un ippogrifo di Pavlion! Il cuore mi scoppia d’orgoglio!»

Yanvas era sbalordito. Era consapevole di essere stato decisivo durante la battaglia, ma un ippogrifo di Pavlion era qualcosa di incredibile. Nell’intera storia dell’Impero, appena una manciata di uomini aveva ottenuto un simile

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onore. Sulion si alzò appoggiandosi a una delle grucce e abbracciò il figlio irrigidito, quasi sull’attenti. In tutta la sua vita, non ricordava che avesse mai fatto nulla di simile.

«Per gli dèi, puzzi come un caprone! Corri a farti un bagno prima di salutare tua madre o non vorrà mai più vederti!» lo apostrofò il padre nel tentativo di nascondere gli occhi lucidi dietro una maschera di finto disgusto.

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Capitolo 6

Yanvas era nervoso, chiuso da quelle che gli sembravano ore in una sala laterale del palazzo imperiale, vuota e deserta. Anche se appariva minuscola paragonata alla sala del trono, era talmente vasta che i rumori vi si perdevano. Attendeva lì dal primo mattino, quando era giunto a bordo di un cocchio insieme ai genitori. Il padre non aveva cessato un attimo di lodarlo e ripercorrere la storia dei Talendyr, invece la madre era rimasta silenziosa, algida, con le mani giunte in grembo e le labbra serrate come se ne trattenessero l’ultimo respiro. Se qualcosa di quell’evento la rendeva felice, era l’occasione di mescolarsi alla crema della società, come aveva desiderato invano per tutta la vita. Ma nel figlio minore vedeva solo una versione più giovane del marito, un uomo che non sarebbe mai assurto a un ruolo più importante di una comparsa sul palcoscenico della nazione. Per qualche ora avrebbe occupato il posto che riteneva spettarle di diritto, ma poi, nella solitudine della villa, il ricordo avrebbe accresciuto il rancore che le albergava nell’animo. Quarant’anni non erano bastati per farle digerire l’affronto impostole dal padre, il matrimonio con un militare congedato perché storpio, le cui terre migliori erano quelle della sua dote e che non aveva mai ricevuto un’investitura. Certo, li chiamavano lord e lady Talendyr, ma era più un atto di cortesia che qualcosa di dovuto, perciò alle sue orecchie quei titoli risuonavano derisori.

Yanvas non si era sentito così a disagio nemmeno prima

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di una battaglia. Sapeva cosa aspettarsi durante uno scon-tro e come fronteggiarlo, mentre a corte si trovava in un ambiente estraneo e per giunta al cospetto dell’incarnazione dell’Impero, sua altezza imperiale Dolagirt, portatore della Corona Nera. Si chiese se qualcuno degli avi che lo avevano preceduto nelle legioni avesse mai incontrato il sovrano di persona. Stando a quanto gli aveva raccontato il padre, nes-sun membro della famiglia aveva ricevuto un’onorificenza altrettanto importante.

L’Impero aveva vari modi per riconoscere e celebrare il valore in armi, il più comune era una corona d’alloro posta sull’elmo, in rari casi rivestita d’oro. Gli atti di particolare eroismo erano premiati con anelli o dischi di ferro, solitamen-te esibiti sul pettorale dell’armatura; infine vi era l’ippogrifo di Pavlion, riservato a chi avesse salvato la corona o rovesciato le sorti di uno scontro dalla sicura sconfitta. Si trattava di un disco d’oro massiccio vagamente conico con l’effige in rilievo della testa di un ippogrifo, il simbolo colviano per eccellenza. Ciò che lo rendeva unico e sacro era l’origine del metallo, poiché per realizzarlo gli orafi di corte fondevano i pesi della bilancia del tempio del dio Pavlion, il giudice dell’oltretomba. Il portatore avrebbe potuto porre la reliquia consacrata sul piatto della bilancia del dio al momento di subirne il giudizio, facendola pendere a proprio favore. Alla gloria terrena si aggiungeva la promessa di un’eternità di pace e venerazione da parte dei discendenti.

In una sala attigua, Sulion e Drelmyn Marvilien si erano appartati per discutere gli ultimi dettagli dell’accordo, nell’immediata vigilia dell’incontro tra i figli.

Si erano ritirati in un angolo, accanto a un maestoso caminetto di marmo rosso, bisbigliando per non far rim-bombare le voci nell’immensa stanza vuota.

«Hai fatto benissimo a portare Sylia. È una ragazza splendida, somiglia a sua madre.»

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«Grazie, Sulion, anch’io rivedo Malgren nei suoi occhi. Ha compiuto sedici anni da poco.»

«Speriamo che i ragazzi si piacciano» sospirò il padre di Yanvas.

Drelmyn fece spallucce.«Per tutta la vita Sylia non ha sentito altro che bardi e

menestrelli decantare le gesta degli eroi. Oggi avrà l’occasio-ne di vederne uno in carne e ossa. Gli cadrà ai piedi, vedrai. E comunque sia, è stata allevata con la consapevolezza del ruolo che spetta a una dama del suo rango. Accetterà il matrimonio che la casata ha stabilito per lei, sarà una spo-sa devota, un’ospite impeccabile e darà dei figli al marito, chiunque egli sia.»

Sulion annuì non troppo entusiasta: si augurava che il figlio potesse trovare anche dialogo e affetto nel talamo nuziale.

Il Maresciallo continuò: «Piuttosto, cosa mi dici di Yan-vas? Lui è un uomo maturo, non si infatuerà in modo altrettanto ingenuo».

Il patriarca dei Talendyr si impose di sorridere e adottare lo stesso registro cinico del Maresciallo di Colvian. Dopo aver faticato tanto per vincere le remore dell’ex commilitone, non poteva manifestare esitazioni.

«Ah, Drelmyn, ora sei tu a essere ingenuo! Non ricordi come ci si sente tornando dall’ultima campagna? Dopo due decenni di dura vita militare in sperduti campi di frontiera senza alcun reale conforto, la prospettiva di una moglie, una ricca dimora e una vita di agi sono inebrianti quanto la più fascinosa delle fanciulle, quale si dà il caso sia tua figlia. Yanvas si sarà innamorato anche solo dell’idea della vita che condurrà dopo le nozze. Inoltre quanto hai detto a proposito di Sylia non vale solo per lei. Mio figlio avverte il dovere morale di perpetrare la nostra stirpe e sono certo che di fronte alle grazie della futura sposa l’entusiasmo non gli mancherà!»

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«Hai ragione, ricordo quel periodo. Mi sembrava di essere sempre ubriaco tanto ero scioccamente entusiasta. Sentivo di poter toccare il cielo con un dito.»

«Scommetto che Yanvas farebbe di tutto per non lasciarsi sfuggire Sylia e Qualisar!» concluse Sulion dando una pacca sulla spalla all’amico.

Drelmyn si unì alla risata. Lo scopriremo presto, pensò.

Il tintinnio argentino di una campanella attirò l’attenzione di Yanvas verso una porta situata all’altra estremità della sala, dove una formichina in livrea, incaricata di avvisarlo che tutto era pronto per la cerimonia, gesticolava affinché la raggiungesse.

La sala del trono toglieva il fiato per la sua magnifi-cenza: interamente rivestita di marmi rossi e neri, era lunga quasi duecento metri e alta cinquanta, sostenuta da pilastri sagomati come enormi querce, sui cui rami erano appollaiati ippogrifi dorati a grandezza naturale. Dai loro occhi e dalle bocche si sprigionavano fiamme che illuminavano la sala, alimentate da cisterne di olio di balena poste sopra la volta.

Due buccine suonarono all’unisono, era il segnale atteso da Yanvas. Trasse un profondo respiro e si avviò verso il trono, impettito e marziale, attorniato da due ali di legio-nari della Prima, magnifici nelle loro loriche dorate. Anche Yanvas, imponente e solenne come il dio della guerra, indossava l’alta uniforme e un elmo dorato sagomato come un volto umano, sul quale era posata una corona d’alloro. L’armatura era lavorata a sbalzo per imitare i muscoli del corpo, a metà del torace erano presenti i tre anelli di ferro che l’ufficiale aveva guadagnato in passato e sotto i quali era annodato un nastro, bianco con frange dorate come la tunica sotto l’armatura e gli pteruges su spalle e addome. Gli schinieri erano tubolari, istoriati con ippogrifi rampanti che si fronteggiavano. Alla cintura portava una daga d’argento

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impreziosita da zaffiri, un’arma cerimoniale gelosamente custodita nel tesoro di famiglia.

Al suo passaggio i legionari scattavano sull’attenti e battevano la spada sullo scudo in segno di saluto. La luce aumentava via via che si avvicinava al trono, collocato sotto un cupola alta il doppio della volta. Quasi alla sommità si aprivano numerose finestre attraverso le quali la luce si riversava per illuminare la piattaforma sopraelevata destinata all’imperatore, mettendola in risalto rispetto alla penombra circostante.

Yanvas si fermò ai piedi dei gradini che conducevano al sacro seggio, quattordici come gli anni impiegati da Colvian per unificare l’Impero, e si inginocchiò in attesa. Con la coda dell’occhio, scorse sulla destra il Maresciallo Marvilien e dietro di lui, in disparte, i suoi genitori e una dama giovane e affascinante che immaginò essere Sylia.

Il Maresciallo si schiarì la voce e annunciò: «Yanvas Talendyr della Quarta legione chiede udienza a sua altezza imperiale Dolagirt, figlio di Dathos».

«Concessa. Che venga avanti.» La voce dell’imperatore era ferma e profonda.

Yanvas si tolse l’elmo, lo infilò sotto il braccio sinistro e fece gli ultimi passi prima di scattare sull’attenti e portare il pugno al petto.

Il trono appariva incredibilmente rozzo rispetto allo sfarzo che lo circondava. Vecchio di quasi due secoli, risaliva all’epoca in cui Colvian non era più di un piccolo sovrano locale che aveva conquistato l’autorità in duello. Era fatto di anonima pietra grigia, lo spazio per sedersi era stato appena sbozzato con brutali scalpellate di cui si vedevano ancora i segni nei punti meno consunti. Doveva essere freddo e scomodo, ma ciononostante era coperto solo da un paio di pelli altrettanto grezze, come prescriveva la tradizione. Dolagirt era un uomo massiccio, sulla quarantina, calvo e con il volto completamente rasato. Indossava un’armatura come

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Yanvas non ne aveva mai viste, che lo proteggeva da capo a piedi con spesse piastre laccate di rosso porpora e adorne di fregi e intarsi d’oro. La leggendaria Corona Nera, scaturita dall’unione di pietra e metallo e tempestata di rubini così come la terra dell’Impero era impregnata del sangue versato per crearlo, era persino più imponente di quanto avesse immaginato, ma si sposava bene con l’aspetto di Dolagirt, esaltando la sensazione di forza che ne promanava.

«Cosa ti conduce al mio cospetto, soldato?»Yanvas si sentì uscire il cuore dal petto, aveva la bocca

arsa e temeva di non trovare la voce per rispondere.«Reco il rapporto del legato Arsant sulla battaglia del

Vallo, vostra altezza.»Un paggio prese la pergamena e la lesse ad alta voce, a

beneficio di tutti i presenti. Quando ebbe finito, il sovrano proseguì con le domande rituali: «Ciò che abbiamo appena sentito corrisponde a verità?».

«Lo giuro sulla mia stirpe, vostra altezza.»Dolagirt si alzò in piedi. Superava Yanvas di un palmo

e torreggiava su tutti.«Qualcuno può testimoniare sull’onore della schiatta di

quest’uomo?» chiese ad alta voce.«Drelmyn, patriarca della casata Marvilien e Maresciallo

di Colvian, lo garantisce» rispose il padre della sua promessa sposa.

«E sia, allora! Io, Dolagirt figlio di Dathos, ottavo por-tatore della corona, ti proclamo degno di fregiarti dell’ip-pogrifo di Pavlion!»

Un sacerdote dell’Oscuro li raggiunse reggendo uno scudo con il blasone colviano, un ippogrifo nero rampante in campo rosso alla banda di giallo, su cui era poggiato il monile. Contemporaneamente due sacerdoti di Reverion affiancarono il sovrano recando le sue armi cerimoniali. Uno portava un massiccio scudo in bronzo con il volto di Dolagirt, così pesante da poter essere sollevato a stento da

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un unico uomo, l’altro una vera e propria reliquia, lo spa-done del re dei giganti sconfitto da Colvian nella battaglia del Som Vahl, con il quale si consacravano le investiture. Si trattava di un’arma spropositata per un essere umano, lunga sei piedi e pesante dodici chili, che Dolagirt dovette brandire con entrambe le mani, portando la lama di fronte al viso di Yanvas.

«Yanvas Talendyr, sei pronto a versare il tuo sangue per l’imperatore?»

«Dalla corona l’onore, per la corona il sangue!» rispose senza esitazioni.

Yanvas afferrò la lama con la mano sinistra e strinse fino a farla sanguinare. Quando un cospicuo rivolo ebbe arrossato la lama, la lasciò andare e Dolagirt vibrò un colpo di piatto contro il proprio scudo, che risuonò come il rintocco di una campana. Subito dopo restituì lo spadone al sacerdote del dio della guerra, che scomparve in una porticina laterale.

«Che gli dèi e i miei predecessori ne siano testimoni, affinché il tuo giuramento non possa essere spezzato.»

Da dietro i quattro enormi pilastri che sostenevano la cupola, silenziose file di sacerdoti delle maggiori divinità si disposero a semicerchio ai piedi della gradinata. Yanvas riconobbe i sai blu notte e le lunghe barbe dei ministri del culto di Alyrian, il padre degli dèi, quelli verde muschio e i falcetti d’argento di Ivrassas, le armature di Reverion, l’in-daco dei sacerdoti di Malgavir, dio dei venti e della buona sorte; infine le vesti grigie votate all’adorazione di Pavlion l’Oscuro. I religiosi intonarono un canto solenne, mentre due paggi spogliavano Yanvas del pettorale dell’armatura e lo portavano all’armaiolo di corte, in attesa con i propri attrezzi vicino a un grande braciere per incastonare l’ippo-grifo nella corazza. Da bracieri simili, disposti tutto intorno al trono, si diffuse un dolce profumo di incenso.

Il sacerdote con lo spadone sbucò in una galleria della cupola attorniato da alcuni confratelli, accanto alla nicchia

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che ospitava la statua di Dathos e il suo scudo cerimoniale, contro il quale vibrò un colpo di piatto esattamente come aveva fatto Dolagirt poco prima. I sacerdoti gridarono il nome di Dathos e la litania riprese più forte.

Mentre il fabbro procedeva nell’opera, l’antica arma bagnò uno dopo l’altro gli scudi di Faranil, Rolmas, Avyrius, Avrian e Filimor con il sangue di Yanvas, ripercorrendo a ritroso la storia della nazione, in un continuo crescendo della potenza del canto, poiché ogni volta che il portatore della spada oltrepassava una balconata, altri sacerdoti si univano al coro, finché, giunto al più antico dei sovrani alla sommità della cupola, il nome di Colvian risuonò assordante come un tuono.

I paggi riportarono a Yanvas il pettorale, ora ornato dal maestoso fregio, e lo aiutarono a indossarlo. Sentì il calore bruciante diffondersi sul petto, ma non avvertì dolore. Il canto dei sacerdoti l’aveva rapito, con la mente aveva ripercorso la gloriosa storia della patria e vissuto le battaglie combattute per edificarla. In quel momento si sentiva parte di essa, si sentiva invincibile, si sentiva un eroe. Dolagirt fece un passo indietro, come per invitarlo a rivolgersi ai legionari e ai nobili alle sue spalle. Yanvas si voltò esibendo l’armatura e un secondo boato riempì la sala del trono.

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