Il seme dell'Elleboro

47

description

di Daniele Visentin

Transcript of Il seme dell'Elleboro

Page 1: Il seme dell'Elleboro
Page 2: Il seme dell'Elleboro

Daniele Alberto Visentin

IL SEME DELL’ELLEBORO

www.0111edizioni.com

Page 3: Il seme dell'Elleboro

www.0111edizioni.com

www.ilclubdeilettori.com

IL SEME DELL’ELLEBORO Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2011 Daniele A. Visentin ISBN: 978-88-6307-368-3

In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Giugno 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

Page 4: Il seme dell'Elleboro

a Sandra e Alessandro, che rendono la vita un cerchio pazzo e…

perfetto.

Page 5: Il seme dell'Elleboro
Page 6: Il seme dell'Elleboro

5

Mi è bastato un gesto per cancellare la città. L’ho nascosta dietro alle pesanti tende del mio salotto, esiliandomi dai rumori e dal turbinio del mondo, nascondendomi dalle gocce di pioggia che si rincorrono osservandomi curiose, dai vetri umidi delle finestre semichiuse. Notte strana, fatta di ore che sembrano immobili, che mi resta appiccicata addosso come l’odore di una donna che non ami, che non vuoi. È tutto così macabro, è tutto così perfetto. Mi sembra di vedere il mio passato che si allontana troppo velocemente, proiettandomi verso un futuro che ha le sembianze di un pozzo senza fondo. Ricordo le parole di Bilbo nella sua caduta verso la follia, conquistato dal potere di un gingillo: «…anima sottile, come poco burro su troppo pane…» Io non sono più né pane, né burro: sento la mia anima che si assottiglia e cade giù, in un luogo che ho paura di conoscere, seguendo i rintocchi della vecchia pendola che batte incessante il tempo delle urla nella mia testa, rompendo il silenzio della mia casa, occasionalmente interrotto dagli applausi preconfezionati che si alzano dagli altoparlanti della televisione inutilmente accesa. Le gambe distese, la schiena nuda offerta alla pelle scura del divano che sembra essere in grado di risucchiare i miei pensieri e le mie energie. Il mondo, in alcuni momenti, sembra avere vita ed emozioni proprie, allineandosi allo stato d’animo di chi lo guarda, di chi lo ascolta. Così, nel vuoto che mi circonda, nelle strade buie che si snodano verso la città, che intravedo tra i movimenti armonici e sinuosi della tenda, rivedo il buio e la desolazione della mia mente, il vivido dolore di centinaia di pezzi di vetro che mi lacerano i pensieri. Mi scuoto e allungo la mano, fino a farla scivolare lungo il pavimento, andando a sfiorare le corde molli e impolverate di una chitarra abbandonata da tempo immemore sotto il divano: un mare di ricordi mi colpisce

Page 7: Il seme dell'Elleboro

6

violentemente allo stomaco, scagliandomi addosso il peso di un passato di speranze. Per un momento sono nuovamente circondato dai colori, dagli odori, dal fragore di risate perdute, di amici lontani – forse sarebbe più giusto dire allontanati – attorniato dalle parole e dai silenzi di simbiosi e unioni empatiche. Allontano la mano dal ponte con un gesto rapido e la spingo con forza finché non sento il suono sordo della cassa che cozza contro il muro: meglio così, nascosta per non violentare i miei pensieri. Il feretro di un’amica… del mio passato. Mi sposto leggermente e subito avverto la pelle ritrarsi al contatto col vetro freddo. Allungo le dita che si adattano con automatismo perfetto al collo della bottiglia e la porto alla bocca. Chiudo gli occhi e ne ingoio un sorso profondo. Il sapore bollente del whisky ghiacciato mi riempie la bocca e lo stomaco. Un secondo di totale estasi, mentre il respiro rallenta fino quasi a fermarsi, le papille gustative eccitate scoprono sapori fumosi di torba. Respiro lasciandomi trasportare da un fiume alcolico di pensieri e immagini, mentre gli occhi si chiudono lentamente, per poi riaprirsi del tutto e ritrovare solamente stanze vuote. L’eco della solitudine che esplode nella testa rende odioso il “suo” sguardo che, severo, mi giudica da una vecchia foto, posizionata con cura sul mobile, ovviamente scelto da lei in quel lontano e romantico pomeriggio di autunno. «Vaffanculo.» Le parole escono da sole dalla mia bocca. I ricordi mi travolgono mentre mi alzo e, barcollando incerto, mi ritrovo a osservare l’immagine immobile della città… fotografia silenziosa i cui rumori sembrano attutiti dal velo di pioggia che rende quell’insieme di colori etereo, lontano, quasi intangibile. Un profondo respiro mi riempie i polmoni dell’inconfondibile odore di erba bagnata, di legno e montagna che caratterizza Torino nelle sere di pioggia e mi scopro a fissare la tastiera del telefono che, non ricordo da quanto tempo, stringo con forza tra le dita della mia mano. Dubbio, indecisione, rabbia. Mentre cerco di dare un nome a tutte le emozioni che guidano i miei pensieri, le dita prendono autonomamente vita per digitare un numero, nuovo per la memoria del telefono, ma marchiato a fuoco nella mia mente. Attimi di attesa che sembrano infiniti, battiti del cuore che rincorrono il suono sordo del segnale. Un’esitazione, la voglia di riagganciare e poi… «Pronto?»

Page 8: Il seme dell'Elleboro

7

Pronto un cazzo… assolutamente no. Non sono pronto. La voglia di urlare il dolore mi rende muto, i denti si stringono sempre più, stridendo. «Pronto?» Continuo il mio sogno di rabbia, quell’ira estatica che mi allontana da ogni sensazione esterna, finché il suono della cornetta che ripiomba sul ricevitore mi richiama alla realtà e non vedo il display del mio telefono illuminarsi: “chiamata terminata”. Mi lascio cadere sul divano, col viso immerso in un cuscino di pelle liscia e sprofondo in un uno stato di incoscienza simile al sonno, ma vuoto, senza sogni, che non mi conforta, né, più banalmente, mi riposa. Buio. Difficile quantificare il tempo in cui sono rimasto in questa posizione, inerme, intontito e indifferente a tutto quello che capita intorno: un sonno alcolico, interrotto da un dolore vibrante, noto alla mia carne e ai miei ricordi «Merda…» Stringo le mani alle tempie, il cuore pulsa velocemente, i bronchi faticano a compiere il loro lavoro, sento il sangue pulsare e rincorrersi nel suo vortice. Mi accartoccio su me stesso, bestemmiando e piegandomi sul pavimento. Il silenzio è rotto solo dai colpi di tosse che i miei polmoni mi impongono per cercare di liberarsi, le tempie pulsano, la vista si appanna. Sgrano gli occhi fino a trovare un po’ di concentrazione. Le mani si muovono a cercare qualcosa nelle tasche, tornando desolatamente vuote ai miei occhi. Cerco di riflettere, quando uno spasmo violento mi piega nuovamente su me stesso. Mi sento come un pupazzo violentato dalle mani indifferenti e paffute di un sadico bambino. Raccolgo le forze, mentre mi sollevo a stento dal pavimento. Supero a fatica il piccolo tavolo che si trova di fronte al divano e a passi lenti e incerti tento di dirigermi verso il bagno, cercando appoggio lungo le pareti della stanza. Sotto i polpastrelli avverto una liscia monotonia: non percepisco il ruvido della tappezzeria bianca, non sento nulla. Solo un formicolio continuo che mi pervade, annebbiando tutti i miei sensi. Il lavandino è di fronte a me. Dallo specchio posto sopra di esso, un volto che fatico a riconoscere mi osserva: non ne distinguo i tratti, non ne vedo i dettagli. È come essere di fronte al proprio autoritratto, ma filtrato attraverso centinaia di specchi che lo deformano. Mi volto verso il piccolo mobile che si trova alla mia sinistra: il primo cassetto richiama la mia attenzione. Tento di afferrare la maniglia, mancando la

Page 9: Il seme dell'Elleboro

8

presa… cerco di concentrarmi, fisso lo sguardo… le dita attorno al piccolo pezzo metallico mi sembrano salde. Tiro. Il rumore sordo del cassetto che cade sul pavimento riempie la stanza, nel silenzio suoni di metallo e di pezzi di vetro che si frantumano si rincorrono nelle stanze. Impreco per alcuni secondi, dando sfogo a tutto il mio dolore e alla mia rabbia, mentre mi piego. Gli occhi, finalmente, mettono a fuoco la siringa e il flacone. Sfilo il cappuccio della siringa e tento di infilare l’ago nell’insulina sbagliando goffamente la mira, reso inerme e confuso dai miei sensi intorpiditi. La mano, tremante, non risponde alla mia volontà. Respiro profondamente, attendo qualche secondo, chiudo gli occhi e provo ad abbassare il ritmo del mio cuore con un paio di respiri profondi. Ritento. Una fitta violenta mi blocca il respiro e le mani, mentre tento di concentrare le mie ultime forze in un solo punto: in questo cazzo di indice che deve incontrare il pollice per guidare l’ago. Lo osservo con attenzione, strizzando gli occhi, e rilascio il respiro solo quando sento l’ago perforare la pellicola e arrivare a contatto con il liquido. Riempio la siringa e scopro il mio addome violaceo e perforato da decine di iniezioni violente, fatte senza attenzione. Con ferocia buco la mia carne, finché l’ago non sparisce nell’aura di un vecchio livido; finché, premuto lo stantuffo, non sento l’insulina cominciare a penetrare nel mio corpo ed espandersi lenta. Il respiro rallenta, lo sguardo si spegne, posandosi sugli occhi di mia figlia che da una foto mi osservano. «Sei sempre la più bella…» Aspetto finché il buio non mi abbraccia. Mi addormento col viso sul pavimento del bagno, tra le macchie di urina che segnano le piastrelle, col viso rivolto a quella foto, con un sorriso ebete e folle tatuato sulle labbra, con un pensiero che domina, dolce e velenoso, sui miei sogni.

* * * Mykonos a fine settembre assume le sembianze di una donna che, ammaliati i suoi ospiti, si trova sola alla fine della festa a contemplare la decadenza del proprio corpo, ormai stanco, e della sua mente perduta, che vaga come un triciclo lungo il tappeto rosso di un infinito corridoio.

Page 10: Il seme dell'Elleboro

9

Le spiagge, schiacciate dalla musica, dalle feste e dai giovani, lasciano spazio a vecchi pescatori che lenti recuperano le reti, e agli anziani che camminano stanchi sulla sabbia umida, accompagnati dai loro cani, nuovamente padroni di una quotidianità distrutta e alterata dal periodo estivo. Su uno scoglio, i piedi nudi dentro all’acqua che lentamente cominciava a insidiare i pantaloni bianchi rivoltati fino al ginocchio, sedeva Nikos. Il suo sguardo fiero era rivolto all’orizzonte, indifferente alla pelle olivastra delle mani che si muovevano armoniose per arrotolare il tabacco nella cartina con gesti veloci e sicuri. La lingua bagnava la colla, mentre la mano destra andava a cercare lo Zippo argentato nella tasca della camicia verde-militare. «Dovresti smettere…» «Sì, certamente, dopo venticinque anni…» «Non è mai troppo tardi…» «Vuoi cominciare con la solita litania? Non ti stufi di dire sempre le stesse cose?» «Tu non ti stanchi mai di sentirti ripetere sempre le stesse cose?» Nestor sbuffò e con un gesto poderoso delle braccia si immerse per poi comparire nuovamente, affiorando sull’acqua, quasi sdraiandosi sulle onde del mare. «Non ricordavo quanto fosse meraviglioso questo posto…» Il fumo si allungò dalle labbra di Nikos, scandendo le sue parole. «Manchi da troppo. Sono… quanti? Quattro, forse cinque anni?» «Cinque anni. L’ultima volta che sono stato qui, è stato per papà. E tua figlia nemmeno riusciva a camminare. Ora… non riesco a non ripetermi: è meravigliosa.» «È la mia luce, la mia vita. E ha uno zio terribilmente noioso che sa solo ripetere che è meravigliosa.» L’attenzione di Nikos venne rapita da un pescatore che, alle sue spalle, distribuiva negli appositi contenitori il frutto della sua nottata di lavoro: odori forti e intensi di mare e di salsedine riempivano l’aria. Un’ondata di ricordi lo colpì, mentre l’aria salmastra che soffiava dal mare consumava la sua sigaretta, infilata distrattamente tra l’indice e il pollice. «Impossibile! È lui! È ancora vivo… ma quanti anni ha?» «Difficile a dirsi: dai settanta ai centocinquanta. Probabilmente non se lo ricorda nemmeno lui.» «Ma ne aveva “dai settanta ai centocinquanta” già trent’anni fa…»

Page 11: Il seme dell'Elleboro

10

«Eppure è lui. E ancora oggi, tutte le notti va a pescare e al mattino lo trovi qui a imballare, pulire, soprattutto imprecare…» «Be’, quasi, tutte le notti va a pescare…» L’inflessione della voce di Nikos che sottolineava quel “quasi” si accompagnò a una smorfia in cui Nestor rivide distintamente il volto di suo fratello bambino. Un sorriso si disegnò sul viso dei due uomini. «Ma come ci è venuto in mente?» «Come ti è venuto in mente, Nikos!» «Non ero mica da solo…» «Dubito fortemente che l’idea di “prendere in prestito” un peschereccio per portare a spasso quelle tre giovani turiste olandesi mi fosse sembrata sensata. Olandesi o inglesi?» «Olandesi. Erano certamente olandesi…» «Sono passati anni eppure ancora te le ricordi. Dev’essere stata davvero un’esperienza formativa per te…» «E me le ricordo sì! Non è così facile dimenticare tuo fratello che si scopa tre donne contemporaneamente e poi te ne passa una, regalandoti per altro, il tuo primo rapporto sessuale.» «Che vuoi farci… talento e generosità mi contraddistinguono da sempre, ma ormai è passato tanto tempo. Troppo tempo…» La voce profonda di Nestor si spense in un sospiro mentre si immergeva nuovamente, lasciando le sue braccia tornite oltre il livello dell’acqua. Qualche secondo e poi il torso di un cinquantenne che sembrava scolpito nel marmo tornò a galla. «Eppure, sai che in questi pochi giorni trascorsi qui, il tempo passato non sembra poi così tanto? È tutto uguale. Gli odori, le olive succose che ti inondano la bocca di aromi, l’olio che profuma l’aria circostante come incenso, il vino forte e intenso. È tutto così… è sempre tutto così bello. Mi manca tutto questo.» «Potevi restare, invece di scappare in un paese lontano…» «Non sono scappato e poi non è così lontano…» «Abbastanza lontano da essere dall’altra parte del mare…» «Questo è un colpo basso Nestor. Era la frase preferita della mamma.» «Già, ma devi capire che probabilmente aveva ragione lei: il mare alcune volte è più duro da attraversare di un muro di mattoni.» Il respiro di Nikos si fece più pesante, mentre tentava di liberarsi da quell’inaspettata sensazione di oppressione, alternando una profonda boccata d’aria a un respiro intenso dalla sua sigaretta. «Lo so, ma ho scelto così.»

Page 12: Il seme dell'Elleboro

11

«Nessuno ti condanna. Dico solo che un po’ ci manchi. Mi manchi. Tua nipote non sa nemmeno chi sei e io stesso conosco poco e niente della tua vita. Lo sai, Nikos, ci sono persone che hanno il mare dentro, e non potrebbero vivere lontano da lui. Evidentemente tu…» «Evidentemente io ho dentro tante altre cose, non solo il mare. Porca puttana, in questo posto siete ancora come le statuine di un presepe…» Nikos allungò l’indice verso la spiaggia, mentre una sottile lama di fumo tagliava l’aria incorniciandogli il volto. «Ecco, guarda: il vecchio pescatore, i bambini che si rincorrono sulla spiaggia, i vecchi con i cani… un po’ ridicolo non trovi? Sembra una pubblicità in tempo reale…» «Non scaldarti. Non è una critica. È solo un piccolo rimpianto: non è facile perdere un fratello per l’Italia, per un lavoro, per Turino…» «Torino…» «Sia come sia…» «Anche a me mancano tante cose, tante emozioni, ma quest’isola non è il luogo più adatto per il mio lavoro, e forse nemmeno per me. È terribile da dire, ma io ho bisogno di sangue, corruzione, invidia, gelosia, smog, traffico, frenesia. Ho bisogno di brandelli di vite che vengono ridotte a prove sigillate in buste di plastica. Ho bisogno della nebbia, del freddo. Eppure, in fin dei conti, l’Italia non è così diversa dalla Grecia. Appena esci dalle città, ritrovi quell’amore per il verde, per la vita che cresce. I formaggi e i vini sono eccellenti. Ci sono contadini che ti aprono le porte delle loro cantine e con pochi euro riesci ad assaporare la passione per quello che fanno. Se solo vedessi il sole quando illumina le valli, le viti, quando si fa strada tra due montagne per venirti a guardare dritto negli occhi…» «E la città?» «La vita in città è diversa: anche se Torino è una città strana, sembra un borgo ingrandito. Vive concentrata e avvitata sul suo centro che sembra un salotto, arroccata sulla sua collina, tagliata da quattro fiumi che la dividono anche e soprattutto a livello sociale, custodita dall’alto dalla stella della Mole. È una città in cui puoi infilarti in una via che non avevi mai notato prima e scoprire un piccolo mercatino di quartiere. È una città senza voglia di apparire, schiva, calorosa solo quando ne fai davvero parte. Un vecchio libraio una volta mi disse che solo quando le corde della tua anima si sincronizzano con quelle della città, solo quando respirando l’aria umida che sa di erba e di legno riesci a sentirti felice, emozionato, commosso e disperatamente triste… solo in quel momento ti rendi conto che è capitato qualcosa dentro di te e che sei

Page 13: Il seme dell'Elleboro

12

come la città, che sei entrato a farne parte. E in effetti è davvero così: solo quando ti accorgi che inondata dal sole è bellissima, ma schiacciata dal peso della nebbia, è meravigliosa, allora sì, ti è entrata nell’anima.» «A parte il fatto che sembri una noiosissima guida turistica Nikos, hai perso il gusto del mare, delle belle giornate…» «No, sono solo diventato un po’ più simile alla nebbia.» «Sarà il lavoro…» «Probabilmente sì. Ma come hai detto tu, è quello di cui ho bisogno.» Il sole cominciava ad alzarsi lentamente sulla linea dell’orizzonte quando Nestor fece un cenno al fratello. Spenta con cura la sigaretta, Nikos si calò nell’acqua fino alle ginocchia e preso tra le braccia il fratello, lo sollevò fino ad adagiarlo su un asciugamano steso nei pressi del bagnasciuga. Il più giovane dei Lantros si ritrovò a osservare il fratello maggiore, il suo viso rude e segnato, l’espressione limpida, gli occhi intensi rivolti all’orizzonte - quasi a scorgere qualcosa di lontano e impercettibile - le spalle larghe su cui si appoggiavano delicatamente le ciocche dei suoi capelli di un nero corvino intaccato solo da alcune striature di grigio, il corpo possente di chi è stato cresciuto dal mare, la pelle bronzea e profumata di mare e vento… finché i suoi occhi non incontrarono le sue gambe spente e inermi. Nikos sollevò nuovamente Nestor e lo aiutò a sistemarsi sulla sedia a rotelle, ormai da anni compagna imprescindibile nella sua vita. «Grazie.» Non rispose. Tenne ancora per qualche secondo la mano appoggiata sulle spalle del fratello. Poi cominciò a spingere la carrozzina verso casa.

* * * La difficoltà maggiore non fu quella di far arrivare al giusto punto di cottura il bollito, attività nella quale Nikos si era ormai specializzato, ma piuttosto quella di evitare che Maria, la moglie di Nestor, entrasse ogni cinque minuti in cucina per “dare una mano”, preoccupata dalla presenza tra i suoi fornelli di un uomo dalle movenze di un orso bruno, che spostava, rovistava e sporcava in quel perfetto e ordinato regno di pentole, pensili e spezie.

Page 14: Il seme dell'Elleboro

13

Fu una cena particolare tra Tzatziki e olive, bollito, barolo e grignolino portati appositamente dall’Italia, Galaktomboùreko e Baci di Dama preparati da “un’amica dello zio”, o almeno così rispose Maria alle domande insistenti della piccola Gaia, che voleva sapere chi avesse preparato quei biscotti “così strani, ma così buoni!”. La serata scivolò via serenamente. Amici di tempi lontani furono invitati a cena, tutti curiosi di rivedere un caro amico trasferitosi in un altro paese da anni, per di più commissario della polizia italiana con tante storie e avventure da raccontare. Le parole e le bottiglie di vino si esaurirono con la stessa velocità e la medesima intensità in un brusio di mogli mai conosciute, di bambini che correvano incessantemente attorno ai tavoli e alle sedie, che succhiavano avidamente il latte dai seni enormi e gonfi delle madri o che, ormai cresciuti, giocavano a fare gli adulti. Solo quando gli uomini, stremati dal lavoro o ormai prossimi a imbracciare per l’ennesima volta le loro reti, se ne andarono e le donne si congedarono, portando a letto i bambini ormai sopraffatti dal sonno, Nikos si guardò intorno. Per un istante gli sembrò di essere tornato indietro di vent’anni. Lo stesso portico, la stessa luna che si rifletteva sullo stesso mare, le stesse barche che lentamente si allontanavano verso il blu fino a sparire all’orizzonte. Gli stessi cinque amici. «Ho una piccola sorpresa…» Nikos si alzò e tornò dopo qualche secondo con due bottiglie di Grignolino del 1974. Stappò le due bottiglie e le mise a decantare, mentre Nestor riduceva a scaglie una sostanziosa fetta di Parmigiano. Gregorios si alzò, mano ferma sul bicchiere, occhio leggermente socchiuso e respiro pesante, facendo scivolare qualche goccia di vino sul legno umido del portico. «Brindo a questa casa, a questo portico che ci ha visto diventare uomini, a questa famiglia che mi ha accolto come un cane randagio, a questi due fratelli che sono i miei, i nostri fratelli, alla memoria di loro padre, che ci ha lasciato troppo presto e alla loro mamma, che ci ha sopportato e amato. E che da sette giorni non è più tra noi…» Nel silenzio della notte i bicchieri si alzarono, tintinnando prima nell’incontro tra loro, poi con il tavolo, per poi terminare la loro corsa sulle labbra dei cinque uomini. Sapori intensi, di terra, di storia. Nikos si voltò, notando con stupore e con un pizzico di delusione come il bicchiere di Gregorios fosse già vuoto.

Page 15: Il seme dell'Elleboro

14

«È un vino da amare, non da ingoiare Quando assaggi un vino di questo tipo, non bevi solo “vino”. Assapori la terra dove è stata coltivata l’uva, senti il lavoro di chi l’ha amato, senti il sole, senti la pioggia. È una storia, non solo un bicchiere di vino.» «Non sono sicuro che sia più profumato e ricco dei nostri vini.» «Vedi… è la storia che lo rende diverso. Innanzi tutto è un vino che nasce da una vite delicata e per questo è prodotto in limitate quantità…» «E ci credo, col nome buffo che gli hanno dato!» Gregorios afferrò la bottiglia dal collo, mormorando tra le labbra “Grignolino” «Continui a essere scettico con tutto quello che non conosci, vedo. In ogni caso, anche il nome ha una sua storia e una sua importanza. Da un vecchio contadino piemontese, ho avuto modo di sapere che il nome “grignolino”, deriva da “grignòle”, termine con cui vengono indicati in lingua piemontese i vinaccioli di cui abbondano gli acini. Anche se, in tutta onestà, preferisco la versione per cui il nome dipende dal termine “grignare”, che in dialetto astigiano significa ridere.» «Non devi essere sorpreso, Gregorios, ultimamente mio fratello arrotonda lo stipendio facendo la guida turistica. È per questo che conosce tute queste storie.» Nestor sorrise sarcastico, mentre respirava gli aromi del vino che esaltavano il gusto del formaggio che masticava lentamente. «A proposito di storie, perché non ci racconti qualcosa Nikos? Ne avrai milioni da raccontare.» «Sono successe tante cose in questi anni. Non è che io faccia molta vita mondana. Qualche fugace incontro, ma niente di più…» «Sono sicuro che con il lavoro che fai tu abbia sicuramente qualcosa di interessante da raccontare.» «Che c’entra il lavoro?» «Be’, vivi certamente più avventure e più esperienze di tutti noi. Io un sacco di volte penso a quanto possa essere ricco un lavoro come il tuo. Adrenalina, donne, pallottole. Cazzo, sei il perfetto poliziotto da fumetto. Sguardo da duro, sigaretta infilata di taglio in bocca, single per scelta…» Nikos si rese conto in quel momento di aver sentito troppe volte quelle frasi, di aver avvertito troppe volte quel morboso bisogno di sapere da parte di chi non sa, da parte di chi non vive determinate sensazioni. Quelle sensazioni.

Page 16: Il seme dell'Elleboro

15

Se in passato un interesse di quel tipo non l’aveva scosso più di tanto, manifestato da sconosciuti cui aveva sempre dato l’attenuante di cercare un argomento di conversazione, quella sera sentì il sangue accendersi. I suoi amici, quelli che erano i suoi veri e vecchi amici, avevano sostituito l’uomo con il commissario, con il personaggio. Le storie di una vita normale svanivano, cadevano e venivano devastate dalla violenza di un’esistenza incentrata sul suo ruolo di funzionario della legge. Era forse successo ciò che da sempre aveva temuto: l’uomo aveva lasciato il posto a una divisa che divorava non solo il suo presente e il suo futuro, ma che aveva ingoiato anche il suo passato. «Cosa vuoi sapere? Vuoi sapere cosa si prova a ripescare un giovane marocchino che si è buttato in un fiume per scappare alla polizia e viene ritrovato tre giorni dopo? Vuoi sapere che odore ha? Vuoi sapere quale sensazione si prova a interrogare una tossica per convincerla a testimoniare contro uno spacciatore che se la scopa? Vuoi sapere cosa si prova a girare con una pistola in mano? Vuoi sapere se l’ho mai usata? Vuoi sapere se ho ucciso? Vuoi sapere quanti cadaveri ho visto o solo una rapida descrizione del corpo senza vita di un bambino fatto a pezzi dalla madre?» «Non scaldarti, non è certo a questo che pensavo…» «Bene, ho capito. Quello che ti interessa è il lato più ludico. Quello delle umiliazioni ai travestiti, quello delle ammucchiate che avvengono con due puttane che sanno perfettamente che se non faranno ogni cosa che ordinerai loro, passeranno le prossime due notti dentro, con i soldi dei clienti in meno e le botte del “pappa” in più? O ti solletica il torbido? La corruzione, il giro di mazzette che ci vengono gentilmente offerte per chiudere un occhio, o aprirlo quando serve, o la quantità di soldi che ci passano i giornalisti per avere notizie in anteprima. È di questo che vuoi parlare?» Un profondo senso di imbarazzo era calato feroce sul portico, lasciando ognuno a osservare il proprio riflesso sbiadito nello specchio rosso del vino. Nikos si alzò barcollando leggermente, rosso di vino e di rabbia e con passi incerti si diresse verso la spiaggia. Il buio e il silenzio lo inghiottirono in pochi secondi, mentre teneva gli occhi fissi verso il punto in cui cielo e mare sembrano unirsi. La sigaretta già accesa nella mano illuminava il suo viso mentre giocherellava freneticamente con lo Zippo e il mare si adagiava ripetutamente sulla sabbia umida, sfiorandogli la punta delle scarpe.

Page 17: Il seme dell'Elleboro

16

«Ma ti è venuto tutto di getto o sono mesi che avevi tutto pronto e aspettavi solo l’occasione per il tuo monologo?» «Cazzo» un respiro profondo gli fu necessario per riprendersi dal piccolo spavento «Nestor, sei solo?» «Sì, gli altri sono andati via. Vengono a salutarti domani prima che tu parta.» «Ho esagerato?» Nestor non rispose. Dopo aver offerto l’ennesimo sorso di Grignolino al fratello si avvicinò lentamente all’acqua e si tolse la maglia. «Non è un vino da bere in bottiglia, eppure…» un profondo sorso di vino gli riempì la gola «…in ogni caso, sì, è da tempo che mi sono preparato quel discorso. Come è venuto?» «Molto bello, molto intenso, molto convincente. L’hai provato diverse volte davanti allo specchio?» «Sì, in perfetto stile “Taxi driver”. Il problema è… che cazzo fai?» «Il bagno.» La voce di Nestor rimarcava l’assoluta evidenza e normalità del suo gesto. «Adesso? Con questo freddo? Dopo quello che hai mangiato e bevuto?» «Sì. Fallo anche tu. Quando ci ricapita?» Nikos non disse nulla e si spogliò, lasciando i vestiti sulla spiaggia umida. Sollevò il fratello maggiore dalla carrozzina e si immersero tutti e due nell’acqua fresca della notte. «Hai bevuto troppo. Reazione eccessiva, ma probabilmente hai un grosso peso da portare. Anche io ne ho uno: forse non te ne sei reso conto, ma cerco di stare in acqua il più a lungo possibile. E sai perché? Perché in acqua sono come tutti gli altri. Non sono handicappato, deforme. Sono come te: un uomo normale…» «Io…» «Lascia perdere qualunque stupidaggine tu stia per dire e ascolta. A me sembra che tu sia un po’ più incazzato con te stesso e col tuo lavoro che con gli altri. Devi renderti conto che è normale che gli altri siano interessati a quello che fai, che vivi. È strano, è orribile, ma tocca le corde più intime dell’uomo. Delitto, passione, perversione. Noi, per fortuna, non vivremo e non vedremo mai quello che vivi e vedi tu.» «È solo che sono talmente abituato a vivere da “poliziotto” che qui speravo di essere solo me stesso. Non volevo che questa parte della mia vita si prendesse anche il mio passato. La morte è per me talmente

Page 18: Il seme dell'Elleboro

17

abituale che non ho nemmeno pianto per mamma. Non una lacrima. Soffro, sto male, ma non ho pianto.» «Piangerai, sicuramente capiterà. E sono sicuro che in quel momento ti sentirai sollevato. Non preoccuparti Nikos, agli occhi di chi ti conosce sei sempre lo stesso.» Restarono ancora un po’ in acqua, cullati solo dal silenzio e dalle onde.

* * * La parte frustrante del mio lavoro non consiste tanto nelle piccole delusioni quotidiane, nelle grossolane manifestazioni di ignoranza che si palesano durante un’interrogazione, nell’ascoltare giustificazioni ridicole e insulse, quanto nel constatare che ogni parola, ogni riferimento, ogni tentativo di regalare un briciolo di cultura, un po’ di amore per il sapere, un piccolo raggio di luce, viene frustrato da occhi spenti, menti chiuse, più interessate a deridere le mie profonde occhiaie e ipotizzare teorie fantasiose sulle cause della loro comparsa, piuttosto che cogliere le sottili armonie che sottendono ai versi di una poesia. Cerco di toccare corde di anime che mi sembrano così diverse da quelle della mia giovinezza: ragazzi scientificamente rincoglioniti da media e musica, tutti cloni di un’idea stereotipata di “giovane”. Mi sembrano tutti inutili, tutti spenti, caratterizzati solo da espressioni vuote. Non sono giovani, non sono adulti. Facce da ribelli in cuori di bambini. Spaventati, tutti, terrorizzati. Sembrano bambini incatenati a un termosifone che vedono il padre ubriaco colpire con forza la madre, schiacciati dalle loro paure, oppressi dalle incertezze, fragili e immobili. Sono mesi che abbandonerei tutto. Ribalterei la cattedra, manifestando loro il mio odio, la mia delusione, la frustrazione che mi fa vivere questo lavoro. Gli rovescerei addosso la sensazione di sentirsi inutile quando la mia funzione dovrebbe essere quella di plasmare menti, formare anime… L’avrei data vinta alla consapevolezza della reale inutilità di continuare a spiegare quanto nelle opere di Omero il mare sia importante quanto la luna nelle poesie di Leopardi, se non fosse per lui. Uno studente silenzioso, fuori dalla “serie dei cloni”. Orgoglioso della sua diversità, imbranato agli occhi degli altri. Tetro, eppure vivo. Ha mani nervose che sembrano muoversi continuamente sui tasti di un

Page 19: Il seme dell'Elleboro

18

pianoforte e occhi veloci, accesi, profondi. Mi sorprendo nel vedere quanto questa sua diversità lo porti a essere emarginato, allontanato e deriso. Eppure in lui vedo ancora un motivo per tornare qui ogni mattina, per cercare di regalare qualcosa. In realtà non so se sia più utile a me o a lui. Mi piace immaginare che sto contribuendo a formare una mente brillante e pronta a un grande futuro. In realtà, so con assoluta certezza che sto inventando un mondo immaginario in cui le mie parole per lui sono importanti. Un mondo in cui non sono ancora impazzito. Perlomeno, non del tutto. La campanella interrompe i miei pensieri e le mie parole. La classe è vuota dopo pochi attimi. Sono solo in classe. Solo. Ancora. Se dovessi fare una stima di quanto tempo ho passato da solo e in silenzio, credo che potrei brillantemente competere con i detenuti rinchiusi e dimenticati in isolamento. Una leggera vibrazione richiama la mia attenzione e dalla tasca interna della giacca estraggo il cellulare. Resto immobile, fissando il display e sentendo il cuore che pulsa tanto forte da sentire le vene esplodere e le tempie rimbombare. «Dimmi…» «Scusa se ti chiamo, ma» voce strozzata «Paco sta molto male.» «Dove sei?» Attraverso la città con la sensazione di avere una mano nello stomaco che mi strappa le viscere. Ansia, paura e rabbia. Un supplizio costante della mente che torna sempre su quelle parole, mentre le gambe spingono, e l’anima non riesce a non cedere alla disperazione. Le gambe piegate da una corsa estenuante, la schiena madida di sudore, il panico che striscia nello stomaco iniettandomi il suo veleno. Svolto l’ultimo angolo. L’auto di mia moglie – ex moglie, devo arrendermi alla realtà – è davanti alla clinica. Le portiere aperte. Mi avvicino dirigendomi verso lo splendido polpaccio che, poggiato su un sensuale tacco dieci, si allunga dall’auto. Scende, bellissima come sempre, pelle delicata, occhi profondi e intensi, quel velo di trucco che la rende attraente in modo semplice e naturale. Mi viene incontro scuotendo leggermente la testa, sussurrandomi che lo devono operare, che sta per morire, che…

Page 20: Il seme dell'Elleboro

19

Mia figlia mi si getta tra le braccia. La stringo con forza e respiro intensamente il profumo dei suoi capelli. Ha sempre avuto un odore speciale che regala sensazioni di limpido, di buono. Un profumo che è gioia non solo per l’olfatto. Una cura per tutti i sensi. La guardo negli occhi, gonfi e tristi, cercando parole che la possano confortare, ma, come spesso capita, è lei a confortare me. Mi accarezza, mi sfiora dolcemente i capelli e con lo sguardo mi guida al sedile posteriore dell’auto su cui è disteso il mio splendido pastore tedesco. Non si muove. Mi avvicino. Lo chiamo per nome, mentre con un tocco leggero gli sfioro il muso. Al suono della mia voce ha un’impercettibile movimento degli occhi. Respira affannosamente con la lingua incastrata tra i denti. Sembra un blocco di marmo. Incredulo, ferito e rabbioso guardo la mia ex moglie. «Stiamo aspettando che liberino e preparino la sala operatoria.» «Cosa è successo?» «Ha cominciato a stare male ieri sera. Stamattina sembrava stare meglio. Ero in ufficio quando mia madre mi ha chiamato. Sono arrivata appena possibile e l’ho portato qui. Pare che si sia girato l’intestino. Devono operarlo.» Adelaide continua ad accarezzare dolcemente il muso di quello che è il mio… il suo migliore amico. L’amico con cui ha condiviso ogni emozione, che prima della sua nascita ha assistito allo sbocciare dell’amore tra me e sua madre, che l’ha sorretta con amore durante i primi passi, che ho deciso restasse con lei dopo la fine di tutto, perché volevo che rimanesse con lei la parte più bella di me. Mi sento morire dentro, mentre la veterinaria esce e ci annuncia che possiamo portarlo in sala operatoria. Lo sollevo. È inerme, totalmente abbandonato a me. Venti passi prima di appoggiarlo su un freddo tavolo operatorio. Un solo e terribile attimo per accorgermi che non respira più. Urlo. Invoco aiuto. Arriva qualcuno, correndo. Silenzio. Formiche che si affaccendano attorno a lui mentre lo intubano. Lo toccano, lo scuotono, senza che io possa fare niente. Mi fanno uscire. Istanti che si rincorrono con paradossale e crudele lentezza, mentre parlo con me stesso. Ripeto il suo nome all’infinito come se potesse servire per risvegliarlo, fino a quando non esce qualcuno a dirmi che… «Purtroppo no…non ce l’ha fatta…» …

Page 21: Il seme dell'Elleboro

20

Mi fanno rientrare all’interno della sala operatoria. È ancora lì, immobile, inerme, dolce come sempre. Devo firmare qualche cosa. La burocrazia è infinita anche per la morte. Lo stringo un’ultima volta. Lo bacio sulla macchia scura che ha tra gli occhi. Rabbia. Odio. Dolore. Disperazione. È morto tra le mie braccia, come se volesse aspettarmi. È morto tra le braccia in cui ora stringo, piangendo, mia figlia. Le sue lacrime cominciano a inumidire il colletto della mia camicia. E francamente, non capisco se piange per me, per il dolore che prova, perché avverte la disperazione presente nell’aria, oppure perché già adesso, così piccola, coglie l’ineluttabilità del momento e il significato terribile della morte. Rifiuto l’offerta di un passaggio da parte della mia ex moglie. Bacio mia figlia promettendole che ci vedremo sabato sera, come da accordi, e mentre vedo l’auto che si allontana crollo a terra senza fiato, senza forze… Mi alzo e respiro profondamente. Non sento più le mani: è come se avessi un buco nello stomaco. Pochi passi confusi e senza meta. Il primo bar che incontro stuzzica il mio bisogno di intorpidire i sensi. Il primo whisky è solo una piccola cura per il dolore che provo, mentre nello specchio vedo, oltre al mio riflesso, anche gli occhi di Paco. E piango.

* * * Non appena l’aereo toccò terra Nikos inspirò a fondo, gonfiando sensibilmente il petto, per rallentare i battiti del cuore. Lo sguardo fisso all’asfalto – amico fedele – le nocche che ritornavano a colorarsi, rilasciando la presa sui braccioli del sedile. All’interno dell’aeroporto, in una sorta di stato euforico, di sollievo dovuto all’essere scampato all’ennesimo potenziale disastro aereo, non fece nemmeno caso al prolungato e isterico balletto di persone che si spintonavano tra valigie smarrite e nastri trasportatori. Seduto su una delle poltrone a pochi metri di distanza da quella ressa che si accalcava con frenesia, attese per recuperare il suo bagaglio finché non lo vide, laconicamente abbandonato sul nastro, cominciare l’ennesimo giro su quelle oscure montagne russe.

Page 22: Il seme dell'Elleboro

21

Uscito dall’aeroporto, a pochi metri dall’orda dei viaggiatori che adesso si dirigeva alla conquista del primo taxi disponibile, con la pelle olivastra, abituata alla brezza leggera che saliva dal mare che negli ultimi giorni l’aveva coccolato, si chiuse nell’impermeabile scuro, colto alla sprovvista dal vento freddo che soffiava dalle montagne. Le mani chiuse a proteggere la fiamma che accendeva una Marlboro light, precedentemente offertagli da uno dei finanzieri che controllavano i passeggeri, Nikos si voltò, dirigendo lo sguardo verso l’auto i cui fari sfarfallavano ripetutamente. Con una mano che reggeva saldamente la borsa e l’altra che portava ripetutamente la sigaretta alla bocca, cominciò a camminare verso l’imponente Suv nero, da cui fuoriuscivano le note del “Concerto per pianoforte e orchestra n. 3” di Rachmaninov, che lo attendeva col motore acceso. Dopo aver inspirato l’ultima boccata dalla sigaretta, aprendo lo sportello posteriore per poggiare il bagaglio sul sedile, gettò il mozzicone lontano con un colpo deciso del medio che scivolò sul pollice, mentre la ragazza bruna che lo attendeva all’interno gli apriva la portiera. Appena entrato nell’abitacolo fu investito da un’esplosione di sensi. Il dolce suono delle note sembrò sfiorare la sua anima, il profumo intenso che saliva dal corpo di lei gli riempì i polmoni, tra le luci e le ombre, scorse le sue forme sinuose, avvertendo la pelle tendersi eccitata verso di lei, fino a sentire il sapore della lingua di lei nella bocca. «Come è andato il volo?» «Be’, considerando che non sono morto, direi molto bene…» «Scemo. Hai mangiato?» «In aereo? No, assolutamente no. È incredibile come a certe altezze il cibo assuma colori forme e sapori innaturali: il cordon bleu, diventa cordon blu. Cazzo, nella fortunata ipotesi di non precipitare, non voglio morire per qualcosa che ho ingerito.» «Ma è possibile che un uomo grande e grosso che, tra l’altro, è un commissario di polizia, abbia tanta paura di volare?» «Non è che sia proprio paura. È più un senso di disagio, di malessere. Mi infastidisce... – osservò la smorfia ironica che si disegnava sul volto della ragazza – ok, temo tutto ciò su cui non ho il controllo o, perlomeno, l’illusione di avere il controllo.» «Un novello De André… anche lui sosteneva di temere tutto ciò su cui non poteva esercitare un controllo diretto.»

Page 23: Il seme dell'Elleboro

22

«È un complimento che accetto e che mi colpisce particolarmente… forse, tra i più belli che mi abbiano mai fatto. Grazie.» Nikos si allungò sfiorando con la lingua le labbra carnose e umide della sua occasionale autista, poi aprì il finestrino mentre l’auto cominciava a muoversi lentamente, dirigendosi verso la tangenziale che si snodava fino alla città. «Allora, ti va di mangiare qualcosa oppure il volo ti ha tolto anche l’appetito?» «Ho voglia di carne e di un buon vino rosso.» Lei sorrise, avvertendo la sottile eccitazione nella voce di lui. «Credo di sapere dove possiamo andare.» Mezz’ora dopo il calore di una piastra incandescente, su cui cominciavano a prendere colore diversi pezzi di carne, riscaldava il viso di Nikos; i suoi occhi e il suo olfatto erano colpiti da un mix di salse, riso e verdure, mentre l’aroma delle viti piemontesi cominciava a salire leggero dai calici di fronte a loro. Nikos alzò lo sguardo, studiando attentamente l’ambiente attorno a lui. «Ristorante siberiano. Non ci ero mai stato. Devo ammettere che, benché da un punto di vista esclusivamente architettonico e d’ambiente non lo trovi caratteristico più di qualunque altro locale del quadrilatero, è davvero accogliente. «Per te, per renderlo caratteristico, avrebbero dovuto mettere un orso polare all’ingresso…» «Be’, avrebbero sicuramente ottenuto l’effetto desiderato. In ogni caso» avvicinò il naso al piatto fumante «il cibo sembra decisamente stimolante.» «E dimmi Nikos, questo ti sembra stimolante?» La voce suadente di lei lo bloccò mentre infilzava un pezzo di pollo intriso di salsa piccante. Alzò lo sguardo osservando la mano destra che scostava leggermente il tailleur, lasciando intravedere un seno sodo, abbronzato, impreziosito da un reggiseno di pizzo scuro. «Così aumenta il mio appetito. Il problema è che confermi di essere inutilmente crudele, sapendo che tanto…» «E invece, piccola sorpresa, è partito in tutta fretta. Pare fosse un impegno irrimandabile per cui, se hai con te le manette, dopo cena vieni a casa mia?» Non rispose. Le prese la mano, la sfiorò lievemente con le labbra, poi si portò il calice alla bocca e sorrise.

Page 24: Il seme dell'Elleboro

23

* * * Sono ventiquattro ore che non dormo. Devo avere un aspetto terribile, sento la faccia “scura” e pesante, gli occhi mi bruciano, eppure lei mi guarda. È decisamente bassa. La osservo con attenzione per qualche istante, con la testa appoggiata al finestrino dell’autobus, gli occhi che percorrono il suo corpo. È bassa ed ha qualche chilo di troppo, eppure non riesco a distogliere lo sguardo dall’eccitante spettacolo che offre il suo generoso decolleté. Ha una faccia da ebete e un senso di vuoto che annebbia il suo sguardo, eppure urla con foga nel suo cellulare, accennando a “mediazioni” e a un tal “Mr. Grisson” che non ha “rispettato gli accordi precedentemente presi”. Uno scatto, il cellulare che si richiude su se stesso, la borsa che si apre e da cui estrae un libro. Si sfiora i capelli mentre si immerge nella lettura, volutamente indifferente ai miei occhi che mordono la sua pelle, mentre scosta leggermente le ciocche che le sfiorano il collo e mi guarda per un momento. I modi da donna decisa, in carriera, di successo, padrona e dominatrice, mi eccitano in modo tanto violento quanto inaspettato. Muovo lo sguardo su di lei, scosso da una voglia che sento pulsare nello stomaco, mentre seguo le onde morbide del suo corpo, del suo collo, delle sue labbra segnate da un rossetto quasi violaceo che si chiudono rumorosamente e fastidiosamente su una gomma da masticare. Il suono appiccicoso e insopportabile dei suoi denti che si contraggono riempie l’aria. Lo trovo detestabile, graffiante come unghie che scorrono su una lavagna. Sfioro i timpani con le dita, mentre lei si disinteressa di tutto. L’autobus che rallenta e si accosta alla fermata richiama la mia attenzione. Pronto a scendere dall’autobus, alle mie spalle sento una presenza, un profumo intenso di viola. Non serve girarmi, il rumore incessante della sua bocca mi rivela la sua identità. Scendo dall’autobus, due passi e… «Mi scusi…» Mi volto. È decisamente bassa. Forse più di quanto immaginassi. «Mi dica.» «Sa indicarmi una banca nei paraggi?» Sto per risponderle… «E un supermarket?» Ovviamente sì. I quartieri delle città sono come dei micro-villaggi-vacanze…trovi tutto nello spazio di un isolato. Tutti uguali, niente di

Page 25: Il seme dell'Elleboro

24

caratteristico, una noia cromatica che si ripete continuamente. «Certamente. Trova uno sportello bancario subito qui a sinistra e il supermercato è a cento metri.» «Rischio di essere sfacciata, ma, mi chiedo se le andrebbe di accompagnarmi.» Non mi va, in realtà non ne ho assolutamente voglia. Quella cazzo di gomma da masticare, quei rumori di saliva e lingua mi disgustano. Il silenzio della mia casa che mi osserva dall’alto, mi attira in modo quasi irresistibile. Respiro profondamente e scrollo appena le spalle, tentando di scaricare tutto il peso che avverto. «Certo.» Le sorrido e con un gesto del braccio le indico la strada. Pochi passi, chiacchiere superficiali e confuse e, poggiato su un tavolino traballante di uno squallido dehor, mi ritrovo a guardarla attraverso le foglie di menta del mio mojito. Sorride. Le guance cominciano ad assumere un colore sempre più intenso, le pupille leggermente dilatate, la mano che continua a torturare il naso sempre più rosso, dopo che è andata a “rifarsi il trucco”. Mi chiede dove abito. Mi dice che ha voglia di fare l’amore, che vuole sentire il mio sapore. Non dico niente. Resto in silenzio, mentre abbasso gli occhi e con un gesto del capo le indico una finestra aperta dietro alla quale le tende scure si muovono leggermente. Entra nel bar. Io, indifferente alle sue richieste sessuali, ma colpito e confuso da tanta arrogante sfacciataggine, resto immobile. Ritorna. Mentre l’aria che consuma la sua sigaretta diventa sempre più umida, si sporge sul tavolo e mi bacia, lasciandomi sulle labbra un sapore di alcool, rossetto e tabacco. Un senso di nausea mi assale, mentre sento nella gola il sapore nauseabondo di quella bocca, enorme e volitiva, che continua a masticare istericamente una gomma che scopro essere alla frutta. Ha pagato lei, quasi a comprare un pezzo della mia vita, un po’ del mio tempo. Entriamo in casa. La faccio accomodare sul divano e, mentre cerco di nascondere i vestiti sparsi qua e là, mi appoggia una mano sui pantaloni. Stringe, accarezza, muove lentamente la mano e mi abbassa la lampo. Mi afferra le natiche e mi spinge di fronte a lei. Mentre con la mano sinistra si sfila la gomma dalla bocca, con la destra prende in mano il mio sesso e lo appoggia sulle sue labbra grandi e violacee che mordono, stuzzicano, succhiano.

Page 26: Il seme dell'Elleboro

25

Mi prende avidamente, mentre spinge con la lingua. Osservo le sue guance vibrare, i suoi occhi, mentre prende la mia mano e la appoggia sul suo seno. Stringo il capezzolo fino a farle male, fino a farlo indurire. Lei si ritrae e mi guarda con occhi profondi e vogliosi. Si avvicina, mentre il suo viso si disegna in una smorfia divertita che sembra volermi sfidare. Sono nuovamente nella sua bocca, mentre le stringo i capelli con forza, e la tiro verso di me. Affonda le sue unghie nella mia schiena. Si solleva, sfila la gonna e apre il tailleur che libera il suo corpo. Il seno abbondante cala sensibilmente, il corpo nudo, offerto all’aria fresca, mostra alcuni chili e alcuni anni in più di quelli che lasciava immaginare. Si alza, arrampicandosi goffamente sulla spalliera del divano, allarga le cosce, prende la mia testa e la spinge verso le sue gambe. Mi avvicino, e mi sento improvvisamente respinto dal suo odore pungente e intenso e dal suo sapore aspro. Un senso di nausea mi riempie la gola. La passione e l’eccitazione svaniscono: per quanto mi riguarda, questa scopata è finita. A livello mentale ho chiuso. È grassa, vecchia, certo più di me…e se fosse malata? Penso ai miliardi di germi che, probabilmente mi stanno inesorabilmente infettando. Sono a pezzi. Ho solo voglia di bere ancora un ultimo whisky e, con un po’ di fortuna, di dormire. Ma il fisico, ormai, urla tutto il suo potere sulla mia mente e pretende soddisfazione. Il mio sesso è teso verso di lei; alzo lo sguardo e vedo il suo volto distorto dalle scariche del piacere, dell’eccitazione, dell’alcool. Quelle labbra umide sembrano chiamarmi, urlando silenziosamente il mio nome. Mi sollevo mentre la prendo con decisione e la giro sul divano. Mi posiziono dietro di lei, spingendo col bacino, mentre con le mani affondo nella sua carne morbida e bianca. Spingo, mentre con le mani stringo i suoi capelli. Spingo, mentre gemendo mi chino su di lei. Un passo indietro, e vedo il frutto del mio piacere bagnare la sua schiena. Sorride soddisfatta, mentre respira lentamente, cercando di rallentare i battiti del cuore. Si volta leggermente e mi osserva. Ha sul volto un’espressione perplessa, di chi non sembra riconoscermi. «Ti immaginavo diverso… meno… più…» Sembra incerta su quello che è appena successo. Le sue parole sono confuse. Sembra eccitata e spaventata. Sembra una cacciatrice che si ritrova preda senza essersene accorta in un gioco che non aveva previsto.

Page 27: Il seme dell'Elleboro

26

Appoggia la testa tra le ginocchia, mentre distrattamente prende dalla borsa l’ennesima gomma da masticare. Il rumore insopportabile di denti e saliva mi ferisce i timpani «Ancora con quelle cazzo di gomme da masticare?» Alza lo sguardo: in questo momento sembra una bambola ferita, nuda e pallida. Ha lo sguardo fisso e vuoto tipico delle immagini di Botero: un sorriso inespressivo appena accennato, disegnato su un corpo abbondante, disteso sul divano. Poi d’improvviso muove le spalle, scuotendosi, e riprende la stessa espressione indifferente di qualche minuto fa. «Non mi aspettavo certo coccole e affetto, ma almeno un po’ di cortesia…» «Il problema non è la cortesia. Sembri una vacca mentre rumina…» Si alza, rapidamente, mentre si infila la gonna con rabbia. «Be’, complimenti. In ogni caso hai poco da fare lo spiritoso. Guarda che non è stata un granché come scopata. Almeno dovresti essere rispettoso…» L’ultima parola che pronuncia mi riecheggia per alcuni secondi nella mente. Rifletto. Rispettoso: di cosa? Dei tuoi soldi, della tua auto? Del grasso che deborda, inutilmente nascosto da vestiti da migliaia di euro? La guardo mentre si sistema, indeciso sul lasciarmi andare al mio sfogo di rabbia o continuare a osservarla in silenzio. In fin dei conti, ritengo che non meriti nemmeno una parola, un pensiero. «E questa chi è?» «Mia figlia…» Uno scossone involontario al mobile e la foto cade. Un suono, rumore di vetri che si infrangono sul pavimento. Lei scivola goffamente, lanciandosi sfuggire un lamento e un’imprecazione. Un piccolo fiotto di sangue sgorga dalla pianta del suo piede. «Fanculo… ‘sto schifo di foto…» La scosto dal mobile, spingendola con decisa indifferenza e con cura prendo la foto, cercando di non farla sporcare dal sangue che, solo ora, mi accorgo potrebbe essere infetto. «Ma lascia stare la foto… prendimi qualcosa…» Non la sento. «Tutto per una foto del cazzo…» Non la sento. Frammenti di parole colpiscono la mia mente: “moglie”, “figlia”, “senza palle”.

Page 28: Il seme dell'Elleboro

27

Mentre rifletto su quanto il valore di una parola cambi a seconda di chi la pronuncia, le sue ultime parole muoiono in un rantolo soffocato. Le mie dita che stringono forte la sua gola, le nocche della mano destra che diventano sempre più bianche assecondando lo sforzo. La spingo con forza contro il muro, fino quasi a sollevarla da terra e mi avvicino ai suoi occhi. Hanno perso quel vuoto che li caratterizzavano. Sono occhi che in questo momento sembrano vivi, pieni, profondi in cui percepisco distintamente dolore, rabbia e paura. Così vicini, sono bellissimi. Adesso, finalmente, bellissimi. Sento la porta che sbatte alle mie spalle mentre, osservando le dita, mi accorgo che ormai stringono solo l’aria. Francamente non so se sono più spaventato o, finalmente, realmente eccitato.

* * *

La leggera vibrazione svegliò Nikos immediatamente. Preso il cellulare con un gesto rapido, si alzò, cercando di non svegliare la compagna di quella notte, dirigendosi verso la cucina di quella casa in cui, quando era solo, nonostante la saltuaria ma costante frequentazione, continuava a sentirsi ancora a disagio. Aveva sempre avuto l’impressione che l’immagine più appropriata a delineare il profilo della figura dell’amante fosse quella un avvoltoio che si cibava avidamente di una carcassa in putrefazione. Mosse la mano, aprendo lo sportello del telefono, e prima di rispondere diede una rapida occhiata all’ora segnalata sul display. «Sono Lantros, dimmi.» «Commissario, scusi il disturbo, so che è tornato solo da poche ore. Ci hanno comunicato che è stato via per… infatti… le volevo anche porgere le mie condoglianze…» «Dimmi Meduri…» «Be’, è successo un pasticcio commissario…» «Ci vediamo tra dieci minuti. Sarò al numero uno di Corso Fiume.» Dopo aver riattaccato restò per alcuni secondi immobile, con gli occhi chiusi, immerso nel buio e nel silenzio, controllando i battiti del cuore, come un predatore che si prepara alla caccia.

Page 29: Il seme dell'Elleboro

28

Liberò il maglione dalla morsa delle autoreggenti abbandonate sul pavimento, immagine emblematica della passione violenta e viscerale che lo aveva travolto poche ore prima e, dopo aver sentito il sapore del fumo riempirgli la bocca e i polmoni, uscì sul balcone per osservare la città, quasi immobile e silenziosa. Immerso in mezzo al niente, la mano che portava la sigaretta alla bocca in modo meccanico, si ritrovò per alcuni istanti a contemplare la collina che sembrava gettarsi nel fiume che attraversava il centro come una arteria vitale, pulsante. Perso nei suoi pensieri, mentre seguiva il riflesso dei fari di un’auto che si riflettevano sull’acqua scura, si scosse, non appena il suo olfatto fu colpito da un odore pungente e intenso, immediatamente percettibile tra i profumi della collina. Sceso in strada, stretto nell’impermeabile per difendersi dall’aria umida, attese qualche secondo l’arrivo della volante che si arrestò inchiodando sull’asfalto, mentre le luci lampeggiavano, illuminando la notte di un blu elettrico. L’auto attraversò rapidamente la città accompagnata dalle sirene che strillavano e si arrestò, mentre i vigili del fuoco spegnevano gli ultimi focolai dell’incendio. Il commissario Lantros scese dall’auto e, con gli occhi che già bruciavano per l’aria acre che opprimeva il posto, si guardò attorno. Davanti ai suoi occhi, in quello che sembrava lo spaccato di uno scenario di un film apocalittico, tra un paio di giornalisti che si accalcavano nei pressi della sua auto, liquidati da un secco “no comment”, e gli scheletri metallici di roulotte fumanti e di auto carbonizzate, si stendevano i resti di quello che era il più grande campo nomadi della città. Tra le urla delle donne, la rabbia crescente degli uomini, l’abbaiare isterico dei cani, il fumo denso che si allargava lentamente, i volontari della croce rossa che si affannavano su alcuni corpi, Nikos, la mano che giocava nervosamente con lo Zippo, cercò di estraniarsi, di razionalizzare, di gestire le sue emozioni di sconforto, rabbia e preoccupazione. L’emergenza, in quel momento, era quella di sedare gli animi di persone ferite, spaventate e desiderose di capire, di sapere, pronte a chiedere giustizia o, peggio, vendetta. Osservò il quadro di fronte a lui per alcuni secondi, poi si avvicinò a un gruppo di quattro uomini che stavano discutendo animatamente «Sono il commissario Lantros. Con chi posso parlare un momento?» Un uomo piccolo di statura, con baffi folti e pancia gonfia, lo guardò attentamente

Page 30: Il seme dell'Elleboro

29

«Sono Raouf… puoi parlare con me. Seguimi.» Mentre si allontanavano di qualche metro dal gruppo, dirigendosi verso una grande roulotte, Nikos rifletteva su quello che avrebbe detto a un uomo, un capo, la cui tribù aveva perso tre uomini e due donne, i cui cadaveri fumanti erano ancora all’interno delle roulotte. Senza considerare i due bambini appena portati via dalle autoambulanze col corpo piagato da terribili ustioni. Si fermarono l’uno di fronte all’altro, a pochi passi dalla scaletta che conduceva all’interno della roulotte sormontata da un’ antenna parabolica che dominava sulle loro teste come un’enorme luna nera. «Mi dispiace molto.» attese qualche istante, senza ottenere alcun segno di risposta, avvertendo una strana sensazione, simile a quella che prova chi è studiato, quasi esaminato. «Stiamo cercando di capire cosa sia successo, ma» prese un profondo respiro «stando ai primi rilevamenti dovrebbe trattarsi di un incendio doloso. Qualcuno è venuto qui ed ha appiccato un incendio. Qualcuno di voi ha visto o sentito niente?» L’uomo di fronte a lui scosse appena il capo in senso di diniego. «Al momento la cosa più importante è che lei tenga la sua gente tranquilla e che spieghi loro che è utile collaborare con noi. Abbiamo bisogno di tempo e informazioni. Magari qualcuno nei paraggi può aver visto qualcosa. Non le nascondo, però, che non sarà semplice. Siete in una zona isolata e dobbiamo avere pazienza nelle ricerche, ma le assicuro tutto il mio impegno. Però, ripeto, ho bisogno di tempo, calma e disponibilità da parte sua a farci parlare con tutti coloro che potrebbero essere d’aiuto.» «Tu chiedi tempo e calma a chi questa notte ha perso amici e fratelli. I nostri figli sono quasi morti. È difficile, ma tu sei onesto e tu mi piaci. Allora io ti dico: ti darò il giusto tempo…» Nikos si morse le labbra, increspandole, mentre la sua attenzione sottolineava l’aggettivo appena usato dal suo interlocutore. Si strinsero la mano, guardandosi negli occhi, quasi a sancire una promessa di tregua e si allontanarono, ritornando verso il centro del campo. Mentre Raouf parlava ad ampi gesti con la sua gente, Nikos attraversò il campo dirigendosi verso le roulotte incendiate, da cui il fumo continuava a salire, fino a inginocchiarsi vicino a uno degli agenti che stava effettuando alcuni rilevamenti attorno a quello che sembrava l’ignizione dell’incendio. «Allora Meduri, cosa abbiamo?»

Page 31: Il seme dell'Elleboro

30

Accovacciato, con tutto il peso poggiato sulle punte dei piedi, l’agente scattò l’ennesima fotografia alle impronte che si allontanavano verso la strada e nella sua tipica cadenza, che amava definire “uno splendido esemplare di dialetto calabro-piemontese”, si rivolse a Nikos. «Purtroppo non molto commissario. Tracce di benzina, impronte che dalla strada vanno verso le roulotte e tornano indietro. – si alzarono seguendo per qualche metro le impronte visibili sul fango umido. Non so che dirle commissario: sembra che fossero almeno tre. Hanno attraversato il campo, sono arrivati fino alla roulotte versando la benzina – con la mano indicò una striscia scura nel terreno – sono tornati indietro e hanno dato fuoco alla “miccia”. Il legno della roulotte e la bombola del gas hanno fatto il resto. I primi devono essere morti nell’esplosione. La morte di quelli della roulotte accanto è chiaramente dovuta al soffocamento.» «Nel campo qualcuno ha visto qualcosa? Avete già provato a sentire gli inquilini nelle case vicine?» «Nessuno dei rom ha visto niente. Due dei nostri sono andati a fare domande in giro, ma, siamo onesti commissario: è difficile trovare qualcuno che abbia visto o sentito qualcosa, esplosione a parte, ovviamente. La zona è isolata e, anche se dovesse esserci qualcuno che ha visto, ben difficilmente sarà disposto ad aiutarci. Sa meglio di me come sono visti i rom da queste parti. Non credo ci sia nessuno che perderà il sonno per quello che è successo…» Nikos si allontanò ripetendo nella sua mente le parole del collega e si avviò verso i resti fumanti che giacevano sul terreno fangoso. Entrare all’interno della roulotte fu complicato, non tanto da un punto di vista fisico, tra il fumo e il calore che continuavano a salire dalle lamiere, ma soprattutto da un punto di vista emotivo: i resti di quella che era una vera e propria abitazione lo circondavano, presentandogli il macabro spettacolo di pareti annerite, pezzi di vetro sul pavimento, nell’odore intenso e acre di mobili, plastica e corpi bruciati, sciolti dal calore. Alla fine il suo sguardo si posò sui resti di due uomini contorti in un’espressione di dolore straziante. Nikos sentì una fitta alla bocca dello stomaco e si piegò su stesso. Tre passi all’indietro e si ritrovò a respirare a pieni polmoni la brezza della notte. Un’altra fitta lo colpì alla bocca dello stomaco, mentre il fisico rifiutava ciò che la mente aveva ormai già assimilato. Piegato su se stesso, con il collo ancora teso per lo sforzo e i succhi gastrici che ribollivano nello stomaco, la sua attenzione venne rapita

Page 32: Il seme dell'Elleboro

31

dalle frasi di due giovani agenti che, apparentemente, tornavano da un inutile giro di perlustrazione. «E poi… mamma mia che puzza… fossero stati italiani mica ci sarebbe questo odore…» Il commissario Lantros si alzò, dirigendosi furente verso la fonte di quelle parole. Afferrò uno dei due ragazzi e trascinandolo nel silenzio all’interno della roulotte, lo spinse con forza a terra in modo che il volto del giovane agente fosse perfettamente di fronte ai resti di uno degli uomini carbonizzati. «Ascoltami bene, testa di cazzo. Non voglio problemi in un posto come questo solo perché un demente come te non riesce a tenere la bocca chiusa, ed ha tanta voglia di diffondere le sue idee politiche e sociali. Ti avverto, fallo ancora e ti ritrovi sperduto nelle valli con pecore e mucche, a meno che tu non abbia il coraggio di andare a parlare con loro – con un gesto della mano indicò Raouf e i quattro uomini che parlavano con lui – e non gli dica quello che pensi realmente. Magari, potrebbero trovarlo interessante…» Attese per qualche istante, poi, fissato per qualche secondo l’agente negli occhi, uscì dalla roulotte.

* * * Lei si muove. Scivola lenta e morbida dal divano coperto da un lenzuolo che imita squallidamente una pelle di leopardo e si avvicina sinuosa. Mani a terra, la schiena bianca liscia e tonica che guida il mio sguardo fino al tanga nero che segna le sue forme. La voglio, lo sento. Mi guarda, mentre muove la lingua sulle labbra e sorride. «Ti piace così?» Non le rispondo. Ansimo, mentre comincio a sfiorarmi i pantaloni e avverto un rigonfiamento sotto la cerniera. La mano si muove rapida e decisa. Libero i bottoni dalle loro asole. Pelle su pelle. «Dai, sono qui solo per farti venire. Voglio sentirti…» Lei continua a guardarmi intensamente. Le sue mani cominciano a scivolare sui suoi seni, la sua lingua si muove sulle sue labbra sempre più voluttuosa. Si solleva leggermente, mostrandomi i capezzoli turgidi. Mi avvicino. Il mio sesso è in piena erezione, mentre comincio a muovere lentamente la mano e lei ansima, si muove, lasciando

Page 33: Il seme dell'Elleboro

32

scivolare la lingua sulle labbra, mentre le sue mani stringono i seni, eccitando i capezzoli. Si masturba. Sono in preda a un piacere che diventa sempre più veloce, sempre più profondo, sempre più intenso. Mi avvicino, osservando il suo sguardo e le sue labbra, mentre un brivido, rotto da un sospiro intenso, mi scorre sotto la pelle. Apro lentamente gli occhi: gocce di sperma, scivolano lentamente sul televisore. Lei da dietro allo schermo mi sorride, mentre sento nella cornetta del telefono la sua voce. È calda, paziente, complice. «Ti è piaciuto?» «Sì. Mi sento un idiota.» Le parole escono da sole, mentre mi sento ardere di vergogna e di rimorso. Mi sembra ridicolo, eppure, sono sul punto di confessarle il mio disagio… No. Sarebbe davvero troppo avvilente essere psicanalizzato da una telemignotta… «Se ti è piaciuto sono contenta. È come se fosse un po’ merito mio…» Non una parola sul mio manifesto senso di colpa… non un accenno alle mie preoccupazioni. Lei conosce gli uomini. Lei sa. Trattengo il respiro in una smorfia di soddisfazione e curiosità. «Non pensi mai che quelli che ti chiamano siano dei falliti? Senza una donna, senza dignità? Degli sfigati che non possono nemmeno permettersi venti euro per scopare?» «Non c’entra niente la dignità. E non è questione di sesso. Questo è un gioco in cui io faccio solo la mia parte. Ora, però, ti devo salutare: ho tante chiamate in linea.» «Aspetta…» «Ti saluto, sei stato davvero carino. Richiamami quando ne hai voglia.» Silenzio. Solo. Il mio membro nella mano destra, la cornetta nella sinistra, illuminato dai bagliori della tv, ancora bagnata dal mio piacere. Resto immobile, mentre le auto sfrecciano sotto la mia finestra. Non so più niente. Non sono più niente. Mi masturbo davanti al televisore. In casa c’è un’aria pesante e acre, un odore stantio e nauseabondo. Apro la porta-finestra che si affaccia sul balcone ed esco. L’inutilità del mio gesto si manifesta mentre continuo a percepire ancora quell’odore, di cui non riesco a capire l’origine. Eppure, il fresco della notte mi

Page 34: Il seme dell'Elleboro

33

risveglia i sensi, mentre avverto un lieve senso di ripresa. I tendini riprendono elasticità, i muscoli sembrano acquisire nuovamente il vigore perduto. Guardo la città: il silenzio è schiacciato dalle urla che sento nella testa, graffi che lacerano l’anima, unghie che infettano ferite aperte. Guardo il vuoto sotto di me, fatalmente attratto dalla sua bellezza. Basterebbe un piccolo gesto, un salto, un secondo di oblio. E poi, pace, quiete, silenzio. Il nulla come dimensione assoluta della mia essenza. Le immagini del mio funerale cominciano a materializzarsi nella mia mente: pochi presenti, poche lacrime, tanto rimorso, tanto rimpianto. Lo sguardo spento di mia figlia, quello consapevolmente deluso di mia moglie. La voce di lei che rimarca con fierezza “ex-moglie”, mi trafigge alle spalle, mentre, inerme, cado a terra. Che squallore: non riesco a immaginare di essere protagonista nemmeno nel giorno del mio funerale. Un pensiero di lucida follia illumina i miei pensieri, mentre finalmente comprendo tutte le celebrità che hanno avuto la fortuna di potersi suicidare: un piccolo gesto per rendere eterna la loro immagine. Fortuna. Ripeto nella mia testa che si tratta solo di fortuna. Il sacrificio della vita, in cambio dell’immortalità. Un gesto di coraggio dell’io, in cambio dell’esaltazione dell’es freudiano. E io, invece, non posso farlo. Non adesso. Non ancora.

* * * So bene perché l’avvocato mi ha chiamato. Tono gentile, voce pacata. Oggi tutto diventa definitivo, oggi si torna indietro di anni. Oggi un timbro sopra qualche parola scritta sancisce la fine di una parte, la parte più bella, della mia vita. Quella che mi ha dato tutto. E in cui io credo, o meglio, credevo, di aver dato tutto. Mi sento vuoto, non ho più forze, mi sembra di non essere più in grado di provare nulla. Non ho più anima. Ho solo più un’immagine, mossa da un’illusione di potere, di forza che continua a pungolare i miei pensieri, come un animale che annusa la paura della sua preda, mentre vedo ancora la mia mano attorno a quella gola, e quegli occhi di donna spaventata, il suo confuso terrore mentre fugge da casa mia. Brividi di piacere scorrono nel corpo. Adrenalina.

Page 35: Il seme dell'Elleboro

34

Mi sembra che sia stato il solo momento negli ultimi mesi in cui mi sono sentito vivo, presente e ricco di emozioni. Invece adesso, nel momento in cui tutto va a rotoli, in cui dovrei essere pieno di emozioni, non sento niente. Cammino per la città, in questa limpida giornata di inizio autunno, con le mani nelle tasche, le spalle strette verso il petto a difendermi dal freddo e dagli sguardi della gente. Giorni strani. Vedo le parti della mia vita frantumarsi… ed è come se fossi morto. Fermo a un semaforo, un cane mi guarda scodinzolando. Mi inginocchio, non prestando la minima attenzione alla persona che lo tiene al guinzaglio, e lo accarezzo. Sembra mi sorrida riconoscente, quando scatta il verde e lo vedo allontanarsi. Mi alzo mentre una fitta mi prende lo stomaco. Cerco di sollevarmi, appoggiandomi faticosamente a una delle colonne che sorreggono i portici delle vie del centro. Mani pallide, nervose. Una ferita cicatrizzata da poco si snoda tra le nocche – non ricordo quando e dove mi sono ferito – dita lunghe e sottili in cui la pelle viva si affaccia sotto unghie martoriate. Cammino, immerso nei miei pensieri. Non guardo la città, scivolandole attraverso. Silenzioso e scostante. Mi fermo davanti allo splendido palazzo signorile in cui si trova lo studio del nostro – ormai solo più suo – avvocato. Suono il campanello… silenzio. Osservo il quadrante dell’orologio sulla cassa del quale un tempo lei aveva fatto incidere il simbolo del suo amore per me. Sono in leggero anticipo. Suono ancora… più a lungo. Finalmente una voce risponde, invitandomi a entrare, mentre il portone di legno scuro si apre lentamente, offrendomi lo spettacolo di un incantevole giardino: un portico che incorona uno spazio circolare, al cui centro si erge un piccolo pozzo. Rimango immobile per qualche secondo, colpito da tanta bellezza, perfezione e simmetria. Sono pervaso da un’effimera ondata di tranquillità. Sembra di essere stati catapultati in un’altra città, in un altro tempo: non c’è rumore, è tutto immobile, fissato in un attimo di eterno. Sospiro, cercando di godere di quel momento. Poi mi chiudo alle spalle la pesante porta a vetri che mi riporta al mio penoso presente.

Page 36: Il seme dell'Elleboro

35

Sulla porta mi attende la giovane e sensuale segretaria. Accomodante, sempre gentile. Mi saluta e mi sorride. Sembra leggermente affannata, segnata da un lieve rossore sulle sue guance. Gioca distrattamente con una ciocca di capelli, mentre mi annuncia. «È arrivato il signor Zohit… sì… senta, se le va bene, prima che chiudano, vado un momento in posta… sì…» Mi sorride e mi invita a entrare nello studio, mentre afferra la borsa dalla scrivania e si chiude la porta alle spalle. Un istante dopo sono nello studio dell’avvocato. Atletico, perennemente abbronzato, sempre vestito in modo impeccabile, con un cenno di sfrontatezza che lo rende ancora più affascinante. Il suo studio, la sua vita, la sua segretaria, che secondo me si scopa di continuo, la sua immagine, le foto della moglie e dei figli in mostra sulla scrivania, un trofeo visibilissimo in un angolo strategico della libreria che si alza maestosa alle sue spalle, sono le icone e le insegne del suo successo. Non è un uomo: è uno standard. È uno spot pubblicitario che si ripete a ciclo continuo. È il perfetto emblema della società: uno schifoso arrivista. È quello che vale solo quanto è conosciuto il suo nome, è l’immagine dei reality, delle mignotte in televisione, di chi arriva al successo grazie a pompini e piaceri, di chi non è ma deve apparire, di nomi che conosco solo perché ripetuti continuamente dai media. Mostri di cui ricordo i nomi. I nomi: non importa cosa tu faccia per essere conosciuto, l’importante per garantirti un futuro è che la tv ripeta con snervante costanza il tuo nome. La storia imprime a fuoco nella memoria i nomi degli assassini, delle vittime non si ricorda mai nessuno. «Caro Enrico…» Mi viene incontro, sorriso stampato sul volto, passo deciso, mano tesa, orologio d’oro in bella vista sul polso. Lo fisso negli occhi. Non mi guarda. Un’emozione, finalmente, mi riempie e torna a scorrermi nelle vene: mi accorgo che lo odio. Odio tutto ciò che è, che rappresenta. Odio essere qui. Lo saluto e cerco di imporre a tutti i muscoli del viso di disegnare un sorriso che sembri credibile. Credo di fallire miseramente: lo leggo nella sua espressione, nel suo malcelato imbarazzo. Mi fa accomodare. Lui, tronfio nella sua potenza e nel suo carisma, rimane in piedi, sistemandosi di fronte alla grande porta-finestra, da cui si osserva uno splendido angolo della collina, e che si affaccia su un piccolo terrazzo

Page 37: Il seme dell'Elleboro

36

dominato da due giovani piante di acanto, antico e floreale simbolo del suo prestigio, del suo benessere. Parla… spiega. Ha un tono che è un misto tra l’asettico e il leggermente contrito. Lo ascolto, ma non lo sento. Sembra occasionalmente mostrare comprensione e simpatia: è il boia che mi fa coraggio prima dell’esecuzione. Avvocato e psicologo, parla, mentre tenta di allentare il nodo della sua cravatta da un migliaio di euro, mentre tossisce nervosamente, dicendomi di non sentirsi bene, mentre si piega in due spezzato da un dolore invisibile. Resto immobile a guardarlo mentre mi chiede aiuto, e mi supplica di chiamare qualcuno mentre vomita riverso sul pavimento. Mi avvicino ai suoi occhi che mi guardano carichi di rabbia e di paura. Aspetto. Lo guardo contorcersi, incapace, nella sua inutile e supposta potenza, di arrivare al telefono sulla scrivania, mentre crolla a terra, urlando di un dolore che trovo stranamente attraente. Aspetto qualche secondo, fino a quando non sembra più essere in grado di muoversi, mentre il respiro rallenta fino a fermarsi. Lo sfioro: è immobile. Sembra una statua di cera. Mi guardo intorno; sono l’imperatore di un mondo in cui l’unico suddito è riverso, morente, sul pavimento. Adrenalina, paura, curiosità ed emozione si mischiano nel sangue. Rifletto. La morte non è un caso. Continua a girarmi intorno, dall’inizio della mia vita, in forma reale o figurata e io, ormai, ne sono innamorato, attratto. La morte come istante in cui sentire la vita. Tento di trovare lucidità, concentrandomi per qualche istante, fino a quando i pezzi di uno sconclusionato puzzle si fondono insieme. Tutto nella mia mente diventa limpido, logico, lineare. Una lucida follia. Nella mia mente, sono già alla fine di questa storia. Alzo il telefono. Le dita compongono rapidamente il centodiciotto: chiamata per emergenza sanitaria. Chi mi parla mi chiede di stare calmo e di riferirgli l’indirizzo, mi dice di non preoccuparmi, che in pochi minuti saranno qui. Credo senta la vibrazione nella mia voce, il respiro intenso. Immagino pensi che sia paura; non sa, non può immaginare che non si tratta di panico. La mia è adrenalina, eccitazione. Mi siedo su una poltrona di fronte a quello che è un corpo senza vita, un involucro. Sorrido, pensando che in realtà è sempre stato solo un involucro. Mi chiedo se sia vero che si perdono ventuno grammi nel

Page 38: Il seme dell'Elleboro

37

momento della morte, mentre mi sfrego le mani che tremano leggermente. Brividi e paura, ma l’eccitazione è presente: la sento distintamente nel centro dello stomaco. Benessere, potere e prestigio, sono inermi e senza vita ai miei piedi. Poi una rapida sequenza di pensieri e un sorriso che mi si disegna sul viso. Autentico, reale. Mi alzo…esco sul terrazzo. Su una delle piante di acanto, l’ultimo dei fiori che la ornavano resiste ai primi freddi. Ne stacco un petalo e dopo averlo osservato qualche istante facendolo scivolare tra l’indice e il pollice, lo infilo nella gola del mio – definitivamente – ex avvocato che, occhi rovesci e colore che comincia a tendere al violaceo, ha scolpita sul volto una smorfia di dolore. Mi inginocchio vicino a lui tenendo la sua testa sulle ginocchia, mentre continuo a sentire sulle dita il profumo dell’acanto e nell’aria l’odore della morte. Inebriato mi godo ogni attimo di quel silenzio, finché la bella segretaria non torna, seguita da due tute color arancio. Il suo urlo è l’ultima cosa che sento. «Io davvero non capisco più la motivazione che ti spinge a venire qui tutte le settimane…» Nikos rimase in silenzio, seduto su una comoda poltrona bordeaux, i gomiti appoggiati alla scrivania, le mani incrociate davanti alla bocca a sorreggere il naso, gli occhi fissi al portamatite a forma di scimmia di fronte a lui. Dall’altra parte della scrivania, la dottoressa Crespi non sembrava aspettarsi realmente una risposta. Era una donna decisamente attraente. Sulla quarantina, con capelli rossi e splendidi occhi verdi sempre attenti, un seno sodo e abbondante che faceva capolino da una camicia bianca a righe verticali azzurre con i polsini sbottonati. «Non sono l’unico psicanalista a cui si appoggia il distretto, per cui, se ritieni che parlare con me non serva a niente, perché non chiedi che sia uno di loro a parlare con te? Mi sembri uno di quei cattolici in crisi mistica che vanno in chiesa a torturare il prete nella speranza che sia proprio lui a dirgli che Dio non esiste, che è tutto falso. Non capisco il tuo scopo. Vuoi che sia io a far presente al distretto che forse è meglio interrompere le sedute con me?»

Page 39: Il seme dell'Elleboro

38

Nikos sospirò profondamente e accese l’ennesima sigaretta. Si alzò dirigendosi verso la finestra con infissi in legno antico che dava su una delle arterie principali della città e la aprì, osservando i passanti muoversi in schemi predeterminati come all’interno di un invisibile labirinto. «Sa bene che essere qui non è una mia scelta. Un altro dottore non cambierebbe nulla. Ritengo sia inutile parlare con uno psicologo. Lei o un altro non fa differenza.» «Lo so. Allora, forse, dovremmo cercare di capire perché tutto questo per te sia così pesante…» «Ripeto: non lo trovo pesante, ma inutile. E, soprattutto, ingiustificato ed eccessivo. Mi sembra una punizione un po’ troppo severa dopo tanti anni di servizio. Di onorato servizio…» Si rese immediatamente conto di un’involontaria e profonda flessione nella voce che andò a sottolineare l’aggettivo appena usato. «Almeno sappiamo dove sta il problema. Tu continui a vedere queste seduto solo e semplicemente come una punizione e non come un piccolo aiuto.» «Un aiuto? Io non ho bisogno di nessun aiuto. Sono vent’anni che mi faccio un culo così e, adesso, per una fesseria…mi correggo, una cazzata, si mette tutto in discussione, e mi si obbliga a venire da lei a parlare di me e delle mie emozioni?» «Una fesseria?» La dottoressa Crespi si allungò sulla scrivania e, aperto il primo cassetto, ne estrasse una cartella marrone, da cui fece scivolare una fotografia che immortalava il volto tumefatto di un uomo, sbattendola con forza sul legno scuro. «Tu questa la chiami una fesseria? Lo hai massacrato. Gli hai rotto uno zigomo, fatto saltare un dente. Rischi di essere denunciato e di finire sotto inchiesta. Non ti sembra qualcosa in più di una sciocchezza?» Nikos si voltò e posò lo sguardo per un istante sulla foto. Una smorfia, che la dottoressa non riuscì a decifrare, gli si disegnò sul viso mentre, aspirando una boccata profonda dalla sua sigaretta, ritornava a fissare il traffico scorrere lento sotto di lui. «Le posso fare una domanda, dottoressa? Quando guarda fuori dalla finestra, cosa vede?» «Che domanda è?» «Una domanda semplice. Che cosa vede?» «Vuoi giocare? E giochiamo. Traffico, automobili, bambini, donne…» «E a livello lavorativo?»

Page 40: Il seme dell'Elleboro

39

«Non so» la dottoressa si alzò e si avvicinò a lui, inebriandolo del suo profumo «potenziali depressi, maniaci, individui con complessi di Edipo grandi quanto i supermercati dove si gettano a fare bulimici acquisiti…» «Potenziali clienti…» «Non è certo quello che intendevo.» «Non la prenda in senso negativo. Ma la differenza tra noi due, sta tutta qui. Per lei, le persone viste da questa finestra sono potenzialmente individui da aiutare oltre che un’infinita fonte di guadagno» la dottoressa Crespi gli rivolse un’occhiata torva che Nikos ignorò «per me, invece, sono solo esseri umani con cui spero di non aver mai niente a che fare. Ognuno di loro, se mai avrà un contatto con me, sarà perché ha ucciso, è morto, oppure perché è un bastardo che come quello – Nikos indicò distrattamente la foto in bella mostra sulla scrivania – ha massacrato di botte una donna. La cosa triste, dottoressa, è che io accetto anche tutto questo, lo sporco che vedo ogni giorno, il fatto di entrare in contatto, come dice lei, con la parte più oscura dell’animo umano…avessi voluto una vita tranquilla, avrei lavorato in un asilo nido. Quello che non mi va giù, è dover stare qui a giustificarmi e difendermi perché ho dato una lezione a uno che, mi creda, lo meritava davvero. Se aggiungiamo a questo il fatto che sono costretto a constatare che il mio lavoro non ha un seguito, vanificato da migliaia di leggi e cavilli che burocrati, psicologi e garantisti, hanno contribuito a creare…» «Credo che il tuo lavoro sia quello di garantire la legge. La giustizia, purtroppo, è un’altra cosa.» «Probabilmente sì, ma è, come dire…frustrante sapere che tutto quello che io faccio potrebbe non servire a nulla, che dopo tre giorni la persona che ho impiegato settimane ad arrestare, magari è a casa a farsi una birra e guardare la partita. Sa cosa penso davvero? Che in un mondo giusto, perfetto queste persone, dovrebbero essere esiliate. Dopo anni di servizio, posso dirle che il fine primario non dovrebbe essere la redenzione di chi commette un reato, ma la sicurezza e la tutela dei cittadini. Il principio è che se un individuo commette un reato che lede alla sicurezza e alla salute di un’altra persona, se si dimostra incapace di vivere nella collettività, allora può solo vivere in isolamento…al massimo circondato da persone simili a lui, prive di moralità e rispetto.» «È per questo che l’hai massacrato di botte? Per farlo vivere un momento in una realtà in cui vive attorniato da elementi come lui? Il

Page 41: Il seme dell'Elleboro

40

fatto di essere un agente, invece, ti da diritto di malmenare un uomo? Io capisco che il tuo lavoro possa essere frustrante, ma non è certo un buon motivo…» «La frustrazione o le mie idee personali non hanno niente a che vedere con quanto è successo. Sapevo che avrebbe frainteso. Nel caso specifico, ho semplicemente perso il controllo. In fondo, quello che è mi è capitato a livello familiare, credo mi dia qualche attenuante.» «Probabilmente sì.» «Allora, come può constatare da sola, probabilmente non sono pazzo.» «Nessuno ha mai messo in discussione la tua sanità mentale. Il punto è cercare di capire se sei arrivato al punto di rottura. La sola cosa che posso dirti è che questa è la vita che hai scelto, che ti ha portato a lasciare la tua famiglia. È questa la vita che ti porta ad alzarti nel cuore della notte, e correre dall’altra parte della città, ma, Nikos, benché io sappia del tuo senso del dovere e del profondo amore per il tuo lavoro, devi prendere coscienza che nessuno ti obbliga a continuare a portarla avanti. Puoi mollare tutto, tornare a casa, o, almeno, prendere in considerazione un’attività meno stressante e dedicarti maggiormente al lavoro d’ufficio…» «E rincoglionire dietro a una scrivania? E perché dovrei? Amo il mio lavoro, e forse non l’hanno informata, ma pare che io sia anche discretamente bravo…» «Conosco il tuo stato di servizio. Ma mi lascia perplessa il fatto che è come se tu godessi a tenerti dentro tutto. Se non credi che aprirti con me possa servirti, allora ti ripeto: davvero non capisco la motivazione che ti spinge a venire qui. Parla col vice-questore, so che siete in contatto, fai in modo di essere sollevato da quest’obbligo. O almeno non accettarlo con rassegnazione: se andiamo avanti così, perdiamo solo tempo. Tutti e due.» Rimase assorto nei suoi pensieri per qualche secondo, assecondando con la sua immaginazione le varie emozioni che stava provando. Rabbia: immaginò di rovesciare la poltrona vuota davanti a sé e uscire dallo studio ma, nel momento stesso in cui pensava alla rabbia e alla voglia di allontanarsi da quel luogo, una leggera eccitazione cominciò a insinuarsi sotto la sua pelle. Si vide mentre si avvicinava alla dottoressa Crespi, mentre la prendeva con decisione dai fianchi, mentre le scioglieva i capelli che cadevano delicati sulle spalle, mentre cominciava a seguire con le mani le forme del suo corpo.

Page 42: Il seme dell'Elleboro

41

Rimase assorto in quella miscellanea di emozioni per qualche istante. Poi, dopo aver inspirato l’aria fresca a pieni polmoni, richiuse la finestra e si sedette nuovamente sulla poltrona. «Lei mi sfida, sempre. Crede realmente di riuscire a provocare una reazione da parte mia? Vuole davvero vedere se riesco a mantenere il controllo? Io vivo dovendo gestire le mie emozioni. Saper trattenere le parti più nascoste della mia personalità è una caratteristica che sono obbligato a possedere. Tenere dentro il dolore, la disperazione o la rabbia per quello che vedo, è la sola protezione che mi consente di alzarmi la notte e correre dall’altra parte della città. Non creda che una piccola provocazione possa spingermi a condividere pensieri che nascondo da anni. Soprattutto, una provocazione da parte sua…» «Ma allora che cazzo ci fai qui?» Il tono di voce della dottoressa Crespi, sensibilmente alto, segnato da una venatura di rabbia, riempì la stanza, Mentre si alzava, Nikos prese l’impermeabile appoggiato sul divano e si diresse verso la porta. Prima di uscire, un sorriso beffardo gli si disegnò sul volto. «Ci vediamo la settimana prossima. Arrivederci dottoressa.» La porta si chiuse lasciando sola nel suo studio Elena Crespi che, segnata da un lieve rossore che si irradiava dal collo fino al seno, afferrò una penna stilografica dal suo portamatite a forma di scimmia e cominciò ad annotare le considerazioni relative alla seduta, sul fascicolo di Nikos Lantros. Scrisse poche righe di getto. Improvvisamente si fermò, aprì il primo cassetto della scrivania e ne estrasse una bottiglia di vodka ucraina. Si sollevò, mano ferma sul bicchiere, e si affacciò alla finestra da cui, con le papille gustative eccitate dall’alcol, rimase immobile a osservare la città. Sceso in strada, mani veloci che arrotolavano la cartina, il commissario Lantros, stretto nel suo impermeabile, rimase per qualche minuto appoggiato al muro del palazzo in stile barocco che ospitava lo studio della sua psicologa. «Ma allora che cazzo ci fai qui?» Quelle parole continuavano a ronzare nella sua testa. Non aveva risposto. Non aveva nessuna intenzione di rispondere. Certo non a lei. Aspirando a grandi boccate dalla sigaretta, il commissario Lantros rifletteva su quanto, innegabilmente, gli piacesse la compagnia di quella donna bella, intelligente e attraente, disponibile ad ascoltare senza chiedere niente in cambio. Da un certo punto di vista, era una relazione

Page 43: Il seme dell'Elleboro

42

perfetta: aveva a disposizione la mente di una donna per qualche ora senza doverle concedere nulla. Era una prostituta dell’anima. Non avrebbe mai chiesto nient’altro. Non avrebbe mai voluto altro, a differenza di molte delle sue occasionali compagne di letto che tentavano di legarlo, di imbrigliarlo, di stabilizzarlo. E poi, con la dottoressa Crespi si era creato un legame empatico. Provocarla, sentire la tensione nella sua voce, l’esasperazione che provava per i suoi silenzi, gli dava modo di capire che non era solo. La frustrazione di chi lavora a stretto contatto con “l’oscuro dell’animo umano” distruggeva parti dell’anima di tutti. Non solo della sua. La vita privata divorata dalla professione. Se per Nikos, però, ogni incontro era un blando calmante per i propri incubi, una sorta di constatazione settimanale che il male comune è più che un mezzo piacere, per il commissario Lantros ogni seduta rappresentava una tortura, in cui le parole, i pensieri e i dubbi scalfivano inesorabili una corazza forgiata con cura. Aveva coltivato la necessità del dolore e della solitudine come arma per affrontare la propria quotidianità. L’indifferenza e la ricerca dell’obiettività a scapito dell’umanità, dei sentimenti e del coinvolgimento emotivo. La solitudine come scelta. Il suo dolore come condanna e come compagno. Il peso del suo passato e del suo presente come leva su cui poggiare la propria vita. In più, era una colossale perdita di tempo che lo distoglieva da questioni ben più importanti. Guardò il proprio volto riflesso sul finestrino di un’auto “Il giorno in cui proverai troppe emozioni, cambierai lavoro…» Gettò la sigaretta e cominciò ad allontanarsi in direzione del distretto di polizia, mentre due uomini con una tuta color arancio scendevano da un ambulanza per entrare nel palazzo di fronte, attraversando un esercito di individui stretti nelle proprie giacche.

* * * A due giorni dallo scoppio dell’incendio, tra le ceneri delle fiamme che avevano distrutto due famiglie e ridotto in coma farmacologico un bambino di sette anni, miracolosamente scampato all’incendio a differenza del fratello minore deceduto nella notte, sul campo nomadi

Page 44: Il seme dell'Elleboro

43

aleggiava un’aria di disperata tranquillità. I bambini giocavano con i cani mentre gli adulti, attorno ai resti della roulotte, tentavano di recuperare ciò che si era salvato dalla furia distruttiva delle fiamme. La pioggia caduta nella notte precedente aveva reso il terreno una poltiglia fangosa che si mescolava con la cenere, resto grigio e senza vita di legno e carne, indumenti e sangue. Il commissario Lantros scivolò silenziosamente tra le roulotte e le baracche a grandi passi, dirigendosi verso il punto in cui l’agente Meduri, occhi fissi al terreno, sembrava intento a ricercare improbabili tracce nel fango. Alle sue spalle, un gruppo di quattro agenti cominciava a dirigersi verso le case popolari la cui ombra si allungava sul campo, a un centinaio di metri di distanza. Arrivato nel punto in cui l’erba, che cominciava a ingiallirsi per il freddo, lasciava spazio a una striscia nera che si dirigeva verso i resti della roulotte, Nikos, sigaretta accesa nella mano destra, si inginocchiò, sfiorando con le dita il terreno bruciato. Occhi chiusi, immerso nel silenzio, mentre si massaggiava con forza le orbite con il pollice e il medio della mano sinistra, cercò di visualizzare quello che poteva essere accaduto quella notte. Notte fredda e umida di due giorni prima. Un gruppo di quattro persone scende da un’auto – difficile immaginare che siano venuti a piedi – che resta sul ciglio della strada che si snoda sotto le case popolari. Si dirigono insieme verso il campo, fermandosi nel punto in cui poi daranno fuoco alla benzina. In due, tanica in mano, si dirigono verso la roulotte e la cospargono di benzina. Tornano nel punto in cui gli altri li aspettano e danno fuoco alla “miccia”: il combustibile si incendia, disegnando sul terreno una lingua di fuoco che si dirige verso il veicolo. I quattro probabilmente si assicurano che la roulotte prenda fuoco e poi corrono verso l’auto; le impronte lasciate sul fango al ritorno, esaminate la notte scorsa, presentavano passi decisamente più ampi rispetto all’andata. Poi si allontanano. Nikos sollevò lo sguardo verso il cielo plumbeo. «Meduri, quanto tempo si impiega da questo punto alla strada, facendola di corsa?» «L’ho fatta stamattina, commissario: con scarpe pesanti come quelle che dovevano avere, viste le impronte, su un terreno leggermente fangoso, circa quindici secondi.»

Page 45: Il seme dell'Elleboro

44

«Quindici secondi. Più due variabili. Uno: se c’era qualcuno in auto la partenza è stata decisamente rapida. Due: quanto tempo sono rimasti a osservare lo spettacolo…» «Commissario, io direi che se va bene abbiamo uno spazio di tempo di un minuto. Massimo due. Un paio di minuti in cui qualcuno, sentita l’esplosione, deve essersi affacciato, notando i primi bagliori dell’incendio, e deve aver prestato attenzione a qualcuno che si muoveva nel buio, piuttosto che a due roulotte che prendevano fuoco. Diciamo la verità, commissario: non abbiamo niente su cui lavorare…» Nikos si alzò, gettando lontano il mozzicone della sigaretta, osservando il grande palazzo in cemento armato che si alzava maestoso di fronte al campo. «La nostra unica speranza è dietro a una di quelle finestre.» FINE ANTEPRIMACONTINUA...

Page 46: Il seme dell'Elleboro

Anche questo libro sarà disponibile in versione audio con JukeBook

SE NON HAI VOGLIA DI LEGGERLI…

ASCOLTALI

Da APRILE 2011 su www.jukebook.it

Page 47: Il seme dell'Elleboro