Il topo ammaestrato

147

description

Il maestro Mario Pelizza e la didattica della fantasia

Transcript of Il topo ammaestrato

Page 1: Il topo ammaestrato
Page 2: Il topo ammaestrato
Page 3: Il topo ammaestrato

1

a Lidia

...Pelizza sapeva farsi bambino per rendere il bambino adultosenza intaccare il patrimonio di fantasie e di emozioni al cuiinterno è custodito, nel suo enorme mistero, il nucleo più origina-le del futuro uomo...

Page 4: Il topo ammaestrato

2

Page 5: Il topo ammaestrato

Il topoammaestrato

3

Mario Pelizzae la didattica della fantasia

Edizioni FAVOLAREVIA

A cura di Mimma Franco e Mauro Mainoli

Page 6: Il topo ammaestrato

Copertina:

disegno di Gian Piero Vignoli

elaborazione grafica di Walter Arzani

Proprietà letteraria riservata

© 2001 edizioni FAVOLAREVIA

Castelnuovo Scrivia (AL)

Stampa

Dieffe snc - Castelnuovo Scrivia (AL)

4

Page 7: Il topo ammaestrato

5

IL SEME

Il maestro è simile ad un uomo che lavora laterra.Semina un campo.Non sa se la semente gettata è adatta al terreno.Non sa se germoglierà.Non sa se metterà salde radici nelle profonditàdella terra.A volte, per un caso fortuito, queste radici ven-gono allo scoperto.E’ accaduto lo scorso anno, al concorso nazio-nale “La storia più bella...”La favola del topo Tartaglione del maestroPelizza è riaffiorata nei ricordi dei suoi scolaridi un tempo e, con la favola, il suo insegnamen-to di vita, un seme attecchito in tanti terrenidiversi, dissodati con amore.Questo libro ne raccoglie le testimonianze, vivi-de, affettuose, commosse.

Mimma Francodi FAVOLAREVIA

Page 8: Il topo ammaestrato

6

Page 9: Il topo ammaestrato

SMS

Se un editore preciso e attento, come Mimma Franco, avverte la necessi-tà di pubblicare un libro significa che in molti gliel’hanno chiesto.Se il soggetto del libro è un maestro di scuola elementare significa cheha lasciato un segno nei suoi allievi.Il maestro Mario Pelizza, evidentemente, ha vissuto il suo lavoro comeuna missione. Una specie di scuola di Barbiana dove gli studenti e l’in-segnante non sono divisi dalla cattedra e dai banchi. Dove sono sedutiuno di fronte all’altro come in un cerchio: pari diritti, stessi doveri.Maestro compreso.Dagli anni sessanta ad oggi la scuola è profondamente cambiata.Sicuramente in meglio per quanto riguarda la possibilità del sapere e delconoscere.Sicuramente in peggio per quanto riguarda l’affetto, il sentimento, la cari-ca emotiva, la voglia di crescere insieme.E se allora era la miseria e la povertà ad unire i ragazzi infarfallati e conla divisa, oggi è il benessere che divide, che crea le classi sociali, chemolto spesso prevarica e confonde la linea dei diritti e dei doveri. I gio-vani che studiano nel terzo millennio sono sicuramente più fortunati:hanno il computer, navigano su internet, hanno 50 mila lire in tasca tuttii giorni, possono divertirsi e frequentarsi, hanno una mentalità più aper-ta e più liberista. Hanno tutto, telefonino compreso.Eppure, ascoltandoli, seguendoli, frequentandoli, in tutti questi anni incui mi sono occupato di Pubblica Istruzione a Castelnuovo, noto chehanno meno stimoli, il sociale non li attrae, l’impegno lo dimostrano acompartimenti stagni.Più avanti, oltre queste righe, leggeremo la vera anima del libro. Le testi-monianze sorprendenti di chi ha avuto il maestro Pelizza. Il suo modo diinsegnare e di trasmettere il sapere, il suo atteggiamento di fronte ai pro-blemi quotidiani, la sua voglia di sentirsi eternamente bambino per com-prendere i bambini.Non vogliamo farne un idolo o un guru. Semplicemente testimoniarequanto è stato importante, lui, come tanti altri, per la nostra scuola.E quanti maestri Pelizza, ancora oggi, ci sono nella scuola italiana.Certo, il metodo è cambiato. La geografia si insegna grazie ad internet,negli anni del maestro si andava in campagna con la bussola e si guar-dava l’orizzonte.

7

Page 10: Il topo ammaestrato

Tempi diversi.Ora non serve più andare nel campo o raccontare la favola del topoTartaglione. Tempi cambiati.Ora l’italiano si impara con gli SMS.

Gianni TaglianiAssessore alla Pubblica Istruzione

Comune di Castelnuovo Scrivia

8

Page 11: Il topo ammaestrato

9

Grazie, Lidia

Non ho conosciuto il maestro Mario Pelizza: come avrei potuto? Sonoarrivata a Castelnuovo agli inizi del 1997. Quando mi hanno chiesto discrivere qualcosa che lo riguardasse, per questa raccolta di testimonian-ze certamente straordinarie, ho accettato per aggiungere al coro di affet-to e di stima che lo ricorda, la voce della Commissione Biblioteca.Di lui non so niente che già non sia stato detto e scritto da altri che lohanno conosciuto, che hanno vissuto parte della sua vita.Di lui conosco sua moglie Lidia.Parlerò di lei. Come dice un sublime poema indiano “mi è amico coluiche è amato da chi amo”. Lidia amava e ama suo marito Mario. Io amolei: per tante ragioni che forse a lei non piacerà veder scritte in un libroche dovrebbe riguardarla soltanto come parte di una vita che ha condi-viso.Parlerò di lei, e Mario diventerà mio amico. Dirò di quando l’ho vista laprima volta, in una seduta dell’assemblea della Commissione Biblioteca,allora presieduta da Fulvia Bernardini. Ci guardava uno a uno, per quan-ti eravamo seduti intorno a quel tavolo nella vecchia biblioteca, conmeraviglia. Ci ascoltava con un sorriso lieve, paziente sulle labbra appe-na ravvivate dal rossetto. Avrebbe accettato le nostre decisioni, avrebbeaderito ai nostri programmi: chiedeva sottovoce se il mazzo di fiori sec-chi, stupendo come tutti quelli che ha fatto anche in seguito per noi,doveva essere alto o basso, e quale vaso, e quali colori. Chiedeva se e in quale modo esserci utile.In questi anni, e per molte occasioni, l’ho conosciuta meglio. Lidia quelsorriso non l’ha mai perduto. Mai una volta mi è capitato di incontrarlaanche per caso con i capelli in disordine, l’abito poco appropriato allacircostanza, il volto corrucciato. Schiena dolente, problemi di salute suoio di qualcuno che le è caro, non l’hanno mai allontanata dal tavolo dellenostre assemblee. Mai hanno spento quel sorriso. Generosa, gentile, lievecome sanno esserlo soltanto le persone che sfiorano la vita. Senza trop-pe parole (divina signora dai silenzi divini!), ha partecipato sempre conentusiasmo ai nostri progetti: tavole in mostra con le vecchie cose dicasa cercate con cura, nel gusto e nell’amore per le tradizioni; ricette,libri, generosi contributi, presenze. Presenze, anche nei momenti piùduri. Presenze: con quel sorriso lieve e paziente sulle labbra che si tra-sforma in riso in rari momenti magici. E la gioia di esserci, di partecipa-

Page 12: Il topo ammaestrato

10

re, di condividere.Aver conosciuto Lidia e volerle bene mi riconduce a suo marito Mario.Un vecchio saggio recita che dietro a ogni grande uomo c’è sempre unagrande donna: una donna come Lidia. Capace di tanta delicatezza; capa-ce di grandi silenzi e di parole confortanti; capace di generosità e di riser-bo; capace di essere presente anche nei momenti duri.Chiedendo se e come essere utile. Lidia, sua moglie, è sicuramente la testimonianza che questo grandeuomo ci ha lasciato di sé.Mario: che io non ho conosciuto. Ma che ora è anche mio amico.

Elda LanzaPresidente della Commissione di Gestione

Biblioteca civica P. A. Soldini - Castelnuovo Scrivia

Page 13: Il topo ammaestrato

11

Page 14: Il topo ammaestrato

12

Page 15: Il topo ammaestrato

PREFAZIONE

Il topo Tartaglione è al suo primo salto generazionale: nato negli anni ses-santa tra i banchi della scuola elementare dalla fantasia di un insegnanteche amava troppo i suoi allievi per condannarli alla freddezza dei manua-li didattici, è caduto in letargo tra le prime ansie adolescenziali di chi sipreparava a lasciare l’infanzia e si è riaffacciato improvvisamente, tra unaffanno e l’altro, nella memoria dei genitori d’oggi, educatori inquieti esempre in cerca del modo più efficace per comunicare ai figli ciò chesembra diventato incomunicabile, l’amore per la vita.Una madre ha raccontato a suo figlio quanto il topo Tartaglione fosse feli-ce di vivere in una scarpa e con quanta emozione si mettesse ad esplo-rare ciò che era al di là del fiume.Il figlio si è riconosciuto nel topo entusiasta che stringeva amicizie conogni creatura e non smetteva mai di ficcare naso e baffi sotto ogni fogliadel bosco. Madre e figlio hanno deciso insieme: “Al concorso della favola più belladobbiamo mandare questa”.Chi giudicava i racconti inviati alla quinta edizione del concorso La sto-ria più bella raccontata dai miei nonni si è trovato di fronte all’odis-sea di un topo inventato di lezione in lezione da un maestro che inse-gnava più di trent’anni fa, ha chiesto se qualcuno aveva mai sentito par-lare di un tal Pelizza e del suo strano modo di catturare l’attenzione deglialunni e ha infine cercato di capire quale inconsueta strategia educativapossa lasciare tracce così intense, profonde e singolari da entrare nel-l’immaginario collettivo di una intera comunità e trasmettersi alla gene-razione successiva.E’ nato così il progetto di un libro dedicato al topo Tartaglione e al suooriginale e sfuggente inventore.Subito si è presentata la prima, insormontabile difficoltà: non è stato pos-sibile ricostruire il tessuto narrativo della fiaba che in ogni giorno scola-stico, dagli anni sessanta fino al 1975, un maestro fantasioso raccontavaai suoi allievi affascinati. Mezz’ora prima del termine delle lezioni i bam-bini pretendevano di sapere dal loro maestro, che così li aveva abituati,cosa fosse accaduto al topo Tartaglione dall’ultima volta che l’avevanolasciato alle prese con qualche nuovo compagno d’esperienze e qualilezioni avesse imparato dall’esplorazione, spesso incauta, del mondomicroscopico che lo circondava. Il maestro, che neppure ricordava dove

13

Page 16: Il topo ammaestrato

avesse interrotto il filo della narrazione, filtrava con attenta sensibilità ilsuo vissuto quotidiano, distillava il suo amore e la sua attenzione per lepiccole e semplici cose, raccoglieva tutta la carica emotiva accumulatanel difficile esercizio di vivere ogni giorno senza cadere nella gabbiadegli egoismi, e inventava un nuovo frammento dell’immensa saga di untopo vagabondo e curioso, posseduto da una smania vivace di viaggiare.Il giorno dopo, e per quindici, preziosi, anni scolastici, la scena si ripete-va con lo stesso trasporto emotivo.Pelizza non preparava in alcun modo lo sviluppo narrativo e non ha mailasciato traccia scritta delle avventure del suo personaggio: il racconto siinnestava su un episodio casuale della vita del maestro, dell’alunno odella classe e funzionava da occasione appassionante per puntare conleggerezza la lente d’ingrandimento su quel che accade ogni giorno ecercare fra le pieghe delle cose, là dove andrebbero cercate, le radicidelle scelte importanti e dolorose che la crescita non permette di evita-re. Come avviene per ogni tradizione orale, la saga del topo Tartaglione ènarrazione fantastica, distrazione, ma anche potente strumento didatticoperché veicolo di trasmissione diretta dell’esperienza e del sapere, inse-gnamento non codificabile e non trascrivibile sui manuali e proprio perquesto carico di quelle suggestioni, di quell’immediatezza, di quel com-plesso e attento aggancio al quotidiano che sono le costanti di tutte leantiche tradizioni orali in cui il trasmettersi la conoscenza a voce, nar-rando, per millenni è stato il pilastro della sopravvivenza e dell’equili-brio. L’odissea del topo curioso non può essere trascritta, essendo la suaforza proprio nell’occasionalità e nella articolata complessità delle vicen-de, tutte frutto della rielaborazione in chiave educativa di quegli episodidel vissuto quotidiano che ingannevolmente si presentano come i piùbanali e quindi meno raccontabili. Ogni allievo di Pelizza ricorda il topo Tartaglione e la sua insopprimibileansia di conoscere. Pochi riescono a mettere in fila più di un paio dibrevi episodi. Nessuno è stato in grado di ricostruire l’intera vicenda.Per non perdere ogni traccia di questo percorso educativo unico e ori-ginalissimo si è deciso, allora, di ricorrere ad un artificio poco filologicoma di indubbia efficacia: si è trascritta l’ormai famosa fiaba raccontatadalla madre al figlio e già pubblicata in occasione dell’ultimo concorsodella Favola più bella - fissando così un filone importante della saga - ela si è integrata con una ricostruzione fantasiosa di alcune delle avven-

14

Page 17: Il topo ammaestrato

ture più piacevoli, nel rispetto dei moduli narrativi di Pelizza e dellecostanti del suo personaggio. La ricostruzione è opera di Gian LuigiZeme, che di Pelizza è stato alunno, e di alcuni allievi della scuola ele-mentare e media. Tutto il lavoro di indagine sulla saga del topo, svolto attingendo ampia-mente ai ricordi degli alunni, ha spalancato la porta sulla straordinariapersonalità dell’autore, fotografato dalla memoria degli allievi nella suaumile, silenziosa, appassionata ricerca di quelle poche verità alla cui lucevale la pena di crescere l’umanità del futuro. Si è capito, allora, che que-sta intensa galleria di ricordi costituiva la tessera preziosa di un mosaicoche non doveva essere perduto. Abbiamo quindi deciso di pubblicaretutte le testimonianze che ci sono giunte dai suoi alunni, colleghi e amicinella loro totale e fresca interezza. Spetterà al lettore cercare il maestroPelizza là dove gli sembra più toccante trovarlo.Completano questo difficile tentativo di ritratto, sicuramente solo abboz-zato, una breve ricostruzione del metodo e degli ambienti educativi deglianni sessanta, alcune riflessioni su una conversazione avuta con lamoglie Lidia e qualche passo tratto dalle lettere che il maestro spedivaagli alunni e ai colleghi, più proficue di qualunque trattato di pedagogia.Pubblichiamo, infine, uno splendido racconto autobiografico trovatocasualmente fra i suoi appunti.Un grazie va a tutti coloro che hanno accettato il disagio di scolorireemozioni ben custodite e preziose affidandole alle approssimazioni dellacarta stampata, Lidia Crosta Pelizza in particolare.Qualche scusa a tutti coloro che, per ragioni meramente organizzative,non hanno potuto aggiungere il calore del loro ricordo personale.

Mauro Mainoli

15

Page 18: Il topo ammaestrato

16

Page 19: Il topo ammaestrato

la vita

17

Page 20: Il topo ammaestrato

18

Albero genealogicoa cura di Angelo MaggiLuigi Pelizza “del Pizzale” arriva in Alzano attorno al 1850; ha due figli, entrambi natia Pizzale (dove ancora oggi ci sono famiglie Pelizza): Giuseppe, di professione cia-battino, avo del maestro Mario, e Mauro, la cui discendenza vive oggi ad Alzanonella persona di Pelizza Maria (di frè), l’ultima che porta questo cognome.

Page 21: Il topo ammaestrato

19

Mario Pelizza nasce a Castelnuovo Scrivia il 4 ottobre 1930 nella casa difamiglia, fra la piazza e la via Cavour (ex casa Costa).I genitori, entrambi insegnanti, sono Giuseppe (1897-1978) e CorinnaSpalla (1893-1944).I Pelizza sono originari di Alzano; infatti, risalendo a ritroso le generazio-ni, troviamo il nonno Leandro di Alzano e il bisnonno Giuseppe.Gli Spalla sono di Monte Valenza. Il nonno Raimondo, pure lui insegnan-te, ha due figli, Corinna ed Eusebio e perde precocemente la moglie,Genoveffa Raselli.Rimane con i due bimbi di tre e quattro anni e quindi si risposa con EsterBurzi (maestra) e nasce una terza figlia, Maria, la notissima maestra Spalladi Alzano.I genitori di Mario, Giuseppe e Corinna, essendosi rifiutati di prendere latessera del fascio, vengono trasferiti da Castelnuovo verso una zona disa-giata e, intorno al 1932, inizia il periodo di soggiorno a Cannobbio, inprovincia di Novara, e poi a Castelletto Ticino.Nel ‘44 muore la mamma Corinna e il padre rinuncia all’insegnamentoper poter tornare ad Alzano, in via Buca, e dedicarsi alla coltivazione diuna piccola proprietà e alla sua grande passione: l’allevamento delle api.Mario, dopo aver frequentato le scuole medie ad Arona, si iscrive al Liceo

La casa natale, ex casa Costa, al centro, fra la piazza e la via Cavour.

Page 22: Il topo ammaestrato

20

Mario Pelizza all’Asilo (foto in alto, prima fila in basso, il sesto da sinistra) e alla colonia esti-va a Marina di Massa nel 1937 (il secondo da sinistra, in prima fila).

Page 23: Il topo ammaestrato

21

di Voghera che raggiunge tutti i giorni in bicicletta.Il padre si risposa con la maestra Luisa Valdatara, insegnante di scuola ele-mentare a Gerola.Mario non si adegua facilmente alla nuova famiglia e il suo punto di rife-rimento è la nonna che provvede come può, sia per le condizioni eco-nomiche modeste, sia per l’età. Mario, infatti, raccontava che, quandoandava a ballare, indossava le vecchie camicie del nonno che non aveva-no due bottoni uguali.S’iscrive alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Pavia,ma poi desiste per i costi eccessivi e anche perché le quotidiane peda-late da Alzano a Voghera per prendere il treno incidono sul suo cuore bal-lerino e lo affaticano parecchio.La zia Spalla prende in mano lasituazione e lo prepara per l’esamedi diploma magistrale, così Mario avent’anni è anche lui maestroseguendo la tradizione di famiglia;ma dovranno trascorrere alcunianni prima di avere una cattedrafissa.Nel 1950 si impiega presso la dittaColla che a Castelnuovo estrae efrantuma la ghiaia dello Scrivia.La zia Chiale gli offre una cameradel suo alloggio in via Dante. Viene richiamato al servizio militaree inviato ad Ascoli Piceno, poi fre-quenta il corso per allievi ufficiali ediventa sottotenente di cavalleriablindata.Poco prima di partire ha conosciuto Lidia Crosta di Moncalvo, ma resi-dente a Casale Monferrato dove è impiegata negli uffici di una clinica.L’incontro rientra nella casistica della più totale normalità: una coppia difidanzati che si prendono la briga di far incontrare il rispettivo amico eamica e il gioco è fatto!Mario non ha un lavoro fisso e pertanto non è ancora venuto il momen-to del matrimonio, ma solo di una lunga serie di incontri a Casale, rag-giunta a bordo della propria “Lambretta”.

Page 24: Il topo ammaestrato

22

Tira avanti con supplenze e lavoretti vari fino a quando c’è l’idoneità alconcorso magistrale.A questo punto finalmente ci si può sposare e la coppia si trasferisce aForotondo, in Val Curone.Ha una pluriclasse con alunni di terza, quarta e quinta e gestisce, conl’aiuto di Lidia e di Don Remotti, anche la refezione procurando legna,patate e cipolle. Con l’arrivo della primavera inizia l’esplorazione del-l’ambiente tramite lunghe camminate su per i monti, alle quali, oltre aibambini, partecipa ancheLidia. L’anno successivoscatta il trasferimento aCastelnuovo e a Marioviene assegnata una classeprima.Sarà il gruppo iniziale dibambini che porterà inquinta, come avverrà poialtre due volte, sino a quan-do la malattia non inter-romperà questa cadenzaquinquennale.Mario e Lidia si insedianoal piano superiore dellavecchia casa della ziaChiale, in via Dante, eredi-tata dal padre che ha riat-tato la parte bassa per sé eper la moglie.Nel 1967 si costruirannouna villetta in via Kennedy,la casetta confortevole cheoffrirà a Mario un rifugiodefinitivo e sicuro dopotante peregrinazioni.La stessa casa in cui vive tuttora Lidia nel ricordo di Mario e di quel lega-me profondo che li univa e che manifestava con molta naturalezza, stu-pendo e affascinando i bambini.Il periodo 1960-1974 è quello più intenso. La famiglia Pelizza stringe

Sottotenete di Cavalleria Blindata

Page 25: Il topo ammaestrato

23

molte amicizie poiché il carattere di Mario, pacato, razionale, compren-sivo, mai malevolo, si presta ad attirargli simpatie. Per di più è un ottimoascoltatore e ciò piace ai più.Non solo amicizie in paese e con i colleghi (Galasco, Mussio, Arzani,Fezia, Baldi, ecc.), ma anche in tutta Europa.La famiglia Pelizza trascorre tutte le estati in roulotte in giro per l’Italia el’Europa. I vicini di campeggio, che siano francesi, tedeschi, svizzeri,olandesi o austriaci diventano amici per sempre e lo scambio successivodi lettere e di visite va spesso avanti per anni.E’ attivissimo donatore di sangue; e, con il consenso unanime dei colle-ghi, diviene il fiduciario, ossia il responsabile delle scuole elementari diCastelnuovo.Nel 1970 e nel 1971, accompagnato da Lidia e dall’amica Sandrina, tra-scorre l’estate in Burundi. Aveva saputo da don Carlo di questo gruppodi tortonesi e di milanesi che collaborava con le missioni di Gitega e diKabulantua. Nessuna esitazione e si ritrova al centro dell’Africa a capo diun gruppo che provvede alla costruzione di una scuola e di una chiesa,mentre la moglie è addetta alla cucina.I momenti più gratificanti sono, però, quelli in cui accompagna un medi-co milanese nei vari ambulatori (semplici capanne di paglia) dei villaggicircostanti. Pulire ferite, fasciare, tenere in braccio bambini malati scuo-te la sua abituale calma. Si emoziona e lavora con un impegno e un entu-siasmo straordinari.Per lui viaggiare, conoscere, fare esperienze, leggere, ascoltare musicanon è soltanto motivo di benessere personale, ma costituisce anche“materiale didattico”.Tutto è utile per avere storie da raccontare ai bambini, per stimolarne gliinteressi, per creare emozioni, per orientare, per fornire modelli di vita aisuoi alunni.In un appunto ritrovato fra le sue carte, Mario scrive: “Il nostro lavoro ele loro conquiste non possono essere giudicate con fredde votazioni. Lascuola è vita, è vivere insieme. Continuerò la mia opera educativa ricer-cando, più che gli approfondimenti specifici, quella maturità di mente edi cuore che sono di fondamento alla vera educazione” (…) “conosco imiei alunni dalla prima e questa conoscenza si è ormai trasformata inaffetto, ed è fonte di esperienza per me e di fiducia per loro”.Mario ama vivere con i “suoi” bambini, sono una componente fonda-mentale della sua vita; stare a scuola è sì il suo lavoro, ma anche un

Page 26: Il topo ammaestrato

24

momento di gioia e di soddisfazione quando, oltre alle nozioni, gli alun-ni apprendono il valore dell’impegno, la pacatezza, il rispetto per glialtri, la curiosità di conoscere e di capire, l’amore per la natura.Mario e Lidia non possono avere figli e ne sono addolorati anche se ognianno ne “adottano” una ventina, Mario in presa diretta e Lidia attraversoil racconto e le riflessioni quotidiane del marito.Nel 1974 la morte è in agguato.Le prime avvisaglie concrete si manifestano durante una escursione incanoa sul Lago Maggiore. Un temporale sorprende Mario e Lidia inmezzo al Lago.Lo sforzo per raggiungere al più presto la riva è intenso e il giorno dopouna tosse stizzosa e un forte senso di affaticamento lo perseguitano.Il successivo ricovero all’ospedale di Pavia rivela una cardiopatia conge-nita che, a detta del cardiologo, non gli consentirà più di due anni di vita.E’ questa una malformazione che non perdona, che invecchia precoce-mente il cuore e che colpisce i componenti maschi della famiglia (avevagià ucciso a 48 anni suo nonno Raimondo Spalla e suo zio Eusebio a 18anni).Non inizia l’anno scolastico 1974-1975 e si trasferisce a Ventimiglia.Apparentemente sta bene, ma ogni sforzo può essergli fatale.Il 10 febbraio 1975 torna a Castelnuovo per sistemare alcune pratiche.La mattina successiva la moglie esce, ma si attarda un po’ poiché molti lafermano per sapere come sta il maestro.Al rientro trova Mario in bagno, pallido, senza forze e con il respirocorto. Viene fatto di tutto, ma il giorno dopo, il 12 febbraio 1975, muoreall’età di 44 anni.

Antonello Brunetti

Page 27: Il topo ammaestrato

25

la saga del topo tartaglione

Page 28: Il topo ammaestrato

26

Page 29: Il topo ammaestrato

27

Le avventure del topo TartaglioneFiaba premiata al V Concorso Nazionale“La storia più bella raccontata dai miei nonni”

Questa favola mi è stata raccontata dalla mamma, che a sua volta l’avevaascoltata da un famoso maestro del paese Mario Pelizza.Tartaglione viveva in una scarpa trovata nel bosco, con la stringa fece lascala, con un buco la finestra, con il sottopiede la moquette, con dellefoglie il tetto, con dei rami la scala interna, con il cotone del pioppo illetto, e con dei rami il tavolo.Margherita, una topolina bianca, si innamorò di Tartaglione, solo cheaveva un piccolo difetto, tartagliavae per chiederle la mano ci mise unquarto d’ora e poi si innamorò.Un giorno egli invitò Margherita acasa e dopo aver cenato si addor-mentarono profondamente.Durante la notte venne un forte tem-porale e quando si svegliò senza ren-dersene conto Tartaglione salì dallascala per procurarsi la colazione mavenne quasi investito dall’acqua pio-vana che venne giù così forte da alla-gare il bosco, la scarpa di Tartaglionegalleggiava dispersa e avvertì subitoMargherita.Saliti sul tetto hanno visto una cascata e, temendo che la casa diTartaglione potesse ribaltarsi, gli venne in mente di prendere una cordanella dispensa e formando un cappio si agganciò al primo ramo chetrovò.Piano piano si arrampicarono alla corda e si salvarono, videro la lorocasetta scivolare nella cascata.Quando finì la tempesta entrambi erano liberi, e dopo un po’ di tempodecisero di sposarsi e andare a vivere nella casa di Margherita.I due topolini erano molto poveri e per il viaggio di nozze decisero diandare in Africa dai loro parenti in cerca di lavoro.Non era facile salire sulla nave perché c’erano degli uomini; allora siintrufolarono di notte e incontrarono un topo clandestino di nome

Page 30: Il topo ammaestrato

28

Salem. Ad un certo punto a Margherita venne fame e Salem allora andònella dispensa a prendere il formaggio. Ad un tratto arriva il cameriere,il topolino fa un buco nel formaggio e vi si nasconde. Il cameriere all’in-saputa prende il vassoio e lo porta nella sala da pranzo, ma Salem fa unaltro buco nel formaggio e, sgusciando tra le gambe dei tavoli, pianopiano torna nella dispensa, dove prende un altro pezzo di formaggio daportare nella stiva, il suo nascondiglio. Margherita sente il capitano chedice: “Cambiamo rotta”. Si fermarono in un paese vicino all’Africa a fare rifornimento di cibo. Nel frattempo, Margherita, Tartaglione e Salem andarono in un bar e men-tre Tartaglione si inciuccava Margherita disse: “La nave sta partendo!”.Tartaglione non si reggeva in piedi, allora Salem se lo mise sulle spalle eper un pelo riuscirono a salire sulla nave.Infine sbarcarono in Francia e trovarono un lavoro e degli amici.

Stefano Bassi

La storia infinitaEcco alcuni brani della lunga storia, “ricostruiti” attraverso i ricordi.Il topo Tartaglione è disponibile alla condivisione della parola e delgesto e sempre attento agli aspetti tecnici e al modo in cui gli amiciche incontra utilizzano gli scarti della società. Siamo negli anni ’60:il riciclaggio, l’effetto serra ecc. devono ancora venire ma il narratore-autore già stimola ad una sensibilità ecologica.Al maestro preme insegnare l’arte dell’arrangiarsi, quasi per farcimettere da parte un’esperienza che non impareremo tra i banchidella scuola. La naturalezza e la semplicità appassionano e unisconoinsegnante e scolaro lasciando spazio ad emozione e interazione.

L’OSTERIA DI POLDO E LUCIO

Il topo Tartaglione viaggiava da giorni lungo il greto del torrente e avevauna gran voglia di incontrare qualcuno per scambiare due parole.In fondo non gli mancava altro: aveva acqua a volontà e il cibo lo trova-va scavando tra le foglie e i rami degli alberi e poi un posticino comodoper dormire, con un po’ d’attenzione, lo trovava tutte le sere.

Page 31: Il topo ammaestrato

29

Ecco che sente una musica in lontananza. Forse un pescatore e in ognicaso un uomo; non di conforto alla sua solitudine. Camminando il suonoaumenta… sale su un grande sasso ricoperto di muschio verde per vede-re meglio… ecco che all’orizzonte si nota una sagoma scura tra i cespu-gli. Sembra una grande pentola capovolta.Sceso dal sasso va in fretta in quella direzione. A poca distanza capiscedi cosa si tratta: un’automobile!Una grossa automobile abbandonata sul greto del torrente: nera, con unaporta aperta e i finestrini chiusi. Dall’interno provengono suoni, voci alle-gre e una musica come quella che sentiva quando al paese festeggiava-no in piazza d’estate.Un topolino esce e salta giù dalla macchina.“Ehi! Amico!” grida Tartaglione, “Ciao…caro! Vai alla festa nell’Osteria diPoldo?” risponde l’altro,barcollando.Tartaglione non sapevané della festa né di chifosse l’Osteria ma vistolo stato allegro e dispo-nibile dell’interlocutorepensa bene di non com-plicargli la vita contante domande e, facen-do finta di essere uncliente fisso, risponde:”Si! Certo! E tu?”.Si raccontano così unpo’ di cose: il topo Tartaglione spiega che sono giorni che non vede nes-suno e il nuovo amico racconta tutti i particolari dell’Osteria e di comesi mangia e si beve bene.Il locale si chiama: “Da Poldo e Lucio”. E’ frequentato da tutti i topi dellazona. Lo hanno allestito i due padroni in una vecchia automobile abban-donata da alcuni anni. Abbandonata perché colpevole di avere un moto-re ormai non più riparabile. In compenso la carrozzeria è ancora buonae soprattutto l’autoradio va a meraviglia. L’unico problema è la batteria:deve essere caricata ogni tanto grazie ad un marchingegno ideato daPoldo (una specie di bicicletta-dinamo). Tra le cose trovate nell’autoanche una “musicassetta” del genere “liscio” che è proprio adatta.

Illustrazione di Carlo Zeme, I B - Scuola elementare diCastelnuovo Scrivia.

Page 32: Il topo ammaestrato

30

Il topo Tartaglione saluta l’amico ed entra nel locale.Ci sono alcuni topolini che ballano sul sedile posteriore mentre sul cru-scotto, con vista sul fiume, sono sistemati tavolini (scatolette di tonnorovesciate) e seggiolini (tappi da spumante): un vero e proprio bar.Saluta e ordina da bere un bel bicchiere di vino rosso; tutta la tristezzadei giorni passati si scioglie con quel vinello che scalda e rende la menteleggera. Diventa amico degli altri topolini e soprattutto fa amicizia conPoldo e Lucio.Passa, così, una serata indimenticabile proprio perché tanto inaspettata.E per la notte: una bella cameretta ricavata da una scatola da scarpemessa nel baule dell’automobile.Tartaglione non aveva mai dormito così serenamente.

LA BARCA DEL TOPO TARTAGLIONE

Davanti al suo cammino si presenta un fiume, molto più grande di quel-li visti sino ad ora. Sembra un mare. La voglia di viaggiare è tanta, non saràcerto questo ostacolo a fermare il nostro amico. Ma il coraggio nonbasta, ci vuole anche un mezzo per arrivare dall’altra parte.Tartaglione comincia a curiosare sulla riva. Trova delle latte, dei rami,qualche vecchio copertone. Ad ogni progetto immaginato subito sioppongono difficoltà: il copertone è troppo pesante, la latta troppo insta-bile, il ramo potrebbe ruotare su se stesso e poi è stretto.Bisogna farsi venire un’idea, fa caldo e il sole arroventa i sassi rendendodifficoltosa la ricerca. Poi ecco un oggetto che lo ispira positivamente:una vecchia pantofola di panno marrone, chiusa dietro, con suola digomma. Niente sarebbe stato più utile.Il nostro amico comincia a utilizzare oggetti già raccolti: spago, fil diferro, un cucchiaio e rami secchi. Con un po’ di fatica riesce a legare irami ai lati della pantofola e col fil di ferro fa una traversa per sedersicome su una vera barca. Carica il sacchetto con le provviste e il cuc-chiaio. Poi spinge la “barca” verso l’acqua.Ora il fiume fa più paura, l’acqua scivola veloce e appena sfiora la puntaspinge forte.Un passero che ha seguito i preparativi scende, si posa sulla barca e rivol-gendosi al topo dice: “ Vuoi un aiuto?”. “Certo! Grazie, potresti davvero darmi una mano o un’ala......( ! )”. Eridendo per la battuta iniziano la navigazione. Tartaglione è seduto e

Page 33: Il topo ammaestrato

31

rema col cucchiaio, il passero Briciola sta a prua governando con colpid’ala le sbandate provocate dalla corrente.La traversata è lunga, difficile, faticosa e incerta.Ma, come si dice, l’unione fa la forza. Raggiungono un isolotto e poi dinuovo nell’acqua fino ad aggrapparsi a delle radici che spuntano dallasponda.La barca ha retto bene ed è un peccato abbandonarla. Allora Tartaglionedecide di regalarla a Briciola. Farà il traghettatore per tutti gli amici chedevono attraversare il grande fiume.Si salutano e sperano di rivedersi presto, magari quando verrà l’autunno.Da lontano il topo si gira a vedere l'amico traghettatore che naviga tra lepiccole onde del fiume. E’ stata una bella esperienza. Ma ora bisognacamminare per arrivare alla città dove Tartaglione vuole scoprire cosenuove, mai viste. Ha sentito parlare di negozi, semafori, luci e molti postidove trovare del cibo a buon mercato, vuole proprio vedere se è vero.Si vedono e si salutano: Tartaglione agitando il suo sacchetto e Briciolasventolando un’ala.

Illustrazione di Carlo Zeme, I B - Scuola Elementare di Castelnuovo Scrivia.

Page 34: Il topo ammaestrato

32

IL TOPO TARTAGLIONE VA IN CITTÀ

Dopo tanto cammino finalmente Tartaglione arriva in città. Il paesaggioche prima comprendeva solo alberi e campi adesso cambia e le casesempre più ravvicinate fanno capire che la meta si avvicina. Sulla stradaaumentano automobili e motorini: nascondersi nei fossi diventa semprepiù necessario per evitare di rimetterci la coda o le orecchie.Si ferma a riposare e a riflettere sul da farsi nei pressi di una casa; dentroil cortile nota una grande cuccia con la scritta “Lampo”. Dopo poco arri-va anche il cane: è grosso, nero e per via di qualche pelo bianco sul musosi capisce che deve avere una certa età.Osservando da lontano vede che Lampo è di animo buono con tutti etratta bene i suoi amici animali che vivono con lui nel cortile (il gatto, latartaruga e il gallo). Tartaglione pensa che è l’animale giusto per i suoibisogni, chiederà aiuto a lui per visitare la città.Prende il coraggio “a due zampe” e va a parlargli. Al cane piace l’idea diTartaglione: gli farà da “Cicerone” portandolo in groppa tra le vie affolla-te. In compenso Tartaglione gli darà una ricetta portentosa per fare un

Illustrazione di Carlo Zeme, I B - Scuola elementare di Castelnuovo Scrivia.

Page 35: Il topo ammaestrato

33

sapone antipulci secondo una vecchia ricetta appresa, quando viveva incampagna, dal vecchio gatto Rando.Il topo si arrampica fino al collare del cane e insieme partono.....E’ emozionante stare in groppa a Lampo, il mondo si vede da un’altra pro-spettiva. Attraversare la strada è facile e sicuro (Lampo aveva studiatoanche un po’ da cane per ciechi quando era giovane e sapeva attraver-sare le strade benissimo). Una cosa divertente è vedere gli oggetti espo-sti nelle vetrine illuminate e gioiose. E nessun gatto ha il coraggio diguardare male Tartaglione... dovrebbe poi vedersela con Lampo. I postipiù allettanti sono le uscite delle cucine dei ristoranti e quelle di servi-zio delle botteghe alimentari: i due fanno svariate merende.Dopo il divertimento anche un po' di cultura. Vanno a visitare il parcodove fanno una dormita su un prato verde pieno di fiori. Poi ancora aspasso davanti a monumenti e chiese. Lampo, prima di ritornare, vuolefar vedere a Tartaglione il treno. Vanno alla Stazione e aspettano il diret-to delle 18.42. E’ eccitante stare ad aspettare il treno e (al sicuro sul mar-ciapiede) sentire poi un gran boato e l’aria forte che ti spinge... Propriodivertente.Tutte queste cose nuove stancano tanto Tartaglione ma anche Lampo.Vanno a casa con le zampe stanche. Il topo si addormenta aggrappato alcollare.Arrivati a casa Lampo invita tutti gli amici del cortile e presentaTartaglione. Stanno tutti nella cuccia al caldo. Qualcuno ha portato delformaggio e poi nella ciotola del cane c’è da mangiare per tutti. La tarta-ruga Lentina decide che è l’occasione di sbottigliare una vecchia botti-glia di vino rosso che teneva per le occasioni felici.Tutti sono allegri e si raccontano le avventure della loro vita. Poi vannoa dormire. Tartaglione dorme nella cuccia di Lampo.Alla mattina i due si salutano, Tartaglione tornerà certamente a salutare ilsuo grande amico....una stretta di zampa e di nuovo sulla strada pernuove avventure.

Gianluigi Zeme

Page 36: Il topo ammaestrato

34

Gli allievi d’oggi raccontano il topo Tartaglione

IL TOPO TARTAGLIONE E LE FOCACCINE AI MIRTILLI

Era una bella mattina, l’aria profumava di ranuncoli e un gentile zefirosolleticava l’erbetta, tutto era calmo, le violette cominciavano a svegliar-si e il sole a mostrare le prime luci.Il nasino del Topo Tartaglione spuntava da sotto le coperte.“Umm…vediamo: fiori di primavera, rugiada e…focaccine ai mirtilli!!”Tartaglione si alzò di scatto per capire da dove veniva quel buon odori-no. Prima pensò alla sua amica Ortensia, ma era troppo lontana, oppurela sua vecchia zia tanto brava in cucina…Seguì il suo naso e giunse all’en-trata di una tana…ma certo, lì abitava nonna Leprotta; il profumo si face-va via via più intenso e il Topo Tartaglione avrebbe dato qualsiasi cosaper una focaccina ai mirtilli; provò a entrare e vide l’anziana Leprottaintenta a preparare un vassoio pieno di squisitezze. Tartaglione cercò dirichiamare la sua attenzione: “Scu-cu-cusi”“Oh ciao Topo Tartaglione, come mai da queste parti?”“Ho se-sentito il profumino e…”

Illustrazione diGiulia Maniezzo.

Page 37: Il topo ammaestrato

35

“Sto preparando delle focaccine ai mirtilli per i miei nipotini che ver-ranno qui oggi pomeriggio, ti dispiacerebbe portarle nella dispensa, perfavore?”“Certo, vado subito, signora Leprotta”.Tartaglione sapeva bene cosa fare, prendere una focaccina e far finta diniente, ma poi uno dei leprottini sarebbe rimasto senza merenda, allorasi fece forza e ripose con cura le focacce nella dispensa. Poi tornò dallanonna e lei gli chiese:“Ma come, non ne hai presa neanche una per te?”“No signora” – rispose Tartaglione – “Spettano ai suo-oi nipotini”.“Caro, sei stato molto gentile ma non preoccuparti, basteranno per i mieipiccoli, forza corri a prenderne un po’ per te”.Così il Topo Tartaglione se ne andò a pancia piena ma senza alcun rimor-so, felice di aver resistito alla tentazione e non aver pensato solo a se stes-so”.

Giulia ManiezzoClasse 2° A, Scuola Media di Castelnuovo Scrivia

Noi alunni della 2° A e 2° B della scuola elementare di Castelnuovoamiamo molto la lettura ed è per questo che le nostre maestre ci invi-tano tutte le settimane a fare il solito giretto in biblioteca (chissà,forse è nata proprio così la nostra passione!), per curiosare tra i libried avere la possibilità di prenderne uno in prestito.Una mattina, però, la nostra curiosità si è fermata sul libro “La storiapiù bella raccontata dai miei nonni” (V Concorso Nazionale).Sfogliandolo velocemente la nostra attenzione è stata catturata dalracconto “Le avventure del topo Tartaglione” del maestro castelnoveseMario Pelizza. E’ così che è nato in noi il desiderio di far vivere al topoTartaglione nuove avventure.

UN TOPOLINO UN PO’ BUFFO

Tartaglione era un topo molto amato da tutti perché buono e ridancia-no.

Page 38: Il topo ammaestrato

36

In occasione di una festicciola ditopolini, il primo ad essere invitatoera proprio lui, il topolino Tartaglio-ne, sempre protagonista di allegri edivertenti giochi per tutti i parteci-panti. Ieri il topo Hamed lo invitò acasa sua perché, dopo l’influenzache l’aveva costretto a letto permolti giorni, voleva conoscere le ulti-me novità.Hamed era un topo che provenivadal Marocco e per la sua origine erapoco amato dagli altri topolini.Tartaglione, però, era diverso; non sicurava della nazionalità e nemmenodelle differenze religiose, perchépensava che tutti i topi dovevano,comunque, essere amici.Tartaglione impiegò due buone oreper aggiornarlo e alla fine Hamed sisentiva più stanco di prima. L’amicolo invitò a sdraiarsi su una poltrona ead attenderlo. Tartaglione si ritirònell’altra camera e poco dopo com-parve truccato da pagliaccio. Il suoviso appariva trasformato: il naso erarosso scarlatto, la bocca gli arrivavaalle orecchie, i capelli rossi eranotutti arruffati ed un pezzo di stoffa loricopriva fino alle zampe.Cominciò lo spettacolo: si rotolò perterra, fece le capriole, imitò il miago-lio del gatto e i versi di altri animali,raccontò barzellette...e Hamed ride-va e si divertiva.“Grazie Tartaglione! Se è vero che ilriso fa buon sangue, tu mi hai aiuta-to, se non proprio a guarire, ad allon-

Giosuè Lemma.

Erika Minetto.

Carola Zito.

Daniele Accatino.

Page 39: Il topo ammaestrato

37

tanare quella malinconia che tantomi opprimeva”.

Gli alunni della 2° B:Daniele Accatino, Davide Boem,Jalil Chahbouni, Martina Crivelli,Daniele Curone, Luca De Marco, M.Teresa Dachille, Angelo Fraschini,Lorenzo Galasco, Giosuè Lemma,Cecilia Mariotti, Mattia Michelon,Valentina Minerva, Erika Minetto,Matteo Moschini, Francesco Pastore, Giovanni Perrotta, MattiaRamundo, Claudio Santi, Marco Serafin, Simone Usala, Alessia Vecchi,Carola Zito.

Le insegnanti:Pinuccia Castagna, Pinuccia Morini, Luisa Gaeta, Valeria Giacobone,Claudia Antonielli.

UNA NUOVA VITA PER TOPO TARTAGLIONE

Nella sua vita, piena di esperienze e di momenti felici, non erano certomancati guai e avventure un po’ burrascose.Ma ora, diventato vecchio e ancheun po’ malato, si sentiva solo, cosìlontano dalla sua famiglia e convintodi non servire più a nulla né a nessu-no.Man mano che il tempo passava, lesue uscite si erano fatte sempre piùrare e i contatti con gli altri topi delquartiere non esistevano più poiché,si sa, quando si diventa vecchi, spes-so più nessuno ti cerca o chiede di te

Luca De Marco.

Giulia Curone.

Page 40: Il topo ammaestrato

38

e, tantomeno, chiede il tuo aiuto o,semplicemente, un tuo consiglio.Stava attraversando davvero un brut-to periodo e, se le cose fossero anda-te avanti così, ben presto le sue con-dizioni si sarebbero sicuramenteaggravate, ma...Un caldo e luminoso giorno di mag-gio nel quartiere Topoletti arrivò unafamiglia giovane, ma numerosa:mamma, papà e sette figli.I sette topini erano molto vivaci ecuriosi, ma gentili ed educati. Fu pro-prio la loro voglia di vivere che lispinse, il giorno dopo il loro arrivo, acuriosare per le vie del nuovo quar-tiere.Fecero amicizia con i topini vicini dicasa e si resero subito simpaticianche agli adulti. Trascorse alcunesettimane dal loro arrivo, si eranoresi conto che dalla porta della tanaaccanto la loro, entrava ed uscivasolo il topo bottegaio Gigio-formag-gis con una piccola borsa dellaspesa.Incuriositi da questo fatto, un giornodecisero di chiedergli chi abitasse làdentro, ma lui rispose, con tono di-staccato e freddo: “Non sono affarivostri”. Non fu certo quella rispostaa farli rinunciare alla loro impresa,anzi! Detto fatto, bussarono ripetuta-mente alla porta fino a quando unavoce debole e malinconica chiese:“Chi è?”“Amici!”, risposero i topini.“Io non ho amici”, replicò la voce.

Cristiano De Paoli.

Giulia Curone.

Stefano Pugliese.

Giulia Corsano.

Page 41: Il topo ammaestrato

39

Subito capirono che bisognava fare qualcosa, così, il giorno dopo, spian-do l’arrivo del signor Gigio-formaggis, si infilarono di nascosto in casadello sconosciuto. Quando topo-bottegaio si allontanò, si avvicinarono atopo Tartaglione e, con la loro simpatia e bontà d’animo, riuscirono a cat-turare anche la sua attenzione.Da quel giorno le loro visite all’anziano topo si fecero regolari e puntualifino al giorno in cui, affrontato il discorso in famiglia, decisero di adotta-re “nonno Tartaglione”.Ora sì che topo Tartaglione era ritornato a vivere: la sua esperienza e lasua saggezza non andarono perdute!

Gli alunni della 2° A:Fatiha Aarab, Chiara Bertocco, Matilde Bocchetti, Michele Bonifacio,Gabriele Castiglioni, Debora Cognetta, Dalida Corazza, GiulyCorsano, Giulia Curone, Cristiano De Paoli, Antonio Improda,Anthony Morisciano, Edoardo Portaluppi, Stefano Pugliese, MattiaScacheri, Simona Sestito, Lorenza Stella, Serena Traverso.

Le insegnanti:Pinuccia Morini, Valeria Giacobone, Luisa Gaeta, Claudia Antonielli,Pinuccia Castagna.

Page 42: Il topo ammaestrato

40

Page 43: Il topo ammaestrato

41

gli alunni ricordano

Page 44: Il topo ammaestrato

42

Page 45: Il topo ammaestrato

43

Giuseppina Di GaetanoQuando i ragazzi ci alzavano le gonne e noi ragazze ci lamentavamo conil maestro, lui con ironia diceva ai ragazzi: “Cosa pensate di trovare lìsotto? Forse dei panini con il salame?”Il maestro ci raccontava la storia del topo tartaglione, una storia ognivolta con un finale diverso perché era stata inventata da lui, ed ogni voltache la raccontava ne modificava il finale.Quando avevo dei problemi con la matematica o altre materie mi dicevadi andare a casa sua per aiutarmi a fare i compiti.Mi ha invitato a casa sua per insegnarmi a preparare la crema pasticceraal cioccolato, come se si sentisse che da grande mi sarei occupata dicucina. Non era un maestro distaccato e distante da noi alunni, ma si integravaed amalgamava con la classe, facendosi rispettare e rispettandoci a suavolta.Quando lui usciva dalla classe perché chiamato, noi alunni ci davamo allapazza gioia, mettendo uno dei nostri compagni come palo, ma appena ilmaestro arrivava il palo ci avvisava e tutti immediatamente riprendeva-mo i nostri posti come se nessuno si fosse mai mosso.Appena arrivati, dopo l’appello, ci faceva recitare le preghiere.Quello che mi è rimasto del maestro Pelizza è stata la sua umanità, il fattoche faceva il maestro per vocazione e passione, trasmettendo tutto il suoentusiasmo.L’ultimo ricordo è stato il doloroso distacco da noi per intraprendere ilsuo ultimo viaggio in Africa come volontario.

Franca FerrariRicordo…Ricordo…RicordoQuanti pensieri, quante immagini, quante nostalgie di quel passatocostruito dentro di me attraverso quella figura di uomo, di padre, di mae-stro che è stato Mario Pelizza!Ancora oggi, per disinfestare le rose uso il tabacco lasciato a macerarenell’acqua per poi spruzzarlo sulle piante, proprio come Lui ci insegnò.“Mario, vieni a vedere chi c’è!” Ricordo la signora Lidia dalla voce esile esottile, mi apriva il cancello. Ed ecco subito venirmi incontro con incre-

Page 46: Il topo ammaestrato

44

dibile agilità la barboncina Laika.Subito dopo arrivava il maestro, una persona semplice e sorridente, dallosguardo sincero, trasparente e puro, con un sorriso tale da non esseredimenticato. Stendeva una coperta in giardino e mi faceva fare capriolee ginnastica come secondo lui solo io sapevo fare. In un modo o nell’al-tro, mi faceva sentire al centro dell’attenzione: così io senza rendermeneconto riuscivo ad essere me stessa, serena e rilassata a tal punto che tuttele mie tensioni e i miei difetti cessavano di esistere.Ma ecco che improvvisamente gli esercizi e i giochi venivano interrotti;facevamo infatti merenda insieme alla mia compagnia di scuola MariaTeresa, che abitava di fronte al maestro.Al termine del nostro incontro non mancava mai di rivolgermi un affet-tuoso: “Come ti senti Franca?” Faceva sempre notare i miei continui pro-gressi anche agli altri. “Avete visto oggi Franca com’è tranquilla ecalma?!”Soltanto oggi capisco dove voleva arrivare. Se i vostri figli hanno dei“difetti”, comprendeteli e non aggrediteli, se oggi riesco a comprenderei miei figli e gli altri è anche per merito Suo.

Giovanni FerrariAL MIO MAESTRO

SE UN IDEALEVIVE NEL CUORE DI UN UOMO

E NELLA SUA ANIMA E NEL SUO SE' DIVINOSI REALIZZERA'

Ramtha

Il primo giorno di scuola, Mario riceveva i genitori e i figli al loro impat-to con la scuola, dritto davanti alla porta, già allora faceva "accoglienza".Bruno, accompagnato dalla mamma, non voleva staccarsi da colei che glidava sicurezza e piangeva; il maestro lo prese in braccio e lo portò allacattedra, lo sedette sulle sue ginocchia e cercò di rasserenarlo.Questa è la prima immagine che mi rimane impressa di lui, un padre cheaccoglie e accudisce i figli.E ..figli siamo rimasti tutti, tutti i suoi alunni.

Page 47: Il topo ammaestrato

45

Partecipavo alla sua vita famigliare, frequentavo molto volentieri e congrande curiosità la sua casa dove si respirava un’aria serena e costrutti-va. Ero incuriosito dalla grandissima quantità di libri che possedeva, dallapassione per la fotografia, le diapositive e i viaggi.All'inizio dell'anno scolastico, dedicavamo qualche giorno a guardare,commentare e studiare le diapositive che aveva realizzato durante levacanze estive, in giro per l'Europa con la roulotte.Anche noi con un po’ di fantasia trascorrevamo con lui le vacanze e...intanto studiavamo la geografia.Ai suoi occhi e al suo cuore eravamo tutti uguali, ci amalgamava, ci"impastava", dispensava a tutti amore e affetto, e nonostante fossimoalquanto birichini, non ricordo nei cinque anni di scuola che avesse maialzato anche solo di poco il tono della voce.Una volta lo feci spaventare.In seconda elementare fui mandato, in orario scolastico, in tabaccheriadalle sorelle Stella, per acquistare della carta assorbente. Nell'uscire di

Classe III A, anno scolastico 1962-63. A sinistra Piero Sacco. Si riconoscono da destra versosinistra: Antonio Carnevale (1° banco), Francesco Curone e Pietro Torti (2° banco),Giancarlo Lova (3° banco, piegato sui quaderni), Giovanni Ferrari (4° banco).

Page 48: Il topo ammaestrato

46

corsa dal negozio, finii sotto le ruote del ciclomotore di De MicheliFrancesco.Rialzatomi, velocemente guadagnai la strada e tornai in classe senza nullaprofferire, ma mi tradì uno strappo nel grembiulino e il padre di Oresteche arrivò in classe per rendersi conto del mio stato di salute.Non ricevetti nessun rimprovero, solo un buffetto...La conclusione del ciclo elementare non spezzò il nostro rapporto chesi tramutò in uno scambio continuo di esperienze ed idee durante tuttoil periodo dell'adolescenza, nel quale l'aiuto di persone fuori dalla fami-glia è il più importante, ricercato ed apprezzato.Le riflessioni su cosa significhi impegno civile, su cosa significhi schie-rarsi a favore delle persone che nulla hanno, sulla volontà di dare amoree di aiutare senza chiedere nulla in cambio, e sul non pretendere dimodificare, se non con l'esempio, la società, in Mario erano già maturatee superate.E' stato un uomo che ha precorso i tempi, vedeva oltre il "momento". Sioccupava di tutti quelli che incontrava sulla sua strada, in particolare dichi aveva bisogno.Si prodigava nel volontariato, conservo ancora un elefantino in avorioche mi portò da una missione in Africa e le parole tremende con cuidescriveva e partecipava al dolore delle persone che aiutava.I suoi insegnamenti sono rimasti sicuramente nel cuore di ognuno deisuoi alunni.Sono felice che la sua figura ed il suo ricordo, caduti nell'oblio, venganorivissuti ed esaltati da coloro che l'hanno conosciuto ed amato.Le persone buone vengono facilmente dimenticate.Cerchiamo di rivivere i suoi insegnamenti affinché anche i nostri figlipossano riconoscersi in questi valori.Il suo percorso sulla terra è stato breve, troppo presto ci ha lasciati per-ché chiamato a svolgere compiti più elevati là dove non esistono confi-ni e limiti e dove l'anima può progredire su altri e più alti piani di cono-scenza.GRAZIE DI ESSERE STATO TRA NOI.

Page 49: Il topo ammaestrato

47

Francesco GattiCaro signor Maestro,certamente nel posto meraviglioso che Dio ti avrà assegnato ti giungeràquesta mia lettera che ti scrivo con il cuore colmo di ricordi e di grati-tudine per tutto quello che hai inculcato nella mia mente.Ho imparato da te cosa vuol dire essere solidali con il prossimo, esserecomprensivi e tolleranti, amare e rispettare gli animali, la natura (ricordile gioiose passeggiate nei campi?), insomma tutti quei valori che mi sonoimposto di seguire nella mia vita di uomo, di marito e di papà! Spero di non averti deluso.Ciao, caro maestro, continua ad insegnare agli angeli ciò che tu sai.

Pierpaolo GhigginoIl maestro.Quando mia mamma mi ha raccontato al telefono dell’iniziativa di rac-cogliere le testimonianze sul maestro Pelizza in un libro, la mia primareazione è stata quella di provare un senso di giustizia. La seconda di stu-pore.Si vuole rendere un tributo all’uomo che forse ha avuto la più grandeinfluenza sulla mia formazione e sul mio cammino di vita. E lo si fa conun bel gesto: un libro, 25 anni dopo la sua morte prematura.Ma per me, nel corso degli anni ed anche dopo la sua morte, il rapportocon il maestro è sempre stato molto personale. Fin da bambino il mae-stro Pelizza è stato il mio maestro e stranamente non ho mai avuto l’im-pulso di dover spiegare troppo di lui ad altri.Da bambino andavo spesso a casa sua, dopo la sua morte sono andatospesso a visitarne la cappella ad Alzano, ed in tutti quegli anni ho sem-pre pensato che lui fosse lì per tutti, così come lo era per me. Era così inclasse, era così in paese.La sua disponibilità era infinita. Fin da bambino lui era stato per me comeuna specie di faro, un riferimento a cui rivolgersi per capire le cose delmondo. Ed i fari son lì per quello: perché tutti quelli che ne hanno biso-gno ne traggano le indicazioni a loro utili per tracciare la rotta che nonli porti a sfasciarsi sugli scogli.Esiste una saggezza di paese. Anzi ne esistono due: quella scritta e quella

Page 50: Il topo ammaestrato

48

raccomandata. E se si parla del maestro Pelizza tutti capiscono quelloche dico e chiunque lo ricordi ne dice bene.Ma a pensarci, pochissimi hanno avuto la fortuna di conoscerlo a fondo,e addirittura non tutti quelli che lo hanno avuto come maestro sono statifortunati come noi, la classe del ’59, che lo avemmo per tutti i cinqueanni. Dopo di noi, la malattia che lo portò alla morte cominciò a poco apoco a sottrarlo ai suoi scolari più giovani, prima ancora di portarlo viaper sempre a tutti.E quindi, come avevo potuto non averci mai pensato? Un libro su di luiera giusto e dovuto. Non tanto per celebrarne le gesta: il maestro era uneroe umile, e questo il paese lo sa già. Ma se in qualche modo l’espe-rienza e le impressioni di coloro che lo hanno conosciuto bene e per cuiè stato importante, riusciranno a suscitare nei lettori di oggi almeno lacuriosità sul perché la gente lo ricorda ancora con tanto affetto, allora sisarà riusciti a trasferire un po’ del suo insegnamento e sono certo chequesto rappresenti il modo migliore per rendere il tributo che lui stessoapprezzerebbe di più.Come può un uomo in cinque anni avere lasciato un’impronta così pro-fonda su chiunque? Nella mia vita ho avuto altri maestri e professori.Alcuni di questi non parlavano nemmeno la lingua che il maestro Pelizzausava con me. Ma persino loro hanno insegnato a me cose che ho uti-lizzato come ho utilizzato, perché ho conosciuto il maestro Pelizza.Il piacere di capire, la curiosità sui meccanismi della natura, il modo divivere delle genti, il diritto di discutere ciò in cui si crede, il dovere diascoltare altri che hanno lo stesso diritto, che i dibattiti servono a gene-rare nuove idee e che dai dibattiti non devono uscire vincitori ma ideevincenti, che riconoscere i propri limiti è il primo passo per poterlimigliorare, che si può sbagliare ma bisogna farlo in buona fede, che nonbisogna aver paura di provare…Tutto ciò ho imparato in quei cinque anni. Tutto ciò ho cercato di appli-care per il resto della vita e tutto il resto mi è parso semplice da capire.Non so spiegare come riuscisse a trasferire tutto questo nella fertile edelicata fantasia di un bambino raccontandogli le storie del topo tarta-glione.Ma so che da lui ho ricevuto quello che per me è ancora oggi uno deipiù grandi stimoli di vita: la voglia di imparare.

Page 51: Il topo ammaestrato

49

Silvia GhigginoMi è stato chiesto se mi ricordavo del maestro Pelizza e se mi “sentivo”di scrivere di questi ricordi; chiunque lo abbia conosciuto anche perpoco, non può averlo dimenticato ed è quindi con commovente nostal-gia che cerco di portare su carta momenti che normalmente porto nelmio cuore. Premetto che Mario (mi è difficile chiamarlo per nome) perme è tutt’oggi il mio Maestro e che di lui ricordo dal primo giorno ascuola al giorno in cui l’abbiamo accompagnato nell’ultimo viaggio.Del primo giorno mi ricordo un gruppo di bambini eccitati e spaventa-ti, seduti sui banchi con a fianco i genitori, poi al momento di salutaremamma e papà, ecco che uno incomincia a piangere ed a disperarsi. IlMaestro prova a calmarlo con modi gentili, ma niente, il bimbo si aggrap-pa alla mamma e continua a far capricci; gli altri bambini immobili assi-stono alla scena, poi improvvisamente cambia tattica, impone allamamma di andarsene e trattenendo il bambino chiude a chiave la portadella classe. Ricordo di aver pensato: “Mamma mia, è un mostro!”. A questo punto ha ignorato completamente le urla e i capricci, e sedu-tosi sulla scrivania, ha iniziato raccontandoci una storia, naturalmentetutti lo ascoltavano incantati e poco dopo anche il bambino si è calma-to sedendosi al suo posto; mai più da allora ho pensato al Maestro comead un mostro se non di bontà e amore.Tra i tanti ricordi che mi accompagnano, uno in particolare raccontosovente alle mie figlie.In primavera, andavo al pomeriggio a far visita a casa Pelizza, in gruppoo sola vuoi per giocare con Laika, una barboncina adorabile, vuoi per“scroccare” qualche favola (riusciva ad inventare una fiaba anche da unaformica), ma soprattutto per le passeggiate in bicicletta o a piedi per lecampagne alla scoperta della natura: si raccoglievano le viole ai bordi deifossi, allora se ne trovavano tante, si imparava a distinguere il grano dal-l’erba, si cantava, si faceva merenda in un prato, si osservava il lavoro deicampi, si parlava molto, si rideva tutti insieme e poi si ritornava a casafelici di cose semplici. Era una persona che amava la vita e apprezzava lecose semplici, ci insegnava che oltre a “vedere” occorre guardare, osser-vare, scoprire e che non si smette mai di imparare.A volte il clima in classe era particolarmente teso, vuoi per la stanchez-za degli alunni, o semplicemente per la materia poco interessante, alloraper rilassarci e poter riprendere la lezione il Maestro usava la frase magi-ca “Giuseppina attacca!” e lei che aveva una bellissima voce iniziava a

Page 52: Il topo ammaestrato

50

cantare e tutta la classe la seguiva. Cantavamo canzonette come “Ladomenica andando alla messa” o canzoni patriottiche come “Bella ciao”ed altre ancora. Ecco, bastavano cinque minuti perché la tensione spa-risse e si continuasse con un altro spirito.Le sue lezioni non erano solo normale svolgimento del programma, maerano vere e proprie lezioni di vita: ricordo che in classe c’erano deibambini meno fortunati che dovevano vivere “al Don Orione”. Alcuniabitavano nei paesi vicini, altri venivano da altre regioni.I bambini, si sa, sanno essere cattivi nei confronti di chi è meno fortuna-to e anche noi non ci smentivamo; col Maestro sbagliavi una volta sola,perché ti faceva subito sentire talmente piccolo e sciocco agli occhi ditutti che mai ti saresti permesso di fare loro altri dispetti. Ricordo chealcune volte questi bambini andavano a pranzo a casa del Maestro e inquesti casi erano persino invidiati.Per spiegare quanto era altruista a chi non lo ha conosciuto, devo par-larvi del periodo più triste. La nostra classe non ha avuto la fortuna di averlo come insegnante pertutti i cinque anni, purtroppo era già ammalato e spesso veniva sostitui-to da supplenti, per questo ci coinvolse in una scelta per lui sicuramen-te sofferta. Ci spiegò che per motivi di salute avremmo avuto nuovi inse-gnanti durante gli ultimi due anni, e ci propose quindi un accordo: ognivolta che la salute glielo avesse permesso sarebbe venuto in classe a farelezione. Questo ci avrebbe dato la possibilità di ascoltarlo ancora senzamodificare continuamente metodo di insegnamento; naturalmente noinon eravamo a conoscenza della sua grave malattia e facemmo fatica acapire la ragione di questa decisione. Ricordo con che gioia lo accoglie-vamo quando apriva la porta, si sedeva sulla scrivania e partivamo pernuove avventure, tra romani, greci o esperimenti scientifici. Credo chepersino le supplenti fossero felici di ascoltarlo, perché dal maestro tuttiavevano da imparare.Amava il suo lavoro come pochi; riusciva a valorizzare il lato migliore inciascuno dei suoi alunni, non faceva distinzioni, per lui eravamo tuttiuguali.Il suo amore per gli altri lo aveva portato ad aiutare i bambini dell’Africa,ma lui lo faceva senza fare rumore, senza disturbare nessuno, quasi dinascosto.Nel mio piccolo cerco di mettere in pratica ogni suo insegnamento, nonsempre ci riesco, ma di una cosa sono certa, che nonostante lo abbia

Page 53: Il topo ammaestrato

51

conosciuto per breve tempo, da venticinque anni è con me, nel miocuore, come penso sia nel cuore di tutte le persone che lo hanno cono-sciuto, come sono sicura che in questo momento è seduto su una nuvo-la e sta svolgendo il compito per cui è nato: IL MAESTRO.

Marco Guagnini“Domani ricordatevi di portare la cartina stradale dell’Italia!”Così terminò una delle tante mattine passate in una luminosa classe,forse la 4° elementare, di tanti anni fa.Il giorno dopo, arrivati in aula, il maestro Mario ci disse:“Oggi andiamo a Perugia”.A Perugia???? – eclamò la giovane scolaresca.“Sì, a Perugia. Avete portato la cartina? Dunque apritela e cercate

Anno scolastico 1960-61, classe I A. Da sinistra a destra, fila in alto: ? , Bruno Lazzaro,Antonio Carnevale, ? , Giovanni Ferrari, Giancarlo Lova; fila al centro: Giorgio Pattarini,Mauro Sella, Gianni Granelli, Ugo Scaffini, Marco Guagnini, Angelo Secondo, FrancescoCurone, Pietro Torti, Gianni Quattrocchio, Maurizio Santi; fila in basso: Piero Sacco, PasqualeSboarina, ? , ? , Nicola Brescia, ? , ? , Oreste Demicheli.

Page 54: Il topo ammaestrato

52

Castelnuovo Scrivia”.Ecco che così incominciò uno dei nostri primi viaggi immaginari, paesedopo paese, tra strade provinciali e strade comunali, di regione in regio-ne.E’ così che il maestro Mario ci insegnò a viaggiare, a muoverci e a cono-scere paesi e genti diversi.Devo dire che il mio amore per i viaggi forse iniziò proprio allora. A distanza di tanti anni e dopo aver visitato tanti paesi, conosciuto gentedi tante razze, vuoi per lavoro o per diletto, uno dei viaggi che maggior-mente mi è rimasto nel cuore è quello che feci all’età di otto anni in unaluminosa classe di una piccola scuola elementare.Grazie Mario.

Mauro MainoliIl ponte del topo tartaglioneA sette, otto anni si incomincia a capire che imparare a leggere, scriveree contare non è solo giocare a essere grandi, cosa che sulle prime riem-pie d’orgoglio, ma significa soprattutto perdere la libertà di sognare ilmondo come lo si vuole: inseguire le fantasie più strane e penetranti, per-dersi per ore tra i sassi del cortile e tra le file di formiche nell’orto, fru-gare tra i gusci di noce e gli scarabei del giardino.Una mattina nevica. Che si fa? Si corre a cercare la slitta, ovvio. E inveceno! Bisogna mettersi una buffa casacca nera e un ancor più ridicolo far-fallino azzurro e ascoltare immobili, per ore, un signore o una signoramolto seri che sanno che cos’è il mondo, come va guardato, se ognunodi noi è più o meno adatto a starci e quante volte si va al gabinetto inuna mattinata in cui sarebbe stato bellissimo farla tra la neve.Il mondo dei grandi ci cade addosso aprendo un abisso infinito di segniincomprensibili, di compiti su cui perdere splendidi pomeriggi di sole -quando era la stagione adatta per cercare i girini! – di regole, di doveri edi ritmi stabiliti il cui senso sfugge a un bambino di sette anni ma spes-so sfugge anche a chi si preoccupa di educarlo.Il mondo dei grandi fa paura, è complicato, ma non come lo sono lelucertole che corrono sui muri e la cui misteriosa freddezza è incante-vole da studiare, è complicato perché è fatto di sforzi, di disciplina, di

Page 55: Il topo ammaestrato

53

sbadigli da soffocare, di lacrime da nascondere, di rabbia da ingoiare. “Possibile che i miei pomeriggi a casa e le mie mattine a scuola debba-no essere così diversi”? – pensa il bambino che a casa si arrampica sul-l’albicocco e guarda gli afidi sulle foglie.Quand’ecco che un giorno, improvvisamente, mezz’ora prima che lacampanella suoni l’ora della libertà, il signore che sta dietro alla cattedra,serio perché sa che insegnare richiede serietà, interrompe la lezione edice: “Ora vi racconto la storia del topo tartaglione”. E un mondo comequello di casa, pieno di animali, avventure, fantasie, litigi e riappacifica-zioni, cancella i banchi di fórmica, la lavagna grigia, la fame di focaccia,e scatena risate, esclamazioni, gridi di stupore.“Allora il mio mondo e quello del maestro si parlano ”- pensa il bambino– “io posso entrare nel mondo degli adulti e gli adulti possono entrarenel mio, allora anche il maestro guarda gli animali, ha paura, grida di feli-cità e vede che i grandi fanno cose stupide!”La mezz’ora del topo tartaglione era per le classi del maestro Pelizza l’u-nico spazio in cui la scuola riconosceva legittimità e dignità ai capriccie alle fantasie del mondo dell’infanzia: i bambini partecipavano, si imme-desimavano, soffrivano e ridevano perché ritrovavano il loro linguaggioe il loro mondo, le loro paure e le loro ingenuità. Nasceva così una sorta di ponte variopinto ma solidissimo che collegavacon simpatia e immediatezza maestro e alunni. Sul prezioso ponte deltopo tartaglione transitavano tutte le emozioni ancora ingenue e confu-se che un domani avrebbero dovuto radicarsi nell’età adulta e trovarsi unruolo e un significato specifico.E le emozioni il maestro Pelizza le disponeva sull’orizzonte etico che siera costruito in tanti anni di battaglie morali, un orizzonte fatto - comeavremmo saputo solo molto più tardi - di altruismo, di attenzione per ideboli, di sensibilità, di rispetto per la vita, tutti valori che scivolavanosilenziosamente nell’animo degli alunni mentre si spaventavano delleterribili conseguenze di un’azione malvagia o erano felici di imparareche l’amicizia illumina il cammino di chi la sa conquistare.La comunicazione con il mondo degli adulti, la crescita insomma, era sta-bilita nel modo più efficace: il maestro non aveva perso il bambino cheera in lui e lo offriva con grande spontaneità ai suoi alunni; gli alunnierano sicuri di poter essere ascoltati e capiti e cominciavano ad indaga-re la coscienza di un uomo adulto che dimostrava, a volte con rigore, disapere come il mondo dovesse sforzarsi di essere.

Page 56: Il topo ammaestrato

54

Insegnare significa sempre distruggere una visione del mondo poten-zialmente antitetica e preziosamente unica, costretta a cedere il passo alsapere omologato e alle verità lecite.Pelizza sapeva farsi bambino per rendere il bambino adulto senza intac-care il patrimonio di fantasie e di emozioni al cui interno è custodito, nelsuo enorme mistero, il nucleo più originale del futuro uomo.Se penso ai miei compagni di classe, agli alunni del maestro Pelizza, trovoche l’omologazione, l’agire ciecamente conforme, sia proprio l’ultimadelle loro qualità, tutti presi come sono, ancora adesso, ad inseguire qual-che sogno sempre meno realizzabile o a domandarsi perché ogni gior-nata si divori inesorabilmente il diritto di sognare. Come se la delicatezza e l’intelligenza del maestro avessero preservatol’essenza più profonda della personalità infantile, dando la possibilità albambino di portare tutto sé stesso, nel bene e nel male, al gran ballettodelle regole sociali degli adulti.Regole sociali a cui saprà decidere se adeguarsi o meno, consapevole diquanto sia unica la propria visione del mondo, di quanto sia preziosa lavita e di quanto sia triste sprecarla rinunciando a sé stessi. Anche perché dal maestro Pelizza i suoi allievi hanno dovuto subire ilpiù duro e inaccettabile degli insegnamenti: che un universo di idee,emozioni, pensieri, gesti e parole, a cui ci si trova legati ogni giorno concomplice affetto, da un momento all’altro viene inghiottito da chissàquale voragine invisibile e sarà inutile chiamare e cercare.

Gianni Quattrocchio“Del Signor Maestro, era mia abitudine chiamarlo così - spiega GianniQuattrocchio - conservo un piacevolissimo ricordo. Non ero un alunnomodello, a scuola mi annoiavo, mi distraevo, fantasticavo, spesso mi estra-niavo dal contesto in cui mi trovavo e la mia mente seguiva mille e mil-l'altri pensieri, eppure mai, mai e poi mai il Signor Maestro ha alzato lavoce con quel bambino dalla fervida fantasia, che era solito isolarsi daisuoi compagni e rifugiarsi altrove con la propria mente. Il SignorMaestro aveva capito il mio carattere e per cinque anni - dal '60 al '64 -mi ha seguito, standomi accanto. La sua era una presenza mite, pacata,sommessa, ma sempre, sempre costantemente vicina. Doverlo lasciare al

Page 57: Il topo ammaestrato

55

In piedi: Renato Geretto, Francesco Curone, Gianni Granelli, Gianni Quattrocchio, AntonioCarnevale, Mauro Sella, Giancarlo Lova, Giorgio Pattarini, ? , Lino Moro, Maurizio Santi.In basso: Marco Guagnini, Pietro Torti, Ugo Scaffini, Piero Sacco, Oreste Demicheli, PasqualeSboarina.

Page 58: Il topo ammaestrato

56

termine delle scuole elementari per me è stato un trauma, un grossotrauma. Separarmi da lui e sapere che quella persona che mi aveva datocosì tanto non sarebbe più stata accanto a me rappresentava uno scoglioinsormontabile. No! Non c'era verso, non era possibile per quel ragaz-zetto undicenne sopportare questo distacco. E' stata una ferita che misono portato dietro per parecchio tempo, ora si è rimarginata, ma la suafigura ha lasciato in me un segno indelebile. Quando ripenso a queglianni di scuola elementare sono colto da una profonda nostalgia e a pocoa poco riemergono i ricordi: sono immagini, parole, discorsi, e favole,favole, tante favole che il Signor Maestro ci raccontava. Non erano narrazioni fini a sé stesse, erano storie cariche di un profon-do significato, erano insegnamenti, e cosa meglio di una favola può inse-gnare ad un bambino a crescere nel rispetto di ciò che lo circonda? Nongrida, non urla, ma favole. Me ne è rimasta impressa una. E' una storia chenon è poi così diversa da quanto poteva accadere una quarantina di annifa ai fanciulli della mia età. Siamo in campagna, in aperta campagna, ed èun caldo pomeriggio estivo e i protagonisti sono un bambino un po' biri-chino, una povera rana vittima delle circostanze e un assennato cavallo.Il cavallo ritorna dal lavoro nei campi trainando il carretto su cui siede ilsuo padrone e avanza ben attento a posare le zampe entro i solchi for-matisi nel terreno. Sul ciglio della strada c'è un ragazzetto che tiene inmano una rana; vedendo il cavallo sopraggiungere, questa piccola pestemette la rana nel solco perché il cavallo la calpesti, ma il fiero animalenota la povera bestiola e la scansa. Allora il bambinetto dispettoso, noncontento, fa qualche passo, supera il cavallo e rimette nuovamente larana nella buca: questa volta, ahimè, il cavallo non se ne accorge e laschiaccia con tutto il suo peso. Un cavallo, insomma, nel suo animalesco silenzio, ha dimostrato più sen-sibilità e più rispetto per la vita di uno dei tanti scatenati figli dell’uomo.Questi - commenta Quattrocchio - erano gli insegnamenti del SignorMaestro, questo il suo modo di comunicarci l'importanza della vita e delrispetto nei riguardi di tutto quanto ci circonda.

Page 59: Il topo ammaestrato

57

Mario SalvadeoQuel viaggio a San Sebastiano Curone con la mitica 1100.A cura di Helenio Pasquali.Ho realizzato quest’intervista con Mario Salvadeo, oggi imprenditoreed ex alunno del maestro Pelizza per cercare di fare affiorare ricordi,particolari, aneddoti in più sul protagonista di questo libro.E’ un tardo mattino di marzo, la primavera sta sbocciando; apriamoil cuore dei ricordi.Quando hai conosciuto il maestro Pelizza?“Frequentando la scuola elementare in quanto è stato il mio insegnantedurante tutti i cinque anni: dal 1965 al 1970”.Il primo flash su quegli anni.“Sicuramente il rapporto costruito durante quel periodo, un metodod’insegnamento rivoluzionario, in senso ovviamente positivo, basatosoprattutto sul dialogo e sulle esperienze vissute ogni giorno”.Non insegnava solo a scuola, giusto?“Esattamente: era normale, per noi alunni, andare a casa sua, ascoltare isuoi racconti nella familiarità di un ambiente verso cui ci siamo prestoaffezionati”.Ma a casa sua non andavate solo voi studenti.“Infatti: spesso invitava altri bambini e ragazzi, soprattutto coloro cheavevano difficoltà. Ricordo le numerose volte in cui ospitava a pranzo ifanciulli che vivevano presso l’istituto di don Orione a Castelnuovo”.Sovente lo andavate anche a trovare di vostra spontanea iniziativa:da che cosa eravate stimolati?“Sicuramente ascoltare il maestro Pelizza voleva dire ricevere emozioniautentiche, avere il piacere di poter imparare sempre qualcosa di nuovo.Ho ben presente il periodo in cui aveva da poco traslocato e nonostan-te fosse molto occupato nel riorganizzare la sua nuova abitazione, riusci-va a dedicare a noi ugualmente moltissimo tempo ed io ero particolar-mente interessato alle attenzioni che egli prestava nel preparare il suonuovo giardino”.Ogni suo momento era poi un racconto importante per la vostra vitache cambiava giorno dopo giorno. “Sì, in un certo senso hai fotografato perfettamente il nostro rapporto. Leesperienze vissute dal maestro Pelizza venivano interamente condiviseda noi tutti; in particolare quelle legate ai suoi viaggi. Egli conoscevaquasi tutta l’Italia ma soprattutto ci raccontava le testimonianze raccolte

Page 60: Il topo ammaestrato

58

durante i suoi numerosi viaggi in Africa, e specialmente nel Burundiquando, insieme a don Carlo Molinelli, durante l’estate si impegnavacome volontario per aiutare quelle popolazioni”.Di cosa vi parlava tornando dall’Africa?“Dalle sue parole capivi con quanto entusiasmo si prodigasse, con donCarlo per essere vicino a fratelli meno fortunati di noi. Spesso mi porta-va a casa i francobolli sapendo che ne ero appassionato. Ma più in gene-rale tanti ricordi del Burundi e dell’Africa”.Un metodo d’insegnamento nuovo già per quei tempi, dicevamo.Com’era possibile?“Beh, innanzitutto aveva una grande capacità nel farti amare ciò che face-vi senza insistenza, senza appesantire la nozione scolastica. Ci aiutava apensare, a ragionare, sviluppando in ciascuno di noi le proprie idee ecapacità. Dal maestro Pelizza abbiamo capito quanto preziosa fosse la realizzazio-ne pratica di ciò che si apprendeva sui testi di scuola. In questo senso ciapriva alla vita, anticipandoci quanto oggi stiamo sperimentando”.Tutto ciò spesso veniva proposto anche fuori dagli schemi tradizio-nali, uscendo proprio dai rituali dell’aula di scuola, mi pare di capi-re.“E’ proprio così: ricordo felicemente le lezioni tenute all’aperto, immer-si nei colori del giardino o ancora quando ci registrava la voce per poifarcela ascoltare”.Un preludio rispetto a quello che poi avremmo visto ne “Il Postino”con Massimo Troisi e Maria Grazia Cucinotta ed il poeta PabloNeruda che registrava i suoni della voce, del mare, delle emozioni.“Già, davvero: il maestro Pelizza sapeva proprio registrare le nostre emo-zioni, le nostre passioni, il nostro entusiasmo”.Un ricordo sul suo carattere.“Il suo carattere è stato sicuramente determinante avendo contribuitoparecchio a realizzare questo suo modo di proporsi: con noi ragazziaveva un bellissimo rapporto chiedendo sempre, peraltro, rispetto edattenzione.Insomma, sapeva, al momento giusto ed opportuno, usare il classicopugno di ferro”.Qual è l’istantanea più bella?“Quando con la mitica 1100 ci ha portati a San Sebastiano Curone a rac-cogliere i fossili dimostrando già cosa significasse la creatività nel mondo

Page 61: Il topo ammaestrato

59

della scuola”.Tu hai una figlia, Elena, che frequenta la 5° elementare. Tutto è cam-biato rispetto a quegli anni: pensi che il maestro Pelizza sarebberiuscito ad attirare con la stessa passione i giovani di oggi?“Ne sono pienamente convinto: aveva le capacità, una dialettica brillan-te. Anche oggi saprebbe trasmettere ai giovani quegli stimoli capaci direnderlo, come è stato per noi, un autentico maestro – amico”.Come hai vissuto la sua scomparsa?“E’ mancato quando io frequentavo la seconda superiore: mi è mortoquasi un secondo papà”.Se ora fosse fisicamente qui, in mezzo a noi, cosa gli diresti?Un lungo sospiro velato da tanta emozione con gli occhi che lo riporta-no a quegli anni. “Sarebbe bellissimo perché avrei ancora la possibilità diincontrarlo raccontandogli e parlandogli, questa volta, della mia vita”.

La fiat 1100 familiare, ancora perfettamente funzionante. (Foto di Massimo Mandirola)

Page 62: Il topo ammaestrato

60

Ugo ScaffiniUn ricordo fra gli altri:il dolce, tenero, palpabile sentimento che legava la signosra Lidia a suomarito, notato quando veniva a trovarlo a scuola.

Angelo SecondoNegli anni sessanta frequentavo la scuola elementare in un’aula ora adi-bita a museo civico nel Palazzo Centurione, sede municipale.Ho avuto la fortuna come tanti miei compagni di avere come insegnan-te il maestro Pelizza.Lo ricordo ancora benissimo, oltre ad avere una bella e distinta presenzafisica, era molto buono, insegnava benissimo e, nei due anni che ho tra-scorso con lui, non l’ho mai sentito alzare la voce, anche se qualcunofaceva un po’ il monello.Con il suo carattere tranquillo, sereno e soprattutto con costante pazien-za riusciva ad instaurare un rapporto di fiducia e di stima in cui tutta lascolaresca seguiva con molta attenzione.Successivamente ero venuto a sapere che il maestro e la moglie Lidia aiu-tavano i bambini bisognosi del terzo mondo, offrendosi come volontarinel campo sociale, e questo mi ha fatto veramente molto piacere.Purtroppo se ne è andato troppo presto, ancora giovane, lasciando a chil’ha conosciuto il ricordo indimenticabile di una persona semplice cheha dato molto nella vita e che tutti noi dovremmo prendere come esem-pio da seguire.

Federica SottotettiHo appreso con immenso piacere la notizia dell’iniziativa di raccoglierein un libro i ricordi, che ognuno di noi ha come ex alunno, sul maestroMario Pelizza; non ho esitato a rendermi disponibile per scrivere i mieiricordi, che sono ancora molto vivi nella mia mente, nonostante sianotrascorsi tantissimi anni (quasi trenta).

Page 63: Il topo ammaestrato

61

Sono stata una alunna del maestro a decorrere dall’anno 1970, quandoho iniziato a frequentare la prima elementare; purtroppo non rammentopiù la sezione della classe.Inizialmente non avevo un grande desiderio di studiare e, pertanto, seavessi avuto un insegnante severo, sarebbe stato veramente drammaticorecarmi ogni giorno in classe.Invece, il maestro Pelizza aveva subito colto la mia natura competitiva e,così, spesso consegnava dei premi a chi risolveva bene un problema e,pertanto, era riuscito ad incentivarmi a studiare. Ricordo le sue lezioniper farci imparare un metodo specifico per scrivere i pensieri: infatti,desiderava che le nostre impressioni su un determinato argomentovenissero scritte subito in bella copia, senza preparare la cosiddetta brut-ta copia. Questo sistema, all’inizio, mi era apparso un po’ difficile edimpegnativo a tal punto che gli avevo indicato con la mano che eramatto; da parte sua non si era verificata nessuna scenata di nervosismo,non aveva neppure urlato (a quei tempi c’erano molti insegnanti cheerano soliti dare le bacchettate sulle mani), ma mi aveva solo riferito conmolta calma che dovevo scrivere per trenta volte la seguente frase: “Nonsi fa segno al maestro che è matto”. Vi assicuro che questa punizione perme è stata molto educativa, in quanto non ho mai più osato fare quelgesto a nessuno.Tralasciando quest’ultimo aneddoto divertente, il metodo di studio sopradescritto si è rivelato molto utile per lo svolgimento dei temi lunghi ecomplessi di letteratura italiana durante il ciclo di studi al liceo classico.Oltre a ciò, il maestro premiava soprattutto chi svolgeva in poco tempoed in modo corretto un compito; questo insegnamento mi è servito siaal liceo, quando la versione di latino o greco doveva essere tradotta in untempo breve, sia durante i concorsi per il lavoro, dove è fondamentalerisolvere i test psico-attitudinali velocemente.Oltre alle lezioni durante le quali insegnava a scrivere o a leggere, descri-veva anche come si doveva preparare la minestra o la pastasciutta; tene-va, perciò, anche delle lezioni pratiche necessarie per poter sopravvive-re, quando, ad esempio, la mamma era ammalata o occupata in altromodo e non poteva cucinare.Rammento ancora che il maestro aveva invitato i nostri genitori ad assi-stere in aula alle lezioni ed era pronto ad accettare da parte loro critichecostruttive per l’insegnamento; questa sua iniziativa era stata a queitempi una novità assoluta, in quanto allora gli insegnanti non mettevano

Page 64: Il topo ammaestrato

62

certo in discussione il loro metodo.In conseguenza di quanto ivi illustrato, ricordo la sua figura non comeinsegnante “tradizionale”, ma come esperto in pedagogia e dotato di illi-mitata pazienza. Queste sue qualità venivano riconosciute anche dal direttoredell’Istituto che gli affidava in classe i cosiddetti ragazzi “difficili”, prove-nienti dall’orfanotrofio dell’Istituto Don Orione. Spesso alla domenica ilmaestro li invitava a pranzo a casa sua; in questo modo cercava di ralle-grare la vita di questi bambini che, per motivi familiari, erano costretti atrascorrere molto tempo nell’istituto. Negli anni settanta non esistevanoper questo tipo di ragazzi né la maestra di sostegno né l’assistente socia-le. Quindi, il maestro Pelizza era non solo un insegnante, ma anche unimportante punto di riferimento per tutti i suoi alunni.Una volta, un’insegnante disperata aveva fatto trasferire nella classe delmaestro Pelizza un alunno che, anziché stare seduto sulla sedia, rimane-va sotto il banco per tutta la mattinata.Il maestro aveva lasciato per qualche giorno il bambino sotto il banco e,poi, con doti tipiche di uno psicologo esperto in problematiche infanti-li e con immensa pazienza aveva cercato di instaurare un dialogo; dopouna settimana il bambino si era integrato ed era uscito dal suo “isola-mento”, rimanendo persino seduto sulla seggiolina.Oltre ai suddetti ricordi scolastici, poiché tra la mia famiglia e quella delmaestro si era instaurato un forte vincolo di amicizia, ricordo quando erostata invitata a casa sua per giocare con dei miei coetanei tedeschi, figlidi suoi amici conosciuti in campeggio.Per me era stata un’esperienza straordinaria, perché negli anni settantanon esisteva certo all’interno della struttura scolastica la possibilità dieffettuare scambi culturali fra studenti appartenenti a nazionalità e cul-ture diverse.Tutti questi ricordi si riferiscono ad un periodo molto limitato, cioè inmodo particolare alla prima elementare (1970), perché in seconda ele-mentare il maestro si è ammalato, in terza elementare si è assentato perlunghi periodi e, poi, durante il quinto anno è morto.Non ricordo nulla della cerimonia funebre, perché, purtroppo, con miogrande rammarico non ho potuto salutare il mio maestro per l’ultimavolta, in quanto ero ammalata.Riguardo il suo ultimo periodo di vita, ho sempre conservato con moltacura una lettera datata 24 gennaio 19751 scritta da lui durante il suo sog-

1. La lettera è pubblicata a pag. 121

Page 65: Il topo ammaestrato

63

giorno per convalescenza a Ventimiglia ed indirizzata a noi “cari ragazzi”ed alla nostra supplente durante la quinta elementare. Il contenuto èmolto significativo, in quanto rappresenta una lezione di vita molto rile-vante ed ancora attuale per tutti noi sia adulti sia ragazzi.Il maestro Pelizza, oltre ad avermi trasmesso in modo efficace alcunimetodi di studio, che ho descritto sinteticamente in questo racconto, miha lasciato in eredità delle importantissime lezioni di vita.In particolare, egli aveva anche squisite doti di umanità nei confrontidelle persone più povere.Trascorreva tutto il periodo delle vacanze estive con sua moglie inAfrica, in particolare in Burundi, dove svolgeva il faticoso lavoro di mura-tore, oltre che di insegnante. Questo suo amore notevole per gli indige-ni africani era rimasto molto vivo in lui, anche quando, in seguito ai suoigravi disturbi cardiaci, avrebbe dovuto rinunciare ai lunghi soggiorni inBurundi sia per il clima sia per il duro lavoro.Perciò, ritengo che sia stato un uomo attivo calato in un’esperienzaumana meravigliosa, che ha riscontro solo nella caparbia volontà deimigliori missionari. Egli considerava l’intelligenza di un bambino non secondo criteri scola-stici a cui si era abituati a quei tempi, ma in relazione all’ambiente in cuiviveva. Perciò, un africano, che sapeva assistere una mucca partoriente,non doveva essere considerato ottuso solo perché non era capace discrivere correttamente come un bambino italiano. In classe spessoaffrontava la problematica del razzismo e sosteneva che il termine“negro” era dispregiativo e occorreva utilizzare la parola “nero”.Distribuiva anche molte riviste sul Burundi e cercava di sensibilizzare ilpiù possibile i nostri animi, raccontando che ai bambini africani manca-vano l’acqua, il cibo e l’assistenza sanitaria.Qualche volta sono stata invitata a casa sua per vedere le diapositive, cheillustravano le pessime condizioni di vita e di povertà di queste popola-zioni africane.In conclusione, desidererei che questo mio racconto venisse letto atten-tamente soprattutto da chi non ha avuto modo di conoscere questo mae-stro dotato di qualità eccezionali sia come insegnante sia come uomo.

Page 66: Il topo ammaestrato

64

Egidio Spinetta Il ricordo che, personalmente, ho del maestro Pelizza è che, quandoandavo in bagno, non riuscivo mai a riallacciarmi le bretelle, mi recavoalla cattedra e lui con pazienza mi riallacciava il tutto.Un altro gesto d’amore nei nostri confronti era quando portava i nostricompagni Vincenzino e Peppinello (due ragazzi ospiti dell’orfanotrofiodi Castelnuovo S.) a turno, dopo la scuola, a pranzare a casa sua.Un giorno però, mentre Peppinello e il maestro si recavano a casa di que-st’ultimo per pranzare, il ragazzo infilò sbadatamente il piede nei raggi,causando la caduta di entrambi.

Maria Teresa StramesiAl mio Maestro:Ha costruito la mia personalità, ha eretto la mia figura, è stato la stellapolare del mio cammino sino ad oggi.Precursore degli insegnamenti di cultura e di vita per gli allievi e per lasocietà che lo ha circondato, ha mantenuto la Sua presenza continua-mente nella mia vita, rappresentando un patrimonio intoccabile.Non potrò mai dimenticare la favola del Topo Tartaglione: storia di vita.Gli devo l’amore per gli animali e la natura.Grazie, Maestro!

Francesca TortiSono stata allieva del Maestro Pelizza dalla 2° alla 5° elementare, più pre-cisamente dall’anno scolastico 1966/67 all’anno 1969/70, in quanto hofrequentato la 1° elementare con la maestra Buratto di Sale che, l’annosuccessivo, è stata trasferita al Circolo Didattico di Sale. La sua classe èstata divisa e quattro bambine (io, Maria Teresa Stramesi, Giovanna Pensae Franca Ferrari) siamo state inserite nella classe, allora solo maschile, delMaestro Pelizza.Ho un ricordo molto affettuoso del Maestro. E’ stata sicuramente una

Page 67: Il topo ammaestrato

65

delle persone più significative della mia infanzia, una persona di cuiricordo un po’ vagamente i tratti, ma di cui ricordo benissimo tanti inse-gnamenti, soprattutto insegnamenti di vita. Una persona che ritengosicuramente straordinaria per l’epoca in cui è vissuto, per i suoi metodiinnovativi di insegnamento, per la sua particolare attenzione verso i bam-bini, anche quelli forse un po’ più difficili.Mi sembra ancora di vederlo arrivare con la sua bicicletta nel cortiledelle scuole elementari, sempre senza cappello né berretto in testaanche nei giorni più freddi d’inverno.Ricordo la storia del Topo Tartaglione, una favola che ci raccontava tuttii giorni dalla 2° alla 4° elementare e che inventava sul momento con unafantasia incredibile nell’immaginare le peripezie di questo simpaticissi-mo topo chiamato Tartaglione perché balbuziente. In 5° non ha piùripreso il racconto perché ci considerava ormai quasi “adulti”.Tutte le mattine, prima di iniziare le lezioni, ci si intratteneva sempre adiscutere di quanto si era visto in TV la sera prima. Ovviamente lui cer-cava di farci preferire trasmissioni scientifiche o culturali anziché i solititelefilm, oppure in alternativa…andare a letto dopo Carosello.Si discuteva molto di argomenti scientifici (proverbiali le domande chegià ai suoi tempi il bambino Pierpaolo Ghiggino faceva al maestro: “Se inun atomo togliamo un po’ di protoni e aumentiamo un po’ di neutro-ni…”), della nascita della Terra, di come l’uomo è derivato dalle scimmie,degli uomini primitivi. Questo era uno dei suoi argomenti preferiti, tan-t’è che in 4° o 5° elementare ha organizzato una gita a gruppetti di cin-que o sei bambini per volta caricandoci sulla sua macchina (una familia-re dell’epoca) ed a turno ci ha portati a visitare le grotte degli uomini pri-mitivi in una località in collina di cui ora non ricordo più il nome. Miricordo invece che quando sono andata io, il pomeriggio era cominciatocon uno splendido sole, poi ci ha sorpresi un temporale con lampi etuoni che ci ha costretti a ripararci proprio dentro le grotte. E il Maestro,per tirarci su il morale, ci ha fatto notare con entusiasmo che avevamoproprio provato l’esperienza degli uomini primitivi. Al ritorno abbiamopoi infangato con le nostre scarpe tutta la macchina, così ci siamo fer-mati ad un ruscelletto a lavare i tappetini dell’auto.Altre cose di cui mi ricordo: - Le nostre esperienze di botanica in aula con un orticello artificiale doveseminavamo diversi tipi di pianticelle.- Un anno abbiamo segnato tutti i giorni a mezzogiorno con una matita

Page 68: Il topo ammaestrato

66

il punto dove arrivava la luce del sole sulla porta dell’aula per verificarecome il giorno dell’equinozio invernale il sole arrivasse al punto piùbasso (o forse più alto???? Ahimè le mie conoscenze astronomiche…)dopo di che invertiva la rotta. Tutto questo per spiegare la rotazione dellaTerra attorno al Sole e il succedersi delle stagioni.- Il racconto delle vacanze estive in Sardegna con la moglie Lidia e lacagnetta Laika, in roulotte a girare per strade allora sicuramente pocobattute dal turismo: con l’aiuto di una cartina a testa ci ha praticamentespiegato la Sardegna con il vivo ricordo di quanto aveva visto e ci hafatto innamorare dei nuraghe.- Ci teneva che tutti i bambini fossero responsabili di qualcosa. A tuttiaveva assegnato un compito particolare: chi doveva pulire la lavagna, chispolverava la cattedra, chi innaffiava i fiori, chi provvedeva all’inchiostronei calamai (anche se erano poco usati perché fin dalla 2° elementare lasua preferenza andava alla penna stilografica e quasi tutti la usavamo) ecosì altri lavori.- Si arrabbiava raramente. Solo proprio quando perdeva la pazienza, inparticolare quando spiegava alla lavagna e alle sue spalle c’era un fortebrusio, si voltava di scatto e lanciava il cancellino sporco di gesso versoil bambino incriminato, che puntualmente andava a casa alla fine dellelezioni con il suo grembiulino nero con l’impronta del cancellino.- E che dire del topolino vero che abbiamo trovato in classe e che abbia-mo amorevolmente allevato in una scatola di cartone fino a morte natu-rale?- Un’altra cosa che ricordo benissimo è stato il corso di educazione ses-suale a noi bambine che ci ha tenuto un pomeriggio in 5° elementare.Dato che le domande in aula da parte di noi femminucce (c’era anchequalche bambina in più rispetto alla 2°, in quanto si erano aggiunte allie-ve ripetenti) cominciavano ad essere troppo ‘osé’ e i maschietti, piùinfantili di noi, continuavano a ridere, ci ha fatto andare in classe unpomeriggio per spiegarci “come nascono i bambini”.- Un altro corso che ha tenuto a tutta la classe in 5° è stato quello di gin-nastica nella palestra delle scuole elementari, corso che allora non eraancora previsto nelle scuole elementari ma solo nelle medie.- Un’altra differenza con le maestre dell’epoca era che noi non avevamoquaderno di bella e quaderno di brutta, ma solo due quaderni, uno arighe e uno a quadretti dove lavoravamo sempre come veniva (bene omale).

Page 69: Il topo ammaestrato

67

- Non ci ha mai dato tanti compiti a casa. In particolare, nonostante luinon fosse un cattolico praticante, non ci ha mai dato compiti scritti ilsabato (solo qualcosa da leggere o ripassare) perché diceva “Non voglioche mi troviate la scusa che non siete andati a Messa per fare i compiti!”.Altre cose sul momento non mi vengono in mente ma ogni tanto riaffio-ra qualche ricordo nuovo.Spesso comunque mi capita che nella vita quotidiana leggo qualcosa,vedo qualcosa, sento qualcosa e mi viene da dire: “Ma questo l’avevadetto anche il Maestro!”.P. S. : molte cose possono sembrare ovvie ai tempi nostri, ma bisogna pen-sare che il Maestro ci ha insegnato queste cose più di 30 anni fa!

Pietro TortiAnch’io sono stato uno scolaro del maestro Mario Pelizza.Che fortuna! Sì, è stata una vera fortuna avere come insegnante una per-sona speciale come il maestro. Si dice, in genere, persone così non ce nesono più, ma in questo caso è la sincera verità.In classe non ha mai alzato la voce, non si è mai alterato, ma si è sempredimostrato disponibile e pronto a soccorerci nei nostri quotidiani pro-blemi di apprendimento: eppure, pur non gridando e non adirandosimai, riusciva sempre a tenere noi bambini quieti e attenti alle sue paro-le, e, per i più monelli, era sufficiente un suo sguardo per tranquillizzar-li. Dopo averci insegnato a leggere e a scrivere si dilettava ad esercitarcialla scrittura iniziando il dettato passeggiando in mezzo ai banchi per poiterminare la dettatura seduto alla cattedra.Quello che Mario, lasciatemelo chiamare così, mi ha insegnato nei cin-que anni delle elementari è stato importantissimo, non solo per l’inse-gnamento scolastico ma soprattutto per l’insegnamento morale.Infatti era una persona di buone maniere che ci voleva bene come unpadre. Conservava sempre il suo buon umore, era sempre coscienzioso, pienodi entusiasmo, come se ogni giorno facesse scuola per la prima volta.Mi ricordo che una uggiosa giornata autunnale mandò un bambino incortile a vedere che tempo stesse facendo. Al rientro in classe il bambi-no era imbarazzato in quanto non riusciva a tradurre in italiano la situa-

Page 70: Il topo ammaestrato

68

zione metereologica. Il maestro Pelizza gli chiese di esprimersi in dialet-to. Alla risposta “u scarnebia” egli disse: “In italiano si dice pioviggina”.Questo era il mio maestro Mario Pelizza.

Giancarlo VivianiE’ un’occasione questa per ringraziare il maestro Mario Pelizza per tuttociò che mi ha trasmesso con i suoi insegnamenti, per il suo altruismo, lasua disponibilità verso il prossimo lasciandomi un ricordo simpatico edolce degli anni trascorsi insieme.

Gianluigi ZemeMario Pelizza: maestro di tutta la vita.Da piccoli il proprio mondo è quello più importante, poi si vede meglioogni cosa. Credevo che tutti i bambini avessero un maestro come il mio.Invece lui era ed è rimasto veramente unico.Ho avuto la fortuna di essere suo alunno dall’Ottobre 1965 al Giugno1970. Allora a scuola c’erano ancora i banchi di legno ed il bidello por-tava agli alunni l’inchiostro nero con una vecchia caffettiera blu. Ogniclasse aveva il suo maestro, giudice unico, che la caratterizzava dandoleun’impronta personale.Ho un ricordo ancora vivo del primo giorno. Eravamo alloggiati provvi-soriamente nell’ex edificio dell’asilo a causa di una ricorrente mancanzadi aule. Accompagnato da mia madre fui affidato a lui con qualche paro-la di circostanza. Ero timidissimo e privo di ogni esperienza di vita comu-ne, avendo rifiutato, dopo qualche disastroso tentativo, l’esperienza del-l’asilo. La mia prima reazione fu di mutismo e immobilismo. Non andavoalla lavagna neppure se chiamato. Fu qui che si rivelò per la prima voltala grande umanità e l’innata capacità di comprensione psicologica delMaestro Pelizza: mi lasciò semplicemente stare. Chissà quanti altri colle-ghi, coerentemente con i metodi diffusi, avrebbero preso provvedimen-ti di rimprovero; egli invece capì che mi ero perso in quella nuova real-

Page 71: Il topo ammaestrato

69

tà. Dopo qualche giorno mi sbloccai e anno dopo anno vissi con lui e icompagni l’esperienza forse più costruttiva e avvincente della mia vita.La sua fama non deriva semplicemente dall’essere stato buono. Sarebberimasto solo un ricordo e non una presenza viva, costante (quasi ognigiorno mi capita di ricordare qualcosa che mi insegnò). Aveva anche otti-me capacità di insegnamento e metodo. Spesse volte lo vidi consultaredei testi che utilizzava come guida per il programma. Era capace di con-dire i contenuti con tanta fantasia, divertimento e grande gentilezza.Nessuno per lui era una presenza di secondo piano. Tutti eravamo al cen-tro della sua attenzione.Aveva assegnato alcuni incarichi: capoclasse, addetto alle commissionicon bidelli ed altri insegnanti, ecc. Accortosi che alcuni si sentivanoesclusi per non avere una funzione cominciò a sforzarsi per trovarnealtre: addetto a lavare la lavagna, addetto a svuotare il cestino, addetto adannaffiare le piante, ecc. Gli incarichi occuparono l’intero elenco, resta-vo ancora io (ultimo perché il mio cognome inizia con la zeta). Che cosapoteva ancora inventare…eravamo alla fine della mattinata…..ecco l’i-dea: sarei stato in piedi vicino a lui durante le preghiere iniziali e finalidella mattinata. Si era occupato di tutti, tutti eravamo uguali.Nella mia classe vi era un certo numero di bambini provenientidall’Istituto Don Orione. Il maestro, a turno, li ospitava per il pranzo acasa sua ed io e la compagna Maria Teresa, che abitavamo vicini, andava-mo poi a giocare con loro durante il pomeriggio. Per integrarli e farli sen-tire anch’essi portatori di una cultura propria (erano tutti nati distanteda Castelnuovo) non mancava di decantare le bellezze dei loro luoghi diprovenienza: Caserta, Taormina, ecc. con interessanti e simpatiche descri-zioni.Era un vero amante della natura, oggi si direbbe che era un “verde”.Rispettava con sincero amore ogni forma di vita. Nella sua Fiat 1100 giar-dinetta (che ancora oggi circola per il paese!) visse per parecchio tempoun piccolo ragno che non fu solo tollerato finché visse ma addiritturaseguito, anche da me personalmente, mentre intrecciava la ragnatela tralo specchietto e il parabrezza. Amava trascorrere vacanze in campeggiocon la tenda o la roulotte, cercando sempre l’aspetto più genuino dellelocalità visitate (teniamo presente che allora era quasi un pioniere diquesto tipo di turismo). E poi a scuola ci raccontava le sue esperienzetenendoci legati col filo della curiosità tanto che eravamo tutti immede-simati nell’avventura.

Page 72: Il topo ammaestrato

70

Un giorno portammo in classe delle crisalidi di farfalla. Messe in un reci-piente adatto, dopo alcuni giorni, si schiusero sotto i nostri occhi ammi-rati mentre stavamo tutti radunati attorno alla cattedra.Nella nostra classe c’erano alcuni vasi alla finestra. Si organizzò anche unpiccolo orto sul davanzale, seminando, in una speciale scatola, lattuga ecicoria. Una pianta simile ad un cactus fu sagomata, ruotando il vasorispetto al sole e facendogli assumere una forma ad “esse”. Ospitammoanche una piccola pianta carnivora.Ci insegnò i movimenti della Terra rispetto al Sole annotando sul pavi-mento, con una matita, sempre alla stessa ora, la linea d’ombra descrittadal Sole.Un giorno decise di portarci tutti sul fiume, con la sua canoa. A gruppi didue o tre alla volta, muniti di salvagente, ci portò sull’acqua. Era emozio-nante scoprire i segreti del fiume e volle farci sentire come si girava fortepassando tra i vortici provocati dal Grue e dallo Scrivia che si univano.Originale fu la gita di classe che organizzò senza mezzi speciali. Gli auti-sti erano solo lui e un suo amico che mise a disposizione unaVolksWagen Maggiolone. A turni di sette o otto alla settimana ci portò suuna collina oltre Tortona (credo che si chiami “Guardamonte”) dove c’e-rano stati ritrovamenti di monete antiche e altri oggetti e segni di civiltàpreistoriche. Durante una di queste gite piovve per tutto il giorno manessuno si lamentò: il maestro riuscì a trovare spunti per divertire i bam-bini e raccontò la vita degli uomini delle caverne. Gran parte della gita sisvolse al riparo di una grotta lasciando ai partecipanti una grande emo-zione. Quelli a casa, me compreso, invidiarono quella giornata. Quandofu il mio turno mi toccò di salire sulla macchina dell’amico. Rimasi tristeper tutta la giornata: chissà quante cose interessanti si dicevano sullamacchina del maestro.... Al ritorno rimescolò gli equipaggi e per me fugioia grande poter fare il viaggio di ritorno sull’ ”ammiraglia”.Una fortuna mia personale, condivisa anche da Maria Teresa, era viverevicino alla casa del maestro. Andavamo a casa insieme a piedi e si parla-va di tante cose. Poi arrivati in via Goito (oggi via Cardinale CesareZerba) tutti e tre ci mettevamo a cercare in terra. Cercavamo una lamet-ta da barba che quotidianamente qualche sprovveduto lanciava dallafinestra dopo essersi rasato. Una volta trovata il maestro la raccoglievacon cautela e la gettava nel tombino. Non eravamo proprio comeSuperman ma eravamo fieri della buona azione compiuta.Un giorno ci fece parlare registrando le nostre voci con un registratore

Page 73: Il topo ammaestrato

71

a nastro. Dopo anni ce le fece risentire per farci notare quanto eranocambiate.Ancora oggi ricordo come ci descrisse l’opera lirica di Giuseppe Verdi “IlRigoletto”. Dopo aver assistito alla rappresentazione, il giorno dopo, inclasse, volle condividere con noi l’emozione della storia. E’ proprio perquesto che ho bene impressa quella trama e rimane la mia opera prefe-rita. Le materie si studiavano tutte. Con due quaderni piccoli (uno a righe euno a quadretti) e due libri. Nell’astuccio bastava poco, diceva: ”Nonserve spendere soldi nella penna stilografica. Basta la penna col penninoo la matita”. Sosteneva, e aveva ragione, che la penna a sfera non era adat-ta ad imparare a scrivere bene.Ci insegnava a prestare attenzione a tutto, una mattina passammo parec-chio tempo a contemplare una fotografia che faceva da copertina ad unlibro (credo si intitolasse “Verde Valle”). Ogni alunno doveva descrivereil particolare che più lo colpiva in quella veduta. Tutti facevamo a gara

In piedi, da sinistra verso destra: Mario Salvadeo, Carluccio Orsi, Giuseppe Ricci, ? , ? ,Francesco Gatti, Gianluigi Zeme, Enzo Torti, Francesca Torti, Maria Teresa Stramesi,Antonietta Natale, Giovanna Pensa, Carla Zito, Piera Motta, Marilena Stradaioli ; in basso: ?,Pierpaolo Ghiggino, Sergio Brugnerotto, Gian Piero Ghibaudi, Massimo Mandirola, GiuseppeCurone, Claudio Savioli, Pietro Gatti, Egidio Spinetta, Gregorio Conietta?.

Page 74: Il topo ammaestrato

72

per trovare qualcosa da segnalare.Non trascurò di insegnarci ad utilizzare l’orario dei treni e ci insegnò adutilizzare una carta geografica. Ognuno di noi con una carta dell’Italia sulbanco e..............pronti via! Ricordo che il viaggio arrivò anche all’este-ro, dalle parti di Locarno.Ora non suscita più scalpore ma in quei tempi ci parlò anche di educa-zione sessuale. In giorni diversi organizzò una lezione straordinaria dipomeriggio per le ragazze e poi per i ragazzi. Morivamo dalla voglia diconoscere le domande poste dalle ragazze. Non si seppero mai, anchese qualche voce girò per giorni tra noi.Ma la cosa più strabiliante e ancor oggi difficile da spiegare e da rende-re viva nel ricordo è senz’altro la storia del “Topo Tartaglione”. Per scher-zo, o non so per quale altro motivo, il maestro si avventurò in un rac-conto. Forse aveva voglia di inventare una storia, forse era un metodo diinsegnamento che voleva sperimentare con noi, fatto sta che la storiaandò avanti, credo, per anni. Mi sembra di ricordare che il topo fuggì daun pollaio, ma non ne sono sicuro. Ad ogni passo accadeva un incontroe un’avventura. Ricordo quando ci raccontò che per attraversare unfiume utilizzò una vecchia pantofola...... Alle prime credo fosse entusia-smante anche per lui. Serviva a distendere i nervi alla fine della mattina-ta. Ammoniva che era da considerarsi un premio, solo se eravamo statibravi (non ricordo, però, che avesse negato una sola volta di andare avan-ti con le puntate della storia). Noi eravamo entusiasti, non si restavaassenti per nessun motivo. Era ormai un nostro diritto acquisito cono-scere l’episodio seguente. Poi diventò difficile anche per lui andare avan-ti. So che confessò più di una volta ai nostri genitori di non sapere comefinire. Nella nebbia della memoria non riesco a ricordare il finale maposso assicurarvi che l’idea di questa favola infinita fu veramente formi-dabile.Molti altri sono i ricordi che mi restano del maestro e affiorano alla miamente ogni giorno, provocati da azioni banali o mentre i pensieri scor-rono suscitati da quello che vedo e sento.Posso assicurarvi che il bagaglio interiore costruito dalla sua presenzaeducatrice è senz’altro sminuito e svalutato nella descrizione. Difficile èrendere a parole un mondo intero fatto di sensazioni, di immagini e diuna presenza sempre costante ancora oggi.E’ morto troppo presto e troppo giovane.Aveva accennato, senza mai farlo pesare, alla sua lenta malattia: un pro-

Page 75: Il topo ammaestrato

73

blema al cuore. Oggi, credo, lo avrebbero fatto vivere di più.A volte mi piace immaginare un altro finale. Penso che sarebbe stato unpunto di riferimento per me in tanti momenti di scelta o di crisi, unamico sincero, disinteressato e schietto al quale rivolgermi nel bisogno.Insomma uno di quei tesori, rari e preziosi, che vanno afferrati al volo fin-ché ti appartengono.

Carla ZitoAlla domanda: "Che cosa si ricorda del maestro Pelizza? C'è un episodio,una favola, una filastrocca che le è rimasta maggiormente impressa?",Carla risponde senza neppure soffermarsi un attimo a pensare: "Ricordotutto, ricordo tutto di lui! Il suo volto sempre sorridente, lo sguardopaterno che ha sempre rivolto a me, figlia di meridionali immigrati conun sacco di problemi. I miei - prosegue Carla - erano di Molochio, un pae-sino del Sud in provincia di Reggio Calabria, trentacinque anni fa aveva-no deciso di venire a Castelnuovo, al Nord, per tentare una vita migliore.Mia madre in particolar modo faceva di tutto per riuscire a dare a noifigli quello che a lei era stato negato, lavorava giorno e notte e questo leimpediva di avere tempo da dedicarci, quel tempo che alcune mammedelle mie compagne potevano permettersi di trascorrere con le lorofiglie coccolandole, comprando insieme a loro dei bei vestiti alla moda,dei giocattoli nuovi. Io mi sentivo sola, anche se tutto quel lavorare di-sumano della mia mamma, costretta a dover crescere la sua prole, a farloro da madre e padre per colpa di un marito sempre assente, era il suomodo di dirci: ‘vi voglio bene’.Nei confronti di buona parte dei miei compagni mi sentivo emarginata,messa da parte, lasciata lì in un angolino nascosto perché davo fastidio,non ero considerata al loro pari, avevo ben poco da spartire con loro,macché scarpine e vestitini nuovi, merendine al pomeriggio, la mammache ti aiuta a fare la ricerca o i compiti da portare a scuola giusti e cor-retti il giorno dopo, io da sola a sette, otto anni dovevo già badare a mestessa. E allora non c'era neppure l'interclassista ad occuparsi di questigrattacapi! Per fortuna c'era il maestro Pelizza: lui aveva capito la situa-zione. Non faceva distinzioni, per lui gli alunni erano tutti uguali e io misentivo protetta. Quando il pomeriggio mi invitava gentilmente ad anda-

Page 76: Il topo ammaestrato

74

re a casa sua a fare i compiti insieme ad altri compagni di scuola, sedutaa quel tavolo quadrato mi sentivo uguale agli altri. Poi ad un certo puntodella lezione diceva alla moglie: ‘Lidia, prepara la merenda’. Ecco chearrivavano subito panini con il salame, biscottini fatti in casa, dolcetti ealtre leccornie che rappresentavano per me un vero ben di Dio. Io aspet-tavo con ansia il pomeriggio per andare a casa del maestro, la loro erauna dimora accogliente, tutto era ordinato e al suo posto, lì sentivo quelcalore umano di cui tanto avevo bisogno, lì Mario e Lidia mi regalavanole loro coccole e il loro affetto che tanto mancava a me bambina”.

Page 77: Il topo ammaestrato

75

I colleghi e gli amici ricordano

Page 78: Il topo ammaestrato

76

Page 79: Il topo ammaestrato

77

Pietro BaldiVenni ad abitare a Castelnuovo, insieme a mia moglie, alla fine di giugnodel 1965. Il 1° ottobre dello stesso anno presi servizio come insegnantenella locale scuola elementare, e vi rimasi poi fino al 1972. Vi trovai unbel gruppo di validi colleghi, che ricordo ancora con viva simpatia. Vierano fra gli altri, in ordine sparso come tornano a mente in questomomento (e mi scuso delle involontarie omissioni), Osvaldo Mussio,Emilio Arzani, Laura Cavalli, Vera Garavelli, Teresita Goggi, Tea Stassano,Marina Veniali, Anna Locardi, Emma Rossi, Carla Chiesa, Roberto e LillyGalasco, Gianteresio Fezia, Mario Romani… e, naturalmente, il nostroMario Pelizza. Vi era – autentica istituzione all’interno della scuola castel-novese – il bidello Cairo, capace di mettere in riga, con un semplice sag-gio della sua voce armoniosa, stuoli di insegnanti e di scolari.Fu del tutto facile e naturale stabilire i più cordiali rapporti con i colle-ghi. Con Mario, tuttavia, ci fu subito un feeling particolare: era impossi-bile non essere colpiti dal suo senso della misura, dalla sua estrema paca-tezza, dal suo equilibrio, dalla sua costante serenità d’animo, che si uni-vano, per altro, a un umorismo raffinato, a una sottile ironia, a una visio-ne disincantata delle cose, ad una innata riluttanza a drammatizzare lenormali vicende della vita. Così, dalla consuetudine professionale sipassò molto presto ad una amicizia durevole, che ci portò ad incontrar-ci con regolarità anche fuori dalla scuola, e ad estendere la frequenta-zione vicendevole alle nostre famiglie: a sua moglie Lidia, a mia moglieAnnabona, ai miei figli Federica e Alessandro, e – perché no? – alla sim-patica barboncina Laika.Ci riunivamo a casa mia, in via XX settembre, o più spesso nella villettadi via Kennedy. Avevamo scoperto un interesse in comune, quello per ilcampeggio. Mario aveva a quell’epoca la roulotte, noi una tenda: alla rou-lotte saremmo arrivati qualche anno più tardi. Le vicende di viaggio e lavita di campeggio erano un tema ricorrente delle nostre conversazioni.Mario raccontava le peripezie dei suoi inizi, quando, non potendosi anco-ra permettere l’acquisto di una tenda e men che meno di una roulotte(già allora gli stipendi dei maestri non consentivano certi lussi!), viag-giava con Lidia per l’Italia e all’estero a bordo di una vecchia “Topolino”,a cui, alla sera, toglieva i sedili anteriori sostituendoli con un’imbottituraartigianale, per ricavare una superficie più o meno piana sulla quale sten-dersi in qualche modo durante la notte: una “suite”, come si vede, nonesattamente a cinque stelle.

Page 80: Il topo ammaestrato

78

Ricordo che una volta mi accompagnò dalle parti di Rozzano a trovareun suo amico, il quale stava trasformando un autobus ormai fuori servi-zio in un camper: vi lavorava con un entusiasmo incredibile, quasi infan-tile. Stento a credere, tuttavia, che quel camper sia mai riuscito a metter-si in movimento: vi aveva già caricato un peso tale di sovrastrutture, etante altre stava caricandone, che ben difficilmente quel motore ormaiprossimo alla pensione ce l’avrebbe fatta a schiodarlo dal terreno.Un altro aspetto di Mario mi torna alla memoria: ben prima di certiambientalisti biliosi di oggi, egli aveva scoperto, e praticava assiduamen-te fin dagli anni sessanta, senza menarne vanto, la raccolta differenziatae il riciclaggio dei rifiuti. Per la carta e per i materiali combustibili, c’erail caminetto di casa; per i rifiuti organici, specie quelli di cucina, il com-postaggio, parola che neppure esisteva nei dizionari della lingua italiana:Mario preparava nel suo orto delle buche, nelle quali versava i rifiutiorganici per poi ricoprirli di terra, in modo che, decomponendosi, for-massero un substrato di ottimo concime naturale. Quasi nulla da casa suafiniva in discarica.

Ponte d’Elba, 1974 - I coniugi Pelizza in vacanza con la famiglia Baldi.

Page 81: Il topo ammaestrato

79

Confesso che quando seppi che Mario e Lidia si sarebbero recati in Africanel periodo estivo quali missionari laici, pur piccandomi di conoscerlibene, ne rimasi stupito: solo riflettendo a posteriori mi resi conto che ciòrientrava perfettamente nel quadro della loro personalità e della lorosilenziosa generosità. Li aiutammo con vero piacere, quindi, a organizza-re a Sale, in occasione della festività patronale di Sant’Anna, un mercati-no di oggetti dell’artigianato africano e indiano a favore delle missioni.Ad un certo punto, le circostanze ci portarono ad allentare un poco icontatti con Mario e Lidia. Nel 1970 la mia famiglia si trasferì a Sale; nel1972, come già detto, terminò il mio servizio d’insegnante aCastelnuovo. La passione per il campeggio, tuttavia, ci portò quell’annoa vivere alcuni giorni di vacanza insieme. Noi ci eravamo sistemati conla roulotte in un camping di Gignod, una località non molto lontana daAosta sulla strada del Gran San Bernardo. Lì ci raggiunsero poco dopoMario, Lidia e Laika, per trattenersi alcuni giorni con noi. Federica eAlessandro avevano allora rispettivamente quattro e due anni, e Mario sidivertiva a farli giocare: copriva gli occhi a Laika con i padiglioni delleorecchie, e invitava i bambini a nascondersi; poi liberava la cagnolina, laquale immancabilmente li andava a scovare nei loro nascondigli. Nel febbraio 1974, avendo superato il concorso direttivo, io ebbi la miaprima sede di direttore didattico a Venasca, in valle Varaita, e lì traslocaicon la famiglia. Il vincolo affettivo con Mario e Lidia sembrò doversiinterrompere del tutto. Invece non fu così.Nell’ambito del mio Circolo didattico vi era una paesino sperduto, taglia-to fuori dal mondo, ma assai grazioso, accogliente, immerso nel verde:Isasca, 770 metri di altitudine, poco più di duecento anime fra concen-trico e case sparse. Alla periferia del paese c’era la scuola: un edificiodecoroso, comprendente al piano terreno due aule, e al primo piano,come stabilito dalle norme, due appartamentini per le maestre, uno solodei quali utilizzato. Mi accordai con il sindaco, che era una gran bravapersona, e presi in affitto per il periodo estivo l’appartamentino liberoe il cortile della scuola. Fu l’occasione per una divertente rimpatriata:Mario ed io sistemammo le nostre roulottes nel cortile, mentre il collegaGianteresio Fezia, con la moglie Tina ed i figli Elissa e Gabriele, prese pos-sesso dell’appartamento. L’arrivo di Gianteresio a Isasca ebbe del “fan-tozziano”: dalla sua “127” uscirono nell’ordine Tina, che era al volante;Gianni con giornale; Elissa e Gabriele; valigie; materassi; cibarie assortite:a nessuno fu dato di capire come fossero entrati in quell’abitacolo.

Page 82: Il topo ammaestrato

80

Fu una vacanza indimenticabile. Compivamo brevi e non troppo defati-ganti passeggiate nei dintorni (Mario già accusava problemi di cuore),fino a una cappelletta nascosta fra gli alberi, oppure lungo una stradaombrosa in leggera salita. I bambini, sia quelli di Gianni che i miei, ave-vano una venerazione per Mario: lui era il botanico, il geologo, lo zoolo-go, che aveva una spiegazione per ogni loro nuova curiosità.Conserviamo ancora una pietra irta di cristalli di quarzo che racco-gliemmo dopo che lui ce l’aveva fatta notare lungo un sentiero.Ricordiamo che un giorno, essendo andati in cerca di funghi, i bambinie noi precedevamo senza trovarne nessuno; Mario e Lidia che venivanoper ultimi con molta calma raccoglievano, dove noi eravamo appena pas-sati senza vederli, dei porcini grossi come un pugno. Solo una volta ciconcedemmo una gita più lunga, per altro in auto, per avvicinarci allebellezze dell’alta Valle Varaita: Melle, Frassino, Sampeyre, Casteldelfino, laVal Bellino…Intrattenevamo lunghe conversazioni con il parroco don Dutto, sacer-dote colto e amabile, che dopo essere stato per anni il segretario delVescovo di Saluzzo, era venuto qui a Isasca a godersi una meritata e sere-na pensione. In paese c’era una modesta ed assai economica trattoria,dove ci recavamo di tanto in tanto a gustare le superbe e sempre nuovespecialità della cucina piemontese che la signorina Rita, cuoca e pro-prietaria del locale, era capace di cucinarci.Alla sera Mario dimostrava una grande abilità nell’accendere e nel man-tenere acceso un fuoco da campo, sul quale riusciva a bruciare chissàcome anche gli avanzi ancora umidi della cena. Ci adunavamo tutti intor-no al fuoco a chiacchierare, ma era Mario ancora quello che si facevaascoltare di più per il particolare fascino che riusciva a mettere nel suomodo di raccontare: i bambini ne erano incantati. Una sera che Gianni siera sostituito a Mario nelle funzioni di “fochista”, mentre eravamo tuttiintorno al fuoco, all’improvviso una secca esplosione ci fece sobbalzare:ritenemmo opportuno gettar acqua sulla brace, non sapendo quale fossela causa dello scoppio. Il mistero si sciolse il mattino dopo, quando nonmolto distante dal focolare trovammo una bomboletta spray di alluminiocompletamente squarciata: era finita inavvertitamente sul fuoco, e il gasresiduo a contatto con la fiamma era scoppiato rumorosamente: per for-tuna nessuno era stato colpito. I bambini, comunque, decisero che, perl’incolumità di tutti, era meglio tornare ad affidarsi all’esperienza diMario.

Page 83: Il topo ammaestrato

81

Altri episodi piacevoli caratterizzarono quella vacanza. C’era con noi labarboncina Laika, tranquilla ed educatissima: pur avendo a disposizionetutto il cortile erboso della scuola, non si sarebbe mai permessa di spor-care in giro: aspettava pazientemente fino a quando Mario la accompa-gnava fuori della recinzione, e solo allora dava libero sfogo ai suoi biso-gni naturali. Così pure, mai si sarebbe azzardata ad entrare nella nostraroulotte, anche se la porta era spalancata tutto il giorno. Capitava cheMario e Lidia venissero da noi: Laika si fermava appoggiando le zampeanteriori sul gradino della roulotte, ma assolutamente non varcava lasoglia se non a un cenno di Mario. Un giorno cominciò a scodinzolareintorno al cortile un cagnolino di razza indefinita: si vedeva lontano unmiglio che moriva dal desiderio di essere adottato. Si riunì il consigliogenerale del campo, e,considerando cheLaika guardava alnuovo arrivato consignorile nonchalance,si decise di lasciarloentrare. Si trattava allo-ra di battezzarlo, datoche nessuno conosce-va il suo nome origina-rio, ammesso che neavesse mai avuto uno:cane di qua, cane di là,qualcuno suggerì dichiamarlo Gengis,ovverosia Gengis Kan,come il famoso impe-ratore mongolo: la pro-posta fu approvataall’unanimità. Il cagno-lino ci sembrò molto

Cervino, 1972 Federica Baldi con la mitica

cagnetta di Pelizza, Laika.

Page 84: Il topo ammaestrato

82

onorato di quel nome altisonante; e in segno di eterna gratitudine, e almodico prezzo di un po’ di cibo giornaliero, si autoproclamò da quelmomento strenuo difensore della nostra privacy, abbaiando furiosamen-te, sempre a distanza di sicurezza per altro, a chiunque casualmente sitrovasse a passare nei paraggi della scuola.Una mattina Mario mi parve preoccupato, come se volesse dirmi qualchecosa, ma non osasse. Alla fine parlò: “Ho l’impressione che qui stiamodando fastidio a qualcuno: tutte le notti sento cadere a intervalli regola-ri e quasi fino al mattino dei sassi sulla mia roulotte: come volessero invi-tarci ad andarcene!”. Rimasi davvero meravigliato di una simile eventua-lità: mi pareva che la gente di Isasca fosse troppo buona e troppo ospi-tale, seppure piuttosto riservata, perché ciò potesse accadere. La mera-viglia, però, non durò a lungo: la roulotte di Mario era collocata all’ombradi un maestoso noce, e sopra ed intorno ad essa trovammo infatti ungran numero di gusci di noci rosicchiate e svuotate del loro gheriglio: vierano dunque sul noce dei simpatici e sconosciuti roditori – scoiattoli?ghiri? – che di giorno non si facevano vedere; ma di notte, favoriti dalbuio e dal silenzio, si dedicavano a vere scorpacciate del loro alimentopreferito, lasciando poi cadere i loro scarti e provocando quei rumorimolesti. Il problema fu presto risolto, spostando la roulotte di Mario lon-tano dalle traiettorie di caduta dei gusci. Con questi, mia moglie vollefare un originale mazzetto, che è ancora appeso nella nostra roulotteormai da anni inutilizzata.Come tutte le cose belle, purtroppo, anche la splendida vacanza di Isascagiunse al temine. Tina stipò all’interno della sua “127” materassi, valigie,figli e marito: fortunatamente, le cibarie erano esaurite, ed il carico fu,quindi, più leggero. Mario ed io agganciammo alle auto le nostre roulot-tes, e partimmo. Per qualche chilometro procedemmo di conserva. Poi cifermammo, ci salutammo con affetto, ed ognuno proseguì per una stra-da diversa. Non potevamo immaginare che non avremmo più rivisto Mario.

Page 85: Il topo ammaestrato

83

Carla CelerinoRicordare il maestro Mario Pelizza è come dipanare nella memoria gliavvenimenti di un breve tratto della mia vita di insegnante nelle scuoleelementari di Castelnuovo Scrivia, che va dal 1970 al 1975. Purtroppoerano gli ultimi anni dell'esistenza terrena di Mario, quando il male avevagià minato il suo fisico. La dolcezza, a volte bonariamente ironica, che emanava dai suoi occhichiari e da tutto il suo aspetto di uomo bello, distinto, apparentementedimesso, era disarmante. Non gli ho mai sentito alzare la voce né con gli alunni né coi colleghi. Nelle discussioni, a volte accese (eravamo ancora nel clima del '68), chenascevano tra i maestri Gianteresio Fezia, Roberto Galasco e il parrocomons. Cerutti, nelle quali portavo anch'io le mie opinioni, Mario era unimparziale moderatore. Era la voce razionalmente umana che volevaricondurre alla realtà le passioni soggettive travalicanti gli avvenimenti.Il suo atteggiamento poteva sembrare qualunquistico e invece erasostanziato da un'ecumenica visione del mondo e da una ricchissimaumanità. La sua totale disponibilità verso i diseredati, la gente che nonaveva voce, i bimbi africani, ai quali dedicava con la moglie Lidia levacanze estive, era concreta attestazione di una ben precisa scelta di vita. Quantunque la cagionevole salute gli causasse sofferenza, non l'ho maisentito lamentarsi né si è mai sottratto a qualsiasi impegno: con Galascopreparava anche le escursioni didattiche dei nostri ragazzi, faceva inecessari sopralluoghi per le gite, scegliendo con competenza da buon-gustaio i ristoranti: tutto poi si svolgeva nel migliore dei modi, con sanaallegria e responsabile impegno.Mario era l'immagine della serenità, tanto che spesso ci si dimenticavadel suo precario stato di salute. Ricordo che al mio arrivo da Sale mi accoglieva talvolta con "la sai l'ulti-ma ?" e sciorinava, con serafica calma, facezie o barzellette che cancella-vano le preoccupazioni e ti disponevano a cominciare bene la giornata. Mario è passato accanto a me come una fuggevole e meravigliosa meteo-ra di dolcezza, onestà, sincerità, altruismo e voglia di vivere: una bella epreziosa lezione di vita.

Page 86: Il topo ammaestrato

84

Franca CorsicoVia Dante. Una via Dante di quarantacinque anni fa. Di fronte allo slargodel bar Sport, allora Valdata, il negozio di alimentari di Beniamino Mogni,qualche decina di metri più avanti due alberghi: il Pescatore della fami-glia Lucotti e il Commercio gestito dalla signora Rina Occhi, li separa-vano una palazzina a due piani stretta stretta, abitata da RosettaCastellotti con i suoi due figli, Gianni e Mariuccia, la barberia di CesareCarnevale e il negozio di tabacchi dei Corsico. Sul lato opposto alle duebotteghe l’abitazione dei Concaro, rivenditori di granaglie e farina e lacasa vinicola dei Curone. Oltre via Martin Luter King il Palazzo deiBerutti, con ù siur Gigi e la sorella, e dall’altra parte la Villa De Angelis.Poi, alla fine della strada la lea, termine con cui allora i castelnovesi indi-cavano un boschetto di profumatissime acacie, che si estendeva dal dis-tributore di Gidio alle rive del torrente Scrivia, dove gli anziani trascor-revano i pomeriggi conversando amabilmente seduti all’ombra dellegrandi robinie. Vicina alle sponde dello Scrivia a ra draga, di proprietàdel signor Colla Eugenio. Era qui che Mario Pelizza lavorava come impiegato quando, poco più chediciannovenne, appena diplomato, non aveva ancora avuto il tempo di

Una vecchia immagine di via Dante.

Page 87: Il topo ammaestrato

85

partecipare al concorso per maestro di scuola elementare. E questa erala strada che percorreva tutti i giorni per recarsi sul posto di lavoro, face-va il contabile in una ditta che produceva ghiaia dragando i sassi ricava-ti dal letto dello Scrivia. Trascorreva buona parte della giornata seduto aduna scrivania, ma nonostante la sua fosse una buona occupazione, le con-dizioni igieniche del modesto ufficio in cui era relegato non erano cer-tamente le migliori: esposto al sole cocente in piena estate, umido e fred-do in inverno, eppure Mario ogni giorno passava da via Dante sorriden-te, aveva un volto sereno e un’espressione felice, felice di quello che lavita gli offriva.Voleva fare il maestro, ci teneva moltissimo, era il suo sogno nel casset-to. La sua mamma, morta quando era poco più che un ragazzetto era unamaestra, anche suo padre e sua zia esercitavano questa professione. Suazia, la maestra Spalla, gli voleva un bene immenso, aveva mille premurenei suoi confronti. Veniva spesso da Alzano, in sella alla sua bicicletta, nel negozio di miamamma, dai Latè, li chiamava-no ancora così, anche se, man-cato il nonno, del caseificionon era rimasto che il ricordo.Comperava le sigarette per ilsuo Mario, ma mai una voltache si fosse dimenticata diacquistare quaderni, penne,matite, biro ed altri oggetti dicartoleria che immancabil-mente distribuiva ai bambinidi Alzano, dove insegnava. Miogenero Alberto racconta che,ancora quando era piccino lui,gli scolari alzanesi andavano aprendere penne e quaderni,spesso e volentieri offerti conqualche cioccolatino o unafetta di torta dalla maestraSpalla, che, ormai anziana, nonaveva perso questa generosaabitudine. Ricordo che tra mia Ad Alzano, con la maestra Spalla e la suocera.

Page 88: Il topo ammaestrato

86

madre e la signora Spalla si era creata una bella amicizia, che andava deci-samente oltre al semplice rapporto che si instaura tra cliente e rivendi-tore, molto probabilmente favorita anche dal fatto che la mammaAndreina era stata un’allieva della madre di Mario e ne serbava un caroricordo. Allora, mentre io bambina giocherellavo dietro al bancone delnegozio, le due donne discutevano amabilmente e la zia, contenta deisuccessi scolastici del suo Mario, esternava l’affetto che nutriva nei con-fronti di questo ragazzo, elogiandone l’intelligenza, la capacità di com-prendere le persone che lo circondavano e soprattutto il rispetto, labontà e la generosità verso gli altri, qualità tutte che profondamente insi-te in lui, contraddistingueranno la figura umana e professionale di que-st’uomo ormai maturo, dall’aspetto riservato e dalla profonda umanità.

Roberto Galasco12 Febbraio 1975L’ultima volta che ci siamo visti, Mario, fu quando sei partito perBordighera. Hai salutato i tuoi ragazzi e tutti noi col tuo sorriso mezzotriste e mezzo sornione e con lo sguardo di gazzella dolce e chiaro. Da tuo padre ho poi avuto notizie, ed erano buone, poi la tua cartolinadove dicevi: “…Non piangete! C’è di peggio dei Decreti Delegati nellavita! Cercate di sopravvivere fino al mio ritorno, poi insieme, vedremo difarci coraggio. Ancora saluti per i colleghi”.Questo era il segno che continuavi a star bene e allora scrissi quel che tiscrissi scherzando un po’ su tutto e su tutti.Sapevo di farti piacere…Ieri, la triste notizia…Un’altra crisi, la più violenta, l’ultima. La morte.Stamane sono entrato nella tua classe per parlare di te ai “tuoi” ragazzima dopo poche parole ho dovuto smettere… i ragazzi facevano pena, ilcapo piegato sul banco e gli occhi gonfi di lacrime.La notizia si era abbattuta su di loro come la furia di un temporale suun’aiuola di fiori… scuotendoli e piegandoli.I “tuoi” ragazzi, i tuoi fiori che hai coltivato con amore e con cura per cin-que anni erano là a piangere tutte le loro lacrime. Loro si riprenderannoma tu Mario non ci sei più a vederli.Loro respireranno ancora quest’aria, si bruceranno al nostro sole, senti-

Page 89: Il topo ammaestrato

87

ranno ancora il respiro della terra, lo stormire delle fronde, il canto degliuccelli… ed ogni volta si ricorderanno di te che gli hai insegnato a sco-prire un mondo in una goccia di rugiada, che gli hai insegnato a capireed amare le cose semplici e buone e rivivranno per te certe emozioniche hai suscitato nel loro animo.Te ne sei andato così, in punta di piedi anche da noi Mario, quasi scu-sandoti di non farcela più. Ti abbiamo voluto tutti bene; non si poteva non volertene! Eri il piùbuono di tutti, il collega semplice e onesto. Il fiduciario premuroso e dis-creto, corretto e generoso. Ti preoccupavi sempre degli altri, smorzavi lepolemiche, sedavi i contrasti, ricreavi gli equilibri, sapevi sdrammatizza-re riportando serenità e giustizia.Non sei mai stato presuntuoso o arrogante. Non hai mai fatto caderenulla dall’alto, non sei mai salito in cattedra a predicare, a dare ordini, asputare sentenze. Sapevi trovare il bello ed il buono in ogni cosa e inogni persona e lo comunicavi agli altri.Hai lasciato a tutti qualcosa, hai perdonato a tutti e nessuno ha nulla daperdonarti.Ma il tuo bene non si esauriva a scuola. Hai portato la tua bontà, la tuagenerosità, la tua opera di missionario nella lontana Africa quando, forse,il male che doveva ucciderti stava già aggredendo il tuo cuore.Sotto quel sole, in mezzo a quella polvere, fra disagi e pericoli, sei anda-to a medicare le ferite, a curare le piaghe, a lenire le pene di quella pove-ra gente; a costruire scuole per i piccoli indigeni. Hai dato una lezione di vero cristianesimo, con silenzio e umiltà. Tutta latua vita è stata una missione, Mario, e dove sei passato non hai lasciatoche bene.Cosciente del tuo male, hai portato fino alla fine la tua croce cercando dinon essere mai di peso agli altri e, senza nasconderti la gravità del male,ti sei preparato a sopportarlo serenamente e, soprattutto, hai sempre cer-cato di infondere serenità, coraggio e speranza a chi ti stava vicino. Lidia,tuo padre, tua madre oggi ti piangono con noi ma sanno, e anche noi sap-piamo, che tu non vuoi le lacrime ma il ricordo fecondo di opere, fecon-do d’amore, di quell’amore cristiano che tu hai lasciato in ogni cosa e inogni persona che ha avuto la fortuna di conoscerti.

Page 90: Il topo ammaestrato

88

Sandra GavioQuando Lidia mi ha detto che sarebbe uscito un libro che ricordavaMario, mi ha fatto tanto piacere.Perché penso che un uomo come Mario non vada mai dimenticato, perme è stato una grande amico nel vero senso della parola (in lui mi rifu-giavo per risolvere i miei problemi).Mi ricordo come fosse ieri quando siamo partiti per il Burundi (22 lugliodel 1970) con Don Carlo Molinelli (i migliori se ne vanno). Non posso

descrivervi il suo impegno materiale e morale, perché potrei scrivere unlibro, ma vi trascriverò un appunto che mi lasciò una sera:“Noi ci divertiamo al loro folklore e non abbiamo pietà della lorofame, e sì che attorno a noi ce ne sono tanti che hanno fame, macome Caino diciamo: sono forse io il custode di mio fratello?”

Il gruppo di volontari in Burundi. La seconda da sinistra è Lidia. Dietro a lei, con gli occhialiscuri, Mario. Sandra Gavio è la prima da destra.

Page 91: Il topo ammaestrato

89

Luigina IsettaIntervista a cura di Chiara Parente“Un ragazzo affabile, cortese, generoso, sensibile, con una grandedote: sapeva comunicare, riusciva ad instaurare un dialogo con tutti,grandi e piccini, aveva quella capacità di pronunciare la parola giu-sta al momento giusto, che è una qualità così rara e preziosa negliesseri umani, il suo sorriso era radioso, era un giovane che amava lavita e che della vita era in grado di carpire e far proprio ogni mini-mo attimo, ogni momento”.Così lo ricorda Luigina Isetta, la sua vicina di casa per oltre vent’anni. Da giovane Mario Pelizza abitava in via Dante, in una casa dalle formestrette e allungate a fianco del nostro “ Maurizio” in compagnia dell’an-ziana zia Marietta, che l’aveva ospitato sin da quando, ottenuto il postodi maestro alla scuola elementare del paese, aveva deciso di trasferirsi daAlzano, dove era nato, a Castelnuovo.Ed è in questa casa che decise di rimanere con la moglie Lidia, una ragaz-za di Casale Monferrato molto carina, alta, snella, dai capelli color delrame. La signora Luigina rammenta ancora quando i due ragazzi si eranoconosciuti e la gioia che Mario aveva nel presentare ai vicini la sua futu-ra moglie. Erano entrambi così giovani che all’altare sembravano dueragazzini. Una vita serena la loro, assaporata fino in fondo. Vivevano coni genitori di Mario che, venuta a mancare la zia, avevano deciso di trasfe-rirsi a Castelnuovo. Di comune accordo le due famiglie avevano ristrut-turato la palazzina di via Dante e creato due appartamenti, i genitori alpiano terreno e i due sposini al piano superiore. Era piacevole osservar-li nelle calde sere d’estate mentre seduti l’uno di fronte all’altra, circon-dati da un’infinità di fiori dai mille colori o appoggiati alla ringhiera delbalcone se ne stavano a chiacchierare per ore e ore. Qualche volta usci-vano, cercavano ristoro suta ara lea, passeggiando lungo il viale albera-to che portava a Scrivia. “Però - commenta la signora Luigina - il momento che ricordo piace-volmente era la preparazione della roulotte per un viaggio. Noi divi-devano il cortile con loro e quando Mario stabiliva la data di par-tenza per una vacanza, portava la roulotte in cortile e, indossati deipantaloncini corti e una maglietta, immergendo la spugna in unatinozza colma d’acqua, la lavava e la lavava ancora fino a farla dive-nire lucente. E noi dicevamo: ‘Mario, a partiv par un atar viag?’”.

Page 92: Il topo ammaestrato

90

A Mario piaceva moltissimo viaggiare, vedere posti nuovi, conoscerne gliusi, i costumi, perciò aveva comprato una roulotte. I coniugi Pelizza tra-scorrevano quasi tutta l’estate fuori Castelnuovo, in giro per l’Italia oall’estero. Anche durante l’annata però ogni occasione era buona pervisitare città, castelli, abbazie. “Una volta - ci spiega Luigina - Mario eLidia hanno accompagnato una nostra vicina di casa, Clementina, alsantuario di Caravaggio. Si erano portati da casa pö e salam e aveva-no pranzato a Caravaggio, seduti in un verde prato all’ombra disecolari piante. Un pic-nic, questo era il modo preferito da Mario eLidia per viaggiare, a diretto contatto con la natura.Quante volte di ritorno da una gita, da una scampagnata o da unlungo viaggio Mario ci commentava i luoghi che aveva visitato, lecittà che aveva girato, rendendoci partecipi delle sue impressioni. Ilsuo era un racconto coinvolgente, appassionante, sembrava di esserelì, sul posto, magari di fronte ad un arido paesaggio africano oppurein Palestina, terra così cara a Mario…Anche Paola, Anna e Renza cheallora erano poco più che ragazzine lo ascoltavano con entusiasmo,e se un episodio le appassionava particolarmente glielo facevanorispiegare più e più volte e lui con una calma e una dolcezza tuttasua lo ripeteva, lo ripeteva fino a che le tre ragazzine contente e sod-disfatte tornavano a giocare. Era un vicino di casa bravissimo, un uomo modello, ben voluto datutti, e ancora adesso quando ci troviamo tutti insieme - Paola conAda e Giuseppe, Renza con il marito, Elisabetta e Federico ed Anna -lo ricordiamo spesso, con tanto affetto e tanta nostalgia.

Paola IsettaI ricordi che ho di Mario sono soprattutto sensazioni, tracce di espe-rienze vissute, sono sentimenti che rendono colorata e gioiosa la miainfanzia.La prima è una sensazione di calore, il calore delle sue braccia che miavvolgono, mi sostengono, mi coccolano mentre mi porta a spasso e iovedo un mondo grande che non mi fa paura perché sono al sicuro.Mario conosceva la psicologia dei bambini e sapeva condurmi in espe-

Page 93: Il topo ammaestrato

91

rienze significative. Quando saliva-mo sulla terrazza in cima alla suacasa vedevo un paesaggio immenso,azzurro, popolato di antenne, caldodi sole, vicino al cielo.Una sensazione visiva mi lega allasua “giardinetta”, al 1.100 biancofamiliare e alla roulotte parcheggia-ta in cortile: era la mia possibilità divivere l’avventura, era la possibilitàdi conoscere il mondo, era il mododi andare in collina dalla nonnaAngiolina.Forse se sono diventata una “gira-mondo” lo devo anche a Mario!

Angelo MaggiL’immagine che più frequentemente mi torna al ricordo di Mario, Marioad Pipena (così veniva chiamato ad Alzano, paese d’origine), è il suo sor-riso, stampato spesso sulle labbra, rassicurante e solare, specchio del suoanimo. Per me e per mio fratello, che non abbiamo mai avuto la fortunadi averlo come maestro, era ben più dell’amico e vicino di casa di papà,ma uno zio: uno zio che aveva sempre qualcosa di nuovo da raccontarcie ci conduceva con le sue narrazioni in luoghi a noi sconosciuti. I viaggierano la sua passione e la passione di sua moglie Lidia. All’inizio deglianni ’60, quando l’Europa era ancora un concetto lontano da quello chenoi ora abbiamo, egli era un po’ il paladino precursore di un’idea di lì avenire, aperto com’era al confronto con altri modi di vivere, altre men-talità. Girò infatti, con la roulotte, l’Europa ed ogni viaggio era un arric-chimento per tutti coloro che lo conoscevano; parlava degli altrui modidi vivere con gioia, rispetto e trasporto, le barriere, per lui, erano giàcadute 40 anni fa. E documentava tutto con le diapositive: era una gioiaquando ci invitava nella sua casa, a Castelnuovo, a vederle. Era un mondofantastico che si apriva ai nostri occhi e apriva le nostre menti.Era generoso e altruista, passò molte estati in Africa ad aiutare chi sorri-

Lidia Pelizza e Paola Isetta

Page 94: Il topo ammaestrato

92

so non aveva e si prodigava per alleviare le sofferenze altrui. Ma il suocompito non terminava laggiù; una volta tornato, portava a conoscenzala sua esperienza di volontariato cercando di coinvolgere le nostrecoscienze. Da vero educatore quale egli era.

Vittorio MaggiIntervista a cura di Lavinia Cisi e Favolarevia.Vittorio Maggi, di Alzano Scrivia, è stato amico, compagno di giochi,nonché vicino di casa del maestro Mario. Ci ricorda anche che è statol’impresario edile che gli ha costruito la villa di Castelnuovo, dove tut-tora vive la moglie Lidia.“I ricordi che ho sono tantissimi. Ma andiamo con ordine. I primi anni digioventù Mario li ha passati a Canobbio prima e Castelletto Ticino poi,luoghi dove il papà, maestro elementare, è stato confinato dal regimefascista.Le estati, durante le vacanze, Mario le passava ad Alzano dai nonni, quin-di, non ricordo se nel 1943 o 1944, è venuto ad abitare definitivamente

Il villaggio del Burundi in cui lavoravano i volontari del gruppo Africa ‘70.

Page 95: Il topo ammaestrato

93

nella casa paterna.Era un ragazzo dal carattere d’oro, non l’ho mai visto arrabbiarsi conalcuno, era gioviale, espansivo, allegro, parlava sempre con tutti ed anda-va d’accordo con tutti.Non ha mai fatto pesare di essere il figlio del maestro, e a quei tempi ilmaestro era il maestro.Era umile e solare allo stesso tempo. Veramente un ragazzo d’oro”.- Ha ricordi particolari di gioventù?“Tanti, tantissimi. Eravamo ragazzi e facevamo le cose che facevano glialtri ragazzi. Abbiamo passato parte della nostra gioventù con la guerra esapevamo divertirci con poco.Ricordo che andavamo a pescare, a fare il bagno nello Scrivia. Allora ciandavamo tutti, ma Mario doveva venire di nascosto. I suoi genitori asso-lutamente non volevano perché un suo zio, il fratello del papà, era anne-gato proprio nello Scrivia facendo il bagno. Si chiamava Mario ed il mae-stro è stato chiamato così in ricordo dello zio morto così tragicamentein giovane età.Andavamo poi a girare, a giocare nei boschi, giocavamo a nascondino,con la corda ed a cirimelle. Però in generale a Mario non piaceva faresport; ad esempio non ha mai giocato a calcio e non se n’è neanche maiinteressato”.Poi, più cresciuti, andavamo a ballare.- Ha aneddoti da raccontare?“Beh! Mario era anche un burlone, si divertiva a fare scherzi alle ragazze.Lo scherzo che amava di più era legare delle mele alle inferriate dellefinestre quando qualche ragazza si avvicinava per mangiarle noi arriva-vamo quatti quatti alle spalle, le legavamo alle inferriate stesse e lascia-vamo lì. Questo scherzo lo aveva inventato lui, solo che era un po’ pesan-te, così abbiamo smesso di farlo. Forse non è nemmeno il caso di rac-contarlo”.- Quali valori ha saputo trasmettere Mario?Era allegro, mai arrogante, un ragazzo positivo, sempre disponibile ad aiu-tare chi aveva bisogno. A proposito, non ricordo più che anno fosse, maistituì il doposcuola in Alzano per preparare alla 5° elementare chi anco-ra non era in possesso della licenza. Un ragazzo straordinario che si pro-digava per il proprio paese”.- Se fosse qui ora cosa gli direbbe?Vorrei ringraziarlo per tutto quello che ha fatto, per l’impronta che ha

Page 96: Il topo ammaestrato

94

saputo dare alla nostra giovinezza. Mario ha sempre rifiutato di obbedirea quella logica dell’egoismo che oggi è diventata quasi legge. Con lui sene è andata un’intera epoca, con il suo modo così diverso, ormai irrico-noscibile, di guardare alla vita.

Osvaldo MussioIntervista a cura di Alessandra DellacàQuando penso a Mario, il parallelo immediato è con il filosofo Seneca, inparticolare quando egli si rivolge, scrivendo le “Epistulae ad Lucilium”, alnipote per fornirgli utili consigli sul comportamento, sul concetto di cor-rettezza, di giustizia, sulla necessità/virtù di essere generosi e di averebuoni rapporti con il prossimo. Ecco, Mario era per i suoi ragazzi ilSeneca e con il suo modo di fare li aveva letteralmente conquistati, por-tandoli addirittura a casa sua. Era un altruista, amava i suoi alunni e loroamavano lui.Perché questo parallelo con Seneca? Perché viene da chiedersi se tuttaquesta teoria Seneca l’abbia applicata davvero, mentre degli insegna-menti che ha lasciato Mario ne sono certo. Era un ragazzo generoso,anche i suoi genitori erano maestri; il padre era un antifascista, ancheMario era contro ogni dittatura. Quando si presentava una novità, Marioera il primo ad esserne subito incuriosito. Di Mario ricordo l’estremaonestà: era una bella persona e molte ragazze gli giravano attorno, maegli, sposato, non ne ha mai approfittato. Dei momenti trascorsi insieme,ricordo con piacere quando siamo andati a Viguzzolo a vedere lo spetta-colo di Dario Fo, che Mario ha apprezzato moltissimo.

Anna Maria Palazzolo Ho conosciuto Mario Pelizza nel 1974.Era a casa ammalato ed io avevo avuto l’incarico di sostituirlo.Ero giovane, alle prime armi come insegnante, piena di dubbi e di buoneintenzioni.Gli avevo timidamente chiesto un incontro per parlare dei suoi ragazzi e

Page 97: Il topo ammaestrato

95

lui, sorpreso, fu felice di accordarmelo, nonostante stesse poco bene.Era di primo pomeriggio quando il maestro e sua moglie mi accolseronella loro casa; erano le otto di sera quando mia madre telefonò, preoc-cupata per l’insolito ritardo.La conversazione di quelle ore era stata talmente coinvolgente da farmidimenticare il tempo.Rimasi profondamente colpita dalla sua bontà, dalla finezza d’animo,dallo spirito altruista che lo aveva portato missionario in Africa, dal pro-fondo amore per il suo lavoro, dall’affetto trepidante per i “suoi ragazzi”,gli unici tra i tanti di cui ho ancora viva memoria, dal desiderio strug-gente e purtroppo inappagato di vederli crescere e realizzare i lorosogni.Con tenerezza paterna mi diede fiducia, incoraggiandomi come unafiglia che muove i primi passi.Ogni tanto passava in classe a salutarci.In quei rari e fortunati momenti tornavo anch’io bambina tra quei bam-bini stregati dal carisma di un uomo straordinario.Come dimenticare le avventure del famoso Topo Tartaglione, che spun-tava per magia nel discorso ogni volta che occorreva mediare per farapprendere una regola di comportamento o una nozione difficile!Conservo tra le foto di famiglia le lettere che mi scriveva dal suo esilioforzato, così serenamente malinconiche: mi aiutano a vivere, mi com-muovono sempre.Ripongo ancora diligentemente “qualche fiasco nell’armadio” 1 come luivoleva.

Impensabile non volergli bene.Impossibile dimenticarlo.

1. Ved. la lettera dell’8 gennaio 1975, pubblicata a pag. 119

Page 98: Il topo ammaestrato

96

Page 99: Il topo ammaestrato

97

il maestro e la scuola

Page 100: Il topo ammaestrato

98

Page 101: Il topo ammaestrato

99

Confronto tra la scuola elementare ai tempi del maestroPelizza e quella dei giorni nostri

di Alessandra Dellacà

Nel corso degli anni molto è cambiato nelle istituzioni scolastiche, neiprogetti educativi, nella professionalità, nell’immagine del personaledocente.Ciò che senza dubbio è rimasto invariato è lo scopo “principe” che lascuola ha sempre avuto: insegnare agli allievi, che iniziano la loroOdissea scolastica all’età di sei anni, a “leggere, scrivere e fare di conto”.E’ altrettanto certo però che, entrando oggi in un’aula di scuola – indi-stintamente elementare, media o superiore - si respira un’atmosfera par-ticolarmente rilassata, informale e, a fornire un utile allenamento per lecorde vocali degli insegnanti ci pensano, spesso, gli stessi studenti. Avevatutt’altro peso invece negli anni in cui ha insegnato il maestro Pelizzal’“aria” che si respirava in classe: “non volava una mosca”, ricorda quasicompiaciuto qualche ex alunno di quel periodo ed era categorico rivol-gersi al maestro utilizzando la formula del Lei, così come si scattava inpiedi quando l’insegnante entrava in classe: al saluto di rito con tanto di“Buongiorno signor maestro” seguiva la “preghiera del mattino”, recitataall’unisono in tutte le aule. E poi, solo dopo un cenno dall’alto dello stes-so maestro, era possibile prendere nuovamente posto a sedere, tenendola schiena ben diritta e le braccia conserte, con l’essenziale sul bancoche doveva essere sempre in ordine. Il maestro, prima di iniziare la lezio-ne, apriva il registro per annotare gli assenti del giorno; per l’alunno nonera necessaria la giustificazione se era rimasto a casa da scuola solo ungiorno, mentre era d’obbligo il certificato medico se si trattava di piùgiornate. Ogni volta che lo scolaro voleva prendere la parola, dovevaprima chiedere il permesso alzando la mano.Per quanto riguarda il modo in cui il maestro si rivolgeva al suo piccolo“pubblico”, egli sì, poteva dare del “tu”, ma la confidenza che si potevaraggiungere non superava mai determinati limiti. Lo scolaro poteva sem-mai alzare la mano in silenzio e chiedere successivamente al maestro ilpermesso per alzarsi o uscire momentaneamente dall’aula.L’atteggiamento che insomma, di solito, si impostava tra maestro ed alun-no era estremamente formale, distaccato, da “dietro alla cattedra”: solopochi ex allievi di quel tempo ricordano il maestro tenere lezione stan-

Page 102: Il topo ammaestrato

100

do seduto a cavalcioni sulla scrivania. Era inconcepibile, allora, da partedegli alunni “affibbiare” un qualsiasi nomignolo e soprannome al proprioinsegnante: egli era “il maestro” per eccellenza. La stessa signora del mae-stro, se era sposato, era con rispetto chiamata “la moglie del signor mae-stro”. E poi, i reduci di quei metodi ferrei, non avranno certo dimentica-to il rigore con cui veniva impartita l’educazione a scuola: il rispetto eraalla base di tutto, come d’altronde dovrebbe esserlo in tutti gli ambientisociali, ed era un fatto scontato che non si verificasse il contatto fisico tramaestro ed alunno, anche se potevano presentarsi casi in cui l’insegnan-te, dopo le classiche riprese verbali o l’eventuale punizione con l’uscitafuori dall’aula, dovesse ricorrere al “lancio del cancellino” - come avver-timento che si stava “tirando la corda” - o allo “scapaccione” in caso di sin-golare indisciplina. Non si arrivava mai a mandare l’alunno dal direttoreper un richiamo disciplinare, ci pensava sempre prima il maestro. La bac-chettata sulle dita spettava inesorabilmente invece nel malaugurato casoin cui il bambino fosse mancino. Provvedimenti questi forse estremi eche sono stati giustamente aboliti, ma che non hanno comunque “intac-cato” o compromesso particolarmente gli alunni di ieri: alcuni maestri diquei tempi ricordano che essi non hanno avuto quasi mai la necessità diricorrere alla nota sul registro, metodo di correzione che invece costellala sezione odierna dei rapporti disciplinari e che quasi non spaventa piùlo studente… sarà anche questo un caso di assuefazione? Piuttosto, seproprio la situazione andava degenerando, si preferiva convocare i geni-tori ed in quel caso sì che erano dolori per l’alunno, “anche se - conti-nuano i maestri protagonisti di ieri - nessun nostro allievo è mai statobocciato per la condotta”. Per essa andava comunque assegnato un votosul registro come quelli delle materie scolastiche, che aveva una fonda-mentale importanza per comprendere il temperamento del soggetto inquestione: esso, tra l’altro, spiccava in particolar modo, dal momento cheveniva scritto in cifre, a differenza dei voti sulle materie che, per un certoperiodo sono stati riportati in cifre, successivamente sotto forma di giu-dizi.Detto così, sembra che il rapporto tra chi doveva dispensare l’Istruzionecon la “I” maiuscola e lo scolaro fosse pressoché inesistente: senza dub-bio oggi ci sono insegnanti che riescono a “mettersi sulla stessa lun-ghezza d’onda” dei ragazzi, rendendosi volutamente partecipi delle loroconfidenze per poter essere loro “guida” e capirli meglio negli atteggia-menti non sempre chiarissimi di quella che è l’età adolescenziale.

Page 103: Il topo ammaestrato

101

Bisogna anche ammettere però che, a conti fatti, ci sono pochi esempidi questo tipo: sempre meno i bambini delle elementari parlano in modo“illuminato” dei propri insegnanti, sempre più spesso non si sente nep-pure uscire dalla loro bocca il nome e cognome per intero, perché nonse lo ricordano… E poi che confusione! C’è l’insegnante di italiano, sto-ria, quello di disegno, per non dimenticare quello di matematica che, seva bene, insegna pure scienze, altrimenti può cimentarsi anche in tecni-ca. Insomma con l’abolizione della figura del “maestro unico” alle scuoleelementari questi poveri bambini si trovano effettivamente un po’ di-sorientati di fronte a tanti “modelli ” da seguire: per la carità, a tutto si fal’abitudine, ma un tempo l’alunno poteva godere del rapporto “esclusi-vo” con il maestro e ci passava a stretto contatto gran parte della gior-nata, restando profondamente impregnato dei messaggi propostigli da

Fine anni ‘50. Inizio della via Roma in corrispondenza (sulla destra) dell’edificio delle scuo-le elementari. In primo piano il voltone che dava accesso alla via Flavio Torti (accanto allaPosta) e la struttura seicentesca demolita negli anni ‘60 per far spazio all’attuale palestra.

Page 104: Il topo ammaestrato

102

quell’unico garante che rappresentava per il bambino l’istruzione scola-stica.E’ vero che i ragazzini delle elementari dovranno pur abituarsi all’idea diavere più docenti nelle scuole di grado superiore, ma, chi ha provato –ancora fino a pochi anni fa - il polso di un solo maestro, se lo ricorda tut-tora e non stenta affatto a menzionarne il nome.“Quello che si cercava di instaurare negli anni in cui ho esercitato la pro-fessione di maestro – racconta con piacere e visibile soddisfazione nelricordarlo Osvaldo Mussio, ex collega del Pelizza – era un rapporto dischietta lealtà tra maestro e scolaro: ogni insegnante partiva dalla cono-scenza dell’alunno e ne individualizzava le propensioni. Era questo unodei principi base per essere un buon insegnante: io ho personalmenteappreso questo principio nel dopoguerra dall’ispettore scolastico dellaprovincia Doglioni, una persona che ha saputo offrire molti spunti e unapreparazione didattica eccellente agli insegnanti. Sta di fatto che con ilmetodo ‘di quei tempi’ per il giorno dei Santi gli alunni erano in grado discrivere i pensierini”.Certo, se così tanto i maestri esigevano dai propri allievi, essi dovevanoessere altrettanto preparati didatticamente. Anche allora esistevano icorsi di aggiornamento per i docenti: gli argomenti venivano presentatie trattati di volta in volta dall’Ispettore. I maestri avevano inoltre rivistespecifiche cui rifarsi e ricavare utili suggerimenti per l’insegnamento,come “I diritti della scuola” – di stampo laico – o “La scuola” – di impron-ta più religiosa -. Naturalmente, una volta fissato il centro d’interesse,stava poi al maestro “sviscerare” l’argomento.Non mancavano poi i controlli, anch’essi assai rigorosi, dell’Ispettore,che, almeno due volte all’anno procedeva ad un’accurata ispezione nelleclassi, sondava i vari aspetti scolastici chiamati in causa, dall’ordine nel-l’aula ai risvolti educativi, dalla preparazione dei bambini all’interessa-mento per il riscaldamento nei locali, e riportava sul registro le note direlazione. Lo stesso maestro riceveva dall’ispettore una votazione a fineanno e per questo, giorni prima, alla notizia del suo arrivo controllavaaccuratamente orecchie e unghie degli scolari.Periodica era anche la visita del direttore della scuola, che seguiva ancorpiù da vicino l’andamento delle classi, ponendo delle domande per veri-ficare l’andamento generale degli alunni.Più rara ma altrettanto significativa era la visita del Provveditore agliStudi. Esisteva un regolamento interno tra le classi, c’era molta collabo-

Page 105: Il topo ammaestrato

103

razione tra gli insegnanti e senza dubbio regnava meno burocrazia. Alivello di consiglio scolastico, esisteva quello docenti, mentre non c’erala figura del rappresentante di classe.Piuttosto, effettivi problemi di integrazione nella classe hanno avuto, inquegli anni, i ragazzini che provenivano dal Meridione: la “differenza” diespressione linguistica era ancora abbastanza marcata e il fatto di arriva-re, per molti, di punto in bianco, per esempio, in una terza classe, pro-curava non pochi problemi di inserimento. A volte ci si trovava in classeinvece, per periodi più o meno lunghi, figli di giostrai o del circo, cosache procurava non pochi disagi agli insegnanti, ma che riempiva di gioiai fortunati compagni, certi di poter usufruire di biglietti omaggio per ivari spettacoli.Prima del ciclo unico dalla prima classe elementare alla quinta, esisteva-no due cicli scolastici: il primo ciclo, che comprendeva la prima e laseconda classe, era solitamente curato dalla figura della maestra, il secon-do ciclo, dalla terza alla quinta elementare, era affidato al maestro. Le clas-si venivano assegnate dal direttore didattico. Per quel che riguarda le classi più nello specifico, si è passati dalle classidivise in maschi e femmine a quelle miste; nelle frazioni invece, per forzadi cose, poteva esserci la pluriclasse.Negli anni precedenti alla II Guerra Mondiale la “formazione base” dellaclasse poteva superare i cinquanta alunni, mentre successivamente c’èstato un progressivo ridimensionamento dei componenti le classi: lamedia si assestava comunque in quegli anni sui venticinque/trenta alun-ni per classe.E l’iter del maestro per poter diventare di ruolo era simile al percorsoche devono seguire i docenti dei giorni nostri: si partiva con le supplen-ze, ci si inseriva nella scuola e per tre anni si insegnava restando “fuoriruolo”: dopo questo periodo si poteva tentare l’esame di Stato, che cade-va con una scadenza biennale al fine di essere ammessi ad esercitare lapropria professione didattica con una cattedra fissa. Restava poi il fattoche se due coniugi, entrambi maestri, lo desiderassero, potevano effet-tuare lo scambio di sede.La qualificazione del maestro gli permetteva di gestire anche i corsi dirichiamo scolastico: coloro che non avevano la quinta elementare e desi-deravano conseguire la licenza, potevano partecipare a quella che oggi èchiamata scuola serale: durava solitamente tre mesi, dal lunedì al vener-dì, dalle 20.30 alle 23.

Page 106: Il topo ammaestrato

104

Inizialmente, non c’era la mentalità di impartire, agli alunni che restava-no più indietro degli altri con il programma, lezioni private a casa, cosìcome non esisteva, affiancata a quella del maestro, la figura dell’inse-gnante di sostegno; esistevano però le scuole differenziate per disabili oper ragazzi con particolari problemi.L’insegnante, come l’alunno d’altra parte, aveva la possibilità di distin-guersi nella propria attività. Per gli scolari veniva istituito il Premio diBontà, che consisteva in un libretto consegnato in ottobre, nel giorno

dedicato al risparmio, a chi si era distinto proprio in quello – aCastelnuovo per esempio veniva sovvenzionato dalla Cariplo. Per il mae-stro c’erano i “concorsi per merito distinto”, dove l’insegnante esibiva unargomento trattato con particolare cura e, dopo un calcolo che somma-va gli anni di servizio e le votazioni, si otteneva il vantaggio economicodi anticipare di un anno il passaggio dell’aumento di stipendio (che disolito avveniva ogni due anni).Ma come si presentavano allora le aule? A seconda della disponibilità deilocali e della quantità degli studenti, le classi erano più o meno spaziose;le giacche e i giubbotti andavano sistemati fuori dall’aula e all’interno di

Nel cortile interno delle scuole elementari: Mario Pelizza con i colleghi Marina Scarrone inVeniali e Pietro Baldi.

Page 107: Il topo ammaestrato

105

essa nulla doveva essere appoggiato per terra, neanche la cartella cheandava appesa dietro lo schienale della sedia. Le pareti erano poi tap-pezzate di cartine geografiche che il maestro utilizzava per approfondi-re le lezioni di geografia, indicandole con l’apposita bacchetta di bambù.Indispensabile inoltre il cancellino e la lavagna girevole, da una parte aquadretti per gli esercizi in classe di matematica e dall’altra completa-mente liscia. Ciò che ha segnato però “quel tipo di aula” è stato il bancodi scuola o, meglio, i banchi uniti doppi, rigorosamente in legno e dotatidi due piccoli posti a sedere e di due appositi buchi per il calamaio, accu-ratamente riforniti la mattina dal bidello che passava con la caraffa dota-ta di bocchino e vuotava l’inchiostro.Fra gli strumenti del mestiere dello scolaro non poteva dunque mancarela penna con pennini di varie forme a seconda della calligrafia più sotti-le o più marcata che si voleva ottenere: c’erano, per esempio, i pennini acampana, a torre, a forma di mano, a “panciottino”. La penna presentavaperò l’inconveniente di macchiare parecchio: era obbligatorio averesempre con sé dunque più fogli di carta assorbente e, in casi estremi, siusava il tampone a gondola. Erano comunque già in commercio le biro,ma alle elementari era obbligatorio usare penna e pennini per unamigliore impostazione della scrittura.A questo punto viene da chiedersi cosa aveva nella cartella il nostro alun-no: visti i pesanti fardelli che sopportano oggi gli allievi già dalle primeclassi delle scuole elementari, verrebbe da pensare che, a quei tempi,data la rigida educazione, il peso delle borse fosse a dir poco notevole. Einvece no! Nella cartella di cuoio che si portava a mano o a spalle – suc-cessivamente sostituita dallo zaino – veniva utilizzato dalla prima ele-mentare alla quinta un solo libro di testo, fornito dal PatronatoScolastico, istituzione che provvedeva anche a equipaggiare il mobilettodi legno sito in ogni aula di quaderni a righe e a quadretti Fabriano.Quattro i quaderni utilizzati in tutto: due a righe e due a quadretti, unoper la brutta copia, da usare a casa, e uno per la bella. Quelli a righe ser-vivano naturalmente per i dettati, il tema, i compiti di italiano, quelli aquadretti per la matematica. Insomma era pressoché impossibile con-fondere o dimenticare nella quantità, come capita spesso oggi, i quader-ni da utilizzare; un altro accessorio che alle elementari “non andava dimoda” era il diario: il compito veniva scritto di volta in volta sul quader-no che serviva a casa.Il libro di testo adottato veniva prima valutato attentamente dai maestri,

Page 108: Il topo ammaestrato

106

che tenevano apposite riunioni perché la scelta finale andasse bene atutti.C’era poi il libro di lettura, anch’esso individuato oculatamente dal diret-tivo scolastico. Lo spazio dato alla lettura era effettivamente molto: inclasse il maestro leggeva regolarmente un brano, dandogli la giusta into-nazione ed espressione; gli alunni dovevano seguire e stare ben attenti anon perdere il segno, perché da un momento all’altro potevano esserechiamati a continuare. All’interno di ogni aula c’era una piccola bibliote-ca e, sotto il controllo del maestro, ogni alunno poteva prendere e con-sultare i libri messi a disposizione. Ogni alunno era tenuto, dopo la let-tura di un libro, a svolgere un piccolo riassunto e a relazionarlo in clas-se.Passando in rassegna, più nel dettaglio, le materie scolastiche, regnavanosu tutte la lingua italiana, storia, geografia, scienze: la spiegazione di que-st’ultima, quando si arrivava a studiare le parti del corpo umano, diven-tava particolarmente interessante dal momento che in classe c’era unmodello scomponibile del corpo umano e dei cinque sensi. In effettilaboratori veri e propri come oggi non c’erano, ma si facevano comun-que interessanti esperimenti in classe, come quello elementare ma istrut-tivo del fagiolo o del seme di grano sotto il batuffolo di cotone imbevu-to d’acqua. Il disegno era spesso complementare all’italiano, mentreun’ora alla settimana era dedicata alla ginnastica, sempre tenuta dal mae-stro. Gli alunni facevano educazione fisica con quello che avevanoaddosso, non con la tuta, successivamente fu introdotto l’uso di magliet-ta bianca e pantaloncini blu. Spesso la lezione veniva praticata nello spa-zio ristretto in mezzo ai banchi di scuola e, nella bella stagione, in corti-le.L’ora di religione era tenuta rigorosamente dal parroco, mentre oggi cisono anche insegnanti di religione laici. La lezione di Catechismo venivasvolta, a differenza di oggi che dura più anni, solo nell’anno dellaComunione, in terza elementare. E l’ora di musica? Non esisteva, si can-tava e basta, di solito quei dieci minuti alla fine della settimana o, in casidi estrema elasticità del maestro, a sua discrezione nei momenti di stan-chezza.Momenti di vita scolastica di gruppo erano le recite ed i teatrini allestitiin occasione del Natale o del Carnevale: in questi casi tutta la scuola veni-va mobilitata e coinvolta attivamente: si mischiavano le classi e, insieme,si preparavano le parti recitate, con tanto di coro e poesie, in vista dello

Page 109: Il topo ammaestrato

107

spettacolo finale. A Castelnuovo Scrivia inoltre prese piede l’ormai tradi-zionale Mostra di san Giuseppe, un’esposizione di disegni con relativapremiazione che coinvolgeva gli alunni di tutta la scuola.E, parlando di momenti di festa o ricorrenze, c’era anche quella cheriguardava esclusivamente il maestro o la maestra, che, per Natale o afine anno, ricevevano dai propri alunni in segno di affetto o riconoscen-za, un regalo.Tra gli altri piacevoli oneri che impegnavano gli scolari c’era la fotogra-fia di classe, scattata, ogni anno, in gruppo insieme al maestro e singolar-mente, di solito in posizione canonica seduti al banco con il quadernodella bella copia aperto, la biro in mano e la cartina dell’Italia alle spalle.E i bambini? Qual era il loro abbigliamento scolastico? Su questo parti-colare di costume si sono verificati alcuni piccoli cambiamenti: c’è statoun periodo in cui le bambine portavano il grembiule bianco con il clas-sico colletto rigido di plastica che si puliva con la gomma – successiva-

Fine anni ‘50: piazza delle Rimembranze o Vittorio Veneto su cui si affaccia l’imponente edi-ficio seicentesco dei Gesuiti, dal 1854 sede delle scuole elementari di Castelnuovo.

Page 110: Il topo ammaestrato

108

mente sostituito con quello di pizzo o in cotone - ed un enorme fioccorosa (la “gala”); i bambini portavano invece la casacchina nera, anch’essacorredata da colletto bianco rigido e fiocco azzurro. In seguito si optòper il grembiulino nero ed il fiocco azzurro anche per le femmine.In quegli anni la scuola iniziava il primo di ottobre e terminava alla metàdi giugno (verso la fine del mese se c’era l’esame di licenza elementare).Durante le festività religiose c’era vacanza, ma non esisteva, per esempio,il concetto di “ponte” fra un giorno di festa e la domenica. Segnate sulcalendario come giornate di festa erano poi il 4 ottobre, il giorno di sanFrancesco, patrono d’Italia, ed il 12 ottobre, in occasione della scopertadell’America. Oggi queste due ricorrenze non sono più segnate “inrosso”, ma sono state sostituite da altri giorni di festa durante l’anno. Ilcaso di vacanza straordinaria si poteva verificare durante le elezioni,quando le scuole venivano adibite a seggi elettorali.Era in uso anche il concetto di sciopero, che avrebbe dunque autorizza-to in alcune occasioni gli insegnanti a restare a casa, ma, di fatto, nessu-no o quasi vi aderiva.All’inizio dell’anno scolastico veniva effettuata a scuola la visita medica:un’aula era appositamente adibita ad ambulatorio. Spesso l’ispezioneriscontrava problemi non solo fisici, ma propriamente di igiene perso-nale, come il controllo della situazione dentaria. Diffuso era il rilevare ipidocchi in testa ai bambini, che dovevano provvedere ad eliminarlirasandosi praticamente a zero i capelli e lavandoseli con l’aceto.Conseguenza logica per i compagni che magari non avevano ancorapreso i pidocchi dagli altri già “impestati” era un accurato taglio “allamaschietto”.A distanza di qualche anno, veniva pure presso le scuole un camperattrezzato per effettuare esami di radiologia al torace per controllare ipolmoni.I bambini andavano a scuola al mattino ed al pomeriggio, dalle 9 alle 12e dalle 14 alle 16 e restavano a casa tutto il giovedì. Successivamentevenne rivoluzionato l’orario scolastico, abolendo i rientri pomeridiani eimpostando la frequenza scolastica dal lunedì al sabato, dalle 8 alle12.30. In compenso oggi si è trovato il modo di far andare a scuola i bam-bini tutte le mattine ed anche alcuni pomeriggi.L’intervallo, sacro per gli studenti di qualsiasi epoca scolastica si parli, eracollocato a metà mattinata: un momento di puro svago, passato solita-mente in corridoio sotto l’occhio vigile del bidello che controllava le

Page 111: Il topo ammaestrato

109

corse – in genere sfrenate - degli alunni. Poteva capitare nella bella sta-gione di trascorrere l’intervallo nel cortile della scuola e allora la possi-bilità di “sfogarsi” era maggiore: in quei momenti, anche la merenda por-tata da casa passava in secondo piano e veniva consumata correndo.Divieto assoluto regnava sulle feste di compleanno in classe tanto dimoda oggi, al massimo l’alunno riceveva gli auguri in classe, così comenon c’era l’uso di scambiarsi i regalini. Alcuni maestri, dal momento chenon esisteva la gita scolastica con il pullman e non c’erano molte altreoccasioni per “evadere”, portavano i loro alunni, previa segnalazione alfiduciario, a fare una passeggiata per il paese o lungo le rive del fiume.Il mezzo di locomozione più diffuso era la bicicletta e non sempre c’erail tempo necessario per tornare a casa all’ora di pranzo. Al problema siovviava recandosi presso la mensa dell’Asilo o a casa di parenti o amicidisposti ad ospitarli. Il maestro che era impossibilitato a tornare a casamangiava in classe.L’anno scolastico, diviso per trimestri, prevedeva la consegna ai genitori,tre volte all’anno, della pagella. Al termine dei cinque anni, così comeoggi, gli scolari dovevano sostenere la prova finale per conseguire lalicenza elementare. Gli esami duravano tre giorni e dopo il sorteggio inclasse delle buste si procedeva prima con la prova di italiano (dettato etema), successivamente con il problema di matematica e si terminavacon l’orale. La commissione d’esame era composta dal presidente, dalmaestro e da altri insegnanti che giravano tra i banchi, per l’occasioneovviamente staccati, controllavano lo svolgimento delle prove e, a volte,aiutavano anche gli alunni in difficoltà puntando il dito su un errore.

Page 112: Il topo ammaestrato

110

Page 113: Il topo ammaestrato

111

conversazione con Lidia

Page 114: Il topo ammaestrato

112

Page 115: Il topo ammaestrato

113

Elogio della semplicità

di Mauro Mainoli

Racconta Lidia, la moglie di Pelizza, che da bambino Mario raccoglieva leschegge di sapone che la madre lasciava in giro, le inumidiva in una baci-nella e cercava di rimpastarle insieme per “fare il sapone”, come spiega-va con ostinazione.Un giorno la madre gli disse: “Mario, ma cosa stai facendo? Non vedi chequello è già sapone? Non stai facendo niente di nuovo.”Mario rifletté un poco, mortificato, e poi ammise: “E’ vero, è già sapone”.Ma non aggiunse quello che si è sempre portato dentro: che il mondo èbello osservarlo con umile ammirazione, che si può allungare le manisulle cose per il semplice piacere di sentirsi vivi, che non serve sforzarsidi aggiungere qualcosa allo spettacolo già straordinario di ciò che esiste.Lidia conserva in casa i lavori di intaglio con cui Mario dava sfogo allasua voglia di manipolare il legno: taglieri a forma di coniglio o di gatto etavolette decorate a palme e capanne, come aveva visto fare in Africa.Nessuna pretesa di essere artista, creativo, di cercare dentro di sé unaperfezione che non trovava fuori: l’esatto contrario, la voglia sincera diesercitarsi su quelle forme e su quei materiali che lui scopriva così per-fetti e così affascinanti da perdersi per delle ore a osservare le radici diun albero o il colore delle foglie. “A lui piaceva perder tempo, fermarsi, guardare in giro” – ricorda Lidia –“curava le piccole cose”. Le cose che di solito non si guardano, le coseche si calpestano, alla cui bellezza ci si abitua fino a ridurla a trascurabi-le ovvietà. Mario non dava per scontato nulla e nulla trovava banale,manifestando, anzi, un vero e proprio istinto amoroso per tutto ciò chela vita getta in un angolo o schiaccia con indifferenza. Guscio di noce ocrepa nella roccia, niente gli sembrava così poco carico di mistero dacostringerlo ad assuefarsi allo spettacolo del mondo e perderne la pri-mordiale suggestione. Poteva stare per un’intera giornata in un pratosenza conoscere la noia e senza cercare distrazioni, felice di sentirsiparte fragile ma essenziale di un mosaico sterminato. “Non siamo andatia Messa stamattina” – sfuggiva a Lidia in quelle domeniche d’esplorazio-ne. “Il Signore è qui” – rispondeva Mario indicando il prato.“Era cattolico, ma in maniera molto pacata e molto equilibrata. Sentiva ilSignore nelle cose che gli erano vicine, gli piaceva cercare l’impronta di

Page 116: Il topo ammaestrato

114

Dio soprattutto nel respiro della natura”.Lo stesso respiro, lo stesso Dio che ha cercato quando la vita gli sfuggi-va, chiedendo che gli fosse aperta la finestra della stanza d’ospedale per-ché voleva vedere il blu del cielo e sentire il profumo del sole.Viveva con gratitudine, anche nei momenti peggiori, quando era lui aconsolare gli altri che non sapevano rassegnarsi alla sua malattia: “Ma nonvedete come sono fortunato? Muoio circondato dall’affetto di chi mi èpiù caro, in un letto caldo. Pensate a quei poveri ragazzi che sono mortisul fronte di Russia, sepolti dal ghiaccio senza una parola di conforto”.Chi ammira con sincerità il mistero della vita forse sa aprirsi alla neces-sità della morte e ne giudica con la dovuta importanza il modo.“Mario era il più forte, non si disperava mai – ricorda ancora Lidia – sape-va sempre trovare il lato positivo di una situazione. Aveva in ognimomento una battuta pronta, una frase spiritosa. A volte gli amici michiedevano: ‘Ma non vi stufate ad andare in vacanza sempre voi due soli?’No, con lui non mi annoiavo mai perché sapeva farmi ridere e sapevafarmi appassionare alle cose apparentemente più insignificanti. Quandoarrivavamo in un paese nuovo, ci fermavamo a passeggiare nei giardinipubblici o ovunque ci fosse un po’ di verde. Mario osservava attenta-mente gli anziani e le persone sole. Con discrezione si avvicinava, attac-cava discorso e parlava per delle ore. E mi diceva soddisfatto: ‘Se vuoiconoscere un posto, se lo vuoi capire davvero, devi parlare con questagente’. Adorava gli anziani”.Adorava gli anziani ma adorava anche i bambini, adorava chiunque sfug-gisse all’ovvietà dei pregiudizi.“L’unica cosa di cui avesse veramente paura era l’ignoranza, la superfi-cialità, il pregiudizio. Sapeva bene quanto male si può fare esprimendodei giudizi senza riflettere. E allora si arrabbiava davvero, perdeva lapazienza. Non l’ho mai visto arrabbiarsi per nessun altro motivo”.Gli anziani, quando invecchiano bene, sono fuori dalla lotta per l’affer-mazione sociale, possono guardare al mondo col dovuto distacco. I bam-bini non conoscono ancora la banale malvagità delle dinamiche di diver-sificazione dei ruoli. Gli adulti si sono spartiti la terra in tanti piccoli pez-zetti, hanno frantumato la coralità di un sogno che per esistere ha biso-gno di essere condiviso, affogano nell’oceano nero della solitudine sca-gliandosi i relitti del loro naufragio. Gli esclusi dal tormento del possesso, bambini, anziani, emarginati, pove-ri, diventano con naturalezza il rifugio di Mario Pelizza, la sua porta verso

Page 117: Il topo ammaestrato

115

la libertà della semplice condivisione di un tesoro prezioso che non habisogno né di essere costruito, né di essere modificato, né di essere divi-so. Solo di essere guardato.“A Mario piaceva soprattutto guardare, osservare”. E gli piaceva osserva-re con chi ha ancora gli occhi per vedere, con chi conosce il valore dellecose perché ne possiede poche ed essenziali.“Mario ha sempre avuto una vita difficile. Fin da piccolo si è dovutoarrangiare con le poche cose che aveva. Anche nel periodo del fidanza-mento e poi del matrimonio abbiamo dovuto accontentarci di quel cheriuscivamo a mettere insieme. Ma Mario era sereno, tutto ciò che avevagli bastava, non chiedeva mai di più di quel che poteva avere”.E la sua casa era sempre aperta ai ragazzi più sfortunati, a chi non pote-va avere l’affetto della famiglia, a chi aveva meno matite nell’astuccio.Quando Lidia decide di tentare l’esperienza dell’aiuto alle popolazionipiù povere del pianeta, Mario accetta con entusiasmo e parte per quelleregioni della terra dove già allora era chiaro che saper costruire astrona-vi serve solo a chi le farà funzionare.Sui quaderni degli allievi del maestro Pelizza si parla della conquista dellaluna. Nelle foreste del Burundi Mario tampona il sangue di una parto-

I bambini del villaggio africano in cui hanno lavorato Mario e Lidia.

Page 118: Il topo ammaestrato

116

riente con l’erba raccolta tutt’intorno, cura le piaghe senza rimedio chenessuno vuole vedere (“Ma che curi a fare, Mario, tanto quello domanistarà peggio” “Beh, intanto per qualche ora starà meglio”) e guarda consoddisfazione i bambini scheletrici che una volta tanto possono starsenea svuotare con calma la pentola di zuppa di fave.E poi torna alle sue classi e ricomincia a lavorare con minuziosa umiltà,tracciando il profilo psicologico di ogni allievo con l’assillo sincero perquel che il futuro saprà fare delle loro debolezze e tormentandosi ognivolta che crede di non riuscire a far crescere un ragazzo.Pagine e pagine di riflessioni, di aneddoti, di osservazioni preoccupate,di scaramantica ironia.Nel silenzio del suo mestiere, senza chiasso, senza esporsi politicamentee senza abbracciare alcuna ideologia, perché, ricorda Lidia, “gli schiera-menti politici non gli interessavano, lui giudicava l’uomo” .Giudicava l’uomo e sull’uomo bisogna interrogarsi.Cosa spingeva Mario a questa sorta di francescanesimo schivo, cosa glidava l’equilibrio per affrontare il dolore del mondo con gesti utili e pre-cisi, come arrivava ad accettare con gratitudine persino il proprio lettodi morte?“Mario era un uomo semplice. Godeva delle cose belle e cercava di rime-diare a quelle brutte. A sera era felice se si accorgeva di non aver creatosofferenza”.Era un uomo semplice, nel senso più alto del termine.

Page 119: Il topo ammaestrato

117

gli scritti

Page 120: Il topo ammaestrato

118

Page 121: Il topo ammaestrato

119

Alcune lettere

Gent. Sig. Anna Maria,

ho scritto una lettera ai ragazzi e a lei perché gliela legga. Poi ci ho ripen-sato.E’ meglio che la legga prima lei, da sola, capirà il perché.Così gliela invio a casa.Forse c’è qualcosa che lei non si sente di leggere a voce alta, almenocosì, a freddo. Se la sua sensibilità è urtata, se non viene in classe queldelicato momento adatto a quella lettura, che lei ormai conosce già, o selei ritiene di non poter soddisfare ulteriori domande, salti pure qualchefrase.Nel primo caso le chiedo scusa.Ho ricevuto la sua lettera e la ringrazio. Mi parla di delusione e di odioferoce. Non ci credo. Almeno non odio, forse delusioni, ma fanno partedi ogni lavoro e di ogni vita e si spengono quando prendiamo in giro noistessi.Sono contento che la sentano maestra del mattino e non puramente sup-plente (che brutta parola!).I decreti delegati non interessano i genitori? Tutto normale siamo in per-fetta regola. E poi, italianamente parlando, perché li dovrebbero interes-sare?Non si preoccupi dunque, per le preoccupazioni ci sarà sempre tempoma in seguito.Cordialissimi saluti anche da mia moglie.Mario P.

XXmiglia, 8-1-1975

Gent. Sig. Anna Maria,

la penso in buona salute e, di nuovo, alle prese con i miei/suoi scolari. Iosto abbastanza bene.Ieri, per la visita fiscale, l’ufficiale sanitario di XXmiglia mi ha ricevuto

Page 122: Il topo ammaestrato

120

con “vuole allungare le vacanze, eh!” ed ha finito dicendomi “se fossi inlei, un viaggetto a Houston in Texas lo farei”.Tra i due non richiesti giudizi, infelicissimo il primo, profondamenteumano il secondo, sono passati pochi minuti in cui ha letto i miei refer-ti e, svelto svelto, ha confermato la mia richiesta di aspettativa.Come giudicherebbe lei costui? Comunque io, amministrativamente, sono a posto.Spero che anche lei, per il fatto aspettativa dal 23 – XII in avanti, nonabbia avuto difficoltà, in caso contrario sarebbe dimostrato che siamogovernati da uno Sprovveditorato agli studi.Per ritornare all’argomento ‘giudizi’, io provo pena di aver lasciato lei alleprese con i voti sulle pagelle.In sostanza dovrebbe masticarmi mente e cuore dei nostri 26 scolari,digerirli e scrivere 7 o 8 numerini per ciascuno in cui è detto tutto!Anche i 5.Quelli no, non li metta lei. C’è in agguato la scuola media. Anche questamastica numeri. Se le capita un 5 sotto i denti scricchiolano e digeriscemale. Non dobbiamo permetterlo. Troveremo insieme, in seguito, unasoluzione.E in più l’ho consigliata di vedere come fanno i colleghi. Non lo faccia.Per altre questioni di lavoro, mi scriva se lo ritiene necessario, sarò con-tento di rispondere per lei, per i nostri ragazzi e per alleggerire la miaattuale inutilità.Non si preoccupi troppo di eventuali fiaschi: li metta nell’armadio, vici-no ai molti che ho fatto io. Se è il caso si corregga, ma non si rattristi, ènormale per le persone intelligenti.So che ama questo lavoro, avrà sempre la mia approvazione: ammessoche valga qualcosa.Auguri dunque e cordialissimi saluti miei e di mia moglie a lei, ai ragazzie ai suoi genitori, con un grazie doveroso per quel pacco ravvolto inrosso! Sono in gamba i suoi con quei risultati!Cordialmente.Mario Pelizza.

Page 123: Il topo ammaestrato

121

Ventimiglia, 24-1-1975

Cari ragazzi e gentile signorina A. Maria,

ho ricevuto i vostri auguri per il mio onomastico. Sono stato contentospecialmente osservando tutte le vostre firme. Direi che vi ho visti men-tre scrivevate il vostro nome, ciascuno a suo modo, in quel modo che hovisto nascere sotto le vostre dita in prima classe.Vi scrivo solo ora, avrei voluto scrivervi prima, ma non avevo niente chevalesse la pena di dirvi. Non era perché vi avevo dimenticati. Qualcunoha detto che i maestri sono come le donnacce, quelle che fanno le moglia orario, con uomini che non conoscono (se ricordate, ve ne ho già par-lato). “Sono come i maestri – diceva quell’uomo che pure era buono eintelligentissimo – perché anche questi, come quelle, amano subito, ven-gono pagati e poi velocemente se ne dimenticano”.Non è vero, almeno non è sempre vero, io vi ricordo, ognuno di voi colsuo viso, col suo modo di fare. Vi ho già detto un giorno che siete la clas-se più bella del mondo. Per me, naturalmente. Ma chi vi conoscesse comeme, da 5 anni, che per voi sono mezza vita, non potrebbe non dire la stes-sa cosa.Stamani, oggi è venerdì e qui c’è un mercato grandissimo, sono andatoanch’io al mercato, non proprio tra la gente, perché da qualche annostare schiacciato tra la gente mi reca fastidio. Ero vicino al parcheggio,vedevo uscire auto soprattutto francesi e del Principato di Monaco. E’ ilmercato per i francesi questo; qualche volta comprano addirittura cosefrancesi, costruite vicino a casa loro, e che potrebbero comprarsi là, maper 10, mentre qui, chissà perché, costano 8. Così arrivano a frotte.Tra le tante è uscita un’auto di un modello che da anni non è più incostruzione, pulita però e ordinata. Ai posti anteriori un signore dimezza età con la moglie, dietro la figlia. Avrà avuto la vostra età, mamolto grassa, la bocca aperta, gli occhi che le sfuggivano verso l’alto, nes-suna espressione sul viso: completamente scema, poveretta. (Non vorreisentire ridere nessuno…ma…).Ho capito il dramma di un papà e di una mamma. Dopo quella nessunaltro figlio: è una scelta dura, sapete! L’auto vecchia per assicurare coni risparmi loro un avvenire alla figlia che un suo avvenire non potràmai costruirsi da sé. Che ragione c’è per questo destino? Perché pro-prio a lei?

Page 124: Il topo ammaestrato

122

Ero triste e, di colpo, ho pensato a voi.Siete felici, vedete, sentite, capite, parlate, potete sorridere al momentogiusto e piangere per un dolore: quella là niente, è un pezzo di carneinerte, insensibile.E’ terribile! Voi potete capirlo, e se non tenete in considerazione la vostrameravigliosa situazione, vuol dire che non avete imparato niente e, peg-gio, il mio lavoro non ha reso. Ma io sento che capite.Comprendete così come ogni cosa che vedo o leggo o sento, mi puòinteressare o no, a seconda che mi torni utile per il mio lavoro e per voi.Vivere così non è sempre piacevole per chi è vicino a me, perché io scar-to tante cose che per altri hanno valore, eccome! Mia moglie qualche volta mi incolpa di questo e non ha tutti i torti.Vedete, ho scritto perché credevo di avere qualcosa di utile da dirvi enon volevo inviarvi le solite parole e frasette senza significato.Se quello che vi ho detto è utile, me lo direte poi voi, in seguito.Con affetto vi saluto e, con voi, la Sig. Anna Maria che in queste settima-ne vive e fatica con voi.Mario Pelizza.Spero di non aver annoiato proprio tutti.

Dal programma annuale per la classe V maschile,anno scolastico 1969-70

I miei scolari.

Sono, quest’anno, ventotto. I più sono con me per il quinto anno, quindiconoscenza completa e profonda. Molti altri sono con me da diversianni, anche per loro non ho sorprese. Solo tre alunni, due maschi ed unafemmina, sono per me nuovi.Nel complesso è una scolaresca che mi piace, è un po’ come io l’ho volu-ta o, meglio, come io ho permesso che fosse. Sono scolari vivaci, chiac-chieroni, appena sono senza un impegno diventano turbolenti, disturba-no. D’altra parte in cinque anni di scuola non ho mai visto una rissa seria,non è mai mancato nulla, non ho mai sentito che tra loro esistano delleincomprensioni, delle malignità, delle vere cattiverie. Quando qualcosa

Page 125: Il topo ammaestrato

123

di grave, di doloroso accade in classe o nel mondo, sono tristi, sentono larottura dell’equilibrio, sanno capire il dolore altrui.In sostanza io ho fiducia in loro. Il lavoro scolastico non è pesante perme come non lo è per loro. Tutti indistintamente vengono a scuola volen-tieri. Uno addirittura potrebbe starsene a casa, è fuori dell’obbligo scola-stico, ma preferisce venire. Certo la mia non è una classe ordinata, tran-quilla, anzi! Io, evidentemente, non sono riuscito a raggiungere questameta, ma sento che, se non ho stabilito questo livello, sono arrivato adaltri non meno importanti ed evidenti.I miei alunni hanno capacità mentali profondamente diverse: ciascunosì, aumenta le proprie, ma la differenza rimane, direi che aumenta con iltempo.Forse avrei dovuto lasciarne molti lungo l’arco dei cinque anni elemen-tari. Perché non l’ho fatto? Forse per non dimostrare scarsità di fiducianei loro confronti. Non avrebbero fatto di più in classi inferiori, la scos-sa emotiva della bocciatura avrebbe forse rinsecchito la pianticella giàdebole. Così li ho davanti a me in quinta. Qualcuno alle medie procede-rà con vera sicurezza, altri procederanno, alcuni si convinceranno diripensare alle loro posizioni per un altro anno ancora. Sarà il minordanno possibile. Ora in fondo hanno dieci anni! Nei quattro anni precedenti ho commesso un grave errore: non ho con-siderato con completezza l’aiuto dell’educazione fisica. Quest’anno hogià iniziato con un programma completo ed i risultati sono già evidenti:conosco meglio i miei alunni sia fisicamente sia psicologicamente, perme si è sollevato un sipario. Voglio raggiungere un’educazione più com-pleta anche attraverso l’educazione fisica e sento fin d’ora che il risulta-to non mancherà.Ogni trimestre, forse anche più sovente, mi incontrerò con i genitoridegli alunni per sentire da loro notizie dei figli e per dare conto delle mieconoscenze scolastiche. Sono incontri utilissimi, anche per perdonare acerti alunni di essere quello che sono, partendo dalle posizioni mentalidei genitori!Svolgerò, come sempre, il mio lavoro per argomenti. Non posso ora sape-re quali saranno gli esatti argomenti che svolgeremo; dipende da troppecause la loro scelta. Ci sarà certamente uno spunto per l’inverno, per laprimavera, per il Natale perché questi avvenimenti misteriosi affascinanosempre l’anima dei giovani; altri ce li offrirà la vita nel suo scorrere, sor-geranno dalle nostre conversazioni quotidiane, sarà la necessità di cono-

Page 126: Il topo ammaestrato

124

scere più profondamente qualcosa che ci indicherà un argomento valido.Raggiungerò le richieste culturali dei programmi, facendo in modo checiascuno dei miei alunni arrivi, a suo modo, e con le sue capacità.Cercherò la via migliore per ciascuno, sacrificando del tempo, che, comesempre, non impiego per lunghe, affannose ricopiature sul quaderno dibella.Sarà il mio un lavoro difficile, le mete non saranno brillanti per tutti, aisuperiori non presenterò paginette curate, ordinatissime, recitazioni per-fette con pause ed inflessioni di voce impeccabili. Cercherò di raggiun-gere soprattutto il ragionamento lucido, onesto, aperto ad ogni proble-ma, la tolleranza umile delle opinioni altrui, il rispetto per ogni forma divita, la consapevolezza del miracolo di questa nostra povera vita, la gene-rosità di cuore, l’ampiezza delle vedute, la ricerca e l’arricchimento diquelle basi che uniscono tutti gli uomini.La strada per raggiungere questi fini passa anche attraverso i vari titolidelle materie dei programmi ministeriali.Non sto a trascriverli. Sono i programmi normali per l’ultima classe delsecondo ciclo elementare. Il libro sussidiario ci dà un’ottima strada, lapercorrerò naturalmente integrando dove riterrò necessario.Dove sarà necessario fermarsi ora non posso saperlo, me lo indicheran-no gli scolari con il loro interesse, lo capirò io attraverso tanti segni cheun insegnante deve saper avvertire.I programmi saranno svolti completamente, gli scolari procederanno trale pagine che parlano di storia, di scienze, di numeri, ecc., ma io non mifermerò alle nozioni, alle regole, al sapere appreso e ripetuto, vorrò averedi più per sentirmi a posto con la mia coscienza, per avere fatto bene ilmio lavoro.I miei scolari al termine del grande capitolo della loro vita nella scuolaelementare, dovranno essere completi di mente e di cuore, soprattuttodi cuore.Io, almeno, voglio sperare di riuscirci.

Castelnuovo Scrivia, 5 Novembre 1969

Page 127: Il topo ammaestrato

125

L’occhio del maestro

Mario Pelizza desiderava capire a fondo la personalità dei suoi gio-vani alunni per poter intervenire senza creare disagio e senza provo-care traumi educativi. Come ben emerge dalla lettura dei suoi pro-grammi scolastici, l’obiettivo, alto, era quello di offrire ad ognunodegli allievi tutte le possibilità per rimanere al passo con lo svolgi-mento delle lezioni, ben intendendo che più veniva analizzata la per-sonalità del bambino e più l’insegnante era in grado di tentare lastrada giusta.Per facilitarsi questo compito Pelizza annotava tra gli appunti dilavoro un breve ritratto caratteriale dei suoi scolari, ritratto che avolte arrivava ad essere un vero e proprio profilo psicologico traccia-to con la sensibilità di chi ama l’umanità nella sua interezza e senzascorciatoie morali, ponendosi apertamente il problema della diversi-tà di doti degli allievi, ma considerandoli tutti degni della medesimaattenzione e del medesimo rispetto, tutti a loro modo custodi di unaricchezza interiore che non vuole emergere solo quando non sa esse-re cercata.Alcuni giudizi sembrano scritti apposta per far sorridere chi li legge-rà e hanno l’affettuosa leggerezza di un racconto breve; in altri, inve-ce, i problemi educativi sono posti in maniera così profonda e apertada scavalcare radicalmente il dibattito scolastico e le semplici ansieprofessorali: chiedersi perché un bambino che ha voglia e pazienza diascoltare il maestro non possa capire ciò che i suoi amici accettanocome ovvio, e chiederselo guardando nel fondo di due occhi inacces-sibili e strabici che diventano l’emblema enigmatico e doloroso dellanecessità del male, sposta la riflessione di Pelizza verso un intentodecisamente narrativo. I profili che qui pubblichiamo sono trascritti, per ovvie ragioni di di-screzione, con la sola iniziale del nome dell’allievo (e non sempre l’i-niziale autentica).

P. è mio alunno dall’anno scorso. Normalmente sviluppato. E’ un bimbomolto vivace e con uno spiccatissimo senso comico. Non si contanoormai più le sue personalissime e divertenti trovate; in più non c’è inci-dente stradale della provincia che passi a lui inosservato e che non vengada lui ben illustrato. Questa è una sua piccola e innocente mania ali-

Page 128: Il topo ammaestrato

126

mentata anche dal fatto che nei pressi di casa sua passa una modernaautostrada. Il maestro è, per lui, un giudice di fatti disparatissimi tra di loro ma che,non per questo, non debbano essere a fondo considerati ed attenta-mente giudicati. P. è sincero, capisce i suoi torti pur non dimenticandoquelli degli altri. Si rende simpatico con le sue argute osservazioni e conil suo italiano personalissimo. Un italiano tradotto pari pari dal dialettodi Castelnuovo. I vari e discordi interessi che si affollano nella sua mentesi traducono in evidentissimi errori di distrazione dei suoi quaderni. Aciò si aggiunga una feroce parsimonia nello spazio assegnato ai suoi dise-gni già per se stessi incomprensibili. Ammette francamente di non esse-re fatto per lo studio e non fa misteri del suo avvenire: sarà contadino!Non so ancora come la pensino i suoi familiari, ma seguire le naturaliinclinazioni dei bimbi è cosa lodevolissima.

R. ha frequentato con me la prima. E’ un bimbo soffocato dall’affettodella madre che, di conseguenza, non è ubbidita in nessun caso. Il bimboa scuola è normale mentre a casa è una specie di bufera. Le meravigliedella madre sul fatto che il proprio figlio in classe stesse calmo comeogni altro furono grandi. Ma come spiegare certe cose alle tenere mam-mine?R. è dotato di ottima memoria, è osservatore, si interessa ad ogni discus-sione ed integra allegramente quel che sa con amene invenzioni. Infattinon c’è bimbo che possa nominare un fatto qualsiasi senza che a lui nonne sia capitato un altro simile, ma di molto maggior effetto. E’ arrivato adescrivere le nozze di suo nonno, dato che egli ne aveva preso parte.Qualche volta R. dice il falso. Ha tentato di commuovermi con protestee argomenti di vario genere, argomenti efficacissimi nei confronti di tuttii suoi familiari, ma che non ebbero nessun effetto sul maestro. Il fattoall’inizio (parlo dell’anno scorso) lo disorientava, in seguito capì checerte cose funzionavano solo a casa e, da quel lato, non mi diede piùalcun fastidio.

Page 129: Il topo ammaestrato

127

G. è mio scolaro dell’anno scorso. E’ uno dei miei migliori alunni. Ogniattività scolastica gli riesce bene. Senza eccessivo sforzo supera con faci-lità ogni scoglio. La natura lo ha aiutato molto: il suo corpo è sano sottoogni aspetto, non è mai assente. Aiuta il padre nei piccoli lavori di cam-pagna con buona volontà, nulla lo spaventa, si interessa con giudiziomolto superiore alla sua età. Qualche volta osservandolo dopo rovinosicapitomboli mi sorprendo a pensare che sia fatto col ferro.Non è, in ogni caso, un bimbo prodigio. Ha un’infinità di ottime qualità,ma è un bimbo come tutti gli altri. La sua indubbia superiorità mentalenon lo rende superbo. E’ buono e generoso, servizievole e attento, amatodai suoi compagni indistintamente. La sua famiglia, pur senza esagerare, lo aiuta nell’educazione consideran-dolo già quasi un adulto ed egli sa essere all’altezza di quella posizione.G. ha già un suo carattere forte, preciso, senza sbandamenti; la vita nonlo sorprenderà impreparato. A volte merita le sue sgridatine e le subiscecome le subirebbe un adulto, meravigliandosi cioè di essersele meritate.Io stesso in certi casi mi devo sforzare all’osservazione perché ho l’im-pressione di farla ad un mio coetaneo.

S. è stato mio alunno in prima. Avrebbe meritato anche di rimanere inprima, ma quella benedetta tendenza a dare fiducia agli scolari dellaprima elementare lo ha trascinato in seconda. Al momento attuale nullami fa sperare che possa, a fine anno, accedere alla terza. S. è uno stranobimbo con gli occhi neri ed una inconsueta andatura a lunghi passi ed agambe leggermente allargate, il tutto leggermente accentuato da flessio-ni del capo che aumentano straordinariamente di ampiezza non appenagli succeda di dover recitare qualcosa a memoria. La mamma, napoleta-na, ha dato al figlio la facilità agli entusiasmi ed alle lacrime; dal padre, dievidente origine slava, deve aver preso quel suo modo di stare in assolu-to silenzio e quello sguardo fisso che gli è caratteristico. La memoria di S. è una fonte di guai per lui; egli stesso riconosce di nonpotersene fidare. Gli fa scherzetti, va e viene senza che egli sia in gradodi dominarla; io lo capisco e so che S. ci patisce. Il profitto è scarso sottoogni aspetto; dai quaderni disordinati, alla lettura quasi inesistente, ai fre-quenti pasticci con carta e inchiostro.

Page 130: Il topo ammaestrato

128

E’ S. un bimbo buono e onesto ed è anche sincero, dovrò inevitabilmen-te lasciarlo in seconda con la speranza che possa riprendersi e conti-nuare il suo cammino scolastico nella normalità.

Mio scolaro in prima, R. è un solido bimbo di campagna. Abita in unacascina e viene a scuola percorrendo ogni giorno parecchi chilometri inbicicletta. La sua salute è perfetta e dimostra l’utilità del vigorso sforzomuscolare anche nei bimbi. La mente di R. tende già a ragionamenti cheiniziano con la considerazione della differenza tra quello che si è semi-nato e quello che si è raccolto, per finire ai prezzi dei prodotti agricolivenduti da suo padre nel locale mercato ortofrutticolo. R. però non èavaro, sa il valore del denaro perché fa da sé le sue piccole spese, ma saanche essere generoso ed io stesso l’ho visto metter mano alla tasca peroffrire qualcosa ad una bimba di un modesto circo, senza limitarsi allemodeste cinque lirette.Il suo profitto è buono ed ha subito un notevole miglioramento proprioin questo secondo mese di scuola. Preferisce l’aritmetica al resto, ma sela cava in ogni caso. Prima del rafforzamento da me notato, aveva deimomenti di disanima ogni volta che una difficoltà non veniva superata alprimo scontro: ora ha acquistato fiducia in se stesso e gli si vede brillarenegli occhi la contentezza di tale conquista.Unica grande difficoltà che gli resta è la vista di un film. Per un bimbocome lui, più simile ad un uccello dei campi che ai suoi compagni, lavista di quelle luci ed ombre in una buia sala gli procura un oscuro timo-re che ben presto gli suscita profondi sospiri ed accorati singhiozzi.Converrà combattere questo timore o aiutarlo a mantenersi?

Mio scolaro dall’anno scorso, G. è un bimbo normale, sviluppato bene,che ha un’unica particolarità: quella di non battere quasi mai le ciglia. Isuoi occhi chiari fissano pensierosamente le sue carte scritte con pocoordine e non sentono il bisogno di chiudersi. La sua voce di tono bassoe riposante è, a volte, non percettibile.

Page 131: Il topo ammaestrato

129

Per il lavoro scolastico G. si dimostra volonteroso e attento, segue confacilità e dimostra con evidenza la sua preferenza per i numeri. E’ pureun bimbo giudizioso e discreto che non rumoreggia furiosamente comemolti dei suoi compagni non appena annusano odor di libertà. Si adattamagnificamente con il suo compagno di banco: P., col quale architettaingegnosi scherzetti ai danni dei bimbi più vicini. Tolto questo, nientealtro che gli si può rimproverare. Considera la scuola una seria faccendache conviene tenere in un certo rispetto, studia e ricorda con una di-screta facilità, progredisce senza sbalzi. Unico punto nero il disordinenella scrittura: disordine che, forse, deriva dal periodo di crescita.G. è, inoltre, affezionato al suo maestro ed ai suoi compagni, sinceroanche quando costa fatica esserlo e di buon cuore. La sua infanzia, trascorsa quasi esclusivamente in una cascina, gli faapprezzare maggiormente il piacere di avere dei piccoli amici e gli fa con-siderare irrimediabilmente persa una giornata di assenza dalla scuola.

Durante la prima elementare P. si dimostrò un ben strambo individuo.Verso la fine dell’anno scolastico, per non so quale mistero, parve nor-malizzarsi, tanto che fui indotto ad accordargli quella benedetta fiducia.Ora è qui, in seconda, ed è ritornato ad essere il medesimo strambo indi-viduo dell’anno scorso.P. pur disponendo di normale memoria per svariati argomenti ne è com-pletamente privo per determinati altri. In questo periodo, dopo cure par-ticolari che si estendono oltre l’orario, sa distinguere tutte le lettere;rimane lo scoglio dell’unione delle vocali alle consonanti: scoglio infidoe pericoloso perché sfugge dietro alcune lettere e, successivamente, die-tro ad altre, rendendo oltremodo difficile la sua localizzazione che in par-ticolari occasioni risulta non esistere più. Come si può combattere simi-le viscida lacuna? Perché si annida in modo così ostinato nella mente diP. che, in fondo, dimostra di volersene liberare?Evidentemente c’è qualcosa che mi sfugge, che vedo ammiccare mali-ziosamente negli occhi leggermente strabici di P.Che sia semplice poca voglia, desiderio di tranquillità? Ammetto chequalcosa del genere c’è, ma non sempre e non tanto da far progredire inmodo così lento l’apprendimento del bimbo.

Page 132: Il topo ammaestrato

130

P. è in più un bimbo simpatico, a suo modo sveglio, qualche volta persi-no volonteroso, preoccupato però mai. La sua pronuncia è difettosa, maanche altri sono affetti da difetti simili senza trovarsi nel suo stato. P. èper me una spina che ad ogni ora della mia giornata scolastica sta a ricor-darmi quello che non ho saputo insegnargli.

Conosco G. già dall’anno scorso e posso dire di conoscerlo bene tanto èlimpido il suo essere. E’ volonteroso, timido, buono, sincero. Tutte questebuone qualità sembrano nascondersi non appena gli sfugge la strana,sfacciata risatella che tutti i suoi compagni riconoscono. Egli ne arrossi-sce, vorrebbe nascondersi, ma appena accade qualcosa in classe chemeriti di essere sottolineato, ecco scoppiettare la sua divertente risatel-la.G. quest’anno è molto più sicuro dell’anno scorso, non capita quasi piùdi vederlo con gli occhi rossi per una difficoltà che non sa superare; acca-de però sempre di vederlo mesto per un bel voto che gli è sfuggito pro-prio di sotto il naso.Mi sorprendo a volte fargli coraggio quando converrebbe magari lasciar-lo in quel mesto ma istruttivo stato. In ogni caso gli faccio capire che unpizzico di spensieratezza aiuta sempre e forse anche per afferrare quelsospirato voto.G., a detta della mamma, è molto sensibile agli sbalzi di temperatura. Ineffetti va soggetto a diverse assenze.Per mio conto è un buon alunno, e come G. vorrei averne sempre moltied ogni anno.

Conosco D. dalla prima. E’ ospite del locale Istituto “Don Orione” permotivi di nascita e di famiglia. Per D. la vita non è stata tanto prodiga: atutto quello che gli altri bimbi hanno e che egli non ha, deve supplirel’affetto del nonno materno. Fisicamente D. è poco sviluppato, in più,con il passar del tempo, il suo corpicino appare disarmonico. In lui nonesiste collo o quasi. Io non so bene dove e quale sia il difetto.

Page 133: Il topo ammaestrato

131

In ogni caso l’Ufficiale medico durante quella specie di visita passata aglialunni durante lo scorso anno non ha fatto nessuna annotazione parti-colare. Nel profitto D. progredisce, non senza una certa lentezza, ma assi-mila e impara. L’ordine lascia molto a desiderare, la memoria non saràdelle migliori pure in complesso il bimbo segue le attività scolastichecon buona volontà.Capita a volte che D. faccia il permaloso, ma è cosa di breve durata; datala sua condizione è proprio il minimo che possa fare. La vita in comunecon gli altri ragazzi dell’Istituto se da un lato sviluppa molte buone qua-lità, dall’altro lato fa sì che molti bimbi e specie i più piccoli, siano un po’in balia del volere dei più alti e forti. Questa situazione determina incer-tezza anche nell’attività scolastica, ma più ancora nell’animo di questialunni. La proprietà di certi piccoli oggetti, ad esempio, ha tutt’altro valo-re per D., ed il perderli per lui è ben diverso che non per altri suoi com-pagni.In sostanza D. è un buon bimbo che, senza l’aiuto della famiglia, fa più diquanto umanamente si potrebbe sperare.

F. non è stato mio allievo in prima. E’ ora ospite dell’Istituto “Don Orione”di Castelnuovo, ma la sua famiglia abita a Sale. Penso che i suoi genitori provengano dal Veneto.Il bimbo è preparato, buono e volonteroso. Occorre però ricordare chela vicinanza di tutti gli altri bimbi dell’Istituto lo rende sempre legger-mente eccitato, e questo a scapito dell’ordine. Che sia un bimbo profondamente buono lo prova il fatto che riesce asopportare E. per compagno di banco: cosa quasi impossibile. F. è normale sotto ogni aspetto. Dimostra buona volontà nei lavori scola-stici e si dedica con giudizio a tutte le attività. La sua più grande difficol-tà consiste nel leggere ad alta voce, non perché non sappia leggere, maperché la sua innata timidezza gli impedisce di esprimersi ad alta voce.Io cerco di rassicurarlo e vorrei che vincesse questo suo timore e forseci riuscirò, non è però una cosa facile.Il suo violento rossore denuncia una timidezza buona, ma in contrastocon le possibilità di farsi valere individualmente.Ogni volta che egli alza la mano per una risposta o per una gara non

Page 134: Il topo ammaestrato

132

manco mai di chiamarlo, ed il più delle volte vedo che sa rispondere conesattezza.Inevitabilmente devo notare la sensibilissima assenza delle cure dellafamiglia e devo riconoscere che F., pur essendo così sensibile, riesce asuperare bene questo svantaggio.

P. è molto sviluppato e dai genitori so che ha dei difetti fisici notevoli.Per quello che riguarda la scuola P. è ben difficile da giudicare. In sostan-za impara con volontà, ma i suoi quaderni, che pure contengono parolegiuste, sono disseminati di macchie e la sua scrittura varia di altezza e lar-ghezza più volte in una sola riga. I calcoli sono giusti, ma i numeri nonsono quasi mai nel loro ordine. I disegni geometrici per facili che sianonon sono mai eseguiti con esattezza. La lettura è spedita e giusta, maquando legge P. sembra che spari una mitragliatrice.Ci sono in lui troppe cose contrastanti. Io non so mai se mi ha capito ono. Possiede indubbiamente un buona memoria perché impara con faci-lità poesie e numerazioni, ma dimentica da un momento all’altro la di-sposizione dei numeri in colonna.In più è un bimbo chiuso, nervosissimo, che si impermalisce con unacerta facilità, difficile da trattare. I genitori insistono affinché io usi lamaniera forte, ed io so che è la meno indicata. Vorrebbero risultati imme-diati e miracolosi dalla mia opera. Eppure se c’è un bimbo che debbaessere trattato con dolcezza, questo è proprio P. Egli lo sa e mi capisce;prova ne è il fatto che quando la nonna viene in aula per informarsi del-l’operato del nipote egli viene a cercare la mia mano e non quella dellanonna.Potrò portare questo alunno in terza?

R., mio scolaro dello scorso anno, è un bimbo dalla salute delicata. Il suoviso non è mai roseo. Fisicamente è normale.Per quello che riguarda la scuola ho ben poco da dire: è più che buonosotto ogni aspetto. Forse potrei dire a R. di essere meno volonteroso.

Page 135: Il topo ammaestrato

133

Potrebbe sembrare una spiritosaggine, eppure è così. R. preferisce rima-nere senza mangiare piuttosto di non essere preparatissimo in tutto.La mamma stessa deve esortarlo a smettere di leggere. E’ una cosa quasi inaudita per il nostro tempo. R. è un bimbo normaleeppure è così preso dai suoi doveri di scolaro che finisce di criticare, inaltri compagni, cose naturalissime per bimbi di quell’età. Bimbi che sonodisattenti, che scrivono male, sono per lui cose inammissibili. Ed è orren-do per lui presentarsi a scuola senza sapere alla perfezione la lezione.In più R. è intonato e per i canti di scuola è quello che più si impegna.Non so che altro dire di lui oltre che è uno scolaro perfetto.Spero solo che il suo corpo sappia resistere a questa ferrea volontà ed aquesto impegno mentale al quale R. intende sottoporsi.

S. è un bimbo che sotto la vernice di una certa tranquillità nascondeun’insospettata vivacità. Fisicamente è normale, anzi è quasi superiorealla normalità; mentalmente invece è ritardato. Il suo sviluppo mentale èmolto lento. Parecchie assenze durante lo scorso anno fanno sì che ilbimbo si trovi in stato di inferiorità. Ne è però causa, più delle assenze,la sua mente non ancora forte per le difficoltà della scuola. Ripetendo la prima si sarebbe ripreso senza dubbio, eppure sembravaproprio il caso di accordargli fiducia. Ed ho sbagliato.Ora S. non scrive se non copiando, legge qualcosa, ma in modo così lentoda far cadere le braccia ai suoi compagni.Partecipando poco alle attività scolastiche e comprendendole ancormeno, finisce per cercare altri spunti di interesse. E come gli si può dartorto?I genitori sentono la situazione di S. come una disgrazia che li ha colpitie penso che spronino più del necessario il bimbo per fare che rientrinella posizione di tutti gli altri.Risultato: il bimbo si avvilisce. Non sente alcun desiderio alla scuola. Hocercato di far capire alla mamma che un anno ripetuto, più che perso,finisce per essere guadagnato. Ci sarò riuscito?Per il bene di S. è essenziale che i genitori capiscano la sua posizione enon pretendano da lui cose che per ora non è assolutamente in grado difare.Questo è proprio uno di quei tipici casi in cui o si tratta il bambino

Page 136: Il topo ammaestrato

134

con dolcezza e buon senso o si crea in lui una sfiducia che non si potràmai più misurare in tutta la sua profondità.

M. è ospite dell’Istituto “Don Orione” di Castelnuovo. Ha una sua storiadolorosa e per nulla chiara. Pare che sia uno tra i molti suoi fratelli, lamadre, da quando egli è qui, non si è mai fatta viva nemmeno con unacartolina. Purtroppo egli ha capito la situazione e temo che odii cordial-mente la madre. E’ come un uccello sul ramo perché anche all’Istitutonon intendono più tenerlo per diversi motivi, non ultimo il suo caratte-re cocciuto. In classe combina effettivamente poco, pasticcia e traffica continuamen-te. So per certo che se si applicasse farebbe quanto un bimbo normale,ma non trova necessario fare fatiche che giudica inutili. Molto vivace e sveglio, ha degli sprazzi d interesse che lo inducono adimparare qualcosa ogni tanto. Ma egli è figlio dell’incostanza e la suavolontà si esaurisce ben presto. Se non avessi ventisette alunni potreicurarlo con attenzione e forse riuscire a fare qualcosa per lui. Ci sonogiorni che sembra dispostissimo a fare qualsiasi sforzo per essere all’al-tezza degli altri.I suoi quaderni sono impossibili, le macchie non si contano e ogni tantoM. ha degli stranissimi istanti di timidezza, istanti che coincidono con imomenti in cui dovrebbe leggere ad alta voce.M. difficilmente riuscirà ad arrivare alla terza. Se ripeterà la secondasenza dubbio riuscirà a rientrare nella normalità.

Un racconto autobiografico

Il racconto che segue è forse l’unico documento che testimonia iltalento di Pelizza scrittore. Mario scriveva molto, scriveva con piace-re, scriveva per fissare la sua attenzione sulle questioni che ritenevacruciale risolvere, scriveva per comunicare con Lidia ai tempi del

Page 137: Il topo ammaestrato

135

fidanzamento - centinaia di lettere in cui si perdeva per ore e ore adescrivere ciò che catturava la sua instancabile curiosità - scrivevaper non interrompere i contatti con i suoi alunni quando la malattialo teneva lontano dalla classe. Per quanto si sappia, però, pur lascian-do in ogni suo appunto la traccia intensa di un sentire forte e comu-nicativo, non ha mai scelto di andare oltre la breve descrizione dida-scalica, oltre la breve nota stile pro memoria, per organizzare la suafacilità di scrittura e la sua sensibilità poetica all’interno della tramadi un episodio autonomo ed esplicitamente concepito con intentonarrativo. Solo con il breve racconto autobiografico che qui trascriviamo, invia-to ad una rivista per la pubblicazione e casualmente ritrovato fra lesue carte, Pelizza ha scelto di trasformare l’evento più tragico dellasua vita di adolescente, la morte della madre, in un’occasione pernon rimanere isolato in sé stesso di fronte all’insensata grandezza deldolore; solo quando la vita si è fatta intollerabilmente oscura, indeci-frabile, ha cercato di fissare il proprio percorso umano entro gli sche-mi di una narrazione voluta e pensata per un pubblico potenzial-mente ben più ampio della cerchia di amici cui scriveva abitual-mente; solo di fronte ad un argomento potente e vasto come il miste-ro della morte - e della vita - ha deciso di chiedere all’arte il miracolodella consolazione e della condivisione. E’ perché il baratro su cui camminiamo non venga a risucchiarci chechiediamo all’arte di scandagliare e illuminare l’abisso: Mario, chepiù che artista si sentiva esploratore, quando ha perso la strada si èmesso a disegnarla, e l’ha disegnata con la stessa mano che tendevaogni giorno agli altri.

Quando, quel giorno, si sentì dire: - Tanto non sarebbe guarita mai - , guar-dò in volto quell’uomo con due occhi chiari, più del solito senza ombre.Il viso dell’uomo anziano non poteva mentire. Era troppo serio e guar-dava lontano.Il ragazzo pensò allora a tante cose, ma un guizzo di sorpresa rimanevaancora in lui. La parola più triste, quella che temeva di più ancora nonl’aveva sentita.- Sono mali che non perdonano – Ma perché gli si parlava così, senza unalito di gioia, perché la voce che sentiva pareva una voce sommessa

Page 138: Il topo ammaestrato

136

come se si parlasse in chiesa? Certo sapeva, ormai. Capiva. Come noncapire? Non era più un bimbo, più di tredici anni ormai, quasi quattordi-ci.- Quando uno se ne accorge ormai è tardi. Non c’è più nulla da fare. – Maancora negli occhi chiari brillava una speranza. Ancora non mi ha dettotutto, pensava il ragazzo, forse……chissà! – Sono mali cattivi, certo, perquanto ne potesse sapere lui, ma non era il caso suo questo; impossibileche proprio sua madre dovesse subire quel male per cui nulla più sipoteva fare. Ma allora…certo. Più chiaro di così! Per questo allora que-st’uomo gli era venuto incontro. Per questo l’aveva fermato fra i campiintavolando quasi senza importanza questo discorso. Per questo che, conla dolcezza possibile ad un uomo, cercava di trattenerlo, quasi non voles-se permettergli mai di giungere a casa.Eppure ancora non mi ha detto tutto, pensava il ragazzo, posso ancorasperare. E sperava ancora, dicendo di sì ad ogni frase, come ad accettarela regola; ma la regola può fallire; anzi non poche volte fallisce.Vide poi avvicinarsi il padre da lontano, aveva gli occhi arrossati, forsepiangeva, sì ormai lo vedeva piangere e quando si sentì abbracciareseppe tutto quel poco che doveva sapere senza che nessuno gliel’aves-se detto. Anzi ricordava che suo padre gli porgeva un fazzoletto, chegesto inconsueto, pensò, porgere un fazzoletto bianco ben piegato, stira-to. Quel gesto non poteva dir nulla, non c’era nessun sottinteso. Eppurec’era quel giorno. E ricordò gli altri ragazzi che lo guardavano incuriosi-ti, e poi una bambina che, senza pensare, anzi, quasi divertita, senza sape-re e senza capire: - E’ morta tua madre vero? – Lui, come per illudersiancora per un poco: - no – disse – che ne sai tu, così piccola - . E gli pare-va di avere rimediato almeno a qualcosa o, forse, perché lui stesso nonaveva capito ancora, fino in fondo, che cosa potesse significare morire.

Ora era seduto solo sull’erba dietro la chiesa, attorno non c’era nessuno,i contadini erano ancora nelle loro case a riposare prima del lavoropomeridiano. Era caldo, un settembre pieno di sole, di calore. Lui solopoteva permettersi di essere fuori di casa, non gli importava coricarsidopo il pranzo. Era l’ora che gli dava una specie di impazienza. Nessunoera in giro, eppure lui in casa non sapeva rimanere. Sarebbe andato alfiume anche oggi, ma proprio così, da solo, non c’era gusto. Meglio girel-lare e guardare gli uccelli. Quanti ne aveva fatti morire con intenzioniopposte, ma quelli erano morti lo stesso. Capiva benissimo di non saper

Page 139: Il topo ammaestrato

137

allevare gli uccelletti da nido, ma come avrebbe potuto non raccoglierliquando li trovava? Come poteva non metterli nella gabbietta e non spe-rare ardentemente che vivessero? Invece, niente, sempre la stessa fine.Guardava il cielo azzurro. Dall’erba su cui era coricato pareva ancora piùlontano. Stando in piedi il cielo era lontano, sì. Ma guardandolo dall’erbapareva si fosse allontanato infinitamente di più. Che strano! Sentì all’im-provviso sul vialetto lo stridere di una ruota sulla ghiaietta: guardò. Forsei suoi occhi divennero cupi in quegli attimi; forse il cielo aveva per pocosmesso di essere così intensamente celeste. Sua madre gli era passatadavanti senza quasi vederlo, senza fargli un solo cenno. Rimase incanta-to, fermo, pensando ad una offerta di quel cielo lontano, ad un richiamosilenzioso di un mondo sconosciuto. Tutto poteva essere, fors’anche un’il-lusione. Eppure aveva sentito il rumore sulla ghiaia, aveva visto il mododi vestire, i capelli pettinati così, l’andatura leggermente impacciata.Era tutto così vero, troppo vero. S’alzò di scatto. Avrebbe guardato anco-ra a lungo il vialetto. Era passata da poco, almeno in distanza avrebbevisto qualcosa che avrebbe potuto disilluderlo o ridargli la certezza. Lastradina diritta tra i campi gli sorrise col suo biancore. Deserta. I campisui lati non nascondevano niente, proprio nulla. Allora il ragazzo inco-minciò a dubitare; forse aveva sognato, ma mai gli era accaduto di addor-mentarsi in giro a quel modo. Impossibile. Forse aveva visto male, la suafantasia aveva vestito in un modo diverso qualche passante, ma lui nonpensava a sua madre quando se la vide dinanzi. E poi un passante l’a-vrebbe rivisto da lontano.Rimase ancora sull’erba, pensando a tante, tante cose e sperando, quasiinconsciamente, di vedere riapparire quella visione. Ma non tornò. Ilcielo rideva sempre sopra il suo capo, lontano, al di sopra del volo dei fal-chi, più su delle nuvole bianche. Rimase col cuore in gola a lungo perpoter rivedere in un attimo, per un attimo solo, ciò che perse per sem-pre, per tutta l’eternità.E nelle notti seguenti, quando al buio si sforzava di porre una barriera trai sogni e la realtà per poter dividere senza errori i suoi sogni grandi e lesue misere realtà, pensava quasi di aver vissuto un sogno disteso fra l’er-ba con gli occhi aperti e specchianti il cielo. Ma se chiudeva per un solomomento i suoi occhi chiari, risentiva ancora il rumore della ghiaiettadel viale.M. P.

Page 140: Il topo ammaestrato

138

Page 141: Il topo ammaestrato

139

INDICE

Prefazione p. 13

La vita p. 17

La saga del topo tartaglione p. 25

Gli alunni ricordano p. 41

I colleghi e gli amici ricordano p. 75

Il maestro e la scuola p. 97

Conversazione con Lidia p. 111

Gli scritti p. 117

Page 142: Il topo ammaestrato

140

Page 143: Il topo ammaestrato

141

Edizioni FAVOLAREVIA

Mimma Franco

Il treno per la luna, Doc il gigante nero che non sapeva abbaiare, Labottega delle meraviglie. Tre fiabe

Chiara Parente TimoLa società castelnovese nel ‘400

La storia più bella raccontata dai miei nonniV concorso nazionale per le scuole materne, elementari e medie

Chiara Parente TimoAlcjanum. Storia, dialetto, tradizioni popolari di Alzano Scrivia

Andrea ChiericoA volo libero

Gianfranco CalorioBergolium. Ricostruzione storico - iconografica del Borgo antico diAlessandria prima della costruzione della cittadella. Vol. 1°: il territorio el’abitato

Page 144: Il topo ammaestrato

142

Page 145: Il topo ammaestrato

143

Page 146: Il topo ammaestrato

144

Page 147: Il topo ammaestrato