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1 Abbazia di Fontanella, 24 settembre 2016 IL TEMA DELLA CURA NEL CRISTIANESIMO Introduzione Ha scritto papa Francesco: “Si è sviluppata una globalizzazione dell’indifferenza. Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al dramma degli altri, né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete” (Evangelii gaudium 53). “Globalizzazione dell’indifferenza”; ma altro è il progetto di Dio sull’uomo. Luigi Zoja in un libro dal titolo emblematico, La morte del prossimo (Einaudi, Torino 2009), ha evidenziato come la nostra società tecnologica elimina sempre più la dimensione della prossimità e crea una distanza sempre più grande tra gli esseri umani. “Impugnando un bastone posso sentire se tocco leggermente il mio vicino o se lo percuoto facendogli male. Ma se impugno i comandi di un aereo posso bombardare masse di cittadini senza avvertire niente della loro sofferenza” (Ibid. pp. 20-21).

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Abbazia di Fontanella, 24 settembre 2016

IL TEMA DELLA CURA NEL CRISTIANESIMO

Introduzione

Ha scritto papa Francesco: “Si è sviluppata una globalizzazione

dell’indifferenza. Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare

compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al

dramma degli altri, né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una

responsabilità a noi estranea che non ci compete” (Evangelii gaudium 53).

“Globalizzazione dell’indifferenza”; ma altro è il progetto di Dio sull’uomo.

Luigi Zoja in un libro dal titolo emblematico, La morte del prossimo (Einaudi, Torino

2009), ha evidenziato come la nostra società tecnologica elimina sempre più la

dimensione della prossimità e crea una distanza sempre più grande tra gli esseri

umani. “Impugnando un bastone posso sentire se tocco leggermente il mio vicino o se

lo percuoto facendogli male. Ma se impugno i comandi di un aereo posso bombardare

masse di cittadini senza avvertire niente della loro sofferenza” (Ibid. pp. 20-21).

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Diventando estranei agli altri finiamo per diventare estranei anche a noi stessi.

Come prendersi cura di sé, come prendersi cura dell’altro? Chi è per noi l’altro di cui

siamo chiamati a prenderci cura?

1. Chi è il mio prossimo?

Parto da una parabola conosciutissima, quella che viene usualmente chiamata

“parabola del buon samaritano”, l’unico passo del vangelo in cui appare (due volte) il

verbo greco epimeléomai che significa “prendersi cura di” (lo troviamo anche in 1Tm

3,5: “Se uno non sa guidare la propria famiglia, come potrà aver cura della chiesa di

Dio?). La parabola viene raccontata da Gesù a un dottore della Legge, uno che

conosceva bene la Scrittura e tutte le sue interpretazioni.

È importante considerare il contesto immediato in cui l’evangelista ha

collocato questo episodio. Gesù ha appena riconosciuto (non: “ringraziato”) che

l’evangelo è nascosto ai sapienti e agli intellettuali ed è rivelato ai piccoli. Subito

dopo entra in scena lo scriba, uno che sa (e infatti Gesù non corregge quello che dice;

anzi, lo approva). La sua domanda è subdola – Luca dice che “si alzò per tentarlo” -;

vorrebbe coglierlo in fallo, forse spera che si lasci sfuggire un parere in contrasto con

la tradizione. “Che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”. Gesù risponde a sua

volta con una domanda, vuole che sia lo scriba a rispondere: “Che cosa sta scritto

nella Legge? Che cosa vi leggi?”. Lo scriba dà una risposta che ci aspetteremmo di

trovare soltanto sulla bocca di Gesù, come accade ad esempio nel passo di Mc 12,28-

34. Lo scriba coglie l’essenziale della Legge: l’amore per Dio e l’amore per il

prossimo e Gesù gli dice: “Hai risposto bene. Fa’ questo e vivrai”. Fa’ ciò che sai così

bene, mettilo in pratica, traducilo nella tua esistenza quotidiana.

A questo punto Luca pone un’altra domanda dello scriba introdotta

dall’annotazione: “Quello volendo giustificarsi”; sa di non essere “un giusto”, sa che

in lui non vi è coerenza tra parola e vita, cerca di “addomesticare” il comandamento di

Dio, di abbassarlo a propria misura. “Chi è mio prossimo?”. Era, a quei tempi, una

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questione dibattuta nelle scuole rabbiniche. Il prossimo che deve essere oggetto

dell’amore dell’ebreo è innanzitutto il fratello ebreo (cf. Lv 17,8.10.13; 19,34). Nelle

cerchie rabbiniche di più ampie vedute era considerato prossimo chiunque abitasse la

terra di Israele, anche l’immigrato dunque (“Quando un immigrato sta nella vostra

terra, non opprimetelo, ma sia tra voi come un fratello e lo amerai come te stesso,

perché voi foste immigrati in Egitto”, Lv 19,33-34). Ma ancora di più, secondo alcuni

testi dell’Antico Testamento, l’amore si estende al nemico: “Quando incontrerai il bue

del tuo nemico o il suo asino dispersi, tu ricondurrai al nemico l’animale, e quando

vedrai l’asino del tuo nemico venir meno sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso,

ma mettiti con lui ad aiutarlo” (Es 23,4-5).

Lo scriba vorrebbe che Gesù si pronunciasse apertamente. Fino a dove si

estende il precetto dell’amore del prossimo? Gesù in risposta racconta una storia, una

storia che conoscete tutti. C’è un uomo che scende da Gerusalemme a Gerico e lungo

la via incappa nei briganti che gli portano via tutto quello che ha, lo maltrattano e lo

lasciano a terra mezzo morto. Passa un sacerdote; probabilmente aveva appena finito

il suo turno di servizio al tempio; aveva vegliato sulla casa di Dio, ma non si piega a

vegliare su Dio che dimora in quell’uomo ferito e bisognoso. “Lo vide e passò oltre”,

(lett. “passò dall’altra parte”; “girò alla larga”). Non vuole rendersi impuro toccando

un moribondo (Lv 21,1-4: “Un sacerdote non si esporrà a diventare impuro per il

contatto con un morto, a meno che si tratti di uno dei suoi parenti più stretti”). Anche

un levita di passaggio sulla stessa strada “vide e girò al largo”. Luca non spreca molte

parole per descrivere il comportamento delle due prime figure che mette in scena. Si

ferma invece sulla terza: quella del samaritano. “Vide e ne ebbe compassione”;

dovremmo tradurre “le sue viscere furono mosse a compassione”. Il verbo greco

splanchnízomai viene usato per parlare della compassione che prova Gesù al vedere la

vedova di Nain in pianto per la morte del suo unico figlio (cf. Lc 7,13) e per

descrivere l’atteggiamento del padre misericordioso che da lontano vede il ritorno del

figlio minore (“le sue viscere furono mosse a compassione, gli corse incontro e lo

abbracciò”, Lc 15,20).

Il suo vedere è diverso da quello del sacerdote e del levita. Vede e scende

vicino a lui come il Signore dopo aver sentito il grido del suo popolo in Egitto (cf. Es

3,7-9). Il suo è il vedere di Dio che è sempre com-passionevole, è capace di divenire

compassionevole come Dio è compassionevole (cfr. Lc 6,36). “Gli si avvicinò, gli

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fasciò le ferite versandovi sopra olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo

portò in un albergo e si prese cura di lui”. Il racconto si dilunga a descrivere le azioni

del samaritano quasi a indicare che non si tratta di un singolo atto di generosità, ma di

un atteggiamento che è frutto di attenzione all’altro, di un amore intelligente che sa

prevenire i bisogni del sofferente, di un interessamento colmo di amorosa

sollecitudine (le sue azioni vengono descritte con sei verbi in due versetti). Dopo aver

provveduto ai bisogni immediati pensa al suo futuro; dà una somma all’albergatore e

gli raccomanda: “Abbi cura di lui, ciò che spenderai in più te lo darò al mio ritorno”;

viene impiegato di nuovo il verbo epimeléomai. Il samaritano non solo si prende cura

in prima persona di quell’uomo sofferente, ma coinvolge anche altri, in questo caso

l’albergatore.

A differenza del sacerdote e del levita che, visto l’uomo ferito, passano

dall’altra parte della strada, il samaritano accetta di incontrare l’uomo moribondo e di

lasciarsi scomodare da lui, non è indifferente, riconosce in lui un fratello, fratello

anche nella sofferenza. Ci vuole coraggio per accettare di incontrare l’altro,

soprattutto quando è nel bisogno … il coraggio di guardarci in faccia, il coraggio di

riconoscere che la sofferenza dell’altro fa da specchio alla nostra, che la debolezza, la

solitudine dell’altro ci rinvia alla nostra solitudine, alla nostra impotenza. La cura

dell’altro: forse saremmo disposti a praticarla a patto che fosse un atto di onnipotenza

che risolve tutto come per magia, e invece ci scontriamo con i nostri limiti, con la

nostra fatica. Per ascoltare l’altro, occorre aver imparato ad ascoltare il primo altro

che incontriamo: noi stessi. Per arrivare a “fare compassione” (Lc 10,37; non

“provare” o “sentire”, ma mettere in pratica la compassione: fecit misericordiam,

traduce Girolamo), occorre riconoscere tutto ciò che dentro di noi si oppone alla

solidarietà. Per saper aver cura degli altri occorre saper aver cura di noi (ma su questo

ritorneremo più avanti).

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“Chi di questi tre ti sembra sia diventato prossimo di colui che è caduto nelle

mani dei briganti?”. La domanda non è più: “Chi è il mio prossimo?”, ma: “Di chi sei

disposto a diventare prossimo?”. Dipende da te, non dall’altro. Sei tu che devi farti

prossimo all’altro. È una parabola che sfida ogni nostro particolarismo ed

esclusivismo. Dicendo: “Hai risposto bene (“correttamente”, in greco: orthôs); fa’

questo e vivrai” (Lc 10,28), Gesù incita il dottore della Legge a passare da un sapere

sterile alla realizzazione della parola di Dio. Cerca di essere tu una parola di Dio nel

mondo.

2. “Beato chi discerne il Povero” (Sal 41,1)

L’altro ci dà fastidio, ci interroga, mette in discussione le nostre sicure

abitudini, i nostri pretesi diritti. Incontrare l’altro è morire per rinascere; è una

ricchezza se accetto di morire al mio egoismo, alla mia pretesa di essere il centro della

realtà. L’altro è altro da me, è un simile dissimile. Il dono più grande che possiamo

fargli è riconoscere che esiste e che è altro da me.

Il salmo 41 al v. 1 nella versione ebraica suona: “Beato chi ha cura del

povero”, ma nella traduzione greca dei LXX si dice una cosa un po’ diversa: “Beato

chi discerne il povero”, e dovremmo scrivere il Povero con la maiuscola. Beato cioè

chi sa riconoscere nel povero il volto del Signore. A volte ci limitiamo, come dice

Ignazio di Antiochia, a essere cristiani “apparenti”; a proposito dei doceti, gruppi di

cristiani i quali affermavano che in Gesù Dio si era fatto uomo soltanto “in

apparenza”, dice: “A costoro non importa dell’amore, né della vedova, né dell’orfano,

né di chi è nel dolore, né di colui che è in catene o che è stato liberato, né di colui che

ha fame e sete! Si tengono lontani dall’eucarestia e dalla preghiera, perché non

confessano che l’eucarestia è carne del Salvatore nostro Gesù Cristo” (Lettera agli

smirnesi 6,2-7,1). “Si tengono lontani dall’eucarestia”: in greco “si tengono lontani

dall’agape”, che significa sia l’amore che l’eucarestia. C’è una confusione

intenzionale tra i due termini. L’eucarestia è un magistero di amore, è il luogo in cui

impariamo che cosa significa amare l’altro come il Signore ci ha amati, un amore

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gratuito fino al dono per della vita. Non dimentichiamo che nel vangelo di Giovanni

al posto dell’eucarestia viene narrata la lavanda dei piedi. Ireneo di Lione chiedeva

con forza che l’eucaristia e la vita non fossero disgiunte, ma armonizzate: “Il nostro

modo di pensare sia in accordo con l’eucaristia e l’eucaristia plasmi il nostro modo di

pensare” (Ireneo di Lione, Contro le eresie IV,18,5). E oggi? Abbiamo questa

consapevolezza?

Dove troviamo la forza di amare, di prenderci cura dell’altro? Attingendo

all’amore che abbiamo ricevuto. La chiesa, ha detto un giorno papa Francesco, è “un

ospedale da campo”, un luogo di rifugio per chi è ferito, bisognoso, un luogo in cui si

sperimenta l’accoglienza, l’amore gratuito, e si impara a riversare quest’amore sugli

altri. Giovanni Crisostomo nel V secolo diceva che la chiesa è “una farmacia”, nella

quale ciascuno può trovare la medicina adatta al suo male. Ma anche nella chiesa di

Bergamo si parla di “curato” per indicare il presbitero che coadiuva il parroco

(“parroco” = straniero, è colui che presiede la comunità di cristiani, stranieri in questo

mondo, viandanti e pellegrini verso il Regno). Si chiama “curato” perché deputato a

esercitare il ministero della cura della vita. Chi ha sperimentato e conosciuto l’amore,

un amore che viene da Dio è inviato a riversarlo sugli altri.

Quest’amorosa cura del prossimo non è buonismo, non è un singolo gesto di

buon cuore. L’abbiamo visto nella parabola di Luca; esige vedere, pensare, agire. Nel

più antico catechismo cristiano (entro la fine del I secolo) troviamo questo

ammonimento: “Sudi la tua elemosina nelle tue mani finché tu non sappia a chi darla”

(Didachè 1,6). Origene nel III secolo invitava l’oikónomos della comunità cristiana ad

andare a cercare i poveri, perché, faceva osservare, molti si vergognano e non hanno il

coraggio di presentarsi a chiedere aiuto.

Richiederebbe troppo tempo enumerare anche solo i testi più significativi dei

padri della chiesa sul tema della cura dei poveri. Ne ricordo soltanto alcuni. La

Didascalia degli Apostoli (inizio III secolo) al c. 4,5 ammonisce: “Vescovi e diaconi,

abbiate cura dell’altare di Cristo, cioè delle vedove e degli orfani”. Gregorio di Nissa

esorta a non disprezzare i poveri con queste parole: “Considera chi sono e scoprirai la

loro grandezza: hanno il volto del Salvatore” (Discorso 1). Da vedere a volte c’è solo

il dolore, la miseria materiale e spirituale, un’estrema povertà declinata in tutte le sue

forme. Solo nella fede possiamo credere che nel povero regna il Signore e che siamo

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chiamati a servirlo e ad amarlo. “Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non tollerare che

sia ignudo! Dopo averlo ornato qui, in chiesa, con stoffe d’oro, non permettere che

fuori muoia di freddo … Il corpo di Cristo che sta sull’altare non ha bisogno di

mantelli, ma di un cuore puro quello che sta fuori, invece, ha bisogno di molta cura”

(Om. su Matteo 50,3), dice Giovanni Crisostomo.

Infiniti sono anche i testi della tradizione patristica che ricordano che “la terra

è di Dio”. “Il mio e il tuo sono fredde parole che introducono nel mondo infinite

guerre” (Om. su 1Cor 11,19). “Non abbiamo la proprietà di alcun bene, né il dominio

assoluto, ma soltanto l’uso … Il termine (greco) “ricchezze” proviene dal verbo

‘usare’, non dall’espressione ‘essere padroni’; i beni li abbiamo in uso, non in

proprietà” (Giovanni Crisostomo, Om. su 1Tm 11,2-3). Basilio quando cita il testo di

1Cor 7,31 che nelle nostre versioni suona: “Il tempo si è fatto breve; d’ora innanzi

quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero … quelli che usano i beni di

questo mondo, come se non li usassero”, segue un manoscritto diverso (oppure cita a

memoria variando il testo originale) e dice: “usino di questo mondo senza abusarne”

(Regola diffusa 20,3). Si aprirebbe qui il tema della cura del creato; usare la terra

senza farne un cattivo uso. Aver cura dell’altro è anche non sfruttare in modo iniquo

le risorse della sua terra, custodire il creato per le generazioni future …

Nel corso del tempo si sono moltiplicate all’interno della tradizione cristiana

delle liste di opere di misericordia “corporali” e “spirituali” che sono giunte a una

sistematizzazione verso il XII secolo. Queste liste non sono esaustive, ma soltanto

indicative, intendono essere delle sollecitazioni indirizzate alla creatività e

all’intelligenza dei cristiani; in ogni tempo, in ogni situazione vi è un gesto di cura

profetico.

3. Veglia su di te

Per aver cura dell’altro occorre innanzitutto saper avere cura di sé. Ascolto e

cura di sé, cioè ascolto e cura della prima persona con la quale ci incontriamo!

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In certo senso noi siamo un dono che Dio ha fatto a noi stessi e di cui

dobbiamo avere cura. Io non sono “mia”; sono stata donata a me stessa da Dio

attraverso mediazioni umane (mio padre, mia madre); ho ricevuto la cura, più o meno

intelligente e premurosa, di insegnanti, di preti o di altri adulti, ma a un certo punto

devo assumermi la cura di me per collaborare con quel Dio che mi ha pensato, voluto,

inviato nel mondo in un luogo e in un tempo preciso della storia per essere

trasparenza del suo amore con la mia esistenza, con la mia carne. Origene afferma: “A

che serve confessare che Cristo nasce nella carne, se non nasce nella tua carne?” (Om.

sulla Genesi 3,7).

“Il Creatore ha assegnato all’uomo come compito il corpo”, ha detto Giovanni

Paolo II (Uomo e donna lo creò. Catechesi sull’amore umano, Roma 19872, p. 255).

Vegliare su di sé, aver cura di sé per diventare uomini e donne secondo il progetto di

Dio, uomini e donne che vivono nella loro carne l’amore per l’altro.

Sono creato a immagine e somiglianza di Dio. L’Antico Testamento proibisce

di produrre immagini di Dio perché l’immagine di Dio c’è già: l’essere umano. Siamo

chiamati a collaborare con Dio per diventare uomini e donne in pienezza; quando

JHWH dice: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza” (Gen 1,26),

secondo alcuni esegeti, si rivolge all’essere umano. Si tratta di un plurale; non è

soltanto Dio che lavora, ma anche l’uomo/la donna deve fare la propria parte per

portare a compimento se stesso. È creato a immagine di Dio: l’immagine c’è e non

viene mai meno, può essere nascosta, offuscata dal peccato, dall’ignoranza, dalla

stupidità, ma resta comunque. Siamo chiamati a portare a compimento la somiglianza:

questo dipende da noi, è la nostra parte di lavoro; se vogliamo, se collaboriamo

possiamo poco per volta diventare un po’ più somiglianti a Cristo, l’unica vera,

perfetta immagine del Padre.

Aver cura di sé significa anzitutto conoscere se stessi: è un cammino che non

finisce finché si è in vita. Ogni fase della vita mi impone un ri-aggiustamento della

mia conoscenza di me stesso.

L’essere umano è capace di interrogarsi. Si interroga nel rapporto con se

stesso: “Chi sono io in verità? Che cosa voglio? Dove vado? Perché sono? Che cosa

mi sta a cuore?”. Si interroga sul rapporto con gli altri: “Perché agisco così? Perché

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quella persona mi incute soggezione o mi fa arrabbiare o desta in me sentimenti di

ostilità? Perché provo invidia o gelosia?”.

Si interroga dinanzi agli eventi: “Perché è accaduto questo? Come mi devo

comportare? Perché ho reagito in questo modo? Come posso viverlo bene, integrarlo

nel mio cammino umano anche se è un evento spiacevole, negativo? Che devo fare

delle mie delusioni, del fallimento, dello scacco, della malattia?”.

Chi impara a interrogarsi non subisce la vita in modo passivo, ma la accoglie,

la orienta. Certamente oltre a interrogarsi di fronte agli eventi personali, l’essere

umano si interroga anche dinanzi agli eventi della storia: “Perché la guerra? La fame,

le carestie? Perché l’ingiustizia?”. Aver cura di sé e dell’altro è atto eminentemente

“politico”, nel senso che riguarda la pólis, la comunità umana. Non m limito all’aiuto

concreto e immediato al povero, ma mi impegno per una società in cui non vi siano

più poveri!

Ma non ci si interroga soltanto sul negativo. Si cerca un perché e un come

anche per l’amicizia, l’amore, le cose bellezze, l’arte ... Come farle durare, come

goderne? L’arte in tutte le sue forme – musica, arti visive, letteratura, ecc. – sono

espressione di una vita interiore, di una ricerca di senso, di contemplazione del bello.

Queste domande sempre ripetute ci accompagnano in certa misura per tutto il

corso della nostra vita e che si pongono con più forza nei momenti di “svolta”, nelle

tappe che segnano la nostra esistenza. Fanno parte di un cammino di

“umanizzazione”. Una risposta occorre cercare di darla, o per lo meno occorre

imparare a convivere con queste domande, a lasciare che ci inquietino, che ci tengano

svegli. Il rischio dell’assopimento è grande.

Chi si conosce è padrone di sé e allora può mettersi liberamente e per amore a

servizio di Dio e degli altri. Il sal 119,109 nella versione greca della LXX suona: “La

mia anima è sempre nelle mie mani”, cioè vigilo su di me, sul mio cuore. In una

splendida omelia a commento dell’ammonimento di Dt 15,9: “Veglia su di te”,

Basilio dice: “Veglia su te stesso, veglia non su quello che è tuo, o su quello che sta

attorno a te, ma su te stesso soltanto … Poiché ciascuno di noi è più facilmente incline

a interessarsi delle cose altrui invece che meditare sulle proprie, affinché non abbiamo

ad ammalarci di questa malattia il Signore ci dice: ‘Smetti di interessarti della

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cattiveria del tale o del tal altro; non dar tempo ai tuoi pensieri di esaminare le

debolezze altrui, ma veglia su di te, cioè volgi gli occhi del cuore a scrutare te stesso’”

(Veglia su di te 3.5).

Conoscere se stessi non è sempre facile, non è sempre “bello”. A volte

facciamo di tutto per non vederci, per fuggire da noi stessi, per non riconoscere che

costantemente ci perdiamo e costantemente abbiamo bisogno di essere salvati. La via

di fuga per eccellenza secondo la tradizione cristiana è cedere all’acedia, alla

sonnolenza spirituale, lasciarsi vivere invece che vivere. Si cede alla routine, senza

farsi troppe domande e, poco a poco, ci sia lascia vincere dall’indifferenza.

Diventiamo incapaci di ascoltare noi stessi (ci fa paura); diventiamo incapaci di

ascoltare gli altri (ci fa molta paura).

Interrogarci sulle motivazioni che ci spingono ad agire per non far da padroni

sugli altri magari con la scusa di far loro del bene (cf. 2Cor 1,24).

Un’adeguata conoscenza di sé ci consente di non fare da padroni sugli altri

(2Cor 1,24), magari con la scusa d far loro del bene; di non seducere, cioè di non

“trascinare verso di sé, legare a sé, con un’azione che imprigiona (“i miei poveri”, “i

miei malati”, “i miei giovani”, con una forte accentuazione di quell’aggettivo

possessivo). Finiamo per diventare come Marta padroni del nostro servizio (Lc 10,

38-42). Si tratta invece di educere, cioè di far uscire verso la relazione con Dio, con

gli altri, con la realtà.

Serafino di Sarov amava dire: “Trova la pace e migliaia di uomini presso di te

troveranno salvezza”. È questo il primo modo di venire in aiuto all’altro; essere

uomini e donne di pace, uomini e donne che hanno fatto pace con se stessi.

4. Un’opera di carità possibile a tutti

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Abbiamo parlato di liste di opere di carità. Molto presto (già con Origene,

prima metà del III secolo) alle liste di opere corporali si aggiunsero le liste di opere

spirituali. La lista tradizionale delle opere di misericordia corporali è la seguente:

1. Dare da mangiare agli affamati

2. Dare da bere agli assetati

3. Vestire gli ignudi

4. Dare ospitalità ai pellegrini

5. Visitare gli infermi

6. Visitare i carcerati

7. Seppellire i morti

E la lista delle opere di misericordia spirituali è la seguente:

1. Consigliare i dubbiosi

2. Insegnare agli ignoranti

3. Ammonire i peccatori

4. Consolare gli afflitti

5. Perdonare le offese

6. Sopportare pazientemente le persone moleste

7. Pregare Dio per i vivi e per i morti

Non possiamo fermarci a commentare queste liste, ma vorrei ricordare quello

che dice Cesario di Arles: “Ci sono due forme di elemosina: una del cuore, l’altra del

denaro … A volte tu vorresti dare qualcosa a un povero, ma non hai niente; invece

perdonare lo puoi sempre fare, se solo lo vuoi” (Discorsi al popolo 38,5).

L’amore cristiano non è soltanto simpatia, amicizia, non è l’amore passionale

che posso provare per qualcuno. L’amore cristiano discende dall’alto, è dono di Dio, è

un carisma, è quell’amore che Dio ha per noi, che si riversa nei nostri cuori e che da

noi trabocca all’esterno.

La cura dell’altro giunge all’amore per il nemico; l’amore non è aggressivo,

non tiene conto del male ricevuto, ma sa andare oltre, sa perdonare. Già nell’Antico

Testamento troviamo l’invito a perdonare il nemico. Si pensi alla storia di Giuseppe.

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È una storia di rapporti fraterni “sbagliati”, se così si può dire. Giuseppe non è un

modello di santo; provoca i fratelli con i suoi sogni in cui si vede come il più grande

di tutti, davanti al quale tutti si devono piegare. È il più amato dal padre e sa sfruttare

questo amore a suo vantaggio contro gli altri. E gli altri fratelli non hanno pazienza,

non lo sopportano più, fino a decidere di ucciderlo. Poi interviene un fratello e li

convince a venderlo come schiavo invece di ucciderlo. E Giuseppe in Egitto

attraversa una serie di vicende dolorose che vincono il suo orgoglio; grazie alla sua

abilità e alla sua intelligenza fa strada fino a diventare viceré dell’Egitto. Quando la

carestia si abbatte sulla terra di Canaan, il vecchio Giacobbe manda i suoi figli in

Egitto a cercare del grano e Giuseppe riconosce i suoi fratelli. Poco tempo dopo si

farà riconoscere, svelerà: “Io sono Giuseppe, vostro fratello che voi avete venduto

come schiavo in Egitto” e farà venire in Egitto tutta la sua famiglia. Dopo la morte di

Giacobbe, i fratelli temono che ora, in assenza del padre che in qualche modo li

difendeva, giunga per Giuseppe l’ora della vendetta per tutto il male che gli hanno

fatto patire. Hanno paura, ma Giuseppe dice loro: “Non temete. Sono io forse al posto

di Dio? Se voi avevate pensate del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a

un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso”

(Gen 50,19-20). Giuseppe non tiene conto del male ricevuto dai suoi fratelli, anzi sa

trasformarlo, trasfigurare il male che ha patito da parte dei fratelli, ricavando da quella

storia che è stata così dolorosa, qualcosa di buono, di positivo, sa trarre il bene anche

dal male. A volte è proprio così; se viviamo tutto con bontà e pazienza scopriamo che

anche da quello che è andato male, dal dolore, dalla sofferenza possiamo ricavare un

insegnamento, imparare un po’ di bontà.

L’Antico Testamento, l’abbiamo ricordato all’inizio del nostro incontro, esorta

all’amore per lo straniero, alla compassione per il nemico. Nel Nuovo Testamento

Gesù dona il comandamento nuovo: “Amatevi come io vi ho amati. Da questo tutti

sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,34-35).

Il modello dell’amore, il maestro dell’amore è Gesù stesso, è la sua vita.

Se il cristiano, vivendo lo spirito delle beatitudini, conosce opposizioni, rifiuti,

persecuzioni, d’altro lato non deve essere lui a entrare in conflitto con gli altri, crearsi

dei nemici. È nemico di nessuno, ma ha molti nemici. Il suo amore per chi gli ha fatto

del male è generato dall’amore che Dio ha avuto per lui “mentre ancora gli era

nemico” (Rm 5.8.10). Dobbiamo amare fino alla fine, come ha amato Gesù.

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Occorre uscire dalla demonizzazione dell’altro: il pagano, lo straniero, l’ebreo,

l’eretico, il musulmano sono alcuni dei visi storici in cui i cristiani hanno incarnato il

nemico. Nella Tertio millennio adveniente Giovanni Paolo II ricordava

“l’acquiescenza manifestata specie in alcuni secoli a metodi di intolleranza e persino

di violenza nel servizio della verità”. Il vero nemico è in noi e non fuori di noi e la

lotta che dobbiamo ingaggiare è quella contro l’assolutizzazione del nostro io. I padri

giungono a dire che il nemico può diventare nostro maestro (Zosima, pp. 103. 124-

125). Quando qualcuno ci fa del male, noi che ci credevamo tanto buoni, scopriamo di

avere dentro di noi desideri di vendetta, tanta rabbia, il desiderio cattivo di farla

pagare all’altro. In questo il nemico ci fa da maestro: ci fa toccare con mano che non

siamo buoni, ci fa conoscere i sentimenti che abbiamo nel cuore, ci offre un’occasione

per convertirci.

“L’amore non tiene conto del male ricevuto … tutto scusa, tutto crede, tutto

spera, tutto sopporta” (1Cor 13,5.7). Perdonare è qualcosa di gratuito, è un dono che

noi facciamo a chi ci ha fatto del male. É un atto creativo che ci trasforma da

prigionieri del passato in uomini liberi, in pace con le memorie del passato. Solo chi è

libero sa perdonare, perché il perdono non è una re-azione, una risposta vincolata,

predeterminata, ma è un atto nuovo, non condizionato da ciò che l’ha provocato; è

spezzare la logica del taglione, il desiderio di vendetta. Il perdono è una risposta a una

sofferenza che si subisce per mano di qualcun altro. Essa esige, dunque, l’onesto

riconoscimento che stiamo soffrendo a motivo di un altro dal quale aspettavamo

amore. “Proprio da lui! Proprio da lei!”. Ci è più difficile perdonare le persone che

amiamo di più. Se patiamo ingiustizia da parte di un estraneo, la sopportiamo più

facilmente. Il perdono è rivolto a coloro che non scusiamo, perché capiamo che in

qualche modo sono responsabili dell’offesa che stiamo subendo. Siamo disillusi, ci

attendevamo molto da alcune persone, e invece ... Ci sentiamo vittime di gesti di

slealtà e di tradimento.

Il perdono è un atto intenzionale. Dobbiamo volerlo, porre dei gesti, fare un

cammino. Non è un atto, è un processo, un cammino che richiede ripetuti atti di

volontà. Tante volte non abbiamo perdonato il passato, anche un lontano passato: i

nostri genitori, un torto subito nell’infanzia ... Perdonare significa ricordare il passato,

che non vuol dire ripetere mentalmente il passato, ma far riemergere la memoria

dell’atto per convertirla. L’oblio non cancella, bensì seppellisce il ricordo indesiderato

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nella profondità della memoria, dov’è inaccessibile alla coscienza e produce

distruzioni tanto più gravi quanto più nascoste. Dimenticare è un modo per non

affrontare un ricordo fastidioso o relegarlo nel passato.

Gesù non chiede di dimenticare, chiede molto di più. Ci sono ferite che non è

possibile dimenticare, perché dopo anni sanguinano ancora. C’è il rischio di essere

dominati dall’odio, dall’avversione, ma proprio in quest’odio per chi mi ha fatto del

male gli consento di diventare signore e padrone della mia vita. La tragedia più

grande dell’essere oggetto del male è il fatto che facilmente la vittima viene

trasformata in peccatore, e per questa via si accresce la spirale della violenza. Non c’è

da meravigliarsi se i giudei dissero che Gesù stava bestemmiando quando perdonò i

peccati. Umanamente il perdono sincero e incondizionato sembra al di là delle nostre

possibilità naturali. E allora, come perdonare? Cessando di guardare a ciò che mi ha

fatto l’altro per guardare a ciò che ha fatto per me l’Altro, il Signore. Cristo che abita

in me può perdonare, lui che ha concluso la sua vita terrena perdonando (Lc 23,34:

“Padre, perdona loro; non sanno quello che fanno”). Hanno ucciso Gesù, ma non il

potere dell’amore sconfinato. Gesù non chiede il risarcimento delle offese fatte contro

di lui, infrange la legge del taglione e va incontro alla morte liberamente, vivendola

non come condanna, ma come dono d’amore.

È iniziata una nuova via per far fronte al male. La base del rapporto non è più

costituita dalle offese che ci procuriamo reciprocamente, ma dall’amore che è capace

di vincere il dolore e l’amarezza delle offese.

A volte uno non perdona altri perché non sa perdonare a se stesso di aver

permesso che l’altro lo offendesse. Perdonarsi: accettare di essere persone fragili,

limitate, che sbagliano, accettare i propri errori con serenità senza rabbia contro di sé,

avere comprensione e misericordia per se stessi, aver cura delle nostre ferite e delle

nostre fragilità.

5. Ancora sulla parabola del buon samaritano: un personaggio di cui si

parla poco

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Ritorniamo per un momento alla parabola del buon samaritano dalla quale

abbiamo cercato di lasciarci interrogare. La tradizione patristica ha visto nel buon

samaritano Gesù, che si è chinato da fratello sull’uomo ferito, sull’Adamo ferito dal

peccato, per curarlo. I padri facevano dunque una lettura cristologica della parabola. Il

buon samaritano è Cristo e il discepolo è chiamato a imitare il suo atteggiamento così

come al momento della lavanda dei piedi nel vangelo di Giovanni Gesù dice: “Se io

che sono maestro ho lavato i piedi a voi che siete i miei discepoli, quanto più dovete

lavarveli voi gli uni gli altri” (Gv 13,1-20).

Ma io vi propongo un’altra lettura che può essere accostata a quelle che già

abbiamo fatto. C’è nella parabola un personaggio di cui non si parla mai e di cui la

parabola stessa dice molto poco. Certo, al centro del racconto vi è il buon samaritano,

figura positiva, che attira i nostri sguardi e che ci è proposto come modello da imitare.

Vi sono poi le due figure negative del sacerdote e del levita, due figure che in qualche

modo ci abitano. Dobbiamo saperci riconoscere in esse e iniziare un movimento di

conversione per diventare buon samaritano, per diventare prossimo – è un cammino,

un movimento, una dinamica che non si risolve una volta per tutte -. Ma in realtà tutta

la parabola ruota intorno a quell’uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico e che

fu lasciato privo di tutto e moribondo da una banda di malviventi. Di quest’uomo non

conosciamo il nome, non sappiamo nemmeno se fosse ebreo, non è detto se si trattava

di una vittima innocente o se quello che è accaduto è semplicemente un regolamento

di conti. Quell’uomo anonimo sembra ridotto a oggetto, preso, gettato, trasportato. È

semplicemente un uomo che è nel bisogno, un uomo che soffre.

Io vorrei ripercorrere la parabola dal punto di vista di quest’uomo, in cui si

potrebbe rispecchiare ciascuno di noi. A un certo punto del suo cammino, della sua

storia, della sua vicenda umana, potremmo dire, vede delle mani tese su di lui per

derubarlo, per fargli del male, per togliergli un po’ della sua vita fino a lasciarlo

mezzo morto. Chissà quanto si sarà spaventato! Mani ostili, mani nemiche.

Probabilmente senza un motivo. La vita, a volte, si presenta con queste mani ostili che

ci gettano a terra: giunge la malattia, la morte di una persona cara, situazioni avverse

… Mani ostili che si abbattono su di noi. E quell’uomo è a terra, nel bisogno. Vede

passare il sacerdote e il levita, o meglio, mi verrebbe da dire, vede i tacchi delle loro

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scarpe che se ne vanno via rapidamente! Forse li conosceva, forse si salutavano

quando lui stava ritto in piedi. Adesso è prostrato a terra, fagotto di sangue e di

stracci; non è dignitoso fermarsi a parlare con lui; è una perdita di tempo, c’è altro da

fare di più importante, ci penserà qualchedun altro. Perché dovrei occuparmene

proprio io? E poi quelle ferite da dove vengono? Forse è un poco di buono, non è così

innocente come vuol farci credere. E quell’uomo è solo, solo nel momento del

bisogno, della sofferenza, come spesso ci troviamo noi nel momento del nostro

bisogno. Spesso la tentazione in questi casi è quella di non fidarsi più di nessuno; di

concludere che tutti sono come il sacerdote e il levita, tutti sono ipocriti e bugiardi.

Tentazione di chiudere le porte a chiunque … E invece quell’uomo si fida di quelle

mani tese su di lui, crede che non si tratta più di mani tese per fargli del male, mani

ostili; spera, crede che possono essere mani tese per aiutarlo, per venirgli incontro. Ha

fede, fa fiducia, si lascia aiutare. Ha quella fede/fiducia che tante volte noi non

riusciamo più ad avere; si lascia toccare là dove è ferito, lascia che sia versato olio e

vino per lenire le sue piaghe e si lascia portare.

Non esiste soltanto la cura che siamo chiamati ad avere per gli altri; noi sani

verso i malati; noi ricchi verso i poveri; noi giusti verso i peccatori … Chi di noi può

affermare di non avere ferite, di non conoscere forme di povertà, di solitudine, di

peccato? Anche noi non possiamo fare a meno della cura degli altri, ma non sempre

sappiamo riconoscere che il Signore ci invia “mani” premurose per sostenerci e

aiutarci, non sempre sappiamo accettare la cura che gli altri ci offrono con umiltà e

gratitudine.

Forse nel corso della nostra vita abbiamo avuto cura di chi era nel bisogno, ma

sappiamo diventando anziani, malati, accettare di essere bisognosi? Anche questo,

credo, ci sia suggerito da questa parabola, anche questo discorso fa parte di una

riflessione sul tema della cura.

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Chi porta chi?

Questa è la storia di abba Sisoés e del suo discepolo, monaci nel deserto di

Scete, in Egitto, nel IV secolo. Abba Sisoés, padre spirituale di una colonia di monaci,

era molto anziano; ormai le gambe non lo reggevano più e gli era molto faticoso

percorrere il cammino che dalla sua cella lo conduceva alla chiesa, dove ogni sabato

si intratteneva con i fratelli sulla vita spirituale. Il suo giovane discepolo decise allora

di costruire una galleria che congiungeva la cella di Sisoès alla chiesa; ogni sabato, si

caricava sulle spalle l’anziano e lo trasportava in chiesa senza che nessuno lo vedesse.

Abba Sisoés poteva così continuare il suo ministero di guida spirituale senza perdere

la sua autorevolezza; nessuno infatti si accorgeva della debolezza e fragilità del suo

corpo.

Chi porta chi?

L’icona rappresenta il giovane che porta l’anziano, sua guida spirituale. Ma è

tutta la verità?

Il giovane, portando la sua guida, è portato e condotto e non si smarrisce nel

cammino. Ma è tutta la verità?

Il Signore, lui che è la guida e la via, l’uno e l’altro ha portato e guidato

perché, nel portarsi a vicenda (cf. Gal 6,2), non si smarrissero dalla via.