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“Il testo biblico nel contesto scolastico. La Bibbia come risorsa culturale” per n. 90 Insegnanti di Religione Cattolica in servizio nelle scuole statali di ogni ordine e grado formatori nelle singole Diocesi della Regione Lombardia Bienno (Bs) Eremo dei Santi Pietro e Paolo, (da venerdì a domenica) 20-21-22 novembre 2015 «Anche se non la leggi, tu sei nella Bibbia» (E. Canetti). Le scritture ebraico-cristiane come attestazione canonica per la verità dell’uomo e di Dio Roberto Vignolo * 1. Riappropriazione alla/della Bibbia 1.1. La verità biblica come “santità ospitale” Fenomenologicamente parlando la Bibbia cristiana si dà come collezione di libri le cui vicende narrate si configurano tutte in una cornice proto- ed escatologica di radicale istanza universale cosmico/antropologica, avente a ridosso le origini (Gen 1-11) e proiettata sulla fine (Ap 21-22). Emblematica risulta in merito la disposizione canonica tradizionale dei 73 libri, distesi tra lo «in principio Dio creò il cielo e la terra...» di Genesi, e lo «ecco, io creo cieli nuovi e terra nuova!» di Apocalisse (Ap 21-22). La verità attestata dalla Bibbia è quella di una memoria/speranza immemoriali, custode di un’origine e pegno di un compimento umanamente parlando inattingibili e inenarrabili, indicibili, quali appunto sono un orizzonte rispettivamente protologico ed escatologico, impossibile oggetto di mero resoconto, materia invece trattabile per una testimonianza di fede rivelata e per una parola creativa per cui ci vuole lo Spirito di Dio a supportare un’indomita ispirazione poetica. Del Libro biblico si possono predicare effettivamente tutti gli attributi e le funzioni dal Sal 87 (86),4- 6 riferite a Gerusalemme («tutti là sono nati! ...l’uno e l’altro è nato in essa. .. Il Signore scriverà nel registro dei popoli: “là costui è nato!”»). E analogamente si dirà per Is 25, la pagina che che plagiato l’immaginario di Gesù, fornendogli la matrice delle sue migliori parabole, quella che Alonso definiva la più possente promessa dell’Antico Testamento: [6]Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini stagionati, di carni grasse e midollose, di vini invecchiati e filtrati. [7]Egli farà sparire (billa‘) su questo monte il velo che velava la faccia di tutti i popoli, e la coltre che copriva tutte le genti. [8] Farà sparire (billa‘ – letteralmente: ingoierà: cf 1Cor 15,54) la Morte per sempre; il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto; la condizione disonorevole del suo popolo farà scomparire da tutta la terra - poiché il Signore ha parlato! [9]E si dirà in quel giorno: «Ecco il nostro Dio, in lui abbiamo sperato perché ci salvasse! Questi è il Signore in cui abbiamo sperato, rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza! [10] Sì, la mano del Signore si poserà su questo monte! (Is 25,6-10). La Bibbia ci attesta che per tutti è stato prenotato un posto al banchetto escatologico imbandito dal Signore. Ci offre, in effetti, un’ospitalità anticipata, perfino un poco coatta e comunque nostro malgrado, proprio come il nostro essere al mondo precede sempre qualsiasi nostra iniziativa (esistere non è un peccato, ma nemmeno una scelta in proprio, bensì una gratuità da cui siamo «affetti»). Azzeccata e pacifica in merito l’autoironia di Elias Canetti: «anche se non la leggi, tu sei nella Bibbia!». Una volta però intrapresane la lettura, sta a te riconoscerti e riappropriarti - o meno, e in quali termini - entro la preventiva inclusione profferta da questo album dell’umana, universale * Riprendo qui, con qualche ampliamento e modifica, il percorso delineato nel mio: La parola, il libro e la vita. La testimonianza scritturistica come trasmissione della fede, in: CATI, La fede e la sua comunicazione. Il Vangelo, la Chiesa e la cultura, a cura di P. Ciardella e S. Maggiani, EDB Bologna 2006, 45-59.

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“Il testo biblico nel contesto scolastico.

La Bibbia come risorsa culturale”

per n. 90 Insegnanti di Religione Cattolica

in servizio nelle scuole statali di ogni ordine e grado formatori nelle singole Diocesi della Regione Lombardia

Bienno (Bs) Eremo dei Santi Pietro e Paolo,

(da venerdì a domenica) 20-21-22 novembre 2015

«Anche se non la leggi, tu sei nella Bibbia» (E. Canetti).

Le scritture ebraico-cristiane

come attestazione canonica per la verità dell’uomo e di Dio

Roberto Vignolo*

1. Riappropriazione alla/della Bibbia

1.1. La verità biblica come “santità ospitale”

Fenomenologicamente parlando la Bibbia cristiana si dà come collezione di libri le cui vicende

narrate si configurano tutte in una cornice proto- ed escatologica di radicale istanza universale

cosmico/antropologica, avente a ridosso le origini (Gen 1-11) e proiettata sulla fine (Ap 21-22).

Emblematica risulta in merito la disposizione canonica tradizionale dei 73 libri, distesi tra lo «in

principio Dio creò il cielo e la terra...» di Genesi, e lo «ecco, io creo cieli nuovi e terra nuova!» di

Apocalisse (Ap 21-22). La verità attestata dalla Bibbia è quella di una memoria/speranza

immemoriali, custode di un’origine e pegno di un compimento umanamente parlando inattingibili e

inenarrabili, indicibili, quali appunto sono un orizzonte rispettivamente protologico ed escatologico,

impossibile oggetto di mero resoconto, materia invece trattabile per una testimonianza di fede rivelata

e per una parola creativa – per cui ci vuole lo Spirito di Dio a supportare un’indomita ispirazione

poetica.

Del Libro biblico si possono predicare effettivamente tutti gli attributi e le funzioni dal Sal 87 (86),4-

6 riferite a Gerusalemme («tutti là sono nati! ...l’uno e l’altro è nato in essa. .. Il Signore scriverà nel

registro dei popoli: “là costui è nato!”»). E analogamente si dirà per Is 25, la pagina che che plagiato

l’immaginario di Gesù, fornendogli la matrice delle sue migliori parabole, quella che Alonso definiva

la più possente promessa dell’Antico Testamento:

[6]Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di

vini stagionati, di carni grasse e midollose, di vini invecchiati e filtrati.

[7]Egli farà sparire (billa‘) su questo monte il velo che velava la faccia di tutti i popoli, e la coltre che copriva tutte le

genti. [8] Farà sparire (billa‘ – letteralmente: ingoierà: cf 1Cor 15,54) la Morte per sempre; il Signore Dio asciugherà

le lacrime su ogni volto; la condizione disonorevole del suo popolo farà scomparire da tutta la terra - poiché il Signore

ha parlato!

[9]E si dirà in quel giorno: «Ecco il nostro Dio, in lui abbiamo sperato perché ci salvasse!

Questi è il Signore in cui abbiamo sperato, rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza!

[10] Sì, la mano del Signore si poserà su questo monte! (Is 25,6-10).

La Bibbia ci attesta che per tutti è stato prenotato un posto al banchetto escatologico imbandito dal

Signore. Ci offre, in effetti, un’ospitalità anticipata, perfino un poco coatta e comunque nostro

malgrado, proprio come il nostro essere al mondo precede sempre qualsiasi nostra iniziativa (esistere

non è un peccato, ma nemmeno una scelta in proprio, bensì una gratuità da cui siamo «affetti»).

Azzeccata e pacifica in merito l’autoironia di Elias Canetti: «anche se non la leggi, tu sei nella

Bibbia!». Una volta però intrapresane la lettura, sta a te riconoscerti e riappropriarti - o meno, e in

quali termini - entro la preventiva inclusione profferta da questo album dell’umana, universale

* Riprendo qui, con qualche ampliamento e modifica, il percorso delineato nel mio: La parola, il libro e la vita. La testimonianza scritturistica come

trasmissione della fede, in: CATI, La fede e la sua comunicazione. Il Vangelo, la Chiesa e la cultura, a cura di P. Ciardella e S. Maggiani, EDB Bologna

2006, 45-59.

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famiglia di Dio. Per essere più precisi, converrà parlare della verità biblica come “santità ospitale”,

dal momento che l’universale accoglienza riservata alle creature avviene per iniziativa de “il Santo

d’Israele”, la cui volontà di autocomunicazione si compie nella “santità conviviale” di Gesù di

Nazaret, Il Cristo e Figlio araldo del regno di Dio (Mc 1,1.14-15 e par), mediatore della vita eterna

agli uomini (Gv 1,3; 17,1ss.).

Fuor di dubbio determinante per qualunque felice incontro con la Bibbia, e quindi per ogni

sua comunicazione, sarà l’impatto fresco e vivo con la smisurata, ospitale capienza di questa

inclusione-appropriazione del lettore al mondo della Scrittura, che connette la singolarità di Israele,

di Gesù, degli apostoli (nonché la stessa attualità geograficamente e storicamente sempre nuova e

diversa del lettore) all’interno della propria insuperabile, universale cornice proto-escatologica

(inglobante tutte le altre innumerevoli cornici interne). Non dimentichiamo poi che all’ospitalità del

mondo dischiuso dal testo biblico stesso, anche questo medesimo appartiene (da Esodo 24-40, giù

giù fino ad Ap 1-22, non di rado infatti il libro spunta e interagisce nel racconto salvifico come suo

vero e proprio attante/protagonista, come pure essere oggetto di una riflessione consapevole della sua

portata comunicativa verso il lettore). Riappropriarsi in seconda battuta di questa universale più

immediata istanza di appropriazione verso qualunque lettore, ovvero interpretare un libro che ci

interpreta, ecco il dono e la sfida della Bibbia per chiunque la legga.

1.2. Gli ingredienti costitutivi della Bibbia

Una pagina di valore effettivamente originario, un vero e proprio racconto fondatore come Es 19-40

– la grande sezione sinaitica del libro dell’Esodo – ci restituisce l’idea più trasparente e quindi più

autentica del libro biblico relativamente al suo nucleo essenziale, in quanto libro dell’alleanza. Non

potendo prenderla in considerazione per intero, pensiamo in particolare a Es 24,1-11, dove non

fatichiamo a ritrovare nientemeno che la struttura fondamentale della nostra stessa pratica liturgica,

nella sua bipartizione di liturgia della parola e liturgia eucaristica:

1 Il Signore disse a Mosè: "Sali verso il Signore tu e Aronne, Nadab e Abiu e settanta anziani d'Israele; voi vi prostrerete

da lontano, 2solo Mosè si avvicinerà al Signore: gli altri non si avvicinino e il popolo non salga con lui". 3Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose a una sola voce dicendo:

"Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!". 4Mosè scrisse tutte le parole del Signore. Si alzò di buon mattino ed eresse un altare ai piedi del monte, con dodici stele

per le dodici tribù d'Israele. 5Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come

sacrifici di comunione, per il Signore. 6Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l'altra metà

sull'altare. 7Quindi prese il libro dell'alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: "Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo

e vi presteremo ascolto". 8Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: "Ecco il sangue dell'alleanza che il

Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!". 9Mosè salì con Aronne, Nadab, Abiu e i settanta anziani d'Israele. 10Essi videro il Dio d'Israele: sotto i suoi piedi vi era

come un pavimento in lastre di zaffìro, limpido come il cielo. 11Contro i privilegiati degli Israeliti non stese la mano: essi

videro Dio e poi mangiarono e bevvero.

Di questa pagina di straordinaria densità, tratteniamo qui soltanto quest’idea semplice quanto

fondamentale, che risponde alla domanda: quali sono gli ingredienti fondamentali di questo libro

dell’alleanza, documento che, insieme al sangue dell’alleanza, fa da vero e proprio dispositivo del

patto tra il Signore e Israele?

Schematicamente li possiamo ridurre a tre fattori più uno, e cioè:

1. Il primo fondamentale ingrediente è il Dio che parla, la sua viva voce che ha pronunciato

prima le dieci parole all’orecchio di tutto il popolo, e che poi solo a Mosè ha trasmesso le

leggi condizionali del codice dell’alleanza (cf cap 19; 20-23);

2. Il secondo ingrediente è l’ascolto passivo e attivo di Mosè che, dopo avere ascoltato insieme

al popolo e da solo, trasmette le parole di Dio (sia il decalogo che Israele ha già potuto

ascoltare, sia quelle non ancora udite dal popolo (cf 20,18-21), ma esclusivamente da Mosè;

3. Il terzo ingrediente è l’ascolto del popolo, anche qui passivo e attivo, che ripetutamente offre

il suo assenso/consenso alla proposta di alleanza di Dio attraverso Mosè. Significativamente

Mosè scrive il libro solo dopo che il popolo ha fatto sentire la propria voce: “Tutto quel che

il Signore ha detto, noi lo faremo…lo faremo…lo faremo e lo ascolteremo” (19,8; 24,3.7).

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4. Tutti e tre questi ingredienti precipitano dentro uno scritto, un documento di alleanza (sepher

habberit) diventano appunto il libro dell’alleanza mosaica, che attesta l’intero del dialogo tra

Dio e il suo popolo tramite la mediazione di Mosè.

Possiamo in tal senso ricavare da Es 24 l’immagine più essenziale della Sacra Scrittura nella sua

purezza (in realtà dovremmo leggere il successivo racconto delle tavole della testimonianza, quelle

originariamente scritte dallo stesso dito di Dio, ma poi infrante per esprimere la rottura della alleanza

in seguito al peccato del vitello d’oro, e quindi riscritte questa volta per mano dello stesso Mosè).

1.3. Specificità e universalità della parola biblica

In quale ambito andrà raccolta, entro quale contesto operarne la lettura e quindi l’interpretazione?

En Sorbonne ovvero en Église (cfr. F. DREYFUS)?1 Oppure - qualora risulti perfino ormai obsoleto

questo contenzioso biblico tra accademia ed ekklesìa - nei più fluidi circuiti di mercato, dei media, o

della rete? Cadrà sotto i principi più generali di un’ermeneutica universale, ovvero sotto quelli di

un’ermeneutica tutta speciale?

Nulla togliendo né all’attuale complessità socioculturale, né alla fecondità (a certe condizioni)

di un pluralismo metodico ed ermeneutico, e tantomeno alla libertà del lettore di istituire sotto diretta

responsabilità il suo proprio contesto di lettura, resta pur vero che il corpo scritturistico si caratterizza

indubitabilmente – in grande abbondanza già geneticamente e nelle sue singole parti, ma

completamente nelle sue raccolte, nel suo insieme complessivo tradizionale, quale testo canonico,2

ovvero documento letterario, storico, e teologico vincolante e normativo della fede di una (pur

differenziata) comunità credente – Israele, la chiesa nelle sue diverse confessioni – prima che

patrimonio di una tradizione e corporazione accademica o dell’inventiva artistica e culturale.

Prima ancora che ineguagliabile «codice dell’arte» – come oggi giustamente si suole ripetere con W.

BLAKE e N. FRYE, 3 ricuperando doverosa e finanche gloriosa memoria di tanto feconda

Wikunsgeschichte –, la Bibbia è comunque codice, o per meglio dire canone e regola della

trasmissione della fede, della spiritualità, della teologia e della stessa pastorale. Inscindibile dal

dinamismo di tradizione credente che per un verso interamente la genera e la attraversa, per l’altro è

essa stessa generatrice di ulteriore tradizione, chiedendo di essere adeguatamente pensata e letta. Per

quanto da riconoscersi culturalmente integrato alla storia dell’occidente, e proprio in quanto

canonico-ispirato la Bibbia rimane, deve rimanere, comunque libro scomodo e inquietante, portatore

di un principio di non immediata omologazione culturale (così, molto opportunamente, A.-M.

PELLETIER)4 in ultima analisi la stessa radice della sua fecondità wirkungsgeschichtlich riconducibile

precisamente alla sua natura di «rivelazione attestata», testimonianza alla parola divina (verbum Dei

non alligatur: 2Tim 2,9).

In rapporto a questa qualità canonica e comunicativa sua propria di custodia e tradizione della

fede, in riferimento alla sua trasmissione la Bibbia non avrà che da guadagnarci a venire considerata

in primo luogo in chiave schiettamente antropologica, in concreto, trattandola come «scrittura sacra»,

prima ancora che come «Sacra Scrittura» (P. BEAUCHAMP).5 A partire da tale approccio potrà infatti

esser riscattata sia da una riduzione atomistica (che trascura il rapporto parte/tutto), sia da una

reificazione oggettivistica (che ignora il momento comunicativo del testo, così specificamente

inerente all’attestazione scritta del Dio-che-parla).

Positivamente la Bibbia meriterà d’esser valorizzata:

1 F. DREYFUS, L'actualisation de l'Écriture. I. Du texte à la vie. II. L'action de l'Esprit. III. La place de la Tradition, in: RB 86 (1979)

5-59; 161-193; 321-384 (trad. it. Per le ed. San Lorenzo Bologna). 2 Nel senso di principio canonico, oltre e prima ancora che in quello del canone come la collezione esattamente perimetrata e

ufficialmente definita dcal Concilio di Trento dei 73 libri [decisivo per questa puntualizzazione il contributo di T. CITRINI, Identità

della Bibbia. Canone, interpretazione, ispirazione delle Scritture sacre, Queriniana Brescia 1982. Idem, Scrittura, in: P. ROSSANO, G.

RAVASI, A. GIRLANDA (a cura di), Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, ed. Paoline, Roma 1988, 1447-1472. Idem, Il mistero della

Bibbia: riflessioni di teologia sistematica, in: «Ricerche Storico Bibliche» 2 (1990) 17-24. Idem, La Sacra Scrittura e la teologia, in:

«Seminarium» 37 (1997) 34-47]. 3 N. FRYE, Il grande codice. La Bibbia e la letteratura, Einaudi Torino 1986. 4 A. -M. PELLETIER, Pour que la Bible reste un livre dangereux, in «Études» octobre (2002), 335-346. 5 P. BEAUCHAMP, L'un et l'autre Testament 1. Essai de lecture du Seuil, Paris 1976 (tr. it. Paideia, Brescia). Idem, L'un et l'autre

Testament 2. Accomplir les Ecritures, du Seuil, Paris 1990 (tr. it. di M. Milazzo per la Glossa ed. Milano 2001).

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- antropologicamente parlando come canone,

- e teologicamente parlando come «rivelazione attestata».

Proviamo a precisare meglio questo duplice profilo.

1.4. Dal corpo al corpo: profilo antropologico della comunicazione biblica

Il recupero antropologico della Bibbia come canone procede riposizionando la parola biblica scritta

in asse rispetto al suo duplice intrinseco e costitutivo orizzonte orale, tanto di provenienza quanto di

destinazione, rispettivamente a monte sul suo retroterra di parola parlata, e quindi a valle sulla sua

prospettiva di parola recepibile in quanto specificamente rienunciabile. Consistente contributo,

ormai ampiamente acquisito, offre in merito la teoria del testo di P. RICOEUR con il suo ben noto

schema tripartito di ascendenza aristotelica, costituito dalla pre-, con-, ri-figurazione, corrispondenti

in buona sostanza rispettivamente all’esperienza vissuta, alla sua scrittura, e infine alla lettura.6

Abbozzandone una riproposizione qui fatalmente schematica e allusiva, trasposta tuttavia secondo

una sequenza più articolata (cioè secondo una struttura circolare di momenti dialetticamente

integrabili, piuttosto che una rigida successione cronologica), par proponibile un percorso che vada

«dal corpo al corpo» («dalla carne alla carne», direbbe M. MERLEAU-PONTY),7 così ulteriormente

scandibile.

1.4.1. Dalla voce del corpo alla vox paginarum

A monte, quale inderogabile punto di partenza, c’è sempre il corpo, quale presenza/differenza rispetto

al mondo, cui è intrinsecamente legata ogni emanazione della voce (come tale sempre volontà

d’esistere: P. ZUMTHOR),8 e nella fattispecie ogni presa di parola, ogni atto di discorso, intesi a

«lavorare» l’umana esperienza (temporalità, finitezza), significandola (la parola nel regime del senso)

e scambiandola (la parola nel regime della comunicazione), producendone una sempre intellegibile e

partecipabile significazione e referenzialità. Lo studio delle tradizioni orali originariamente

soggiacenti ai testi deve rendere avvertiti di questa dimensione costitutiva della parola biblica, che

sempre proviene dalla voce, dall’oralità più viva, e che vi è destinata; e la cui attestazione scritta

respira sempre ancora tutta del retrostante atto di parola che la genera. Ovviamente irriproducibile

nella sua primitiva ricchezza referenziale, questo aspetto è pure ancora intensamente vibrante della

sua più antica traccia di oralità, di cui la più limitata referenzialità testuale resta in ogni caso ben

intrisa.

A valle l’atto di parola riconquista una nuova corporeità per il fatto di oggettivarsi in scrittura,

giungendo a noi in discorso emancipato dalla propria originaria fonte di produzione, rispetto alla voce

smagrito in enfasi, ma cresciuto in sapienza autoriflessiva (oltre che discorsiva), in durevolezza e

ubiquità, autogarante di un’universale accessibilità al lettore patentato (competente, implicito, ecc.).

La scrittura – la cui portata è paragonabile all’invenzione della ruota (I. BRODSKIJ)9 - è sempre

selezione, conoscenza e possesso della vita altrimenti troppo abbondante ed evanescente, incapace di

ulteriore proiezione nel tempo e nello spazio attraverso questa sua più limitata, concentrata,

intelligente duplicazione.

Al suo livello - in certo qual modo supremo - scrittura significa sempre testo, e, più

specificamente, di fatto libro (una «figura originaria del tutto»: R. GUARDINI, H. BLUMENBERG), o

addirittura collezione di libri, quando si tratti di testi a vario titolo eminenti (H.-G. GADAMER),10

classici e/o canonici, che s’impongono come normativi (classico e canonico rivendicano un’analoga

6 P. RICOEUR, La metafora viva. Dalla retorica alla poetica: per un linguaggio di rivelazione, Jaca Book, Milano, (orig.Paris 1975)

1980. Idem, Dal testo all'azione. Saggi di ermeneutica. Jaca Book, Milano, (orig. Paris 1986) 1989. Idem, Tempo e racconto. Vol 1.,

Jaca Book, Milano, 1986 (orig. 1983); Vol 2. La configurazione del racconto di finzione, Jaca Book, Milano, 1987 (orig.1984). Sé come

un altro, Jaca Book, Milano, 1993 (orig. 1990). Idem Filosofia e linguaggio (a cura di D. Jervolino), (Ist. per gli Studi Filosofici,

Saggi, 16) Guerini e associati, Milano 1994. Idem, Testimonianza, parola e rivelazione, (BRT), Dehoniane Roma 1997. 7 M. MERLEAU-PONTY, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore Milano. 1965. 8 P. ZUMTHOR, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Bologna il Mulino 1984. 9 I. BRODSKIJ, Dall’esilio, Adelphi Milano 1988, 51. 10 R. GUARDINI, Elogio del libro, Morcelliana, Brescia . H. BLUMENBERG, La leggibilità del mondo. Il libro come metafora della natura,

Bologna il Mulino 1984. H.-G. GADAMER, Verità e Metodo, Milano, Fabbri ed., 1972. Idem, Verità e Metodo 2, Integrazioni, Bompiani

Milano 1995.

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imprescindibile normatività, istituendo un’area intertestuale in qualche modo eletta e protetta). E libro

(stavolta non necessariamente classico/canonico) vuole comunque sempre un lettore, che si faccia

carico diretto, in proprio, di ridare al testo la vitalità dell’istanza narrativa autoriale, la cui voce è

perduta per sempre (empiricamente parlando), e tuttavia sempre disponibile attraverso il testo

riappropriabile e rienunciabile da qualunque lettore competente. Il testo/libro sospende e configura

un frammento di vita e di parola passata per intercettare e promuovere ogni vita futura là dove il

testo/libro avrà la buona sorte di trovare una tradizione viva, e cioè dei lettori intelligenti.

A chiudere – anzi a riaprire – il cerchio e il percorso iniziato, eccoci a questo punto di ritorno

al corpo (propriamente mai abbandonato). Non più stavolta il corpo del locutore/autore, bensì

piuttosto quello – personale, sociale – del lettore, interpellato a riplasmare (rifigurare) la propria vita

in corso riappropriandosi del mondo della testimonianza scritta e della sua cosa (referenza).

Questo processo è ben visibile nei libri biblici stessi,11 da loro evidenziato a due livelli: un

livello narrativo e uno metanarrativo.

a/ A livello più direttamente narrativo in concreto bisogna studiare dove, come, quando, con e per

chi documenti, rotoli, lettere, scritture singole come pure loro collezioni intervengano nell’intreccio

quali protagonisti, «attanti» della storia narrata, ovvero fattori rispettivamente adiuvanti o

opponenti nella vita del popolo, nelle sue relazioni con Dio, con se stesso con altri popoli. Sono le

situazioni in cui l’attestazione scritta della fede viene rappresentata in certo qual senso alla stregua di

un personaggio, un soggetto ben riconoscibile di volta in volta in quanto attivo, passivo, produttore,

vittima, e magari anche conciliatore di conflitti, di riconoscimenti e disconoscimenti, e quindi di

storia. La Bibbia (soprattutto l’Antico Testamento) non è avara di momenti di scrittura e di lettura di

un libro, presentate come eventi decisivi per i loro destinatari, tanto è carico di valore simbolico il

libro in questione, scritto o proclamato.

b/ Non minore attenzione meritano d’altro canto quei testi dove questa volta piuttosto a livello

metanarrativo il narratore/autore ragiona intorno a quel libro prodotto ad impegnare il lettore stesso,

comunicandogli più confidenzialmente nell’ambito appunto di qualche (parentetico, prefatorio,

conclusivo) commento narrativo dedicato alla destinazione dello scritto. In questo caso il libro, fatto

più strettamente «oggetto» di una riflessione a latere rispetto alla storia raccontata, può offrire

preziose chiavi per la sua canonicità più ancora che per la sua ispirazione. Ulteriori distinzioni

riguardano le più semplici autocitazioni con cui un testo si presenta in stato di riflessione («in questo

libro», «in questa legge»), come pure quei molto speciali luoghi caratterizzabili come mise en abîme

(talvolta in forma ancora narrativa, talaltra invece più già più specificamente riflessiva), ovvero quei

testi ben delimitati entro il libro, dove l’opera intera riflette sinteticamente il proprio contenuto

tematico, concentrando in una sua circoscritta porzione la rappresentazione sintetica del «tutto nel

frammento», magari correlata alla sua mediazione di scrittura (appunto il caso di mise en abîme

riflessiva). Lo studio di questi due livelli fa accedere a quella che chiameremmo una «poetica

canonica», 12 destinata a studiare produzione e funzione di testimonianze dossologicamente e

praticamente normative), in particolare la loro funzione di «cornice» (vedi infra 2.1.).

1.4.2. “Utilità” del Libro

La qualità/finalità antropologica più generica del medium scrittura è quindi al tempo stesso critica e

trasfigurante, offrendo infatti sempre ogni scrittura un doppio parcellizzato ma comunque sempre

felicitante del vissuto, destinato cioè a migliorare le condizioni della vita a venire. Questo profilo

11 A titolo esemplificativo, per limitarci a testi della Torah e dei Profeti Anteriori: Es 17,14-16; 24,1-8.12.16; 31,18; 32,15-16; 34,1.4.27-29;40,20-21; Nm 33,1-49; Dt 4,13; 5,22; 6,4; 9,9-10; 10,3-4; 11,18-21;17,18-20; 27,1-8 28,58.61; 29,20; 30,10; 31,9-13.19.22. 24-30.44-47; Gs 1,1-9; 8,32-35; 23,6;

24,26; 1 R 2,1-4; 2 R 22-23. Per una trattazione diffusa del tema, mi permetto rimandare a : R. VIGNOLO, «Scripturae secundum Scripturas. Valenza

narrativa e riflessiva del Libro nella torah e nei Profeti Anteriori. Per una fenomenologia del testo biblico tra poetica e teologia» (vedi infra nota 28). 12 Questo apprezzamento dell’intenzionalità manifesta (narrativamente e metanarrativamente) attraverso il testo biblico rappresenta una procedura

preliminare - epistemologicamente parlando corretta - rispetto ad una poetica canonica della Sacra Scrittura, intesa nella sua fruibilità tanto estetica

quanto etica (di nuovo in riferimento a BEAUCHAMP). Si tratta di conferire dignità strategica a quei luoghi di più esplicita autoconsapevolezza di un testo, in quanto fan toccare il punto riflessivamente parlando più nevralgico dell’intenzionalità di un’opera letteraria (quel che gli antichi chiamavano

lo scopus di un libro). Per ricavarne un’organica intelligenza critica pare in linea di principio corretto muovere di qui anzitutto per trattare il complesso

prodursi dei fenomeni generativi dell'opera letteraria «eminente» (una qualità indiscutibilmente pertinente alla letteratura biblica); e, d’altro canto, per focalizzare la storia degli effetti esercitati dall’opera stessa sul suo fruitore (l’intreccio di oralità e scrittura tocca entrambi questi ambiti). L’eminenza

specifica della letteratura biblica fa emergere la sua destinazione più o meno direttamente canonica, ovvero di testo fin dal suo insorgere dotata di

capacità di rispecchiare normativamente la fede di Israele e della Chiesa, fungendo in quanto libro da specchio per l’identificazione di un corpo credente.

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felicitante ha ben inteso una certa tradizione biblica, che ama legare una promessa di felicità alla

cornice programmatica (prologo, epilogo, editoriale) di alcuni libri biblici. 13 Il nesso, più volte

indicato dal magistero, anche recente, tra Bibbia e santità, per non cortocircuitare, bensì in vista di un

circolo ermeneutico virtuoso e fecondo, ha da transitare attraverso questo esplicito skopos felicitante,

ophelimos (2Tim 3,14-16) del libro biblico, antropologicamente parlando apprezzabile come

recupero e sovrabbondante compimento dell’elementare funzione promozionale cui ogni scrittura

aspira. La qualità/finalità antropologica della scrittura come medium in genere in rapporto alla vita è

di custodia critica e trasfigurante della vita stessa, un suo doppio supplementare, atto a felicitarne le

condizioni. Un testo sospende e intercetta la vita, non solo del suo autore, ma anche del proprio lettore

sperando di promuoverla, di rigenerarla, è sospinto da un intento di «sapienzializzazione» della vita.

Rivisitato teologicamente, l’intero dinamismo antropologico della parola/scrittura sopradescritto

porta da principio alla fine un’impronta cristologico-trinitaria, incarnazionista, kenotica, pasquale,

trasfigurante (cfr. W. ONG).14

1.4.3. La Bibbia - «rivelazione attestata»

Anche perché capace di recuperare tutte le precedenti considerazioni antropologiche, quella di testi-

monianza risulta la categoria, teologicamente parlando, più raccomandabile per definire la Bibbia

(«rivelazione attestata»: così PCB, 1993), non da ultimo anche in quanto proprio biblicamente ben

confortata. Si qualificano come libri consapevolmente testimoniali due testi chiave del canone

anticotestamentario, Deuteronomio e Isaia, entrambi apposti in posizione strategica nelle raccolte di

loro appartenenza, rispettivamente in cornice di chiusura della Torah (Dt 31,19.24-29; 32,45-47) – e

di apertura del corpo profetico (Is 8,16; 30,8; cfr. Ab 2,1-4).

Dal canto suo la tradizione sapienziale, basata sulla trasmissione dei detti di constatazione

(indicativo) e di ammonizione (imperativo), sta implicitamente e ben saldamente tutt’intera sotto il

segno della testimonianza (nei detti di ammonimento sempre esplicitamente motivata, nei detti di

constatazione invece stimata intrinsecamente evidente). Trai vangeli, più che mai esplicito quello di

Gv (19,35; 21,24...), e comunque l’intera tradizione giovannea (1Gv 1,1-4, Ap 1,1-3; 22,16). Può

essere così intesa anche l’opera complessiva di Lc-At, qualificantesi come scrittura «gnoseologica»,

destinata a fondare e meglio qualificare l’intrinseca saldezza della fede di chi già vi è stato istruito

(Lc 1,4; cfr. Os 14,10 soprattutto LXX). Pur non in termini di diretta testimonianza oculare, bensì

piuttosto come originale ripresa sintetica delle precedenti testimonianze – orali e scritte – quella

lucana si caratterizza come scrittura elevata/elevante ad un livello di superiore di conoscenza

pneumatica delle cose cristologico-pneumatiche «realizzatesi/compiutesi fra noi» (Lc 1,1-4). 15

Prendendo in merito come analogatum princeps il QV, il libro neotestamentario forse più

esplicitamente pronunciato sul ruolo della scrittura nella trasmissione/comunicazione della fede,

possiamo verificare come:

a/ l’evento rivelatore non coincida mai con il suo documento testimoniale: l’evento è

immancabilmente sempre «più» della sua attestazione scritta, fatalmente selettiva e limitata rispetto

all'esuberanza della rivelazione (cfr. Gv 19,19-22; 20,30-31; 21,25; ma cf anche 2,23-25; 10, 12,).

b/ La stessa trascrizione documentaria è inoltre solo una forma di tradizione dell’evento, successiva,

concomitante e comunque relativa alla sua trasmissione orale (Gv 19,35-37; 1 Gv 1,1-4).

c/ E tuttavia la fissazione scritturistica, per la natura precisiva caratteristica della «ragion grafica» (J.

GOODY),16 garantisce un guadagno gnoseologico in rapporto alla verità dell'evento – ne consente una

13 Per lo più con un macarismo (“Beato!”): Dt 33,29; Gs 1,7-9; Dn 12,12; Sl 1,1; 2,12; Bar 4,1-4; Tb 13,15-16; Sir 50,28-29; Gv

20,29.30-31; 1Gv 1,1-4; Ap 1,3; 22,7 (cfr. Ps Sal 17,50; 18,7-9; Or Syb 4,192; ecc.). 14 W. ONG, Presenza della parola, Il Mulino Bologna, 1970. Idem Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino Bologna,

1986. Idem, Interfacce della Parola, Il Mulino Bologna 1990. 15 La scrittura giovannea garantita nella sua verità da una voce corale di gruppo, ecco il «permanere» del Testimone (il Discepolo

Amato) fino a quando il Signore viene, appunto non mediante l’immortalità, bensì attraverso un libro accolto e riproposto da una

comunità che vi si riconosce e che lo ritrasmette (Gv 21,24; 20,30-31). In merito a Gv, cfr. R. VIGNOLO, La forma teandrica della

Sacra Scrittura, «Studia Patavina» XLI (1994) 413-438. Idem, Il libro giovanneo e lo Spirito di verità. Poetica testimoniale e scrittura

pneumatica nel IV Vangelo, in «Ricerche Storico Bibliche» XII (2000) 251-268. Per la scrittura lucana, cfr. P. A. TREMOLADA, Lo

Spirito Santo e le scritture nell’opera lucana, in «Ricerche Storico Bibliche» XII (2000) 229-250. 16 J. GOODY, La raison graphique. La domestication de la pensée sauvage, Ed. Minuit Paris 1979. Idem, Il potere della tradizione

scritta, Bollati Boringhieri Torino 2000.

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conoscenza superiore approfondita (Lc; Os) e pneumaticamente illuminata (Gv 14,17;15,26; 16,13-

15), nonché una sua trasmissione di portata universale capace di trascendere spazio e tempo. In

termini giovannei si dirà che tutto l'evento Cristo (costituito di segni e di parole) viene unificato nel-

l'unico medium della parola scritta che costituisce un «corpo» omogeneo rispetto alla carne assunta

dal Logos rivelatore (Gv 1,14). Se è vero che Gesù, lungo il proprio annuncio e durante la sua

missione (diversamente da Paolo), non ha scritto nulla di stabile (cfr. Gv 8,6.8), è altresì – e ancor

più significativamente – vero che l’intera sua missione fu diuturna «lettura» delle scritture antiche,

attestanti la volontà del Padre e rispetto alle quali egli conformò l’intera propria vita, in quanto

«compimento». Sicché egli se le incorpora come linguaggio suo ordinario – vocabolario e sintassi –

entro cui declinare la loro più originaria verità, il suo singolare esserne la Parola di sovrabbondante

compimento. Non scrive Gesù, ma vive leggendosi e iscrivendosi nel cuore delle Scritture, si lascia

inchiodare sulla croce (Gal 3,1), e lascia scrivere su di sé. Il cartello della croce (Gv 19,19-22 e par.)

proclamante la sua universale messianità, dal punto di vista di Pilato strumento di intimidazione

politica nonché di scherno antigiudaico (rex judaeorum) è la prima scrittura specificamente

cristologica, cronologicamente precedente alle scritture neotestamentarie, come nessun’altra

successiva mai più tanto incorporata all’evento. Il medium scrittura inerisce misteriosamente nel

modo più intrinseco possibile alla sua Pasqua già nel cartello della croce, come scrittura che fa corpo

con lui, identificandolo nella forma più peculiare della sua atipica e folle messianità (1Cor 1-2). In

tal senso allora il Libro diventa documento che, mentre archivia più parzialmente la memoria

dell’evento materialmente parlando più grande rispetto al proprio documento, al tempo stesso vi

rimanda, fornendovi altresì le condizioni per una sua corretta ermeneutica nella fede (Gv 20,31). Se

questo, in un certo senso, fa ogni scrittura in genere, la Bibbia lo fa in termini molto speciali,

qualificando la sua testimonianza per quella deissi (mostrazione, ostensione auto-referenziale e quindi

referenziale) con cui il testo biblico addita al tempo stesso la cosa attestata, la sua attestazione – orale

o scritta –, il suo testimone in atto di restituirla. Potremo far coincidere proficuamente la verità della

Bibbia con questa sua energia intimamente deittica, coordinandola secondo i diversi livelli di un

triplice «ecco/eccomi...»,17 declinato di volta in volta:

a/in termini di attestazione scritturistica (il dito puntato del Battista e dell’evangelista su Gesù,

agnello di Dio, gratificato dallo Spirito e suo donatore: Gv 1,15.29.36; 19,35-37; la formula del

profeta-veggente apocalittico: Ap 6,2.5.8 ...);

b/ in termini di rivelazione/donazione teologale (Is 40,10; 65,1; Ap 21,5) e cristologica (“ecco io

vengo…!”: Eb 10,7-9 [cfr. Sal 40,8-9]; Ap 1,18; 22,7.12),

c/ accompagnata dal suo bravo risvolto antropologico (Gen 22,1.11; Es 3,4; Is 6; Lc 1,38).

La Bibbia attesta e comunica la propria verità salvifica mettendo in circolazione la referenzialità

multipla di questo triplice «eccomi», rienunciandone la reciproca interazione e scandendone la

differenziata precedenza.

Il vantaggio della cifra testimoniale applicata alla scrittura e alla sua capacità di trasmettere

la fede sta nella sua forza analogica, per cui raccorda e distingue al tempo stesso – analogicamente,

inconfuse et indivise – la Parola di Dio, più precisamente connettendo originariamente:

a/ l’evento e il soggetto, fonte e protagonista della rivelazione,

b/ l’accoglienza della fede da parte del profeta, del sapiente, dei discepoli e degli apostoli,

c/ la sua trasmissione per attestazione orale e non solo, per l’appunto anche scritta.

Non la Bibbia è l’analogatum princeps della Parola di Dio, che infatti è predicabile eminentemente e

originariamente solo di Gesù Cristo, rispetto a cui essa si presenta come testimonianza

intrinsecamente (addirittura canonicamente, pneumaticamente) congiunta, ovvero come «rivelazione

attestata», essa stessa simbolo di quanto attesta, suo «significante simbolico».18

2. La cornice del libro come medio nella trasmissione della fede

17 In merito A. GESCHÉ, Pour une identité narrative de Jésus, in RTL 30 (1999) 153-179; 336-356. 18 Cfr. il contributo di G. BONACCORSO, La parola della fede nei linguaggi della liturgia (schema della relazione tenuta a Padova, alla

segreteria CATI il 20.09.02).

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2.1. La saldatura tra l’aspetto antropologico e quello teologico della Bibbia è di per sé incorporata

alla Bibbia stessa. Più precisamente, è offerta a livello euristico dalla performatività testuale

(riflessiva e non) ampiamente operativa nella Bibbia, ricca di autocitazioni, mise en abime, ma

soprattutto di quell’incessante lavoro di cornice (frame, framing), che il libro biblico, prodotto di

diuturna rilettura/riscrittura, istituisce a diversi livelli di produzione e redazione, di edizione e

collezione.

In particolare proprio questo concetto di cornice19 va considerato non meno importante di

quello più consueto di struttura letteraria, intreccio, redazione ecc., in quanto concetto cardine sia

della configurazione dell’opera letteraria, sia della più comune comunicazione d’ogni esperienza in

genere e delle sue condizioni di accesso. Al primo livello, è stato elaborato più in senso estetico (da

USPENSKY, DERRIDA, CULLER), correlativamente cioè alla individuazione e contestualizzazione

dell’opera letteraria (al suo rapporto tra interno ed esterno). Mentre invece E. GOFFMANN ha provato

ad elaborarlo piuttosto nella chiave della comune, quotidiana esperienza sociale, definendo come

cornice la forma più specifica dell’esperienza stessa, in quanto si propone unitamente alle sue

condizioni di accesso, fornendo cioè un’anticamera, un dispositivo iniziatico di cui l’esperienza in

questione si dota e mette a disposizione per potersi partecipare. Ogni cornice – letteraria o più

genericamente sociale che sia – media intrecciati fra loro un momento comunicativo rispetto al

destinatario e uno ermeneutico di tutela per il proprio contenuto esperienziale.

Sono da distinguere diversi livelli di cornice, dal microcontesto più autonomo al

macrocontesto della collezione:

1/cornice interna all’opera, introflessa al testo stesso, con funzione di individuare inconfondibilmente

il testo (a livello intratestuale, configurante) che ne resta ben perimetrato completamente avvolto.

2/ Sempre con funzione individuante il testo, ma stavolta piuttosto estroflessa, istituita a livello di

comunicazione extradiegetica, sarà la cornice esterna, sporgente dal testo a interfacciare il lettore-

destinatario, e quindi il contesto suo proprio del lettore, quindi di per sé già predisposta a fornire

qualche buon appiglio al lettore in vista dell’esercizio di rifigurazione, o appropriazione dell’opera.

Almeno in linea di principio si potrà distinguere a questo livello (previa verifica sul campo) tra una

cornice redazionale (più aderente all’opera, e preoccupata di non lasciar troppe tracce), e una cornice

editoriale (al contrario assai palese, dalla voce ben distinguibile da quella dell’autore: Gv 21,24; Eb

13,22-24). Nel passaggio dal livello redazionale a quello editoriale la cornice diventa sempre più

esplicitamente comunicativa.

3/ A livello redazionale come a quello editoriale (distinzione operabile sempre solo sul campo) sarà

distinguibile ancora una cornice intertestuale, interfacciante il testo con altro/i testo/i, per cui il

singolo libro viene ricollocato nel corpo e nella singola collezione dei libri canonici in termini di

ripresa (quella che P. BEAUCHAMP ha battezzato con la dizione un po’ dura di «deuterosi», e che

coincide con un’operazione di rilettura/riscrittura in scala massimale), ovvero in termini di

corrispondenza all’interno del canone nel suo insieme e della specifica collezione canonica. Una

cornice intertestuale tesse un connettivo di più ampia integrazione, svolgendo anche qui la propria

funzione a livello (ermeneutico e anche comunicativo) macrotestuale, include ad un livello poetico

superiore i concetti operativi di concatenazione (Verkettung) e di rimando trasversale (Querverweis)

che collegano tra loro i libri biblici contiguamente e a distanza, in macrocontesto.

Per questi tre movimenti reciprocamente differenziati e articolati (rispettivamente obbedienti

ad un ritmo di sistole, diastole, aggancio/richiamo a distanza), il libro biblico è contemplato

(«incorniciato») in rapporto a diversi contesti in se stesso, nel contesto originario, nonché in quello

attuale come membro della più vasta collezione canonica. La scansione di questa triplice cornice

garantisce un’articolata iniziazione al proprio oggetto, secondo le modalità da esso richieste.

Costituisce una via privilegiata alla evidenziazione della verità del testo biblico, in quanto

caratterizzata come deittica, ospitale, ironica, simbolica:

19 J. CULLER, Sulla decostruzione, Milano ed. Bompiani 1988 (orig. 1982). J. DERRIDA, La scrittura e la differenza, Einaudi Torino

1971 (orig. 1967). O. DUCROT - T. TODOROV, Dictionnaire enciclopédique des sciences du language, Du Seuil (Points, 110) Paris 1972.

E. GOFFMANN, Frame Analysis. L’organizzazione dell’esperienza, Armando Editore Milano 2001 (orig. 1976). B. USPENSKY, A Poetics

of Composition. The Structure of the Artistic Text and Typology of a Compositional Form, University of California Press, Berkeley

and Los Angeles (ed. or. Moscow 1970) 1973.

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- deittica (additata, mostrata dal testimone testuale, nonché enunciata nell’ «eccomi» di volta in volta

antropologico, teologico, cristologico);

- ospitale (pretenziosa di appropriazione universale, distendendosi, protologicamente ed

escatologicamente, tra Gen e Ap);

- ironica (in quanto privilegia il conflitto narrativo dei punti di vista, di per sé intrinsecamente ironico

[SCHOLES-KELLOG],20 risolto con vittimizzante inversione di ruoli);

- simbolica (in quanto corrispondente ad una caratteristica struttura di anticipazione del tutto nel

frammento).

2.2. Il Canone biblico

La Bibbia ci arriva in mano al plurale, come raccolta di 73 libri sacri, ispirati, e canonici (tà

biblia), effettivamente disparati per tempi luoghi culture società di appartenenza, in un arco di cinque

epoche dell'antichità: l'età del bronzo, l'età del ferro, il periodo persiano; l'epoca ellenistica, e infine

quella della dominazione romana ai tempi tra le due rivolte giudaiche. Tra questi libri -di cui solo da

un paio di secoli abbiamo imparato a conoscere il complesso, e in gran parte ancor misterioso

processo di formazione- intercorre tuttavia un molto singolare rapporto, in quanto si tratta non solo

di libri scritti l'uno dopo l'altro, e quindi disponibili in successione, ma (in forza della comune

tradizione, prima ancora che di una dipendenza strettamente letteraria) più intimamente scritti l'uno

nell'altro, legati da un caso molto speciale di intertestualità. Non a caso ci vengono consegnati come

membra di un corpo organico che chiamiamo canone biblico, ovvero quell'insieme di libri che

costituiscono la regola e misura oggettiva di fede della Chiesa stessa, «uno specchio in cui si riflette

l'identità della comunità credente» (J.A.Sanders). Non potendo evidentemente comprimere in questa

sede un’introduzione alla Sacra Scrittura, e piuttosto, almeno in parte, presupponendola, cerchiamo

di schizzare una sorta di fenomenologia organica del corpo canonico biblico vetero- e neo-

testamentario, che ci consenta di prenderlo in mano con un minimo di consapevolezza critica

relativamente alla forma con cui ci viene mediata la parola (letteraria e teologica) di cui sono

depositari e testimoni.

Cominciamo dal primo e più evidente dato: la bipartizione delle Scritture del canone biblico

in Antico e Nuovo Testamento. Tutta la Bibbia ci viene quindi consegnata sotto l'idea di testamento -

termine connesso con l'idea di ultima e definitiva volontà, (come pure nel corrispondente

grecodiatheke). Tuttavia alla base dobbiamo trattenere il senso della berît ebraica cioè di contratto,

patto, trattato di alleanza. Il termine è connesso quindi con l'idea della alleanza sinaitica stipulata da

YHWH con Mosè, come pure con la nuova alleanza annunciata dai profeti (cfr. Ger. 31,31-34). In

2Cor. 3,5-18 il termine è applicato allo scritto che ne è la registrazione, il libro cioè della Nuova e

Antica Alleanza (cfr. v.14). Il medesimo sostantivo dice comune riferimento all'alleanza di entrambi

questi due grandi blocchi di libri: «entrambi questi gruppi di scritti sono con il loro titolo inglobati nella prospettiva dell'alleanza... Il libro tutto

intero, senza restrizione del suo contenuto, passa sotto la formalità di uno strumento o 'atto' di alleanza nel senso di atto

notarile (cfr. Es 24,7)» (Beauchamp).

Poiché molte alleanze, secondo diversi modelli e simbolismi, segnano la storia del popolo di

Dio, non se ne può parlare in modo univoco. Se il termine berît può significare molte forme di

relazione di Dio con il popolo, la realtà da esso intesa trascende il riferimento esclusivo ad una

semplice parola. Piuttosto la berît potrà essere correttamente intesa come un sistema di rapporti,

20 R. SCHOLES- KELLOG, La natura della narrativa, Il Mulino Bologna 1970.

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come una struttura fondamentale, una relazione onnicomprensiva della vita del popolo con il Signore,

come dispositivo centrale dell'esistenza collettiva d'Israele.

Gioverà qui rammentare una distinzione fondamentale, che riconosce tra le molte alleanze veterotestamentarie

la possibilità di distinguere due modelli caratteristici emergenti di berît, una incondizionata, una condizionata:

a/una berît di impegno divino, intesa come promessa e giuramento con cui Dio si obbliga lui, incondizio-

natamente, per il proprio eletto (Noè: Gen 9; Abramo: Gen 15 e 17; Davide e discendenti: 2 Sam 7; Sal 89; ecc.);

b/un' altraberît invece concepita come obbligazione umana, dove l' impegno di Dio sta condizionato nella sua

attuazione all'impegno del popolo (l'alleanza al Sinai in Es 19-40; a Moab in Dt 29-30, e in tutto Dt dove abbiamo

il modello trattato di vassallità, secondo il formulario del patto -caratteristico di tutto questo libro; l'alleanza

rinnovata a Sichem in Gs 24 ecc.). Questi due modelli costituiranno le due anime indivisibili d'Israele (fin entro il

Medio Giudaismo: cfr. P.Sacchi). Entrambi i modelli condividono la stessa consapevolezza della sproporzione

immensa tra i due contraenti non certo alla pari, come pure postulano la necessità di un positivo contributo del-

l'eletto (nel caso di Noè, Abramo, Davide l'eletto ha già dimostrato una sua docilità al Signore; nel secondo caso

invece l'obbedienza a Dio è piuttosto richiesta come condizione per istituire e mantenere l'alleanza). Ma (qui sta

la differenza), mentre l'alleanza come promessa sussiste incondizionatamente, per pura grazia, in forza di un più

unilaterale impegno di Dio, l'alleanza come patto dipende invece in maggior misura dalla fedele corrispondenza

dell'eletto all'impegno imposto dal Signore («..ora, se voi vorrete davvero ascoltare la mia voce, sarete per me

una proprietà speciale tra tutti i popoli,...un regno di sacerdoti, una nazione santa » Es 19,5-6). Interessante notare

come -mentre il riferimento ad una scrittura canonica è ricorrente nella forma di alleanza come patto condizionato,

essa al contrario è assente rispetto alla allesanza come promessa incondizionata. Comprensibilmente, per altro: se

infatti la promessa di Dio non ha bisogno di mettere nero su bianco -questa necessità è sentita quando l'alleanza

potrà sussistere a condizione della fedeltà dell'impegno umano. Scrivere obbliga il nostro futuro di popolo del

Signore (cfr. Es 24; Dt 31).

I due modelli tendono a fondersi nella promessa di una nuova alleanza (Ger 31; Ez 33; Dt 4;30; Sal 51), scritta

non più sulle tavole di pietra, ma nel cuore stesso del popolo, stipulata finalmente in Gesù (Mc 14,22-25 e par.;

Eb 9-10). La Bibbia, come Antico e Nuovo Testamento, è testimonianza e dispositivo di questa relazione di grazia

e di fede effettivamente compiuta.

2.3. AT e NT

AT è termine di origine cristiana; esso infatti si definisce in rapporto integrativo al NT. Nella

sua stessa nozione e dizione istituisce il modo specifico di interpretare storia e scrittura di Israele dal

punto di vista dell'evento Cristo, in quanto portatore appunto di un Nuovo Testamento che dà

compiutezza cristologica all'Antico (cfr. 2Cor 3,5-18; cfr. Mt 13,52).

Non a caso gli Ebrei -per indicare ciò che noi chiamiamo AT- parlano di Tenak -espressione formata dalle iniziali

di Torah, Nebiîm e Ketûbîm, cioè la legge i profeti e gli scritti. In tal senso la stessa espressione AT è definibile

come l' interpretazione cristiana delle scritture d'Israele, riconosciute come infrastruttura permanente e

precomprensione indispensabile dell'evento Cristo. In quanto ne vengono a loro volta reinterpretate, diventano

«Antico Testamento», vale a dire scritture proseguite, incluse, relativizzate (nel senso forte della parola),

parzialmente portate a compimento. Secondo la pregnante formula di Agostino (ripresa da DV, 16): «Dio... ha

sapientemente disposto che il Nuovo fosse nascosto nell'Antico, e l'Antico diventasse chiaro nel Nuovo: vetus in

novo patet, novum in vetere latet»). In effetti il rapporto non è di semplice successione, ma di inclusione reciproca,

per cui AT e NT devono essere letti in una unità fondamentale, cercandone gli elementi di continuità, prima ancora

che di discontinuità, e rispettando altresì la novità del NT, senza per ciò svalutare il valore dell'AT -quale Parola

sempre attuale di Dio, e canone per la Chiesa.

Conformità e compimento rispetto a queste ultime sono infatti due caratteri essenziali alla fede cristiana incentrata

sul mistero pasquale della morte e risurrezione di Gesù Signore. La figura di Gesù Cristo è infatti tutta compenetrata

da questa esuberante corrispondenza alle Scritture d'Israele, che si insinuano infatti in filigrana a ogni livello e strato

pre- e postpasquale dell' evento Cristo. Rispetto al suo stesso prodursi predispongono le coordinate, gli schemi

fondamentali entro cui la figura cristologica inscrive la propria inconfondibile originalità -offrendo così alla Parola

del compimento la grammatica e la sintassi della promessa, uno spazio articolato per il suo rivelarsi. Tanto il Vangelo

del Regno predicato da Gesù a partire dalla Galilea, come pure quello apostolico predicato su di Lui, muovendo da

Gerusalemme, trovano nelle Scritture d'Israele il proprio contesto storico-salvifico prossimo e remoto entro cui

declinare la novità del Vangelo stesso. Esse ne costituiscono infatti una costante, ineliminabile infrastruttura, un

riferimento abituale e indelebile della coscienza che Gesù ebbe della propria missione terrena e della coscienza che

la Chiesa primitiva poté maturare intorno a Lui a ridosso di pasqua e pentecoste. Non c'è evento Cristo senza «Legge

di Mosè, profeti e Salmi» (Lc 24,44), senza il Libro testimone di «tutte le cose scritte riguardo a me» -le cose relative

alla volontà salvifica del Padre che Gesù ha potuto discernere e assimilare a sé, trascendere e compiere in sovrana

autorità e obbedienza filiale. Analogo discorso vale per il Gesù predicato: dall'interno stesso della homologhia e del

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kerygma primitivi la fede cristiana viene infatti originariamente saldata alla scrittura veterotestamentaria. Il prodursi

e l'attestarsi dell'evento Cristo secondo le Scritture rappresenta un vero e proprio elemento di continuità lungo tutte

le diverse fasi di sviluppo della fede cristologica, rispetto alla quale le scritture d'Israele offrono ad un tempo

l'indispensabile precomprensione e l'infrastruttura veritativa, disponendosi come materia preformata e poi

riconfigurata dalla sua novità.

Attraversato internamente dalla sua omogeneità alle Scritture antiche che gli rendono testimonianza, l'evento

Cristo, carico di tutta la sua singolare novità rivelatrice, genera quindi, nel movimento della propria tradizione, una

specifica testimonianza scritturistica a tale evento ancor più omogenea e adeguata: genera una scrittura cristologica.

IL NT nel suo insieme è sostenuto dalla convinzione che l'unico Dio d'Israele, operante nella storia straordinaria e

ordinaria, nella promessa iscritta nell'alleanza e nella creazione, una volta per tutte ha agito in Gesù di Nazareth

crocifisso e risorto per la salvezza di tutti. Anche il NT come già l'AT fa ricorso a periodizzazioni,

promessa/compimento, tipologia. Rispetto all'Antico, il Nuovo Testamento andrà considerato come corpo scrit-

turistico dotato di questa sua qualità specifica, proprio in quanto sorge all'interno del processo di tradizione della

fede cristologica stessa, come scrittura improntata alla logica di un compimento nuovo e sovrabbondante rispetto

alla tradizione d'Israele. I suoi tempi di formazione ben più contratti rispetto all'Antico tradiscono anche

esteriormente il suo carattere di scrittura promanante da una concentrazione su di un'unica figura, su di un unico

evento (fenomeno questo decisamente singolare rispetto alla tradizione d'Israele, che nemmeno in Mosè e nell'evento

esodico fondatore presenta qualcosa di effettivamente comparabile). Sotto questo profilo il Nuovo Testamento non

potrà considerarsi una derivazione dall'Antico, un midrash sulle scritture ebraiche -quasi un semplice commento o

ricerca intorno a testi sacri preesistenti- né come loro prosecuzione diretta. Ciò significherebbe disattenderne la

portata di evento escatologico che, imprimendo alla storia un impulso nuovo rispetto agli eventi salvifici e alle loro

scritture precedenti, non potrà fare a meno di produrre una scrittura segnata da tale novità, e da un rapporto nuovo

con il proprio oggetto (l'omogeneità alle scritture antiche non deve appiattire questo suo carattere). Non è nemmeno

letteratura di libera ispirazione, che potrebbe sostituirsi alle scritture profetico-apostoliche: altri scritti, prodotti da

esperienze soggettive prescindenti dalla testimonianza fondatrice non sono minimamente parificabili con questa

(emblematica, al riguardo, la vicenda montanista). Il discernimento della qualità canonica ascrivibile alla

testimonianza apostolica dell'evento fondatore - quale, con fatica ma con chiarezza, fu messo in atto dalla chiesa in

tempi piuttosto rapidi, ha escluso per la chiesa stessa la possibilità di modellarsi secondo un puro principio

pneumatico, indipendente dalla propria origine storica.

2.4 Tipologia – un’invenzione ebraica!

Trattata in questo secolo come parente povera rispetto all'esegesi scientifica, in quanto sospetta

di fornire una lettura troppo dogmatica, e quindi pregiudicata dei testi, la tipologia viene recentemente

riproposta in termini meglio fondati, anzitutto sulla base del suo carattere intrinseco all'AT e al NT:

non quindi lettura imposta alla Bibbia, ma piuttosto praticata nella stessa Bibbia, rappresenta a tal punto

un suo tratto peculiare da diventare una vera e propria sfida per la lettura critica della Bibbia:

«l'organizzazione tipologica della Bibbia presenta a un critico letterario la difficoltà di essere unica nel

suo genere; nessun altro libro al mondo, per quel che ne so, ha una struttura anche solo lontanamente

simile a quella della Bibbia cristiana»(N.Frye). Essa fornisce una delle chiavi essenziali per verificare

e comprendere la sua stessa unità. Per questo merita qui considerazione. Typos - da una radice che significa «battere, colpire»- di solito fa pensare al conio impresso dal colpo, a

ciò che viene plasmato, e quindi anche allo stampo che coniando dà forma, e in genere alla forma che ne risulta. Nel

NT assume il rango di termine tecnico per l'interpretazione neotestamentaria dell'AT in Paolo 1 Cor 10,6.11; Rom

5,14; 1 Pt 3,21 parla di antitypos (altro termine chiave è parabolé: Eb 9,9;11,19). Ma sarebbe un'ingenuità legarsi

all'uso peraltro non frequente di un termine, che è solo la punta dell'iceberg di una concezione della storia assai

radicata già nell'AT, e in certo qual modo nel pensiero antico, e perfino nella struttura profonda del pensiero come

tale. Nell'accezione dell'ermeneutica biblica le figure, i tipi sono sempre realia, ovvero entità concrete, storiche -

cose, persone, eventi della storia della salvezza, tutte realtà che, trascritte entro il testo biblico, assumono un

significato capace di intrinseco sviluppo, e si aprono in avanti verso cose, persone, ed eventi futuri analoghi, detti

antitipi, dai quali ricevono il loro senso e valore veritativo ultimo. Una buona pagina per capire la tipologia ce la

offre Paolo in 1 Cor 10.

La tipologia sottende un modo di pensare universale, che implica nello stesso tempo una teoria

della storia, o del processo storico. Il principio fondamentale è quello di una correlazione intrinseca tra

avvenimenti, di un'analogia tra di loro, di una loro solidarietà simbolica. E' affine in ciò al pensiero

poetico, che nelle piccole cose scorge realtà assolute («nel moto degli elementi, nel cambiamento delle

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stagioni e delle ore del giorno, nei rapporti elementari da uomo a uomo, nei semplici lavori manuali: in

tutto ciò "si rivela" qualcosa di normativo, c'è un rinvio a un ordine profondamente insito nelle cose, al

quale partecipano sia le minime come le massime realtà» -così VON RAD). Genericamente può essere

evocato il principio di analogia (per altro alla base del metodo storico-critico), per cui gli avvenimenti

storici si assomigliano tutti -e proprio in ragion della loro fondamentale analogia possono essere

riconosciuti. La tipologia biblica -davvero unica nell'universo letterario- coglie correlazioni tipologiche tra eventi antichi e nuovi

non sulla base di una attività esegetica ristretta all' interpretazione dei singoli testi, ma su quella di una ermeneutica

della fede che più radicalmente legge nella singolarità degli eventi storici la continuità e la novità della misteriosa

rivelazione di Dio. Gesù, Paolo, gli evangelisti, svilupperanno questa maniera di contemplare la rivelazione storico-

salvifica. Ma va detto subito che, prima ancora di essere una forma di correlazione tra AT e NT, la tipologia conosce

una correlazione intrinseca all'AT stesso, che ne risulta così profondamente intessuto. Si pensi alla tipologia

soggiacente ai personaggi di Adamo/Noè (secondo l'autore sacerdotale, Noè è vero e proprio Nuovo Adamo dopo il

diluvio: cfr. Gen 1,1-24a con 9,1-17); a Mosè/Giosuè (nel ciclo dell'esodo e della conquista, dove sono rispetti-

vamente presentati come tipo e antitipo: Giosuè riprende e completa l'opera mosaica; a sua volta è tipo rispetto a

Giosia e alla sua riforma deuteronomista); e ancora a Mosè/Elia (il profeta del IX° secolo ripercorre in termini

innovativi -e secondo alcuni addirittura rivoluzionari- situazioni e luoghi della rivelazione mosaica). Si pensi ancora

alla creazione dell'uomo, che è narrata -com'è noto- sia da P che da J (soprattutto da J), in termini che riprendono la

storia d'Israele: l'uomo (in J: Gen 2-3) è posto da Dio in una terra feconda, riceve un comandamento, lo trasgredisce,

ne è cacciato proprio come Israele, ricevuta la terra e il comandamento dell'alleanza, per la sua disobbedienza, patirà

l'espulsione e l'esilio lontano dal giardino. L'esodo da Babilonia si rivelerà antitipo dell'esodo dall'Egitto (cfr. il

Deutero- e Tritoisaia Is 40-66). A sua volta Gesù ricapitolerà nella sua persona l'esperienza d'Israele tentato nel

deserto (cfr. Dt ripreso in Mt 4; Lc 4). Nel Cristo obbediente e nel Signore risorto Paolo riconosce il Nuovo Adamo,

non più solo essere vivente, ma spirito datore di vita, contrapposto al primo Adamo -semplice creatura decaduta nella

disobbedienza (Rom 5;1Cor15). A propria volta Gv 3,14-15 riconosce in Gesù Figlio dell' uomo esaltato sulla croce

l'antitipo del serpente innalzato da Mosè nel deserto (Num 21,4-9); e nel Figlio-Logos incarnato e sacrificato il vero

pane del cielo vivificante -come Parola che come sacramento eucaristico- prefigurato dalla manna del deserto (Es

16; Gv 6). Gesù è il vero agnello pasquale (Es 12;Gv19). Il sacerdozio misterioso di Melchisedek prefigura quello

di Cristo (Gen 14,17-20; Sal 110,4; Eb 5,1-9; 7). La roccia da cui è scaturita l'acqua nel cammino nel deserto è «una

roccia spirituale», identificabile con Cristo stesso (Es 17,5-6; Num 20,7-11;1 Cor 10,4). Infine -per chiudere questa

sommaria carrellata- nell'Apocalisse la visione dei nuovi cieli e nuova terra, la nuova creazione (a ripresa della

pagina iniziale della Bibbia, la creazione di Genesi 1-2), chiude tutta la Scrittura entro una tipologia che conferisce

alla Bibbia una sua strutturale unità globale.

Secondo questa concezione la storia è portatrice di eventi salvifici prototipici, fondatori del

suo significato, veicola attraverso tali eventi una verità in forma ancora umbratile (pre-figurata), che

tuttavia in essi già "tende" alla propria attuazione. Figura, tipologia, si riferiscono sempre alla ripresa

di eventi storico-salvifici fondatori. Fondatori significa allora che essi instaurano un inizio e preludono

ad una fine; sicché, entro inizio e fine, potranno prodursi eventi nuovi e ulteriori capaci di richiamare

e rileggere quelli originariamente fondatori, e di spingere ulteriormente verso la fine. Schematicamente:

1/ eventi prototipi, fondatori (che chiamiamo tipi, figure), contengono una carica nascosta di senso, in quanto

intrinsecamente aperti ad un compimento (il Pentateuco può essere considerato una vera e propria miniera di eventi

prototipi fondatori).

2/ Eventi nuovi rileggono i tipi e le figure precedenti, in quanto ne svelano, proseguono, e compiono il senso

profondo. Fanno come ritornare le caratteristiche fondamentali di quelli fondatori, non però come semplice replica,

bensì come nuova ripresa, con una duplice funzione:

a/ quella di offrire una retrospettiva più profonda sul passato. Il nuovo evento svela la carica di verità già contenuta

nel prototipo originario -carica che solo il nuovo evento permette di apprezzare. Alla luce del nuovo, l'evento

fondatore si rivela essere appunto un tipo, un evento carico di forza profetica. Solo lo sguardo retrospettivo dal nuovo

evento al prototipo individua quest'ultimo come una figura.

b/ L'altra funzione è quella di una speranza più affinata verso il compimento finale cui entrambi gli eventi (nella

loro correlazione indivisible) rimandano - il nuovo evento aprendo ulteriormente il varco verso il compimento

escatologico definitivo.

3/Si potrà aggiungere che si tratta sempre di realia, cose, persone, istituzioni, eventi concreti quindi, corposi e

sensibili, (e non di semplici parole - fossero anche parole di promessa salvifica: tipologia non è profezia); e inoltre

di eventi tutt'altro che marginali, bensì decisivi della storia salvifica. La tipologia non si confonde con minuzie

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allegoriche. Corporeità e centralità, come pure una certa deficienza (come tensione verso il compimento)

caratterizzano la tipologia.

4/ La storia futura produrrà un evento che svelerà, attuandola, tale verità, così da dare ragione e pienezza agli eventi

precedenti in quanto "tipi" e "figure" (rispetto a queste gli eventi rivelatori prendono nome di "antitipi"). Il pensiero

tipologico considera la storia procedendo all'inverso del pensiero causale, che dalla causa discende all'effetto come

rapporto di causa antecedente e di effetto conseguente. Il pensiero causale punta sul passato, è archeologico: è il

passato che spiega il presente. Non esce dal tempo intrastorico. Cerca una spiegazione razionale e orizzontale degli

eventi. La forma di pensiero figurale-tipologico, al contrario, è teleologica: punta simultaneamente sull'avvenire, in

avanti - e verso l'alto, verso l'eterno. E' alla luce di un evento successivo, analogo al precedente, che il primo viene

ricompreso sotto un più profondo profilo; è il compimento futuro offerto dall'antitipo che spiega il tipo passato. Il

verificarsi di un nuovo evento sulla linea del precedente riempie la figura la conferma e ne svela appunto la qualità

di prefigurazione. In tal senso ogni figura è annuncio.

Il senso tipico è quindi legato ai realia storico salvifici in quanto enarrata dal testo biblico,

ovvero in quanto oggetto di espressione e codificazione letteraria (che fa di qualcosa un tipo, non è la

sua realtà storica, ma la descrizione letteraria della stessa). Riguarda il significato profondo e pieno

che le «cose» della storia salvifica assumono non semplicemente in quanto meri eventi storici, ma in

quanto -una volta precipitate nella tradizione scritta- liberano dal loro interno un messaggio iconico

aperto alla rivelazione futura. E' il senso del testo in quanto inserito nel movimento complessivo della

rivelazione e della tradizione.

Sulla falsariga di Beauchamp si può strutturare la tipologia su tre livelli di tensione:

1/ la tensione tra passato (parziale, deficiente di compimento definitivo, e tuttavia ancora significativo per noi), e

futuro (un futuro totale e compiuto, in ogni caso non ancora consumato: con Cristo siamo arrivati alla fine dei tempi,

ma noi, come Chiesa e umanità, siamo a tutt'oggi tra un già e un non ancora, ovvero in un tempo intermedio, dove

la condizione del tempo intermedio e la cifra del cammino nel deserto permangono insuperabili fino alla seconda

venuta del Figlio dell'uomo. E' quindi la struttura della verità come evento sempre imminente a costituire la figura

della tipologia, come struttura internamente aperta sul proprio antitipo destinato a riempirla. Nella figura si offre la

verità riconoscibile come evento, ovvero come ciò che viene-da, si produce-in, per andare-a. «La figura è stata fatta

sulla verità, e la verità è stata riconosciuta sulla figura»(Pascal, n. 673).

2/ La seconda tensione caratteristica è quella tra ripetibile e irripetibile, tra universale e particolare quale si

articolano in rapporto alla singolarità di ogni figura. Al riguardo la singola figura articola unitariamente ciò che il

tempo disperde e disgiunge, e cioè rispettivamente:

- sia quanto nella sua singolarità di figura/evento è irripetibile (l'elemento più contingente);

- sia quanto invece vi è di ripetibile (la costante, l'analogia effettiva per cui la figura è assimilabile ad altri eventi ad

essa omogenei). E' la tensione della verità come analogia di molte singolarità tra né puramente identiche, né

semplicemente equivoche. Sotto questo aspetto la tipologia condivide un'istanza comune a ogni pensiero

interpretante, reperibile sia nella poesia, sia nella stessa conoscenza storica, per cui ogni evento è singolare, ma non

tanto da non poter essere comparato ad altri in termini di analogia. La tipologia (che in tal senso «è tutt'altro che

una forma peregrina di argomentazione specificamente teologica»), cerca appunto di individuare «il più vasto

ambito storico al quale ogni singolo fenomeno dell'AT appartiene idealmente, nel quale si riscontra qualche fatto

analogo, e in rapporto al quale il fenomeno si potrebbe meglio comprendere nella sua essenza» (VON RAD). Il

pensiero tipologico, non solo guarda teloeologicamente in avanti, ma presuppone inoltre una fondamentale unità di

tutte le figure a livello di Dio e della sua opera salvifica. Nel libro veterotestamentario della Sapienza - il più

prossimo al NT - appunto la Sapienza stessa di Dio (identificata con lo Spirito e la Parola) è la mediazione universale

di salvezza, all'opera in tutti i tempi, luoghi, e per tutti i destinatari («gli uomini sono stati ammaestrati e salvati per

mezzo della Sapienza»: Sap 9,18), sicché essa è presentata come l'unità di tutte le figure:

«La Sapienza è l'unità di tutte le figure. Tratta da Dio prima della creazione, resta sulla terra con gli uomini di

epoca in epoca, e la sua alleanza con l'aspetto sensibile è sottolineata dalla figura della sposa, che ne è il supporto

vissuto. Assiste Israele, e attraversa con lui il fondo dell'abisso. E' con l'uomo nella sua prova; senza uscire da se

stessa, rinnova tutte le cose, e con il giusto messo a morte dal mondo si rivela interamente» (BEAUCHAMP).

In questa direzione l'unità della Bibbia si dispone ad un profilo vuoi cristologico vuoi trinitario. In ultima analisi il

senso ultimo unitario di tutte le figure è il mistero di Dio stesso, in quanto comunicato al suo popolo in Cristo e

nello Spirito (questa è la «cosa» propria di cui la Bibbia dà testimonianza rivelatrice, «utilmente» salvifica).

3/ La terza tensione caratteristica della figura è infine quella disegnata tra la parola e la cosa, e coincide con il

processo di significazione intrinseco allo svelamento della verità. E' la tensione articolantesi tra il testo in quanto

struttura significante e la «cosa stessa» significata, il cui svelamento prende rilievo attraverso la tradizione

misurata di volta in volta con il riprodursi della rivelazione. Funzione della figura è in tal senso quella di «significare

la significazione» (Beauchamp), ovvero di riferirsi alle cose attraverso il loro essere «scritte per noi, per la nostra

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istruzione» (1 Cor 10,6.11). Niente figura se non attraverso una scrittura, cioè senza un testo irriducibile ad una

lettera piatta, ma intrinsecamente pregnante di una «cosa stessa», caratterizzato da una lettera tutta tesa verso il suo

più profondo svelamento. Si tocca qui il problema del senso del testo biblico, il cui accertamento deve passare

attraverso quello che l'autore ispirato ha voluto dire consapevolmente e anche inconsapevolmente, collocandosi

all'interno di una tradizione che ne fa risuonare virtualità inattese, e dispiegare un senso più profondo ad esso

intrinseco, prima non esplicitamente pensato dall'autore umano.

Sotto questo aspetto si può qualificare la tipologia come «conversione della memoria», che riattinge una presenza

di Dio alla storia sempre in atto di rivelarsi e rendersi accessibile come «già lì» -e tuttavia non immediatamente

riconosciuta («come è terribile questo luogo! Dio era qui, e io non lo sapevo!»- così Giacobbe, risvegliandosi dal

sogno avuto in Betel: Gen 28,16-17). Analogo processo nel riconoscimento -prima mancato e poi effettuato- dai

pellegrini di Emmaus (Lc 24,13-35), prodottosi dal «camminare lungo la via con il risorto» (24,16.31; cfr. vv.13-

15.28.32.35), che rilegge loro le Scritture (vv.25-27.32), e si fa riconoscere allo spezzare il pane (vv.30.35).

2.5. Il principio di canonicità

Canone è termine di origine cristiana (applicato a una lista di libri sacri normativi nel IV° sec).

Ma la «cosa» intesa dalla parola -ovvero uno scritto, un libro o un blocco di libri autoritativi per il

popolo in quanto documento normativo per la sua vita di fede, è assai antico, sicché è legittimo

adoperare il termine anche per le Scritture d'Israele (i Rabbini parlano piuttosto di kitbê haqqôdesh,

«scritture sacre», che «sporcano, rendono impure le mani», ma gli stessi studiosi giudaici usano il

termine canone). Il riferimento alla Bibbia come canone è basilare: non però anzitutto come mero

elenco selettivo di libri, bensì come principio, che «fu incessantemente operante. Per questo tale

principio del canone è più importante del suo perimetro, e non è messo in discussione dal margine di

indecisione che sussiste nel suo stato finale» (Beauchamp). In quanto canonica la Bibbia ripropone la

testimonianza originaria della fede in singolare accordo con quella Parola di Dio che contiene e

trasmette, per cui crediamo che la Bibbia stessa è Parola di Dio, in quanto «rivelazione attestata».

Canonicità della Bibbia significa allora quella posizione del tutto singolare e unica della Bibbia vuoi

in rapporto alla rivelazione delle origini, vuoi alla storia ulteriore, collocata com'è tra queste origini

di cui partecipa l'autorità e la tradizione successiva al cui servizio essa è come collezione

documentaria (cfr. Citrini). Documento e dispositivo testimoniale delle origini ineguagliabili della

fede, in diretta dipendenza dalla sorgente divina della Parola, conserva la Parola per comunicarla ad

ogni generazione. Non è difficile cogliere nella Bibbia stessa grandi occasioni, in cui emerge una scrittura proclamata con

divina autorità, fissata e proposta come canone per il popolo o per il suo leader (Es 24,7 -il Libro dell'alleanza sinaitica;

Dt 17,18-19 -ovvero lettura quotidiana del libro della Torah da parte del re; Deut 31,9-13 -la Torah di Mosè, riletta

ogni sette anni a tutto il popolo, consegnata a Giosuè come suo breviario per la conquista: Gs 1,7-9. Lettura della

Torah -l'edizione più antica di Dt- perduta e ritrovata da Giosia: 2 Re 22-23 = 2 Cron 33-34; Lettura della Torah -

Pentateuco- da parte di Esdra: Neem 8;9,14-17;1O,28-39;13,1-3). Nel NT mostrano esplicita consapevolezza di

funzione canonica Lc 1,1-4; Gv 19,35-37; 20,30-31;21,24; 2 Pt 3, 15-16;1 Gv 1,1-4; Ap 22,18-19.

Tuttavia, contrariamente a quanto talvolta si sente ripetere, la lettura pubblica/liturgica non fu

una causa, bensì solo una conseguenza, (non sempre tassativamente necessaria) della canonicità. Le

cause debbono essere cercate altrove, nella qualità profetica della letteratura storica, legale,

didascalica e dell'altra letteratura di cui l'AT è composto. Così -a conferma del fatto che non il culto

determina la canonicità, ma piuttosto il contrario- gli Agiografi (Ketûbîm) non saranno introdotti nel

lezionario liturgico giudaico, eppure sono canonici. Nella tradizione giudaica, diverso è l' apprezzamento di canonicità per i diversi libri, rilevabile dal tipo diverso

di uso liturgico:

- la Torah (Pentateuco) viene letta in sinagoga per intero. Tutta la pietà dell'Israelita era primariamente orientata

ad osservare con zelo e con amore la Torah data da Dio, quale rivelazione originaria, rispetto alla quale profeti e

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scritti sono una ulteriore mediazione del messaggio (un rotolo della Torah si può comprare con la vendita degli

altri libri, ma non viceversa).

- i Profeti sono sottoposti ad una lettura antologica. Ad ogni parashat (pericope liturgica) della Torah se ne affianca

una profetica (haftarah) corrispondente.

- Gli Scritti: non vengono letti in liturgia come Torah e Profeti (però i cinque rotoli -cioè Qoh Es Lam Cant Ruth

-hanno uso diverso nei giorni di festa o di digiuno). Inoltre i Salmi sono un punto di riferimento basilare della

pietà e liturgia giudaiche.

Dal punto di vista cristiano tutti i libri biblici canonici vanno riconosciuti e venerati con uguale devozione e

rispetto -pari pietatis affectu ac reverentia: così il Tridentino, ripreso dal Vaticano I (DS, 783;1787=1501;3006).

Però il Vaticano II° ha sottolineato la preminenza a tutti evidente dei quattro vangeli: «a nessuno sfugge che tra

tutte le scritture, anche del nuovo testamento, i vangeli meritatamente eccellono, in quanto sono la principale

testimonianza relativa alla vita e alla dottrina del Verbo incarnato, nostro salvatore» (DV, 18).

2.6. Fissazione del canone

Canone è sempre il frutto di una selezione. L'AT stesso ce lo testimonia, citando numerosi

libri quali proprie fonti, ma andati perduti, omessi in ogni caso da canonizzazione (un indizio

significativo dell'abbondante letteratura da cui è stato selezionato il canone scritturistico attuale). Per

citarne solo alcuni: il Libro delle guerre del Signore (Num 21,14), il Libro del Giusto (Gs 10,13; 2

Sam 1,18); quello delle gesta di Salomone 1 Re 11,41; le varie cronache dei re di Giuda (1 Re 14,29;

22,46; 2 Re 8,23 ecc.), e d'Israele (1 Re 16,5.14.20.27; ecc.) (che hanno offerto materiale abbondante

ai Libri dei Re). Probabilmente trattati in un primo tempo come sacri, sono spariti con l'esilio

babilonese. La sopravvivenza al crogiolo dell'esilio fu di fatto un criterio discriminante della selezione

canonica delle tradizioni d'Israele, un filtro di loro più pura verità, in base a cui Israele deve avere

lasciato cadere tutto ciò che poteva avvicinarsi più univocamente ad una letteratura di epopea

nazionale, che non fosse imbevuta di fede yahwistica.

Una vivace dicussione è attualmente ancora accesa intorno al problema quando il Canone

giudaico sia stato fissato (al cosiddetto concilio, o meglio sinodo di Jamnia, alla fine del I° sec. d.C.?

Oppure addirittura già due secoli prima, alla metà del II° sec. a.C.?). Elementi decisivi per una

soluzione non sembrano essere stati ancora prodotti.

In ogni caso, la testimonianza più antica relativamente all'esistenza di tre gruppi di scritti canonici è quella del

Prologo di Ben Sirach alla traduzione in greco dell'opera del nonno (130 a.C.), che parla per tre volte de «la legge,

i profeti e gli altri scritti che ne hanno seguito i passi/ gli altri libri dei padri/ quelli che restano dei libri» (vv. 1-

2. 8-10. 4-25). Nel caso della terza collezione, distinta dalla Legge e i Profeti, si può osservare come l'articolo

determinato suggerisca una grandezza circoscritta, ben individuata e determinata rispetto agli altri due blocchi; si

tratta di testi autoritativi come gli altri (ancorché il terzo posto suggerisce già una gerarchia); ma il titolo successi-

vamente impostosi (ketûbîm, cioè «scritti») non si è ancora imposto. Questa fluttuazione di denominazione può

legittimamente lasciar pensare ad una configurazione ancora indefinita della terza collezione.

A distanza di un paio di secoli il NT parla delle Scritture d'Israele secondo una bipartizione principale (Mt 5,17;

7,12; Lc 24,27; ecc. parlano solo de «la legge e i profeti»: cfr. anche); ma la parola del Risorto di Lc 24,44 ha una

tripartizione: «bisogna che si compiano le cose scritte su di me nella legge, nei profeti e nei salmi». I Salmi stanno

qui come primo e più importante libro della raccolta degli Scritti, una sineddoche - pars pro toto- ad indicare la

raccolta tutta). Secondo alcuni il detto di Mt 23,34-35; Lc 11,49-51 («Per questo la sapienza di Dio ha detto:

Manderò a loro profeti e apostoli ed essi li uccideranno e perseguiteranno; perché sia chiesto conto a questa

generazione del sangue di tutti i profeti, versato fin dall’inizio del mondo, dal sangue di Abele fino al sangue di

Zaccaria, che fu ucciso tra l’altare e il santuario») attesterebbe l'inizio e la fine della Bibbia di cui disponeva Gesù

(e i suoi uditori) il canone biblico cominciava con Genesi e finiva con le Cronache, considerando che l'assassinio

di Abele è narrato vicino all'inizio del primo libro (Gen 4,3-15) e quello di Zaccaria vicino alla fine dell'ultimo

libro (2 Cron 24,19-22).

Nel De Vita Contemplativa, 21, FILONE (il grande pensatore giudeo della diaspora greca di Alessandria,

contemporaneo di Paolo e di Gesù), riferendo con somma ammirazione dei terapeuti (comunità monastiche

giudaiche in Egitto) che praticano abitualmente con afflato mistico la lettura delle sacre scrittura, elenca quattro

gruppi di scritti: «(la) legge e (gli) oracoli dati per ispirazione attraverso i profeti, e gli inni (nome con cui Filone

abitualmente indica i salmi), e gli altri libri con cui conoscenza e pietà vengono incrementate e portate a

perfezione». Ragionevole pensare che i salmi stiano come in Lc 24,44 a titolo di pars pro toto degli scritti. Invece

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«gli altri libri» certo sono libri fuori dal canone, cui i terapeuti attribuiscono quasi uguale autorità (probabilmente

sono testi apocalittici, del tipo di quelli trovati a Qumran).

GIUSEPPE FLAVIO (Contra Apionem, I,37-43 - collocabile intorno al 93-95 DC) parla di 22 libri biblici come

santi/sacri (non migliaia, discordanti, contraddittori, e scritti da chicchessia come quelli della civiltà greca; ma 22

come le opere di Dio e le lettere dell'alfabeto ebraico, scritti esclusivamente da profeti, per divina ispirazione).

Anch'egli tripartisce la sua lista, identificando i cinque libri della Torah mosaica, quindi parlando di due altri

gruppi: uno di altri tredici libri (probabilmente i profeti anteriori, maggiori e minori, Gb e Dan, nonché Esd/Neem,

1/2 Cron, Ester). Infine il terzo di altri quattro - contenenti inni e consigli di vita agli uomini (cioè i Salmi, più

Prov, Qoh, e Cant). Giuseppe attribuisce profezia anche al secondo tempio - ma limitandola fino ad Artaserse:

I,40).

Dall'insieme di queste testimonianze possiamo concludere che nel primo sec. d.C. il canone è

già da tempo ben configurato in una partizione per tre blocchi. I primi due sono meglio definiti e posti

in stretto collegamento reciproco (come mostra la formula la torah e i profeti); mentre il terzo blocco

-dalla denominazione più oscillante- potrebbe a quell'epoca non essere ancora perfettamente

delimitato. L'intero corpo canonico di per sé non doveva essere percepito come chiuso ad un ulteriore

complemento di libri e di collezioni attestanti la Parola di Dio. Attorno a queste Scritture d'Israele

tripartite, lungo un arco di quattrocento anni (a cavallo tra il II° a.C. e il II° d.C.), si esprime infatti

una crescente, multiforme esigenza di scrittura rivelatrice e canonica, come evidenzia la produzione

di un ulteriore corpus scritturistico normativo da parte di diversi ambienti/gruppi giudaici. Il fenomeno è rilevabile, oltre che da Sir e da alcuni Deuterocanonici della Bibbia greca (Sap; 1.2 Mac,..), anche

attraverso libri di indirizzo apocalittico quali -in particolare- il Rotolo del Tempio, trovato a Qumran (200 a.C. ?),

il IV Libro di Esdra 14,45-47 (100 d.C.), nonché dalla testimonianza dello stesso Nuovo Testamento, e -di nuovo

in ambito giudaico- dalla più tardiva fissazione per iscritto della Torah orale nel corpus della Mishnah (attorno al

200 d.C.). Importante fattore comune a queste diverse produzioni è l'insorgenza di una letteratura che pretende

anch'essa un' autorità canonica analoga -se non identica o ancora più forte- rispetto a quella delle Scritture già

accolte come canoniche. Lo stesso Nuovo Testamento, con i suoi tratti propri di scrittura cristiana di

«compimento», viene così ad iscriversi entro un contesto epocale di proliferazione scritturistica, che manifesta la

tendenziale esigenza di «completare» quella in qualche modo già riconosciuta canonica.

Questo riferimento comparatistico extracanonico offre un macroscopico sintomo di una vera

e propria fame di una parola di Dio scritta -ulteriore rispetto a Legge, Profeti e Scritti. Sintomo del

sentimento diffuso di una Scrittura d'Israele percepita in se stessa insufficiente, o quanto meno

integrabile, fornisce un ulteriore supporto indiretto all'ipotesi di un Antico Testamento come Libro

già carico della propria conversione al Nuovo, segnato da un télos ad esso intrinseco, mosso da una

spinta endogena a cercare una nuova rivelazione -con la sua correlativa attestazione scritta (che

sollecita quindi un' ermeneutica più teleologica che archeologica, capace cioè di cogliere la proiezione

in avanti dei testi). Lo stesso NT con i suoi tratti propri di scrittura cristiana di compimento, viene

così ad iscriversi entro un contesto epocale di proliferazione scritturistica, che manifesta la tendenziale

esigenza di completare quella in qualche modo già riconosciuta canonica.

Diverso è il perimetro delle Scritture d'Israele conferito dal canone farisaico più ristretto della Bibbia ebraica

(difeso da Girolamo, e seguito dalla riforma protestante) e dal più ampio canone cristiano dell'Antico Testamento

greco dei LXX che ammette anche i cosiddetti deuterocanonici (Tobia, Sir, Sap, 1.2 Mac, Bar, parti di Daniele e

Ger solo in greco) difeso da Agostino, che sarà quello del Concilio di Trento). E' facile mostrare infatti come queste

due pur differenti"liste" canoniche non manchino di presentare significative analogie strutturali nella loro

configurazione complessiva, apprezzabile segno di un analogo processo ermeneutico che ha presieduto ad entrambe

le raccolte canoniche, così che si può facilmente concludere come il canone più lungo dei LXX in ultima analisi

obbedisca ai medesimi principi generativi di quello farisaico (nonché ad una analoga cautela verso la proliferante

letteratura apocalittica).

Naturalmente rimane una differenza specifica tra le due collezioni canoniche che non sarà comunque

sottovalutabile. Essa comporta evidentemente una scelta ermeneutica apprezzabile in rapporto a quel principio di

inculturazione, quale fenomeno a sua volta caratterizzante tutta la Bibbia: rispetto alll'altro principio più restrittivo

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e difensivo assunto dal più breve canone farisaico. Quest'ultimo infatti sembra l' espressione di un giudaismo che,

alla fine del I° sec. ormai diventato centripeto e monolitico, sente il bisogno di serrare le fila, abbandonando

polemicamente in mani cristiane quella Bibbia greca prodotta dal vivace, poliverso e centrifugo giudaismo della

diaspora. La Bibbia dei LXX fu recepita dai cristiani, a testimonianza della volontà di proseguire nella linea

centrifuga di quel giudaismo della diaspora più disponibile a proseguire nell'inculturazione della fede yahwistica

(che pure già caratterizzava certi tratti delle scritture ebraiche d'Israele in rapporto alle culture Medio Oriente

Antico). Le scritture cristiane, segnate dall'adozione del greco e dal riferimento (preferenziale, non unico) ai LXX,

- è stato giustamente osservato - a differenza di quella ebraica, hanno per loro natura l'impulso di assumere la forma

di una Vulgata (ovvero di una Bibbia che privilegia la lingua del destinatario terminale più recente e non di quello

originario più antico).

2.6. Libri e Parola.

A questo punto proviamo a cogliere più precisamente il nesso tra scrittura e Parola, tra i diversi

tipi di Libri e la rivelazione di cui attestano, apprezzando quindi i differenti generi librari assunti a

veicolo di rivelazione.

In tal senso possiamo distinguere rispettivamente:

1. la parola della Torah (nel suo nesso di legge/racconto)

2. la parola profetica, come appello salvifico/giudiziale

3. la parola sapienziale, di llluminazione del quotidiano

4. la parola come risposta orante (Salmi, Lamentazioni ecc.)

5. l' evangelo/ gli Vangeli (sviluppo del kerygma entro il racconto del vangelo quadriforme)

6. l' evangelo/ paraclesi nelle lettere apostoliche (kerygma applicato e sviluppato nella vita della

Chiesa primitiva).

7. parola come Apocalisse (come sintesi dei diversi generi, ed esaltazione del Libro come portatore

di rivelazione).

2.6.1. La Parola della Torah

I cinque libri (Gen-Es-Lev-Num-Dt) tradizionalmene attribuiti a Mosè, tranne qualche

rarissimo testo poetico (Gen 49; Es 15,1-21; Dt 32-33...) sono una prosa che combina assieme testi

narrativi e testi legislativi, racconto e comandamento. La Torah mosaica è quindi definibile nel modo

migliore come un racconto con incorporata una legge (J.A.Sanders). La connessione tra questi due

elementi è tuttavia molto diversa in ciascuno dei cinque libri. Così in Gen il comandamento non è mai autonomo, ma è sempre inserito nel racconto come suo elemento minore

(cfr. Gen 1,28ss.); Es e Num concentrano il comandamento in grandi blocchi, alternandolo al racconto (Es 20; 21-

23; 25-31; 35,1-40,33; Num 1-8; 15-19; 28-30...). In Lev domina esclusivamente il comandamento (qualche rara

reminiscenza narrativa è inserita a sua motivazione). Dt concentra le leggi nel codice (12,1-25,15), ma nelle altre

parti del Libro (p.es. 1-3; 4-11) strettissima è la loro connessione al racconto entro la calda parenesi

deuteronomica.

Questa correlazione tra indicativo/imperativo (reperibile anche nei profeti e nei sapienziali) si

prolunga tanto nel giudaismo (che coltiva la narrazione haggadica e la legislazione halakica) quanto

nel cristianesimo, che la mantengono come struttura originariamente inscindibile. In ogni caso

l'indicativo fonda l'imperativo quale sua indispensabile implicazione intrinseca. Non si può infatti

capire un testo tanto eminentemente imperativo e plasmatore dell' ethos del popolo del Signore, quale

il decalogo (Es 20,1-17; Dt 5,6-22), senza tener conto dell'elemento narrativo che lo genera, non a

caso posto a cappello introduttivo delle dieci parole («io sono il Signore tuo Dio, che ti ha fatto uscire

dal paese di Egitto, dalla casa di schiavitù!» Es 20,2; Dt 5,6). Analoga struttura nell'annuncio di Gesù

(«il tempo è compiuto, il regno di Dio si è avvicinato: convertitevi e credete al vangelo!»: Mc 1,15),

e in quello delle lettere paoline, dove per lo più alle reminiscenze, alla proclamazione e allo sviluppo

kerygmatico della prima parte segue (o comunque si connette alternandosi) una parenesi più

sviluppata soprattutto nella seconda parte della lettera (p. es. cfr. Rom 1-11 con 12-16).

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Fondamentale nella Torah è la narrazione degli eventi fondatori, incentrati sull'esperienza dell'esodo, preceduta

dalla memoria dei padri (Abramo, Isacco, Giacobbe), e dalla prospettiva universale delle origini (Gen 1-11).

L'esodo è attestato per altro anche nelle altre Scritture canoniche con memoria e stupore indelebili. «Dio ha liberato

il suo popolo dall'Egitto!»: con questa confessione originaria della propria fede, declinata in molte varianti, la

coscienza di Israele evoca qui due differenti aspetti dell'agire salvifico divino, due movimenti impressi da Dio al

suo popolo pensati rispettivamente in riferimento ad un cammino e a una liberazione, ovvero sulla base di un

modello bellico-migratorio («far salire» dall'Egitto verso la terra di Canaan) e uno sociologico («far uscire» -

espressione tecnica per la liberazione legale di uno schiavo: cfr. Es 21,2-4; Dt 15,12ss.). Così, di volta in volta,

Dio è il Signore che «ha fatto salire (‘alah all' hiph., che ricorre nei testi più antichi: cfr. Es 3,8.17;33,12.15; Gen

46,4;50,24; Os 12,14; Am 2,10; 3,1; 9,7; Mic 6,4) Israele dall'Egitto» ovvero che «ha fatto uscire Israele

dall'Egitto, dalla casa di schiavitù» (yatsa’ all' hiph.: soprattutto in Dt 5,6.15;6,12.21.23 ecc.; nel Dtr: Gdc 2,12; 1

Re 8,16.21 ecc.; in P: Es 6,6-7 ecc.; nei profeti, solo a partire da Ger 7,22;11,4;32,21 ecc.). Nel primo modello,

Israele si percepisce come un popolo, un esercito fatto migrare risalendo verso nord-est la curva occidentale più

esterna della Mezzaluna Fertile. Inoltre, questa formula consente di connettere bene il terminus a quo (uscita

dall'Egitto) con il terminus ad quem (la terra promessa). Invece il secondo (più recente, che finirà per imporsi con

maggior forza: in Dt con preponderanza schiacciante: almeno 20x contro1x sola di ‘alah) viene in evidenza la

potenza e la giustizia dispiegate dal Signore (facilmente connesse con l'idea di redenzione e riscatto e riferite al

prodigio del Mar Rosso). Nel medesimo contesto della vocazione di Mosè entrambe le espressioni ricorrono

(rispettivamente in 3,8.11), tradotte dalla Bibbia CEI allo stesso modo.

La confessione dell'esodo, supportata dalla relazione di alleanza, introduce il decalogo, e nell'esperienza del Sinai

sta a premessa fondatrice delle dieci parole con cui la voce di Dio si è fatta sentire a tutto Israele, interpellandolo

«faccia a faccia»: «Io sono il Signore tuo Dio, che ti ha fatto uscire dall'Egitto, dalla casa di schiavitù» (Es 20,2;

Dt 5,6). Entra nelle formule di giuramento caratteristiche dell'annuncio profetico: «[14]Pertanto, ecco, verranno

giorni _ oracolo del Signore _ nei quali non si dirà più: Per la vita del Signore che ha fatto uscire gli Israeliti dal

paese d'Egitto; [15] ma piuttosto si dirà: Per la vita del Signore che ha fatto uscire gli Israeliti dal paese del

settentrione e da tutte le regioni dove li aveva dispersi. E io li ricondurrò nel loro paese che avevo concesso ai loro

padri.» (Ger 16,14-15). Come pure in quelle caratteristiche soprattutto di Ez e del tempo postesilico che qualificano

la conoscenza del Signore Es 6,7.

La confessione del Dio liberatore dalla schiavitù egiziana occupa un posto di tutto rilievo nei

testi del cosiddetto credo storico d'Israele (Deut 26,5-9; Gs 24; 1 Sam 12,8; cfr. anche Neem 9; Sl

136). Prendiamo Dt 26:

«Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una

nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù.

Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione,

la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso,

spargendo terrore e operando segni e prodigi, e ci condusse in questo luogo e ci diede questo paese, dove scorre

latte e miele.»

Centrata sulla coppia esodo dall'Egitto/ingresso nella terra, la prospettiva storico-salvifica di Israele tenderà a

dilatarsi e approfondirsi. Una dilatazione si avrà con l'aggiunta in serie di ulteriori azioni salvifiche di Dio: sia in

retrospettiva (dall'esodo all'indietro si recupera un ulteriore passato storico-salvifico fino ad abbracciare anche la

creazione, e, in qualche caso, fino all'eterno e precedente consiglio di Dio: cfr. il Cantico di Mosè in Dt 32); come

pure in prospettiva futura, fino a contemplare l'esperienza postesilica d'Israele (Neem 9; Sal 136). Un

approfondimento di orizzonti (relativo alla qualità singolare e complessa del rapporto tra il Signore e il suo popolo)

è percepibile a livello di singoli testi come pure a quello di intere opere o redazioni storico-salvifiche. Tra i singoli

testi il rinnovamento dell'alleanza a Sichem (Gs 24) come pure il grande Hallel (Sal 136) focalizzano con la

ripetizione di una parola-chiave rispettivamente il primo le ardue e gravi implicazioni della scelta di «servire il

Signore», e l'altro sulla grande costante dello chesed divino (ovvero la sua «amorosa fedeltà/misericordia»: «eterna

è la sua misericordia») sempre nuovamente dispiegata attraverso i molteplici suoi benefici prodotti nella creazione

(vv.4-9), con l' esodo, il cammino nel deserto, la conquista (vv.10-22), fino a includere il difficile stanziamento

nella terra (vv.23-24) e ad abbracciare il quotidiano sostentamento di uomini e animali («ad ogni carne dona il

pane»: v.25). (Ad analogo tipo di lettura si prestano Neem 9; Sal 105-107 ecc.). Queste più brevi e sintetiche confessioni storico-salvifiche riflettono con tutta probabilità precedenti narrazioni

di ben più ampia portata, che hanno contribuito alla formazione del Pentateuco o che addirittura lo suppongono

già esistente (contrariamente a quello che pensava Von Rad, Dt 26 non è affatto quel nocciolo più antico, da cui

avrebbe preso forma prima il documento yahwista e poi l'intero Pentateuco, ma è piuttosto una splendida parafrasi

di tradizioni già assestate).

Importante -e perfino decisivo- considerarne i definitivi contorni: a confronto con le

più antiche formulazioni del credo storico, il cinque libri della Torah d'Israele si offrono infatti come

racconto caratterizzato per un intreccio stranamente incompiuto e aperto. Chiudendosi con la morte

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di Mosè e quindi escludendo il racconto della conquista della terra di Canaan (che prosegue in Gs-

Gdc), il Pentateuco presenta un evidente scarto narrativo rispetto alla tradizione, dal momento che

omette dalla sua narrazione quella conquista della terra che viene invece inclusa senza soluzione di

continuità in tutte le confessioni di fede del credo storico più antiche della redazione finale della

Torah (1 Sam 12,8; Deut 26,5-9; Gs 24; cfr. anche Neem 9; Sl 136). Questo è tanto più evidente se

si tiene presente come Gs 23,14-15 annunci al popolo ormai insediato nella terra l'avvenuto

compimento di tutte le buone parole del Signore per Israele; e come, analogamente, l'assemblea

sichemita di Gs 24 rimandi inclusivamente agli inizi dell'epopea abramitica (Gen 12,1ss.) che proprio

a Sichem ha il suo punto di riferimento originario. In tal modo la Torah, che ricapitola il passato

d'Israele all'insegna di Mosè, offre -in quanto redatta alla luce dell'avvenuto esilio- l'immagine di un

Israele in statu viae, sospensivamente collocato ancora ai margini del deserto, nell'attesa imminente

di una (ri-)conquista della terra. Di qui la configurazione ermeneutica di una «Torah della speranza

in regime di dispersione», per la quale il Sinai, mai posseduto, diventa il bene più inalienabile di

Israele (cfr. J.A. Sanders).

2.6.2. I profeti

Anche l'annuncio dei profeti è fortemente orientato in senso storico-salvifico. Sono gli uomini

che parlano in nome di Dio (come appare dalla tipica formula del messaggero che apre e chiude la

loro predicazione: «Così dice il Signore.../Oracolo del Signore»). Sono per definizione gli uomini

della Parola di Dio come evento sempre nuovo e indisponibile (come si vede dall'altra formula

abituale ricorrente: «la parola del Signore fu sul profeta Isaia, Geremia...»). La sfera della loro stessa

vita fisica, psichica, affettiva e sessuale è assunta a luogo simbolico, linguaggio espressivo della

Parola di Dio per il suo popolo ribelle (cfr. Os 2-3; Is 7-8; Ger 16; Ez 24): qui la Parola è in via verso

l'incarnazione (Von Rad e dietro di lui Von Balthasar lo hanno giustamente evidenziato). Di volta in

volta annunciano la volontà salvifica-giudiziale divina legata a un momento ben preciso della storia,

intervenendo così nell'ambito della vicenda politico-sociale nelle vicende interne d'Israele, come pure

in quelle che lo legano ai circonvicini popoli del Medio Oriente Antico, e addirittura (caso anomalo

per le divinità del MOA) in quelle esclusivamente relative ai popoli stranieri (cfr. Am 1), per fare

valere i diritti dell'unico vero Signore della storia. In particolare la proclamazione profetica

accompagna la vita d'Israele, in buona parte, se non completamente, in concomitanza -per lo più

critica- con l'istituzione della regalità nella linea dell'elezione davidica. La loro prospettiva più qualifi-

cante è certamente l'orizzonte escatologico: oltre tutte le variabilissime circostanze della storia

mondana, i profeti, come sentinelle nella notte, scrutano e annunciano la venuta del «giorno grande e

terribile del Signore» (Mal 3,23), intravvedendovi la definitiva universale rivelazione del nome di

Dio (Zac 14,9: «il Signore sarà su tutta la terra, e ci sarà soltanto il Signore e soltanto il suo nome»),

l' esaltazione esclusiva della sua regalità (Is 2,11.17;5,16): allora la Signoria di Dio sarà oggetto di

universale riconoscimento da parte dei pagani. Affiora qui l'idea di un «resto» escatologico di Israele

(Is 6,13; 10,21 ecc.; Ger 23,3; Sof 2,7-9;3,12ss.; Zac 13,8ss.) che (a differenza dell'Israele infedele)

vedrà la salvezza (una sorta di restrizione salvifica entro il popolo di Dio, sta quindi in corrispondenza

alla dilatazione dell'orizzonte universale di salvezza).

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Contrariamente a quanto si sarebbe tentati di pensare, sono uomini della tradizione, ovvero

della fedeltà all'alleanza/promessa di Dio che ripropongono in tutto il suo spessore di grazia e di

implicanza etica rispetto a cui Israele si mostra abitualmente inadeguato, per inconsapevolezza o di-

sobbedienza. Ma tradizione non significa consuetudine: così i profeti la trasmettono elaborandola, e,

in particolare, trasformando ogni già realizzato adempimento della parola divina in nuove promesse,

in cui la prospettiva ha potuto dilatarsi in una molteplicità di tipologie fino ad un definitivo tempo

salvifico: così l'antica alleanza sarà compiuta in una nuova (Ger 31,31-34), l'antico esodo sarà perfino

oscurato da quello nuovo (Is 11,11-16;43,18ss.;52,4-12) il regno davidico riceverà una fioritura mes-

sianica (2 Sam 7,12ss.; Os 2,1ss.; Is 9,5ss.;11 Am 9,11ss. ecc.), tornerà la pace paradisiaca (Os 2,20;

Am 9,13; Ez 34,25-31; Gl 4,18 ecc.).

2.6.3. Gli scritti dei sapienti

La corrente sapienziale non si appassiona agli eventi straordinari di Dio nella storia d'Israele

(se non nel tardo postesilio -e comunque molto più significativamente di quanto non si pensi- con i

Libri del Siracide e della Sapienza, che, dall'interno di questa linea, opereranno una potente sintesi

integrativa di Torah e profezia, e nel caso di Sap, anche dell' Apocalittica). Piuttosto che sui singolari

e festivi mirabilia Dei (gli eventi salvifici che dall'esodo alla conquista della terra fino alla elezione

davidica privilegiano Israele in termini più esclusivi), il suo interesse cade su quella temporalità più

feriale, ordinaria, quotidiana, universalmente disponibile e riproponibile tanto nella sua puntualità,

quanto nella sua distensione come luogo in cui ci si iscrive nel misterioso sapiente disegno di Dio -in

Prov 1-9; Sir 24; Gb 28 personificato più letterariamente che ipostaticamente nella figura della

Sapienza -signora, sposa, sorella e madre- che quotidianamente va incontro essa stessa agli uomini a

proporre le grandi scelte e opzioni per la vita, e ad evitare quelle per la morte. Introdotto dai grandi

appelli della Sapienza in persona (Prov 1-9), successivamente l'intero Libro (Prov 10-31) altro non fa

che imbandire il banchetto di inaugurazione del suo regno (le sette colonne del suo palazzo alludendo

alle altrettante collezioni riconoscibili in 10,1ss.). Così anche quando ci incontriamo in qualche

sentenza dal più modesto aspetto, siamo in realtà interpellati dalla Sapienza in persona. Qualcuno ha

potuto definirla una teologia della creazione, «un contrappunto teologico» (Levêque) rispetto alla

tradizione dell'alleanza, della Torah e dei profeti.

Ma cosa c'è dietro a quelli che chiamiamo proverbi (il termine ebraico meshalîm, è assai più ricco e ampio), e

che sarebbe meglio definire «detti sapienaziali»? Senz'altro (di nuovo!) il racconto, ovvero la memoria

dell'esperienza vissuta, ripetutamente narrata e confrontata, e infine sintetizzata nella sua verità in forma aforistica,

secondo un linguaggio «poetico», «simbolico», che pesca sulla sponda metaforica dell'umana parola. Questo

sfondo narrativo retrostante è perfino palpabile in certi testi (come Prov 6,6-11;24,30-34; Sl 37; anche in Qoh -

là dove racconta ciò che egli stesso ha potuto vedere con i propri occhi). Un proverbio -ha potuto dire con

perspicacia W.BENJAMIN- altro non è che «l'ideogramma di un racconto. Si potrebbe dire che i proverbi sono

rovine che stanno al posto di antiche storie, e in cui -come l'edera intorno a un resto di muro, una morale si avvolge

intorno a un gesto». E' un modo di lavorare l'esperienza attraverso il linguaggio, conducendola al suo senso

conclusivo tesaurizzabile, ovvero quella che più banalmente chiameremmo la morale della favola (meglio ancora:

la morale di molte favole, poiché essa fu attingibile solo dopo il suo proporsi a conclusione di molteplici

esperienze). Prolungate tensioni e ripetute disillusioni permettono conclusioni del tipo: «Chi chiude un occhio

causa dolore, chi riprende a viso aperto procura pace» (Prov 10,10)

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L'esperienza -spesso complessa, confusa, e perfino contradditoria- ad un certo momento si fa

luminosa e trasparente, mai come prima -ed ecco emergerne il proverbio come il suo momento «più

chiaro e toccante», «il punto più luminoso» dell'esperienza (Herder).

Di qui una importante conclusione circa la maniera di leggere i proverbi: non si tratta di

imparare dai proverbi, bensì con i proverbi, assecondando la loro capacità di strappare l'esperienza

dal caos, dall'insignificanza, dal fallimento, per cogliere la configurazione della vita secondo il suo

senso autentico, come verità che si svela e si compie a determinate condizioni. «Il tutto d'un proverbio,

è di venire a proposito», (Beauchamp). Un tempismo (discernimento!) spirituale è la prospettiva che

va colta alla loro luce. Non è detto che la loro verità emerga subito. Chiede di essere custodita, anche

in dolorosa ignoranza, per emergere al tempo opportuno.

A sollecitare la percezione di un discernimento, e quindi l'appello di una scelta etica.la forma poetica dei testi

sapienziali si avvale molto spesso del parallelismo antitetico, largamente adottato (più che in altri testi biblici), dei detti

di paragone (questo è come quello), dei detti comparativi (meglio questo di quello), dei macarismi (beato!). Due sono

comunque i tipi fondamentali di sentenze: il detto di constatazione e il detto di ammonimento -corrispondenti ai due

fondamentali movimenti dello spirito -più discreto il primo (constatando, locutore e interlocutore guardano assieme si

guarda nella stessa direzione). Ammonire, consigliare -in quanto appello diretto in seconda persona per lo più singolare-

è già un'azione più penetrante, meno discreta -tuttavia non facendo appello alla propria esperienza bensì alla verità a tutti

disponibile. E' comunque provocazione alla consapevolezza e alla decisione.

La sua struttura prevede:

a/ un ammonimento (positivo o negativo) in forma imperativa o iussiva;

b/ una motivazione, con cui si dice il perché, fornendo quindi le ragioni del consiglio proposto; talvolta viene mostrata

una conclusione - con l'esito dell'agire proposto (cfr. Prov 24,21-22).

Un ampio uso del procedimento sapienziale che combina osservazione e ammonimento farà Gesù (oggi

rivalutato sotto il profilo di maestro di sapienza) p.es. in Mt 7,25-34.

«L'ammonimento del maestro di sapienza non ha lo stesso valore cogente del diritto, del comando dell'alleanza.

Qui spessissimo non c'è motivazione, e in ogni caso il comando è perentorio. La motivazione che precede l'ammonimento

indica come "il consigliare lascia uno spazio per la libera iniziativa dell'interpellato che deve esprimere il proprio giudizio.

Con ciò non è giusto dire che il consiglio ('esah) sia senza autorità. Esso possiede quell'autorità del discernimento che

rivela e al quale invita. Questa autorità è però diversa dall'autorità del Signore che dà una disposizione» (W. Zimmerli).

E' altresì vero che la tendenza andrà nel senso di valorizzare sempre più l'autorevolezza della parola sapienziale come

parola che, pronunciata dalla Sapienza stessa, ha un'autorità a dir poco profetica (cfr. Prov 1-9).

Nella tradizione sapienziale (non confinabile ad alcuni singoli libri, ma in realtà bene o male

quasi onnipresente almeno in substrato a tutti i testi biblici, non foss'altro per il loro carattere di

scrittura -per definizione opera di scribi, cioè sapienti!) la parola di Dio parla quindi più

accentuatamente per la mediazione indiretta dell'uomo impegnato a conquistarsi la vita con il

discernimento. A prender la parola è l'uomo in ricerca (anche drammatica e spoglia: si pensi a Giobbe,

Qohelet, e a tutti quei testi dove certi elementi della tradizione vengono scossi in radice, in nome di

non di scetticismo, ma di quel sano senso critico, che questi libri ci fanno grazia di riscoprire

connaturale e interno all'esperienza di fede).

2.6.4. I Salmi

Come nei meshalîm, anche nei Salmi (ovviamente le 150 preghiere d'Israele del libro

omonimo, ma anche quelle più raramente emergenti dalla narrazione della Torah, o che più

frequentemente sono intercalate agli oracoli profetici, e ai testi sapienziali più tardivi) è per lo più

l'uomo che prende la parola, e risponde all'azione salvifica e rivelatrice del Signore. Lode e supplica,

come reactio dell'uomo all'actio di Dio fanno parte della parola di Dio, come loro elemento a pieno

titolo integrante. Come hanno fatto notare giustamente molteplici autori (esegeti e teologi) la Bibbia

sarebbe davvero monca, se non ospitasse anche la risposta dell'uomo al Signore rivelatore e salvatore.

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Non solo perché il profilo dialogico della comunicazione di Dio all'uomo ne resterebbe depauperato

sotto il lato più strettamente antropologico. Ma anche perché proprio nella preghiera di lode e lamento

si istituisce un luogo particolarmente rivelativo del mistero di Dio stesso, del suo nome invocato e

glorificato per una salvezza/rivelazione già sperimentata o anche solo sperata e richiesta. Interessante

è il fatto che il Salterio, nel quale prevalgono i salmi di supplica e di lamento individuale rispetto a

quelli di lode, porti ciononostante il titolo più complessivo di tehîllîm -cioè «lodi»- probabilmente in

conformità al dinamismo di un libro sempre più orientato alla preghiera di lode nella seconda parte,

culminante con i due grandi inviti (del Sal 145,21: «Canti la mia bocca la lode del Signore, e ogni

carne benedica il suo nome santo , in eterno e per sempre!» e 150,5: «tutto ciò che respira, dia lode

al Signore!»). Il Salterio vanta come proprio patrimonio la conoscenza del nome di Dio che può

essere sempre invocato, e farsi presente a quanti lo invocano. L' invocazione del nome di Dio è

certamente il nocciolo comune della supplica e della lode. Quanto risvolto rivelativo sia intrinseco

all' invocazione del nome divino, lo si può ulteriormente verificare dalla preghiera filiale di Gesù (Mc

14; Mt 11; Gv 17 ecc.), e dal genere neotestamentario dell'inno cristologico (luogo di una cristologia

«alta» per eccellenza: cfr. Fil 2; Col 1 ecc.), con cui Gesù in persona e la comunità cristiana primitiva

proseguono la tradizionale capacità di Israele di confessare i contenuti più elevati della propria fede

proprio nella preghiera. E' nella risposta che prende corpo pieno tutta la Parola.

2.6.5. L'Apocalittica

Già presente in testi profetici (come Ez; Is 24-27; Zac 9-14) l'Apocalittica ne accentua la

prospettiva escatologica, saldandola intimamente vuoi alla Torah (gli apocalittici sono osservanti

radicali) vuoi alla sapienza (essi sono altresì gli illuminati per eccellenza).. In tal senso il Libro

apocalittico ha (secondo Beauchamp) un carattere di sintesi dei precedenti generi librari canonici. Le misteriose visioni contemplate dagli eletti/illuminati e deposte nei testi non sono sperimentate ancora come

evento, e tuttavia ricavate da elementi di tradizione comune e proiettate nel futuro escatologico. Una

periodizzazione della storia in Dan 2,37-45; 7,1-14 -dove la storia è descritta come.successione di quattro regni,

cui segue il regno eterno di Dio è caratteristica di questa tendenza (come pure l'inclinazione al calcolo anticipato

dei tempi mancanti alla fine: Dan 9,24-27; 12,7). Dall'interno della corrente apocalittica fa lentamente capolino la

speranza della risurrezione dei morti (Dan 12,2ss.).

Tenuta a bada dal rabbinismo farisaico vincente a partire dalla fine del I sec. d.C., la corrente apocalittica ha

ricevuto attenzioni maggiori in ambito cristiano (qualcuno ha potuto definirla -con qualche esagerazione- la madre

della teologia cristiana).

«Le apocalissi si rivolgono a gente esperta, capace di comprendere , per comunicare loro

l'intelligenza, la sapienza, la scienza. Chi ha così ricevuto il privilegio di gettare lo sguardo sul

progetto escatologico di Dio, è tenuto in modo del tutto speciale ad agire seguendo la conoscenza che

gli è stata data, ad accogliere il conforto della promessa divina, a distogliersi dalla via perversa, e a

prepararsi alla fine prossima, osservando i comandamenti di Dio. Gli scritti apocalittici tendono così

a incoraggiare la comunità degli uomini pii e a esortarla, a perseverare senza sfiduciarsi. E' a questo

appello che vollero rispondere i gruppi e le comunità che si formarono nel giudaismo nei primi due

secoli prima dell'era cristiana; essi assicurarono la loro coesione interrogandosi sempre sul vero senso

della Legge, e sforzandosi di tradurla nella loro vita» (E. Lohse).

2.6.6. Evangelo e vangeli

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E veniamo ai vangeli. Vangelo è anzitutto kerygma, proclamazione orale di una lieta notizia.

Nel NT indica l' annuncio del Regno avvicinato (oggetto della predicazione di Gesù: Mc 1,15 «il

tempo è compiuto e il regno di Dio si è avvicinato! Convertitevi e credete al vangelo!») o della Pasqua

di Gesù (oggetto della predicazione apostolica), in ordine alla conversione e alla decisione di fede. In

entrambi i casi si distingue dal senso di vangelo riferito ai quattro racconti canonici della missione di

Gesù (Mc/Mt/Lc/Gv).

L'evangelo come kerygma è una delle forme espressive fondamentali della chiesa primitiva

assieme alla homologhia (confessione di fede: Rom 10) e all'inno (Fil 2; Col 1). Centrate sulla pasqua

di Gesù (morte/risurrezione: /dono dello Spirito), e sul ritorno escatologico (1 Tes 1,10), queste

espressioni della fede contengono sintesi cristologiche elementari e potenti. Sottolineano l'aspetto

verticale dell'evento: l'irruzione definitiva di Dio nella storia (la sua rivelazione e offerta escatologica

di salvezza). Naturalmente non possono mai fare a meno di una qualche dimensione orizzontale

(anche la formula kerygmatica più scabra ed elementare contiene un mini-racconto, un mini-intreccio

con i suoi diversi protagonisti: Gesù, Dio, lo Spirito, gli uomini, i testimoni).

Valga come riferimento unico 1 Cor 15,3-5: [15.1] Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi,

[15.2] e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l’ho annunziato. Altrimenti,

avreste creduto invano! 15.3] Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo

morì per i nostri peccati secondo le Scritture, [15.4] e fu sepolto, ed è risuscitato il terzo giorno secondo le

Scritture, [15.5] e apparve a Cefa e quindi ai Dodici. Come si può vedere, solo sommariamente si evoca il Gesù terreno, concentrandosi invece sul mistero pasquale

di Cristo.

Più precisamente, l'evangelo annunciato dal kerygma primitivo dall'homologhia, e dall'inno:

a/ riassume parafrasticamente la storia di Gesù, riducendone al minimo l'intreccio, a partire dalla

soluzione finale (Pasqua, dono dello Spirito); oppure guardano in avanti, al ritorno escatologico di

Gesù Signore;

b/introduce un limitatissimo numero di attori protagonisti, per lo più genericamente descritti, e quindi

semplifica il conflitto dei punti di vista in gioco relativamente alla storia di Gesù;

c/ non si interessa alle parole/azioni del Gesù prepasquale;

d/ non istruisce la domanda cristologica «chi è Gesù ?». Al massimo la evocano indirettamente (cfr.

i discorsi apostolici di At). Piuttosto la presuppongono dandovi risposta. E nemmeno racconta la

ricerca cristologica (il modo in cui i contemporanei reagirono alla sua figura, favorevolmente e

sfavorevolmente, ovvero gli effetti scatenati dalla sua persona).

Di qui la necessità di tener conto di altre tradizioni e forme espressive della chiesa primitiva,

che recuperavano i materiali ulteriori relativi al Gesù terreno, cioè i racconti della passione e della

risurrezione, i detti di Gesù, le parabole, le discussioni, gli apoftegmi, i fatti di Gesù (racconti di

miracoli), che recuperavano spezzoni diversi, e in certo qual modo isolati della storia del Gesù terreno.

Ad un certo momento, la Chiesa primitiva ha sentito l'esigenza di rifondere unitariamente tutta

la storia di Gesù alla luce della Pasqua in ordine a dare all' evangelo come kerygma la sua fondazione

adeguata, recuperando tutti gli antecedenti e gli effetti primitivi della storia di Gesù e mostrando le

implicanze, gli effetti successivi della sua missione all'interno della storia attraverso la vita della

Chiesa. Il cristianesimo delle origini ha così prodotto numerosi libri relativi ai dicta, acta et passa

Iesu Christi, dalla cui massa sono state selezionate quattro storie di Gesù (i vangeli canonici di Mc

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Mt Lc Gv), quattro racconti che in forma diversa dispiegano l'unico evento Cristo, l'unico Vangelo in

quadruplice forma (l'evangelo quadriforme lo chiamerà Ireneo).

Rispetto all'evangelo orale, il passaggio ad un racconto scritto fu operazione indispensabile

per evitare che di Gesù Cristo si facesse o un mito, o il supporto (al limitie interscambiabile) di

un'ideologia, una figura sganciata dalla storia, dalla sua storia singolare, cioè dagli eventi che lo ri-

guardarono insieme a diversi contemporanei, e dalla nostra storia (quella successiva a lui). Il

collegamento di diverse tradizioni tra di loro nell'unica forma del vangelo racconto va considerata

come operazione di valore ecumenico (si pensi all'interpretazione che assumono le guarigioni di Gesù

in quanto subordinate alla tradizione pasquale, come eventi di prefigurazione della risurrezione).

Mc, inventore del vangelo come racconto scritto, segna il passaggio dall' evangelo come cifra

kerygmatica al vangelo come narrazione articolata, ragionata, completa dell'evento stesso che

ricupera i propri inizi, integrando i materiali relativi al Gesù terreno. Una duplice novità formale e

contenutistica segna quindi questa nuova forma, che, recuperando le tradizioni prepasquali, sposta

l'attenzione dalla pasqua-parusia (tipica di homologhia, kerygma, inno) al ministero terreno di Gesù,

tramandato in diverse forme (detti, parabole, racconti di miracoli, apoftegmi,...), e configurato

unitariamente all'interno di un arco narrativo biografico disteso dal battesimo alla Pasqua. Il passaggio

è da una cristologia formulaica, orale, sintetica in forma parafrastica, centrata sul Signore, Cristo, e

Figlio presente e venturo, ad una cristologia sintetica, in forma diffusamente narrata, accuratamente

trascritta, che sviluppa l'intreccio della storia di Gesù, recuperandone la memoria retrospettiva del

ministero terreno.

La configurazione in racconto scritto dell'evento Gesù Cristo non ne spegne tuttavia il

carattere kerygmatico. Al contrario Mc dimostra di saper gestire con grande abilità letteraria e

teologica la trascrizione del carattere trascendente e verticale del kerygma nell'articolazione degli

eventi, della storia di Gesù (ricerca/domanda cristologica, segreto messianico, effetto sorpresa sono

gli espedienti caratteristici di questo «Libro di epifanie misteriose»- come lo definiva M. Dibelius.

Dal confronto tra Mc 16,6-7 e 1 Cor 15,3-5 si capisce come tutta la storia di Gesù prima di Pasqua

serva a spiegare il senso della Pasqua stessa, ovvero il come e il perché si sia potuti giungere al

kerygma:

1 Cor 15,3-5 Mc 16,6-7

[15.3] Cristo morì per i nostri peccati Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso.

secondo le Scritture,

[15.4] e fu sepolto Ecco il luogo dove l’avevano deposto.

ma è risuscitato il terzo giorno E’ risorto, non è qui.

secondo le Scritture,

[15.5] e apparve a Cefa [16.7] Ora andate, dite ai suoi discepoli e.

e quindi ai Dodici a Pietro che egli vi precede in Galilea.

Là lo vedrete, come vi ha detto».

Mc 16,6-7 è una formula kerygmatica posta sulla bocca dell'angelo per contenuto, sequenza e struttura di fondo

del tutto analoga a 1 Cor 15,3-5. In entrambi i testi infatti, la morte è confermata dalla sepoltura, mentre la

risurrezione dall' apparizione a Pietro e ai discepoli. Quello che Paolo chiama vangelo ricevuto e trasmesso, è

termine ben noto a Mc (che lo usa in 8,35; 10,29;13,10;14,9). Ma il vangelo apostolico era precontenuto in germe

già in quel vangelo di Dio proclamato da Gesù predicante (1,14-15), che aveva perfino annunciato la propria

pasqua senza essere compreso (8,31;9,31;10,33 ss.). Per Mc l'inizio (in senso cronologico e sostanziale) dell'

evangelo che corre per il mondo sta già tutto embrionalmente contenuto nella vicenda del Gesù terreno, nel vangelo

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di Dio da lui annunciato con parole e opere sovrane, nel suo destino di morte e risurrezione da lui stesso

preannunciato.

Così Marco, inventando la forma-vangelo, ha restituito al kerygma pasquale lo spessore del suo sfondo costitutito

dalla missione storica di Gesù. Sulla falsariga del kerygma di At che già presentava la vicenda del Gesù terreno

divenuto il Cristo Signore, ha unificato la sua predicazione del vangelo del Regno con la predicazione apostolica

del vangelo del crocifisso risorto, mostrandone la continuità profonda e fondamentale nella necessaria

discontinuità.

Il racconto evangelico istituisce consapevolezza dell'evento Cristo:

a/ come evento escatologico, decisivo per il futuro (e per il passato !) dell'intera storia universale

(carattere metastorico). Compimento delle promesse di Dio ad Israele. Gesù è il Signore e il giudice

escatologico venturo destinato a ritornare;

b/come evento appartenente al passato irripetibile (crocifisso sotto Ponzio Pilato); ma storia

intrinsecamente teologica (condannato a causa della sua pretesa messianica).

c/ come evento accompagnato dai suoi effetti (avente cioè una sua Wirkungsgeschichte) in quanto

storico (non più direttamente attingibile) e metastorico (decisivo per la storia successiva).

d/ come evento narrativamente attestato sotto questo triplice profilo. I vangeli sono libri per garantire

l'accesso ad un incontro disponibile mediante una conoscenza di fede attraverso la storia come storia

raccontata. Il vangelo come libro è espressione della fede che recupera la sua originaria forma di

ricerca e di conoscenza della storia di Gesù, un libro che risponde a due domande: chi è Gesù e come

fu riconosciuto? Come fu cercato e trovato?

«Chi è Gesù?» - è domanda cui tutti i vangeli (sia pure in termini diversi) intendono

rispondere. Non nel senso di una questione dettata da pura ignoranza (non parlano di un ignoto: Mc

1,1 inizia confessando l'identità di Gesù come Cristo e Figlio di Dio). Nemmeno nel senso di una

domanda retorica, già scontata nella propria risposta, per cui la narrazione altro non sarebbe che un

piatto rispecchiamento della confessione di fede. Dal punto di vista della fede pasquale il racconto

evangelico ci offre piuttosto la ripresa della domanda cristologica originaria, riproposta nei termini

di un procedimento euristico: come, dove, quando da parte di chi avvenne il riconoscimento e il

misconoscimento, l'accoglienza e il rifiuto di Gesù? I vangeli sono una forma mista di racconto, al

tempo stesso gnoseologico e di ricerca. Propongono le condizioni e le ragioni di quella conoscenza

di Gesù attraverso la sua stessa storia che le più brevi e sintetiche confessioni primitive non erano in

grado di dare. Naturalmente una conoscenza nella fede, non puramente intellettuale, che include un

cammino di ricerca, in ordine a riconoscere e appropriarsi l'oggetto della fede, ad esserne appropriati.

Sapere chi è veramente Gesù, significa sapere come e dove esso si possa effettivamente cercare e

trovare. Il genere vangelo è tutto funzionale a scoprire l'identità di Gesù mediante ricerca. Un sistema

di inclusioni sul cercare Gesù, come tema che viene sviluppato nel racconto, abbraccia tutta la sua

vicenda da cima a fondo, coinvolge conflittualmente i suoi contemporanei. E' un tratto comune ai

quattro vangeli, che li qualifica nella loro forma di libri di fede cristologica nei termini di quattro

manuali per la ricerca di Gesù, in funzione della fede cristologica.

Il vangelo come racconto non è una forma rigida. Rispetto a Mc mostra la tendenza allo

sviluppo successivo (Mt Lc Gv), secondo le seguenti linee.

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1/ Un ampliamento dell'insegnamento di Gesù (Mt e Lc inseriscono il materiale della fonte Q,

prevalentemente costituito da detti, nonché quello a loro peculiare), che resta sempre però agganciato

alla sua storia. Strutturalmente Mt lo organizza in cinque grandi discorsi, mentre Lc lo assume nella

cornice del viaggio a Gerusalemme. Gv a sua volta sviluppa i discorsi di Gesù a ridosso dei segni,

combinandoli alternativamente nel suo racconto. La rivelazione orale data attraverso la parola di Gesù

assume sempre più consistente rilevanza, ma non è mai sganciata dalla sua azione, resta cioè inglobata

nella forma narrativa, indisgiungibile da essa (diversamente da quanto avverrà p.es. nel vangelo

gnostico di Tommaso, tutto esclusivamente composto da parole di Gesù).

2/ Un'identificazione sempre più stretta tra Gesù terreno e Cristo della fede: nella vicenda e nella

persona di Gesù di Nazareth è già presente e trasparente in germe l'identità e l'efficacia del Signore

risorto. Questo tratto (già chiaro in Mc), è sviluppato intensamente dagli altri tre evangelisti (si pensi

in Mt alla rifinitura dei miracoli marciani; in Lc all'uso del titolo Signore sulla bocca del narratore, in

Gv alla manifestazione della gloria come tratto permanente dell'umanità di Gesù prima della pasqua,

al culmine nella passione intesa da Gv come glorificazione-esaltazione. Su questa linea di trasparenza

ancora va apprezzata l'integrazione precoce ed ampia di tutte le forme omologiche entro la storia di

Gesù (Mt e Lc anticipano notevolmente la confessione cristologica di Pietro collocata a metà del

vangelo; Gv ancora di più: cfr. 1,49). Lc e Gv recuperano l'inno cristologico entro la narrazione. Gv

integra anche le formule di missione.

3/ Tendenza all'ampliamento della storia di Gesù: l'arco narrativo si sposta sia all'indietro in direzione

dell'origine di Gesù, sia in avanti in quella della postesistenza di Gesù: si pensi ai cosiddetti vangeli

dell'infanzia di Mt e Lc 1-2, al prologo innico giovanneo (1,1-18). E, inoltre, al maggior spazio

concesso alla risurrezione (racconti di apparizione, inizialmente tralasciati da Mc) e all' interesse per

il tempo della Chiesa (Lc+At).

4/ Tendenza alla maggior consapevolezza della portata canonica del racconto evangelico per la fede

cristologica. Lc 1,1-4 e Gv 19,35; 20,31; 21,24 dichiarano più apertamente la finalità e la garanzia

assicurate dal loro scritto (riconoscere la saldezza dell' insegnamento ricevuto, credere che Gesù è il

Cristo, il Figlio di Dio, per aver vita nel suo nome, attraverso la testimonianza del Discepolo Amato,

garantita dalla sua comunità). Mt ha una riconosciuta forma catechetico-didascalica. Mc salda

mirabilmente dall'interno storia e kerygma.

I vangeli sono un genere letterario unico, ma assai plastico, senza analogie fisse e univoche. Non sono:

un'apocalisse, una biografia del giusto, né una biografia greco-romana, popolare, un encomio, un'aretalogia, o una

tragedia. Influenze di questi generi potranno certamente essere rilevabili, ma non in termini tali da generare la

forma del vangelo narrativo. Questa forma è genere letterario nuovo, che tuttavia non ha una costituzione rigida,

ma plastica. Di volta in volta assume tratti propri.

Possiamo così definirli rispettivamente:

- Mc, un racconto kerygmatico-anamnetico: tutta la vita di Gesù fu una rivelazione sconcertante, un'epifania

misteriosa, luminosa e velata nello stesso tempo, culminante nella pasqua; fu imprevedibile e scandalosa

manifestazione della potenza di Dio nei modi e tempi e luoghi legati alla storia di Gesù.

- Mt, un racconto catechetico-didascalico, per cui la storia di Gesù è tutta illuminata dal compimento delle

promesse e della legge. Egli è l'Emmanuele, il Dio con noi fino alla fine dei tempi

- Lc(+ At), un vangelo sviluppato in 2 voll., in forma storico-salvifica, dove Gesù Signore e Salvatore, Figlio di

Dio e profeta escatologico, datore dello Spirito, è il centro fondatore e archetipo di tutti i tempi storico-salvifici

- Gv, un vangelo in forma testimoniale-contemplativa alla rivelazione autotestimoniale di Dio nel Figlio.

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Infine, perché quattro vangeli canonici, e non uno solo? E perché solo questi quattro? (Meglio

che perché, sarebbe dire: quale senso?). Quattro biografie di uno stesso personaggio non sono allineabili l'una dopo l'altra; però possono essere

unificabili in una sola. Non così quattro vangeli: la fede postula una pluralità di testimonianze entro l'unità. Possono

solo essere allineati; poi ripensati. Diversa è la situazione della Torah con i suoi cinque rotoli, che in realtà si

presentano come unico libro, portatore di una vicenda successiva, scandita lungo la sequenza obbligata dei libri

stessi (proseguita nei libri dei profeti anteriori, da Gs a 2 Re). In effetti anche la Torah accoglie nel suo seno diverse

tradizioni (J,P, Dt ecc.) -ma in ultima analisi convogliandole tutte entro un unico racconto. Ma il vangelo

quadriforme è fenomeno comunque diverso.

Nella chiesa antica avvertì l' imbarazzo per questo vangelo quadriforme, intraprendendo diversi tentativi

di reductio ad unum: per esclusione (così Marcione, gli Ebioniti, i Valentiniani), o per armonizzazione (Taziano,

con il Diatessaron armonizza tutti i quattro vangeli in un unico racconto che sarà per tre secoli il testo liturgico

ufficiale solo per le Chiese siriane della regione di Edessa). Ma entrambe queste troppo facili soluzioni furono

rifiutate, in nome di qualcosa di più singolare. Cent' anni or sono A. von Harnack aveva colto bene l'esistenza dei

quattro vangeli canonici, come elemento straordinariamente singolare, su cui riflettere: «che la Chiesa possieda quattro vangeli di uguale valore è un fatto cui ci si è tanto abituati lungo un

passato di 1700 anni che solo raramente sollecita anche il soggetto più riflessivo a pensarci su. Tuttavia è un fatto

estremamente paradossale...Tutte le analogie nella storia delle religioni cui possiamo riferirci per scritti di uguale

significato dei Vangeli suggeriscono che un libro è stato conservato e non molti dello stesso tipo, e che nella

liturgia si legge da un solo libro».

3. La lettura come comunicazione della fede – modelli riproponibili di lectio divina

La comprensibile enfasi attuale sui media insorti in questo ultimo arco di secolo a soppiantare il

primato del libro, non dovrebbe far sfuggire le grandi, per certi versi anche uniche chances

attualmente intrinseche al medium scrittura, e al suo correlativo atto di lettura. In merito a questa

polarità scrivere/leggere, florida come mai nella storia della cultura, si dimostra l’attuale attenzione

di tutte le cosiddette scienze umane, dalla filosofia all’antropologia culturale e alla storia, dalla

psicologia alla pedagogia, dall’estetica alla linguistica. Saranno proprio i cultori del «libro» per

eccellenza a perdere l’appuntamento con tanto cruciale kairòs, capace di restituirci intrinsecamente

la carica comunicativa propriamente biblica? Anche (e tuttavia non primariamente) in ragion di

questa felice congiuntura credo proprio non sia consentito all’esegeta, al teologo biblico, o - come si

usa dire con una formula forse non felicissima - al cultore di scienze bibliche, di lasciarsi sfuggire la

forza, la dynamis comunicativa specifica intrinseca alla sacra scrittura, che porta in se stessa - assieme

alla potenza del vangelo - anche la chiave della propria comunicazione. In un mondo dominato

dall’emozione-schock relegata ad un cumulo informe di istanti, si tratta di recuperare il senso

dell’emozione-ammirazione 21 in termini di affetto prolungato, capace di incontro reale, non

surrettiziamente virtuale, con il mondo e con l’altro anche proprio rivalutando il ruolo della lettura

nell’esperienza di fede. L’immaginazione critica sollecitata da una lettura degna di questo nome

(ovvero sorvegliata nel rendiconto dovuto al proprio testo e oggetto), ancorché certamente non unica

panacea, sembra un passaggio comunque imprescindibile, più che obbligato.22

Siffatto orientamento comporta ovviamente, in sede teologica una robusta rivisitazione della teologia

della Bibbia (per intenderci, soprattutto del trattato classico di introduzione generale alla sacra

scrittura).23 Mentre, in sede pastorale, vuole una non meno attenta rivisitazione della impostazione

21 In merito, cfr. M. LACROIX, Il culto dell’emozione, Vita e Pensiero 2002. 22 «Bisogna tornare al cuore dell’atto della lettura. Come l’atto dello scrivere esso parla della segreta costruzione della libertà

interiore»: così, per conto dei vescovi di Francia, la Commissione Permanente per l’Informazione e la Comunicazione (16.01.2002; «Il

Regno Documenti», 5/2002 187-189 (ivi 189). 23 In merito al problema cfr. FACOLTA' TEOLOGICA INTERREGIONALE, Libri Sacri e Rivelazione, Brescia ed. La Scuola 1975. Per le

linee della proposta abbozzata vedi R. VIGNOLO, Nodi di una concezione teologica della Bibbia. Considerazioni intorno al trattato

d'introduzione alla Sacra Scrittura, Teologia, XVII (1992) 248-280. Più recentemente, Scriptura secundum scripturas. Sulla teologia

del Libro: introduzione a un Seminario di Studio, «Teologia» 26 (2001) 115-119 (l’intero numero è dedicato a «La teologia del Libro»).

Inoltre G. ANGELINI, La rivelazione attestata. La Bibbia fra Testo e Teologia («Quodlibet 7») Glossa ed. Milano 1998. R. VIGNOLO,

Scriptura secundum scripturas. Sulla teologia del Libro: introduzione a un Seminario di Studio, «Teologia» 26 (2001) 115-119. Idem,

Scrittura e Teologia: il contributo di una teologia del testo e di una poetica biblica, in: ATI (a cura di F. Ardusso), Lo studio della

teologia nella formazione ecclesiale, Cinisello Balsamo, San Paolo 2001, 57-84. Più recentemente il tema trova riscontro nei convegni

dei biblisti italiani: cfr. infatti E. MANICARDI e A. PITTA (a cura di), «Spirito di Dio e Sacre Scritture nell’autotestimonianza della

Bibbia Atti della XXXV Settimana Biblica Nazionale, «Ricerche Storico Bibliche» XII (2000) nn.1-2. Inoltre, S. BARBAGLIA (a cura

di), «E fu per la mia bocca dolce come il miele» (Ez 3,3). Il testo biblico in tensione tra fissità canonica e mobilità storica (Atti dell’XI

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della lectio divina, secondo criteri di maggiore semplicità dello schema quadripartito arcinoto di

GUIGO il CERTOSINO, e di migliore aderenza alla svolta antropologica intrinseca alla sensibilità

corrente (prima ancora che alla teologia postrahneriana), bisognosa di esplicitare la propria

precomprensione, per lo più pregiudicata, per instaurare un circolo virtuoso di effettivo ascolto della

parola. 24

Per concludere, una limpida parola poetica di Kurt Marti (*1921), ultranonagenario e combattivo

pastore riformato bernese, sulla Bibbia come das gesellige – das geselligste Buch:

Dissonanze? In quantità.

Contraddizioni? Innumerevoli.

Non un libro artificioso,

ma una corrente polifonica di cento voci

(anche per gli scribi, incommensurabile).

Attraverso onde, scogli, cascate,

dove ci porta?

a casa, in salvo (io spero). ...

Libro, dunque, polifonico

socievole libro,

(della letteratura universale il più socievole):

dove UNICA

si alza e risuona

l'affidabile voce

della socievole divinità.

Convegno di studi Veterotestamentari. Torreglia ,6-8 settembre 1999), «Ricerche Storico Bibliche» XIII (2001). Anche il più

divulgativo «Parole, Spirito e Vita» 43, gennaio-giugno 2001, intitola «La Scrittura secondo le Scritture». 24 In merito alla lectio divina, disponiamo già di egregie presentazioni (E. BIANCHI, Pregare la Parola, Gribaudi Torino 2001,

ripetutamente editato e rinnovato (1a ed. 1974). A cura dello stesso autore, in collaborazione con altri, La lectio divina nella vita

religiosa, Qiqayon, Bose 1994 (in rete: http://www.atma-o-jibon.org/italiano9/bianchi_ascoltare_laparola1.htm). Inoltre M. MORFINO,

Leggere la Bibbia con la vita. La lettura esistenziale della Parola: un aspetto comune all’’ermeneutica rabbinica e patristica, Qiqayon

Bose 1990. M. MASINI, La lectio divina. Teologia, spiritualità, metodo, San Paolo Cinisello 1996. Non si potrà poi sottacere l’intensa

prassi pastorale di lectio divina promossa da C.M. MARTINI nel suo ministero episcopale a Milano.

Ferma restando la solida ricchezza di una proposta quale quella di GUIGO IL CERTOSINO, Scala Claustralium (PL 184,475-484) – una

lettura ancor oggi imprescindibile per una seria vita spirituale – ci si chiede qui se lo schema da lui proposto in quattro scansioni (lectio,

meditatio, oratio, contemplatio) oltre che spesso non adeguatamente interpretato, non risulti altresì per un verso troppo macchinoso,

per l’altro troppo oggettivista, e comunque legato all’ambiente monastico medievale del XII sec. Perlomeno nella versione più ingenua

in cui esso viene ripreso, patisce di eccessiva separazione dei quattro momenti, univocamente progressivi, interpretati come poco

realistici compartimenti stagni; inoltre si dimentica di altri fattori, p.es. del fatto che il momento iniziale di lectio veniva da Guigo

presupposto prodursi a voce alta, quindi implicante un impegno emotivo-affettivo del lettore infinitamente più pronunciato della usuale

lettura silente, a voce spenta. A modesto avviso dello scrivente, anche l’eventuale prolungamento (o sostituzione) della contemplatio

in termini di più concrete proposte quali la prassi e il discernimento (actio, discretio ecc.), altro non fa che complicare ulteriormente

la vita al semplice cristiano, caricato di un itinerario sempre più complesso, ingombrante, e scarsamente praticabile abitualmente in

troppa ampiezza d’orizzonte. Ritengo più proficua l’impostazione illustratami a voce, in più d’una circostanza, da B. STANDAERT (a

propria volta dichiarantesi debitore dell’esperienza di missionari a Vigan, piccolo centro delle Filippine), che suggerisce uno schema

tripartito, articolantesi in reazione, ascolto, risposta (reactio, auditus, responsio).

Schematicamente si tratta di far seguire alla lettura:

a/ anzitutto una reactio, più diretta immediata, anche superficiale, in cui il lettore espone ciò in cui si è sentito (ovvero non si è sentito)

toccare dal testo. Piuttosto che offrire lo sforzo (che potrebbe rivelarsi prematuro, artificioso) di una ponderata e attenta meditatio, non

è infatti forse meglio lasciare uscire tutta la propria più immediata precomprensione del testo accostato, unitamente anche agli

immancabili pregiudizi? Qui non sarebbe solo consentito, ma addirittura consigliato esporsi nei termini più azzardati possibile, perfino

equivocare il contenuto del testo.

2/ Solo in un secondo momento interviene un vero e proprio esercizio di auditus, di ascolto attento, più puro e vero (mettendo tra

parentesi tutte le personali reazioni immediate, la domanda di rito potrebbe suonare: «cosa veramente mi dice questo testo?» Oppure,

più direttamente: «cosa mi dici veramente tu, Signore?»).

3/ Quanto al terzo momento denominabile responsio, corrisponderebbe alla questione: «come rispondo io a questa testimonianza?»,

ovvero, di nuovo più direttamente «cosa ti rispondo io, Signore?». Non converrà lasciar a questa responsio, di volta in volta colorarsi

più in oratio, o in contemplatio, ovvero piuttosto in actio, o in discretio spirituum, concedendo allo Spirito la forza di soffiare come e

dove vuole, senza la pretesa di sottoporlo a pianificata programmazione (e a sicura frustrazione, per non saper di fatto quasi mai

assolvere nello spazio limitato di una sola lectio allo svolgimento effettivo di così tante implacabili voci di agenda?). In merito a

questo modello di lectio divina, rimando al mio Un profeta tra umido e secco. Sindrome e terapia del risentimento nel libro di Giona

(« Contemplatio » 31), Glossa ed. Milano 2013, 39-62).

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ALLEGATO – IL VANGELO DI GIOVANNI MEMORIA TESTIMONIALE DI GESU’, DATORE DELLO SPIRITO

PROSPETTO DELL’INTERO VANGELO*

PROLOGO

- prologo innico 1,1-18 GBattista 1,7-8.15

- prologo narrativo 1,19 - 2,12 GBattista 1,19.32.34

CRESCENDO

(2,13 - 4,54) homo quidam 2,25

Gesù 3,11; 4,44

GBattista 3,26.32-33

Discepoli di GBattista 3,28

La Samaritana 4,39

CRISI E RIFIUTO

(5,1 - 10,42) Gesù 5,31; 7,7; 8,13-14.18

Il Padre 5,32.37; 8,18

GBattista 5,33-36; cf. 10,41

Le opere 5,36; 10,25

Le scritture 5,39; cf 5,45-47: Mosè

INTERMEZZO

(11,1 - 12,50) Le folle 12,17

TESTAMENTO

(13,1 - 17,26) Gesù 13,21

Lo Spirito… 15,26

…insieme ai Discepoli 15,27

COMPIMENTO

(17,1 - 19,42) Gesù davanti a Pilato 18,37

Il DAmato sotto la croce 19,35

RICONOSCIMENTO

(20,1 - 21,24.25) Il DAmato «autore» del QV,

fondatore della comunità 21,24

* In merito mi permetto rimandare a: R. VIGNOLO, Il Vangelo secondo Giovanni, in: La Bibbia. I Vangeli (a cura di G. Mancuso), Oscar Mondadori,

Milano 2000, 221-288. IDEM, La dottrina della testimonianza nel Vangelo di Giovanni, in: G. ANGELINI – S. UBBIALI (a cura di), La testimonianza

cristiana (Quodlibet) Glossa ed. 2007.